Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:

SCEGLI IL LIBRO

80x80 PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2023

LA SOCIETA’

PRIMA PARTE


 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.


 


 

LA SOCIETA’

INDICE PRIMA PARTE


 

AUSPICI, RICORDI E GLI ANNIVERSARI.

Controllare il tempo: Il Calendario.

La Fine del Mondo.

Le profezie per il 2023.

I festeggiamenti di capodanno.

Halloween.

I Mostri.

La Superstizione.

Il Carnevale.

Pesce d’Aprile.

Le Ricorrenze.

71 anni dalla morte di Eva (Evita) Peron.

63 anni dalla morte di Ferdinando Buscaglione, detto Fred.

60 anni dalla morte di Édith Piaf.

56 anni dalla morte di Otis Redding. 

53 anni dalla morte di Janis Joplin.

52 anni dalla morte di Jim Morrison.

50 anni dalla morte di Bruce Lee.

50 anni dalla morte di Anna Magnani.

48 anni dalla morte di Joséphine Baker.

46 anni dalla morte di Elvis Presley.

46 anni dalla morte di Maria Callas.

33 anni dalla morte di Greta Garbo.

33 anni dalla morte di Ugo Tognazzi.

32 anni dalla morte di Walter Chiari.

30 anni dalla morte di Federico Fellini.

30 anni dalla morte di Frank Zappa.

30 anni dalla morte di River Phoenix.

30 anni dalla morte di Sora Lella Elena Fabrizi. 

30 anni dalla morte di Audrey Hepburn.

30 anni dalla morte di Rudolf Nureyev.

29 anni dalla morte di Gustavo Adolfo Rol.

29 anni dalla morte di Mario Brega.

29 anni dalla morte di Gian Maria Volonté.

29 anni dalla morte di Massimo Troisi.

29 anni dalla morte di Moana Pozzi.

29 anni dalla morte di Domenico Modugno.

28 anni dalla morte di Ginger Rogers.

27 anni dalla morte di Tupac Shakur.

27 anni dalla morte di Mia Martini.

26 anni dalla morte di Giorgio Strehler.

25 anni dalla morte di Lucio Battisti.

24 anni dalla morte di Fabrizio De Andrè.

23 anni dalla morte di Vittorio Gassman.

22 anni dalla morte di Maurizio Arena.

22 anni dalla morte di Anthony Quinn.

21 anni dalla morte di Alex Baroni.

21 anni dalla morte di Carmelo Bene.

20 anni dalla morte di Charles Bronson.

20 anni dalla morte di Johnny Cash.

20 anni dalla morte di Leopoldo Trieste.

20 anni dalla morte di Giorgio Gaber.

20 anni dalla morte di Alberto Sordi.

20 anni dalla morte di Sandro Ciotti.

19 anni dalla morte di Nino Manfredi.

17 anni dalla morte Mario Merola.

16 anni dalla morte Anna Nicole Smith.

15 anni dalla morte di Gianfranco Funari.

14 anni dalla morte di Michael Jackson.

14 anni dalla morte di Dino Risi.

14 anni dalla morte di Mike Bongiorno.

14 anni dalla morte di Farrah Fawcett.

13 anni dalla morte di Mario Monicelli.

13 anni dalla morte di Lelio Luttazzi.

12 anni dalla morte di Amy Winehouse.

12 anni dalla morte di Elizabeth Taylor.

11 anni dalla morte di Lucio Dalla.

11 anni dalla morte di Whitney Houston.

10 anni dalla morte di Lou Reed.

10 anni dalla morte di Mariangela Melato.

10 anni dalla morte di Enzo Jannacci.

10 anni dalla morte di Franco Califano.

7 anni dalla morte di Marta Marzotto.

7 anni dalla morte di George Michael.

7 anni dalla morte di David Bowie.

7 anni dalla morte di Giorgio Albertazzi.

7 anni dalla morte di Paolo Poli.

6 anni dalla morte di Gianni Boncompagni.

6 anni dalla morte di Paolo Villaggio.

5 anni dalla morte di Sergio Marchionne.

5 anni dalla morte di Irina Sanpiter.

5 anni dalla morte di Fabrizio Frizzi.

4 anni dalla morte di Jeffrey Epstein.

4 anni dalla morte di Franzo Zeffirelli.

3 anni dalla morte di Little Richard.

3 anni dalla morte di Diego Armando Maradona.

3 anni dalla morte di Kobe Bryant.

3 anni dalla morte di Franca Valeri.

3 anni dalla morte di Ennio Morricone.

3 anni dalla morte di Ezio Bosso.

2 anni dalla morte di Carla Fracci.

2 anni dalla morte di Franco Battiato.

2 anni dalla morte di Raffaella Carrà.

2 anni dalla morte di Milva.

1 anno dalla morte di Mino Raiola.

1 anno dalla morte di Letizia Battaglia.

1 anno dalla morte di Eugenio Scalfari.

1 anno dalla morte di Pelè.

1 anno dalla morte di Barbara Walters.

I Queen.

I Lynyrd Skynyrd.

I Led Zeppelin.

I Kiss.

I Beatles.

I Lunapop.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI? (Ho scritto un saggio dedicato)

Cosa resta di Gianni Agnelli.



 

INDICE SECONDA PARTE


 

I MORTI FAMOSI.

Il Lutto.

Vivi per sempre.

Morti del cazzo.

Diritto di Morire.

È morta l’attrice Itziar Castro.

Morto l’attore Ryan O’Neal.

Morto il principe Costantino del Liechtenstein.

E’ morto l’attore Benjamin Zephaniah.

E’ morto l’attore Norman Lear,

E’ morto il chitarrista Marco “Jimmy” Villotti.

E’ morto l’agente di cambio Attilio Ventura.

Morto il pittore Carlo Guarienti.

E' morto il cantautore Shane MacGowan.

Addio al fotografo Ivo Saglietti.

Addio al maestro della fotografia Elliott Erwitt.

Morto il regista Aldo Lado.

Morta l'attrice Anna Kanakis.

Se ne va uno l’attore Joss Ackland.

Morto il Senatore Nino Strano.

Morto l’astronauta Frank Borman.

E’ morto l’attore Evan Ellingson.

E’ morta l’attrice Micaela Cendali Pignatelli.

E’ morta l'attrice Sibilla Barbieri.

È morto l’attore Andrea Iovino.

E’ morta l’attrice Marina Cicogna.

E’ morto l’astronauta Thomas Kenneth Mattingly II.

È morto il giornalista Lanfranco Pace.

Morto lo sceneggiatore Peter Steven Fischer.

Morto l’ex Ministro Luigi Berlinguer.

Addio all’editore Ernesto Ferrero.

È morto l’attore Matthew Perry.

Se ne è andato l’attore Richard Roundtree.

Se ne va l’attore Jesús Guzmán.

Addio al vignettista Sergio Staino.

Addio all’attrice Marzia Ubaldi.

Addio all’attore Burt Young.

Morta la musicista Carla Bley.

È morta l’attrice Suzanne Somers.

È morto il giornalista Cesare Rimini.

Se ne va l’attrice Piper Laurie.

Morta la poetessa Louise Glück.

Addio a Charles Feeney, l'uomo più generoso d'America.

È morto il giornalista Ettore Mo.

È morto il giornalista Eugenio Palmieri.

È morto il banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia.

E’ morto il giornalista il Luca Goldoni.

Addio all’attore Keith Jefferson.

Morto l’attore-regista Franco Brocani.

È morto l’attore Tommasino Accardo.

È morta l’attrice Ketty Roselli.

Morto l’attore Michael Gambon.

Morto il giornalista Armando Sommajuolo.

Morto l’attore David McCallum.

Morto il giornalista Francesco Cevasco.

E’ morto il Presidente Giorgio Napolitano.

E’ morto l’autore Franco Migliacci.

È morto l’artista Fernando Botero.

Morto il sociologo Domenico De Masi.

Morto l’imprenditore Flavio Repetto.

È morto il regista Giuliano Montaldo.

Addio al cantante Steve Harwell.

È morto il chitarrista Jack Sonni.

E’ morto il cantautore Jimmy Buffett.

Addio all’imprenditore Mohamed al Fayed.

Addio all’imprenditore web Alessandro Vento.

È morta l’attrice Hersha Parady.

E' morto lo sceneggiatore e produttore David Jacobs.

E’ morto il cantante Salvatore Toto Cutugno.

Addio all’inventore John Warnock.

Addio all’attore Ron Cephas Jones.

Addio al manager Roberto Colaninno.

È morta il soprano Renata Scotto.

Morto il sociologo Francesco Alberoni.

Addio al Professore Marcello Gallo.

È morta l'attrice Antonella Lualdi.

E’ morto l’artista Jamie Reid.

Si è spento il cantante Peppino Gagliardi.

Addio al cantante Sixto Sugar Man Rodriguez.

Addio al cantante Robbie Roberston.

E’ morto il regista William Friedkin.

È morto il politico e filosofo Mario Tronti.

Addio all’industriale Lorenzo Ercole.

È morto il giornalista Idris Sanneh.

Morto l’attore Angus Cloud.

E’ morto l’attore Paul Reubens.

Morta la giornalista Daniela Mazzacane.

Morto lo scrittore Luca Di Meo.

Morto il cantante Randy Meisner.

Morta la cantante Sinead O'Connor.

E’ morto l’antropologo e filosofo Marc Augé.

E’ morto il pittore Emilio Leofreddi.

E’ morta l’attrice Josephine Chaplin.

E’ morto il cantante Tony Bennett.

E’ morto il giornalista Andrea Purgatori.

Muore l’attrice-cantante Jane Birkin.

E’ morto lo scrittore filosofo Milan Kundera.


 

INDICE TERZA PARTE


 

I MORTI FAMOSI.

E’ morto il giornalista Fabrizio Zampa.

E’ morto l’attore Alan Arkin.

E’ morto l’attore Julian Sands.

E’ morto il velocista olimpico e stuntman Dean Smith.

E’ morto l’attore Frederic Forrest.

E’ morto il fumettista Graziano Origa.

E’ morto il musicologo Adriano Mazzoletti.

E’ morta l’attrice Glenda Jackson.

Morto il biologo Roger Payne

È morto il manager e discografico Matteo Romagnoli.

E’ morto il fotografo Paolo Di Paolo.

Morto l’attore Treat Williams. 

È morto lo scrittore Cormac McCarthy.

E’ morto Francesco Nuti.

Addio all’attore Paul Geoffrey.

Morto il sociologo francese Alain Touraine. 

Morto lo storico Nuccio Ordine.

E’ morta la pittrice Françoise Gilot.

E’ morto il wrestler Hossein Khosrow Ali Vaziri, alias The Iron Sheik.

Addio al giornalista Pasolini Zanelli.

Morto l’attore Barry Newman.

Addio a Astrud Gilberto.

E’ morto l’imprenditore Emilio Rigamonti.

E’ morto l’Architetto Paolo Portoghesi.

Morta l’attrice Isa Barzizza.

E’ morta la fotografa Daniela Zedda.

E’ morto il chitarrista Sheldon Reynolds.

E’ morta la cantante Tina Turner.

È morta la giornalista Maria Giovanna Maglie.

E’ morto l’attore Ray Stevenson.

E’ morto lo scrittore Martin Amis.

E’ morto il bassista Andy Rourke.

E’ morto il regista e direttore artistico Giorgio Ferrara. 

E’ morto l’attore Helmut Berger.

È morta la ballerina Maria Miceli.

E’ morto il giornalista Carlo Nicotera.

E' morto l'imprenditore Giordano Riello.

E’ morto lo storico Gioacchino Lanza Tomasi.

È morto lo sceneggiatore e regista Enrico Oldoini.

Morto il vignettista Massimo Cavezzali.

Morta l’attrice Jacklyn Zeman.

Morto l’imprenditore Enzo Bonafè.

E’ morto lo scrittore Philippe Sollers (pseudonimo di Philippe Joyaux).

Morto il generale che catturò Che Guevara Gary Prado Salmón.

È morta ex concorrente del Grande Fratello Monica Sirianni.

Morto l’ex campione mondiale e allenatore di pattinaggio Michele Sica.

Addio al regista Alessandro D'Alatri.

È morto il conduttore Jerry Springer.

Si è spento l’ex magistrato Nicola Magrone.

E’ morto il Senatore Andrea Augello.

E’ morto il regista Angeles Mohamed Farouk Agrama detto Frank Agrama 

E’ morto l’attore Giovanni Lombardo Radice.

E’ morto il cantante Harry Belafonte.

E’ morto il giornalista Corrado Ruggeri.

E’ morto il cantautore e cabarettista Federico Salvatore.

Morto l’inventore-industriale Renato Caimi.

E’ morta Anna Marcacci Brosio.

E’ morto il pianista jazz Ahmad Jamal.

È morto il chitarrista Mark Sheehan.

Morto lo scrittore Meir Shalev.

E’ morto il chitarrista Lasse Wellander.

E’ morto il talent scout Seymour Stein.

E’ morto il regista Nico Cirasola.

E’ morto il musicista Ryuichi Sakamoto.

Morta la scrittrice Ada d’Adamo.

E’ morto il batterista Alfio Cantarella.

È morto il re dei viaggi organizzati Franco Rosso.

E’ morto il giornalista Gianni Minà.

È morto l’attore Ivano Marescotti.

Morto il batterista Luca Bergia.

E’ morto l'attore Paul Grant.

E’ morto il regista Francesco “Citto” Maselli.

E’ morto il giornalista Pier Attilio Trivulzio.

E’ morto l'attore Lance Reddick.

E' morta l’attrice Bice Biagi.

Morto il disegnatore Luigi Piccatto.

E’ morto l’autore televisivo Marco Zavattini.

E’ morta la speaker Clelia Bendandi.

È morto lo scrittore Kenzaburo Oe.

Muore il manager musicale Vincenzo Spera.

E’ morto il regista Bert I. Gordon, detto Mr B.I.G.

E’ morto l’attore Robert Blake.

E’ morto l’attore Ed Fury.

E’ morto il Giornalista Rino Icardi.

E’ morto il chitarrista Gary Rossington.

È morto l'attore Tom Sizemore.

È morto il musicista Steve Mackey.

È morto il musicista Wayne Shorter.

E’ morto il giornalista Curzio Maltese.

E’ morto il giornalista Maurizio Costanzo.

E’ morto il regista Michel Deville.

E’ morto l’attore Richard Belzer.

È morto il fumettista Leiji Matsumoto.

Morto il regista Maurizio Scaparro.

È morto il chitarrista Alberto Radius.

E’ morta l'attrice Raquel Welch.

È morto il cantante David Jolicoeur.

E’ morto l'attore Cody Longo.

È morto il regista Hugh Hudson.

E’ morto il regista Carlos Saura.

E’ morto il musicista compositore Burt Bacharach.

E' morto il critico letterario Nicolò Mineo.

E' morto il giornalista Pio D'Emilia.

È morto il fotografo Massimo Piersanti.

E’ morto l’ex presidente Pakistan Musharraf. 

E’ morto l’attore Sergio Solli.

Morta l’attrice Monica Carmen Comegna.

Addio allo stilista Paco Rabanne.

Morta la redattrice Josè Rinaldi Pellegrini.

È scomparso l’imprenditore Giuseppe Benanti.

Morta l’attrice Cindy Williams.

È morta l’attrice Lisa Loring.

E’ morto il giornalista Roberto Perrone.  

E’ morto il giornalista Ludovico Di Meo.  

Morto il telecronista Christian Scherpe.

È morto il chitarrista Tom Verlaine.

E’ morta l’attrice Sylvia Syms.

E’ morto il regista Eugenio Martín.

È morto lo scrittore Pino Roveredo.

Morta l'imprenditrice Daniela Gavio.

E’ morto il rocker David Crosby.

E’ morto il regista Giorgio Mariuzzo.

E’ morto il regista Paul Vecchiali.

È morto il coreografo e regista televisivo e teatrale Gino Landi.

E’ morta l’attrice Gina Lollobrigida.

E’ morto l’artista Gianfranco Barucchello.

E’ morto il Tiktoker Taylor LeJeune, noto con il nickname Waffler69.

E’ morta Lisa Marie Presley.

E’ morta Tatjana Patitz.

Morto l’avvocato Roberto Ruggiero.

Morto il criminologo Francesco Bruno.

Morto il chitarrista Jeff Beck.

Morto il poeta Charles Simic.

E’ morto il direttore di fotografia Owen Roizman.

E’ morto l’attore Adam Rich.

È morto lo speaker Roberto Gentile.

E’ morto Michael Snow.

Morta la scrittrice Fay Weldon.

È morto il disegnatore Gosaku Ota.

E’ morto l’astronauta Walter Cunningham.

E’ morto il batterista Fred White.

E’ morto il pilota Ken Block.


 

INDICE QUARTA PARTE


 

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Scandali Reali.

Gli scandali dei Windsor.

Elisabetta.

Carlo.

Diana.

Camilla.

Anna.

Andrea.

Sarah Ferguson.

Edoardo.

William e Kate.

Harry e Meghan.


 

LA SOCIETA’

PRIMA PARTE


 

AUSPICI, RICORDI E GLI ANNIVERSARI.

Controllare il tempo: la chiesa cattolica e l’invenzione del calendario gregoriano. Mario Pisciotta su

L'Indipendente il 21 marzo 2023.

Da quando c’è questo calendario e perché? E cosa c’era prima? Quella che segue è la storia di quando la chiesa cattolica s’impadronì del tempo. Era il 1582. Ma faceva le prove già da un pezzo: gli alti campanili delle chiese con le loro campane, oggi utilizzate per richiamare i fedeli alla messa, vennero utilizzate per scandire la vita dei contadini durante tutto il medioevo. In un’epoca in cui ancora non esistevano gli orologi e solo i nobili avevano clessidre e meridiane, le campane ti svegliavano la mattina per andare a lavorare nei campi, ti avvisavano della pausa pranzo e al tramonto ti dicevano che era ora di tornare a casa. Era il 1582, dicevamo. Sullo scranno papale sedeva Gregorio XIII e il calendario in uso era quello giuliano promulgato da Gaio Giulio Cesare nel 64 avanti Cristo: partiva dalla fondazione di Roma (il 21 Aprile 753 a.C. secondo il nostro calendario). Pertanto nel 1582 secondo la gente dell’epoca si era in realtà nell’anno 2335. Ma cosa aveva di sbagliato questo calendario?

Beh vi sembrerà strano ma aveva 365 giorni e 1 anno bisestile ogni 4. Come il nostro sembrerebbe, vero? Infatti la differenza è minima.

L’anno bisestile viene inserito perché la Terra non gira intorno al sole in 365 giorni netti ma in qualcosina in più… Ora, se questo qualcosina in più fosse 6 ore all’anno non ci sarebbero problemi. 6×4=24, inserendo 1 giorno ogni 4 anni saremmo a posto. Il problema è che la Terra gira intorno al sole in 365 giorni 5 ore, 48 minuti e 46 secondi. Questa sia pur piccola differenza, nel periodo intercorrente tra la nascita del calendario (64 a.C.) e il 1582, aveva di fatto creato uno sfasamento tra la data segnata sul calendario e la data reale. Infatti, gli astronomi si resero conto mediante calcoli sul sole che il calendario segnava il 10 marzo ma in realtà era il 21 marzo. Papa Gregorio XIII approfittò di questa discrepanza e chiamò a sé i migliori astronomi e matematici per elaborare un nuovo calendario che ponesse Gesù Cristo al principio del tempo. Come la Chiesa la calcolò resta tutt’oggi un mistero. Ad ogni modo, per recuperare quei giorni si passò da giovedì 4 ottobre 2335 (calendario giuliano) a venerdì 15 ottobre 1582 (calendario attuale). Molta gente scese in piazza in quanto si sentì derubata di 10 giorni della propria vita.

Ma, alla fine, cosa è cambiato rispetto al calendario giuliano? Semplicemente che nel nostro calendario gli anni secolari (1700, 1800, 1900, 2000, 2100) sono bisestili solo se divisibili per 400. In pratica un anno secolare ogni quattro è di 366 giorni. Lo è stato il 2000, non lo era il 1900 non lo sarà il 2100. Perfetto il nostro calendario quindi? No, perché perde un giorno ogni 3323 anni e succederà nel 4905.

Per ultimo vediamo perché il Natale ortodosso cade il 7 Gennaio così come altre feste sono sfasate di 13 giorni rispetto a quelle cattoliche. Attenzione: il 7 Gennaio è la data del calendario gregoriano. E il motivo è molto semplice: quando nel calendario giuliano è il 25 Dicembre in quello gregoriano (quello che utilizziamo noi) è il 7 Gennaio. Ma come? Non abbiamo appena visto che nel 1582 i giorni di differenza erano solo 10? Certo ma nel frattempo nel calendario giuliano gli anni 1700, 1800 e 1900 sono stati bisestili mentre nel nostro (gregoriano) no, pertanto lo sfasamento tra il nostro calendario e quello giuliano è di 13 giorni.

[di Mario Pisciotta – capitolo estratto dal saggio Tutto quello che (forse) non sai sulla Chiesa Cattolica]

Estratto dell’articolo di Marco Carta per “La Repubblica – Edizione Roma” lunedì 4 dicembre 2023.

“Siamo pochi, ma l’importante è la Madonna che ci segue”. Si sono presentati a Trevignano in meno di cento, sfidando il vento e il gelo. Ma soprattutto le tante inchieste intorno alla veggente Gisella Cardia, che nonostante le polemiche continua a godere dell’affetto dei suoi adepti. Un nucleo di fedelissimi che si riduce di mese in mese, ma che è ancora pronto a immolarsi per la sensitiva, capace di moltiplicare la pizza e gli gnocchi e di predire il futuro grazie al rapporto diretto con Gesù e la Madonna.

La pandemia, la guerra in Ucraina e poi quella in Israele. Ma anche i cambiamenti climatici. Sono tanti gli eventi storici che la Nostradamus di Trevignano si fregia di aver annunciato con largo anticipo. La maggior parte dei quali non si sono mai verificati. “Ora vedrete ciò che non avrei mai voluto che i vostri occhi vedessero: terremoti molto forti e ogni sorta di calamità come tempeste, tempeste, maremoti e guerre, perché non avete ascoltato le mie parole”, affermava nel 2021 la sensitiva, annunciando catastrofi di ogni tipo praticamente ovunque:

Giappone, Cile, Messico, Colombia, Canada, Stati Uniti, Inghilterra, Cina Anche a Roma. “Ci sarà un forte terremoto e l’altare della Patria sarà il primo ad essere distrutto”. [...] 

Non è un caso, forse, per la veggente, che va dritta per la sua strada, nell’attesa che si concluda l’indagine della Diocesi di Civita Castellana sui suoi presunti miracoli. “Quello che dice la Madonna di Trevignano si avvera dopo 3-6 mesi. Anche il Covid, lo aveva annunciato due mesi prima, dicendo ‘presto dalla Cina arriverà un virus”. Il presunto messaggio profetico risale al 28 settembre 2019:

“Pregate per la Cina perché da lì arriveranno le nuove malattie, tutto già pronto per influenzare l'aria da batteri sconosciuti”. Il messaggio di fatto è divenuto il manifesto degli adepti che, di fronte ai milioni di morti in tutto il mondo, gridano al miracolo per la profezia avverata. E accusano invece chi come l’ex fedele Luigi Avella si è sentito truffato dalla veggente dopo aver donato 123mila euro alla sua Onlus. 

La strada dei messaggi mariani di Cardia è lunga e tortuosa e passa attraverso espressioni generiche che vengono adattate in funzione degli avvenimenti. Come quando nel 2022 la Madonna, attraverso Gisella, invita a pregare per un generico politico in pericolo. «Pregate per un leader politico che subirà un attentato». […]

Letteratura. La verità sul terzo segreto di Fatima: la (vera) profezia della Madonna. Cosa non è stato raccontato sul Terzo Segreto rivelato dalla Madonna a Suor Lucia. A svelarlo un'inchiesta senza precedenti di Saverio Gaeta: I segreti di Suor Lucia - Fatima, la verità mai detta (Piemme). Roberta Damiata il 2 Dicembre 2023 su Il Giornale.

Era il 1917 quando alla piccola pastorella Lucia Dos Santos e ai suoi cuginetti Francisco e Jacinta Marto comparve la Vergine, rimettendo nelle loro piccole mani alcuni segreti enormi sull'umanità rivelati nel corso del tempo soltanto in parte. Soprattutto il terzo, rivelato nel 2000 da Papa Giovanni Paolo II, non è stato completamente svelato. Ora il libro di Saverio Gaeta I segreti di Suor Lucia - Fatima, la verità mai detta (Piemme), un'inchiesta senza precedenti, svela la parte che nessuno ha mai osato raccontare, ponendosi anche numerose domande su quello che le parole di Maria significhino nel suo profondo. Un libro ricco di particolari e portatore di grande speranza, di cui abbiamo parlato nella nostra intervista con l'autore.

Si parla da sempre del Segreto di Fatima e spesso sono state dette cose non aderenti alla realtà. Lei da dove è partito per questa indagine?

"La base di partenza di questa nuova inchiesta è la documentazione inedita che è stata raccolta per il processo di canonizzazione di suor Lucia, l’“ultima veggente di Fatima”, insieme ad una serie di confidenze che ho raccolto nel corso degli ultimi anni da persone a conoscenza di particolari interessanti sulle vicende collegate all’apparizione in Portogallo. Con questo materiale, ho potuto mettere in luce verità mai rivelate prima, ed effettuare una ricostruzione completa di quanto è accaduto dal 1917 a oggi".

Nel 2000 Papa Giovanni Paolo II decise di svelare il contenuto del “Terzo Segreto”, ma in realtà la sua ricostruzione ha portato a un’altra versione dei fatti. C’è stata una volontà di non dire tutta la verità o è stata una sorta di non comprensione?

"La ricostruzione dettagliata che presento nel libro, conferma inoppugnabilmente la veridicità di tutte le ipotesi fatte in precedenza riguardo al fatto che fosse stata rivelata unicamente la parte che le autorità vaticane hanno ritenuto direttamente riferibile alle parole della Madonna, e non tutte le altre spiegazioni fornite nel corso dei decenni da suor Lucia. Basti citare i brani della lettera che la veggente scrisse a papa Paolo VI nell’agosto del 1967, dove affermava di aver descritto la Luce Immensa di Dio, le parole della Madonna sul Portogallo e la fede, il trionfo del Cuore Immacolato di Maria, precisando però in ciascun caso di non aver spiegato "lo sviluppo, il significato, la realizzazione".

Perché le ulteriori spiegazioni di quello raccontato da suor Lucia non sono mai state dette?

"Essenzialmente per due motivi. Il primo è il dubbio espresso da alcuni, pur autorevoli, esponenti vaticani relativamente a quali fossero le reali parole della Vergine e quali invece le spiegazioni di suor Lucia, come se la veggente potesse essersi permessa di esprimere opinioni personali, invece che illuminazioni ricevute direttamente dal Cielo. Il secondo ha a che fare con la gravità dei testi ancora inediti – presumibilmente custoditi nell’archivio della Segreteria di Stato, e non in quello della Congregazione per la dottrina della fede, come fino ad ora avevamo pensato – che pongono l’accento sulla crisi di fede nella Chiesa, che caratterizzerà il tempo di persecuzione mostrato a suor Lucia nel 'Terzo Segreto'".

Da sempre si lega questo Segreto alla guerra “definitiva”, e attualmente i segnali ci sono tutti. Siamo sull’orlo della fine?

"Tutte le profezie mariane sono “condizionate”, nel senso che possono essere modificate o annullate dalla preghiera. Perciò si devono interpretare non come una minaccia di castigo da parte del Cielo, bensì come un appello materno affinché ciascuno di noi si adoperi, per quanto gli è possibile, al fine di evitare il rischio che il male prevalga, che l’umanità possa avviarsi verso l’autodistruzione, oggi consentita dalla quantità di armamenti nucleari dispiegati in numerosi luoghi della Terra. Indubbiamente il messaggio di Fatima è il più pressante su questa terribile prospettiva, quindi è un allarme da non trascurare, visto appunto quanto sta accadendo nelle due aree che, nell’ultimo secolo, sono le più presenti nelle profezie mariane: la Russia e il Medio Oriente".

La Chiesa in questi ultimi decenni sta vivendo una profonda crisi di valori. Il messaggio della Madonna è anche su questo?

"Le apparizioni mariane sono come un mosaico nel quale ciascun tassello ha un senso ed è indispensabile per comprendere l’intera immagine. Riguardo la Chiesa, ci sono molto probabilmente scritti di suor Lucia non ancora resi noti, che dettagliano la problematica della sua crisi. Ma in altre apparizioni, come La Salette o Tre Fontane, il rischio dell’apostasia, cioè l’abbandono della fede da parte dei membri della Chiesa, è stato segnalato in maniera decisamente più preoccupata".

Nella sua ricostruzione c’è una sorta di via di salvezza?

"Assolutamente sì! Ed è quella di prendere finalmente sul serio gli appelli del Cielo, senza fare sottili distinguo tra quello che non suscita alcun problema e quello che sembra invece disturbare la nostra tranquillità, con immagini e appelli dal tenore drammatico. Di fatto, proprio da tale consapevolezza può trovare un rinnovato vigore la pastorale di annuncio del Vangelo e la proposta di conversione dei cuori che è alla base del messaggio cristiano".

Cosa ha cambiato in lei questa profonda ricerca che ha svolto e cosa si sente di dire?

"Approfondendo ormai da decenni questa tematica delle apparizioni e delle profezie mariane, ho avuto la conferma definitiva della loro credibilità, con la certezza che ci giungono come dono di Dio, che desidera unicamente il vero bene dell’intera umanità e la salvaguardia della propria creazione".

L’umanità ha rischiato seriamente l’estinzione con la specie «Homo»: la scoperta pubblicata su «Science». TELMO PIEVANI su Il Corriere della Sera 1 settembre 2023. La ricerca è basata su riscontri genetici. La firmano anche due studiosi italiani. Ci fu un crollo demografico del 98,7%. Sui nostri avi si abbatté una catastrofe impensabile

L’umanità ha rischiato seriamente di estinguersi, con un crollo demografico drammatico che ha raggiunto il 98,7%. Una catastrofe quasi inimmaginabile si abbattè sui nostri antenati tra 930 e 813 mila anni fa, lasciando vivi solo 1.280 individui fertili, meno dei panda attualmente esistenti in natura. Fu una tragedia lenta, durata 117 millenni. Colpevole, come spesso in questi casi, fu il cambiamento climatico: le alternanze fra cicli glaciali e interglaciali cominciarono in quel periodo ad ampliarsi fino a intervalli di 100 mila anni e divennero sempre più estreme, portando a un’ondata di estinzioni di grandi mammiferi in Eurasia e a lunghe fasi di forte aridità in Africa. E anche i nostri antenati se la passarono male.

La sorprendente scoperta di questo drastico «collo di bottiglia» nell’evoluzione umana, finora mai nemmeno ipotizzato, è stata pubblicata oggi su «Science» da un gruppo di scienziati cinesi che hanno collaborato con due paleo-antropologi italiani, Giorgio Manzi della Sapienza di Roma e Fabio Di Vincenzo del Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze. La ricerca è anche un esempio di come la scienza possa contribuire al dialogo tra i popoli, visto che gli scienziati cinesi coinvolti provengono da entrambe le sponde del canale di Taiwan.

Per notizie così eclatanti servono prove robuste, che non mancano. Partendo dalle banche genetiche internazionali, sono stati analizzati i genomi completi di 3.154 individui moderni appartenenti a 50 popolazioni umane diverse. Con un metodo bioinformatico innovativo, andando a ritroso nel nostro albero genealogico fino a tempi che precedono di molto la comparsa della nostra specie, sono state identificate le ormai debolissime tracce genetiche lasciate dai nostri antenati e da queste è stato possibile calcolare la consistenza demografica delle popolazioni del passato. In pratica, senza bisogno di estrarre il Dna antico dai fossili, si proietta indietro nel tempo l’attuale variazione genetica umana per stimare le dimensioni delle popolazioni in momenti specifici del passato. Si possono così scoprire antiche migrazioni, espansioni e riduzioni di popolazioni. Ebbene, anche confrontando gruppi di dati indipendenti, la sostanza non cambia: intorno a 900 millenni fa ci fu un collasso catastrofico generalizzato, che combacia peraltro molto bene con le evidenze fossili e spiega un vecchio mistero dell’evoluzione umana.

Quando il genere Homo comparve in Africa, tra 2 e 2,5 milioni di anni fa, per un lungo periodo lasciò molte tracce archeologiche e fossili. Sono i segni di un’umanità arcaica chiamata Homo ergaster, grandi camminatori, probabilmente i primi a uscire dall’Africa e a dare origine a Homo erectus in Asia. Era un’umanità promettente, ma vulnerabile. Poi, proprio a partire da 950 mila anni fa, cala un apparente silenzio: pochi resti databili con sicurezza, come se si fossero dileguati quasi tutti. Anche l’Europa, a partire da 1,1 milioni di anni fa, sembra spopolarsi completamente di esseri umani a causa di un periodo particolarmente freddo. Bisognerà attendere 300 millenni per ritrovare le tracce fossili abbondanti di una nuova umanità, con un cervello più grande e caratteristiche anatomiche inedite, chiamata Homo heidelbergensis. Come si spiega un simile buco nella documentazione?

Quando nell’evoluzione si vedono gap di questo tipo o improvvise accelerazioni, di solito si addossa la colpa alla frammentarietà dei dati fossili: quegli sconvolgimenti non sono accaduti davvero, è solo un problema di mancanza di dati e di incertezza nelle datazioni. Pare che in questo caso non sia così. I fossili forse dicevano la verità. La quasi estinzione c’è stata davvero e all’uscita dal collo di bottiglia troviamo un’umanità nuova. Questo non sorprende perché, come hanno insegnato i paleontologi Stephen J. Gould e Niles Eldredge, quando nell’evoluzione per cause ambientali una popolazione viene drasticamente ridotta tendono ad accumularsi rapidamente cambiamenti genetici che possono portare alla nascita punteggiata di nuove specie. I colli di bottiglia poi riducono la variabilità genetica, che resta molto bassa anche tra gli esseri umani attuali. Nello stesso periodo, inoltre, sappiamo che nel genere Homo due cromosomi ancestrali si fusero insieme, generando il cromosoma 2 e portando il conto a 46.

Anche se alcuni paleoantropologi come Chris Stringer nutrono ancora dubbi sulla reale portata di questo collo di bottiglia e sul ruolo centrale di Homo heidelbergensis, è probabile che in quel periodo vi sia stata una grande transizione nell’evoluzione umana. Una transizione che riguarda anche noi. Infatti a partire dai sopravvissuti alla catastrofe di 900 mila anni il motore dell’evoluzione tornò a girare a pieno ritmo. I gruppi di Homo heidelbergensis crebbero rapidamente e dall’Africa si diffusero in tutta l’Eurasia, dando poi origine in Europa ai Neanderthal e in Asia ai Denisovani. Di pari passo con il loro arrivo, compaiono le più antiche evidenze dell’uso sistematico e controllato del fuoco e di tecnologie litiche più avanzate. Il mondo insomma tornò a popolarsi di umani ben organizzati.

Tempo dopo, fra 200 e 300 millenni fa, dai discendenti africani dello stesso Homo heidelbergensis nascerà anche la specie Homo sapiens, che uscendo dal continente d’origine incontrerà i cugini Neanderthal e Denisovani, incrociandosi con loro. Quindi noi siamo letteralmente i figli delle poche migliaia di superstiti che riuscirono a passare attraverso quella strettissima cruna d’ago, a resistere in pochi rifugi alle inclementi condizioni ambientali durate per decine di millenni.

Dobbiamo la nostra esistenza a una catastrofe climatica, il che fa doppiamente impressione se pensiamo che adesso il clima sta cambiando in modo molto più veloce di allora e, questa volta, per causa nostra. Certo, oggi siamo ben più attrezzati di 900 mila anni fa, ma questa scoperta inattesa insegna quanto può essere drammatico il costo di una crisi climatica. Il pianeta è molto più forte di noi.

Sommersi e salvati. Le milleduecentottanta persone che salverei dall’estinzione (sì, compresa me). Guia Soncini su L'Inkiesta il 2 Settembre 2023

Per sopravvivere in un modo post apocalittico servono cuochi, idraulici, muratori, tecnici di caldaie e di aria condizionata. Poi infermieri e uno specialista medico d’ogni specialità. Ma nessun dermatologo, giornalista e romanziere

L’estinzione è quasi più lenta della fine di certi matrimoni, e questo è il principale concetto filosofico che ho appreso dal Corriere, che ieri riprendeva i risultati, pubblicati da Science, delle ricerche di alcuni paleo-antropologi sul Dna dei resti di alcune migliaia di Homo. Mica Homo Sapiens, eh: prima.

Homo Erectus: erano quelli di più o meno un milione di anni fa (non vi dico le centinaia di migliaia di anni esatte perché non vorrei scambiaste questa pagina per un luogo in cui si trovano informazioni e non filosofia spicciola).

A un certo punto viene un gran freddo, e il pianeta si spopola, e quando poi questi nostri antenati ricompaiono sono Homo Heidelbergensis, cambiano persino i cromosomi, ma ora non vorrei che il latino e la biologia facessero l’effetto dei numeri: non è neanche di come funzionino le quasi estinzioni e i ripopolamenti, che sono qui a parlarvi.

Bensì del fatto che gli scienziati hanno stabilito che, quando arrivò la glaciazione e quasi estinse una popolazione mondiale che già stava parecchio comoda (erano più o meno centomila), restò vivo un preciso numero di individui fertili, dai quali quindi discendiamo tutti (a meno che non siate luciodallisti, nel qual caso sapete che discendiamo tutti dai pesci).

Sono milleduecentottanta. Milleduecentottanta persone in tutto il pianeta. Formiamo due file ordinate. Da una parte quelli che la considererebbero una disgrazia gravissima, dall’altra quelli che si rendono conto di che meraviglia sarebbe un mondo dove trovi sempre posto al ristorante. Certo, se c’è la glaciazione non so bene cosa ti diano da mangiare al ristorante, e questo ci porta al punto di questa mia dotta riflessione: se il destino vuole che ne restino solo milleduecentottanta, chi serve?

Se fate questa domanda, c’è sempre qualcuno che pensa solo a sé. Gli uomini, per esempio, vogliono decine di posti (i soliti egoisti) per la loro squadra di calcio, e le riserve, l’allenatore, il massaggiatore – ma poi contro chi giocano? In quest’arca dei milleduecentottanta bisogna mettere anche gli arbitri? E i guardalinee? E l’intera serie A? Ci esauriscono i posti, su: non si può fare.

Le femmine d’altra parte vorrebbero gli stilisti (lo so, lo so: sono colpevole di cliché di genere e andrei arrestata). Ma anche con gli stilisti non ci fai granché, senza sarte, senza reparto tessile, senza colorifici e fabbriche di bottoni. E anche lì rischi di esaurire i posti, essendo la moda affare molto più serio del calcio e quindi non potendo nessuna di noi concepire di vestirsi a vita d’un solo stilista. Mica siamo Audrey Hepburn in Givenchy. E, se ti porti tre o quattro stilisti e con loro tutto il personale che gli serve, ecco lì che già non hai più posto per i medici, e i medici servono.

I medici servono, ma come li selezioni? Ognuno avrà un cugino da sistemare e cercherà di spacciarcelo – a noi, comitato per la selezione dei milleduecentottanta – per il più gran cardiochirurgo su piazza, e quasi certamente non lo è. Come in tutti i settori, dal giornalismo alla pasticceria, dall’ingegneria al ballo sulle punte, gli incapaci sono assai di più dei capaci.

Poi ci poniamo il problema di come capire quale cardiochirurgo e quale dentista e quale gastroenterologo includere nei milleduecentottanta, altrimenti ci incartiamo. Di certo ci vanno un paio d’infermiere, ferristi, altro personale medico, e uno specialista d’ogni specialità. Tranne i dermatologi: la medicina del tirare a indovinare è un lusso che ti puoi concedere solo quando sei in otto miliardi.

I commercialisti non serviranno a niente: saremo milleduecentottanta, ci conosceremo tutti come in un paesino molisano, a chi mai vuoi pagare le tasse; ma gli avvocati forse sì, secondo me milleducentottanta persone sono più che abbastanza perché comincino a farsi causa l’un l’altra.

Altre figure necessarie alla sopravvivenza? Idraulici. Muratori. Tecnici di caldaie e aria condizionata: sì, la glaciazione, ma vuoi che non ci sia umidità? L’aria condizionata serve comunque.

Cuochi e pasticcieri, particolarmente necessari visto che gli ingredienti scarseggeranno: cosa vuoi che ci inventiamo noialtri dilettanti con quelle quattro gramigne che resteranno, sarà peggio che a Tara dopo la guerra civile, serviranno professionisti che s’ingegnino a cucinare con le radici.

Eliminerei, per lo scandalo d’un paese rovinato da Benedetto Croce, le materie umanistiche: no romanzieri, no poeti, no giornalisti. Non ci sono abbastanza lettori per loro adesso, figurarsi quando resteremo in mille. Direi anche no pittori e scultori e musicisti, a meno che non lo siano di secondo lavoro e sappiano anche rendersi utili in qualche modo.

Dei mestieri milanesi, che assisteranno curiosi al dramma collettivo, direi che possiamo fare a meno in blocco. No architetti, no pubblicitari, no direttori di fondazioni, no pubbliche relazioni, no arredatori di interni, no stylist, no organizzatori di eventi, no creatori di contenuti. Forse giusto qualche insegnante di yoga e pilates, ecco: non vorrei che i poco più di mille mi soffrissero di cervicale senza i giusti stiramenti e con tutta quella glaciazione.

Ho dimenticato qualche ruolo fondamentale? Non vi agitate, abbiamo tempo. Secondo la ricostruzione degli scienziati, a passare da centomila a poco più di mille l’umanità ci mise più di centomila anni. Non so fare il conto di quanto quindi ci potremo noialtri mettere a ridurci in pochi da otto miliardi (forse va incluso un matematico nel novero dei salvati).

Di sicuro facciamo in tempo a organizzarci e ad arrivare all’estinzione con la giusta rappresentanza di competenze utili. Vi vedo, voi maschi, che state già dirottando il Google Sheet condiviso per aggiungere alla lista di coloro che certo non possono restare sommersi i vostri calciatori. Vi ho detto di no, se non la piantate non vi mettiamo nei salvati, facciamo milleduecentottanta tutte femmine, così dopo qualche decennio siamo definitivamente estinte, e con noi il calcio, i fogli di calcolo, i paleo-antropologi, le pagine culturali, e le discussioni sull’identità di genere.

Estratto dell’articolo di Salvo Privitera per tech.everyeye.it sabato 5 agosto 2023. 

Tutti conoscono Isaac Newton come il padre delle gravità, ma pochi sanno che […] aveva un vivo interesse per l'occulto e l'apocalisse biblica... sostenendo la fine del mondo entro il 2060. 

Lo scienziato, infatti, cercò di predire questa data - attuando alcune speculazioni private probabilmente non destinate a essere viste pubblicamente - sulla base della sua comprensione protestante della Bibbia. In un tentativo scritto su una lettera accanto a dei calcoli matematici, Newton fece riferimento all'anno 2060. 

"Newton era convinto che Cristo sarebbe tornato intorno a questa data [2060] e avrebbe stabilito un Regno globale di pace", scrive [...] Stephen D. Snobelen, professore di storia della scienza e della tecnologia all'Università del King's College di Halifax. "Anche 'Babilonia' (la corrotta Chiesa Trinitaria) sarebbe caduta e il vero Vangelo sarebbe stato predicato apertamente." 

In una nota, Newton scrisse: "Questo dico non per affermare quando sarà il tempo della fine, ma per porre fine alle congetture avventate di uomini fantasiosi che spesso predicono il tempo della fine, e così facendo screditano le sacre profezie poiché le loro predizioni falliscono. Cristo viene come un ladro nella notte, e non spetta a noi conoscere i tempi e le stagioni che Dio ha messo nel suo stesso petto".

Baba Vanga, "enorme esplosione e mondo sconvolto": 2023, profezia-choc. Libero Quotidiano il 07 giugno 2023

Nonostante Baba Vanga, una signora bulgara, semianalfabeta e cieca, sia morta nel 1996, e non abbia lasciato alcun testo scritto su possibili avvenimenti futuri rispetto alla sua morte, viene ritenuta da molti una veggente. Avrebbe previsto il crollo delle Torri Gemelle - sostengono i suoi fan - e dunque meriterebbe di essere "interpellata" per sapere in anticipo cosa accadrà in questo 2023 ormai al giro di boa. Secondo quanto riportato dal New York Post, la veggente ha predetto, prima di morire, un devastante incidente nucleare proprio per questo anno. Pare che la bulgara abbia accennato a una grandissima esplosione che coinvolgerà una centrale nucleare e che causerà l'insediamento di nubi tossiche su tutta l'Asia. Una nuova Chernobyl, dunque, che potrebbe cambiare i connotati del mondo.

Se non bastasse la minaccia nucleare a disegnare un prossimo futuro da Apocalisse, la cosiddetta “Nostradamus dei Balcani” avrebbe anche previsto anche il cambio dell'orbita terrestre (un movimento più vicino al sole potrebbe sciogliere i ghiacciai e inondare il pianeta, mentre un movimento più lontano potrebbe farci precipitare in un'era glaciale); l'uso di un'arma biologica da parte di una superpotenza che causerà causando centinaia di migliaia di morti; e la fine della procreazione. Baba Vanga sembra infatti che abbia predetto che entro la fine del 2023 finiranno anche le gravidanze naturali. Nessuna donna, quindi, metterà più al mondo bambini e la riproduzione sarà affidata ai laboratori. Tutto entro il 2023. C'è qualcuno che ci crede.

Estratto dell'articolo di leggo.it domenica 12 novembre 2023.

Il Capodanno non è poi così lontano. Baba Vanga, la “Nostradamus dei Balcani”, morta nel 1996, ha predetto dei fatti eclatanti per l'anno che verrà. Tra le previsioni spicca la morte di Putin prevista da Vanga proprio per il 2024. L'85% delle predizioni della veggente si sono avverate. La donna, rimasta cieca dopo una brutta tempesta, è stata una mistica, chiaroveggente ed erborista bulgara, che ha trascorso gran parte della sua vita nella zona di Rupite, un villaggio montano del distretto di Blagoevgrad. I suoi seguaci erano convinti che possedesse abilità paranormali.

Baba aveva previsto con precisione il disastro di Chernobyl, la morte della principessa Diana e la caduta dell'Unione Sovietica. Nonostante sia morta nel 1996 all’età di 84 anni, alcune delle sue profezie continuano a sembrare imminenti. La veggente per il 2024 ha previsto un tentativo di assassinio del presidente russo Vladimir Putin da parte di un connazionale.  […] 

Baba ha anche previsto lo scoppio di una guerra biologica per il 2024 e un attacco terroristico che colpirà l'Europa da parte dell'Islam. La veggente ha parlato anche di una crisi economica destinata a scuotere l’economia globale sottolineando diversi fattori [...] e uno spostamento del potere economico da Ovest a Est.

Tra le sue visioni ci sono anche terrificanti eventi meteorologici e disastri naturali, tra cui anche un’insolita alterazione dell’orbita che potrebbe causare sconvolgimenti climatici e un aumento dei livelli di radiazioni. Baba ha parlato anche di attacchi informatici che potrebbero colpire le reti elettriche e gli impianti di trattamento delle acque. Ma non solo tragedie, pare anche che nel 2024 si troverà un nuovo trattamento per l'Alzheimer e una potenziale cura per il cancro.

Ci mancava solo la profezia scientifica sull'Apocalisse. Storia di Giordano Bruno Guerri su Il Giornale il 25 Gennaio 2023.

Certo, la guerra in Ucraina, le bombe atomiche a disposizione di un Putin insoddisfatto dell'andamento del conflitto fanno paura a tutti noi. Certo, il rischio di una guerra atomica è maggiore di quanto lo fosse un anno fa, lo sappiamo bene. Ma proprio per questo non c'era bisogno che venissero a dircelo gli studiosi addetti al Bollettino degli Scienziati Atomici.

Certo, anche gli scienziati hanno il diritto di giocare o, se preferite, di lanciare allarmi sulla possibilità di una catastrofe nucleare. È dal 1947 che spostano avanti e indietro le lancette dell'Orologio dell'Apocalisse, passando dai 7 minuti nel 1947 ai 17 minuti nel 1991 dopo la fine della Guerra Fredda, fino ai 90 secondi di oggi, sempre basandosi sul rischio della Bomba. Ma è un calcolo che andrebbe fatto più da esperti di relazioni internazionali, politologi, generali addetti alle grandi strategie militari che da studiosi della fissione nucleare.

Del resto, ipotizzano l'imminente fine del mondo anche quei ragazzi che ci garantiscono un caldo sahariano prima ancora della fine dei loro studi, e il tema della fine del mondo è presente in quasi tutte le religioni, dall'Apocalisse cristiana al Ragnarock vichingo. Una fine del mondo era prevista nell'anno 1000, un'altra nel 2000 con il Millennium Bug, l'impazzimento dei computer e il caos conseguente. Non ci soffermiamo neppure sulla profezia Maya miseramente fallita il 21 dicembre 2012 e l'attesa di un asteroide che cozzi contro la Terra: secondo i calcoli degli astrofisici non accadrà nell'arco della nostra vita, e neppure in quella dei nostri bisnipoti.

E poi, smettiamola di parlare di fine del mondo: che sia la guerra atomica, l'asteroide o il cambiamento climatico, il mondo non finirà. Il «mondo» - il pianeta Terra - non siamo noi, una volta scomparsi i Sapiens Sapiens la Terra si ripopolerà di orde di insetti, scarafaggi, topi, più resistenti a bombe, asteroidi, cambiamento di clima. La vegetazione ricrescerà rigogliosa, nasceranno nuove specie animali e vegetali, meno dannose della nostra - che peraltro esiste da appena 300.000 anni e il pianeta starà benissimo. Almeno fino a quando il Sole esaurirà i combustibili da fusione, diventerà un gigante rosso e avrà un collasso gravitazionale. Gli astrofisici dicono che mancano 5 miliardi di anni. Preferisco credere a loro, piuttosto che ai profeti della sventura di domattina: il Sapiens è ancora abbastanza Sapiens da evitare un'Apocalisse volontaria.

Estratto da repubblica.it il 25 Gennaio 2023.

Il mondo è più vicino all'Armageddon. L'Orologio dell'Apocalisse è a soli 90 secondi alla mezzanotte, ovvero dalla catastrofe. Lo rende noto il Bollettino degli Scienziati Atomici che annualmente tiene il polso dei pericoli di un olocausto nucleare[...]

Non è solo la Russia e la guerra in Ucraina a preoccupare: c'è anche il programma nucleare iraniano, gli sforzi della Nord Corea di ottenere l'atomica, l'espansione del programma missilistico cinese con le minacce conseguenti per la regione, oltre agli arsenali nucleari di India e Pakistan.

"Proprio perchè è stato l'uomo a creare queste minacce, può ridurle", ha sottolineato Rachel Bronson, presidente del Bollettino. Gli scienziati, [...] hanno spostato avanti e indietro le lancette dell'Orologio dell'Apocalisse nel corso dei decenni, in una fluttuazione incessante, passando dai 7 minuti nel 1947, alla sua creazione, ai 17 minuti nel 1991 dopo la fine della Guerra Fredda, fino al calo costante che si è registrato da allora, giungendo ai 90 secondi odierni. […]

[...]“Questo è il momento di agire. L'orologio dell’Apocalisse deve essere la motivazione per tutte le persone in tutto il mondo per unirsi al piano di proibire, stigmatizzare ed eliminare le armi nucleari attraverso il Trattato sulla Proibizione delle Armi Nucleari", commenta Daniele Santi, presidente della Campagna Senzatomica.

Lo strumento che indica simbolicamente il rischio di una catastrofe mondiale. Che cos’è e come funziona ‘l’orologio dell’apocalisse’, l’aggiornamento dell’ora al 2023: “90 secondi a mezzanotte”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 25 Gennaio 2023

È dal 1947 che un’organizzazione no profit di scienziati ed esperti si occupa di aggiornare ogni anno quanto sia imminente una catastrofe mondiale. Martedì 24 gennaio, il Bulletin of the Atomic Scientists ha annunciato di aver aggiornato il suo ‘orologio dell’apocalisse’: “L’orologio è a soli 90 secondi dalla mezzanotte, mai stati così vicini alla catastrofe nucleare”, hanno detto gli scienziati. Praticamente, secondo gli scienziati il mondo è sempre più vicino all’Armageddon a causa dei pericoli di vario genere che sono all’ordine del giorno. L’orologio non è mai stato così vicino allo zenith come ora.

Cos’è questo incredibile orologio? Si tratta di uno strumento simbolico utilizzato dall’organizzazione per indicare, sulla base di vari fattori, quanto sia imminente una catastrofe mondiale provocata dal genere umano, rappresentata simbolicamente dalla mezzanotte. È sostanzialmente un simbolo per riflettere sullo stato di salute del Mondo e dell’umanità. “Stiamo vivendo tempi di pericolo senza precedenti, e l’orologio dell’apocalisse riflette questa realtà”, ha detto la presidente e CEO dell’organizzazione Rachel Bronson, in passato docente di politiche sull’energia alla Kellogg School of Management, in Illinois, e direttrice del centro studi sul Medio Oriente del think tank Council on Foreign Relations a New York.

L’orario può essere spostato in avanti ma anche all’indietro, come è già successo anche in passato. Gli scienziati, ha ricordato, hanno spostato avanti e indietro le lancette dell’Orologio dell’Apocalisse nel corso dei decenni, in una fluttuazione incessante, passando dai 7 minuti nel 1947, alla sua creazione, ai 17 minuti nel 1991 dopo la fine della Guerra Fredda, fino al calo costante che si è registrato da allora, giungendo ai 90 secondi odierni. Un peggioramento rispetto all’allarme “sotto i due minuti” registrato per la prima volta nel 2020 con i 100 secondi. Ma l’attività dell’organizzazione è stata spesso criticata per la sua effettiva efficacia. Una parte delle critiche più recenti ha inoltre messo in dubbio le capacità e la tempestività finora mostrate dall’organizzazione nel riferire il rischio di una catastrofe legata al cambiamento climatico – che è tenuto in considerazione soltanto a partire dal 2007 – e ad altri fattori diversi dal rischio di una guerra nucleare.

L’annuncio di quest’anno ha scatenato particolare interesse per la drammaticità degli eventi in corso. Non è solo la Russia e la guerra in Ucraina a preoccupare: c’è anche il programma nucleare iraniano, gli sforzi della Nord Corea di ottenere l’atomica, l’espansione del programma missilistico cinese con le minacce conseguenti per la regione, oltre agli arsenali nucleari di India e Pakistan. All’avvicinarsi alla mezzanotte hanno contribuito anche le preoccupazioni per la crisi climatica. E anche quelle relative alla crisi “delle norme e delle istituzioni mondiali” necessarie a guidare il progresso delle “tecnologie avanzate” e a contrastare “minacce biologiche” come il coronavirus. “Il rischio di catastrofe oggi è più alto dello scorso anno”, ha sottolineato Steve Fetter, membro del Bollettino degli Scienziati Atomici e preside della scuola di specializzazione e professore di politica pubblica all’Università del Maryland.

Quando fu istituito, l’Orologio dell’Apocalisse sembrò un metodo efficace per rappresentare il rischio di una guerra nucleare causata dalla corsa agli armamenti all’inizio e durante la Guerra Fredda. L’organizzazione era nata nel 1945 e includeva alcuni degli scienziati che avevano fatto parte del Progetto Manhattan, il programma che portò allo sviluppo delle prime bombe atomiche durante la Seconda guerra mondiale. Due volte all’anno il comitato scientifico e di sicurezza, composto da diversi esperti di armi nucleari, fonti energetiche e cambiamento climatico, si riunisce per stabilire nuovi aggiornamenti dell’orologio sulla base di fattori come il numero di armi nucleari nel mondo e l’innalzamento del livello del mare.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Buon 1973.Nei prossimi dieci anni sarà come vivere cinquant’anni fa. Francesco Gattei su L’Inkiesta l’11 Gennaio 2023.

Come negli anni ’70 ci sarà un periodo politicamente agitato, conflittuale e inflattivo. Gli equilibri geopolitici traballeranno e nasceranno probabilmente nuovi blocchi e isole economiche

Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul numero 55 di We – World Energy, il magazine di Eni

Il 24 febbraio 2022 l’orologio della storia ha mosso le lancette all’indietro di 50 anni. Tre minacce, apparentemente sconfitte nel corso degli anni 80-90, hanno ripopolato i titoli di giornale: l’inflazione a due cifre, la crisi energetica e la minaccia nucleare. Per alcuni decenni abbiamo costruito un mondo idealizzato che, aprendosi al commercio globale, al successo tecnologico e digitale e a un percorso di collaborazione internazionale pareva destinato a porsi sfide diverse. Ogni tanto si sbandava forte (le torri gemelle, la crisi Lehman o le primavere arabe), ma quei tre nemici storici apparivano sdentati.

Il mondo idealizzato

Sull’inflazione, ad esempio, occorreva creare un lieve stato febbrile, attorno al 2 percento, dopo anni di prezzi fermi o, peggio, tendenti al ribasso. Un esercizio che in Giappone era risultato quasi impossibile dal 1990 in poi. E in Europa appariva altrettanto complicato. Smantellare vecchie istituzioni della guerra fredda come la NATO sembrava una naturale conseguenza di una visione pacifica delle relazioni internazionali, dove l’interesse economico e commerciale prevaleva sempre su quello territoriale, o del disimpegno internazionale americano. Appena nel 2019 Macron postulava la “morte cerebrale” del patto atlantico, un’istituzione senza leadership e direzione. E sull’energia si configurava una nuova era rivoluzionaria: cambiare in trent’anni il mix creato negli ultimi 300! Dopo gli accordi di Parigi nel 2015 le prospettive di un nuovo mondo, sempre più elettrico, digitale e green apparivano oramai imminenti. Un’era in cui i combustibili fossili erano un retaggio rumoroso e inquinante delle prime rivoluzioni industriali, incompatibili con la pulizia e il decoro del moderno capitalismo woke.

Il Covid, pur catapultandoci in una realtà di quarantene e di untori, aveva paradossalmente promosso questa lettura: barricati in casa, avevamo testato la fattibilità di una economia a kilometro zero, tutta digitale nelle relazioni professionali e personali e accumunata da una globale e nobile causa, la corsa al vaccino. Il ritorno della natura (i delfini a Venezia!), una vita più bilanciata e locale evidenziavano come fosse possibile resettare il nostro modello economico. Avevamo gli strumenti per farlo e avevamo realizzato in pochi giorni il test di applicazione. Ovviamente si ometteva il gigantesco costo economico dell’esperienza, che aveva portato governi e banche centrali a stampare moneta come mai nella storia. Un modello in cui molti settori erano costretti a serrare i battenti in attesa delle riaperture. Un’economia infartuata, senza emissioni perché immobilizzata e tenuta in vita dagli “Helicopter money”.

Un reset diverso da quello previsto

E quando dal 2021 i cancelli della libertà si sono riaperti abbiamo testato le reali condizioni del reset: non eravamo entrati nel mondo lieve, verde, pacifico e digitale che ci avevano dipinto ma eravamo bruscamente tornati indietro agli anni ’70. Un mondo parcellizzato, conflittuale ed inflattivo. Fisico ed estrattivo, pieno di code (agli aeroporti e sulle tangenziali) e colli di bottiglie. Il mondo pre-Covid sembrava quasi ordinato al confronto. E comunque l’antitesi della economia del click che avevamo vissuto con la pandemia. Le prime evidenze del nuovo paradigma sono emerse sulla catena logistica, con la mancanza di materiali e beni che sembrava naturale ricevere in poco tempo. Mentre sognavamo le consegne con i droni, scoprivamo come il derapage della Ever Given poteva interrompere il Canale di Suez.

Ritardi nei cantieri, soprattutto asiatici alle prese con i lockdown estremi, carenza di personale e ritardi produttivi su materiali e materie prime sono le condizioni del cosiddetto “everything shortage” dei nostri tempi. Il nuovo mondo porterà molti fenomeni di trasformazione strutturali tra loro collegati: la necessità di un nearshoring delle attività economiche, per ridurre i rischi di consegna, sarà all’origine di un aumento permanente dei costi dei beni e servizi con la minore disponibilità di prodotti “Made in China”. E riporterà vicino a noi consumatori occidentali certe fabbriche emissive che abbiamo opportunamente spostato a oriente.

Addio alla ricetta “meno inflazione e meno emissioni” delle politiche orientate alla globalizzazione. A questa dinamica prettamente economica il 2022 ha aggiunto, in maniera inattesa, la frattura geopolitica. Per anni abbiamo dato per scontato che le attività industriali potessero essere allocate al meglio senza altre negatività. In Occidente, poche industrie leggere e molto servizi; nel resto del mondo, le estrazioni e le trasformazioni più pesanti. Da febbraio di quest’anno abbiamo evidenza che i flussi energetici e di materiali strategici come i chip dovranno essere ripensati. Che le dipendenze dal 90 percento delle terre rare processate in Cina o dal 60 percento dei processori di Taiwan e dal 40 percento del gas russo sono potenziali bombe a tempo. Anche da queste rilocalizzazioni o dall’identificazione di nuove forniture nasceranno pressioni inflattive importanti e strutturali.

Lo stallo dell’energia

E infine anche l’energia, la materia più trascurata degli ultimi anni, uscirà trasformata dagli eventi in corso. Intrappolati in una narrativa anti-fossile (e non anti-carbonio come dovrebbe invece essere) abbiamo deliberatamente limitato le opzioni di trasformazione a poche fonti (rinnovabili, no nucleare) e usi (focus sulla elettrificazione spinta), e ci troviamo in un angolo. Da una parte dobbiamo produrre più petrolio e gas (e usare più carbone almeno di inverno) per sostituire gli enormi volumi di idrocarburi russi mancanti, ma non accettiamo che queste attività possano durare troppo a lungo perché eretiche rispetto alla narrazione anti-fossile. Ne consegue che oggi si rimane in stallo, con aumenti dei prezzi che non si scaricano in maggiori investimenti e più produzione di petrolio e gas.

Allo stesso tempo l’opzione “produrre più rinnovabili per sfuggire alla crisi” (di sua natura già insufficiente a coprire i consumi totali, industriali e invernali) orienterebbe le forniture a una crescente dipendenza dalla Cina. E subirebbe inoltre gli effetti negativi dei rincari delle materie prime e delle energie fossili che sono necessarie per produrre l’acciaio, le plastiche e il vetro alla base delle stesse pale eoliche o pannelli solari.

In conclusione, il 2023 confermerà il progredire del nuovo paradigma. Un reset annunciato, ma molto diverso da quello concepito. La prossima decade, come gli anni ’70 sarà un periodo politicamente agitato, conflittuale e inflattivo. Gli equilibri geopolitici sono in movimento con la revisione del modello globalizzato che ci ha accompagnato per decadi. Nasceranno probabilmente blocchi ed isole economiche, non differenti da quelli di 50 anni fa. E attorno all’energia si sconterà la schizofrenia di una narrativa troppo bella da abbandonare e della sua dolorosa impraticabilità. In assenza di un rapido cambio di rotta lo shock energetico che sta dominando il gas potrebbe presto coinvolgere altre fonti a noi essenziali.

Buon anno, buon 1973!

Francesco Gattei è Chief Financial Officer di Eni. In precedenza è stato Direttore Upstream Americhe di Eni, vice president Strategic Options & Investor Relations di Eni e, prima ancora, responsabile del portfolio della divisione E&P di Eni.

Dagonews il 3 Gennaio 2023. 

Come ci immaginavano 100 anni fa? Paul Fairie, ricercatore all’università di Calgary, in Canada, ha raccolto su Twitter le profezie che i giornali del 1923 fecero sul 2023. All’epoca si pensava che oggi la giornata di lavoro sarebbe stata solo di quattro ore, che tutte le persone sarebbero state bellissime, che avremmo campato fino a 300 anni e che il cancro sarebbe stato debellato (purtroppo non è stato così). Cento anni fa pensavano che la guerra sarebbe stata “senza fili” e che avremmo avuto la telepatia. Nel 1923 indovinarono una cosa: che oggi avremmo comunicato con dei telefoni grandi come degli orologi.

DAGONEWS il 2 gennaio 2023.

Datevi una grattatina. Come ogni anno arrivano le previsioni dei Nostradamus per il 2023. 

Crisi economica che potrebbe portare al cannibalismo

Nostradamus ha predetto che l'umanità potrebbe affrontare la minaccia del cannibalismo a causa di una crisi economica: «Il miele costerà molto più della cera delle candele, il prezzo del grano sarà alto. L'uomo mangerà il suo amico disperato».

Queste parole preannunciano che il costo della vita continuerà a salire nel 2023, ma molti sperano che il riferimento al cannibalismo sia solo metaforico. 

La Grande Guerra del 2023

Spicca in particolare una riga del libro che recita: «Sette mesi di grande guerra, le persone muoiono a causa del male ma la loro luce non cadrà nelle mani del re».

Questa previsione potrebbe riferirsi all'attuale conflitto tra Russia e Ucraina che rischia di trasformarsi in una terza guerra mondiale. Tuttavia, vi è controversia sull'analisi di questa riga, dal momento che la guerra ha superato i sette mesi e si sta avvicinando alla soglia di un anno.

Cambio al trono inglese

«Poiché hanno disapprovato il suo divorzio, un uomo che hanno ritenuto indegno, il popolo scaccerà il re delle isole. L’uomo che lo sostituirà non si sarebbe mai aspettato di essere re».

Alcuni ritengono che il passaggio si riferisca al re Carlo III e al suo famoso divorzio da Diana, principessa del Galles. In base a questa previsione il re dovrebbe abdicare quest'anno. Al suo posto dovrebbe subentrare il principe Harry e non William. 

Un disastro per Elon Musk

L'astrologo ha predetto nel suo libro che la ricerca dell'umanità per colonizzare Marte - una ricerca guidata da SpaceX di Elon Musk - potrebbe concludersi nel 2023.

Il profeta ha scritto: «Fuoco celeste quando le luci di Marte si spengono». Molti hanno interpretato il passaggio come un fallimento nel tentativo di raggiungere il pianeta rosso. 

Siccità e inondazioni

La terra potrebbe subire un altro disastro climatico nel 2023. «La terraferma si prosciugherà ancora di più e ci saranno grandi inondazioni».

Rivolte in strada

Nostradamus ha scritto nel suo libro: «Prima o poi vedrai grandi cambiamenti: orrori e terribili vendette». Questa previsione implica che ci saranno sconvolgimenti e ribellioni nei prossimi mesi: «Ci sarà una grande controversia. Un accordo è stato rotto». C’è chi pensa faccia riferimento alle rivolte in Iran che potrebbero intensificarsi ancora di più.

Guerra e fine della monarchia: le previsioni di Nostradamus. Storia di Roberta Damiata su Il Giornale l’1 gennaio 2023.

Immancabili, come gli auguri copia e incolla su WhatsApp, le bollicine e il panettone, arrivano anche in questa fine 2022, le profezie di Nostradamus per il prossimo anno, il 2023, su cui si ripongono grandi aspettative. Il famoso scrittore, indovino e astrologo francese del XVI secolo, nel libro Centuries et prophéties del 1555, scritto in quartine in rima e raccolte in gruppi di cento, così come per l'anno che sta per concludersi, non aveva grandissime aspettative, a cominciare da una possibile guerra nucleare.

Cosa aveva previsto in passato

Sono in molti a credere che alcuni dei principali eventi del passato fossero già stati previsti da Nostradamus, come gli attacchi alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, l’ascesa di Hitler, associato all'Anticristo di cui si parla nelle sue quartine, lo sbarco sulla Luna o la pandemia di Covid; ma c'è da dire che è anche semplice associare alle sue criptiche frasi un evento futuro. Dello stesso parere non sono però molti studiosi che da decenni cercano di trarre verità e profezie dai suoi scritti, che ritengono estremamente precisi.

Cosa ci aspetta per il 2023

Sette mesi di grande guerra, gente morta per il male”, si legge in una quartina, che come inizio non è proprio incoraggiante, e si riferirebbe ad un probabile terzo conflitto mondiale. Se si guardano le previsioni per il 2022 c'era chi aveva letto la stessa cosa, e la guerra tra Russia e Ucraina sembrava, almeno in parte, avergli dato ragione. Quest'anno però tutto partirebbe dalle tensioni tra la Cina e da Taiwan, iniziate già da tempo.

Previsioni funeste anche per quanto riguarda la guida della Chiesa. Un'altra profezia indica che ci sarà un nuovo pontefice, e che l'attuale Papa Francesco lascerà il suo posto a causa dell'età avanzata. La nuova guida però, sempre secondo Nostradamus, sarà oscura e pericolosa e darà vita ad un grande scandalo. Ad onor del vero, spesso le previsioni di Nostradamus si sono concentrate sulla Chiesa, ma di quelle precedentemente fatte, nessuna si è mai avverata.

Ci si augura a questo punto che anche quella che prevede l'esplosione di una bomba nucleare non vada a buon fine: "Per 40 anni l'arcobaleno non apparirà. La terraferma diventerà più secca e ci saranno grandi inondazioni. Per 40 anni l'arcobaleno non apparirà. La terraferma diventerà più secca e ci saranno grandi inondazioni", dice una quartina riferita al 2023 che continua con: "Come il sole, la testa brucerà il mare splendente: i pesci vivi nel Mar Nero quasi bolliranno". Secondo gli studiosi dell'astrologo, si riferirebbe all'esplosione di una bomba nucleare che colpirebbe principalmente l'Europa. Questo accellererebbe il cambiamento climatico e sarebbe l'inizio di una catastrofe ambientale che coinvolgerebbe tutto il pianeta.

Nonostante fossero state scritte secoli prima, non sarebbe la prima volta che Nostradamus parla di viaggi nello spazio. Per il 2023 ha previsto l'arrivo su Marte, il pianeta rosso. Questo si legherebbe, in effetti, alle parole di Elon Musk che con la sua compagnia SpaceX sarebbe intenzionato a portare su Marte un veicolo spaziale con equipaggio, nel 2029. Le date tra la previsione di Nostradamus e quella di Musk non coincidono, ma un errore temporale su un libro di 467 anni può comunque starci.

La previsione sulla monarchia britannica

In una delle quartine si legge: "Fuoco celeste sull'edificio reale", e in molti sostengono che si tratti di una previsione specifica sulla monarchia inglese. Il dubbio al momento è se 'fuoco' sia inteso letteralmente, come un incendio a Buckingham Palace, o più metaforicamente sull'istituzione stessa. Se fosse questo il caso, potrebbe trattarsi del libro del principe Harry in uscita a gennaio, che potrebbe sconvolgere dalle fondamenta l'istituzione reale. Per la sensitiva australiana Rose Smith però, la frase si riferirebbe in realtà a Re Carlo III che nel 2023, per questioni di salute, lascerebbe il trono al figlio William.

Nostradamus, la profezia-horror sul 2023: "Nuovo ordine mondiale". Libero Quotidiano il 18 dicembre 2022

Sono numerose le profezie per l'anno che verrà. Una in particolare, quella di Nostradamus, sembra essere la peggiore. Nulla di rassicurante, insomma. Secondo le sue previsioni, quello che verrà non sarà un anno facile per nessuno. Il fatto che già il 2022 sia stato particolarmente duro, poi, non aiuta. Basti pensare alla guerra in Ucraina, alla crisi economica e sociale, a quella climatica. Chi sperava in un miglioramento per il 2023, però, dovrà ricredersi. Secondo le profezie di Nostradamus, infatti, ci sarebbe ben poco da sperare. 

C'è da dire, comunque, che notoriamente le sue previsioni sono “poco chiare” ai più. Da quando il chiaroveggente, astrologo e farmacista scrisse il famoso libro delle profezie, molti hanno constatato che ci aveva visto giusto. Interpretare le sue parole, però, non è sempre semplice, anche perché spesso contengono allusioni adattabili a contesti diversi.  

Alcuni esperti ricordano che Nostradamus aveva previsto un conflitto mondiale. E anche se la guerra in Ucraina non può definirsi "mondiale", non c'è alcun dubbio sul fatto che le ricadute economiche stiano invece colpendo gran parte del mondo. Pare, inoltre, che Nostradamus avesse previsto la morte di un famoso personaggio. Difficile qui non pensare alla Regina Elisabetta, scomparsa lo scorso settembre. Nostradamus parla anche di una sorta di Nuovo Ordine Mondiale. Si tratterebbe di un cambiamento che potrebbe già essere in atto e potrebbe essere proprio quello che ci porterà a una crisi economica mondiale.

Da “Chi” il 22 dicembre 2022.

Forse non ve ne accorgerete subito, ma per voi il 2023 sarà l’anno della svolta. Non solo perché da metà maggio nel vostro cielo arriva il generoso Giove, ma perché il 7 marzo si chiude definitivamente il capitolo Saturno. Questo non significa che nel nuovo anno avrete solo stelle luminose, non accade mai a nessuno del resto, ma che avrete la possibilità di realizzare un sogno a cui tenete molto. 

Mercurio, stella degli affari, da dicembre 2022 ha iniziato una sosta prolungata nel vostro amico Capricorno, che durerà sino alla fine di febbraio; Urano nel vostro cielo continua a proporvi novità di ogni tipo. Marte in Gemelli vi conferisce una certa abilità nel movimentare il denaro. Il settore che appare meno luminoso è quello dei sentimenti, la vostra Venere diventa fredda e cervellotica martedì 3.

Il Sole e Saturno in Acquario sono in aspetto poco gentile, ma occupano un settore del vostro oroscopo che influenza il successo, la carriera. Le crisi che vi trovate ad affrontare non hanno un epilogo già segnato, potete fare molto per cambiare le cose: dovete contare su voi stessi, avere fiducia nelle vostre capacità. 

Mercurio continua la sua azione positiva sino al 10, prima di raggiungere il Sole in Acquario. La vostra Venere è direttamente attiva sino al 19, in seguito vi protegge, anche se in maniera non evidente; e quando godete il favore della vostra stella avete davvero una marcia in più. Il 5 si profila un difficile plenilunio. Il 13 vede un Ultimo Quarto altrettanto nervoso. San Valentino ha una Luna malandrina e stuzzicante.

Stappate una bottiglia della vostra gran riserva, quella speciale: questo è il mese della vostra liberazione da Saturno! Stavolta il pianeta del tempo non ha ripensamenti: martedì 7 si sposta in Pesci, uno spazio amico, e non torna più indietro.

Saturno in Pesci per voi è un amico saggio, che vi aiuta a mettere ordine nelle emozioni, vi insegna la moderazione, vi suggerisce quali sono gli amici sui quali poter contare davvero, vi dà una mano a completare il percorso di studi o a realizzare un progetto. Il mese vi riserva un’altra magnifica notizia: giovedì 16 Venere, vostra stella guida, arriva nel vostro cielo, ed è la prima visita di un pianeta nel 2023, un augurio di forza e di fortuna in amore.

Venere è con voi sino a Pasqua, bellissima e seducente. Accanto a Urano nel vostro cielo e in scatto con Marte in Cancro, provoca colpi di fulmine e spinge le coppie innamorate a prendere decisioni importanti. Dal 3 anche Mercurio è con voi, il cielo è leggero: se avete qualcosa da chiarire, se volete dichiarare il vostro affetto, questo è il momento. Il 3 e il 4 splende un’ottima Luna, non esitate; oppure agite a Pasqua.

Dall’11 il cielo diventa più professionale, Venere in Gemelli rinfranca le vostre finanze, stimola le compravendite. Con Mercurio nel vostro cielo, un transito prolungato che durerà sino al 10 giugno, potete costruire e ottenere molto. Il 20 inizia la stagione del vostro compleanno e c’è un cambio di Luna un po’ difficile.

È il periodo del vostro compleanno, il mese delle rose e delle spose... Vi sposerete anche voi? Ecco una data: 19 maggio, con la vostra Luna Nuova e un cielo strepitoso. Domenica 7 la vostra Venere entra in Cancro accanto al focoso Marte, in ottimo sestile, in perfetto scatto con il Sole, Mercurio e Urano nel vostro cielo. Il 16 arriva da voi il generoso Giove.

A parte il lentissimo Plutone, che si sta timidamente affacciando in Acquario, sino al 19 non avete pianeti contro. Particolarmente interessante per gli incontri il weekend del 13 e 14. Mercurio nel vostro segno continua la sua azione a tutto campo: sono protetti le contrattazioni, gli accordi, la formulazione di contratti. Marte il 20 diventa ostile: potete avvertire un calo delle energie fisiche. Cautela nei cambi di Luna difficili (5 e 12).

Dopo un maggio così esaltante, il cielo di questo mese rischia di sembrarvi irritante. È colpa di Marte in Leone, segno poco armonico, che va a toccare soprattutto i legami familiari. Anche la forma fisica non è perfetta, avvertite una certa stanchezza. Prima Marte, poi Mercurio e il solito Urano vi hanno chiesto uno sforzo che è risultato produttivo, ma che ora iniziate a pagare.

L’11, mentre Plutone torna in Capricorno, Mercurio termina la sosta nel vostro cielo; anche se riprende la sua marcia, però, continua a procurarvi stimoli e opportunità molto interessanti per tutto il mese, e a voi dispiacerebbe molto dovervi fermare... Non è necessario chiudersi in casa, sarebbe impossibile perché avete comunque un grande Giove che vi porta a espandervi (in tutti i sensi, anche nel girovita!).

Vi liberate del fastidio di Marte già il 10, e questo vi porta una ventata di energia vitale che riesce a combattere la stanchezza e i disturbi dello scorso mese. Anche per i malanni cronici si registra una ripresa, migliorano le prestazioni degli sportivi di professione e l’eros si risveglia. Insomma l’estate è qui! 

Dovete comunque fare attenzione alla forma fisica: Giove nel segno è una grande benedizione, ma sti mola l'appetito e voi, che siete già buone forchette, tendete ad aumentare di peso. Inoltre proprio I'11 Mercurio passa in Leone, e può provocare infiammazioni alle prime vie aeree e ai bronchi. Non dimenticate Venere, che ren- de delicata la pelle. Cautela con il Primo Quarto del 26. Mercurio crea fastidi alla professione, per fortuna il transito del pianeta è molto breve. Dal 10 Marte-eros diventa bellissimo.

È il mese più caldo dell'estate ed è naturale che in primo piano ci sia la voglia di vacanze. In effetti Mercurio, oltre che stella degli affari, è anche un pianeta che ama il gioco e il divertimento, le chiacchiere disimpegnate sotto l'ombrellone, i giornali di gossip. 

Si ha voglia di avventure piccanti senza porsi troppi problemi, ed è così che nascono i flirt e le cotte estive. Accanto a Mercurio c'è Giove, che invita a godersi la vita, mentre Urano fornisce le occasioni malandrine. Insomma, un bel terzetto di imprevedibili mattacchioni all'opera! Marte è in Vergine praticamente tutto il mese, robusto e sensuale: se capita un'opportunità per scatenarsi, senza dubbio non rinuncia. In sostanza, in questo agosto siete candidati a infilarvi in situazioni scottanti. La salute è buona.

Mese davvero interessante. Più che sullo svago, il cielo mette l'accento sulla professione, vi stimola a impegnarvi al massimo. Lo stesso Mercurio, che lo scorso mese era assai giocherellone, viene spinto da Marte in Bilancia verso l'impegno lavorativo: è proprio in quest'ambito che ora rendete di più, vi divertite persino. 

Tutto ciò viene riconosciuto dai vostri superiori, dal datore di lavoro: possono arrivare una promozione, un incarico, una gratifica, una bella sorpresa, grazie a Giove nel vostro cielo in scatto preciso con il Sole intorno al 7 e all'8. La situazione è positiva anche per chi è in affari: il15 c’è una grande Luna Nuova, sono giornate eccellenti. L'unica stella che vi dà fastidio è la solita Venere, anche questo mese in Leone. L'amore comunque non è niente male.

Dopo avervi punzecchiato tutta l'estate, Venere finalmente si sposta in terreno amico. E vero che la sua quadratura non rappresenta un dramma, tuttavia si tratta pur sempre della vostra stella protettrice e la sua carezza affettuosa vi mancava parecchio. Venere è bellezza, simpatia, piacevolezza in tutti i settori della vita, ma soprattutto amore pieno di armonia.

Sarete contenti, era da un po' che la vostra relazione non funzionava come desideravate. Peccato davvero che dal 12 il rosso Marte si sposti in Scorpione, segno dove arrivano anche Mercurio e il Sole, rispettivamente dal 22 e dal 23. Il nuovo Marte è faticoso anche per la salute, non sono da escludere calcoli epatici o renali; siate prudenti, soprattutto con le Lune negative (16, 17 e 23).

Il mese dello Scorpione è sempre un po' complicato per voi. Quest'anno avete di base ottime stelle, ma c'è qualcosa che vi dà fastidio: cercate di non concentrarvi sui problemi, piuttosto guardate ai lati positivi, che sono tantissimi. Per fortuna il cielo di novembre è molto dinamico, anche quei pianeti che vi disturbano si allontanano in fretta: il 10 Mercurio, il 22 il Sole, due giorni dopo Marte. 

Sabato 25, con la vostra Luna. inizia una fase decisamente più semplice e potete pensare al futuro con l'ottimismo che vi regala il buon padre Giove nel segno. Nei primi venti giorni occorre cautela per la forma fisica: ci sono tre cambi di Luna complicati (5, 13 e 20). Venere vi assiste per tutta la prima settimana, poi la vostra protettrice passa in Bilancia e non sentite più i suoi raggi diretti. Siate fiduciosi!

Si conclude in bellezza il vostro 2023, un anno decisamente operoso. Questo è il mese di Natale, delle relazioni familiari, delle festività da trascorrere tutti insieme intorno a una tavola imbandita. Dopo le frizioni dello scorso mese, la situazione ora è più morbida: ci si parla, ci si confronta, si cerca insieme una via per raggiungere un nuovo equilibrio per quanto riguarda gli interessi economici in comune. 

Voi partite favoriti, peccato per quella Venere che lunedì 4 diventa provocatoria e vendicativa! Eppure l'anno si chiude bene, perché già il 29 la vostra protettrice celeste torna gentile e nella notte di San Silvestro pure la Luna è meravigliosa. Anche a Natale e alla Vigilia la signora della notte è gentile e premurosa, vi assicura intimità e buon umore. La salute è in ripresa, i viaggi sono favoriti. Buon 2024!

Mi passi il tuo Giove?”, “Ma certo, serviti pure”. È uno scambio di cortesie e di fortuna che avvantaggia entrambi. Resta da vedere che accade quando Venere s’incendia... Ma sì, ce la faranno!

Devono solo restare lì, tranquilli ad aspettare le rose di maggio. Che sono senza spine e producono bacche d’oro zecchino. Anello, proposta, altare, viaggio di nozze. Alla faccia di Venere ostile!

Il Gemelli è bizzoso quanto il Toro è concreto, posato, affidabile. Sono troppo diversi, eppure, chissà, quando il mercuriano saluta Marte e accoglie Saturno, potrebbe aver bisogno di riposare sui lombi taurini... Sì!

 “Sepoffà” direbbe un romano doc. Dopo marzo, la strada è più liscia, da maggio si lastrica d’oro. Certo, Venere da giugno a ottobre rema contro, però i due formano una bella coppia, e il Cancro sa aspettare.

Non si impegnano granché a stare insieme; separati paiono sentirsi meglio: ognuno dei due gode di vantaggi celesti e non li vuole spartire con l’altro. Se fossero meno diffidenti ne uscirebbe un bel duo, generoso e appagante.

Ullallà! Ecco una coppia interessante, una sfida enigmistica. Sono compatibili, fin troppo; ma prima con Marte e poi con Saturno, la Vergine slitta e il Toro s’annoia. D’estate ci si mette pure Venere... Chissà!

Sono figli di Venere, ma nel 2023 le loro vie si dividono: la Bilancia pensa all’amore, il Toro conta l’oro e sorride. Chi ha detto che non si possono amare? Se si donano l’uno all’altra, anche questa è fatta!

Se Urano e poi Giove li fanno scontrare, il nuovo Saturno è un vero sollievo. Possono ritrovarsi in marzo a ballare un tango sfrenato e, se il Toro non pesta l’aculeo, il ballo termina in camera da letto.

All’inizio dell’anno Marte fa impennare il centauro, così il Toro si tiene a rispettosa distanza. In marzo arriva Saturno e il Sagittario finisce imbrigliato. D’estate però è il figlio di Giove a cantar vittoria... Che confusione!

Non hanno solo Urano e un bel Giove, c’è pure Mercurio a fungere da sponsor. Con stelle simili, persino una Venere altezzosa non può fare tanto male, quindi la coppia va avanti, nel lavoro ma anche in amore.

Due segni poco compatibili che si sono amati, e non poco. Nel 2023, però, faticano a trovare un’armonia: se uno è entusiasta, l’altro si abbatte; se uno lavora, l’altro si diverte. Per restare insieme, serve dedizione. L’avranno?

Sono in angolo buono tra loro, ma finché Marte è in Gemelli il Pesci impazzisce. Tutto si gioca in marzo: quando arriva Saturno, il nettuniano inizia a ragionare? Se ci riesce, il Toro apprezza e lo porta all’altare, Venere o non Venere.

180 feriti, amputazioni, arresti: il report choc sul Capodanno. Tra i feriti per i botti di fine d'anno ci sono 50 minori, in aumento rispetto all'anno scorso in cui erano stati 20. Le persone ricoverate in ospedale sono state 48. Valentina Dardari l’1 gennaio 2023 su Il Giornale.

Nessuna vittima, ma 180 feriti, di cui 48 ricoverati, per la notte della fine dell'anno. Tra le persone ricoverate in ospedale 11 sono gravi. È questo il bilancio dei botti di Capodanno contenuto nel report del dipartimento della pubblica sicurezza. L'anno scorso si registrarono zero vittime e 124 feriti, 31 ricoverati, dei quali 14 gravi. In "significativo aumento" il dato dei minori rimasti feriti: quest'anno sono 50 a fronte dei 20 dello scorso anno: "I dati relativi agli incidenti verificatisi nel corso dei festeggiamenti non fanno registrare alcun episodio mortale. In calo il dato dei feriti gravi con prognosi superiore ai 40 giorni, passati da 14 a 11, mentre il dato dei feriti con prognosi inferiore ai 40 giorni si presenta in crescita".

Cosa si legge nel report

Come si legge nel report di pubblica sicurezza: "Questo fine anno si sono registrati 11 ferimenti da colpi d'arma da fuoco, in lieve aumento rispetto ai 10 del 2022". In relazione alla gravità delle lesioni riportate, "si registra un aumento nel numero di feriti con prognosi inferiore o uguale a 40 giorni (169 a confronto dei 110 dello scorso anno). Per quanto riguarda invece i feriti gravi, con prognosi superiore a 40 giorni, si registra una lieve diminuzione rispetto allo scorso anno (11 a fronte dei 14 del 2022)". Sono trentacinque le persone che sono state arrestate e 273 denunciate. A tanto ammonta il bilancio dell'attività di contrasto al fenomeno dei botti illegali di Capodanno contenuto nel report del dipartimento della pubblica sicurezza. L'anno scorso gli arresti erano stati 37, mentre le denunce 188. Si registrano inoltre 11 ferimenti da colpi d'arma da fuoco, in lieve aumento rispetto ai dati del 2022, quando erano state 10.

Colpi di pistola, botti e petardi. Un bimbo di 10 anni perde una mano

Il materiale sequestrato

Particolarmente lungo anche l'elenco dei materiali sequestrati che comprende 8 armi comuni da sparo; 11.953 munizioni; 1.818 kg di polvere da sparo; 37.108 kg di manufatti appartenenti alla IV e V categoria Tulps; 26.246 kg di manufatti recanti la marcatura "CE"; 9.866 kg di prodotti comunque non riconosciuti e cioè non ricompresi nelle categorie Tulps o "CE" perché illegali, non correttamente etichettati, non conformi alle norme CE, non rispondenti ai decreti di riconoscimento e classificazione, abusivi e/o altro; 1.785.815 parti di articoli pirotecnici di varia natura che, per motivi operativi, vengono indicati dagli uffici in parti invece che in chili; 72 detonatori e 1.301 capsule innescanti.

A Taranto ci sono stati tre arresti, una denuncia e circa 670 chili di botti sequestrati, mentre a Napoli sono stati sequestrati 4 chili di botti. I carabinieri del Comando provinciale di Bari hanno sequestrato oltre un quintale di materiale pirotecnico. L'intervento dei militari dell'Arma nel capoluogo e in provincia ha consentito di recuperare, tra gli altri, anche 4 ordigni esplodenti, 11 candelotti e 13 bombe carta, tutti di fabbricazione artigianale.

Botti e petardi a Capodanno: 180 feriti, di cui 50 minori. Amputata a Taranto la mano a un bimbo di 10 anni ed a uno di 8. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l’1 Gennaio 2023

Il caso più grave di ferimento è stato finora registrato a Taranto: una mano è stata amputata a un bambino di 10 anni la scorsa notte nell'ospedale "Santissima Annunziata" a Taranto a causa delle ferite riportate per l'esplosione di un petardo. Il bambino è stato trasportato in ospedale circa un'ora dopo la mezzanotte con delle ferite alla mano destra

Divieti ed ordinanze sono rimaste delle parole inutili della burocrazia pubblica che ancora una volta ha dimostrato di non riuscire a fronteggiare il fenomeno dei botti di Capodanno. I dati del Ministero dell’ Interno sul bilancio della prima notte del 2023, contenuto nel report del dipartimento della pubblica sicurezza sono preoccupanti: nessuna vittima, ma ben 180 feriti (di cui 48 ricoverati) 11 dei quali gravi. L’anno scorso si registrarono zero vittime e 124 feriti (31 ricoverati), dei quali 14 gravi. Un “significativo aumento” il dato dei minori feriti: 50 a fronte dei 20 dell’anno scorso.

Questo fine anno si sono registrati 11 ferimenti da colpi d’arma da fuoco, in lieve aumento rispetto ai 10 del 2022″ informa il report del Dipartimento della Pubblica Sicurezza. In relazione alla gravità delle lesioni riportate, “si registra un aumento nel numero di feriti con prognosi inferiore o uguale a 40 giorni (169 a confronto dei 110 dello scorso anno). Per quanto riguarda invece i feriti gravi, con prognosi superiore a 40 giorni, si registra una lieve diminuzione rispetto allo scorso anno (11 a fronte dei 14 del 2022)”.

Sono stati 646 gli interventi dei vigili del fuoco stanotte per incendi riconducibili ai festeggiamenti di Capodanno, in leggero aumento rispetto allo scorso anno, quando furono 558. Molti interventi hanno riguardato incendi di cassonetti e alcune autovetture parcheggiate in strada. Il numero maggiore si è verificato in Emilia Romagna, dove sono stati 96. Gli altri interventi sono stati in Puglia 75, Veneto e Trentino Alto Adige 71, Campania 57, Lazio 52, Piemonte 50, Lombardia 47, Liguria 45, Toscana 45, Sicilia 31, Sardegna 26, Friuli Venezia Giulia 16, Marche 13, Molise 7, Abruzzo 6, Umbria 5, Calabria 4 . La regione più virtuosa la Basilicata, senza interventi.

Il caso più grave di ferimento è stato finora registrato a Taranto: una mano è stata amputata a un bambino di 10 anni la scorsa notte nell’ospedale “Santissima Annunziata” a Taranto a causa delle ferite riportate per l’esplosione di un petardo. Il bambino è stato trasportato in ospedale circa un’ora dopo la mezzanotte con delle ferite alla mano destra. A causa delle condizioni riscontrate, i medici hanno dovuto amputarla. Il bambino al momento è ricoverato nel reparto di Ortopedia. Al suo arrivo in ospedale – a quanto si apprende da fonti sanitarie – è stato operato “immediatamente”. E’ stato eseguito un “intervento chirurgico al moncone a livello del polso” del bambino che viene “seguito con particolare attenzione, come tutti i bambini, dal personale sanitario”. Anche un ragazzo di vent’anni di Palagianello, sempre nella notte, è rimasto ferito anche lui dall’esplosione di un petardo.

Questa mattina nel quartiere Paolo VI un bambino di otto anni ha raccolto un petardo inesploso che è scoppiato in quel momento ed è rimasto ferito ad una mano.S occorso è stato condotto in ospedale dove i sanitari hanno disposto il suo trasferimento a Bari per sottoporlo ad un intervento alle dita della mano destra. Anche lui purtroppo ha perso una mano. Decine e decine i cassonetti danneggiati dai vari incendi causando un grave danno economico che andrà a carico di tutti i cittadini, perché i cassonetti, totalmente inutilizzabili, dovranno essere sostituiti come ricorda con una nota Kyma Ambiente (ex AMIU Taranto spa) , società partecipata al 100% dal Comune di Taranto.

I Carabinieri di Taranto ieri hanno arrestato e posto ai domiciliari un 42enne residente nel quartiere Paolo VI che nascondeva nella sua abitazione 66 chili di materiale pirotecnico illegale, di vario genere, di fattura artigianale. Il materiale è stato sequestrato e consegnato agli artificieri della sezione investigazioni scientifiche che provvederà a distruggerlo.

Sempre in Puglia è stato ricoverato all’ospedale Vito Fazzi di Lecce un uomo di Ruffano (Lecce), 80 anni compiuti proprio ieri, che è grave in codice rosso per emorragia a causa dello scoppio di un petardo vicino alla testa. E’ attualmente in prognosi riservata. A Copertino (Lecce) un 35enne è stato medicato e dimesso con prognosi di dieci giorni per ferite a mani, testa, gambe e piedi a seguito dell’esplosione di un petardo.

Sono 16 le persone ferite solo tra Napoli e provincia: cinque di queste sono minori. Un dato in aumento rispetto allo scorso anno quando furono otto. La maggior parte dei feriti, 12, è concentrata nella città di Napoli: di questi tre sono minorenni. In provincia sono tre le persone colpite dai botti e di queste due sono minori. C’è poi chi ha perso un dito della mano per aver raccolto un botto in strada. Un ragazzino, sempre a Napoli, era a bordo di un’auto quando lo scoppio di un grosso petardo sotto il veicolo ha fatto esplodere l’airbag che lo ha colpito in pieno volto: è stato ricoverato per un grave trauma oculare.

Un sedicenne di Caivano sarebbe stato ferito – secondo una prima ricostruzione dei Carabinieri – da un colpo d’arma da fuoco al volto mentre festeggiava con i familiari sul balcone. Il giovane è stato comunque già dimesso dall’ospedale con una prognosi di 10 giorni. Un ventiduenne di San Tammaro (Caserta) che non è in pericolo di vita. ha perso due dita della mano e ha riportato una lesione all’occhio destro.

A Milano in piazza Duomo nonostante fosse “blindata” dalle forze dell’ ordine , un 21enne per un petardo rischia di perdere le falangi di una mano; in periferia a Cinisello Balsamo un 46enne è stato portato all’ospedale con lesioni a occhio, viso e mani. Nel capoluogo lombardo cinque persone sono state denunciate a vario titolo (furto o possesso di armi). 

Anche a Roma quest’anno la festa è degenerata. L’ordinanza del sindaco Roberto Gualtieri contro i botti si è rivelata pressochè inutile contro petardi e fuochi d’artificio esplosi da una parte all’altra della capitale per dire addio al 2022 ed annunciare l’ingresso del 2023. E anche quest’anno sono stati tantissimi gli interventi dei vigili del fuoco per domare incendi provocati proprio da botti o anche dalle cosiddette lanterne cinesi, altra usanza tipica di fine anno che può avere conseguenze molto pesanti. Moltissime le auto danneggiate a causa dell’esplosione di petardi e fuochi d’artificio. Decine anche le segnalazioni per cassonetti in fiamme.

A Parma un 30enne è stato ricoverato in gravi condizioni all’ospedale Maggiore per una ferita a un occhio a seguito dello scoppio di un petardo. A Reggio Emilia, invece, un 44enne ferito al polpaccio dallo scoppio di un petardo ha avuto bisogno del pronto soccorso. Nel Reggiano, a Cerreto Laghi, i Carabinieri hanno fermato un 20enne che in tasca aveva una ‘bomba’ artigianale da oltre un etto. È scattato il sequestro e la denuncia per detenzione illecita dell’esplosivo. Mentre alcune persone hanno esploso petardi tra la folla che festeggiava in piazza e sono state danneggiate auto in sosta. Redazione CdG 1947

La fine e l’inizio. Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico, su L'Indipendente il 31 dicembre 2022.

Pensiamo a un film. Se la fine non ci soddisfa, allora è tutto il film che non ci convince, restiamo in sospeso, immaginando chiusure alternative.

Nella conclusione del film si evidenzia il significato prevalente di tutto quello che abbiamo visto, si prepara un ipotetico futuro. La seconda giovinezza di quelle storie, pronte a riprendere chissà dove e chissà quando. Magari ci sarà un sequel…

Pensiamo invece all’inizio del film, è come se si preparasse qualcosa: personaggi lontani, ognuno preso nelle sue faccende, che poi si incontrano. Immagini montate in modo alternato che non capiamo ancora quale situazione preparino, dense di un potenziale che si snoda poi come in un gioco di carte.

L’anno nuovo è come un film, il suo regista non lo conosciamo così bene, i produttori speriamo che cambino perché così almeno le storie non si ripeteranno, i personaggi in parte varieranno, anche in questo caso lo speriamo, perché è spaventosamente noioso assistere a spettacoli che si assomigliano, anche se è consolatorio pensare che una vicenda, un carattere appartenga a un genere, abbia le sue ricorsività, risponda a regole e ad attese.

Ogni racconto però è una realtà speciale, esiste finché lo vediamo o lo leggiamo. Proviamo a giocare su una certa distanza: siamo immersi nei fatti narrati, che diventano nostri, oppure ne restiamo distaccati.

Magia della narrazione questa. Non mettere subito a fuoco ogni immagine.

E così pure per i fatti che ci aspettano nel 2023 potremmo agire con un certo distacco simbolico, mitigare le passioni, sospendere gli esami razionali, tenerci un po’ sospesi, come se la fine dei fatti fosse già scritta ma noi non avessimo fretta di conoscerla.

Restiamo ancora un po’ nel cinema, aspettiamo che il pubblico si allontani, e noi soli in sala con i nostri sogni.

La fine e l’inizio, il nuovo inizio, la vecchia fine. La realtà preme, prima o poi dovremo lasciare la sala, per incontrare nuove realtà, nuovi inizi.

L’inizio, questa la vera utopia, l’inizio di qualcosa di nuovo che ci chiami in causa, che abbia bisogno di noi.

Alle fini ci siamo abituati. Sono il prezzo della politica, sono le trappole del potere, sono i trucchi del calendario.

Finirà la guerra in Ucraina, i mercati devono ripartire, i morti no, ma ogni guerra ha i suoi caduti, finirà anche il Covid ma non del tutto perché le varianti sono sempre pronte, come quando cambia il governo e le somiglianze sono garantite.

Finiranno gli sbarchi dei migranti, e allora magicamente ci verranno risparmiate connivenze e stupidità. Ma soprattutto morti senza senso. Finiranno le proteste in corso, tutti inebetiti circoleremo automatizzati sui marciapiedi senza fare rumore.

È ora di finirla’, non c’è espressione più stolta. E quelli che dicono ‘fine!’ per chiudere qualsiasi altra possibilità…!

Quando inizierà il 2023 inauguriamo un nuovo rito. Un rito di incoraggiamento per questo nuovo anno, questo minorenne incazzato con il mondo, che ci regala la sua rabbia e le sue aspettative.

Per un nuovo inizio allora differente da tutti gli altri. Con noi registi anche soltanto per un attimo di momenti meravigliosi, esaltanti. Come se non avessero fine. [di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

Marino Niola per “il Venerdì - la Repubblica” il 31 dicembre 2021. Solare o lunare, solstiziale o equinoziale, primaverile o invernale, rumoroso o silenzioso, il Capodanno è sempre Capodanno. E da che mondo è mondo non c'è popolo che non lo festeggi. Gli antichi romani legavano i rituali d'inizio del nuovo anno al dio Giano, in latino Ianus, da cui deriva il nome di gennaio, il primo dei mesi. 

I popoli del Nord Europa festeggiavano il giro di boa stagionale mascherandosi da animali per propiziarsi la natura e le sue specie. In quasi tutti i casi, però, in Occidente come in Oriente, gli elementi fissi di questo rito di passaggio stagionale sono da sempre fuoco, luce e rumore. Il baccano rituale serviva a scacciare gli spiriti maligni, a mettere in fuga tutti i demoni cattivi. Da questo uso, peraltro, deriva la parola pandemonio.

I falò e le lampade accese avevano invece la funzione di illuminare il cammino dell'anno che entrava. Poi con l'invenzione della polvere da sparo luci e suoni sono diventati una cosa sola dando origine ai nostri botti di Capodanno. Non è un caso che ancora oggi, nonostante i richiami alla prudenza, la notte di San Silvestro città e paesi si accendano come polveriere.

È una autentica febbre del fuoco che ogni anno miete vittime, tant'è vero che i notiziari del primo gennaio iniziano quasi sempre con l' elenco degli infortuni. Ma ci sono anche capodanni alla rovescia, come quello di Bali, in Indonesia. Che viene celebrato nel silenzio più assoluto. Uno stand by della vita per ingannare le potenze del male facendo credere loro che l' isola sia disabitata. È una giusta pausa dell' anima. Fra due giorni potremmo provarci anche noi. Forse riusciremmo a sentire il suono del silenzio. 

Miracoli, attese, tradizioni: chi era San Silvestro e perché si festeggia. Angela Leucci il 31 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Come si festeggia San Silvestro in Italia, la storia del santo e un po' di cultura pop in attesa dell'"anno che verrà"

San Silvestro è quel momento dell’anno in cui si festeggia per l’arrivo di un futuro che è già presente. Ma perché si festeggia proprio il 31 dicembre? E chi era san Silvestro? La vera storia, come spesso accade, si fonde con il retroterra culturale di ognuno, le sue tradizioni: questo che segue è il background italiano, qualcosa che appartiene profondamente a ogni persona del Belpaese, anche se forse magari, lì per lì, neppure lo sa.

Chi era san Silvestro

San Silvestro è stato pontefice della Chiesa cattolica con il nome di papa Silvestro I. Si sa davvero pochissimo di lui: fu infatti un pontefice tanto riservato da non lasciare testimonianze, in un periodo di passaggio dalla Roma pagana alla Roma Cristiana. Ciò che si conosce è la data di morte, il 31 dicembre 335: alla sua dipartita lasciò il pontificato, che per lui era durato 21 anni, e fu sepolto alle Catacombe di Priscilla.

Secondo alcuni, la ragione del fatto che san Silvestro sia stata una figura fuori fuoco rispetto a quella di altri papi, risiede nel fatto che fu vescovo di Roma durante l’impero di Costantino, l’imperatore che aderì al Cristianesimo e permise il suo diffondersi su sempre più ampia scala, prendendo spesso decisioni al posto del papa.

Da dove viene la tradizione della festa

Le festività come si conoscono oggi sono spesso frutto di un compromesso fondato su un retaggio del passato. E festeggiare San Silvestro non fa differenza. La notte tra il 31 dicembre e l’1 gennaio corrispondeva infatti anticamente con la festa pagana in onore di Giano, il dio bifronte degli inizi: lui con i suoi due volti può guardare il futuro e il passato e cos’è il Capodanno se non fare un bilancio di ciò che è stato ed esprimere buoni propositi?

Usanze e leggende di San Silvestro

Anche se si conosce poco della biografia di san Silvestro, esistono alcune leggende di natura agiografica. Secondo una di queste storie, papa Silvestro avrebbe guarito Costantino dalla lebbra dopo avergli somministrato il battesimo: Costantino aveva ricevuto dagli aruspici il consiglio di fare il bagno nel sangue di 3000 bambini, ma si rifiutò di compiere la carneficina. Così il santo salvò l’imperatore senza spargimento di sangue.

Secondo un’altra leggenda, sul Palatino viveva un drago antropofago: Silvestro gli legò la gola con un filo di lana, rinunciando queste parole: “In nome di nostro Signore Gesù Cristo, che è stato crocifisso e che verrà a giudicare i vivi e i morti, ti proibisco di continuare a mordere”. Tanto che il dragò morì.

Durante la notte di San Silvestro in Italia si festeggia in modi sempre tradizionali. C’è chi si reca in una delle tante piazze italiane ad assistere a un concerto, chi va a un veglione o in discoteca, o chi si dedica a un sontuoso cenone con famiglia e amici. Si brinda con le bollicine, si mangiano tante bontà, come lenticchie, cotechino e zampone.

A 10 secondi dalla mezzanotte c’è il conto alla rovescia per il nuovo anno. Un’usanza scaramantica consiste nel tenere in mano dell’uva e tre monetine, che sono auspicio di prosperità. Si dà quindi il via ai fuochi d’artificio: per alcuni in grande, mentre altri preferiscono le più silenziose e tranquille stelline.

L’anno nuovo nella cultura pop italiana

Musica e cinema hanno celebrato il 31 dicembre in modi diversi. Sicuramente la canzone più celebre sull’argomento è L’anno che verrà di Lucio Dalla, in cui il cantautore scrive una lettera immaginaria e decisamente fantasiosa all’amico dando un senso alla speranza comune: “Vedi caro amico cosa si deve inventare / Per poter riderci sopra / Per continuare a sperare”.

Se dall’estero giungono da sempre commedie romantiche su questo tema, in Italia di tratta tutto con ironia e un po’ di senso del grottesco. E forse il “manifesto” di questa disposizione d’animo è il veglione di Fantozzi, in cui il maestro Canello sposta le lancette in avanti, perché con la sua orchestrina deve esibirsi in una festa molto più blasonata rispetto a quella organizzata dal ragionier Filini dell’Ufficio Sinistri.

Halloween: origine e significati della festa più spaventosa dell'anno. Chiara De Zuani su Panorama il 30 Ottobre 2023

Halloween: origine e significati della festa più spaventosa dell'anno Tutti conoscono Halloween, la festa che si celebra il 31 ottobre, la vigilia di Ognissanti, all'insegna di zucche intagliate con espressioni minacciose; costumi spaventosi da mostri, fantasmi, streghe, clown; e la tipica frase "Dolcetto o Scherzetto?",... ma in pochi sanno le vere origini di questa ricorrenza Mentre in alcune culture

Halloween è una tradizione consolidata, soprattutto nei paesi anglosassoni, in Italia la sua diffusione è piuttosto recente e influenzata dalla cultura di massa: film horror, serie tv splatter e altri prodotti culturali hanno contribuito a far conoscere questa festa anche a casa nostra, fino a farla diventare un vero e proprio appuntamento fisso attesissimo da bambini, ragazzi ma anche adulti. Ma come nasce Halloween? E quali sono le sue origini? A differenza di ciò che credono in molti Halloween non nasce negli Stati

A differenza di ciò che credono in molti, Halloween non nasce negli Stati Uniti ma in Irlanda intorno al 4.000 a.C.. Secondo alcuni studi, è emerso che le origini vadano ricondotte alla festa celtica di Samhain (parola che deriva dal gaelico samhuinn, ossia summer's end) che coincide con il Capodanno celtico. Siccome i celti erano soliti misurare il tempo in base alle fasi del raccolto, il Samhain coincideva con la fine dell'estate e l'inizio dell'inverno, ma anche all'ultimo raccolto prima dell'inizio della stagione fredda. Le ambientazioni macabre con un forte riferimento a morti, cimiteri e mostri è dovuto al fatto che i celti erano convinti che in questo periodo dell'anno la distanza tra regno dei vivi e regno dei morti si assottigliasse, fino a permettere ai due mondi di entrare in contatto tra loro. Per questo motivo, si credeva che le persone scomparse potessero tornare per comunicare con i loro cari da cui si erano separati. Il legame con il nostro Ognissanti (1° novembre) si deve prima ai Romani, che hanno istituito la festa dei morti, e poi ai cristiani, che hanno dato vita a Ognissanti (Halloween significa "All hallow's eve", che in inglese significa letteralmente la vigilia di Ognissanti). Halloween ha poi iniziato a spopolare negli Stati Uniti grazie alle migrazioni che si sono verificate dall'Europa nel corso dell'Ottocento. Oggi, in parte a causa del consumismo, gli statunitensi sono considerati i leader mondiali nell'organizzare feste a tema, sfoggiando costumi con effetti speciali ai limiti del cinematografico. Basti pensare al giro d'affari intorno a questa ricorrenza, ormai diventata un business da 9 miliardi di dollari l’anno negli Stati Uniti, ovvero la seconda festa negli Usa dopo il Natale in termini di fatturato. Perché le zucche? Le zucche di color arancio e intagliate sono il simbolo di Halloween per eccellenza, un po' come presepe e albero addobbato per Natale. L'usanza di intagliare la zucca formando delle espressioni minacciose e rendendola luminosa grazie a una candela inserita all'interno si deve alla leggenda di Jack-o'-lantern: si narra infatti che Jack fosse un fabbro irlandese ubriacone che riuscì a ingannare il diavolo chiedendogli di trasformarsi in una moneta per consentirgli l'ultima bevuta. Peccato che, dopo aver esaudito il desiderio, Jack tirò fuori una croce impedendo al diavolo di tornare se stesso. Dopo diversi anni e inganni, una volta morto Jack si trovò alle porte dell'inferno ma venne rifiutato dal diavolo. Quest'ultimo lo costrinse a vagare da morto con una rapa-lanterna. Nel tempo la rapa è stata sostituita con una zucca e serve per avvisare Jack che in quella casa non c'è posto per la sua anima senza pace. Significato di "Dolcetto o Scherzetto?" Tick or Treat - Dolcetto o Scherzetto tradotto in italiano - trae origine da una tradizione risalente al Medioevo per cui le persone andavano a elemosinare di porta in porta fra il giorno dei santi e quello dei defunti, 1 e 2 novembre. Attualmente i bambini, la sera del 31 ottobre, si travestono e vanno di porta in porta a chiedere dolciumi e spiccioli minacciando di fare uno scherzetto se non verranno dati.

L'indagine in stile CSI che rivela tutta la verità su Dracula. Due ricercatori hanno studiato alcune lettere scritte da Vlad III, scoprendo che il principe di Valacchia aveva diverse malattie che ne giustificavano alcune caratteristiche come il lacrimare sangue. Ma a quanto pare, non aveva la porfiria, patologia "chiave" nella versione di Bram Stoker. Giampaolo Cadalanu su L'Espresso il 3 Novembre 2023

Vlad Drăculea detto l’impalatore, principe di Valacchia, nella seconda metà del secolo XV con tutta probabilità non si sdraiava in una bara prima che sorgesse il sole per evitare di ridursi in cenere, non prendeva le sembianze di un pipistrello a volontà, non beveva sangue umano. Non era un vampiro, insomma, anche se probabilmente la sua figura e la sua fama di aristocratico crudele e sanguinario è servita come ispirazione allo scrittore Bram Stoker e a quelli che dopo di lui hanno contribuito alla prosecuzione del mito nella cultura popolare. 

Il Vojvoda che regnò fra i Carpazi e il Danubio inferiore per tre diversi periodi, fra il 1448 e il 1476, è ancora considerato dai romeni come un eroe nazionale per la sua strenua difesa del regno contro gli invasori ottomani. Sulla sua ferocia ci sono pochi dubbi: narrano gli storici che nel ritirarsi dopo uno scontro militare, nel 1462, Vlad III lasciò il campo di battaglia con migliaia di prigionieri impalati, come deterrente verso le forze turche che avanzavano. Il suo nome, che significa “figlio del drago”, in riferimento al padre Vlad II che nel 1431 era stato insignito dell’ordine del Dragone dall’imperatore Sigismondo, in romeno è diventato sinonimo di “diavolo”. 

A renderlo una figura affascinante per il romanziere irlandese, dopo qualche conversazione con lo storico Hermann Bamburger, potrebbe essere stata la sua natura violenta. Ma un particolare significativo che potrebbe aver contribuito alla nascita delle leggenda e alla creazione del personaggio letterario – quello sì, immortale – viene da una rara patologia: il principe, sottolinea una squadra di ricercatori tutta particolare, piangeva lacrime di sangue. In termini più precisi, è probabile che il Vojvoda soffrisse di emolacria, cioè appunto presenza di sangue nelle lacrime, una condizione clinica che può essere causata da problemi semplici come una congiuntivite batterica, ma anche dalla tubercolosi o da tumori dell’apparato lacrimale. 

A dirsene convinti, sia pure con le inevitabili prudenze, sono Gleb Zilberstein e Pier Giorgio Righetti, gli investigatori del passato che adottano i metodi scientifici forensi da CSI per esaminare documenti autentici e ricavarne informazioni esclusive, a volte conferme della Storia nota, a volte smentite inaspettate. Per esaminare tre lettere del Vojvoda Vlad III si sono affiancati a una squadra di ricercatori dell’università di Catania e a un collega dell’ateneo romeno di Sibiu, in Transilvania, oltre alla moglie di Zilberstein, anche lei scienziata dell’università di Rehovot, in Israele. 

I campioni che il team ha potuto esaminare sono lettere spedite dal principe alle autorità locali di Sibiu, conservate negli archivi della città. Le particelle di proteine prelevate durante la ricerca «non hanno indicato tracce di porfiria», dice Righetti, anche se questo non esclude che Vlad ne soffrisse o l’avesse manifestata in altre fasi della sua vita. La porfiria è una malattia genetica che fra gli altri sintomi provoca anemia, problemi gengivali e persino una eccessiva sensibilità alla luce del sole. In passato era diventata comune l’ipotesi che il Vojvoda ne fosse colpito, o che comunque dalle manifestazioni patologiche di questo disturbo fosse stata costruita, grazie alla fantasia di Stoker e dei successori, la leggenda del vampiro con i canini aguzzi e la paura della luce solare. 

Non ci sono conferme di questa ipotesi nemmeno nella testimonianza del vescovo Nicola di Modruš, contemporaneo di Vlad III e rappresentante del Papa alle corti di Bosnia e Ungheria: il religioso descrive il principe come «non molto alto, ma robusto e forte, con aspetto crudele e terribile, un lungo naso diritto, narici tese, un viso sottile e rossastro in cui i grandi occhi verdi spalancati erano incorniciati da nere sopracciglia cespugliose, che li facevano apparire minacciosi». 

Qualche dettaglio in più però arriva grazie alle ricerche di Zilberstein e Righetti, basate sulle tre lettere spedite a Sibiu fra il 1457 e il 1475. Secondo i risultati della ricerca - pubblicati sulla rivista Analytical Chemistry - con tutta probabilità il principe di Valacchia soffriva di una forte infiammazione all’apparato respiratorio, alla pelle, o a entrambi. Con un filo di fantasia in più, se ne può dedurre una voce cavernosa e magari un aspetto inquietante. 

Al di là delle ipotesi da leggenda, a rivelare i particolari sulla salute del Vojvoda è la tecnologia forense, che ha già sollevato il velo sui segreti di altri protagonisti della Storia. Zilberstein e Righetti hanno perfezionato un procedimento che prevede l’applicazione di lastrine ottenute da scaglie di plastica inerte a cui vengono aggiunte in fusione microsfere di resina a scambio ionico. Come spiega Righetti, docente di Chimica al Politecnico di Milano, questi cerotti umidificano appena la superficie da esaminare, ma senza bagnarla, così che l’esame risulta non invasivo e non danneggia il documento storico. 

Le microsfere attive prelevano le particelle biologiche depositate sulla superficie: batteri, virus, metaboliti. Queste vengono poi esaminate con la spettrometria di massa ad alta risoluzione, che permette l’individuazione delle proteine e della loro interazione, consentendo così di presumere con certezza la presenza di determinate malattie o di fattori ambientali significativi. Gli scienziati, ovviamente, mettono le mani avanti: «Non si può escludere che nel Medioevo più persone abbiano toccato questi documenti, ma è ragionevole pensare che le proteine antiche prevalenti siano provenienti dal principe Vlad l’impalatore, che scrisse e firmò queste lettere». 

Questo metodo stile CSI è divenuto famoso con l’esame dei registri che enumeravano i morti per la peste del 1630 nel lazzaretto di Milano: Zilberstein e Righetti hanno individuato 17 diverse proteine del batterio Yersinia Pestis, scoprendo che in quei giorni, accanto alla peste, si era diffuso anche il carbonchio. Le loro analisi hanno permesso di scoprire che George Orwell si era ammalato di tbc in Spagna, che Mikhail Bulgakov faceva uso di morfina, che Stalin probabilmente era in cura per paranoia e persino che Giacomo Casanova probabilmente barava quando, per accrescere la fama di donnaiolo, lamentava di essere sempre colpito da malattie veneree.

Estratto dell’articolo di Marino Niola per “il Venerdì di Repubblica” il 17 febbraio 2023.

Oggi fate tutto ma non il bucato. Rischiereste di cadere in letargo. Secondo un'antica credenza, infatti, chi lava i panni il venerdì 17 rischia un attacco di narcolessia. E se proprio non potete fare a meno di mettere mano alla lavatrice, prendete un fazzoletto pulito e fateci dentro una bella risata.

 […] La fama sinistra del venerdì, che deve la sua cattiva nomea alla memoria della morte di Cristo: si può considerare il primo venerdì nero della storia. Mentre il secondo è il 24 settembre del 1869, legato al ricordo del rovinoso crollo della borsa di New York, da cui nasce l'espressione Black Friday: oggi è tutto fuorché rovinoso almeno per i commercianti.

E non è finita qui. Perché, sempre di venerdì Adamo ed Eva sarebbero stati cacciati dal paradiso, Caino avrebbe ucciso Abele, San Giovanni Battista sarebbe stato decollato ed Erode avrebbe ordinato la strage degli innocenti. In Inghilterra lo chiamavano il giorno degli impiccati perché era riservato alle condanne a morte.

E l'aura negativa del 17? La dobbiamo a un teorema di Pitagora che lo considerava il numero dell'imperfezione. E alla data dei Quirinalia, una festa che nella Roma antica cadeva il 17 febbraio, cioè oggi. E che la Chiesa maledisse come tutte le ricorrenze pagane. Che fare allora? Tutto ma avendo cura di premunirsi di amuleti e talismani. Perché essere superstiziosi è da oscurantisti. Ma non esserlo porta male.

Estratto dell'articolo di Romualdo Gianoli per corriere.it il 17 febbraio 2023.

Anche se venerdì 17 (o 13, dipende da dove siete nati) ha una brutta reputazione perché considerato un giorno sfortunato, non esistono prove scientifiche che indichino che gli eventi negativi si verifichino con maggior frequenza in questa data. Ma la scienza può, forse, aiutare a capire perché molte persone credono ancora che certe date portino sfortuna e perché, quindi, tendono a modificare i loro comportamenti in quei giorni.

 […]

Alla radice di queste credenze c’è spesso un motivo legato alla cultura del Paese e del popolo che la condivide. Per esempio, perché in Italia il 17 è considerato un numero sfortunato e se abbinato al venerdì lo trasforma nel peggior giorno possibile, simbolo di cattiva sorte? Per alcuni il motivo sta nel fatto che il 17, in numeri romani, si scriva XVII che anagrammato diventa VIXI, cioè ho «vissuto», «la mia vita è finita» e dunque sarebbe un presagio di morte.

 Per altri l’origine sarebbe invece biblica perché nell’Antico Testamento si racconta che il Diluvio Universale cominciò il 17 del secondo mese. Il venerdì, poi, sarebbe considerato sfortunato a causa della morte di Gesù, avvenuta proprio il Venerdì Santo. In questo modo il giorno peggiore per una persona superstiziosa, sarebbe sicuramente venerdì 17 novembre, mese dei defunti. Ma anche il 13 non scherza, con la fama negativa che ha negli Stati Uniti, in Finlandia o nel Regno Unito. […]

Il risultato è che una volta cristallizzate, tali credenze diventano molto difficili da scardinare. Quando poi a questo meccanismo psicologico si aggiungono i potenti effetti delle influenze sociali, la nascita di una qualsiasi superstizione in un gruppo sociale è pressoché garantita. Così troviamo la paura del venerdì 17, quella di camminare sotto una scala o di rompere uno specchio o di non sposarsi di martedì e venerdì.

 […] il significato negativo del venerdì 17 è come un meme, una semplice informazione associata alla sfortuna che rimbalza da una persona a un’altra, diffondendosi in tutta la cultura di una società che condivide certi valori e certe conoscenze.  

È per questo meccanismo che anche alcune aziende o soggetti coinvolti con le pubbliche relazioni a volte sembrano propensi ad assecondare queste superstizioni popolari. Così, in Belgio le lamentele di alcuni passeggeri superstiziosi hanno indotto la compagnia aerea Brussels Airlines a cambiare il proprio logo nel 2006, aggiungendo un 14° punto all’immagine simile a una “B” composta da 13 punti.

Per lo stesso motivo altre compagnie aeree hanno deciso di saltare il 13 nella numerazione delle file dei posti sui propri aerei. Finanche la Nasa smise di numerare in sequenza le missioni Shuttle, doppiando il 13° volo della navetta, indicato con la sigla STS-41-G, alcuni ipotizzano a causa della drammatica e quasi mortale missione Apollo 13 e per la fobia del numero 13 dell’allora amministratore della Nasa James Beggs. Insomma, a dirla con Peppino de Filippo, «non è vero ma ci credo»!

Superstiziosi, venerdì 17 non porta alcuna "iella". Francesca Catino su Panorama il 17 Febbraio 2023.

Venerdì 17 per i superstiziosi è il giorno più infausto dell’anno. Ma sarà davvero così? Gli studiosi la pensano diversamente.

Vi siete mai chiesti perché il 17 porti sfortuna? E perché proprio di venerdì? Per alcune persone, più che una superstizione, quella del numero 17 può essere vissuta come una vera e propria fobia. In questo caso si parla di “eptacaidecafobia”. Ci sono diverse teorie in merito alla questione. Le origini di questo apocalittico giorno nascono dagli antichi greci, i quali sostenevano che il 17 si trovasse tra due numeri -il 16 e il 18- perfetti nella loro rappresentazione geometrica di quadrilateri 4×4 e 3×6. Oppure, anche nell’Antico Testamento è scritto che il diluvio universale cominciò proprio il 17 del secondo mese (Genesi, 7-11 e/o Genesi 7:11) nell’anno seicentesimo della vita di Noè. La combinazione venerdì e 17 è, invece, di origine cristiana: nella Bibbia è scritto che Gesù morì di venerdì. Ma questo venerdì 17 è davvero così maledetto? In verità si tratta di un giorno come un altro. Non succede proprio nulla di speciale. Nessun uomo panzuto e barbuto che sfreccia nella notte stellata per scivolare nei vostri camini. Niente celebrazioni, banchetti o minuti di silenzio. Solo in numerologia viene visto di buon occhio. I numerologi, infatti, attribuiscono al 17 un valore legato all’ambizione, ai risultati, alla creatività, coraggio, talento, ottimismo e azione spirituale. Simboleggia anche buona fortuna, ricchezza e gioia. E’ composto dai numeri 1 e 7. Il numero 1 rappresenta motivazione, leadership, individualità, assertività e progresso. Mentre il numero 7 indica il risveglio e l’illuminazione spirituale. Ricordiamo che la numerologia è una materia estremamente antica, nata con il matematico e filosofo Pitagora, quindi, all’incirca, parliamo di uno studioso che visse nel periodo antecedente la nascita di Cristo di ben 500 anni. Le ricerche di Pitagora si fermano al numero 7, ritenuto dal matematico il massimo dell’espressione spirituale, tant’é che accoglieva nella sua scuola solo membri nati il giorno 7. Dopo Pitagora, sono arrivati altri matematici che hanno interpretato e studiato a fondo numero per numero. Fino ad oggi. Grazie ai millenni di ricerche e documentazioni, oggi possiamo letteralmente “dare i numeri” e trarre delle indicazioni per mappare al maglio il nostro percorso su questa terra. Secondo Alejandro Jodorowsky, figura di spicco nel mondo della tarologia da più di quarant’anni, il 17 è il numero rappresentato dalla carta “La Stella” , nei tarocchi marsigliesi. Infatti, la 17esima carta è portatrice di significati assai luminosi, quali: dono di sé al mondo, accoglienza medianica, aiuto provvidenziale, amore universale, grazia, musa, azione altruistica, donna realizzata, pace, armonia, musica, profumo, paradiso. Ma anche nostalgia e spreco dell’energia nel passato. In virtù di tutto questo, è difficile rimanere attaccati al bigottismo che ha scatenato tutto il razzismo che questo numero ha subìto nel corso dei secoli. Resta il fatto che ognuno è libero di scegliere il significato dell’esistenza e del senso stesso della vita. Ma i numeri hanno sempre agito per portare chiarezza laddove c’era solo caos. Tant’è è vero che siamo tutti dipendenti dai numeri. Ci servono per vivere, per scandire il tempo, per far tornare i conti e tanto altro. Ed è grazie ai numeri se abbiamo scoperto molte delle leggi che governano il nostro universo. Quindi, godetevela, oggi è un buon giorno per non aver paura.

Carnevale 2023, tutte le date: quando inizia e quando finisce, giorni di vacanza, martedì grasso. Chiara Barison su Il Corriere della Sera il 4 Febbraio 2023.

A Milano i festeggiamenti durano 4 giorni in più grazie al rito ambrosiano: le differenze con quello romano. L'origine della festa e il perché delle maschere 

Carnevale è alle porte: tra poco maschere e coriandoli colorati inizieranno a invadere le strade di tutta Italia. Innanzitutto, bisogna ricordare che il Carnevale è una festa "mobile", le cui date cambiano ogni anno. Le uniche cose certe sono che è sempre una domenica e che precede di 6 settimane la Pasqua.

Carnevale nel 2023: quando inizia e quando finisce

Carnevale nel 2023 inizia domenica 5 febbraio – 70 giorni prima della domenica di Pasqua che nel 2023 sarà il 9 aprile - e si conclude martedì 21 febbraio, il cosiddetto Martedì Grasso. In base al rito romano bisogna tenere d'occhio anche il 16 febbraio (Giovedì Grasso), mentre la vera e propria domenica di Carnevale sarà il 19 febbraio. Il 22 febbraio sarà invece il Mercoledì delle Ceneri, il momento che segna l'inizio della Quaresima. 

Vacanze di Carnevale 2023

Gli studenti italiani potranno godere di almeno un paio di giorni di vacanza: la maggior parte dal 20 al 21 febbraio, in una parte della Lombardia invece il 24 e 25 febbraio (il motivo è nel rito ambrosiano di cui parliamo sotto), dal 20 al 22 febbraio in Veneto, Friuli Venezia Giulia e Valle d'Aosta e dal 20 al 26 febbraio nella provincia di Bolzano.

Rito romano e rito ambrosiano

Nell'arcidiocesi di Milano il Carnevale dura 4 giorni in più del resto d'Italia. Il motivo è dovuto all'osservanza del rito ambrosiano. Attorno a questo dettaglio circolano diverse leggende che coinvolgono la figura da cui il rito prende il nome: Sant'Ambrogio, il patrono di Milano. Tutte hanno un comun denominatore, ossia l'assenza del vescovo Ambrogio nei giorni conclusivi del Carnevale perché impegnato in un pellegrinaggio. Una prima versione narra che fosse stato Ambrogio stesso a chiedere ai cittadini di aspettare il suo rientro per festeggiare, mentre secondo un'altra ipotesi furono gli stessi milanesi a decidere. Leggende a parte, la versione più realistica attribuisce il ritardo al passaggio dal calendario giuliano a quello gregoriano del 1582.

Le origini del Carnevale

Il termine Carnevale ha origine dal latino carnem levare (togliere la carne), con riferimento al banchetto che si allestisce il Martedì Grasso prima del periodo di restrizioni della Quaresima. Anche se la cultura carnevalesca come la conosciamo oggi fa parte della tradizione cristiana - che ha introdotto l'abitudine di organizzare un ultimo banchetto prima dell'inizio della Quaresima – troviamo tracce anche nella cultura egizia, in cui si onorava la dea Iside con feste in maschera, così come nei Saturnali romani e nelle Dionisiache greche.

Le maschere di Carnevale

Il simbolo per eccellenza del Carnevale sono le maschere, il cui significato è di temporaneo rovesciamento dell'ordine precostituito. Lo scopo è prendersi gioco dei potenti o, più in generale, dei vizi umani. Per questo motivo è anche un periodo in cui scherzi e prese in giro (bonarie) sono del tutto lecite. Ogni Regione d'Italia ha la sua maschera e tra le più famose ci sono sicuramente la bergamasca Arlecchino (il cui nome è diventato sinonimo del termine multicolore, in onore delle losanghe che compongono la sua tuta) e la napoletana Pulcinella. In tutti i casi si tratta di personaggi che rappresentano la lotta contro i potenti e l'ordine precostituito che opprime i poveri. Una delle maschere femminili più iconiche è la veneziana Colombina - la stessa che sorvola piazza San Marco appesa a una carrucola – incarna le doti della domestica fedele ma astuta quanto basta per aggirare il burbero padre.

I coriandoli

Oltre alle maschere, l'altro simbolo per eccellenza del Carnevale sono i coriandoli colorati. La loro prima apparizione risale all'inizio del '500 in cui i frutti della pianta del coriandolo venivano rivestiti di zucchero. Il risultato erano confettini profumati perfetti per essere lanciati sulla folla mascherata. La loro produzione però era molto costosa, quindi presto vengono sostituiti da piccole palline create con il seme del coriandolo ricoperto di gesso. Invece, i piccoli dischetti di carta che lanciamo ancora oggi sono stati introdotti sul mercato nel 1875. L'idea venne all'industriale milanese Enrico Mangili, che li creò recuperando gli scarti dei fogli che venivano usati come lettiera per i bachi da seta. Inizialmente tutti di colore bianco, dopo l'inizio della produzione a livello industriale si decise di fabbricarli anche colorati.

Il Carnevale nel mondo

Uno dei Carnevali più rinomati del mondo è quello di Venezia. Anche Viareggio vanta una lunga tradizione: iniziò nel 1873, quando un gruppo di borghesi decise di mascherarsi per protestare contro le tasse, così alcuni giovani ebbero l'idea di fare una parata di carrozze sbeffeggiarsi dei potenti. A Ivrea invece si tiene ancora la famosa battaglia delle arance e il simbolo è la Vezzosa Mugnaia, introdotta per la prima volta nel 1858. Spostandosi all'estero, la bataille des fleurs di Nizza è degna di nota: centinaia di fiori freschi vengono lanciati dai carri sulla folla e ogni anno c'è la sorpresa di un tema diverso. Infine, il Carnevale di Rio de Janeiro è la quintessenza di un Brasile vivace e colorato che celebra la festa a ritmo di samba.

Feste da Guinness. Carnevali senza limiti. Linda Mambelli su L’Inkiesta il 18 Febbraio 2023

Il più lungo, il più dolce, il più battagliero… ogni angolo d’Italia festeggia il carnevale a modo suo, ma alcune di queste feste in un modo o nell’altro sono riuscite a conquistare un record imbattibile (e guarda caso in tutte si mangia)

Atto dovuto: partire da Venezia, il più antico d’Italia

Può tranquillamente essere definito anche come il più elegante o il più affascinante, ma si tratta di valutazioni in fondo soggettive, mentre l’indiscutibile primato di antichità è legato al fatto che la sua prima citazione in uno scritto veneziano risalga a un testo del doge Vitale Falier del 1094, mentre il primo documento pubblico ufficiale a farne menzione è un editto del 1296 con cui il Senato della Repubblica dichiarò festivo il giorno precedente la Quaresima.

Il carnevale di Venezia è quello che tutto il mondo ci invidia, o al quale tutto il mondo cerca assistere almeno una volta nella vita, e questo lo rende competitivo ai massimi livelli anche nella graduatoria dei più affollati.

Sono diverse le golosità tipiche veneziane che accompagnano con dolcezza la pioggia di stelle filanti e coriandoli della Serenissima: tra questi le fritole, o fritoe venexiane, frittelle talmente amate dal popolo che già nel 1600 venne costituita un’Associazione a numero chiuso di Fritoleri dediti alla tutela e trasmissione dell’arte friggitoria, i galani, versione veneziana delle chiacchiere, sottili nastri di pasta che si differenziano per forma e friabilità dai più spessi crostoli, e i mammalucchi (o mamelucchi), dolcetti fritti al profumo d’arancia dalla ricetta segretissima e che una leggenda – questa volta non vincitrice di record di originalità – vuole nati dall’errore di un pasticciere.

Carnevale di Fano, quasi il più antico ma di sicuro il più dolce

Come visto Venezia rimane imbattibile (1296), ma secondo un documento conservato nell’archivio storico comunale i primi festeggiamenti carnevaleschi a Fano si sono tenuti nel 1347, dunque una tradizione di tutto rispetto, tanto che nello statuto cittadino promulgato dai Malatesta nel 1450 festeggiare prima dell’avvio della Quaresima viene addirittura definito “necessario”.

Oggi la città marchigiana ha deciso di puntare tutto sulla dolcezza, definendo il proprio come “il Carnevale più dolce d’Italia” a causa dell’incredibile quantità (una media di 180 quintali) di caramelle, cioccolatini e dolciumi gettati dai carri allegorici durante le sfilate per le vie cittadine.

Senza dover correre rischi per la propria incolumità sotto una tale pioggia di zuccheri in varie forme è comunque possibile godere della dolcezza marchigiana gustando il dolcetto tipico locale dal nome che, in pieno stile carnevalesco, può trarre in inganno: si tratta degli arancini, ovvero frittelle di pasta lievitata aromatizzate all’arancia dalla caratteristica forma di girandola. Diventano limoncini se aromatizzati al limone.

Il carnevale più lungo inizia con Babbo Natale ancora nei paraggi

Scendiamo lungo tutto l’Adriatico per arrivare in Puglia, al Carnevale di Putignano, probabilmente il carnevale dai festeggiamenti più lunghi, dato che l’inizio è ufficialmente sancito il 26 dicembre con la Festa delle Propaggini. Le origini di questa tradizione risalgono al 1394, anno in cui i Cavalieri di Malta trasferirono le reliquie di Santo Stefano dall’abbazia di Monopoli alla chiesa di Santa Maria la Greca a Putignano, dove sono custodite tutt’oggi, per meglio proteggerle dai frequenti attacchi e razzie da parte dei Saraceni.

I contadini di Putignano, che in quel momento erano impegnati nell’innesto delle viti con la tecnica della propaggine (che consiste nel dar vita a nuove piante interrando i tralci senza reciderli dalla pianta madre), al passaggio dei Cavalieri abbandonarono i campi per accodarsi festanti al corteo, ballando e cantando per la gioia di avere in loco la protezione del Santo e improvvisando versi satirici in vernacolo. Questa tradizione si è mantenuta ancora oggi: in abiti da contadini e arnesi da lavoro gruppi di poeti dialettali ripercorrono l’anno appena trascorso nel corso di una divertente esibizione, recitando versi in rima riguardanti politici e personaggi noti della città.

Risale invece agli anni ’50 l’ideazione di una maschera tipica che accompagnasse i cortei dei festeggianti: si tratta di Farinella, una sorta di allegro giullare al quale è stato dato il nome di un alimento tipico locale realizzato macinando orzo e ceci tostati e accompagnando questa semplice ma sostanziosa farina con brodo, a mo’ di polentina, e prodotti locali come ortaggi, olio e fichi.

Ritorno alle origini: il carnevale più ancestrale

Ci spostiamo nel cuore della Sardegna, nella Barbagia, per un carnevale questa volta arcaico, primordiale, dove ancora è evidente il legame con i riti legati al mito di Dioniso, la divinità greca che rappresenta l’energia e la forza vitale della natura.

A Mamoiada il 16 gennaio viene acceso un grande fuoco propiziatorio in onore di Sant’Antonio Abate, l’eremita che, novello Prometeo, secondo la leggenda rubò il fuoco agli inferi per donarlo agli uomini. Il giorno successivo, festa del Santo, la festa ha ufficialmente inizio e l’evento più atteso è la sfilata di Mamuthones e Issohadores: i primi indossano maschere nere sul viso, hanno il corpo ricoperto da pelle di pecore e sulla schiena un gran numero di campanacci che suonano ritmicamente al loro lento incedere, i secondi, con maschere bianche e giacche rosse, si muovono più agilmente e animano la processione lanciando “sa soha”, una corda con la quale catturano prede fra il pubblico.

Su pistiddu, o sa cogone de pistiddu, una frolla ripiena di mosto cotto, è il dolce tipico dei festeggiamenti di Sant’Antonio Abate, mentre culurgiones de mendula o anzelottos (ravioli fritti ripieni di mandorle tritate e cotte nello sciroppo di zucchero o nel miele) e sas orulettas o urilettas (treccine dolci fritte) sono tipiche del periodo carnevalesco.

A Ivrea il più antico Carnevale Storico, con tanto di combattimento

Quello di Ivrea è un carnevale decisamente battagliero le cui radici risalgono al Medioevo. Per tre giorni nelle piazze cittadini si assiste (possibilmente a distanza di sicurezza, anche se indossare il rosso Berretto Frigio dovrebbe garantire immunità) alla spettacolare Battaglia delle Arance, una realistica rappresentazione di rivolta popolare dove squadre di aranceri a piedi e sui carri si colpiscono al suon di settemila quintali di arance, nella festa moderna misteriosamente sostitutive dei fagioli che in origine erano il vero oggetto dei lanci. Nessuno spreco di cibo però: si tratta di frutti provenienti da aziende calabresi e siciliane che operano nel circuito Libera, comunque non destinati al consumo umano e i cui resti vengono responsabilmente recuperati e trasformati in compost. Insomma delle arance resta solo un piacevole profumo.

La colossale Fagiuolata di Santhià

Chiudiamo questo giro d’Italia con quello che viene definito dalla proloco locale come «Un evento dalle dimensioni colossali» e le parole non sono scelte a caso: 20 quintali di fagioli qualità Saluggia, 150 caldaie di rame, oltre 20.000 razioni distribuite, più di 300 addetti sono le misure necessarie a gestire questo grandioso festeggiamento che caratterizza sin dai tempi più remoti il Carnevale di Santhià. La sacralità del procedimento è sancita dalle “sveglie” suonate fin dall’alba del lunedì grasso dal Corpo Pifferi e Tamburi per dare inizio alle operazioni di preparazione. La riuscita della manifestazione è legata alla stretta osservanza della ricetta tradizionale, realizzata con ingredienti semplici (fagioli, lardo, salami e poco altro) e tale da rendere il piatto facilmente replicabile mantenendone fedele il gusto.

La ricetta prevede dettagliatamente anche le modalità di distribuzione delle porzioni: al termine della cottura, «dopo la Benedizione del Prevosto e lo sparo di un fucile», i fagioli vengono ripartiti nella piazza del paese «nel seguente modo: un mestolo di fagioli, una porzione di salame, una pagnotta di pane, il tutto rigorosamente in recipienti di ogni fattura e dimensione, che la popolazione santhiatese si porta dalle rispettive abitazioni».

I Carnevali più belli d'Italia. Mariella Baroli su Panorama il 15 Febbraio 2023

Le tradizioni sono molteplici, così come le “maschere”, a partire da quelle veneziane al famoso Carnevale di Viareggio che quest’anno celebra i suoi primi 150 anni

Questo 16 febbraio apre le porte al Carnevale 2023, un periodo di circa una settimana dedicato ai piaceri del cibo e al divertimento, prima della Quaresima. Lo stesso termine «carnevale» sembra infatti derivare dal latino «carne levare» (eliminare la carne) a indicare l’ultimo banchetto prima dell’astinenza. Il Carnevale è un periodo di festa, dove l’ordine viene capovolto, anche se per breve tempo, come insegnano le tradizioni dei Saturnalia latini e dei culti dionisiaci con i quali si festeggiava il passaggio dall`inverno alla primavera. O come sottolineato dal drammaturgo Giovan Battista Fagiuoli: «Carnovale, Carnasciale, o Carnesciale, come noi vogliam dire è lo stesso tempo di feste, di quelle, che da' Latini si dicono Bacchanalia: e cosí le dissero, perché derivaron da Bacco».

Destinato a concludersi il 21 febbraio con il Martedì Grasso (o il 25 febbraio, se si segue il Carnevale Ambrosiano), il Carnevale viene celebrato in Italia con sfilate in costume e carri allegorici. Le tradizioni sono molteplici, così come le “maschere” , a partire da quelle veneziane al famoso Carnevale di Viareggio che quest’anno celebra i suoi primi 150 anni. Ma scopriamoli uno per uno. iStock Carnevale di Venezia Uno dei più conosciuti e apprezzati carnevali al mondo, il Carnevale di Venezia ha origini antichissime. La prima testimonianza risale a un documento del 1094 dove si parla di divertimenti pubblici e si cita per la prima volta il termine «Carnevale». Il primo documento ufficiale risale però al 1296, quando il Senato della Repubblica dichiarò festivo il giorno precedente alla Quaresima (quello che oggi celebriamo come Martedì Grasso)

Oggi il Carnevale di Venezia anima l’intera città e coinvolge milioni di persone. Tra gli eventi immancabili troviamo il volo dell’Angelo (con la sua emozionante discesa dal campanile verso la Loggia) e la Festa delle Marie. iStock Carnevale di Viareggio Giunto al suo 150 anniversario, il Carnevale di Viareggio è noto in tutto il mondo per i suoi carri allegorici. La fama del Corso Mascherato di Viareggio è cresciuta di pari passo con la crescita delle dimensioni dei carri allegorici. Oggi il Carnevale di Viareggio è un grande evento di arte, tradizione, spettacolo, cultura. Uno spettacolo che affascina pubblico da tutto il mondo. Il Carnevale di Viareggio riempie un mese intero di feste diurne e notturne, con sfilate di carri PUBBLICITÀ 16/02/23, 07:56 I Carnevali più belli d'Italia - Panorama https://www.panorama.it/Viaggi/italia/carnevale-piu-belli-italia 5/12 mastodontici, feste rionali, veglioni in maschera e rassegne di ogni genere. Il tema di quest’anno è Sogni, speranze, desideri di un mondo migliore. (Photo by: Claudio Ciabochi/Education Images/Universal Images Group via Getty Images) Carnevale di Fano La leggenda vuole che questo Carnevale sia nato nel 1347per celebrare la riconciliazioni tra due importanti famiglie della città, quella guelfa del Cassero e quella ghibellina Da Carignano (citate da Dante nella sua Commedia).

Il Carnevale di Fano è però noto anche per essere il Carnevale più dolce d’Italia data la tradizione del lancio dei dolciumi. Se infatti a Ivrea vengono gettate arance, a Fano, durante i secondo giro dei carri allegorici è tradizione lanciare quintali di dolciumi di ogni tipo verso la folla. Si conta che ogni carro abbia una scorta di circa dieci quintali, ma a contribuire al getto ci sono anche le tribune sparse lungo viale Gramsci. Simbolo del Carnevale è il Pupo che dal 1951 costituisce la caricatura del personaggio più in vista del momento. Quest’anno è il turno di Samantha Cristoforetti

Carnevale di Ivrea Il Carnevale di Ivrea affonda le sue radici nel Medioevo. Un evento unico in cui storia e leggenda si intrecciano per dar vita a una grande festa civica popolare dal forte valore simbolico, durante la quale la comunità di Ivrea celebra la propria capacità di autodeterminazione ricordando un episodio di affrancamento dalla tirannide di medievale memoria. Noto ai più per la spettacolare Battaglia delle arance che si svolge per tre giorni nelle principali piazze cittadine, migliaia di turisti accorrono ogni anno per prendere parte nella battaglia, «un concentrato di ardore e lealtà». La battaglia è combattuta da nove squadre - Asso di Picche, Morte, Scacchi, Scorpioni d’Audino, Tuchini del Borghetto, Pantera Nera, Diavoli, Mercenari e Credendari - che occupano ognuno una zona fissa. A essere valutati non sono però solo l’ardore del tiro e la sua precisione, ma anche la qualità degli allestimenti e i finimenti dei cavalli. Vera protagonista è però la Vezzosa Mugnaia, simbolo di libertà ed eroina della festa sin dalla sua apparizione nel 1858

Gemellato ufficialmente con il Carnevale di Rio de Janeiro nel 1993, le prima tracce del Carnevale di Cento risalgono addirittura al 1600, grazie ad alcuni affreschi del famoso pittore centese Gian Francesco Barbieri detto il “Guercino”. Il Carnevale di Cento si svolge solitamente in cinque domeniche ed è celebre per i suoi carri dove compaiono immancabili i personaggi dello spettacolo italiano e internazionale. La parata è accompagnata da una moltitudine di figuranti, canti e balli e dal “gettito” di peluche, gonfiabili e altri simpatici doni. Il momento più importante è però rappresentato dal rogo della maschera «Tasi», re del Carnevale centese dagli inizi del Novecento e rappresentazione allegorica di Luigi Tasini, un personaggio ottocentesco realmente esistito che simboleggia la coscienza dei cittadini di Cento. Il fantoccio che rappresenta Tasi viene bruciato in piazza con un rito propiziatorio, dopo aver letto il testamento che accusa i centesi dei loro vizi

Non sono tutte chiacchiere. Le tradizioni gastronomiche del carnevale italiano, da Nord a Sud. Thea Papa su L’Inkiesta l’11 Febbraio 2023

I famosi nastri fritti che addolciscono l’ingresso nel digiuno quaresimale sono solo una delle leccornie carnevalesche tipiche del Belpaese. E non sono tutte zuccherate

Bugie, cenci, crostoli, fiocchetti, frappe e sfrappole. Sono solo alcuni dei simpatici nomi affibbiati all’emblema culinario di questa festa, nonché erede naturale dei frictilia offerti nell’Antica Roma in occasione dei Saturnali e dei Baccanali. Insieme a costumi, maschere e parate, i piatti tipici del carnevale sono i protagonisti di questo momento di indulgenza che precede il Mercoledì delle ceneri: dunque abbandoniamoci insieme agli eccessi del buon cibo per meglio sopportare i doverosi fioretti della Quaresima, tanto sacrificanti quanto propedeutici alla prova costume.

Frittelle alla salvia e vin brulè in Val Lumiei

Iniziamo la nostra avventura in un borgo di montagna che conta meno di quattrocento anime ma è famoso in tutta Italia per il suo prosciutto dal gusto inconfondibile, diverso da tutti gli altri grazie alla leggera affumicatura conferita dalla combustione naturale del legno di faggio. Il Carnevale di Sauris (Zahrar Voschankh) è senza dubbio il più suggestivo di tutto il Friuli, e ha origini antichissime tramandate dai primi contadini e allevatori che dalla zona di confine tra Carinzia e Tirolo si insediarono nel paese verso la fine del tredicesimo secolo.

L’evento culminante è la “Notte delle lanterne” che si tiene il Sabato grasso: il Rölar, cinto da rumorosi sonagli (röln), e il Kheirar, armato di scopa, cacciano gli spiriti maligni e guidano attraverso il bosco un corteo misto di maschere lignee e spettatori curiosi; facendosi luce con le lanterne, percorrono al chiaro di luna i sentieri innevati che li condurranno al grande falò propiziatorio, dove potranno rinfrancarsi con una tazza di vin brulè e delle frittelle calde aromatizzate alla salvia.

Venerdì gnocchi in quel di Verona

Il Carnevale di Verona, meglio conosciuto come “Bacanàl del Gnoco”, trarrebbe origine dalla sollevazione popolare contro i fornai durante la terribile carestia sofferta nei primi decenni del Cinquecento a causa delle incursioni dei Lanzichenecchi e delle inondazioni dell’Adige. La povera gente venne sfamata grazie all’intervento di alcuni virtuosi cittadini, primo tra tutti Tommaso da Vico, che distribuì a sue spese generi alimentari di ogni tipo: pane, vino, formaggio e soprattutto gnocchi (di acqua e farina) venivano serviti sulla “pietra del gnocco”, ancora ben visibile davanti al sagrato della Basilica di San Zeno.

La tradizione narra che il dottore veronese lasciò nel suo legato testamentario (mai rinvenuto) l’obbligo di elargire viveri ogni Venerdì grasso, per ricordare il giorno in cui il suo magnanimo gesto scongiurò la tragedia. Per rievocare questo personaggio nasce quella che viene considerata la più antica maschera d’Europa di cui si abbiano documenti certi: il “Papà del Gnoco”, eletto annualmente tra i cittadini veronesi, è un uomo anziano e rubicondo dalla lunga barba bianca, avente come scettro una forchetta dorata che infilza uno gnocco; il Venerdì Gnocolàr sfila a cavallo di una mula distribuendo porzioni di gnocchi conditi con la famosa pastissada de caval.

La focaccia trentina “scacciafame”

«Onto e bisonto soto tera sconto, sconto ‘n te ‘na cassetta se te ‘ndovini ten dago ‘na fieta»

Così recita la filastrocca dedicata allo “smacafam”: si tratta di una focaccia salata condita con lucanica trentina e lardo (o pancetta affumicata, a seconda della vallata) che tradizionalmente veniva cotta sotto la cenere (soto tera sconto); la variante moderna preparata in forno è certamente meno romantica ma non per questo meno golosa. Per placare i sensi di colpa accompagnatela con un tocco “green”: il tarassaco oppure un’insalata di patate e fagiolini si abbinano perfettamente, così come i crauti. E se dovesse avanzare niente paura, perché il giorno dopo è ancora più buono: «Lo smacafam per ancoi e per doman».

La polenta dei poveri in Piazza del Kuerc

A Bormio l’anarchia regna sovrana, ma solo per un giorno, esattamente la domenica che cade cinquanta giorni prima di Pasqua: il sindaco, cedendo il posto al Podestà di Mat con tanto di incoronazione ufficiale, trasferisce i suoi poteri alla Compagnia di Mat capeggiata da Arlecchino, il quale legge pubblicamente i pettegolezzi e le lamentele imbucate dai cittadini nella cassetta collocata al centro di Piazza del Kuerc. La polentata dei poveri è l’atto finale di questo folle governo, che un tempo vantava una giurisdizione illimitata per ben sette giorni all’insegna degli eccessi.

La seuppa del Camentran de Creméyeui

I volontari del comitato organizzatore del Carnevale di Courmayeur si mettono all’opera sin dalle prime ore del mattino affinché la zuppa sia pronta per l’ora di pranzo: pane raffermo, fontina, verza e burro a volontà sono gli ingredienti di questa prelibata pietanza che ha l’onore di aprire i festeggiamenti del Martedì grasso. Il tutto è innaffiato dall’allegria dell’esercito dei quaranta “beuffons” che annunciano con i loro campanacci l’arrivo dei carri allegorici. La giornata si chiude con la gara di taglio del tronco (“Seittòn”), un’ottima occasione per smaltire la seuppa, soprattutto se avete fatto il bis!

I fagioli grassi che diedero inizio alle schermaglie

Il Carnevale di Ivrea è noto soprattutto per la “Battaglia delle arance” ma pochi sanno che le origini di questa spettacolare tradizione risalgono verosimilmente al diciannovesimo secolo, quando la gente sui balconi usava tirare fagioli alle carrozze dei ricchi in segno di scherno verso la ridicola elemosina a base di avanzi delle grasse fagiolate.

D’altra parte, la conformazione architettonica del centro storico ben si presta a questo tipo di comunicazione non verbale: anche le fanciulle erano solite accettare o incoraggiare il corteggiamento dei viandanti lanciando frutta e ortaggi. Non è ben chiaro come sia avvenuto il passaggio alle arance, ma ciò che è certo è che i fagioli che un tempo si gettavano dalla finestra oggi si mangiano: i faseuj grass (preparati con ritagli di carne e cotenna di maiale) vengono abitualmente consumati il Martedì grasso, giorno di abbondanza prima della Quaresima.

Le sciumette dimenticate (anche dai liguri)

Accanto a bugie, latte fritto, castagnole e frittelle di mele (del Borgo Coscia), in Liguria sopravvive un dolce antico ed elegante che merita di essere ricordato: le sciumette sono meringhe cotte nel latte bollente, servite su una delicata crema al pistacchio e spolverizzate di cannella. Parenti strette delle assai più celebri îles flottantes, se ne differenziano per il tocco di italianità regalato dal pistacchio e costituiscono una sana alternativa alle ghiottonerie cotte nell’olio facilmente reperibili su tutto il territorio nazionale.

Le tagliatelle (fritte) alla bolognese

Bando al salutismo per l’ultima tappa del nostro viaggio nordico attraverso i piatti caratteristici del carnevale: vi presentiamo un dolciume alquanto diffuso in Emilia-Romagna, che nasce dalla meravigliosa versatilità della sfoglia all’uovo, uno di quelli che potete preparare all’ultimo momento sfruttando gli avanzi delle “lasagnate” domenicali. La preparazione è tanto semplice quanto soddisfacente: sarà sufficiente stendere la sfoglia (preparata alla vecchia maniera, magari aggiungendo un goccio di rum), cospargerla con una farcia a base di zucchero e abbondanti zeste di arancia e di limone, per poi avvolgerla e ricavare dei dischi di tagliatelle naturalmente destinati a essere fritti.

Ci congediamo con questa chicca irresistibilmente croccante e profumata per lasciarvi con l’acquolina in bocca in attesa delle prelibatezze “mascherate” tipiche del Centro Italia.

"Pesce d'aprile": quali sono le origini? E come si festeggia nel mondo? Storia di David Mouriquand - Edizione italiana: Cristiano Tassinari su  Euronews Italiano l’1 aprile 2023.

 Anche se non è vera e propria festa nazionale, il primo di aprile - chiamato anche All Fools' Day - viene celebrato in molti paesi ogni anno, ovviamente il 1° aprile.

Giorno famoso e proverbiale per fare scherzi a partner, amici, famiglie, colleghi e praticamente tutti, il 1° aprile è visto come un'opportunità per ingannare i più creduloni... nel farli credere alle cose più stravaganti.

Il trionfo dei buontemponi, quindi. Ma non tutti gradiscono, s'intende. 

Ma quali sono le origini di questa giornata, e in che modo i paesi europei celebrano questa "festa pagana della follia"?

Ecco tutto ciò che bisogna sapere.

Che cos'è il pesce d'aprile?

La giornata consiste semplicemente nel fare scherzi e organizzare bufale e bugie "ad arte". I burloni spesso urlano "Pesce d'aprile!" alla loro vittima, e questa usanza è rimasta la stessa da centinaia di anni.

Da dove proviene?

L'origine del pesce d'aprile è piuttosto discussa.

Molti fanno risalire l'usanza alla Francia medievale, dove il 25 marzo era il giorno di Capodanno, fino a quando il calendario giuliano non fu riformato, nel 1564, e cambiato in calendario gregoriano.

Prima di allora, i festeggiamenti per il nuovo anno culminavano proprio il 1° aprile.

Dopo che il 1° gennaio è stato ufficialmente adottato come Capodanno, coloro che hanno dimenticato... di cambiare la data e hanno continuato a festeggiare il 1° aprile sono stati ridicolizzati ed etichettati come "pesce d'aprile".

Gli storici hanno collegato il pesce d'aprile a feste primaverili, come la festa medievale dei folli, in cui un signore del malgoverno veniva eletto per sbeffeggiare i rituali cristiani, alla presenza di Hilaria (dal latino "gioiosa"), celebrata nell'antica Roma alla fine del Marcia dei seguaci della dea frigia Cibele e del suo devoto Attis.

 I festeggiamenti includevano giochi, persone che si travestivano e prendevano in giro i loro vicini. Era l'occasione per la gente comune, mascherata, di imitare la nobiltà, prendendosene gioco, per una volta senza alcuna ripercussione.

Altri storici hanno sottolineato che il festival Holi, in India, che si svolge anch'esso a marzo, potrebbe essere l'origine della giornata del "pesce d'aprile".

Conosciuta come la Festa dei Colori, l'evento annuale ha lo scopo di onorare l'arrivo della primavera e il dio indù Krishna attraverso il cibo, la danza e il lancio di polvere di vernice.

Qual è il primo riferimento certo al 1° aprile?

Il primo riferimento certo viene da un poema comico fiammingo del 1561 di Eduard de Dene, in cui un nobile manda avanti e indietro il suo servitore per commissioni fastidiose e infruttuose.

Come dire: "le commissioni dello sciocco". 

Alla fine di ogni strofa, il servo si preoccupa che ciò che gli viene chiesto di fare non sia altro che uno scherzo.

Come si festeggia il pesce d'aprile in Europa?

Diversi Paesi hanno il loro modo tutto particolare di fare scherzi alle vittime del "pesce d'aprile".

In Francia, Belgio, Italia e nella Svizzera romanda, i festeggiamenti prevedono di attaccare un pesce di carta sul dorso di quante più persone possibile senza essere notati, e poi urlare "Pesce d'Aprile!"

Molti suggeriscono che il pesce potrebbe riferirsi a giovani animali facilmente catturabili...

Una cartolina celebrativa francese del "Poisson d'Avril". Public Domaine© Fornito da Euronews Italiano

In Inghilterra, il 1° aprile viene celebrato solo per mezza giornata. Gli scherzi sono consentiti solo fino a mezzogiorno: l'etichetta afferma che quando l'orologio segna mezzogiorno, bisognerebbe dire la verità e confessare i propri scherzi. Chiunque faccia uno scherzo dopo mezzogiorno è considerato il "pesce d'aprile" ufficiale (il tonto del giorno, per intenderci). 

Molto più divertenti sono i festeggiamenti del 1° aprile in Scozia, dove durano addirittura due giorni. Si chiama "Gowkie Day", per il gowk - o cuculo - il simbolo dello sciocco.

Ciò ha portato alcuni a pensare che il pesce d'aprile fosse originariamente associato all'essere... un cornuto. Il primo giorno, in Scozia, è celebrato con gli scherzi, mentre il secondo, noto come Tailie Day, è quando le persone si mettono la coda a vicenda (con tipico humour scozzese innaffiato di malt whisky)...

In Irlanda, la tradizione impone di mandare qualcuno a fare una "commissione da sciocchi". La vittima viene inviata a consegnare una lettera, generalmente chiedendo aiuto per qualcosa. Quando la persona riceve la lettera, la apre, la legge e dice al messaggero che dovrà portare la lettera a un'altra persona. Questo va avanti per un po', finché qualcuno non si sente "in colpa" e mostra alla vittima dello scherzo dice la lettera: "Manda lo sciocco a qualcun altro".

Nei Paesi Bassi, i cittadini tendono a catapultare o lanciare aringhe in direzione dei loro vicini e urlare "haringgek" ("sciocco di aringhe").

I tedeschi fanno uno scherzo chiamato "Aprilscherz", che consiste nel raccontare una storia piccante (o di pettegolezzi di paese), ma generalmente innocua, che è completamente inventata per ingannare gli altri.

In Grecia, si dice che ingannare con successo qualcuno in questo giorno porti fortuna al burlone per tutto l'anno. Tanto vale provarci...

I polacchi non scherzano, badano al sodo e lanciano un avvertimento: "Prima Aprilis, uważaj, bo się pomylisz!", Che si traduce in: "Pesce d'aprile, fai attenzione: puoi sbagliarti!"

Spagna e Portogallo festeggiano entrambi in giorni diversi. I portoghesi non celebrano il pesce d'aprile il 1° aprile e preferiscono la domenica e il lunedì prima della Quaresima. In questi giorni, le persone più burlone gettano farina sugli ignari passanti.

Per quanto riguarda gli spagnoli, il giorno degli scherzi si celebra il 28 dicembre come Festa dei Santi Innocenti, durante la quale nessuno può essere ritenuto responsabile delle proprie azioni, poiché i burloni sono considerati innocenti....

Scherzi del 1° aprile

Attenzione alle bufale sui media...

Nei tempi moderni, i notiziari hanno partecipato alla tradizione del 1° aprile facendo di tutto per creare elaborate e colossali bufale. 

Gli inglesi - con il loro spiccato humour - se la cavano piuttosto bene.

In Inghilterra era diventato uno scherzo popolare mandare le "vittime" credulone alla Torre di Londra per assistere al lavaggio dei leoni, una cerimonia che non esisteva e non è mai esistita.

Lo scherzo apparve per la prima volta su un quotidiano britannico il 2 aprile 1698, dove un articolo in prima pagina diceva: "Ieri, essendo il 1° aprile, diverse persone sono state inviate al Tower Ditch per vedere i leoni lavati".

Esempi di questa particolare bufala... leonina continuarono almeno fino alla metà del 1800.

Molto più tardi, il 1° aprile 1957, la BBC riferì che gli agricoltori svizzeri stavano sperimentando un raccolto record di spaghetti e mostrò filmati di persone che raccoglievano spaghetti... dagli alberi.

La BBC mostrò persino filmati di donne che raccoglievano fili da un albero e li stendevano al sole per asciugarli.

Molte persone finirono per crederci e la storia ha avuto così tanto clamore che la tv di Stato britannica, l'indomani, dovette ammettere lo scherzo. Che resta epocale, a quelle latitudini.  

La BBC, del resto, vanta un buon record in materia. Nel 2008, ha nuovamente ingannato il pubblico con il loro trailer virale di "Miracles of Evolution", che sembrava mostrare alcuni pinguini speciali che avevano riacquistato la capacità di volare.

Anche gli Stati Uniti sono eccellenti creatori di fake news, almeno per il 1 aprile. 

Nel 1992, la National Public Radio ha mandato in onda uno spot con l'ex presidente Richard Nixon che affermava che si sarebbe candidato di nuovo alla presidenza. La cosa ha colto di sorpresa il pubblico lo stesso Nixon, poi si sono arrivati ​​enormi sospiri di sollievo quando è stato rivelato che si trattava solo di un attore con la voce di Nixon e non Nixon.

C'è stato anche lo scherzo di NPR del 2014, in cui il media ha promosso una storia su Facebook intitolata: "Perché l'America non legge più?". La storia ha suscitato indignazione nella sezione dei commenti del post. Ma se i commentatori avessero effettivamente letto l'articolo, avrebbero visto che tutto ciò che diceva era: "Congratulazioni, veri lettori e buon pesce d'aprile!"

Anche le grandi compagnie non disdegnano gli scherzi del 1° aprile: Virgin Atlantic, ad esempio, ha rivelato il suo "Dreambid 1417", nel 2017, che vantava ali che si piegavano e si flettevano per creare un movimento di sbattimento che "non solo spinge l'aereo in avanti, ma genera la propria potenza per soddisfare ogni esigenza elettronica a bordo". (Vedi sotto.)

Per quanto riguarda Marmite, i creatori della crema spalmabile più amata (o odiata) della Gran Bretagna, una volta hanno annunciato il lancio di "Meh-Mite", una versione più blanda del topper per toast: mai arrivata sul mercato (per fortuna!) 

Quindi, fate attenzione alle informazioni che vi vengono fornite il 1° aprile.

Ad esempio, la parte precedente sull'aringa catapultata nei Paesi Bassi è una totale assurdità (ed è un nostro pesce d'aprile)

Ah, sì, nell'era delle "fake news" è difficile distinguere ormai le notizie inventate per scherzo il 1° aprile e tutte le altre notizie, degli altri 364 giorni dell'anno....

Giusto per essere chiari, tutto questo articolo si basa su fatti, controllati e verificati, come facciamo sempre. 

Ci siamo inventati solo la storia olandese delle aringhe. Ma era troppo ridicola per essere vera e, quindi, dovevamo raccontarvela.

Ora e sempre: "Memento Gulag". Ecco perché è fondamentale una giornata per ricordare i crimini del comunismo. Dario Fertilio il 7 Novembre 2023 su Il Giornale.

Memento Gulag: chi era costui? Semplice, una giornata della memoria dedicata alle vittime del comunismo. Fissata oggi, 7 novembre, per ricordare il lugubre anniversario della Rivoluzione d'Ottobre (chiamata così secondo il calendario giuliano allora usato in Russia), dovrebbe essere celebrata con solennità pari alle altre: invece viene spesso ignorata. (Anni fa, una manina maliziosa pensò bene di cancellarla persino dalle voci di Wikipedia, prima che un articolo tempestivo apparso su questo giornale rimettesse le cose a posto).

Come mai una simile congiura del silenzio? La prima, ovvia spiegazione è che nessun Paese europeo, compresa l'Italia, ha pensato finora di elevarla a celebrazione ufficiale. Poiché precede di due giorni la festa della Libertà per la caduta del Muro di Berlino, se venisse ricordata assumerebbe un più elevato significato simbolico, illustrando il prezzo pagato in tutto il mondo per ottenere quella vittoria (secondo calcoli approssimativi, dagli 80 ai 200 milioni furono le vittime). Il «Memento Gulag» è nato per iniziativa di alcuni intellettuali raccolti attorno alla figura di Vladimir Bukovskij, uno degli irriducibili dissidenti antisovietici: quando parlava dei lager comunisti, si rifaceva ad agghiaccianti esperienze personali. A partire dai primi anni duemila le celebrazioni sono state numerose, da Roma a Berlino, da Bucarest a Parigi, e arricchite dalle testimonianze dirette di molti reduci dai campi di concentramento. Ma, si sa, anche i migliori non vivono in eterno, per cui la loro progressiva scomparsa ha ridotto il richiamo dell'evento. Però il silenzio ha anche altre spiegazioni.

Lo stigma del genocidio impedisce, è vero, alla stragrande maggioranza dei cittadini europei di proclamarsi oggi apertamente, o nostalgicamente, o almeno in parte e idealmente, comunisti. Tuttavia non pochi restano legati a quella mentalità e ideologia. A loro favore lavora, naturalmente, il tempo e il cambio delle generazioni: agli occhi di chi ha sentito parlare dell'Urss e della Guerra fredda soltanto nei libri di storia, o al massimo ha intravisto vecchi documentari con le sfilate di carri armati sulla Piazza Rossa il 7 novembre, il comunismo può sembrare contemporaneo delle guerre puniche. E qui sta l'errore.

Come ogni ideologia totalitaria, il comunismo non smette di fare proseliti e affascinare, anche dopo il suo apparente e ufficiale decesso. Inoltre, anche se lo si ricorda raramente, una larga fetta dell'umanità continua a sperimentarlo sulla propria pelle. Perché si è evoluto e ibridato con altre ideologie e culture, ritrovando così in pieno la sua forza di penetrazione. Se a Mosca la nostalgia per il comunismo sovietico e per Stalin (ormai riabilitato) si combina con il culto imperiale nazionalistico («dove c'è etnia russa e si parla la lingua, là c'è la Russia»), nella vicina e vassalla Bielorussia di Lukashenko non si va tanto per il sottile: le statue di Lenin dominano le piazze. La vecchia polizia segreta si chiama ancora Kgb, e la statua di Feliks Dzerinskij, il vecchio capo, se ne sta nel centro di Minsk come perenne ammonimento. Quanto alla Cina, il nome del comunismo è negli slogan ufficiali, e il regime si regge su una combinazione di marxismo confuciano (che fa discendere l'autorità dal cielo) e di tecnologia avanzatissima, in grado di tenere sotto controllo i cittadini attraverso una griglia informatica onnipresente. Non parliamo poi della Corea del Nord, dove è in vigore una specie radicale di comunismo asiatico, basata sulla forza della razza e della sua purezza: la società è divisa in 51 classi in base alla discendenza e al grado di pericolosità verso il regime. In altri continenti, come l'America latina, il pugno di ferro del comunismo è più elastico: a Cuba può abbattersi su chiunque, in seguito alla segnalazione di una spia di condominio, ma può anche rimanere in sonno a lungo. Cosa che non succede invece in Nicaragua, dove il regine di Daniel Ortega sa dove colpire, e dirige la repressione soprattutto contro le istituzioni culturali della chiesa cattolica. Se poi si volesse indagare intorno alle varianti africane del comunismo, basterebbe gettare un'occhiata all'Eritrea di Isaias Afewerki, che decreta guerre e repressioni interne secondo il suo capriccio, coscrivendo giovani prelevati dalle chiese durante le messe, e schiacciando qualsiasi forma di dissenso.

Ce n'è abbastanza per comprendere che parlare di comunismo, oggi, significa guardare al presente e non solo al passato. E che ricordarsi del Memento Gulag, il 7 novembre, è un dovere morale da uomini liberi.

Storia del 4 novembre, una festa controversa tra mito e condanna della guerra. Anniversario della vittoria nel primo conflitto mondiale nel 1918, è diventato giorno dell’Unità nazionale e delle Forze armate. Attraversando le diverse anime del Paese, dalla celebrazione marziale del fascismo alla sensibilità anti-regime della Repubblica. Elisa Signori su L'Espresso il 3 Novembre 2023

È la più longeva tra le celebrazioni dell’Italia unita, l’unica scampata ai suoi terremoti politici, istituzionali, sociali. In oltre cento anni di rituali, la semantica del 4 novembre è stata rimodulata più volte restando però un appuntamento ineludibile. Istituita come festa nazionale e anniversario della Vittoria (il 4 novembre 1918 finì la Prima guerra mondiale, dopo l’armistizio di Villa Giusti con cui si completò l’unificazione) il 23 ottobre 1922 dal governo Facta, l’ultimo a guida liberale, fu poi trasformata nell’apoteosi delle celebrazioni volute dal fascismo per l’anniversario della marcia su Roma: un ciclo cerimoniale che, dal 28 ottobre al 4 novembre, saldava insieme il culto delle origini del fascismo e quello della patria vittoriosa. 

Caduto il regime, mentre guerra e occupazione insanguinavano parte del Paese, il governo Bonomi nel 1944 riprese l’anniversario: epilogo “glorioso” di un’altra guerra, apparve simbolo corroborante per l’identità collettiva. Nel 1949 fu inserito come Giorno dell’Unità nazionale nel calendario civile della Repubblica tuttora vigente: dal 1977, tuttavia, non più giorno festivo, è solennità civile da celebrarsi la prima domenica di novembre. 

Al cuore della celebrazione si pone la riflessione su pace e guerra, sul ruolo delle Forze armate, sul concetto di patria e sui sentimenti che suscita e, in definitiva, sull’orizzonte valoriale del Paese. Tanto che ripercorrerne nel tempo il mutevole statuto – parole, luoghi, liturgie – risulta esercizio illuminante per cogliere nell’atteggiarsi di governi e istituzioni la costruzione della memoria ufficiale su temi tanto cruciali. 

Fu il fascismo ad appropriarsi della vittoria nella Prima guerra mondiale, che divenne mito fondativo e cardine della nuova religione politica: ai mesti riti del cordoglio per i caduti si sostituirono celebrazioni marziali per esaltare i martiri-eroi, il cui sangue aveva dato nuova linfa alla nazione, proiettata verso un destino di potenza. L’emarginazione progressiva del re e la centralità del culto del duce connotarono cerimoniali sempre più complessi e militarizzati. Tranne nel 1941, quando ridivenne giorno feriale: con la guerra in corso al fianco della Germania era inopportuno ricordare la sconfitta inflittale nel 1918. 

L’ipertrofia celebrativa imposta agli italiani nel Ventennio alimentò per reazione nel Dopoguerra una sorta di avversione della classe dirigente repubblicana per la dimensione simbolico-rituale della politica e i fattori emozionali del patriottismo, così a lungo deviati in senso nazionalista e bellicista. Una ritualità fredda, una retorica stanca segnarono molti anniversari, conflitti di memoria e contestazioni politiche vi si incrociarono specie negli anni ’70. Tra le diverse sensibilità e interpretazioni spicca l’iniziativa di Randolfo Pacciardi delle «caserme aperte» o il pellegrinaggio a Redipuglia rilanciato da Giuseppe Saragat. 

Di tutti i discorsi pubblici suonano incisive e attuali le parole di Sandro Pertini: tenente nella Grande Guerra, da presidente ne sfidò il mito e la definì nel 1983 «come ogni guerra crudele, devastatrice, tragicamente impotente a risolvere i veri problemi dell’umanità». E ricordando i caduti nella Seconda guerra mondiale: «A essi toccò sacrificare la vita in un’avventura temeraria e ingiusta voluta da un regime tirannico». Fu l’unica volta in cui in un messaggio ufficiale alle Forze armate figurò la condanna esplicita del fascismo.

Festa del 2 giugno, com’è cambiato il compleanno della Repubblica. Le nostalgie monarchiche e fasciste, prima. Le influenze militariste, poi. L’anniversario del referendum che definì la forma dello Stato fu celebrato in modi diversi. Fino alla riscoperta del nesso tra Resistenza e Costituzione. E del patriottismo, oggi spesso travisato. Marina Tesoro su L'Espresso l'1 Novembre 2023

A causa di contestazioni e di ritardi nel conteggio dei voti nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946, la proclamazione ufficiale della Repubblica avvenne il 18, ma la legge (27 maggio 1949, n. 260) che la consacrò unica festa nazionale fissò come data il 2, cioè il momento dell’espressione della volontà del popolo. Solo nel 1953 si assegnò anche al 25 aprile la qualifica di festa nazionale.

L’entusiasmo per la Repubblica, e relativa festa, non fu di tutti. Si tennero da parte non solo i monarchici, ma anche quanti, per timore delle sinistre, offuscavano il nesso Resistenza, Repubblica, Costituente, Costituzione. Il primo anniversario si risolse in una scarna cerimonia tra il capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, e il presidente della Costituente, Umberto Terracini. Era iniziata la Guerra fredda; il governo De Gasperi navigava tra l’ostilità alla nostalgia fascista e monarchica e il timore di un uso politico della ricorrenza da parte dei social-comunisti.

Tra il 1948 e il 1949 la fisionomia del rito si venne definendo protocollare e austera: omaggio al Milite ignoto, deposizione della corona da parte del presidente, inno nazionale, parata militare ai Fori imperiali. L’anniversario subì uno slittamento semantico da celebrazione dei valori repubblicani e costituzionali a omaggio alle Forze armate. Rimase a lungo una festa “fredda”; a poco valsero l’aggiunta delle Frecce tricolori e del ricevimento nei giardini del Quirinale.

Negli anni ’70 si diffuse una cultura antimilitarista, critica della sfilata dei reparti armati. Il terremoto in Friuli del 6 maggio 1976 fu colto come occasione per sospendere la parata in segno di lutto: non si svolgerà più per diversi anni. Intanto, nel calendario civile, riformato nel 1977, vennero eliminate diverse festività e il 2 giugno prese a celebrarsi la prima domenica del mese. Si era ritenuto che la Repubblica potesse rinunciare alla memoria del suo atto di nascita e alla forza dei suoi simboli.

Fu il presidente Carlo Azeglio Ciampi, che intendeva diffondere tra i cittadini sentimenti di patriottismo costituzionale-repubblicano, a sollecitare una legge, nel novembre 2000, per ripristinare la festività nella data originale. Lui stesso ne spiegò l’intento: «Richiamare i simboli più significativi della nostra identità di Nazione, dal tricolore all’inno di Mameli, rievocando in tal modo il nesso ideale che lega il Risorgimento alla Resistenza, alla Repubblica e ai valori sanciti nella sua carta costituzionale». Il rito assumeva una nuova coloritura. Ritornava la parata militare, con qualche tono marziale in meno e con diverse sottolineature di riconoscenza sia ai reparti impegnati in operazioni di pace sia per le donne e gli uomini della Protezione civile.

Sergio Mattarella mostra grande sensibilità per i riti e i simboli repubblicani. Ed è voluto salire all’Altare della patria anche nel dilagare della pandemia. Tuttavia, il patriottismo costituzionale-repubblicano nel senso auspicato da Ciampi non si è universalmente diffuso. Anzi, oggi rischia di assumere un’altra intonazione, se guardiamo all’ampio sfoggio della parola «nazione» con ben diversi richiami.

Festa dei lavoratori, quel giorno che i padroni non hanno mai sopportato. Una data, canonizzata dalla Seconda Internazionale del 1889 in poi, che minava le certezze borghesi e che doveva esercitare pressione sui governi per conquistare le otto ore. E che via via si è caricata di significati diversi, fino al ridimensionamento simbolico. Francesco Torchiani su L'Espresso il 28 aprile 2023  

«Alle sette in punto il signor cavaliere Bianchini saltò giù dal letto e, affacciandosi alla finestra, ebbe due dispiaceri: vide che il cielo era tutto azzurro e che il muratore Peroni non era andato al lavoro». Così Edmondo De Amicis iniziava il suo “Primo Maggio”, romanzo scritto nei primi anni Novanta dell’Ottocento, ma lasciato nel cassetto (lo pubblicò Garzanti solo nel 1980). In quel «romanzo socialista», come lo definì il filologo Sebastiano Timpanaro, l’autore di “Cuore” coglieva nella serialità la vera forza di quella festa autoproclamata: ora c’era un giorno fisso che, ogni anno, sarebbe ritornato a minacciare le certezze borghesi dei Bianchini di tutto il mondo.

Le manifestazioni per il 1° maggio del 1890 si erano svolte imponenti negli Stati Uniti e in tutta Europa. A Londra, invece, quella data si era celebrata il 4, una domenica. Ai cortei avevano preso parte centinaia di migliaia di lavoratori: la manifestazione «è stata semplicemente sconvolgente», scrisse Friedrich Engels, «io ero alla tribuna 4 (un grande carro merci) e potevo abbracciare con lo sguardo solo una parte […] ma fin dove arrivava l’occhio erano tutti stretti stretti attorno all’altro».

Era stato il Congresso della Seconda Internazionale, riunitosi a Parigi nel 1889, a stabilire per il 1° maggio dell’anno successivo una manifestazione internazionale allo scopo di esercitare pressione sui governi, perché riducessero la giornata lavorativa a otto ore. Da par suo, l’American Federation of Labor aveva già fissato, sempre per il 1890, una grande manifestazione per ricordare il massacro di Chicago, avvenuto nei primi giorni del maggio 1886, quando presso Haymarket Square, dopo giorni di scioperi e proteste per le otto ore, gli scontri tra polizia e manifestanti erano culminati in un eccidio, seguito da una coda di arresti ed esecuzioni.

Certo, negli Usa il 1° maggio coincideva con il Moving-Day, il giorno in cui scadevano contratti e affitti. Tuttavia, sull’inizio del mese di maggio si era giocata, da molto prima della nascita del movimento operaio, una partita simbolica delicata. Come ha ricordato Adriano Prosperi, attorno al mese di maggio si era scatenata già in età moderna una lotta culturale e politica tra la Chiesa cattolica – e in seguito le chiese riformate – e le sopravvivenze di antiche feste pagane o precristiane legate alla fertilità dei campi: ci volle la determinazione di un Carlo Borromeo, solo per fare un esempio, per sostituire quelle ritualità con riti cristiani o adattare quelli vecchi a esigenze nuove.

Ma qualcosa di quegli elementi rituali e simbolici presenti nella sfera religiosa fu trasmesso anche alla celebrazione della nuova festività laica: «La propaganda è preghiera», scriveva a inizio Novecento lo storico socialista Ettore Ciccotti, mentre Filippo Turati avrebbe definito il 1° maggio «la Pasqua della nostra fede».

Canonizzata come festa dei lavoratori, la giornata del 1° maggio si è caricata di significati diversi nei decenni, consentendoci di rileggere, come una cartina al tornasole, passaggi centrali della storia più recente, italiana e internazionale. Il suo radicale ridimensionamento simbolico degli ultimi anni dice molto della polverizzazione e della svalutazione del lavoro, che ha travolto non solo le generazioni più giovani.

Quant’è contemporaneo il 25 aprile. Anche se c’è chi nega la Liberazione. Esperienza esistenziale, fatto politico e organizzazione paramilitare. La Resistenza si comprende solo tenendo unite le diverse istanze di chi ha combattuto. E prestando attenzione ai tentativi di denigrarla o semplificarla. Luca Casarotti su L'Espresso il 24 aprile 2023

Specie ai chiari di luna di quest’altra “notte della Repubblica” che è l’attualità, bisognerebbe avere sempre la pazienza di fare l’elenco delle cose dalle quali chi ha combattuto per la Liberazione ha voluto liberarsi. L’occupante nazista; la “repubblichina” di Benito Mussolini; lo sfruttamento del capitale; la disparità tra donne e uomini; il dominio coloniale dell’Italia…

È ormai un’acquisizione degli studi storici interpretare la Resistenza a questo modo, cioè scomponendola come attraverso un prisma, per scorgervi all’interno le diverse istanze di emancipazione che hanno dato forma a quell’unità di differenze in cui consiste il partigianato. Esperienza esistenziale, fatto imprescindibilmente politico e organizzazione paramilitare, la Resistenza non si capisce se non la si guarda nell’insieme di questi tre livelli. Nemmeno la si capisce se la si rimodella ogni volta all’uso e al consumo del momento, per quanto lo si faccia (talvolta) con le migliori intenzioni.

Ci sono, infatti, due modi di negare la Resistenza, speculari negli intenti, ma non dissimili negli esiti. Uno è l’aperta denigrazione, culto a cui un tempo si votavano i reduci alla Giorgio Pisanò, nel frattempo sdoganato a senso comune. Lo sdoganamento, beninteso, non va imputato solo agli scrittori di bestseller dal punto di vista dei vinti, che semmai l’hanno saputo captare e ne hanno profittato. Va invece ascritto ai cedimenti politici che si sono prodotti a partire dal passaggio di decennio Settanta-Ottanta (“L’aspra stagione” che dà il titolo al libro di Tommaso De Lorenzis e Mauro Favale) e poi con la crisi definitiva della “Prima Repubblica”.

Che cosa fa la vague dei denigratori? Descrive la guerra partigiana come un cumulo di crimini sanguinolenti e inspiegabili: il contrario di una liberazione. Così facendo, nega la dimensione esistenziale della Resistenza, ossia la sua moralità: l’aspirazione, cioè, a un’umanità opposta a quella dell’uomo fascista. Ma, a ben guardare, ne nega anche il valore militare, che era invece fin troppo noto ai nazifascisti (non stupiscano perciò le fantasticherie su via Rasella riciclate di fresco) e lodato dagli alleati. Lodato anche obtorto collo – va detto – perché da Londra e Washington non si vedeva propriamente di buon occhio il tipo di politicità che molte e molti di questi partigiani mettevano nell’agire.

L’altro modo di negare la Resistenza è quello elitista, di chi vede la Liberazione come appannaggio esclusivo di un’avanguardia in armi. Qui è invece la dimensione politica che rischia di finire offuscata: cioè il fatto che l’impresa della Resistenza non sarebbe stata tale senza il progetto di un nuovo Stato, che l’antifascismo politico era andato elaborando nei vent’anni della dittatura e nei venti mesi della Liberazione. Un progetto messo a punto sì da un’avanguardia, ma con una vocazione ugualitaria e universalistica.

Sarebbe comodo se il 25 aprile fosse il giorno a partire dal quale ci si può lasciare il passato alle spalle, perché tutto ricomincia da zero. Ma intendere così questa data significherebbe relegare la Resistenza fuori da una contemporaneità che invece ci appartiene, fosse anche solo perché dobbiamo ancora capirla fino in fondo. E l’oblio è l’inverso della comprensione.

Giornata della donna, nel lavoro e nel diritto al voto affondano le radici dell’emancipazione. Rappresentanza politica, occupazione, uguaglianza. Sono i capisaldi su cui si sono basate e si basano le rivendicazioni femminili. Dal movimento operaio del primo ’900 alla Resistenza e alla Costituzione repubblicana. Fino a oggi, con gli scioperi dell’8 marzo. Luca Casarotti su L'Espresso il 7 marzo2023

Nel 1977 Bianca Guidetti Serra pubblica “Compagne”, un libro che avrebbe fatto epoca, come l’anno in cui è uscito. Avvocata, partigiana (a lei Primo Levi ha indirizzato l’unico biglietto spedito dalla prigionia), militante della sinistra comunista, Guidetti Serra mette in pagina, con una cura speciale per la varietà del parlato, le interviste che da qualche tempo va raccogliendo tra le donne torinesi che hanno fatto la Resistenza. Donne diverse, ma tutte accomunate dall’aver variamente vissuto il partigianato e dalla consapevolezza che a determinarne la scelta antifascista siano state due fondamentali rivendicazioni: il lavoro e il diritto di voto.

Dignità della vita attraverso il lavoro, dunque, e rappresentanza politica: era questa l’impostazione della questione femminile in seno al movimento operaio primo-novecentesco, come la si legge negli atti dei congressi della seconda Internazionale e nella cui storia è la genesi stessa dell’8 marzo. L’8 marzo 1917, appunto, a Mosca un’imponente manifestazione per i diritti delle donne aveva anticipato la Rivoluzione d’ottobre.

La Costituzione italiana nomina la condizione della donna in tre punti. Rispetto al principio d’eguaglianza, che non ammette distinzioni di sesso: affermazione tanto importante da venire al primo posto, nel catalogo delle discriminazioni bandite dall’articolo 3. Rispetto ai diritti del lavoratore riconosciuti all’articolo 36, che il 37 precisa essere diritti anche della donna lavoratrice. Rispetto all’elettorato, attivo e passivo, e alla capacità di ricoprire gli uffici pubblici, da garantire in condizione di parità a donne e uomini (articoli 48, 51 e 117).

Ancora una volta: dignità della vita attraverso il lavoro e partecipazione alla cosa pubblica nel segno dell’uguaglianza sostanziale. Prova, da un lato, che la temperie raccontata nel libro di Guidetti Serra ha un corrispettivo nella Carta fondamentale, nel momento in cui l’antifascismo è chiamato a farsi esperienza costituente. E prova, dall’altro, che la società che esprime la Costituzione è innervata da quelle disuguaglianze: non ci sarebbe stato altrimenti bisogno di nominarle, di auspicarne il superamento fin dal patto fondativo dello Stato nuovo.

Settantacinque anni dopo, alcune organizzazioni del movimento operaio hanno cambiato pelle, non solo in Italia: talvolta hanno disconosciuto l’identità precedente. Un esempio: a rivendicare di aver sfondato il soffitto di cristallo è una presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che proviene da una tradizione opposta a quella del partigianato che ha scritto in Costituzione la parità di genere, anche in politica. Gli studi sul lavoro povero hanno accertato che l’occupazione non è sempre uno strumento sufficiente di emancipazione, una garanzia di salvezza dall’indigenza: specie per le donne, specie se sole e con figli. Contrariamente a quanto si dice, le politiche dell’impiego e quelle assistenziali non sono alternative, ma complementari.

Nonostante i mutamenti, però, l’origine della Giornata della donna nella storia delle lotte operaie non smette di esercitare la sua forza sul presente. La dimostrazione è nello strumento che i movimenti femministi hanno praticato negli ultimi anni per l’8 marzo: lo sciopero.

Giorno del Ricordo, non solo le foibe: in quel confine orientale corrono tutti i tormenti del ’900. Il 10 febbraio è la data dedicata alla rievocazione delle vicende avvenute nel secolo scorso nell’Alto Adriatico. La memoria di questa tragica pagina di storia è difficile. E spesso strumentalizzata. Pierangelo Lombardi su L'Espresso il 9 febbraio 2023

Il 10 febbraio è una data del calendario civile italiano: il Giorno del ricordo. Nel corso di formazione per insegnanti organizzato l’autunno scorso dall’Istituto pavese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, la sfida è stata quella di andare al di là delle sovraesposizioni mediatiche e delle ingerenze politiche, che non aiutano, ma al contrario allontanano la piena comprensione delle vicende avvenute nel corso del Novecento nell’Alto Adriatico.

Il ragionamento di lungo periodo, proposto agli insegnanti, è stato quello di riflettere sul tema che proprio la legge istitutiva del Giorno del ricordo, del 2004, indica come «la tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo Dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». Perché in questa tragica pagina di storia non c’è solo una memoria difficile e complessa, ma, come ha suggerito Guido Crainz, c’è in «quel confine tormentato tutto il nostro Novecento».

Ci sono i nazionalismi e i processi di nazionalizzazione, dove uno spirito discriminatorio e per nulla inclusivo troppo a lungo ha soffiato sul Vecchio Continente; c’è il trauma della Prima guerra mondiale, con la «italianizzazione forzata» imposta dal fascismo alle popolazioni slovene e croate; ci sono la violenza e la brutalità dell’occupazione nazista e fascista della Jugoslavia nel 1941; c’è la tragica lezione della Seconda guerra mondiale, una guerra totale, in cui veniva meno la distinzione tra militari e civili, dove l’imbarbarimento del conflitto, specie sul fronte orientale, è stato massimo.

Ancora: c’è l’incontro tra violenza e ideologia politica che si fa devastante e dove, in un clima torbido e inquietante, s’intrecciano il giustizialismo politico e ideologico del movimento partigiano titino, il nazionalismo etnico e, soprattutto in Istria e nelle aree interne, la violenza selvaggia tipica delle rivolte contadine. Ci sono le violenze contro le popolazioni italiane del settembre del 1943 e del maggio-giugno del ’45, di cui le foibe, gli arresti e il clima di terrore che spinge all’esodo forzato migliaia di italiani sono simbolo ed espressione; c’è la volontà di Tito e del comunismo jugoslavo di annettere l’intera Venezia Giulia, con un’epurazione volta a eliminare – senza andare troppo per il sottile – qualsiasi voce di dissenso.

Ci sono, infine, le logiche della Guerra fredda e della radicalizzazione dello scontro ideologico nell’immediato Dopoguerra. Il tutto sulla pelle di decine di migliaia di persone. Un vero e proprio tornante di fughe e di espulsioni in tutta Europa, infatti, si accompagna agli esordi della Guerra fredda e a una più generale ridefinizione dei confini europei e dei loro significati.

Diventa, quindi, sempre più necessario, nell’affrontare questa pagina di storia, contestualizzarla con grande rigore, respingere tesi negazioniste o riduzioniste, così come le banalizzazioni e le verità di comodo più o meno finalizzate a uno scorretto uso pubblico della storia. Occorre assumere un ruolo attivo nel processo di rivisitazione critica, che sola può portare al superamento delle lacerazioni del passato. Anche perché le vicende dell’area giuliano-dalmata costringono chi le affronta a misurarsi con temi assai più generali e con fenomeni centrali per la comprensione della nostra contemporaneità.

«Alla Memoria della Shoah si deve accompagnare la coscienza della Storia». Il giorno della liberazione di Auschwitz è la data simbolo per non dimenticare lo sterminio degli ebrei per mano di nazismo e fascismo. Ma occorre evitare la vuota ritualità e restituire complessità ai fatti. Ridestando interesse e sgomento. di Massimo Castoldi su L'Espresso il 26 gennaio 2023

Il giorno della Memoria — 27 gennaio, in ricordo del 27 gennaio 1945, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz — non è una festa nazionale come sono il 25 aprile, festa della Liberazione, e il 2 giugno, festa della Repubblica, ma un giorno di lavoro, di studio, che dovrebbe essere pretesto per cercare di comprendere le ragioni storiche di quanto è avvenuto nel nostro Paese e in Europa tra anni Venti e anni Quaranta del secolo scorso.

La legge del 2000 che lo ha istituito invita a riflettere «su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti [...] affinché simili eventi non possano mai più accadere». Ho sempre trovato molto velleitaria questa proposizione finale, la quale presuppone che possa crearsi una consapevolezza così diffusa di quanto avvenuto, che le aberrazioni del passato non possano ripetersi.

La storia conferma che non è così e la cronaca lo rende tragicamente tangibile. Ciò non toglie opportunità e necessità all’operazione della ricostruzione storica delle dinamiche che hanno consentito l’affermazione di quelle dittature, fascista e nazista, delle quali lo sterminio di massa organizzato è stato la più macroscopica conseguenza.

Mi chiedo, tuttavia, se e fino a qual punto questa riflessione sia stata fatta fuori dall’ambiente degli specialisti, o se invece ci siamo il più delle volte limitati a una narrazione rituale, nell’inesorabile affermarsi di “Un tempo senza storia”, come Adriano Prosperi ha intitolato un suo libro recente (Einaudi, 2021).

I dati che l’Eurispes ci fornisce sono eloquenti. Se nel 2004 il 2,7 per cento della popolazione italiana credeva che la Shoah non fosse mai esistita, nel 2020 questa percentuale è salita al 15,6. Se dovessimo estendere l’inchiesta dalla Shoah alla deportazione politica, che peraltro in Italia è fenomeno più rappresentativo (circa 24.000 deportati politici, circa 8.000 ebrei), queste percentuali di ignoranza salirebbero in modo esponenziale. L’istituzione del giorno della Memoria non ha evidentemente ottenuto gli effetti sperati. Anzi si potrebbe dedurre che alla ritualità delle commemorazioni corrisponda un incremento di atteggiamenti razzisti e neofascisti.

Occorre restituire complessità storica al fenomeno, per ridonargli interesse. Invito a vedere il film documentario del 2016 “Austerlitz” di Sergei Loznitsa, che il regista girò con una telecamera fissa posta in alcuni luoghi del campo di Sachsenhausen. In una serie di lunghe sequenze passano turisti intenti compulsivamente a fotografarsi nei luoghi di tortura e di morte nella generale incoscienza della storia, che le guide meccanicamente raccontano.

È il percorso inverso rispetto a quello fatto da Austerlitz, il protagonista dell’omonimo romanzo di Winfried Georg Sebald (Adelphi, 2002), che attraverso una faticosa ricerca storica e memoriale prende coscienza da adulto di essere uno di quei bambini ebrei giunti a Londra in treno durante la guerra, mentre i suoi genitori venivano deportati in un campo di sterminio.

Osservando il film, ho notato nella sconcertante babele turistica, in due momenti diversi, nello sguardo di due ragazze un lampo di sgomento e un istante di confusione. Due bagliori improvvisi che indicano, con Prosperi e Sebald, una strada.

Piazza Fontana, dove nasce la strategia della tensione. Ciò che ebbe inizio quel 12 dicembre di cinquantatré anni fa, non si esaurisce nella sola politica stragista, ma si deve assumere come un fenomeno storico di lunga durata nell’Italia repubblicana.  Pierangelo Lombardi su L'Espresso il 12 dicembre 2022. 

«Viva l’Italia del 12 dicembre», canta Francesco De Gregori. Il 12 dicembre 1969, alle 16.37, nella sede della Banca nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano, esplode la bomba che — è stato scritto — fa perdere l’innocenza a una generazione. Autori materiali dell’attentato, che uccide 17 persone e ne ferisce 87, sono i neofascisti di Ordine nuovo. L’organizzazione eversiva, nata in seno al Movimento sociale italiano di Giorgio Almirante, viene sciolta nel 1973, perché ritenuta una ricostituzione del partito fascista vietata dalla XII disposizione finale della Costituzione.

Basta, dunque, una data in una celebre canzone per indicare con immediatezza un evento divenuto luogo di memoria. Ma fino a che punto quella memoria è depositata nella narrazione consapevole della storia nazionale? E, in particolare, quanto è comprensibile al mondo della scuola?

Ancorché non istituzionalmente riconosciuta nel nostro affollato “calendario civile”, la data del 12 dicembre è bene che sia oggetto di una riflessione dedicata. E l’occasione può senz’altro essere un corso di aggiornamento e formazione per insegnanti, che aiuti a trasformare momenti di celebrazione in occasioni di conoscenza e di riflessione, tra storia, cultura ed educazione alla cittadinanza, attenti al contesto storico e alle complesse dinamiche della memoria collettiva. È quanto l’Istituto pavese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea di Pavia ha provato a fare in un ciclo di lezioni conclusosi lo scorso novembre, che agli insegnanti era anzitutto rivolto e che aveva per tema proprio gli eventi e i problemi del nostro calendario civile.

La “strategia della tensione”, che ha inizio quel 12 dicembre di cinquantatré anni fa, non si esaurisce nella sola politica stragista, ma si deve assumere come un fenomeno storico di lunga durata nell’Italia repubblicana. Per questo una seria riflessione sul tema rinvia alle condizioni storico-politiche ed economico-sociali che resero possibile il verificarsi di quegli eventi. In tal senso, il 1969 è davvero una data periodizzante nella storia della Repubblica, tra istanze di trasformazione e tendenze restauratrici, il cui sguardo è rivolto al passato di fronte alle tensioni del presente. Con la “stagione delle stragi” si inasprisce lo scontro sociale; si opera per spostare a destra l’opinione pubblica, prima ancora che l’asse della politica; si evocano governi d’ordine, fino alla esplicita rottura degli assetti istituzionali.

Nella sostanza una dinamica eversiva nella quale lo squadrismo neofascista lancia un’offensiva fin lì mai tentata, forte delle connessioni più disparate con uomini e apparati dello Stato, in un reticolo di poteri più o meno occulti. Tra vergognose rimozioni e frettolose ricomposizioni si consumano crisi e tensioni che investono le Forze armate, le relazioni industriali, il sistema politico e l’ordine pubblico.

Non meno importante è, infine, lo scenario internazionale, laddove le rigidità dei blocchi contrapposti in tempi di Guerra fredda si misurano con il processo di distensione degli anni Sessanta e, al suo interno, un sistema dei partiti bloccato in cui si consuma la crisi del centrosinistra. Una faticosa e, per molti aspetti, drammatica, crisi di transizione che porta il Paese dalla fase storica espansiva degli anni Cinquanta e Sessanta al progressivo esaurimento di quel modello.

Pierangelo Lombardi Presidente dell’Istituto pavese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea

2023: ecco le ricorrenze storiche e letterarie (Ansa). Marcello Bramati su Panorama il 03 Gennaio 2023.

Grandi anniversari e celebrazioni destinate a far rumore: da Calvino a Manzoni, dal presepe all’armistizio di Badoglio, ecco le principali commemorazioni che vivremo in questo nuovo anno

Fare memoria per ricordare cosa siamo stati, chi è passato prima di noi su questo stesso suolo, respirando questa nostra stessa aria, con la sua vita e la sua lezione in ogni caso da ragionare, per fare un passo in avanti. E’ questo il senso delle ricorrenze, spesso relegate a cerimonie vissute in bassa risoluzione consenso del dovere, fretta, obbligo. “Un monumento per dimenticare un po’ più in fretta” , canta De Gregori, sintetizzando questo assurdo comportamento umano dinanzi a uomini e storie che invece meriterebbero ben altro atteggiamento

Disponiamoci alla festa quindi in questo nuovo anno 2023 che offre l’occasione di ricordare, in estrema sintesi, vicende cruciali, simboli e uomini straordinari. Si comincia con il centenario di Italo Calvino, nato il 15 ottobre del 1923. E’ un autore assai letto a scuola, per cui sarà un anniversario celebrato, magari con una traccia alla maturità, certamente con nuove edizioni critiche di un autore indubbiamente protagonista del secondo dopoguerra italiano, con i suoi romanzi uno diverso dall’altro, ma tutti con l’obiettivo di comprendere il presente, guardando in prospettiva di un futuro prossimo. “Il sentiero dei nidi di ragno” il suo romanzo più noto, nonché il primo, ma la “Trilogia degli antenati” sono i romanzi più letti, con le avventure del Barone Rampante, di Marcovaldo e del Visconte Dimezzato ad allietare la lettura di intere generazioni di bambini, tutte tranne questa ultima probabilmente, troppo abituata a stimoli che hanno frequenza e ritmi narrativi superiori anche all’immaginazione creativa di Calvino. Resta una chicca da andarsi a riprendere, tra le tante perle: l’incipit di “Se una notte d’inverno un viaggiatore” , tre pagine spassosissime di elogio della lettura come piccolo piacere della vita, perché la lettura è anche questo. Ricordiamo Calvino e la sua penna svelta, capace di raccontare l’uomo e l’Italia di mezzo secolo, quello in cui sono nati la maggior parte degli uomini di oggi. Centenario anche per la nascita di don Lorenzo Milani, sacerdote degli ultimi, proprio lui che fu un ultimo. Carattere forte, passione politica e una visione chiarissima dell’epoca che ha vissuto. Don Milani ha contribuito a cambiare il mondo anche da quella parrocchia sperduta di Barbiana dove era stato inviato per far del bene lì, o per non dar più fastidio a nessuno, a seconda di come la si voglia intendere

Ricordiamo don Milani e il suo voler bene determinato, con l’accortezza di leggere la sua “Lettera a una professoressa” come figlia di un tempo e di una lotta di cui fu parte importante. Un’altra ricorrenza che sarà celebrata nelle aule scolastiche italiane sarà il centocinquantesimo della morte di Alessandro Manzoni, caduto sugli scalini ghiacciati del sagrato della chiesa di San Fedele, a Milano, nel gennaio del 1873, ma morto mesi dopo, il 22 maggio dello stesso anno. Manzoni è un padre dell’Italia e degli italiani, oltre che dell’italiano con cui parliamo, in cui ci esprimiamo, che scriviamo. Rileggere Manzoni a due secoli di distanza significa fare esperienza che l’animo dell’uomo agisce nello stesso modo anche se si modificano convenzioni sociali, anche se il progresso ha cambiato tempi modi e luoghi, perché nel suo romanzo c’è l’animo di tutti, il nostro vicino di casa, la politica che viviamo ogni giorno, l’ipocrisia dei rapporti umani, il senso di impotenza e ingiustizia dinanzi a una legge fatta per imbrogliare, il desiderio di rivalsa, la grande bellezza che risiede nel fare del bene e nel perdonare di cuore.Tra la sua produzione degna di fama mondiale, la chicca da rispolverare è“Natale 1833” , quando Manzoni racconta in versi un presepe con facce dure, tese, perché è il giorno in cui è morta la sua amata moglie Enrichetta, poco più che quarantenne, a cui non riuscirà mai a restituire un testo compiuto, poiché anche questa poesia termina anzi tempo con quel “cecidere manus” (“caddero le mani”) a mostrare quanto sia difficile elaborare un lutto come questo, probabilmente impossibile da razionalizzare.

Ricordiamo Manzoni e la sua penna capace di insegnare e graffiare, educare e commuovere. Proprio il presepe arriva a un’altra cifra tonda, infatti quello di Greccio realizzato e voluto da San Francesco d’Assisi nel 2023 compie ottocento anni. Si tratta di un simbolo famosissimo che ha contribuito – certo non da solo - a rendere amato e conosciuto proprio san Francesco anche ai più piccoli, perché è stato un uomo capace di parlare anche ai più umili e senza la possibilità – o l’età - di studiare, di sapere, con strumenti adatti alla comprensione di tutti. Ricordiamo san Francesco e il suo presepe, senza banalizzare il ricordo di un uomo capace di straordinaria mistica e auto esigenza. Teniamoci forte per un anniversario che riguarda la storia italiana, perché il 25 luglio 1943, per cui ottanta anni fa, il re Vittorio Emanuele II depose Benito Mussolini, a favore del governo del generale Badoglio, dando inizio alle trattative per l’armistizio dell’8 settembre proprio del 1943. Sempre in quel giorno iniziò l’esperienza della Resistenza italiana. Teniamoci forte, perché sarà un anniversario che farà incendiare Twitter, Facebook e la battaglia politica sui simboli, sempre meno rispettati e studiati, sempre meno al centro dell’interesse per comprendere e crescere, al contrario ogni volta più sbandierati e tirati per la giacca, per il collo, proprio come non dovrebbe essere. L’ultimo anniversario di cui far memoria, in ordine cronologico, è il decennale della morte di Jannacci. Già “des ann” , Enzo! Medico e cantautore, scanzonato e severo, con la sua voce spigolosa come i suoi tratti somatici, Jannacci ha accompagnato il secondo Novecento tra lotte operaie e grandi risate, sempre con una venatura di malinconia e bricconeria insieme. Tra le perle, una chicca è il racconto di Milano attraverso tante canzoni prima che, come è oggi, fosse di moda ambientare storie, strofe, libri e film proprio a Milano. Ricordiamo Jannacci ascoltando “Faceva il palo” , con l’accortezza di lasciarci guidare nell’ascolto delle sue canzoni, partendo da qui e lasciando libero Spotify, o la piattaforma preferita.

Estratto dell’articolo di Elisabetta Rosaspina per milano.corriere.it il 2 aprile 2023.

Quando Roberto Germani racconta come trasportò la salma imbalsamata di Eva Peron da Milano (fin quasi) a Madrid sembra che stia parlando di un’avventura accaduta pochi giorni prima. Invece è passato più di mezzo secolo da quel 2 settembre 1971 quando l’allora giovane autista dell’impresa di pompe funebri San Siro partì, ignaro, con un carico abituale e una destinazione più interessante del solito: la Spagna di Francisco Franco. 

 (...)

 Andò un po’ diversamente. Ciò che nessuno sospettava, fino a quel giorno, era che per ben 14 anni il corpo della leggendaria Evita avesse riposato, è il caso di dirlo, sotto mentite spoglie, in un tombino trentennale del più grande cimitero di Milano, a Musocco, Campo 86, Giardino 41.

Il vedovo, José Domingo Peron, era in esilio a Madrid dal 1960, dopo essere stato spodestato dalla presidenza dell’Argentina nel 1955. E, da quello stesso anno, il corpo venerato della «madonna dei descamisados» era scomparso dalla sede della Cgt, il più importante sindacato dei lavoratori del paese, proprio perché nella sua teca di cristallo la reliquia — «quella cosa», come la definivano i suoi nemici — era diventata troppo ingombrante per gli anti peronisti saliti al potere con un colpo di stato.

 Dell’amatissima (e odiatissima) Evita, morta di tumore a 33 anni, il 26 luglio 1952, si era persa ogni traccia. I servizi segreti militari argentini l’avevano trasferita di nascondiglio in nascondiglio. Inchieste, leggende e romanzi hanno riferito o ipotizzato che fosse stata rinchiusa in armadi, in casse di attrezzature radiofoniche e in furgoni da fioristi, sotto il letto di qualche ufficiale e perfino dietro il sipario di un cinema. Si affermò che per depistare i suoi seguaci circolavano copie in cera ma pochissimi sapevano che, dopo aver pensato di incenerire o di affondare il cadavere nel Mar del Plata, il presidente argentino in carica Pedro Eugenio Aramburu e i suoi emissari avevano ottenuto dal Vaticano il via libera per una «cristiana sepoltura» il più lontano possibile, oltreoceano, in terra italiana.

Evita dunque era arrivata in incognito a Genova nel maggio 1957 in una bara imbarcata sul bastimento Conte Biancamano. Da lì era stata trasferita a Musocco: unico presente all’inumazione, consapevole di essere al cospetto della patrona argentina degli umili, era un sacerdote, padre Giulio Madurini, che avrebbe mantenuto il segreto fino alla fine. Il primo settembre 1971, quando i necrofori gridarono al miracolo riesumando il corpo intatto di una bellissima sconosciuta, fu lui a rassicurarli: «In Argentina — disse loro — si usa imbalsamare i corpi».

 Il giorno dopo Roberto Germani, affiancato dal sedicente fratello della defunta, Carlos Maggi, intraprese il servizio internazionale più incredibile della sua carriera: «Sono fiero di aver avuto un piccolo ruolo nella storia di quella donna straordinaria» dice ora, ottantenne, passeggiando tranquillo sotto il tiepido sole primaverile, al Parco di Trenno. Ma, quando ripensa alle 60 ore di viaggio con il quale si è conquistato quel posto memorabile, lascia trapelare ancora tutta la sua emozione: «Quel Carlos Maggi aveva una gran fretta di arrivare in Spagna».

Quel Carlos Maggi, si sarebbe saputo molto tempo dopo, era un sottufficiale dei servizi, si chiamava in realtà Manuel Sorolla e temeva che, se la notizia del recupero del corpo di Eva Peron fosse trapelata, i temibili Montoneros, ala radicale del peronismo, avrebbero organizzato un agguato lungo la strada per impadronirsene. L’ordine era di restituire la salma al vedovo, in un gesto di distensione tra il regime indebolito e l’esule, ancora rimpianto in patria.

 Dopo una sosta notturna a Perpignan, al confine tra la Francia e la Spagna, Germani trasecolò trovando oltre frontiera un picchetto d’onore in attesa del carro funebre: «Dissi: signor Maggi, lei è davvero un personaggio importante in Spagna. Lui mi rispose che era molto noto per il suo commercio di tabacco». Ma quando a loro si unì una scorta di auto scure che impose un’andatura decisamente sostenuta, il povero autista italiano cominciò ad allarmarsi.

Nessuno li fermò, fino a poche decine di chilometri da Madrid dove, nonostante le sue proteste, Germani fu costretto a svoltare tra i campi di Guadalajara: «C’era uno schieramento di civili che si facevano il segno della croce e di militari sull’attenti». Il feretro fu scaricato dalla Citroën dell’impresa e ricaricato su un anonimo furgone blu. «Ero disperato, il mio compito era di consegnare la bara in un cimitero o in una chiesa». Nessuno, nemmeno il suo cordiale accompagnatore, gli diede spiegazioni: era libero però di tornarsene a Milano.

«Non me lo feci ripetere due volte» ammette lui, che temeva a quel punto di aver portato una cassa piena di armi, documenti segreti, refurtiva o lingotti d’oro. Ignorava che poche ore dopo, invece, la notizia della riapparizione del cadavere di Evita avrebbe fatto il giro del mondo. E lo trovò infatti ad attenderlo alla frontiera francese, dove fu seccamente apostrofato dai gendarmi: «Signor Germani, ha trafugato lei il corpo di Eva Peron?». Negò con vigore.

 «Ma, involontariamente, era stato proprio così» sorride adesso, a distanza di 50 anni. Quando Peron tornò (per poco) al potere, arrivò una telefonata da Buenos Aires: l’autista e il carro funebre che avevano avuto l’onore di trasportare la «Señora» erano cordialmente invitati per un giro trionfale in Argentina.

«Nemmeno per idea» rimbalzò la proposta Germani. «E se ci fosse stato, mentre ero lì, un altro colpo di Stato? Finiva che mi sparavano pure addosso».

Marco Tullio Giordana per “la Repubblica” il 9 gennaio 2023. 

Sono Freddie dal whisky facile, Son criticabile ma son fatto così Non credete, non sono un debole. M' han fatto abile, ma la guerra finì. Se c'è una cosa che mi fa tanto male è. L'acqua minerale! Miracolosa sarà, ma per piacere io. Non la posso bere!

Ferdinando Buscaglione, detto Fred (Torino 1921 - Roma 1960) era l'idolo della mia infanzia, anche perché si aggirava su di un'auto iperbolica e per noi italiani addirittura fantascientifica: la Ford Thunderbird coupé, modello 1959. 

(...)

 Un mondo di gangster di periferia in salsa lombarda e milanese cantato anche da Ornella Vanoni, Giorgio Strehler, Enzo Jannacci - e celebrato nei libri dal Whisky facile sopra ogni cosa al mondo, forse il primo eroe dello spettacolo che, con Jerry Lewis, ci abbia toccato il cuore. Non solo ci aveva conquistato con i suoi banditi di cioccolato ma, quasi in modo schizofrenico, con due capolavori del romanticismo melodico come Guarda che luna e, insieme all'inseparabile Leo Chiosso, I found my love in Portofino.

Canzoni che ancora non appartenevano all'esperienza ma già promettevano a noi pulcini le estasi e le sofferenze a venire. Dunque non c'erano solo bulli e pupe nella vita di Buscaglione. Anche lui aveva pianto, anche lui aveva conosciuto la pena e la disillusione! Gran parte del fascino di Buscaglione proveniva dalla dichiarata passione per gli Usa, per la sua way of life, le bellezze muliebri, le automobili sgargianti e fastose.

 Per me almeno era così e forse ero l'unico a non trovare orrenda la Ford Thunderbird del '59 di colore rosa con cui è andato a sbattere. Il modello era l'evoluzione, lievitata come un soufflé, di un'auto nata, invece, agile e compatta, come le sportive europee che l'importatore Hoffmann aveva fatto conoscere creando un nuovo interessante mercato.

La Chevrolet aveva cercato di occuparlo fin dal 1953 con la Corvette, la Ford ci riuscì nel 1954 con la T-Bird, motorizzata con un V8 4,4 litri da194 HP ben più poderoso del 6 cilindri 3,6 litri da 155 Cv della concorrente. Entrambe arriveranno fin quasi ai giorni nostri pompando i muscoli fino a farle diventare rettili ultra lussuosi e anabolizzati, perdendo però per strada l'originaria vocazione di sportive eleganti e simpatiche. La Thunderbird di Buscaglione, targata TO286788, era una seconda serie del 1959, diversa dal modello iniziale. La carrozzeria aveva guadagnato altri due posti, s' era però appesantita con inutili orpelli e il muso a quattro fari si caratterizzava dall'invadente paraurti con maschera del radiatore incorporata che la faceva assomigliare a un barracuda (forse era questa l'idea).

Il motore era stato portato a 5.8 litri per 300 Cv (c'era addirittura una versione 7,0 da 375 Cv, non importata in Italia). Il colore era il Flamingo (codice Ford M1071) che qualcuno scrive Lilla, e in Italia costava un patrimonio fra acquisto, consumi, tasse e manutenzioni varie.

 La fortuna di Buscaglione era quel momento all'apice e certamente i soldi non erano un problema: beniamino anche di televisione e caroselli aveva visto ingigantirsi la popolarità e i conseguenti ingaggi. Anche se un velo di malinconia traspariva dietro la voce rauca e l'aria scanzonata - i pettegoli alludevano al matrimonio in crisi- nulla sembrava minacciarne la carriera. La chiuse invece, e brutalmente, la macchina di cui andava tanto fiero.

Il passerotto che imparò a volare: Édith Piaf. Un'esistenza iniziata nella fragilità della periferia e finita tra sfarzo ed eccessi. La giostra della vita di Édith Piaf ha avuto sempre e solo un punto focale: la musica. Con la sua voce ha compiuto "miracoli". Laura Lipari l’8 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 L’usignolo

 La Seconda Guerra Mondiale e l’inno a una nuova vita

 Giù negli abissi

 L’Ètoile che si spegne

Sul palco la luce è fioca. Un conduttore l'annuncia: "Édith Piaf" e all’improvviso i riflettori puntano verso un corpo minuto che aspetta davanti a un microfono l’inizio della melodia. Il baccano attorno si arresta e gli occhi del pubblico guardano tutti nella stessa direzione. La gracile figura non ha ancora aperto bocca ma tutti sono già estasiati. Di colpo gli strumenti cominciano a creare un sottofondo romantico che si unisce a una voce armoniosa: “Non, rien de rien. Non, je ne regrette rien. Ni le bien qu'on m'a fait, ni le mal, tout ça m'est bien égal…”.

Édith Giovanna Gassion nasce a Parigi, il 19 dicembre del 1915, da una famiglia di umili, ma stravaganti, artisti. Il padre, Louis, è un contorsionista e la madre, Annetta, canta in strada per guadagnare qualche moneta. Non rinuncia al suo lavoro neanche il giorno del parto, sotto il gelo d’inverno. Lei canta mentre la gente chiude il colletto attorno al collo o stringe il cappello sulla propria testa e canta fino a quando non sente le gambe cedere e il suo corpo prepararsi al travaglio, così chiede al marito, Louis, di chiamare un’autoambulanza ma questi, preso dall’euforia del momento, festeggia nei bistrot la nascita della figlia ancora prima che questa sia venuta al mondo.

Édith nasce nel caos generale di un sobborgo francese e lo stesso caos l'accompagna per tutta l'infanzia. Passa il suo tempo prima a casa della nonna materna, personaggio burbero e non meno eccentrico dei suoi genitori che lavora come addestratrice di pulci. Lasciata spesso da sola e in condizioni igieniche pessime, la piccola sarà affidata poi alla nonna paterna, l’unica a trattarla come una bambina fino a quando verrà ripresa dal padre che si occuperà di lei fino all’adolescenza.

A 17 anni la ragazza incontra il primo uomo della sua vita Louis Dupont dal quale rimane incinta della sua unica figlia Marcelle, nata nel 1933. In quegli anni Édith è sbalzata da una parte all’altra e la mancata educazione familiare si riversa anche nella cura della neonata. Mentre la ragazza cerca di guadagnarsi da vivere cantando in strada come faceva la madre, a casa i dissidi con Louis diventano insopportabili, fino al punto che l’uomo porta Marcelle via da casa. La piccola però muore all’età di soli 2 anni a causa di una meningite mai curata ed Édith porterà per sempre il grande dolore dentro di sé, per non essere stata presente come come avrebbe voluto.

L’usignolo

Di nuovo sola, povera e senza un posto in cui andare, le sue piccole esibizioni le permettono di sopravvivere. Le cose iniziano a migliorare solo quando all’età di 20 anni viene scoperta da un impresario che la fa debuttare nei vari cabaret con il nome d’arte “La Môme Piaf”. Molti si accorgono della sua straordinaria dote e lei inizia pian piano a farsi strada in questo mondo.

La tragica morte di colui che l’aveva scoperta segna un momento di declino per la giovane che prima viene accusata dell’assassinio e poi, giudicata innocente per mancanza di prove, si ritrova nuovamente da sola e in cerca di un altro pigmalione. A ripescarla dalla periferia è Raymond Asso che assieme al suo editore le consigliano lo stile e un nuovo nome con il quale si presenterà alle varie tournée. Da questo momento nasce la sua seconda personalità alla quale rimarrà legata fino alla fine dei suoi giorni: “Édith Piaf”. “Piaf” nel francese popolare significa passerotto e il significato di questo pseudonimo risale alla sua corporatura minuta e alla sua voce da usignolo.

Durante il periodo di convivenza con Paul Meurisse viene ingaggiata come attrice per recitare una pièce per lei scritta da Jean Cocteau, Le bel indifférent. La sua è adesso una figura di spicco tra i grandi nomi e il talento di cui gode, in pochi anni, viene scoperto e apprezzato a livello internazionale. I suoi ingaggi le permettono uno stile di vita ben lontano da quello a cui era stata abituata da bambina.

Lo sfarzo, però, non è l’unico vizio di cui adesso gode. La cultura e il sapere che per la prima parte della sua vita le erano stati negati, adesso occupano gran parte dello spazio nelle sue giornate. La sua villa diventa salotto per uomini e donne illustri, esponenti dell'arte, della letteratura, della musica e della filosofia francese, tanto che alcuni la definiscono la “Mecenate di Parigi”.

La Seconda Guerra Mondiale e l’inno a una nuova vita

La brutalità della guerra censura e a volte sopprime del tutto anche il settore artistico. Sono gli anni in cui Parigi è occupata dai tedeschi che invadono le vie e turbano gli animi. In questo clima grigio e di tensione, Édith continua a cantare esibendosi fiera con la bandiera tricolore alle spalle, non solo nella sua patria ma anche in Germania, nei campi di concentramento. In quei luoghi di tortura si fa fotografare con i connazionali deportati e, una volta tornata in sede, ritaglia i contorni di quei volti per creare documenti falsi e aiutare i prigionieri a evadere. Con questo stratagemma un centinaio di uomini si salveranno sotto falso nome.

Sono gli anni di fine conflitto e ai francesi urge una melodia che possa ripristinare la loro vita concedendo loro un po’ di tregua. Nel 1946 l’inno della rinascita ha il nome di La vie en rose cantato magistralmente dalla Piaf e rimasto negli anni successivi uno dei maggiori successi al livello mondiale.

L’anno successivo, durante un pranzo a New York, la conoscenza del pugile Marcel Cerdan, campione dei pesi medi, di Casablanca, già sposato e padre di 3 figli. Tra i due c’è uno scambio di sguardi, ma nulla più, la donna torna a Parigi e l’uomo alla sua vita. Qualche tempo dopo però si rincontrano a una cena e sboccia la passione. Inizia così una relazione tramite corrispondenza e, quando Cerdan può, la raggiunge durante i suoi concerti. Il loro amore viene scoperto presto dalla stampa scandalistica che non ci mette molto a far girare la notizia dell’adulterio e nonostante le prime smentite da entrambe le parti, a incastrare la cantante e il pugile sono alcune fotografie scattate furtivamente.

Ogni cosa precipita assieme all’aereo sul quale Marcel vola il 28 ottobre 1949. Il veicolo si schianta sulle Azzorre mentre Édith sta per esibirsi a Versailles. Quando una voce le sussurra quello che era appena accaduto ha un cedimento ma sceglie di salire sul palco dicendo: "Questa sera canto per Marcel, solo per lui...". Dopo le prime cinque canzoni si accascia a terra priva di sensi. Da questo momento, il dolore per il secondo grande lutto della sua vita e un problema alle ossa - provocato da una precoce artrite reumatoide - la spingono a cercare sollievo nella morfina.

Giù negli abissi

Dopo la morte del pugile, Édith cambia il suo aspetto fisico: inizia dal trucco e poi accorcia i capelli con il taglio con cui verrà ricordata negli anni successivi. Il senso di colpa però è ancora lì presente e quindi decide di fare un passo che fa restare tutti di sbieco: invita la vedova del suo amante e i loro figli nella sua casa per un lungo periodo di tempo, tanto che la cantante decide di accollarsi le spese della loro istruzione.

In quegli anni due incidenti d’auto le fratturano un braccio e tre costole, impedendole così di condurre la sua vita artistica nel modo migliore. Inoltre le sue relazioni fugaci, intense e ancora una volta clandestine la portano a perdere quella stabilità emotiva di cui ha sempre avuto bisogno.

L’anno fortunato è il 1952 durante il quale conosce l'artista lirico Jacques Pills, i due sembrano fatti l’uno per l’altra e non ci mettono molto a programmare il matrimonio che verrà svolto in pompa magna a New York. Durante i preparativi ad accompagnare la cantante in giro per le boutique c’è sempre l’amica attrice Marlene Dietrich che con devozione la segue ormai da anni.

Dopo la loro morte qualcuno ipotizzerà che per la Dietrich quella con Édith non era solo amicizia e che il suo amore era vero e sincero ma mai capito veramente neanche dal fringuello stesso. La relazione tra le due finirà solo a causa delle dipendenze della cantante tanto che l’attrice dichiarerà: “Quando prese a drogarsi, cessai di esserle fedele. Era più di quanto potessi sopportare. […] Abbandonai Édith Piaf come una bambina perduta, che si rimpiangerà sempre, che porterò sempre nel profondo del cuore”. Quando la coppia Pills-Piaf torna a Boulevard Lannes, dopo una tournée sfiancante, decide di soggiornare in una clinica riabilitativa.

L’Ètoile che si spegne

Da un periodo di iniziale sconforto Édith inizia una collaborazione d’oro con Bruno Coquatrix il quale, nel 1955, inaugura un musical nel cuore di Parigi, l’Olympia, di cui la cantante deve fare da prima ètoile. Esibendosi anche in America la donna trionfa alla Carnegie Hall, con più di venti minuti di standing ovation e una trentina di chiamate. Il suo nome appare in tutti i giornali e la sua vita prende nuovamente una piega ricca di sfarzo. “Ogni volta che la vediamo cantare in televisione ci sembra di assistere a un miracolo, un miracolo in cui non speravamo più”, si sentirà dire spesso dai giornalisti che la intervistano.

Il matrimonio con il lirico finisce e ancora prima del divorzio lei si lega sentimentalmente al chitarrista Jacques Liébrard, primo di un’altra serie di relazioni brevi e tormentate con uomini spesso spudorati che la spremeranno fino al midollo per ottenere successo. Nel frattempo il suo stato di salute peggiora dopo un terzo incidente capitato nel ’59. Durante le tournèe, infatti, comincia ad avere strani vuoti di memoria che durano anche ore e un senso di debolezza le invade il corpo. Malori improvvisi insospettiscono chi le sta vicino e teme per il suo stato psico-fisico. Da qui ne deriva un periodo di silenzio artistico durante il quale il suo pubblico non riesce ad avere informazioni in merito alla cantante.

Le svariate terapie, accompagnate a uno stile di vita più sano sembrano funzionare e a fine anni ’60 i quotidiani elogiano il ritorno della Piaf nei palchi francesi e stranieri. Vengono fuori successi musicali dall'inestimabile valore artistico, come Mon Dieu, Les Flonflons du bal, Mon Vieux Lucien, Les Amants. Sembra essere tornato tutto alla normalità ma è solo apparenza. Infatti, per esibirsi, deve essere accompagnata sotto braccio fino al palco e quando finisce gronda di sudore. Danielle Bonel, ultima segretaria di Édith Piaf, ricordando quei momenti dirà in un’intervista: “Che cosa potevamo fare? Édith era felice solo sul palco, lei faceva l’amore con il pubblico. Noi dietro le quinte la vedevamo in uno stato terribile, consumata, distrutta, esausta, ma non appena saliva sul palco, come per miracolo, stava bene”.

In questo periodo fa la conoscenza di un giovane greco di bell’aspetto, Théophanis Lamboukas di cui la cantante si invaghisce e solo dopo poco tempo lui le chiede di sposarlo. Édith dichiarerà successivamente che solo da quel momento in poi aveva capito il vero valore della famiglia e del sentimento sincero dell’amore.

Nel 1963, solo un anno dopo il matrimonio, l’ètoile comincia ad accusare alcuni malori dovuti a una tosse persistente e quando le viene diagnosticata una broncopolmonite è costretta assieme al marito a tornare nel sud della Francia. Il suo medico la mette in guardia: o smette di esibirsi in pubblico o muore. Ha un corpo fragilissimo che come una candela arde troppo in fretta. Questa condizione si fa sempre più seria fino a quando il 10 ottobre del 1963, a soli 48 anni, si spegne per sempre. La causa della morte sarà identificata nella rottura della vena porta: l’abuso di farmaci, secondo i medici, è il motivo dei problemi epatici sviluppati rapidamente.

Al suo funerale prendono parte migliaia di persone venute da ogni parte del mondo, in fila per ore per vedere la sua bara per qualche secondo. Durante gli ultimi giorni di vita aveva scritto una lettera con la quale si rivolgeva ai suoi fan e a chi le era stato vicino fino a quel momento, tra le righe si legge: “…no non rimpiango niente di quello che è accaduto perché mi è servito da esperienza, ogni esperienza mi è servita per esprimermi, per provare tutte le emozioni e io ne ho provate tante. Quindi so di che cosa parlo”. Nel 1982 l'astronoma sovietica Ljudmyla Heorhiїvna Karačkina ha scoperto un asteroide, classificandolo col numero 3772 e denominandolo con il nome dell’artista: "3772 Piaf".

Il maltempo, il mistero e il ghiaccio: e l’aereo di Otis Redding si inabissò in gelide acque. Il cantante Otis Redding morì a seguito di un incidente aereo: molte band noleggiavano o possedevano velivoli per i tour. Le cause dello schianto non furono mai scoperte. Angela Leucci il 25 Giugno 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Chi era Otis Redding

 Lo schianto nel fiume

Nella storia della musica si annoverano diversi brani usciti postumi, ma quello di Sittin’ on the Dock of the Bay di Otis Redding è un caso unico. Venne registrato tra il 6 e il 7 dicembre 1967, ma pochi giorni più tardi l’artista morì in seguito a un disastro aereo. La canzone, un inno allo starsene in panciolle di fronte alla bellezza della natura, restò in un certo senso incompiuta, con dei fischiettii al posto di diversi versi, ma fu anche questa caratteristica a farla diventare un successo internazionale quando venne pubblicata ugualmente a gennaio 1968.

La vicenda dell’incidente aereo di Otis Redding invece presenta alcune similitudini con quelli occorsi ad altri musicisti prima e dopo di lui. Ovvero Buddy Holly, Ritchie Valens e The Big Bopper, che perirono il 3 febbraio 1959, e alcuni membri dei Lynyrd Skynyrd che trovarono la morte a seguito di uno schianto il 20 ottobre 1977. Tutti questi artisti, a causa dei continui spostamenti legati a esibizioni dal vivo, acquistarono o noleggiarono infatti un velivolo che ebbe un terribile incidente.

Chi era Otis Redding

Probabilmente non esiste una persona al mondo che, anche involontariamente, non abbia mai sentito una canzone di Otis Redding. I suoi brani infatti sono stati ipersfruttati nella pubblicità e al cinema: per esempio I’ve Been Loving You Too Long, oppure versioni originali da brani altrui come Try a Little Tenderness, My Girl oppure Knock on Wood, e ancora canzoni scritte ma poi rese celebri da altri come Respect, della quale tutti ricordano associata la voce di Aretha Franklin.

Fu una vita breve ma costellata di musica quella di Otis Redding (fu praticamente a un passo dall’entrare nel luttuoso Club 27): nato in Georgia nel 1941, mosse i suoi primi passi tra nel note nella locale chiesa battista. La sua carriera artistica prese invece il via nel 1960 e da allora si susseguirono dischi, tour, passaggi in radio e in televisione.

E quindi, come accennato, fu in un certo senso costretto dagli eventi a optare per una soluzione logistica che velocizzasse gli spostamenti da un luogo all’altro per i concerti e le apparizioni. Questa soluzione si concretizzò nell’acquisto di un bimotore Beechcraft 18, che poi fu il mezzo protagonista dell’incidente aereo che uccise il cantante e la sua band, i Bar-Kays. 

Il Beechcraft 18, chiamato anche Twin Beech, è un bimotore ancora oggi prodotto dalla Beech Aircraft Corporation, che apportò numerosissime modifiche al modello originario che è datato 1937. Si tratta di un velivolo piccolo, capace di ospitare fino a 11 passeggeri, e fu proprio il modello con cui Otis Redding ebbe l’incidente.

Nei primi giorni di dicembre 1967, Redding era impegnatissimo con il suo mestiere di musicista. Aveva registrato alcuni brani in uno studio di Memphis, nel Tennessee, ma era prevista un’apparizione in una tv di Cleveland, in Ohio, e successivamente un concerto a Madison, nel Wisconsin. Un percorso lungo oltre 1200 miglia terrestri, quasi 2000 chilometri, un itinerario troppo faticoso e dai tempi ristretti per essere affrontato su ruote.

Così il 9 dicembre, dopo aver telefonato alla moglie e ai figli, l’artista partì alla volta di Madison, dove avrebbe dovuto esibirsi in un locale, il Factory. Contro di lui e la sua band, su quel piccolo aereo, c’erano due fattori sfavorevoli: i tempi risicati e il maltempo. Il tragitto era funestato da nebbia e pioggia, il che incise con la scarsa visibilità. Ma non si sa cosa abbia provocato l’incidente in realtà, dinamica e cause non furono mai stabilite con certezza.

Quel poco che si sa è legato alle comunicazioni del velivolo e al racconto dell’unico sopravvissuto. Il volo, in effetti, sembrò andar bene: a 6 chilometri e mezzo da Truax Field a Madison, all’alba del 10 dicembre 1967, il pilota Richard Fraser chiese alla torre di controllo di consentire l’atterraggio. Ma il Beechcraft non giunse mai sulla pista, perché si schiantò nel lago Monona.

La "profezia", poi l'aereo cadde: il giorno in cui morì la musica

Con Redding e il pilota morirono tutti i membri della band tranne uno: i loro nomi erano Jimmy King, Phalon Jones, Ronnie Caldwell, Carl Cunningham, Matthew Kelly. Sopravvisse loro Ben Cauley, che si era addormentato, ma si svegliò qualche minuto prima dello schianto, sentendo Jones esclamare: “Oh, no!”. Quando l’aereo si inabissò, Cauley, che non sapeva nuotare, afferrò un sedile del velivolo e così si salvò.

Fu molto complicato recuperare i corpi: il lago era ghiacciato e lo stesso Redding si era congelato sul pavimento del Beechcraft e, per essere estratto, ci volle l’impiego di una fiamma ossidrica. Molti dei suoi resti finirono ustionati e al corpo fu tagliato un braccio. Sulla mano aveva ancora un anello d’oro, un dono della moglie, con l’incisione “Otis Redding, The Big O”: fu riconosciuto subito grazie a esso. I suoi funerali si svolsero il 18 dicembre, e vi parteciparono i nomi più importanti della black music, da James Brown a Stevie Wonder, fino a Solomon Burke e Aretha Franklin.

Barbara Costa per Dagospia il 12 marzo 2023.

Tr*ia”.“Cagna”. “Scrofa sc*panegri”.“Catorcio del Texas”. “Canti come un’oca strozzata”. Quanto possono far male certe parole? E quanto possono condizionarti la vita? Avvelenartela. Guastartela nel sangue. Farti scegliere uomini sbagliati. Sabotarti. Pentirti. E ricominciare. Da capo. Come prima. Peggio di prima. Perché la ricompensa mica esiste, è una favola, stupida, come non esiste l’amore, di una vita, e la vita non va per il verso giusto nemmeno se arrivi a guadagnare 750 mila dollari l’anno, e sei in prima pagina ovunque.

Janis Joplin è stata sulla Terra 27 anni e, se non l’avessero ritrovata morta per overdose col corpo riverso tra il letto e il comodino di una camera d’albergo – 18 ore dopo che era schiattata – quest’anno avrebbe festeggiato 80 anni. Che non avrebbe voluto vivere. Janis Joplin mai ha voluto una esistenza "normale", Janis Joplin voleva solamente una tregua. Dalla vita. Dal livore che in vena gli avevano iniettato gli uomini che aveva amato, le donne che aveva sc*pato, di più i genitori con cui le era toccato crescere. Già.

Perché se ti capita una madre di te gelosa, di te star invidiosa, una madre che vorrebbe che “mai fossi nata”, e lo stesso tuo padre, che né ti parla, né ti guarda in faccia… Qualcuno tali terribili verità la forza di dissotterrarle ce l’ha, è Barbara Baraldi, e l’ha scritte ne "Il Fuoco Dentro. Janis Joplin. Il Romanzo" (Giunti), dove il veleno tra Janis e la sua famiglia, tra Janis e i suoi amanti, e tra Janis e Janis, torna su, e riprende a scorrere. Barbara Baraldi fa rivivere la Joplin, e con lei il suo universo di rockstar, manager, parassiti, pusher, e quell’humus dei '60 base di ciò che tuttora imitiamo, pensiamo e compariamo.

Torna Janis Joplin e le sue ossessioni, la sua ricerca disperata di un uomo da amare in quanto donna la più famosa e emancipata della sua generazione. Gli uomini ti massacrano il cuore pure se sei povera, pure se sei nessuno, ma, se sei qualcuno, “stanno” con te ma “non sono” con te. Non ti amano, come non hanno amato Janis, come l’hanno vessata da adolescente per la sua diversità, eccentricità, per quel viso e forme non belli, butterati, ma riusciti a imporsi con innegabile talento sugli altri.

E il talento sprigiona astio: l’avrebbero messa al rogo, se avessero saputo, di quel suo neo, sul capezzolo, esoterico simbolo di stregoneria…? Nessuno ti perdona il successo. Nessuno. L’uomo medio, comune, figlio di quel perbenismo a cui hanno puntato i tuoi compagni di scuola, dove si sono fermati i tuoi genitori, si odiano – e ti odiano – per ciò che riveli. Vale a dire, la loro mediocrità. Non la perdonano e non la sopportano la promiscuità sessuale di Janis, non tollerano che Janis sia ricca, celebrata, e senza un marito che la giustifichi a donna secondo le regole sociali.

Non possono accettare la fame d’amore, l’ingordigia di sesso che Janis sbandiera sui giornali, e in TV. E Janis Joplin al culmine della fama l’uomo giusto non se l’aspetta più, no: e non lo vuole più. Gli uomini, se li paga. Li ha sempre pagati. Anche le volte in cui si illudeva di essere riamata senza interesse. Ogni uomo ha voluto da Janis un po’ della sua luce, e un gruzzolo dei suoi soldi.

Uomini totalmente incapaci di affiancare una donna rockstar. Persino uomini che le ordinano di scegliere, “o me o la musica”, perché il loro pisello si ammoscia, davanti a “quel tuo sguardo che scavalca”. Mollare il microfono, spegnere quel “fiume di lava che le scorre in gola”, in cambio di che? Di far la casalinga, la serva??? E non solo all’uomo, di turno, addirittura alle donne, a letto, con Janis, sanguisughe di eroina: “Quanto è bello sc*pare dopo che ci siamo bucate?”.

È vero che Janis era bisessuale. E che ha avuto amanti mantidi di droga. Si comincia a farsi per mille motivi e nessuno. Janis ha iniziato a bucarsi d’amfetamina “e il cervello ti va a velocità supersonica!”. Più 50 sigarette al giorno, LSD viola, e inesauribili sbronze di Southern Comfort cannella e vaniglia ed “è dolce, l’arma che hai scelto per ucciderti”, le insinua Jimi Hendrix la sera che non se l’è voluta sc*pare. Perché spesso fare sesso, con una celebrità, o col primo che ti piace, porta a reciproco ansimare per sfrego di genitali, ma non riempie il vuoto dentro. Lo amplia. L’eroina ti inganna a zittirlo.

 Quel “mormorio seducente nei corridoi della mente”, ogni eroinomane crede di poterlo controllare, ma non è possibile. Nel caso di Janis, si fa di ero “i primi tempi solo dopo i concerti, e poi durante i weekend. Presto i weekend si estendono dal giovedì al lunedì, ma c’è voluto poco perché l’appuntamento diventasse quotidiano. Ogni 4 ore”.

Prima dell’ultima dose, quella fatale, Janis Joplin era pulita da 4 mesi. “È fantastico, e fa male”. Perché, senza eroina, ti batte e lo "senti" più forte. Quanto sei sbagliata, per chi vuoi bene. E auto condannata alla solitudine. “Io a ogni concerto faccio l’amore con 25 mila persone. Poi torno a casa da sola”. 

Jim Morrison avrebbe 80 anni, il tormento del re lucertola: «Io voglio scrivere, non esibirmi». Matteo Cruccu su Il Corriere della Sera venerdì 8 dicembre 2023.

La sorella Anne e l’amico Frank Lisciandro hanno realizzato il sogno del leader dei Doors: raccogliere in un libro i suoi 28 taccuini di poesie, appunti e diari. La rockstar scrisse: «Provo dispiacere per le notti e gli anni buttati via»

In occasione degli 80 anni di Jim Morrison, ripubblichiamo la recensione del monumentale volume uscito l’anno scorso per Rizzoli: «Tutti gli scritti di Jim Morrison, poesie, diari, appunti e liriche»

«A 18 anni, usciti dal college, tutti i ragazzi chiedevano un’auto nuova o un abito all’ultima moda ai propri genitori, lui no: da nostro padre volle l’opera omnia di Nietzsche». Come si conviene agli eroi sempiterni e agli dei caduti, Jim Morrison, oggi che compie 80 abbu, sembra averne 27 per sempre. Ma il fauno dei Doors è stato anche un bambino della middle class americana, figlio di un ammiraglio della marina, un adolescente inquieto perché sempre in movimento per il lavoro del padre, prima di diventare il giovane adulto definitivamente ribelle che tutti conosciamo. Il vivido ritratto di cui sopra viene infatti da Anne Morrison Chewning, la sorella e l’unica, in vita, ad aver avuto rapporti con il fratello, una volta diventato celebre: già, Jim amava dire, in svariate interviste, che i genitori fossero morti, immaginifica benzina per alimentare il mito del dio senza ascendenza (mito dato subito per buono, ai tempi in cui Wikipedia non c’era).

I 28 taccuini ritrovati

Ed è la stessa Anne, oggi 75enne insegnante in pensione, ad aver curato insieme all’amico di sempre del cantante, il fotografo Frank Lisciandro, il monumentale zibaldone: «Tutti gli scritti di Jim Morrison, poesie, diari, appunti e liriche» ora tradotto da Rizzoli. Ovvero 582 pagine tratte dai 28 taccuini e varissimi altri materiali appartenuti a Jim, scribacchiati, durante la sua breve esistenza, ovunque gli capitasse a tiro, fogli di giornale, note d’albergo, fazzoletti e tovaglioli. Nella vorace intenzione di dimostrare sempre e comunque un assunto: il sinuoso Re Lucertola in pantaloni di pelle attillati, il rauco urlatore di incantevoli oscenità, il sex symbol desiderato da migliaia di teenager, non si considerava in realtà un cantante, una rockstar, ma uno scrittore. La sua più grande soddisfazione, nei tumultuosi quattro anni, dal 1967 al 1971, che lo porteranno dai fasti planetari di Light My Fire alla morte in una vasca da bagno parigina, fu infatti quella di pubblicare, col suo nome completo, James Douglas Morrison, due libriccini di poesie, tirati tra le 100 e le 500 copie, The New Creatures e An American Prayer.

«Abbiamo esaudito il suo desiderio»

«Tutti questi appunti li abbiamo ritrovati con una dicitura Plan for book, progetti per un libro. Ora abbiamo esaudito il suo desiderio» dice ancora la sorella. E, facendo un salto all’indietro agli anni del college, ricorda: «Leggeva sempre mio fratello e ogni occasione era buona per comprarsi un libro o per saltare le lezioni e infilarsi in una biblioteca per immergersi nei suoi autori preferiti». Ed è un pantheon molto preciso, quello del futuro Jimbo: Rimbaud, Baudelaire, Molière, Balzac e Flaubert, i classici greci, da Sofocle a Plutarco ma anche i contemporanei americani, i maestri della beat Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Gregory Corso e Lawrence Ferlinghetti. Un pantheon che forgerà poi i testi, immortali, dei Doors (nome anch’esso coniato da lui, vedi Aldous Huxley e le sue porte della percezione), tutti riportati, dal primo all’ultimo, nello zibaldone appena uscito. «Quando, per esempio, in The End, Jim dice di voler uccidere il padre e fare all’amore con la madre, si riferisce all’Edipo Re di Sofocle, non certo ai nostri veri genitori» puntualizza ancora Anne.

NEL 1969 A MIAMI DURANTE UN CONCERTO SI DENUDÒ E INSULTÒ IL PUBBLICO: «MUCCHIO DI FOTTUTI IDIOTI, BRANCO DI SCHIAVI»

Jim e il padre: scontro epico tra generazioni

Già, Jim non voleva uccidere il padre ammiraglio (che compare in molte foto inedite nel volume, istantanee da piccola borghesia americana, gite, balli di fine anno, formalismi in giacca e cravatta), ma lo scontro con lui è lo scontro epico tra le generazioni degli Stati Uniti dei ribollenti Anni 60: il militare dirige le manovre nel Tonchino, in Vietnam mentre il figlio canta uno dei più begli inni antimilitaristi di sempre The Unknown Soldier. Con Jim che appunto in vita lo disconobbe, si riconcilierà solo dopo la sua morte, quando peraltro, portata via dall’eroina anche la compagna, Pamela Courson, diventerà insieme ai genitori di lei, ironia della sorte, erede unico della fortuna del cantante. «Aveva una sua morale, ha seguito la sua strada fino alle estreme conseguenze, avrei voluto conoscerlo meglio» dirà poi l’anziano ammiraglio, oramai in pensione, quasi non nascondendo le lacrime, in una delle ultime interviste prima di morire, a quasi novant’anni nel 2008.

A braghe calate sul palco: processato

Ma per quel Jim che non conosceva, il momento della sfida più grande all’establishment (e quindi a suo padre) avviene quando, il 1 marzo 1969, si cala le braghe davanti al pubblico a Miami, mostra i genitali e li insulta: «Mucchio di fottuti idioti, branco di schiavi». È l’inizio della fine e nulla sarà più come prima per il cantante: viene portato via dai poliziotti e accusato di atti osceni e ubriachezza molesta. Il 10 agosto 1970 si apre il processo, sempre a Miami: Jim annota tutto quello che accade, restituendo vividi ritratti della giuria, il suo esatto opposto, «Signor A. veterinario, ex allenatore di cavalli da corsa» oppure «Signora D, casalinga, vestito blue vivace». Sembra un marziano, Jim, in quelle aule di tribunale, traspare con evidenza dagli appunti, integralmente presenti nel volume: ne uscirà condannato a sei mesi e solo una cauzione di 50.000 dollari gli eviterà il carcere. Un marziano autostoppista.

La sceneggiatura di un corto

Nello zibaldone c’è anche la sceneggiatura di Hwy un corto in cui egli stesso si ritrae come un nomade per le strade di Los Angeles: la trama è forse un po’ strampalata, ammazzamenti misteriosi, visioni oniriche e la conclusione nel suo luogo del cuore, l’ultimo bar di Los Angeles, il “Whiskey a Go Go” sul Sunset Strip. «Una sorta di esercizio, per me, un riscaldamento per qualcosa di più grande» avrebbe detto lui in una delle sue ultime interviste. Quel qualcosa di più grande non sarebbe arrivato, ma Hwy, è un altro lato, hippy e libertario, dell’articolato, prisma morrisoniano, in cui grande importanza hanno dunque le poesie: sincopate, allusive e incomprensibili al contempo, immerse nelle sottoculture americane dell’epoca, l’hashish e l’amore libero, l’avversione all’autorità, il culto anarcoide dell’autostoppismo appunto. O per dirla con Tim Robbins, apprezzato scrittore americano a quelle sottoculture molto connesso a cui è stata affidata l’introduzione del volume: «Miriadi di versi sconnessi sciami di scintille cerebrali, lucciole nella notte».

Un testo che è come un requiem mozartiano

Una frammentazione che si compatta nel finale, estremamente malinconico. Se mi guardo indietro è l’inedito più interessante di tutto il libro: scritto poco prima dell’esilio parigino, da dove non tornerà più indietro, pensato come il congedo dalla natia America, riletto oggi, suona come un requiem mozartiano: «Provo dispiacere per le notti e gli anni buttati via/dopo quattro anni mi sento come un martello sfibrato». Per chiudere infine: «La gioia di esibirmi è finita/ la gioia è il piacere di scrivere». Sì, la corsa è conclusa, Jim ora è uno scrittore per davvero.

Barbara Costa per Dagospia venerdì 8 dicembre 2023.

“Nessuno vuole amare il mio c*lo???”, disse sul palco a Miami e oggi, per il suo 80esimo compleanno, facciamo chiarezza: ma Jim Morrison, era gay, sì o no? Sì e no, è la risposta più esatta, a Jim Morrison “davvero non importava chi glielo succhiasse, a patto che ci fosse comunque qualcuno che glielo prendesse in bocca”!

I biografi concordano: Morrison era bisex, amava uomini e donne, pure le trans, però aveva questo problema: che gli piacessero i peni, se ne vergognava. Morrison era “un gentiluomo del Sud”, e un ragazzo timido, coltissimo, e gentile e educato, tranne quando beveva, cresciuto secondo i valori del Sud americano, e ciò non vuol dire che era bigotto, no no, ma che paventava le cattiverie che essere non etero, nei '60, molto peggio di adesso piagavano le persone.

Ci sono biografi che accennano, senza prove, a una mal vissuta bisessualità di Morrison a causa di molestie che avrebbe subìto da bambino. In famiglia, non si sa da chi. E biografi che insistono su un Morrison che ha dato prima la verginità anale, da adolescente, a un uomo più grande di lui, forse il proprietario di un bar, e su un Morrison che, in seguito, a 19 anni, ha fatto sesso etero la prima volta con la coetanea Mary Werbelow. 

Questo “Dioniso arrapante vestito di pelle nera” era tale prima che per l’alcool si gonfiasse fino a sfiorare, con quel panzone, il quintale: alto 1,80, 66 chili, capelli lunghi ondulati mai pettinati, occhi grigio-azzurri, e un pene “sopra la media”, con cui Jim era anal-sadico. Ce lo confermano – grossezza del pene compresa – le sue amanti, groupie e no, e tra le groupie Devon Wilson, che Jim a letto ambiva tre cose: legarle, con forza prenderle da dietro, e leccargli il sesso.

La sua linguesca passione è fermata in alcune canzoni, come nella sua versione di "Gloria" dei Them, “lei venne nel mio letto/ sul mio tappeto/ nella mia bocca”, e pare che Jim patisse la differenza tra vulve: quella di Nico, modella, attrice e vocalist dei Velvet Underground, era “soffocante, troppo carnosa e pelosa”. Fare con Jim un anale passivo era terribile per Pamela Courson, sua fidanzata ufficiale. Pam si lagnava che Jim “non mi sposa” e che con lei in missionario “non gli si alza…”. 

L’opposto ha scritto Patricia Kennealy, giornalista rock e moglie di Jim per cerimonia stregonesca. Patricia afferma che si sono sposati il 24 giugno 1970, con rito Wicca: “Ci siamo tagliati, e scambiati e bevuti il sangue, e poi Jim mi ha sc*pato sette volte in due ore”.

Ma se ci sono stati, chi sono stati, gli amanti di Jim Morrison? Io vi dico quelli famosi perciò gossip-ati: Brian Jones, la cui morte sconvolge Jim, e per la cui morte Jim compone una "Ode a L. A. pensando a Brian Jones, deceduto", “punteggiata di particolari frutto di esperienza personale”. 

E inoltre Ray Manzarek, con Jim fondatore dei Doors, e con cui prima dei Doors Jim convive a tre con la di Ray fidanzata, Dorothy. Ora io sapevo che Jim avesse ringraziato e posto termine alla convivenza poiché stufo di come lo facevano, Dorothy e Ray, “troppo rumorosi!”, e invece ci sono biografi (Philip Avon) autori di bio erotiche sul re lucertola che m’informano dei loro threesome. Altro amante di Jim, lo scrittore Michael McClure.

E io che lo sapevo suo amicone di sbronze e di sceneggiature, e basta! McClure era pure sposato, e padre. Allen Ginsberg ci ha provato, con Jim, ma è stato rimbalzato, Andy Warhol, pure, ma Warhol era in fin dei conti asex con tendenze voyeur: curiosava le sue Superstar – Edie Sedgwick, Nico, la trans Candy Darling – alla Factory, oralmente intente a Jim.

Robby Krieger, chitarrista dei Doors, nella sua autobiografia si fa sicuro della sterilità di Jim. Aggiornasse gli spermatozoi: Jim ha messo incinta Patricia, che ha abortito. E di donne che hanno chiesto soldi per interrompere sgradite gravidanze morrisoniane, l’avvocato di Jim, Max Fink, ne ha "seguite" una ventina. Più un paio di estorsioni di amanti uomini, di Jim, volenti denaro, tanto denaro, per starsene zitti.

Barbara Costa per Dagospia il 18 Settembre 2023 

Jim Morrison è morto per un mix letale di alcool e eroina. Jim Morrison non aveva mai assunto eroina prima di rimanerci secco no, no, no, l’ha fatto solo una volta, la notte tra il 2 e il 3 luglio 1971 e, pauroso degli aghi, non se l’è iniettata, ma l’ha sniffata. Eroina pura che, associata ai litri di alcool che Jim tracannava senza sosta, l’ha fatto strippare. È ciò che espone Hervé Muller, giornalista francese autore di "Jim Morrison. Ultimi Giorni a Parigi", libro del 1973 che, dopo la bellezza di 50 anni finalmente è tradotto in italiano, e rendiamo un superbo grazie a Federico Traversa, e a tutto il gruppo di Castello Editore. 

Chiunque ne voglia sapere compri e legga questo libro, si faccia la sua opinione, e io, schietta doorsiana manzarekiana, ne dico la mia, e non ci vado leggera: ci si può fidare di Hervé Muller, un tipo minato da turbe mentali e degente in ospedali psichiatrici??? Per di più, si tenga presente che Muller non ha "conosciuto" Jim Morrison, manco per niente. Nossignori.

Perché Hervé Muller a Parigi – come scrive nel libro – Jim Morrison lo ha visto solo 3 volte, e precisamente: la notte del 29 maggio 1971, quando un suo amico, tale Gilles, gli porta Jim ubriaco fradicio (e tentato di tuffarsi nella Senna) a casa. Jim si sveglia la mattina nel letto di Hervé e della di lui moglie Yvonne, si presenta e, per ricambiare l’ospitalità di aver ronfato ai loro piedi, li invita a pranzo fuori, allo chiccoso "Alexandre": qui Hervé Muller scatta le famose foto di Jim che magna a Parigi.

In questo ristorante Jim si ubriaca di nuovo, e Hervé e la moglie se lo riportano a casa. In seguito, incontrano Jim una seconda volta con la di Jim fidanzata storica, l’eroinomane Pamela, e Jim dona a Hervé una copia del suo "An American Prayer", chiedendogli se può tradurlo in francese. Su questo, si sentono una volta al telefono. Vanno una sera a teatro, e vedono "Lo Sguardo del Sordo", di Bob Wilson. Poi Hervé parte per la Grecia dove, sui giornali, sa della morte di Jim. Stop.

Su questi 3 contatti dico 3, Hervé Muller fonda la sua teoria da morte per unica sniffata di eroina su cui non ha la benché caz*o di prova – lui non è con Jim quando muore, non è dove accadono i fatti – se non il racconto di ignoti eroinomani che gli avrebbero rivelato: Jim è collassato d’ero al locale "Rock 'n' Roll Circus".

Da lì, persone non identificate avrebbero portato Jim in overdose a casa, da Pamela, e posto in vasca, in acqua fredda, a rianimarlo. Il tutto, lo sottolineo, non retto da una MINIMA PROVA se non l’opinione personale di Hervé Muller che Pamela abbia mentito nella versione passata alla storia. Versione che è l’interrogatorio di Pamela alla centrale di polizia che Hervé Muller nel suo libro riporta per intero e che registra che: la sera del 2 luglio 1971 Jim va a cena con Alain Ronay, suo amico dai tempi dell’università. Poi Jim ma con Pamela va al cinema, a vedere "La Valle della Paura", con Robert Mitchum. Tornano a casa, lei lava i piatti, lui proietta diapositive, poi a letto non fanno sesso, ascoltano dischi.

Si addormentano. Pamela si sveglia e sente Jim rantolare. Lo scuote. Jim dice di sentirsi male, al petto, (non era la prima volta negli ultimi mesi, un medico gl’aveva prescritto pastiglie che Jim non aveva preso). Jim si alza per farsi un bagno caldo. Dal bagno chiama Pamela, “sto male, mi sento strano…”, Pamela in cucina prende “una pentola arancione” dove Jim vomita 2 volte “liquido e sangue”, la terza “grumi di sangue”.

Così dice a Pamela di star meglio e di tornare a dormire. Verso le 5 del mattino Pamela di risveglia, accanto a lei Jim non c’è. Pamela corre in bagno. Jim è inerte nella vasca che perde sangue dalle narici. Pamela cerca di tirarlo fuori, e non ci riesce. Telefona a Agnès Varda e Jacques Demy (registi, loro sì, veri amici di Jim e Pamela a Parigi), e urla loro di chiamare aiuto (Pam non parla francese). Essi chiamano ambulanza e i vigili del fuoco che tirano fuori Jim dalla vasca, gli fanno massaggio cardiaco, inutile. Jim è morto. Il capo dei vigili dichiara: “Il corpo era ancora caldo, se intervenuti prima, c’erano delle possibilità di salvarlo”.

Secondo la versione ufficiale Jim è morto per arresto cardiaco. Non viene fatta l’autopsia. Il medico legale stabilisce che non è morte da suicidio o omicidio. Jim soffriva di problemi respiratori, da tempo, tossiva e vomitava, da tempo, non si curava se non con medicina indios.

La tesi di Hervé Muller è in quasi ogni libro sui Doors, e però: perché Jim si sarebbe fatto per la prima volta di eroina, quando è risaputo e comprovato che Jim era un alcolista sfondato che odiava l’ero (lo diceva, in interviste, da ultimo a Bob Chorush, "L.A. Free Press": “Odio il genere di sottili implicazioni necessarie per procurarsi quella roba, così non l’ho mai fatto. Per questo mi piace l’alcool. Si può scendere al negozio all’angolo o al bar, lo trovo lì”) ? Jim ha sniffato ero, quella sera, ribatte Hervé Muller, “perché depresso”. Sarà. E perché il cadavere di Jim “era ancora caldo” se, come sostiene Muller, “Jim in overdose da ero è stato messo in acqua gelida per rianimarlo” ? È stata Pamela, ti schiuma Muller, “a metterci l’acqua calda, è Pamela che mente”. 

E perché per il su-Jim-la-verità-la-so-io Hervé Muller, Pamela ci avrebbe mentito? Muller, senza una stracavolo di prova, dice che Pam ha mentito per salvare il c*lo al suo amante e pusher, conte Jean de Breteuil, colui che avrebbe dato l’eroina fatale a Jim. Lo stesso dice senza una prova se non che era amante e cliente del conte pure lei, Marianne Faithfull, nel 1971 eroinomane persa, sicché, te la raccomando... Ricordo che Pamela è morta nel 1974, lei sì di overdose da ero, sicché, hai voglia a dirne male…

Infine, non capisco l’insistenza di Muller sul "complotto" della sepoltura di Jim, avvenuta il 7 luglio, “4 giorni dopo la sua morte!”: non lo sa, il signor Muller, che Jim muore di sabato, il 4 è domenica (e festa indipendenza USA), e ci son volute 24/48 ore per avere atti e via libera dall’ambasciata USA??? Queste cose le so io, nipotina Doors, e non le sa chi, nel 1971, c’era, a Parigi, insieme a Jim??? 

50 anni senza Bruce Lee: i 4 film che hanno cambiato la storia. Il più influente artista marziale di tutti i tempi è riuscito a coniugare alla perfezione Oriente e Occidente, tracciando un solco nella storia della settima arte. Massimo Balsamo il 20 Luglio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Il furore della Cina colpisce ancora (1971)

 Dalla Cina con Furore (1972)

 L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente (1972)

 I 3 dell'Operazione Drago (1973)

Grazie a lui il cinema di arti marziali ha assunto rilevanza mondiale e nonostante la prematura morte – avvenuta ad appena 33 anni a causa di un edema cerebrale causato da un’allergia a un farmaco, nel pieno del successo – continua a rappresentare un punto di riferimento per tutti i cinefili. Sono trascorsi esattamente cinquant’anni dalla scomparsa di Bruce Lee, l’artista marziale più influente di tutti i tempi.

Koo: la musica dei pugni di Bruce Lee

Bruce Lee è entrato nell’Olimpo della settima arte grazie alla sua capacità di operare una fusione di Oriente e Occidente: ha conservato i caratteri espressivi tradizionali del gongfu adattandoli alla dimensione urbana e ai generi. La presenza unica, un carisma senza pari, il gusto quasi gratuito per lo scontro: sono tanti i fattori che lo hanno reso un’icona, andiamo a scoprire i 4 film che hanno cambiato il corso della storia del cinema.

Il furore della Cina colpisce ancora (1971)

Presentato da noi come secondo capitolo di una serie, “Il furore della Cina colpisce ancora” di Lo Wei in realtà è il primo interpretato da Bruce Lee al suo ritorno a Hong Kong. Colpisce la straordinaria ambientazione moderna e la personalità magnetica di Bruce Lee, che si carica il racconto sulle spalle e offre un’interpretazione memorabile. La trama non è particolarmente frizzante, ma gli appassionati del genere passano tranquillamente oltre.

Dalla Cina con Furore (1972)

“Dalla Cina con furore” segna la seconda collaborazione tra Bruce Lee e Lo Wei. Ambientato nella Shanghai di inizio Novecento, il film è basato su fatti e personaggi reali ed è profondamente nazionalista, puntando il dito contro i giapponesi, gli invasori stranieri. Da menzionare lo straordinario finale epico. Il film raccolse un incredibile successo fin dalla sua prima ad Hong Kong, la definitiva consacrazione per Lee.

L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente (1972)

“L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente” è il primo film interpretato, diretto e scritto da Bruce Lee. C’è una sorprendente componente comica che funziona e le sequenze di combattimento – quasi tutte girate in studio - sono estremamente curate. L’opera è stata girata in Italia e include la leggendaria scena di combattimento nel Colosseo. Impossibile non menzionare un giovanissimo ma già carismatico Chuck Norris.

I 3 dell'Operazione Drago (1973)

“I 3 dell’Operazione Drago” è l’ultima pellicola completata da Bruce Lee prima della morte, ma anche la prima pensata per il mercato occidentale. Diretto dallo statunitense Robert Clouse, il film coniuga il cinema d’azione di Hong Kong e una spy story. Parecchio ambizioso, ma la scommessa è stata vinta. Straordinario successo al botteghino, nel 2004 è stato scelto per essere conservato nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.

Estratto dell'articolo di Mirko Molteni per Libero Quotidiano il 19 luglio 2023.

«Be water, my friend!». «Sii acqua, amico mio!», declamava Bruce Lee in un’intervista del 1971. Poche parole racchiudono il mistero di un uomo, che resta tale a 50 anni dalla sua prematura morte, il 20 luglio 1973, per un malore. Ricordare il maestro del cinema d’arti marziali solo per i quattro film che, dal 1971 al 1973, lo consacrarono, è riduttivo. Bruce Lee è stato attore, sceneggiatore, regista, ma anche filosofo e mistico. Lo schermo fu per lui veicolo per diffondere una sua concezione di vita tesa a recuperare nell’uomo una spontaneità non recintata da stili o regole fini a sé stesse.

[…] 

Bruce emigrò in America, dove emerse come istruttore di kung fu e attore. Nel 1967 inventò una sua corrente, il Jeet Kune Do, “La Via del Pugno che Intercetta”, nuova arte marziale estrapolata dal kung fu, ma depurata dei formalismi. Aveva trovato un modo per rendere popolari in Occidente le arti marziali, proponendo l’esplorazione di tutti i movimenti di cui è capace il corpo umano, a seconda delle necessità istantanee del combattimento. Come l’acqua che si adatta ai recipienti!

Tutta la genesi del pensiero di Bruce è ricostruita da un nuovo libro. In Bruce Lee. L'avventura del Piccolo Drago, edito da 66thand2nd (320 pagine, 19 euro), Michele Martino narra l’epopea di come Bruce, con perenni esperimenti su sé stesso, in allenamenti e diete, non smise fino alla morte di cercare l’optimus fra potenza, velocità, resistenza. […]

Una di tali danze si vede in Dalla Cina con furore (1972), quando il protagonista interpretato da Lee, il giovane Chen, si trova circondato da una ventina di karateka giapponesi, dopo averli sfidati nella loro palestra. Come una ruota attorno al suo asse, i giapponesi giostrano attorno a Chen. Al girotondo, il cinese risponde ruotando anch’egli su di sé, per seguire con lo sguardo tutta la schiera nemica.

Era un mondo nuovo, per l’Occidente e l’Italia, dove l’autore Martino fu fin da ragazzo cultore del personaggio: «Quando ero piccolo, e in tv passavano i film di Bruce Lee, The Big Boss (Il furore della Cina colpisce ancora) era il mio preferito. Sapete perché? Perché per 40 minuti lui non combatte. Ma quell’energia trattenuta crea una suspense irresistibile, un senso d’attesa che vale più dell’azione che segue».

Come se Bruce fosse una balestra che accumula forza. L’autore spiega i trucchi del secondo, e un calcio rotante al terzo, il tutto senza stacchi e con velocità e precisione da capogiro». Il mito esplose già allora. All’uscita dai cinema, i ragazzi di borgata andavano a iscriversi alle palestre di kung fu, karate, judo. Molti erano di destra e se ne trova citazione nel film Romanzo Criminale, in cui il personaggio del Nero, il neofascista, è un judoka. 

Intanto, in Giappone, i fumettisti Buron Son e Testuo Hara ricalcavano sulla figura di Bruce il loro più famoso eroe, Kenshiro della Sacra Scuola di Hokuto. Quando i cartoni animati di Kenshiro arrivarono in Italia, tutti riconobbero nel guerriero del futuro postatomico le stesse espressioni e movenze dell’attore cinese. Come l’acqua in mille rivoli, Bruce Lee ha seguitato a scorrere.

Piccolo Drago. La lezione eterna di Bruce Lee sulla libertà e la creatività del combattimento. Michele Martino su L'Inkiesta il 20 Luglio 2023

A cinquant’anni dalla morte dell’artista marziale più famoso del mondo, Michele Martino racconta in un libro (pubblicato per 66thand2nd) le sue abilità fisiche e la capacità di superare le barriere culturali

Quando penso a Bruce Lee, che di James Lee era un grande amico (ma non un parente), mi torna sempre in mente la prima volta in cui l’ho visto, per fortuna su un grande schermo, quello del Reale di Roma, cinema storico, glorioso, trasformato più tardi in multisala, che oggi versa in stato di semi abbandono in fondo a viale Trastevere, con le porte a vetri oscurate dai graffiti e accanto un display digitale su cui scorrono pubblicità e trailer di film che forse nessuno andrà a vedere, per oggettivo disinteresse, o perché è più comodo aspettare che passino sulla (mica tanto) piccola (e interattiva) tv di casa.

Ricordo che siamo entrati a spettacolo iniziato, come si usava allora. Io, mio padre e mio cugino Marco. Il film era quello girato in parte a Roma, con il duello finale al Colosseo, e Chuck Norris nel ruolo del cattivo. L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente. Eravamo alla fine dei Settanta, o l’inizio degli Ottanta, io e Marco avevamo non più di sette o otto anni (oggi il film è vietato ai minori di quattordici). Ci siamo infilati tra le pesanti tende vermiglie del Reale, noi bambini davanti, con mio padre dietro, e siamo entrati nella sala buia. Abbiamo preso posto in una fila libera. Era uno spettacolo di seconda, anzi, terza, quarta o quinta visione. I sedili erano di legno. Lo schermo mi sembrava enorme, e noi lo guardavamo col naso in su. Al centro del grande telo iridescente c’era un uomo vestito di scuro, con gli occhi fiammeggianti, che allargava un braccio per invitare i suoi amici a farsi da parte. A stare indietro. Avrebbe accettato lui, da solo, la sfida di un’intera banda di criminali. «Vi interessa il kung fu?» diceva. «Sono qui per insegnarvelo». Dopodiché, in controtempo sull’attacco dell’avversario, colpiva con un calcio uno sgherro un po’ sovrappeso, con la barba e l’aria strafottente. Lo stesso che un attimo prima aveva steso in quattro e quattr’otto un «lottatore cinese», sfottendolo con una risata mentre l’altro precipitava nel mondo dei sogni, umiliando lui e la sua gente. I criminali avevano atteggiamenti e abiti «occidentali», due erano bianchi, due neri.

A quel tempo, ovviamente, mi sfuggivano i sottintesi di quel curioso confronto etnico, così come ignoravo che quegli attori fossero angloamericani chiamati a interpretare un branco di improbabili malavitosi romani, e che tutta la scena fosse girata in studio, a Hong Kong, tra scenografie di cartapesta. Nel frattempo mio padre aveva approfittato di un istante di pausa per sussurrarci che il tizio vestito di scuro con gli occhi fiammeggianti era Bruce Lee. Nel film si chiamava Chen. E lui un attimo dopo ruotava su sé stesso con una gamba al cielo per colpire di nuovo il malcapitato di prima, che crollava a terra come un sacco di patate. Gli amici di Chen, camerieri di un ristorante cinese e maldestri praticanti di karate, erano felicissimi che lui li avesse difesi. Qualche scena più tardi, Bruce Lee dava a tutti loro un saggio della sua arte, sempre lì sul retro del ristorante, in mezzo ai fondali dipinti. Uno degli amici, per proteggersi, si aggrappava a un grosso cuscino imbottito. Chen lo fissava per una frazione di secondo, faceva gli occhi della tigre, o meglio, del drago, si bilanciava sulle gambe e partiva, assestando un calcio al centro del cuscino. Il tipo che lo abbracciava finiva per essere scaraventato, al rallentatore, dopo un volo orizzontale di un paio di metri, contro una pila di scatole di cartone che gli crollava tutta addosso.

«Ti prego, Chen, fammi un favore,» esclamava allora il capocameriere, il più goffo e pingue del gruppo «insegna anche a me a tirare calci».

«Ehi,» lo rimbeccava un compare «non hai detto una volta che l’esercizio fisico non serve a niente?».

«Ma io mi riferivo al karatè giapponese. Questa è roba cinese».

L’altro a quel punto sembrava convinto, perché si toglieva la giacca dell’uniforme da karate e diceva agli amici, che lo imitavano entusiasti: «Beh, ragazzi, abbandoniamo anche noi il karatè, e prendiamo lezioni da Chen. Impariamo il kung fu».

A quel tempo, naturalmente, ero troppo piccolo anche per cogliere le sottigliezze di un dialogo del genere, le frecciate ai rivali giapponesi, la retorica del nazionalismo cinese. Per me il messaggio era solo uno: il kung fu è un’arte marziale superiore a tutte le altre e Bruce Lee il più grande combattente sulla faccia della Terra. Ero talmente piccolo che quando mio padre, alla fine del film, è uscito per andare in una cabina a telefonare a mia madre per avvertirla che lo avremmo rivisto tutto da capo, io avevo un po’ di paura a rimanere lì da solo, nella sala vuota, illuminata a giorno. Per fortuna c’era mio cugino. Perciò non potevo nemmeno sapere che nella realtà Bruce Lee non avrebbe mai combattuto in quel modo. Né potevo immaginare che «kung fu» era solo un’espressione – per alcuni impropria – che racchiudeva una miriade di stili diversi. Né che le mosse che avevo ammirato sullo schermo potevano chiamarsi «kung fu» solo di nome, per comodità, ma somigliavano semmai al tae kwon do coreano. Né che il copione lo avesse scritto Bruce Lee in persona, che probabilmente ci aveva infilato quelle battute solo per compiacere i suoi connazionali, il pubblico di Hong Kong, a cui la pellicola era inizialmente destinata.

In un’intervista registrata solo qualche mese dopo l’uscita del film, nel 1973 – nota come «the last interview» perché si ritiene sia l’ultima che abbia rilasciato prima di morire –, Bruce si sentì chiedere dal giornalista britannico Ted Thomas di esprimere un giudizio sui diversi sistemi di lotta. «Torniamo un attimo al combattimento,» gli dice Thomas «perché, che ti piaccia o no, è con quello che ti identifichi al momento. Esistono tanti stili di combattimento, karate, judo, boxe cinese, e c’è una domanda che ti avranno già fatto centinaia di volte: quale pensi sia il più efficace?». «Vedi,» replica Bruce, con la sua voce sibillina «la mia risposta è che non c’è un segmento [più] efficace di una totalità. Con questo voglio dire che personalmente non credo nella parola “stile”. Solo se gli esseri umani avessero tre braccia e quattro gambe, o comparisse un gruppo di individui strutturalmente diversi da noi, potremmo avere uno stile di combattimento diverso. Di base abbiamo due gambe e due braccia, l’importante è usarle al massimo in termini di direzione: linee dritte, linee curve, linee tonde». C’è il pugilato che si serve delle mani, continua Bruce, il judo che si serve delle proiezioni. «Non voglio denigrarle, ma dire soltanto che è a causa degli stili che le persone sono separate. Non sono unite perché lo stile è diventato la legge».

«Non credo più negli stili» aveva detto anche in un’altra intervista – nota come «the lost interview» –, con Pierre Berton, nel 1971. «Non credo che esista qualcosa come un sistema di combattimento cinese, o un sistema di combattimento giapponese, o un qualsiasi altro sistema di combattimento». E ancora: «Gli stili tendono a separare gli uomini, perché hanno le loro dottrine, e la dottrina diventa il vangelo, che nessuno può più cambiare. Ma se non hai uno stile, puoi dire: Eccomi qui, sono vivo, come posso esprimermi in modo totale e completo?». […]

C’è una famosa poesia di Kipling, La ballata dell’Est e dell’Ovest, ambientata in una remota regione dell’India coloniale, che racconta la storia di un indigeno dalla pelle scura che ruba il cavallo di un ufficiale britannico, il quale lo insegue per recuperare l’animale. «Oh, l’Est è l’Est e l’Ovest è l’Ovest, e mai i due si incontreranno» sono i versi iniziali della ballata, citati spesso per indicare l’incompatibilità tra Oriente e Occidente, impossibile da ricomporre. La poesia si chiude però con i due uomini, l’indiano e l’inglese, che si ritrovano faccia a faccia e giungono a una tregua, scambiandosi segni di mutuo rispetto. Perché nella realtà di un duello non possono esserci più né Oriente né Occidente, né confini, né distinzioni di razza, né certificati di nascita. Credo che Bruce Lee avrebbe sottoscritto. Tutta la sua ricerca sta lì a testimoniarlo. Una ricerca tesa a superare le barriere etniche, stilistiche, geografiche, a spogliarsi dei rituali, delle forme codificate, a dimenticare tutto ciò che ci divide, alla ricerca di una verità intima, della propria essenza, nel momento presente; cioè, nel suo caso, nelle condizioni concrete di un combattimento.

Le sue risposte a Thomas e a Berton erano il frutto di un lungo percorso, di una lenta maturazione. E nel formulare quelle parole, in ogni caso, Bruce Lee non stava attingendo solo al suo lavoro, alla sua esperienza, e nemmeno alla poesia di Kipling, ma stava parafrasando neanche troppo nascostamente il maestro che ammirava più di tutti, Jiddu Krishnamurti. Questo fa sorgere una domanda: Bruce Lee era davvero un filosofo, un mistico, o solo un pensatore di seconda mano, se non addirittura un plagiario? Alla prima domanda ne possono seguire anche altre, le solite che vengono tirate fuori quando si parla di Bruce Lee. Sapeva davvero combattere come nessun altro, o era solo un attore con qualche rudimento di arti marziali? Sapeva almeno recitare, o era solo un ragazzo con una bella faccia e un corpo scolpito in palestra, capitato al posto giusto al momento giusto? Incarnava sinceramente la fierezza del popolo cinese, o era solo un hongkonghese occidentalizzato che proprio per questo piaceva alle platee americane ed europee?

Che rapporto c’è tra lui, la persona in carne e ossa, e il personaggio dello schermo, l’icona cinematografica, l’eroe – violento? maschilista? omoerotico? – che prende serenamente a calci nel sedere chiunque gli si pari davanti, bianchi, neri, americani, giapponesi, thailandesi, russi, italiani, gangster, imperialisti, colonialisti, capitalisti? Le domande, i dubbi che circondano la sua vita, paradossalmente si estendono alle circostanze misteriose della sua morte. È stato davvero un incidente? Provocato da cosa, da un farmaco, dalla marijuana, da un colpo di calore? O è stato ucciso da qualcuno? Ma da chi? Dalle Triadi, cioè dalla mafia cinese? Dai maestri di kung fu che condannavano la sua ribellione? Da un’amante gelosa? Dal suo socio in affari? Da un regista invidioso dei suoi successi? Da un produttore rivale minacciato dalla sua travolgente ascesa?

[…] Mentre scrivo queste righe, nel maggio del 2023, mi viene in mente che non può esserci momento meno opportuno di quello in cui viviamo per parlare di arti marziali, con le immagini dei carri armati che cannoneggiano le campagne ucraine, dei droni che bersagliano i palazzi, a ricordarci ogni giorno la realtà della guerra, al di là di qualsiasi fantasticheria sulla nobiltà del combattimento. Provo a mettere da parte le esitazioni, i timori, e accettare l’aporia insita nella definizione di «arti marziali», di cui ci serviamo per tenere insieme, in italiano come in inglese, francese, spagnolo, tutti i metodi di lotta originari dell’Asia; augurandomi che il mio (e il vostro) interesse non scada mai in un gratuito compiacimento della violenza, di nessun tipo, ma esplori semmai il primo termine dell’espressione. Non «marziale», dunque, cioè guerresco, militare, bellico o bellicoso, sinonimi di morte e distruzione. Ma «arte», parente di libertà e creazione, dal latino ars, la cui radice indoeuropea Ṛta («verità», «ordine cosmico»), formata da Ṛ («muoversi») e *ar («in modo appropriato»), è la stessa che ha dato vita alle parole greche harmos e therapeia, da cui armonia e terapia. Il cambiamento, diceva Krishnamurti (una tra le sue tante meravigliose riflessioni), si ha soltanto quando siamo in grado di vedere le stesse cose con occhi diversi.

Tratto da “Bruce Lee. L’avventura del Piccolo Drago”, di Michele Martino, edito da 66thand2nd, pagine 320, € 19,00.

Estratto dell’articolo di Andrea Palazzo per “il Messaggero” lunedì 16 ottobre 2023.

«Robe', t'o'o sogni che casco». Sul set di Roma città aperta la Magnani faceva le bizze. «Poi Rossellini diede il ciak e alla mitragliata lei si buttò in quel modo. In due minuti fece la storia del cinema». 

A ricordarla a 50 anni dalla morte, e mentre sta per aprirsi (il 18 ottobre) una Festa del Cinema dedicata a lei, è l'amica Silvia D'Amico (82), produttrice dei suoi ultimi film Tv. Sua madre, Suso Cecchi D'Amico, era stata la sceneggiatrice di fiducia dell'attrice. «Anna frequentava casa da quando avevo 5 anni, le sono rimasta vicino fino alla fine». E sul suo letto di morte Silvia conobbe Roberto Rossellini, che diventò il suo compagno. Lui fu l'unica persona che la Magnani volle accanto a sé negli ultimi giorni. 

Come mai Anna chiamò il suo ex dopo 30 anni?

«Per lei Roberto risolveva ogni problema, gli disse: "Nun me devi fa' mori'". Si fidava di lui più che dei medici». 

Rossellini fu generoso, non è da tutti

«Fece i salti mortali per tenere segreta la notizia della malattia, non voleva che lei - ignara del tumore - intuisse qualcosa leggendo i giornali. È morta senza accorgersene». 

La loro fu una storia d'amore tormentata?

«Sì e finì dopo il telegramma di Ingrid Bergman che invitava Rossellini a lavorare insieme. […] ».

[…] Marcello Gatti, che ebbe con Anna una storia, rivelò che incontrarono Rossellini e la Bergman e lei indicò al regista le sue parti intime: "Questo sì che è maschio." Gelosia feroce?

«Roberto si sarà fatto una risata, le scenate plateali erano il loro pane quotidiano». 

Che donna era, la Magnani?

«Si pensa a una pantomima della romanità, "Aho', li mortacci tua" e invece era una borghese sofisticata che aveva studiato piano e recitazione». 

[…] La rivalità con la Loren?

«Ma no, Anna la puoi paragonare solo a Bette Davis! Lei diceva che l'Oscar della Loren era stato più facile perché recitava in italiano, mentre il suo film era in inglese». 

In scena era tutto istinto?

«Io direi gran professionista. Una notte sul set di Bellissima faceva freddo e si vedeva il vapore del suo respiro: si mise del ghiaccio in bocca e andò avanti recitando così». 

Il direttore della fotografia Delli Colli non voleva che usasse i tiranti per levigare il viso. Era davvero fiera delle rughe?

«No, Anna certe rughe non le voleva. Il suo operatore preferito, Barboni, era attentissimo a luci e ombre. Quando morì, disse: "Sto fijo de na mignotta, che dispetto m'ha fatto." Ma non le dava mai un'immagine troppo patinata». 

Secondo l'amico di Anna, Tennesse Williams, ogni sera aveva un giovane amante diverso. Si è più innamorata dopo Rossellini?

«Gli ultimi partner, Gabriele Tinti e Osvaldo Ruggeri, erano molto giovani ma sono state vere relazioni d'amore». 

Un episodio che la fa ancora ridere?

«Il suo commento, appena uscita dalla toilette del Jackie 'O: "Il mondo è finito, vai ar cesso e ce trovi la regina d'Egitto." In quel periodo re Farouk era in esilio a Roma, lo si incontrava sempre con la moglie a via Veneto».

Si ricorda le sue famose feste a casa?

«Amava fare scherzi telefonici insieme a Sordi. Cercavano sull'elenco stradale un condominio e chiamavano a turno gli inquilini, fingendo di essere il vicino di casa: "Aiuto, me sento male." Il condominio impazziva. Poi Sordi chiamava i portieri delle dimore nobili: "Salve sono Raniero del Cazzo" e questi, "Li mortacci tua."»

Lo scherzo più crudele?

«Telefonavano a una nota attrice per comunicarle un premio da ritirare, ma rifiutavano ogni sua richiesta, fino a rivelarle che aveva vinto solo due caciotte e un salame. Lei nonostante tutto accettava e loro, giù a ridere».

Con Visconti fu amore-odio?

«Lo aveva nascosto in casa durante la guerra, terrorizzata di essere scoperta, lei che quando faceva la rivista aveva spesso sbertucciato il regime. Litigarono perché in giuria al Festival di Venezia lui le negò un premio per un film mediocre. Anna nelle amicizie era mafiosa: o sei con me o contro di me».

Com'era come madre?

«Non è stata una brava madre e non perché fosse assente. Al contrario, poteva essere soffocante, sempre depressa per la poliomelite di Luca. Dopo la sua morte, lui sposò una donna che si truccava e vestiva volutamente come Anna». 

Cosa pensa del progetto annunciato dalla Guerritore?

«[…] È brava ma forse nella Magnani lei cerca una proiezione di sé stessa».

Estratto dell’articolo di Patrizia Carrano per “la Stampa” domenica 24 settembre 2023.

Forse non basta mezzo secolo per comprendere quali siano stati i vertici e gli abissi di Anna Magnani. Un'attrice che ha annoverato vittorie e sconfitte, film belli e film brutti, restando sempre ineguagliabile, e per certi versi incatalogabile: capace di passare dal teatro classico al varietà, dalla commedia brillante al dramma, dal cinema leggero all'indiscusso manifesto del neorealismo che è Roma città aperta. «Una donna di cappa e di spada», diceva di lei il suo compagno d'arte Totò. […] 

Chi era Anna Magnani? La signora dalla bella casa sui tetti della capitale, che conversava con il suo vicino, il pittore e scrittore Carlo Levi? La gattara romana che di notte girava per le rovine del centro storico portando cartate di cibo ai randagi affamati? L'italiana che aveva affascinato il drammaturgo Tenessee Williams, che per lei aveva scritto La rosa tatuata, cercando di convincerla a debuttare a Broadway, e che poi si era «rassegnato» a farne un film? La donna migrata a Hollywood piangendo tutte le sue lacrime alla partenza della nave a Le Havre e che poi – prima interprete non di lingua inglese – nel '56 ha vinto l'Oscar?

 Il personaggio del mondo dello spettacolo al cui funerale la folla radunata a piazza della Minerva – la piazza era gremita, e un filmato su you tube lo testimonia – comincia spontaneamente ad applaudire, scandendo a colpi di battimani l'uscita della bara dalla chiesa, come se si fosse alla fine di uno spettacolo? Oggi non c'è funerale di un personaggio caro al pubblico in cui non parta l'applauso. Ma la prima volta è accaduto là, a piazza della Minerva. Per lei.

Questo e molto altro, è stata Anna Magnani. Anche sul fronte di quelle che oggi si chiamano «le battaglie di genere»: capace di imporre il suo viso angoloso e il suo personale profilo in un'epoca – a cavallo fra gli anni 30 e 40 – in cui dalle donne si pretendeva la boccuccia a cuore e i boccoli. 

«Non è stato facile: mi offrivano sempre ruoli di prostituta o di artista del varietà» ammetterà poi. In quell'epoca di perbenismo in orbace ha avuto il coraggio leonino di legarsi a un uomo di otto anni più giovane di lei, Massimo Serato e di farci un figlio.  

E ancora: Magnani è stata la prima donna a pagare gli alimenti al suo ex– marito, il regista Goffredo Alessandrini, figlio d'una famiglia importante, autore di rango, uomo in eterna ricerca d'avventure, e da vecchio ridotto in miseria e dunque considerato dai giudici «il coniuge più debole».

Si è molto parlato dei suoi celebri amori: per Rossellini, che la abbandonò per la Bergman e con il quale ingaggiò quella che venne soprannominata «la guerra dei vulcani»: lui che girava a Stromboli e lei che recitava a Vulcano per la regia di William Dieterle. Ma troppo poco si è ragionato sulla sua bravura, dandola per scontata […] 

«Regina, ma all'occorrenza popolana» diceva di lei la sceneggiatrice Suso Cecchi D'Amico, sua amica per tutta la vita. Eppure, dopo il fondamentale urlo del neorealismo, era stata messa da parte. Troppo personale, troppo ingombrante, troppo altera e assieme troppo plebea, Magnani era figlia di un cinema che negli Anni 60 trovava sempre meno spazio: si affacciavano le inquietudini borghesi, i disagi sotterranei.

Oppure trionfava la crudele e azzeccatissima commedia all'italiana, […] Oggi, a cinquant'anni dalla sua morte, la Magnani non ha eredi. Ma lascia in eredità un modo di attraversare lo schermo, che unisce professionismo e disobbedienza, piglio e disciplina, originalità e un certo inaspettato candore. 

Una eredità raccolta in molte latitutidini: Frances McDormand (tre Oscar come attrice e uno come produttrice) ha più volte dichiarato di avere in Magnani un esempio e una ispirazione, Penelope Cruz ha fatto altrettanto, anche su suggerimento di Pedro Almodovar.

[…]

Estratto dell'articolo di Alberto Piccinini per Il Venerdì- la Repubblica il 14 luglio 2023.

«Della scena della morte non ho fatto prove (...). Era popolo quello che stava addossato contro i muri. I tedeschi erano tedeschi presi da un campo di concentramento. Di colpo non sono stata più io». 

Nel 1970 Anna Magnani ricorda così, per la centesima o millesima volta, la sequenza più importante del nostro cinema: la scena madre di Roma città aperta. Il film ha smesso di vederlo da un po': «Torno a casa e sto male» racconta a Floriana Maudente della rivista Arianna. In un cortocircuito che dice parecchio della società di allora, le sue interviste più complete sono firmate da donne, le ancora pochissime firme di costume. Compare tra i ritratti degli Antipatici di Oriana Fallaci: «Oriana mia, io dico le parolacce ma odio talmente la volgarità». 

A Lietta Tornabuoni che su Oggi indaga gli ultimi anni da diva appartata coi suoi cani a Palazzo Altieri dice: «Ho abbandonato io il cinema (...) È povero, miserabile, pitocco». Televisione non ne ha fatta mai. La odiava. «Te fanno i segnetti per terra e lì nun te devi move. E se a me me va de ballà?». Niente archivi, canzoncine, techetechetè.

Anna Magnani moriva 50 anni fa, il 28 settembre 1973. Giancarlo Governi che nel 1981 pubblicò la sua prima biografia, Nannarella, ora ristampata da Fazi, scelse l'intervista di Maudente per rievocare il momento centrale nella carriera dell'attrice. Si capisce anche perché oggi ricordi quell'incarico come un mezzo incubo. «L'idea fu di Raffaele Crovi, il direttore editoriale di Bompiani: con lui avevo fatto un Totò l'anno prima» spiega al telefono. «Gli risposi subito: ma è una donna! Io sono un maschio, un maschilista, non me la sento. Lui mi fece telefonare dal conte Valentino Bompiani che insistette, mi mandò il contratto con dentro un assegno». 

Allora quarantenne, giornalista e autore assunto in Rai, Governi si mise all'opera. «Decisi di lavorare di notte, non so bene perché. Avevo già una famiglia, due ragazzini. Il libro l'ho scritto a mano, la mattina mia moglie raccoglieva i fogli e li portava in copisteria.

E in fondo al corridoio appariva la Magnani: "A regazzì, me sa che stai a scrive un sacco de fregnacce"». Non posso fare a meno di ricordargli, perché siamo in tema, come nel vecchio cinema romano le mogli degli sceneggiatori fossero spesso le loro dattilografe. Governi sorride: «Le racconto una cosa. Quando Rodolfo Sonego, sceneggiatore di Sordi, ha compiuto 70 anni i suoi allievi gli hanno regalato un computer. Per mesi è rimasto lì imballato. Un giorno gli dico: guarda che è facile, se vuoi te lo insegno. Si avvicina e mi fa in un orecchio: Poi mia moglie che fa? Capito?». 

(...)

Il lavoro di Giancarlo Governi ricomincia dal suo nome. Magnani è la madre Marina che l'ha avuta a 21 anni da un padre sparito. Figlia di NN, Anna cresce coi nonni ai quali è affidata e cinque zie, quasi tutte sarte (lo stesso ruolo che ripeterà in una mezza dozzina di film). Quando avrà il figlio Luca dall'attore Massimo Serato – col quale ha una relazione alla fine del matrimonio col regista Goffredo Alessandrini – gli darà lo stesso cognome. Magnani. 

«È una discendenza al femminile forse unica nella storia italiana» dice Governi, che scrupolosamente controllò i certificati ed è tornato a farlo in occasione di questa nuova edizione.

Matrilineare, segno di una civiltà insieme arcaica e futura. In un gioco di specchi e provenienze si confonde la verità prorompente del personaggio di popolana romana per il quale ricordiamo Anna Magnani, sartina o sciantosa che fosse nei suoi film. Era una famiglia romagnola appena emigrata a Roma quella dei Magnani, il nonno usciere di tribunale. In più, la mamma Marina si sarebbe sposata ad Alessandria d'Egitto, dove la figlia la raggiunge in qualche occasione, portandosi in eredità il dubbio di una provenienza esotica. Quanto al padre, «Anna aveva fatto delle ricerche» ha raccontato Osvaldo Ruggeri, ultimo compagno della diva «scoprendo che era calabrese e di cognome faceva Del Duce. Aveva lasciato perdere perché, mi disse, non m'andava d'esse la fija der Duce!». 

antifascismo istintivo Battuta fenomenale. L'antifascismo della Magnani è sempre stato, quello sì, istintivo. Sprezzante e antiretorico, alla Trilussa. Nei teatri di rivista aperti durante l'occupazione nazista della capitale saliva sul palcoscenico con Totò – la più grande coppia comica del tempo come si può ancora immaginare rivedendo Risate di gioia - e si divertivano a provocare repubblichini e tedeschi in sala, gettando nel terrore gli altri attori della compagnia.

In quel 1980 Giancarlo Governi ha la fortuna di trovare ancora tutti vivi i testimoni dell'epoca, i colleghi Sordi e Fabrizi, le amiche strette Marisa Merlini e Elsa De Giorgi, per ricostruire con loro un mondo davvero perduto: il giro di giovani cinematografari e intellettuali che ruotavano dalla fine degli anni 30 nell'appartamento di via Amba Aradam, dove la Magnani era andata a vivere col marito Alessandrini, uno dei registi della Cinecittà fascista, e poi era rimasta con Massimo Serato. De Giorgi, attrice dei telefoni bianchi, scrittrice e compagna di Italo Calvino, scrive un ritratto bellissimo di "Nanna" in I coetanei, spietato memoir di trentenni romani, tutto da rileggere. Nella prima pagina, sulla spiaggia in compagnia di un amico, l'"efebo Dado", prende in giro con ferocia il gerarca che si avvicina a omaggiarla: «Eccellenza mia, fatece almeno ride! (...) Ma è vero che ve rode de fa la guera mo?». Commenta Elsa De Giorgi: «Odiava l'ipocrisia borghese. Aveva idee confuse su queste cose, ma grandiose di ribellione e coraggio». 

teatro e verità Tornando alla scena madre di Roma città aperta, tutti i racconti raccolti da Governi confermano che nessuno l'aveva scritta davvero così. Aldo Fabrizi – tra i due non correva buon sangue – dice che è successo tutto per caso: Anna cadde veramente sull'asfalto e si fece pure male. Amidei, lo sceneggiatore, ricorda che l'ispirazione forse venne durante le riprese, una notte a Trastevere, quando lei fece una scenata al suo compagno Massimo Serato e gli corse dietro, mentre lui si allontanava su una camionetta della produzione.

Le scenate di Anna Magnani ai suoi uomini, Alessandrini, Rossellini, Serato, spesso in pubblico, erano un misto di teatro e di verità che faceva impazzire il gossip dell'epoca. Fu ancora Serato a raccontare a Governi un'altra curiosa reminiscenza della scena di via Montecuccoli: il giorno in cui fu chiamato alle armi e Anna Magnani incinta di lui in taxi lo venne a tirare giù dal camion già alla stazione Termini, e riuscì a tenerlo a Roma smuovendo ogni sua conoscenza di gerarchi e ministeri. Suso Cecchi D'Amico avrebbe voluto scriverci sopra un film, lei non volle.

Insieme firmeranno però L'onorevole Angelina, commedia neorealista con la prima parte più sovversiva/femminista del cinema italiano. «Io l'ho vista solo una volta di persona» ricorda infine Governi. «Avevo 15 anni e facevo la claque al teatro Sistina. Finito lo spettacolo, vado a prendere l'autobus con degli amici, e la vedo a un angolo della piazza. Abbiamo cominciato a guardarla e lei, che non abbassava mai lo sguardo, fa: Aho e mica me vorete menà eh?!" Mi sono fiondato in ginocchio le ho baciato la mano "Ma che dice, noi l'adoriamo!". "Aho, mica so' la madonna!"».

Estratto dell’articolo di Daria Galateria per “Robinson - la Repubblica” lunedì 3 luglio 2023.

Oggigiorno, dice Joséphine Baker nelle sue memorie, non si muovono più il naso, le orecchie e le dita dei piedi, nessuno osa più ridere, piangere, fare le smorfie.

Solo occhiate convenzionali, una «immobilità spaventosa». Quando guarda gli spettatori, Joséphine si dice: ecco il tuo ruolo, smuovere quei visi tristi. Ha cominciato così, infilando i pollici nelle orecchie e incrociando gli occhi; il ballo, per la Venere nera, è un istinto di snodo futurista, cubista. 

Allegro, selvatico, certo. Ma le sue leggendarie rotondità nere e vellutate – il sedere che ride (Simenon dixit), i seni liberi, le ginocchia piegate, la palla di gelatina nera dei capelli, le braccia usate come gambe e poi, insieme, come quattro zampe – Joséphine Baker le piega tutte a squadro, e salta; il charleston che importa a Parigi è «l’epilessia americana».

Nelle memorie, che rilascia, nel corso di vent’anni, al giornalista e scrittore Marcel Sauvage, La mia vita ( tradotta da Mimosa Martini per EDT) ha un programma: «Solo cose divertenti » . Ma poi, negli anni, Joséphine lo guida senza parere, con una finezza spaventosa perché inavvertibile, a arricchire e modificare la propria leggenda. 

Ricalca e ribadisce l’immagine voluttuosa, scandalosa, irrefrenabile della “Nefertiti di oggi”, come la definiva Picasso. Ma tra tante piume e paillettes, a emergere è il suo impegno. Per gli animali, le donne, per costumi liberi, e per la causa nera, ovviamente. Al cinema ho imparato cos’è un negro, ride. «Un negro qui!» gridava il regista di culto, Marc Allégret: «Avvicinatemi il negro! Mandate via il negro!» (è la lavagna su cui si scrivevano le battute) – sperava Joséphine di creare un’impresa cinematografica per gli artisti di colore francesi, la Noir-Film (non se ne fece nulla).

A New York però, nel dopoguerra, viene mandata via (“ sorry, very sorry”) da dodici alberghi. Alcuni amici ( vedettes nere, come Lena Horn) chiamano il sindaco di New York; allora all’hotel la tengono, ma quando col marito ordina la cena in camera, la portano senza posate e senza tovaglioli; i letti non vengono rifatti e il telefono non funziona. È il dopoguerra: pensare che è stata arruolata nei servizi segreti della Francia Libera, capitano militare, decorata con la medaglia della Resistenza e la Legione d’onore da Charles de Gaulle 

[…] Nei ricevimenti, raccoglierà informazioni, sull’Italia soprattutto: entrerà in guerra o no? E le tournée: in Spagna, Portogallo, Brasile, e, quando da Londra chiedono di creare nuove reti di collegamento, tanta Africa. 

[…] Quattro anni in Africa, quasi due in clinica, malata (anche quella sua stanza un centro di informazioni); la febbre a 40 quando gli Americani entrano in guerra; quando sbarcano, e ci sono bombardamenti, di corsa nel giardino dell’ospedale. Insomma, rifiutare lei, che ha combattuto il nazismo per quelle idee sulla razza. Lei che il 3 gennaio del ’ 45 ha chiuso il galà offerto dagli Alleati ai quattro generali, inglese, francese, russo e americano, nel Palazzo di Giustizia di Berlino, tra ratti e macerie - e poi per i soldati spettacoli ogni due ore, dalle dieci di mattina alle undici di sera; 

i commilitoni portavano chili di attestazioni di arianesimo trovati nel Reichstag distrutto. Lei che è stata ricevuta con onore a Sigmaringen, prima donna di colore tra quei marmi degli Hohenzollern. A Algeri, sul palco d’onore, era accanto a madame de Gaulle. Tutto è spumeggiante; compaiono Ali Khan con Rita Hayworth, Farouk, Colette, Pirandello, il papa, le Folies Bergères, e Saint Louis, dove bambina ballava per riscaldarsi. Però nel 2021, è entrata nel tempio francese del Pantheon; lo ricorda emozionato, nell’introduzione, Jean- Claude Bouillon, un figlio adottivo, il quinto: erano dodici.

Celentano, Tenco, Jannacci e la truffa di Elvis Presley. A fine anni Cinquanta un impresario tedesco convinse gli artisti che avrebbe combinato un grande incontro con il re del rock americano, ma scappò con il malloppo. Paolo Lazzari il 17 Settembre 2023 su Il Giornale.

Ora che giacciono lì, con quattro fichi secchi stretti tra le dita, forse cominciano lentamente a realizzare quello che dev'essere successo. Per averli comprati in un mercatino senza pretese conficcato nei dintorni di Norimberga, sono pure succosi. Comunque qualsiasi pietanza sembra più buona quando hai una fame maledetta. Luigi Tenco si stringe nelle spalle, abbandonandosi su un marciapiede crepato. Accanto a lui, Enzo Jannacci sfrega ancora il polso dove poco prima rimirava un orologio solo apparentemente luccicante. Poco più in là Adriano Celentano giace con le mani tra i capelli e il bassista del gruppo, Paolo Tomelleri, fissa sconsolato il vuoto.

Già, ma cosa è successo? Per capirlo serve annodare il nastro del tempo di qualche settimana. Fine anni Cinquanta. Trilla il telefono di Celentano: dall'altro capo del cavo squilla la voce di un impresario tedesco. Dice che può combinare l'incontro del secolo, quello tra l'astro sorgente del rock italico e il più illustre monarca statunitense del genere, Elvis Presley. L'artista si troverebbe di fatto in Germania, dove è di stanza per il servizio militare. Occasione succulenta. Subito Adriano allerta i colleghi: Jannacci al pianoforte, Tenco al Sax, lui alla chitarra e Tomelleri tra clarinetto e basso. Di anticipi per ora non se ne vedono, ma sono tutti concordi che bisogna partire.

Enzo Jannacci - Wikipedia 

Così mettono insieme un fondo cassa e acquistano i biglietti del treno, andata e ritorno. Viaggetto impegnativo, ma non troppo. Scendono alla stazione sbagliata, desertificata. Qualcuno li avvisa che devono rimontare sopra e tornare indietro, che sono andati lunghi. Stavolta ci prendono. Folla crepitante appena mettono giù piede, Tenco è il più introverso, ma poi si scioglie. La sera iniziano a suonare in qualche locale, ma per ora non vedono una lira. Tutto, comunque, è confezionato in virtù del fatidico incontro con Elvis.

Che però non avverrà mai. I nostri scoprono la lancinante verità: l'impresario teutonico ha tirato una patacca mostruosa. Non c'è un bel niente di organizzato. Non solo: è scappato con il malloppo versato per l'organizzazione della tournée. Peggio di così difficilmente potrebbe andare. Non fosse che il fondo cassa residuo lo detiene l'estroso Enzo Jannacci. Quando quegli altri lo tirano per la giacchetta per andare almeno a mangiare qualcosa, prima di riprendere il treno (per fortuna già pagato, almeno quello) lui dapprima tossicchia, poi, in uno slancio di coraggio, mostra la creatura al polso: "Sentite, col resto c'ho comprato un orologio".

La truppa adesso è furibonda. "Ma sei scemo? Noi adesso cosa mangiamo?". Aggredito, Enzo non si scompone: "Guardate - indica l'oggetto - che questo è waterproof. In Italia lo rivendiamo e ci facciamo una fortuna". Peccato che un istante dopo va a lavarsi le mani e l'orologio, bagnato, comincia a perdere pezzi, si scioglie, diventa poltiglia. Truffa e contro truffa. Calano sipario e silenzio sulla comitiva.

Così adesso eccoli lì, intenti ad aggredire quattro fichi secchi di numero. Poi, stremati, si dirigono verso la stazione. Salgono sul treno con lo stomaco che nitrisce e la faccia pesta di chi ne ha buscate parecchie. Per fortuna il futuro sarà una canzone assai più allegra di così.

Giuseppe Videtti per il Venerdì di Repubblica il 7 Settembre 2023

Questa è la cantante che ha insegnato a Elvis il R&R. Lo danno tutti per scontato, anche il regista Baz Luhrmann, che ha diretto il recente biopic sul Re, in cui Shonka Dukureh interpreta Big Mama Thornton (1926-1984), blues singer, cantautrice e batterista non meno dinamica e trascinante di Chuck Berry o Little Richard. 

Perché Big Mama, se la sua grandezza era pari alla stazza, è sempre rimasta in seconda fila? Era nera, era donna e non era un sex symbol; aggressiva e prepotente, anzi, una spina nel fianco per impresari alla ricerca di docili prede.

Dunque, in quanto donna, patì una doppia pena rispetto a tanti giganti del blues attivi tra gli anni 50 e gli anni 60: portati alle stelle per aver scritto canzoni senza le quali il R&R non avrebbe mai visto la luce (Hound Dog nel caso di Big Mama, quella che Elvis le scippò e trasformò in un classico), poi surclassati e lasciati all'angolo dagli stessi che ne avevano esaltato la gloria (Elvis, ma anche i protagonisti della British Invasion, Beatles e Stones in testa). 

Quando nel 1967 Janis Joplin interpretò a Monterey quella devastante versione di Ball & Chain, la Thornton, che l'aveva scritta e cantata, era già stata relegata a un circuito amatoriale (fino a Joni Mitchell di cantautrici neanche l'ombra); incideva dischi bellissimi per l'etichetta specializzata Arhoolie (una Bibbia per gli amanti del blues).

Ascoltate Sometimes I Have a Heartache, da un album del 1966 con il grande Muddy Waters alla chitarra e i fantastici Otis Spann al piano e James Cotton all'armonica. Di fronte a tanta voce, a quel che si racconta fosse la presenza in scena di Big Mama e al magnetismo di questo blues, riflettiamo: quanti sacrifici e quante umiliazioni e quali ingiustizie hanno subito le madri e i padri della musica afroamericana per far largo ai reali del rock?

Il melò al Cinema di Venezia. Chi è Priscilla Presley: “Elvis e io” di Sofia Coppola racconta la moglie della leggenda del rock and roll. Vero e proprio racconto di formazione, il film porta in scena la tempestosa relazione tra The Pelvis e la consorte, spesso vittima delle sue paturnie. «Un racconto femminista? No, soltanto umano». Chiara Nicoletti su L'Unità il 5 Settembre 2023

Non ci sono dubbi che il sesto giorno dell’80esima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia abbia come immagine portante il viso commosso di Priscilla Presley, al lido per il film di Sofia Coppola che porta il suo nome e i ricordi della sua storia d’amore con Elvis Presley. Basato sul bestseller scritto dalla stessa Presley nel 1985, Elvis e io, il nono film della regista Leone d’oro nel 2010 con Somewhere, racconta, attraverso gli occhi di Priscilla, il lato nascosto di un grande mito americano, nel lungo corteggiamento e nel matrimonio turbolento con il re del rock.

Per dirla con un altro recente titolo: l’altra faccia, più ombrosa e umana di Elvis di Baz Luhrmann. Si salutano con una promessa di eternità Elvis e Priscilla nel film, un arrivederci ad un altro tempo, un altro mondo. È proprio l’aver mostrato questa consapevolezza dei due di avere un legame più alto e profondo, la parte più rappresentativa della sua vita secondo Priscilla. Alla domanda su cosa l’abbia colpita di più del film, risponde “la fine” per poi aggiungere: “È difficile guardare un film sulla propria vita e sul proprio amore. Sofia ha fatto un lavoro incredibile, abbiamo parlato tanto e io ho cercato di raccontarle di me tutto quello che potevo”. Priscilla è un vero e proprio racconto di formazione e per questo inizia con i 14 anni della vedova di Elvis e il loro primo incontro nella base militare di Wiesbaden quando il cantante e attore era nell’esercito, pur essendo già famosissimo e con Graceland a pieno regime.

Sofia Coppola, sempre mantenendo lo sguardo di Priscilla sulla storia mostra Elvis in tutte le sue sfumature, anche quelle meno felici, il comportamento aggressivo, il suo esercitare il controllo sulla compagna e poi moglie, le sue manie, paure, debolezze. C’è subito chi etichetta il film come femminista proprio perché sottolinea gli “abusi” del Re. “Non è un racconto femminista – puntalizza Coppola – per me è una storia umana che mette luce sugli alti e bassi della relazione tra Elvis e Priscilla, i momenti romantici e quelli di grande delusione per la donna, mentre la guarda nel suo cammino verso la maturità e il trovare la propria voce”. Ad interpretare Priscilla ed Elvis, Sofia Coppola ha chiamato due attori con il giusto mix di carisma e novità per calarsi nei panni del cantante e la sua “sposa bambina”: Jacob Elordi, già visto in Euphoria e nella trilogia di film Netflix, The Kissing Booth e Caley Spaeny che, qualche anno fa, visitò la Festa del Cinema di Roma con un film che la vedeva protagonista, 7 sconosciuti a El Royale.

Con la sua capacità di empatizzare con le più giovani generazioni, Sofia Coppola ha sempre una marcia in più nel rappresentare l’adolescenza. Non era infatti semplice mettere in scena i primi periodi della storia d’amore tra Elvis e Priscilla proprio perché quest’ultima era, come tutti ricordano, quasi una bambina e il loro matrimonio è avvenuto quasi 7 anni dopo che si sono conosciuti. “Ho cercato di rimanere sempre dalla parte di Priscilla e del suo punto di vista sulla storia e gli avvenimenti. Mi sono solo immedesimata nella lei quattordicenne, ricordandomi come fosse avere quell’età ed avere una cotta per un personaggio famoso”.

Sui primi anni d’amore con Elvis, ci tiene a precisare alcune cose Priscilla Presley: “È stato molto difficile per i miei genitori capire perché Elvis era così interessato a me. Io ero una che sapeva ascoltare e lui mi aprì il suo cuore, raccontandomi le sue paure, il dolore per la perdita della madre che non aveva mai veramente superato. Questa era l’attrazione che c’era tra noi, la gente pensa che fosse solo sesso ma non era affatto così. Lui era gentile, amorevole e ha sempre rispettato il fatto che fossi così giovane. Ha apprezzato che per tutti quegli anni in cui abbiamo tenuto nascosto la nostra relazione, io non ne avessi mai fatto menzione con nessuno, neanche a scuola. Vorrei che fosse chiaro che non sono andata via perché non lo amavo ma perché quel tipo di vita non faceva per me. Non ci siamo mai veramente lasciati per certi versi e mi sono sempre assicurata che vedesse nostra figlia Lisa-Marie (scomparsa a gennaio di quest’anno) ogni volta che voleva”.

Meno pop dei suoi film precedenti, proprio per raccontare l’umano e non l’icona e una coppia mitologica, Sofia Coppola fa nuovamente centro. E se l’emozione di Priscilla Presley non fosse abbastanza, ad alzare il livello di cinefilia al Lido ci ha pensato Woody Allen, arrivato con l’entusiasmo e la voglia di parlare di cinema dei suoi 87 anni d’età, a presentare, fuori concorso, il suo 50esimo film, del tutto francese realizzato a Parigi, Coup de Chance con Lou de Laâge, Valerie Lemercier e Niels Schneider. Allen ammette di aver sempre voluto essere come quei registi europei che ha sempre ammirato ed è questa la ragione del suo film parigino: “I film che ci hanno più impressionato da registi erano i film europei, tutti noi volevamo essere europei, e tutta la mia vita l’ho passata a girare come un europeo. Questo è il mio 50esimo film, io adoro la Francia. Ho pensato che potevo girare lì, in francese, anche se non parlo né capisco la lingua. Mi sono sentito così proprio come un regista europeo genuino e volevo aggiungermi ai vari Renoir, Bergman etc”.

Allen mette in scena una coppia di sposi da copertina, Fanny e Jean nella loro vita perfetta e il loro appartamento esclusivo a Parigi. L’apparente idillio tra i due vacilla quando Fanny incontra nuovamente Alain, un ex compagno di liceo e perde la testa. Tra i temi ricorrenti del cinema di Woody Allen c’è il caso, il fato, le coincidenze e qui ancora una volta, il ruolo che la fortuna gioca nella nostra vita, è analizzato e messo in discussione dal regista di Manhattan, che, riprendendo la questione adulterio come in Match Point, fonde la commedia con il thriller. A chi gli chiede un commento sui personaggi maschili che scrive e ha scritto nella sua carriera, risponde: “30 anni fa ero io il protagonista maschile e comunque ero sempre più capace di scrivere parti più interessanti per le donne. Le mie influenze sono state Williams o Bergman che hanno scritto per le donne”.

Prosegue: “Non sono mai stato in grado di scrivere troppo bene parti maschili, tranne che per me”. Giunti al giro di boa dell’80esima Mostra, possiamo dire che i più attesi del weekend, The Killer di David Fincher e The Palace di Roman Polanski, non hanno soddisfatto le aspettative. Il primo è stato considerato senza guizzi e finali a sorpresa come il regista di Seven ci ha abituato e il secondo, addirittura, è stato paragonato ad un cinepanettone. Si è salvato Adagio di Stefano Sollima, buona prova d’azione degli italiani di punta del nostro cinema, Piefrancesco Favino, Adriano Giannini, Toni Servillo e Valerio Mastandrea.

Chiara Nicoletti 5 Settembre 2023

Estratto Deborah Ameri per “Oggi” lunedì 14 agosto 2023

«Fourteen will get you 20!», scherzava spesso. Se stai con una quattordicenne ti becchi venti anni di prigione. Eppure, Priscilla Beaulieu, sua futura moglie, aveva proprio 14 anni quando lo aveva conosciuto in Germania. 

Ma per lei Elvis Presley seppe aspettare. In altre occasioni non fu così virtuoso, sostiene un nuovo documentario, Elvis’ Women, per ora disponibile solo su Amazon Prime in Gran Bretagna. Lo hanno già definito il #meetoo del re del rock. Alcune donne raccontano per la prima volta di essere state importunate da Elvis quando erano minorenni. E uno dei fratellastri del divo, David 

Stanley, sostiene che Elvis, morto di infarto (forse causato dalle pasticche che assumeva), si sia invece suicidato sotto il peso della colpa per aver approfittato di tante ragazzine. Una dichiarazione che ha poi sconfessato sui social, chiedendo scusa alla famiglia Presley. Scuse cancellate pochi giorni dopo.

A smentire questa versione dei fatti è l’altro fratellastro, Billy Stanley, che dopo un’iniziale riluttanza ha deciso di parlare con Oggi. Dopo la morte della madre Gladys a soli 46 anni, il padre di Elvis, Vernon, si era risposato con Dee Stanley, che aveva già tre figli (Billy, il maggiore, Ricky, scomparso nel 2019, e David). […] 

Crede a suo fratello quando dice che Elvis si è tolto la vita?

«Non ne voglio parlare, non so perché abbia detto una cosa del genere». 

Alcune donne lo accusano di averle circuite quando erano minorenni.

«Non ho mai visto Elvis con delle ragazzine, era comunque sempre circondato di donne di ogni età». 

Nel suo libro, scrive che a volte lui notava una ragazza carina ai concerti e se la faceva portare in camerino.

«Non sempre succedeva qualcosa. Sarebbe sorpresa di sentire quante ragazze hanno raccontato di aver passato la notte con Elvis a parlare e a leggere la Bibbia».

La Bibbia?

«Elvis aveva una fede profonda, era molto devoto, era la persona più generosa che abbia mai incontrato. Nella Bibbia trovava tutte le risposte, la leggeva continuamente, soprattutto prima dei concerti […]». 

[…] Da credente, si sentiva colpevole?

«Come tutti. Ogni cosa che si dice su Elvis viene esagerata».

[…] 

Elvis si sentiva amato?

«Il 14 agosto 1977, due giorni prima che morisse, ne abbiamo parlato: "Billy, sono stato innamorato solo due volte nella vita. No, non cercare di indovinare di chi... Ti dico solo questo, quando trovi l'amore tienitelo stretto'».

Quando ha imboccato la strada delle dipendenze da farmaci e droga, come ha reagito la famiglia?

«Avevo 22 anni e gli avevo chiesto perché. "Billy, so cosa sto facendo", mi aveva assicurato. Non mi aveva mai mentito e io non avevo ragione di dubitare di lui. Nessuno poteva dire a Elvis Presley cosa fare». 

Lei incolpa qualcuno per la sua fine? Molti accusano il suo manager, Tom Parker, di averlo sfruttato fino all'esaurimento.

«Non do la colpa a nessuno. Certe risposte potrebbe darle solo Elvis».

Quando ha capito che suo fratello era una star mondiale?

«Una volta a casa nostra si sono presentati i Beatles in limousine, volevano conoscerlo. Mamma non ci ha fatto uscire perché John Lennon aveva detto che i Beatles erano più famosi di Gesù». […]

DAGONEWS il 25 giugno 2023.

Quando Elvis Presley faceva una battuta, divertente o meno che fosse, la sua banda di guardie del corpo e di tirapiedi ululava dalle risate. Una delle battute preferite - una gag che ha ripetuto per tutta la vita - era "A 14 anni te ne daranno 20!" 

Intendeva dire che, se fosse stato trovato a fare sesso con una quattordicenne, avrebbe rischiato 20 anni di prigione. Ma questa minaccia non gli impedì di avere un flusso costante di relazioni sessuali con adolescenti, dai primi giorni della sua fama negli anni Cinquanta fino alla sua morte, avvenuta all'età di 42 anni. 

L'impossibilità di un amore duraturo, così come il senso di colpa per aver fatto sesso con ragazze minorenni, lo portarono alla disperazione e, secondo l'uomo che lo conosceva meglio, divenne così insopportabile da indurlo a uccidersi.

Ora un documentario in tre parti su Amazon, Elvis's Women, denuncia il suo comportamento predatorio. Questo potrebbe essere il momento #MeToo che distrugge l'eredità di Elvis. 

Per molte delle donne intervistate, il Re del rock 'n' roll è stato il primo amore. Alcune hanno perso la verginità con lui, spesso dopo solo una manciata di appuntamenti. Tutte gli hanno creduto quando ha detto loro che il suo amore per loro era speciale, diverso da qualsiasi cosa avesse mai provato prima. Alcune si aggrappano ancora oggi a questa convinzione.

Letitia Kirk, che fu la sua infermiera per tutti gli anni '70, ha raccontato di aver visto così tante ragazze adolescenti portate nella sua villa nel Tennessee dal suo entourage che ha perso il conto. 

Un uomo, il DJ George Klein, era il suo "pappone"", dice, "portava su queste giovani adolescenti per farle controllare da Elvis. Era una porta girevole. Non ho nemmeno cercato di imparare i loro nomi. Era troppo per me". 

Spesso la banda di Elvis, conosciuta come la Memphis Mafia, non doveva andare oltre i cancelli di Graceland, dove si aggiravano gruppi di giovani fan. Ne sceglievano una giovane e carina e la invitavano a entrare per incontrare il suo idolo. 

Kathy Tatum aveva 16 anni quando la "mafia" la scelse nel 1969. Elvis aveva 34 anni ed era appena diventato padre per la prima volta. All'inizio si limitò a coccolarla, coccolarla e baciarla, riempiendola di complimenti. Ma presto la portò in un paio di stanze di motel che affittava permanentemente.

Lei iniziò a marinare la scuola per poter stare con lui ogni giorno. Elvis non voleva sesso completo, disse lei, ma la accarezzava continuamente mentre parlava con gli amici nella stanza. 

Le promise di sposarla, se lei avesse aspettato qualche anno prima di poter ottenere il divorzio, ma lei capì che avrebbe perso interesse per lei quando non sarebbe stata più un'adolescente.Other schoolgirls had a much more starry-eyed vision of the King, and were traumatised when he shattered their illusions.

Dario Salvatori per Dagospia l’8 gennaio 2023.

Intanto il vero nome: Andreas Comelis van Kuijk. Fuggito dall’Olanda in seguito a numerose truffe. Era nato a Breda nel 1909 e sbarcò negli Stati Uniti per la prima volta nel pieno crollo di Wall Street, mostrando subito delle doti truffaldine non da poco.

 Non era ancora il Colonnello e nemmeno Tom Parker (nome adottato dall’ufficiale che gli evitò l’arresto). Il suo mondo era quello circense, equestre, ma anche quello del luna park, dove era bravo a vendere i panini alla salsiccia senza niente dentro, insuperabile nel dipingere di giallo i passeri e a venderli come canarini. Nel suo numero clou  era veramente un asso. Il suo stand era quello più affollato.

  Metteva delle piastre elettriche sotto ai suoi “polli ballerini” in modo che ballassero a tempo. Si occupava anche di letame, che spargeva all’uscita del tendone in modo che gli avventori potessero noleggiare dei pony terrorizzati di finire in quel sudiciume . Lo ingaggiò  il luna park di Tampa, dove  faceva anche il chiromante, l’ipnotizzatore e alla bisogna anche lo jettatore. Divenne il manager di un cantante country discretamente noto, Gene Austin, il cow-boy canterino, poi fu la volta di Hank Snow, di Eddie Arnold, che lo pizzicò più volte mentre rubava l’incasso.

 Gli parlarono di questo ragazzo, Elvis diciottenne, che già cantava nei raduni country e alla fine si incontrarono, anche perché in quel luoghi il Colonnello era più famoso di lui. La prima frase che pronunciò fu: “Tu rimani più che puoi in questo stato, al resto ci penso io.” Ci pensò talmente bene che in pochi mesi pretese il 20% dei suoi cachet. Fu lui a fargli firmare il contratto con la Rca nel 1955, ottenendo subito un anticipo di 40 mila dollari. Di colpo  la sua percentuale passò al 30%, poi al 40%. Del resto quando Parker iniziò ad occuparsi di Elvis gli riservò il trattamento tipico delle stelle del luna park: elefanti, nani, freaks, bandiere, striscioni, trucchi di ogni genere.

 Nel 1958 arrivò per Elvis il servizio militare. Avrebbe potuto evitarlo con qualche inghippo, invece il colpo di genio  del Colonnello fu quello di fargli incidere preventivamente molti brani, in modo da tenerlo costantemente in hit parade. Elvis era in Germania ma in America sbarcavano le sue versioni inglesi di classici della canzone napoletana: “’’O sole mio” (“It’s now or never”), “Santa Lucia”(senza cambiare il titolo), “Torna a Surriento” (“Surrender”).

Quando Elvis tornò dal servizio militare, Parker accettò le ricche richieste  dei produttori cinematografici, in modo da tenerlo ben al guinzaglio. Film che incassavano benissimo  e permettevano al Colonnello  di giocare d’azzardo in ogni casinò, la sua vera passione. Ad Elvis sarebbe piaciuto fare un tour in Europa, diventare ancor più popolare in quei mercati dove peraltro era già celebre, ma mai apparso dal vivo.

 Il Colonnello non poteva uscire dall’America. Non lo avrebbero fatto rientrare. Non era in regola con l’ufficio immigrazione, con le tasse, con la green card, con la sua vera identità, nonché una serie interminabile di truffe Questo fu l’altro colpo di genio. Assicurare ad Elvis un mucchio di denaro senza mai allontanarsi da casa. L’Italia era il Paese europeo dove Presley era maggiormente idolatrato.

 Nel 1964 Gianni Ravera, storico patron del Festival di Sanremo, decise di mettere in gara anche i cantanti stranieri, accoppiati agli italiani. Fu una grande trovata. I big stranieri dovevano cantare in italiano, accettare tutte le regole della gara e magari rischiare l’eliminazione. Capitò a molti. Arrivarono: Paul Anka, Frankie Avalon, Ben E. King, Fraternity Brothers, Frankie Laine, Little Peggy March, Gene Pitney, Bobby Rydell. Elvis fu inavvicinabile. Intanto in Versilia si stava muovendo qualcosa.

Sergio Bernardini rimase colpito dal grande successo dei cantanti americani a Sanremo e volle tentare la sua carta per la  “Bussola”, dove per altro erano transitate tutte le più popolari star internazionali. Voleva battere in volata tutti gli impresari europei. Con l’aiuto dell’Ente Versilia, il comune di Marina di Pietrasanta, il comune di Lucca, la Regione Toscana, la Rai, l’Associazione egli albergatori e vari imprenditori. Era riuscito a mettere insieme 100 mila dollari. Un botto. Per una unica esibizione con annessa ripresa televisiva. A quel punto si trattava solo di intercettare Parker.

Sergio Bernardini era figlio di ristoratori emigrati in Francia e dunque parlava soltanto uno squisito francese che ad un uomo di Memphis non poteva bastare. Sia Parker che Bernardini vivevano di notte, ma il fuso orario non era lo stesso. Dopo  diverse settimane di tentativi organizzò la call telefonica. Bernardini raccontò come aveva pensato di organizzare l’evento, con tutti  i bonus possibili  e che certamente sarebbe stato un concerto storico non solo per la Versilia ma per tutta l’Italia. Dopo tutte queste rassicurazioni sparò la cifra: 100 mila dollari!.

 Da Memphis, laggiù nel Tennessee, presumibilmente con il sigaro in bocca, rispose il Colonnello (quando si trattava di denaro capiva qualsiasi idioma): “Per me è O.K., ma al ragazzo cosa gli diamo?”. La telefonata si chiuse malinconicamente. A Bernardini non rimase altro che farsi una lunga passeggiata notturna sulla sua meravigliosa spiaggia.

Dario Salvatori per Dagospia il 26 Dicembre 2022.

È in arrivo “Priscilla”, il film diretto da Sofia Coppola ad un anno esatto dall’uscita di “Elvis!”, un successo del 2022 del regista Baz Luhrmann. La saga rock and roll continua, il botteghino respira e in tutto il mondo le vicende di Presley, non tutte immacolate, anzi, magari viste proprio dal buco della chiave, possiedono ancora quel fascino truce a cui non si può dire di no. Ora manca all’appello Lisa Marie, 54enne figlia unica del re del rock e vedova di Michael Jackson. Gli spunti non dovrebbero mancare. 

Ma in tanto godiamoci questo “Priscilla”, scritto, ideato, fotografato e ambientato a Memphis dalla talentuosa Coppola. Per gli attori si è fatta una scelta simile a quella di “Elvis!”, ovvero scarsa notorietà dei protagonisti, Cailee Spaeny (nei panni di Priscilla), Jacob Elordi (in quelli di Elvis), il che significa paga ridotta e notevole bellezza fisica dei due prescelti. Le icone, quando sono solide e immutabili, devono attrarre il pubblico giovane, soprattutto quello delle piattaforme. 

Priscilla entrò nella vita di Elvis nel 1959: lui militare a Badnauheim, lei a Wiesbaden con tutta la famiglia, il capitano Air Force Paul Beaulieu. Lui 24 anni, lei 14. Piccola di statura, mora, occhi verdi, un sorriso in grado di aprire tutte le frontiere. Lui il re del rock, anche da militare in Germania. Alla fine della ferma, nel 1960, Elvis, come tutti gli americani degli stati del sud, chiede la mano alla promessa sposa. Verrà a stare a Memphis, ma prima del matrimonio abiterà a casa del papà di Elvis, Vernon, rimasto vedevo.

Arriva a Memphis, più che altro a Graceland, e si accorge che i ritmi, i tempi e la giornata non sono esattamente quelli di una famiglia tipo. Il Re è insonne, veglia e gozzoviglia tutta la notte e il giorno dopo si sveglia a pomeriggio inoltrato.  Priscilla studia ballo e recitazione, ma lui non c’è mai. Nel 1963 decide di trasferirsi nella reggia, proprio l’anno in cui il cantante gira uno dei suoi film più famosi “Viva Las Vegas”, sua partner Ann Margret, a cui si attribuisce un flirt. A lei, come ad altre partner, Elvis regala un letto. Priscilla sgrana gli occhi e non capisce.

La rassicurano: sono già tredici i letti donati alle sue partner. Lei non capisce, trova che siano a doppia piazza e soprattutto a doppio senso. Arriva la sua prima vendetta. Alla funzione domenicale dell’Auditorium conosce un bel cantante del gruppo gospel Stamps, Milan Lefevre. Inizia a frequentarlo, vola qualche bacio ma qualcuno della cosiddetta “Memphis Mafia”, la security del Re fa la spia. Stop. 

E’ soltanto a quel punto che il capitano Beaulieu, nel frattempo maggiore, sguaina le stellette e chiede spiegazioni a proposito del ritardo del matrimonio. Il Re balbetta, teme che un passo del genere possa danneggiarlo presso il pubblico femminile e dunque continua a rimandare. I giornalisti americani scoprono che il maggiore non è il vero padre, quello biologico è invece James Wagner, militare anche lui, deceduto in un incidente aereo quando Priscilla aveva sei mesi. 

A quel punto si sfoga Elvis: “Ho tentato di plasmarla per fare di lei la donna che volevo ma mi sono reso conto troppo tardi che era impossibile: non puoi insegnare ad amare. Per natura Priscilla è una donna fredda, riservata e molto rigida. E’ cresciuta in un ambiente militare e ne ha assorbito la dura disciplina.”. La difesa passò a Priscilla: “Sono arrivata a Memphis che avevo quattordici anni, ora ne ho diciannove. Sono una donna. Vorrei elargire il mio amore. Anche sesso, perché no. Il fatto è che ad Elvis in camera  da letto piace solo fare a cuscinate.”  

Proprio in quel periodo Elvis stava girando “Speedway” e la sua partner era Nancy Sinatra, una che sul sesso non faceva sconti. Aveva appena divorziato da Tommy Sands e si sentiva libera. Ogni giorno nella pausa pomiciavano nel caravan di lui. Lei si metteva subito inginocchio e lui la tirava su appoggiandosi alle sue spalle: “Lo senti il piccolo Elvis?”, era il saluto d’apertura. Prima di uscire dal camerino Elvis le scompigliava i capelli, tanto per far vedere che fra loro era successo qualcosa. Macché. Nemmeno l’ultimo giorno di riprese. Lei lo congedò umiliandolo: “Bene, scioccone, ci vediamo, eh?’.

In compenso Priscilla finì nelle braccia di Mike Stone, l’insegnate di karatè di Elvis di origine hawaiiana. Lo sedusse iniziando a prendere lezioni di karatè anche lei. La relazione durò due anni ed Elvis chiese a Sonny West, il capo della “Memphis Mafia”, di spezzare le gambe a quell’uomo. 

Così come aveva programmato il servizio militare del suo pupillo, il Colonnello Parker programmò il matrimonio. Si sposarono a Las Vegas il 1 maggio 1967, anche se fra loro era tutto finito. Lisa Marie nacque il 1 febbraio del 1968. Priscilla scoprì che Elvis aveva una casa a Palm Springs, una casa “sicura”, dove fare le sue feste. Il rito era sempre lo stesso. I suoi “Guys” reclutavano le ragazze a Las Vegas o a Los Angeles, organizzavano un charter, ma non potevano toccare le ragazze, erano proprietà del Re.

Quando Elvis aveva fatto la sua scelta le preferite sostenevano un breve colloquio: nessun turpiloquio, niente porcate, non alte di statura, estrema pulizia, biancheria intima bianca, senza rimanere nude. Grazie alla sua amica Joanie Esposito, Priscilla individuò questa casa, la raggiunsero controllando anche la buca delle lettere, dove c’era un po’ di tutto. 

Fra le tante missive si soffermò su quella di una certa “Signorina lingua di lucertola”. Lo affrontò, chiedendo chi fosse questa “Signorina lingua di lucertola” e lui si difese attaccando, come faceva sempre, sbraitando di brutto.  Nel 1972 si separarono, anche perché Elvis non ammetteva rapporti sessuali con una donna che aveva avuto dei figli. Nel 1973 arrivò il divorzio.

Dario Salvatori per Dagospia il 28 dicembre 2022.

E’ in arrivo “Priscilla”, il film diretto da Sofia Coppola ad un anno esatto dall’uscita di “Elvis!”, un successo del 2022 del regista Baz Luhrmann. La saga rock and roll continua, il botteghino respira e in tutto il mondo le vicende di Presley, non tutte immacolate, anzi, magari viste proprio dal buco della chiave, possiedono ancora quel fascino truce a cui non si può dire di no. 

Ora manca all’appello Lisa Marie, 54enne figlia unica del re del rock e vedova di Michael Jackson. Gli spunti non dovrebbero mancare. Ma in tanto godiamoci questo “Priscilla”, scritto, ideato, fotografato e ambientato a Memphis dalla talentuosa Coppola.

Per  gli attori si è fatta una scelta simile a quella di “Elvis!”, ovvero scarsa notorietà dei protagonisti – eccezion fatta per Tom Hank fantastico nel ruolo del Colonnello Parker - Cailee  Spaeny (nei panni di Priscilla), Jacob Elordi (in quelli di Elvis), il che significa paga ridotta e notevole bellezza fisica dei due prescelti. Le icone, quando sono solide e immutabili, devono attrarre il pubblico giovane, soprattutto quello  delle piattaforme.  

Priscilla entrò nella vita di Elvis nel 1959: lui militare a Bad Nauheim, lei a Wiesbaden con tutta la famiglia, dopo che il capitano  ex marine di guerra, Paul Beaulieu, venne arruolato nell’Air Force  ormai di stanza in Germania. Lui 24 anni, lei 14. Piccola di statura, mora, occhi verdi, un sorriso in grado di aprire tutte le frontiere. Lui il re del  rock, anche da militare in Germania. Alla fine della ferma, nel 1960, Elvis, come tutti gli americani degli stati del sud, chiede la mano alla promessa sposa. Verrà a stare a Memphis, ma prima del matrimonio abiterà a casa del papà di Elvis, Vernon, rimasto vedovo.

Arriva a Memphis, più che altro a Graceland, e si accorge che i ritmi, i tempi e la giornata non sono esattamente quelli di una famiglia tipo. Il Re è insonne, veglia e gozzoviglia tutta la notte e il giorno dopo si sveglia a pomeriggio inoltrato.  Priscilla studia ballo e recitazione, ma lui non c’è mai. Nel 1963 decide di trasferirsi nella reggia, proprio l’anno in cui il cantante gira uno dei suoi film più famosi “Viva Las Vegas”, sua partner Ann Margret, a cui si attribuisce un flirt.

A lei, come ad altre partner, Elvis regala un letto. Priscilla sgrana gli occhi e non capisce. La rassicurano: sono già tredici i letti donati alle sue partner. Lei non capisce, trova che siano a doppia piazza e soprattutto a doppio senso. Arriva la sua prima vendetta. Alla funzione domenicale dell’ Auditorium di Memphis conosce un bel cantante del gruppo gospel  Stamps,  Milan Lefevre. Inizia a frequentarlo, vola qualche bacio ma qualcuno della cosiddetta “Memphis Mafia”, la security del Re, fa la spia. Stop.

E’ soltanto a quel punto che il capitano Beaulieu, nel frattempo maggiore, sguaina le stellette e chiede spiegazioni a proposito del ritardo del matrimonio. Il Re balbetta, teme che un passo del genere possa danneggiarlo presso il pubblico femminile e dunque continua a rimandare. I giornalisti americani scoprono che il maggiore non è il vero padre, quello biologico è invece James Wagner, militare anche anch’esso, deceduto in un incidente aereo quando Priscilla aveva sei mesi. 

A quel punto si sfoga Elvis: “Ho tentato di plasmarla per fare di lei la donna che volevo ma mi sono reso conto troppo tardi che era impossibile: non puoi insegnare ad amare. Per natura Priscilla è una donna fredda, riservata e molto rigida. E’ cresciuta in un ambiente militare e ne ha assorbito la dura disciplina.”. La difesa passò a Priscilla: “Sono arrivata a Memphis che avevo quattordici anni, ora ne ho diciannove. Sono una donna. Vorrei elargire il mio amore. Anche sesso, perché no. Il fatto è che ad Elvis in camera  da letto piace solo fare a cuscinate.” 

Proprio in quel periodo Elvis stava girando “Speedway” e la sua partner era  Nancy Sinatra, una che sul sesso non faceva sconti. Aveva appena divorziato da Tommy Sands e si sentiva libera. Ogni giorno nella pausa pomiciavano nel caravan di lui. Lei si metteva subito inginocchio e lui la tirava su appoggiandosi alle sue spalle: “Lo senti il piccolo Elvis?”, era il saluto d’apertura. Prima di uscire dal camerino Elvis le scompigliava i capelli, tanto per far vedere che fra loro era successo qualcosa. Macché. Nemmeno l’ultimo giorno di riprese. Lei lo congedò umiliandolo: “Bene, scioccone, ci vediamo,eh? “.

In compenso Priscilla finì nelle braccia di Mike Stone, l’insegnate di karatè di Elvis di origine hawaiiana. Lo sedusse iniziando a prendere lezioni di karatè anche lei. La relazione durò due anni ed Elvis chiese a Sonny West, il capo della “Memphis Mafia”, di spezzare le gambe a quell’uomo. 

Così come aveva programmato il servizio militare del suo pupillo, il Colonnello Parker programmò il matrimonio. Si sposarono a Las Vegas il 1 maggio 1967, anche se fra loro era tutto finito. Lisa Marie nacque il 1 febbraio del 1968. Priscilla scoprì che Elvis aveva una casa a Palm Springs, una casa “sicura”, dove fare le sue feste. Il rito era sempre lo stesso. I suoi “Guys” reclutavano le ragazze a Las Vegas o a Los Angeles, organizzavano un charter, ma non potevano toccare le ragazze, erano proprietà del Re.

Quando Elvis aveva fatto la sua scelta le preferite sostenevano un breve colloquio: nessun turpiloquio, niente porcate, non alte di statura, estrema pulizia, biancheria intima bianca, ammesse le puzzette e quando la responsabile  ammetteva di esser stata scovata veniva presa a cuscinate da tutte, vietatissimo  rimanere nude. Grazie alla sua amica Joanie Esposito, Priscilla individuò questa casa, la raggiunsero controllando anche la buca delle lettere, dove c’era un po’ di tutto. 

Fra le tante missive si soffermò su quella di una certa “Signorina lingua di lucertola”. Lo affrontò, chiedendo chi fosse questa “Signorina lingua di lucertola” e lui si difese attaccando, come faceva sempre , sbraitando di brutto. 

Nel 1972 si separarono, anche perché Elvis non ammetteva rapporti sessuali con una donna che aveva avuto dei figli. Nel 1973 arrivò il divorzio. Niente a che vedere con gli standard matrimoniali che sarebbero arrivati negli anni successivi. Priscilla usciva dal suo peggior incubo e soprattutto era libera. Accettò una liquidazione di centomila dollari in contanti,  mille dollari di alimenti e cinquecento dollari per il mantenimento di Lisa Marie fino al compimento della maggiore età. Praticamente una miseria per una star della sua portata, da anni tra le dieci star più pagate al mondo. 

Priscilla ebbe una certa notorietà come attrice quando venne ingaggiata nel cast di “Dallas” nel quinquennio 1983-’88, nel ruolo di Tenna Wade. Al cinema fu protagonista nella trilogia del film “Una pallottola spuntata” accanto a Leslie Nielsen. Dal 1984 al 2006 ebbe una lunga relazione con il regista italo-americano Marco Garibaldi, da cui nel 1987 ebbe un figlio, Navarone. Dal 2013 vive a Los Angeles con il presentatore televisivo Toby Anstis.

Oggi Priscilla ha 77 anni e da oltre quarantacinque  gestisce tutto il merchandising, le licenze, ogni tipo di brand, pubblicitario, cinematografico, televisivo e discografico riportabile ad Elvis. Si dice che sia proprietaria di mezza Memphis, certamente è proprietaria di  Beale Street, la strada principale di Memphis, fra turismo, chincaglierie, locali musicali, ristoranti, bistrot, senza contare Graceland, il luogo maggiormente visitato in America dopo la Casa Bianca. 

 Oggi il reddito del defunto marito è superiore a quelli di James Dean, Monroe e altre icone. Priscilla ha dimostrato acume e intelligenza, spirito imprenditoriale e capacità manageriali, affiancando in questa classifica Yoko Ono, che ha fatto la stessa cosa decuplicando il reddito di John Lennon.

Hoara Borselli per “Libero quotidiano” - Estratti martedì 5 dicembre 2023.

«La gioia più grande sarebbe vedere questo mio libro nelle mani dei ragazzi. Per loro, che si preparano ad affrontare la vita, leggere e conoscere la Callas può servire a capire come si può vivere pienamente e arrivare alla fine della vita senza rimpianti». 

Chi parla è Alfonso Signorini. (...) Per il centenario dalla sua nascita le ha dedicato un libro, intitolato “Troppo fiera, troppo fragile”.

Alfonso, perché hai deciso di scrivere un libro su Maria Callas?

«La Callas è una grande passione, che mi accompagna fin dall’infanzia. I miei nonni paterni si erano conosciuti in un sanatorio sulle montagne di Trento, dove si andava allora quando ci si ammalava di tubercolosi. Si promisero che, se fossero usciti vivi da quel sanatorio, mio nonno, da vecchio melomane, avrebbe portato mia nonna alla Scala, e le avrebbe chiesto di sposarla».

Mantenne la promessa?

«Certo, il nonno la portò alla Scala a sentire una Traviata con la Toti Dal Monte e le chiese di sposarla. Il nome della Callas però riecheggiava sempre. La andavano ad ascoltare, nel loggione, perché non avevano molti soldi per i palchi. Ed io sono cresciuto con questo nome fin da quando ero bambino e andavo dai nonni a mangiare o fare le vacanze». 

Una passione che ti ha portato a studiare al conservatorio.

«Sì. E quando studiavo al conservatorio mi sono sempre di più avvicinato alla Callas. Mi sono innamorato della sua voce senza sapere niente della sua vita». 

(...) 

Ritieni che la Callas sia stata veramente la più grande voce di tutti i tempi?

«Questo non te lo saprei dire. Onestamente la Callas non aveva una gran voce. Quando Toscanini nella sua casa di via Durini a Milano la convocò per fare il provino per il “Macbeth”, le disse che aveva una voce da «gatta selvatica». In effetti non aveva una voce pulita, apollinea come molte altre sue colleghe, ma aveva una voce che arrivava dall’anima».

Credi sia questo che l’ha resa unica?

«Quando tu ascolti la Callas automaticamente vieni trasportato nella dimensione della tragedia greca. Era una voce profonda, quasi un archetipo umano, e questo la rendeva unica anche per le sue capacità interpretative. Lei aveva una capacità indiscutibile di plasmare la sua voce in base ai personaggi che portava in scena». 

(...) 

“Troppo fiera, troppo fagile”. Così hai titolato il tuo libro...

«Questa è una sua definizione. Lei lo ha scritto in uno dei suoi appunti: «Io sono nata troppo sensibile, troppo fiera ma troppo fragile». In questo ossimoro ci sta tutta la sua complessità di donna e di artista». 

(...) 

La storia che ebbe con Onassis fu una banale storia di un miliardario con una grande artista o fu qualcosa di più?

«Onassis era un marinaio, un mozzo, figlio della Grecia più povera, veniva dal Pireo, divorato dall’ambizione. Un mozzo che lustrava gli ottoni delle barche importanti e fin da ragazzo fece di tutto per sposarsi la figlia del più importante armatore dei tempi: Tina Livanou».

Una volta raggiunta la ricchezza, Onassis decise di mettersi insieme a Maria Callas, la donna più famosa del mondo a quei tempi...

«Neppure con la Callas fu sufficientemente appagato. Gli mancava il debutto nell’alta società di New York dove veniva considerato un provinciale. La Callas gli servì per essere inserito in quel mondo, essendo la regina del Metropolitan. 

Ma ma quando la Callas presentò ad Onassis Jacqueline Kennedy, lui mollò Maria perché in quel momento Jeckie era la first lady d’America e gli avrebbe aperto tutti i mercati finanziari». 

La Callas soffrì molto per l’abbandono di Onassis?

«Soffrì perché aveva capito che Onassis aveva puntato alla scalata sociale con Jackie. Lui tornò ad innamorarsi perdutamente della Callas quando si accorse che la Kennedy non era uno stinco di santa, ma a quel punto Maria non ne volle più sapere. Ormai era una donna inaridita anche dopo il dolore per la perdita del figlio». 

Un episodio drammatico che segnò la sua vita.

«Maria perse il figlio avuto con Onassis a soli tre mesi, e fu costretta a seppellirlo sotto falso nome in un cimitero alle porte di Milano per evitare gli scandali. Questa fu la pagina più dolorosa per lei e da lì non ne uscì più viva. Tutto ciò che fece dopo fu una vendetta nei confronti di Onassis». 

La parte sentimentale più misteriosa della sua vita fu l’amore per Pasolini?

«La Callas era attratta dal mondo omosessuale e aveva la sindrome della crocerossina, dell’«io ti salverò». Era un fascino intellettuale che la investiva, perché quando Pasolini le dedicava i disegni, le poesie, lei ci credeva». 

La Callas, che è una delle donne più amate, adorate e invidiate del’900, fu mai felice?

«Non credo che sia mai stata davvero felice, d’altronde basta ascoltarla».

Credi che gli artisti debbano pagare con l’angoscia e l’infelicità il loro genio?

«È la condanna dell’artista vero. L’artista non è mai felice e paga questo scotto con l’arte che sa esprimere arrivando addirittura ad odiarla». 

Anche alla Callas accadde questo?

«Verso la fine della sua vita la Callas si sentiva perseguitata da questa Callas che non la mollava mai. Sia per la strada che quando accendeva la radio, la televisione o negli sguardi curiosi della gente era perseguitata dal suo mito. Lo ha patito profondamente».

Credi che la Callas sia stata una donna incompresa?

«Irrisolta». 

La Callas si occupò mai di politica?

«No, non ne fu mai affascinata. Il mondo dei salotti la attraeva, però si limitava al pettegolezzo che adorava. L’inciucio politico non le interessò mai. Fu ospitata a cena con l’allora Presidente della Repubblica Giovanni Leone e lei la descrisse come la cena più noiosa della sua vita». 

Si dice che la Callas non volesse incontrare Pasolini perché lo considerava rozzo e comunista.

«La Callas non amava gli intellettuali di sinistra però si lasciò irretire dalla loro cultura. Nutriva un pregiudizio verso di loro nonostante fosse lei stessa una provinciale, una donna di scarse letture, definita da Rossellini come la persona più noiosa di questo mondo». 

Noiosa la Callas?

«Perlomeno così la definì Rossellini. Disse che parlava soltanto di mestruazioni e di sciocchezze perché non aveva studiato. Non era certo una donna di cultura, la Callas. Era una sempliciotta».

Era bella la Callas?

«Era bellissima nella sua imperfezione». 

Riassumi: che donna era Maria Callas?

«La Callas non è una donna, è una Dea. Io sono letteralmente pazzo di lei. Menomale che non sono vissuto ai suoi tempi perché senno avrei lasciato ogni mia ambizione, ogni mio interesse per seguirla nel mondo. Io avrei lasciato tutto per lei».

Maria Callas, «una bambina infelice» o «l’ultimo esemplare di primadonna». Storia di Irene Soave su Il Corriere della Sera sabato 2 dicembre 2023.

«I blue jeans e una camicetta semplice, i capelli legati sulla nuca e un sorriso felice». Di tutti i costumi di scena che Maria Callas, nata greca a New York cent’anni fa il 2 dicembre, ha indossato nella sua lunga vita di primadonna, questo da ragazza semplice è forse il più difficile da immaginarle addosso. Eppure a ricordarla così, nell’istantanea dell’inizio di un’amicizia, è l’amica scrittrice Dacia Maraini. «Quando Pasolini mi ha detto: quest’anno verrà con noi in Africa Maria Callas, io mi sono spaventata». La fama di diva precedeva Maria Callas, nota per le sue bizze e le sue liti, capace di infuriarsi persino col Corriere che aveva scritto il nome della rivale Tebaldi, in un titolo, a caratteri più grandi del suo. «Viaggiare con lei, pensavo, sarebbe stato terribile, chissà quanti capricci, quante pretese! E invece... Non so se perché innamorata di Pier Paolo, ma in quel viaggio è stata umile, disponibile a qualsiasi scomodità, gentile e sorridente».

I compagni di vita

I comprimari della favolosa vita di Maria Callas, conclusasi infelicemente a Parigi, dove un attacco di cuore l’aveva stroncata nel 1977, sono stati per le cronache mondane soprattutto i suoi amori: il pingue impresario Giovanni Battista Meneghini, che sposò nel 1949 e da cui poi divorziò bruscamente dieci anni dopo, con il calcio dell’asino di dire ai rotocalchi che il loro era stato un matrimonio quasi del tutto bianco; l’armatore Aristotele Onassis, che durante la loro storia sposò la vedova Jacqueline Kennedy e continuò poi a frequentare Maria Callas, a Parigi, di nascosto. O la sua rivale Renata Tebaldi, opposta a lei in tutto e dal suo divismo, infine, quasi oscurata. O la madre di Callas, amore primario e infelicissimo: nella leggenda della diva era entrata anche l’acrimonia che divideva la piccola Maria, vorace di cibo e d’affetto e in sovrappeso perenne, dalla madre Evangelia, commessa nella boutique newyorkese di un’altra illustre madre-matrice, la contessa Jolie Gabor. Cresciuta severissimamente, Maria aveva presto troncato i contatti con Evangelia; e ormai celeberrima aveva risposto a mezzo stampa alla madre che, anziana, in una lettera, le chiedeva 65 mila lire: «Se non sai guadagnarteli da te i soldi, buttati dalla finestra, o affoga». Il grande melodramma che fu la vita della diva, nella vulgata, ha loro tre come personaggi fissi, immutabili.

Maria Callas in Africa con Pasolini, Moravia e Dacia Maraini nel 1970

Ma c’è una trama parallela, in cui altri personaggi sanno guardare la “divina” con occhi più lucidi, e spesso anche più affettuosi. E sono gli scrittori. ad esempio, diventa amica di Maria Callas tramite Pier Paolo Pasolini. L’occasione è il viaggio di cui sopra: un lungo viaggio in Africa, dove all’inizio del 1970 Dacia Maraini e Alberto Moravia raggiungono Pier Paolo Pasolini e Maria Callas. Prima a Dakar, in Senegal. Di lì si spostano in Costa d’Avorio e Mali. Da cinque anni, quasi, Callas aveva smesso di cantare in arie d’opera integrali. L’ultima era stata la Tosca , al Covent Garden, a luglio 1965. Nel pubblico c’era Elisabetta II. Gli anni che erano seguiti, per i suoi biografi, erano gli anni del ritiro e del declino. La storia con Onassis, iniziata già nel 1959, non solo non fioriva; ma nel 1968 l’armatore aveva sposato Jacqueline Kennedy, umiliando Callas anche pubblicamente. Nel 1969, l’anno prima del viaggio, la diva aveva accettato una nuova parte, non più all’opera: era la Medea di Pier Paolo Pasolini. E alla high society dei ricchissimi internazionali si sostituì, nelle sue frequentazioni, un ricco mondo di intellettuali.

La resistenza di Pasolini

«Maria l’ho frequentata poco», ricorda Maraini, «perché abitava a Parigi e io a Roma, ma in quel viaggio in Africa siamo state molto vicine. Tutto il giorno insieme, e la notte dormivamo nella stessa stanza». Un dettaglio non casuale. In pasto alle cronache è finito, negli anni, anche il rifiuto di Pasolini in quel frangente: Callas avrebbe voluto dormire con lui, ma lui per evitarne le avances aveva decretato, perentoriamente, «donne con donne e uomini con uomini!». «Nella sua ingenuità, pensava di poterlo convertire», ricorda Maraini. Confermando l’infatuazione della diva. «Ma devo dire che in effetti lui era innamorato di lei e sebbene si trattasse di un amore platonico, c’era tanta tenerezza e tanta intesa fra loro che si potevano giustificare le aspettative di lei. Non è che lui mentisse, l’amava veramente ma in maniera spirituale. Il sesso stava da un’altra parte. Lei lo amava anche perché veniva da un rapporto spinoso con un uomo prepotente e autoritario, così diceva. Pasolini era dolce e sempre tenero con lei. Ed era sincero». Di Onassis «raccontava più volte», soprattutto «sgradevolezze. Mi pare che per lui provasse rancore». Una diva fragile, perfino tenera. L’opposto dell’immagine di fierezza e fascino che aveva proiettato, nei decenni precedenti, dai palcoscenici dei teatri di tutto il mondo. «Mentre nel campo musicale si considerava imbattibile, dal punto di vista umano, femminile, si considerava fragile, incerta e facilmente feribile. Mi ha fatto molta tenerezza quando mi ha parlato del suo rapporto con gli uomini che, diceva, non era mai stato felice. Invece quando parlava di musica e di opera era molto fiera e sicura. Credevo di andare in viaggio con una diva e mi sono trovata con una bambina infelice ma piena di voglia di vivere e di amare ed essere amata».

Priva di tenerezza, com’era nel suo stile, ma piena di comprensione e lucidità: anche la giornalista e scrittrice Camilla Cederna, nel 1968, dà alle stampe un suo ritratto di Maria Callas. Una biografia firmata per la serie Gente famosa , pubblicata da Longanesi a 700 lire a volume. La serie comprendeva, tra gli altri, un Herrera di Gianni Brera; un Fanfani di Piero Ottone; una Maria José di Adele Cambria; i personaggi più in vista di un’epoca felice, raccontati - così la quarta di copertina - con «disinvolta familiarità». (Oggi Maria Callasè stato ripubblicato dalla casa editrice Nottetempo, con alcuni altri articoli di Cederna su Callas raccolti in appendice, a cura di chi scrive). Cederna ritrae Callas con perfidia letteraria, divertendosi soprattutto quando si tratta di descriverne l’eccezionale grassezza, prima, e il dimagrimento eccezionale poi. Da neonata enorme che si autosvezza a salsicce, a donnone da «novanta chili di carne marron scuro»; dalla misteriosa dieta della tenia, inghiottita con champagne ghiacciato, al divorzio dal marito-impresario «che non aveva saputo come lei né dimagrire né mondanamente levitare, e perciò le era divenuto estremamente pesante». «Ex ippopotamo»; «bue»; «balena»; «caratura»; «tonnellaggio». Inoltre avara, avarissima, e ossessionata dalla fama; litigiosa con tutti; nevrastenica; inaffidabile, capace di disertare il palco anche se tra il pubblico c’è il presidente Gronchi o lo Scià insieme a Farah Diba.

Gli ultimi lampi di gloria

Eppure la fotografia che ne ricaviamo, più di cinquant’anni dopo, risulta lusinghiera: Cederna non può prevederlo, ma ha immortalato gli ultimi culmini della gloria di una stella che sarà di lì in poi, oggi lo sappiamo, in costante declino. Oltre a un modello di celebrità che i social, cent’anni dopo, hanno consegnato irrimediabilmente al passato: «Quel che è sicuro è che con la Callas è scomparso l’ultimo esemplare di primadonna del mondo», scrive Cederna nel 1977 nel suo “coccodrillo” della divina, intitolato proprio «Tu sei benedetta tra le primedonne».

Di Callas, Cederna è quasi la sola a raccontare, dietro la fragilità con cui tutti i rotocalchi e i tabloid del mondo si piccano di intaccarne la mitologia, l’incredibile forza. Anche fisica. Della diva, vista da vicino, rivela «una mania: trasportare di continuo i mobili per cambiare più spesso che può l’ambiente in cui vive, se no si annoia. È lei stessa a spostarli. Due notti fa, insieme alle cameriere, ha portato il pianoforte a coda da una gran sala nel suo salottino privato. E non lo ha spinto sulle rotelle; lo ha proprio sollevato (senza affatto accennare a mezza voce le arie che l’hanno resa famosa), perché un’altra sua mania è quella dei pavimenti lucidi, e non può sopportare di lasciarvi sopra dei segni».

Maria Callas “divina”, tra tormento e estasi. LAVINIA MANNELLI su Il Domani il 30 novembre 2023

La cantante, nata il 2 dicembre del 1923, è diventata a tredici anni mito vivente nella storia della musica. Negli articoli che Camilla Cederna scrisse su di lei traspare da un lato l’esaltazione, dall’altro il suo riflesso in uno specchio deformato

Quando “lo spazio delle donne” è claustrofobico produce allucinazioni. Ma anche quando è il palcoscenico della Scala di Milano (o del Metropolitan di New York) non scherza. Ne sa qualcosa la “divina”, violenta, fragile Maria Anna Cecilia Sofia Kalogeropoulos, nata il 2 dicembre di cento anni fa e diventata a tredici anni mito vivente nella storia della musica. Si chiamava, in arte, Maria Callas.

Di lotta, di corpi, di spazi (e di classe), parla un libro su di lei appena uscito per nottetempo: con una bella e necessaria introduzione di Irene Soave, riporta gli articoli che Camilla Cederna aveva scritto sulla cantante e attrice. Sono pezzi di costume, ben scritti, alcuni brillanti: indimenticabile quel «vasto occhio egeo» con cui la descrive sontuosa, avvolta nel suo mantello di velluto rosso, dopo il primo atto di Medea (dicembre 1953) che l’avrebbe consacrata.

Si capisce che, al sortilegio che la maga greca aveva scagliato sul suo pubblico, Cederna non è affatto immune. Dalle prime prove di canto in compagnia di due uccellini (il canto, per lei, come un «gioco ornitologico»), alle bambole regalate per la sua primissima performance a tredici anni e gettate via dall’oblò della nave su cui, dall’America, sarebbe arrivata finalmente a Patrasso, per una nuova e più seria fase della sua formazione, Cederna racconta un mito, e sembra raccontarlo anche a sé stessa: «Si vede che in questo momento la gente aveva bisogno di un mito, un mostro sacro mancava, ed ecco questa farfalla uscita dal bruco che in più canta come un angelo, o come un’invasata, col cuore o con le viscere, secondo il grado di delirio di chi l’ascolta».

IL TORMENTO

Però sono pezzi che fanno anche del male (ne avranno fatto pure a Callas). Perché in queste pagine si registra un tormento, che torna a ossessionare Cederna come i suoni allitteranti e le anafore di cui si serve: «Maria Meneghini Callas e la sua collezione di gioielli. Maria Meneghini Callas a Lacco Ameno. Maria Meneghini Callas alla ribalta, sommersa da una pioggia di fiori. Maria Meneghini Callas prima e dopo la cura. Maria Meneghini Callas con la Maxwell a Venezia. Maria Meneghini Callas prova un abito di faille mauve. Nuovo incidente al tenore. Maria Meneghini Callas dice che non è vero» (Discorsi in M, in Appendice, pag. 97).

La “divina” dipinta come un diavolo, un’ossessa, una tigre, ma anche una colomba trasformista; un’isterica, preda di bizze e attacchi d’ira, collassi, vampate di rabbia su cui Cederna ironizza: come quando schiere di dottori la visitano e concludono, «(chi lo direbbe?)» commenta, «che soffre di nevrastenia acuta». O ancora: «monomaniaca», «diavolo con istinti diabolici», come se non bastasse.

La sua fame di successo, d’adulazione, anzi no, d’amore, è sempre osservata in obliquo, con sospetto e riprovazione, allo stesso modo della fame fisica: di dolci al miele, steak à la tartare, patate. “Mi ricordava una bistecca” era il titolo provvisorio della sua rubrica di costume sull’Europeo dedicata anche, tra gli altri, proprio a Callas.

I pezzi di “Donna Coraggio” (come veniva chiamata Cederna) sembrano insomma difendersi dietro un insistito sarcasmo dal tormento(ne) che lei stessa contribuiva a raccontare: e infatti, più che parlare dell’eccezionalità canora di Callas, spesso Cederna finisce per riportare notizia quasi solo delle liti con altri interpreti, sul palco e dietro le quinte; dei suoi amori mancati. Della sua crisi vocale non parla direttamente: la descrive attraverso le parole della stessa cantante, che a sua volta si rapporta a sé stessa come a un altro corpo, uno strumento a corde, un Altro da osservare con distacco (come in seguito dirà: «Non riesco a capire cosa mi è capitato, per tutta la sera ho sentito cantare un’altra donna»); come se appunto tanto Callas quanto Cederna non volessero avvicinarcisi troppo perché quel mostro sacro fa paura. «Medea è il suo personaggio, si vede che è una donna capace di odiare», si legge infatti tra virgolette.

PROFONDITÀ SIDERALI

Ogni riga degli articoli di Cederna è l’esaltazione di questo mito e, insieme, il suo riflesso in uno specchio deformante. Come la madre di Callas che, alla sua nascita, la ignorò per quattro giorni perché era troppo femmina rispetto ai suoi desideri e, soprattutto, brutta, grassa «come un agnello», affamata di salsicce già all’età di tre mesi, e che poi la torturò (psicologicamente) per tutto il resto della sua esistenza. Se ne parla in questi termini Cederna, che altrove si mostra anche una grande estimatrice di Callas, che cosa avrà pensato lei di sé stessa?

Non una parola su quelle profondità siderali che Pasolini, in una delle poesie dedicate a Callas, definisce «vuoto del cosmo», a metà strada tra superbia e umiltà: «Ma il debole sorriso sfuggente/ non è di timidezza/ è lo sgomento, più terribile, ben più terribile/ di avere un corpo separato, nei regni dell’essere – se è una colpa/ se non è che un incidente:/ ma al posto dell’Altro/ per me c’è un vuoto nel cosmo/ un vuoto nel cosmo/ e da là tu canti» (Timor di me?, in Trasumanar e organizzar, 1971).

PERFIDIA LETTERARIA

Per non parlare della «perfidia letteraria» (come dice giustamente Soave) cui Cederna ricorre quando si inoltra in un territorio ben più scivoloso, che ogni donna conosce bene, e che riguarda il corpo: in particolare, la metamorfosi miracolosa a seguito del suo dimagrimento. «E un giorno Pantagruel cominciò a cantare», scrive Cederna. La chiama «figliolona», le appiccica un corpo di cui sembra giusto rabbrividire, come fa la madre quando la reincontra a New York e la trova ingrassata: «Era grassa, era felice, ma non le stava niente bene, adesso che è dimagrita invece sta benissimo».

Quando avanza l’ipotesi del verme solitario (che alcuni, come non tralascia di ripetere Cederna, sostengono che Callas si sia impiantata da sola), il suo commento sferzante è: «Capito cosa mai la rodeva dentro?», a partire dal quale, poi, torna a ironizzare sulla sua fame di notorietà: «Adesso la Callas è rôsa dal baco mondano». E se è consapevole che «sono scherzi questi che la natura di solito non perdona», replica secca: «Sarà, ma ora è felice».

La storia del verme solitario ha, certo, del fascino. A questa «molesta presenza» si ispira, per esempio, Antonio Moresco per il suo allucinato Duetto (questo il titolo; si trova nella raccolta Merda e luce, Effigie Edizioni, 2007) tra Maria Callas e il suo doppio, cioè la sua tenia. Qui, il corpo della “divina” è invasato, gravido di una forza che è però una «vocina infantile» («una voce che viene prima ancora che ci sia la voce») e che, tuttavia, con un’intuizione ben più profonda di quelle che lasciano soffocate le frasi di Cederna, Moresco fa nascere e morire nel segno del dolore di figlia e madre insieme, per volontà, insomma (a metà tra narcisismo e masochismo) della stessa Callas. La tenia è la sua ombra, il frutto della sua feconda paura di non meritarsi la sua «vera» voce; di non essere nessuno, nemmeno un corpo ospitale. Del resto, è così che la descrivevano i giornali.

Perché è vero che, leggendo queste pagine di Cederna, si ha quasi l’impressione che il mito di Callas stia tutto nel suo mistero: non tanto della voce, delle sue improvvise note appena appena sgraziate, della sua lotta contro la tradizione operistica o della regalità terribile delle sue interpretazioni (come cantante ma anche come straordinaria attrice: avete mai visto Medea di Pasolini?), quanto del suo inaspettato dimagrimento nell’ottobre del 1954. Anche perché, di tutto il resto, la stampa, Cederna stessa, le colleghe e i colleghi, l’opinione pubblica sembra conoscere già ogni minimo dettaglio. «Dicono che con la sua famiglia è stata durissima. Dicono che ha dato un calcio al tenore. Dicono che ha fatto una scena al direttore. Dicono che pesta i piedi» (Discorsi in M), ripete come in una cantilena crudele Cederna; e la cantante Maria Callas intanto scompare, simulacro di tutte queste narrazioni.

UN CORPO È SOLO UN CORPO?

Il rischio di un ripiegamento vittimistico e, in fin dei conti, consolatorio è senz’altro alto quando si parla di corpi e solo di corpi. Ma quand’è che un corpo è solo un corpo? Quand’è che non è anche metafora, molteplicità, finzione, appartenenza e sradicamento? Perché, nei testi di Cederna, Callas è tanto visibile nella sua corporeità (prima sbagliata, poi giusta, finalmente languida) quanto un «fuori campo»: è un gigantesco elefante nella stanza (Daniela Brogi, Lo spazio delle donne, Einaudi, 2022).

Un corpo è anche lo spazio che quel corpo occupa nel mondo, prima di tutto: se non occupa spazio, se è un «fuori campo», allora il corpo coincide con la lotta per guadagnarselo. In effetti, pubblicare questo libro ha il grande pregio di farci guardare indietro: è, come dice Soave, un «documento». Cederna ci aiuta a capire questo: che le parole sono sempre importanti e che Maria Callas non si nasce, lo si diventa; anche con un bel po’ di sforzi. Domani si festeggiano i suoi cento anni, forse ne è valsa la pena.

LAVINIA MANNELLI,  Scrittrice

Crocifisso Dentello per il Fatto Quotidiano - Estratti sabato 2 dicembre 2023.

“Non mi piace la mia voce. Non capisco perché qualcuno la voglia ascoltare”. Così Maria Callas, nata a New York il 2 dicembre 1923, era solita civettare in più di una intervista. La sua voce – oggi eternata su 70 cd in un cofanetto Emi Classics – è stata invero la più mitizzata. Il centenario della nascita, scandito da celebrazioni a ogni latitudine, conferma quanto il suo nome basti da solo a simboleggiare l’opera lirica del Novecento. 

Figlia di un farmacista greco emigrato, dopo la separazione dei genitori torna in patria con la madre e la sorella. È al conservatorio di Atene che scopre e affina il suo talento ma è con il riapprodo in Usa che perfeziona la sua tecnica per poi infine trovare la consacrazione in Italia. Nel corso degli anni 50 incarna alcune tra le più grandi figure femminili del melodramma.

Luchino Visconti firmerà da regista i suoi trionfi con la Sonnambula e La traviata. La sua presenza scenica incanta gli spettatori perché “non si sa dove finisce la voce e dove comincia l’interpretazione drammatica”. Negli anni 60 è protagonista assoluta delle cronache mondane. 

Sposata con l’imprenditore Meneghini, lo lascia travolta dalla passione per l’armatore greco Aristotele Onassis, il quale qualche anno più tardi le preferirà Jacqueline Kennedy. Callas tenta la carta del cinema d’autore. Pasolini la sceglie, muta e ieratica, per il suo film Medea del 1969. Negli anni 70 si ritira via via dalla scena pubblica per poi morire a causa di un arresto cardiaco a soli 53 anni nel settembre del 1977.

Una biografia che ha ispirato il grande schermo. Basti pensare all’omaggio implicito di Fellini nel suo E la nave va o a Callas Forever di Zeffirelli con Fanny Ardant. In una Scala blindata proprio in questi giorni le riprese di un film che vede protagonista Angelina Jolie nei panni del soprano. 

Il teatro italiano la celebra tra oggi e domani con due eventi in suo onore.

Al Piccolo di Milano con Concita De Gregorio in dialogo con Umberto Galimberti e il giallista greco Markaris. 

Al Palladium di Roma con un’opera realizzata dai compositori Moretti e Piersanti e dal poeta Valerio Magrelli: Kalós-Callas: collage. È la bibliografia su Maria Callas tuttavia a destare impressione. Si contano a centinaia i titoli a lei consacrati che ne fanno una star anche dell’editoria libraria. Tra volumi fotografici sul suo look, ricettari, graphic novel, svariate le biografie, inclusa una illustrata per ragazzi.

Svariati anche gli epistolari. Da segnalare almeno Io, Maria. Lettere e memorie inedite, a cura di Tom Volf, targato Rizzoli. 

Se Alfonso Signorini firma per Mondadori Troppo fiera, troppo fragile, l’editore Quodlibet ha mandato in libreria Mille e una Callas. Voci e studi, nel quale studiosi di rango analizzano “l’anatomia vocale”.

Tre uscite recenti ne perpetuano il mito e sono una traccia utile per ripercorrerne la parabola. Il critico francese René de Ceccatty nel suo Maria Callas (Neri Pozza) scrive: “Il suo timbro e il suo stile sono diventati un logo, come la gonna di Marilyn sollevata dal passaggio della metropolitana”. 

Nottetempo ripubblica, a cura di Irene Soave, Maria Callas di Camilla Cederna, apparso nel 1968. È un ritratto impietoso, distillato della penna caustica della giornalista. Pagine che raccontano le bizze della diva con gli impresari, le scene isteriche prima di andare in scena, la rivalità con Renata Tebaldi (“Paragonarmi a lei? Sarebbe come paragonare lo champagne con la Coca-Cola”).

Cederna ricorda lo scandalo del giugno 1958 quando, al Teatro dell’Opera di Roma, alla presenza dell’allora presidente Gronchi, Callas non si presenta per il secondo atto infastidita da qualche fischio tanto da dover essere scortata all’uscita dai celerini tra le proteste degli spettatori. Annarita Briganti firma per Cairo Maria Callas. La Diva umana. Qui la biografia è scandagliata da una prospettiva simpatetica, che accoglie e comprende tutte le fragilità dell’artista: “Una bambina, una ragazza, una giovane donna non amata da grande si sentirà sola”

(…)

Estratto dell'articolo di Giuseppe Videtti per “il Venerdì di Repubblica” il 20 maggio 2023.

Un secolo. Cento anni. Ossignore, Callas avrebbe cent'anni? Ve la immaginereste curva, canuta, il volto scritto da milioni di minuscole rughe, le mani deformate dall'artrite, a raccontare in tivù la gloria e gli amori? O su un profilo Instagram a commentare – per voce di una zelante segretaria, s'intende – spezzoni di recital, immagini rubate dai paparazzi sul mega-yacht Christina o nel suo eremo parigino? 

[…] 

Più presente in morte (nel 1977, a 53 anni) che in vita, negli anni dei trionfi, che furono tanti, troppi, in un tempo così breve. Magari anche bellissima, più bella di com'era in realtà, come l'ha raccontata Monica Bellucci in Lettere e Memorie, lo spettacolo teatrale che dopo i successi europei ha avuto una calorosa accoglienza al Beacon di New York.

La Bellucci è tra gli ospiti di Corrado Augias, che celebra il centenario con il corposo documentario Callas Segreta, in onda sabato 20 maggio alle 21.45 su Rai 3. Con la passione del grande narratore, Augias si sposta nella penisola attraverso un itinerario-Callas (Arena di Verona, La Fenice, La Scala, l'Opera di Roma, il Danieli di Venezia), interrogando amici, colleghi ed esperti sulla magia di quella voce: la direttrice d'orchestra Speranza Scappucci, il giornalista Alberto Mattioli, Stefano Belisari (in arte Elio), Giovanna Lomazzi, confidente del soprano e destinataria di molte lettere. 

A corredo, le testimonianze filmate di Pasolini, Visconti, Muti, Pavarotti. E del biografo Tom Volf, autore del magnifico docufilm Maria by Callas (2017) e del voluminoso e preziosissimo Io, Maria - Lettere e memorie inedite (Rizzoli, 2019) con, tra l'altro, le confessioni dettate dalla diva, tra la fine del 1956 e l'inizio del 1957, a un'amica, la giornalista Anita Pensotti […]

Fu un anno felice per le nascite, il 1923: […] Poi, quando l'anno stava per scadere, il 2 dicembre, a New York, di domenica, nacque lei (ormai poco importa che fosse stata registrata come Maria Anna Cecilia Sofia Kalos, «Callas si nasce», dice Mattioli), non una delle…, ma la più grande della lirica (soprano drammatico d'agilità, cantante di coloratura, chiamatela come volete; fosse stata solo armata di tecnica, non sarebbe nell'Olimpo). 

Norma (che interpretò 92 volte), Elvira, Carmen, Santuzza, Manon, Mimì, Cio-Cio-San, Turandot, Rosina, Medea, Elisabetta di Valois, la Gioconda, Giulia, Abigaille, Leonora, Violetta, Aida – c'è un puzzle di donne a costruire Callas, e non c'è una sola tessera di queste figure che non le appartenesse, che non la elevasse da popolana a eroina, da diva a martire.

Maria ne era consapevole: «Che cos'è la leggenda? È il pubblico che mi ha creata. Quando il pubblico ti ama così tanto, vuoi dare molto di più». È la regola ferrea dello show-business, l'abc dello star system: origini greche, sarebbe diventata italiana (per via del matrimonio con l'impresario Meneghini), ma era cittadina americana e quelle leggi non scritte ma inviolabili le conosceva bene: erano le stesse che stavano stritolando contemporanei come Judy Garland, Marilyn Monroe e Elvis.

Dopo le sei leggendarie inaugurazioni della Scala, a partire dal 1951, il chiacchierato licenziamento dal Met e il clamoroso fiasco all'Opera di Roma (il 2 gennaio 1958, quando dopo il primo atto di Norma, per un improvviso calo di voce, si rifiutò di rientrare in scena, lasciando in vana attesa vip e autorità – dal presidente Gronchi a De Chirico, da Lollobrigida a Magnani: dovettero accontentarsi di quella Casta Diva che, parole di Maria, «meritava di essere fischiata, non applaudita»), Callas era più di quella voce, sul palco era divina.

«Ci sono due persone in me, mi piacerebbe essere Maria, ma devo convivere con la Callas». Sono i sintomi, che spesso degenerano in patologie, del successo pop; il destino era già scritto negli anni in cui la piccola Maria, dotata di un dono naturale fuori dal comune, era in balìa delle smanie di sua madre, la severissima e intraprendente Evangelia Dimitriadou che, come Maddalena Cecconi (il personaggio di Anna Magnani in Bellissima di Visconti), aveva già deciso: sarai una cantante, la più grande (la sorte le avrebbe riservato ben altre soddisfazioni rispetto alla Cecconi).

Maria, che non era ancora Callas, si lasciava guidare – zero aspettative: «Non sono una poetessa, non sono famosa, permettetemi solo di scrivere il mio nome» annotò sopra la sua firma nell'albo della scuola, il 28 gennaio del 1937. Gli anni della gavetta non hanno offuscato, semmai ingigantito l'aura pop; Maria, miope, povera, figlia di immigrati, alta, sgraziata, grassoccia: quando arrivò a Verona nel '47 per una (malpagata) Gioconda, qualche perfida collega (che ne aveva intuito le potenzialità – con quella voce!) la bullizzò con ferocia: «Un fagotto di stracci venuto dall'America».

Dieci anni dopo arriva a Parigi in trionfo: magra, visone, gioielli, fiori, trucco perfetto, la folla che l'attende sotto la scaletta dell'aereo e, a teatro, ad applaudirla (19 dicembre 1958), i duchi di Windsor, Brigitte Bardot con Sacha Distel, Jean Cocteau. 

Diva al cento per cento (capricci compresi), pop al novanta («Parlare d'arte è difficile, parlare d'altre cose non son capace, quindi l'intervista in fondo non serve»). Il restante dieci lo aggiunge la superchiacchierata love story con Aristotele Onassis, il divorzio da Meneghini, l'impresario di 27 anni più grande che le diventa insopportabile («una sorta di carceriere»), infine l'umiliazione cui l'armatore greco la condanna alla fine del '68 sposando, a insaputa dell'artista, Jackie Kennedy – lo squallido contratto prematrimoniale è sbandierato dai tabloid.

Ora sì primadonna da melodramma; ora sì protagonista di una tragedia greca. Finalmente è davvero magra come voleva essere, proprio come il suo idolo, Audrey Hepburn, una bellezza che non avrebbe mai potuto uguagliare ma che imita con grazia: tailleur, cappellini, borsette. Non ha più bisogno di diete drastiche (92 chili nel 1952, 64 nel 1954, e 54 negli ultimi anni). 

[…]

Non meno travagliata fu la love story col collega Giuseppe Di Stefano, sposatissimo, che l'accompagnò nell'ultima tournée prima dell'oblio – ultima data Sapporo, in Giappone, l'11 novembre 1974). Potenza della lirica, dove ogni dramma è un falso, che con un po' di trucco e con la mimica puoi diventare un altro, avrebbe cantato Dalla in Caruso. Vale per tutti, per Pavarotti e Renata Tebaldi, la rivale, non per Maria. Lei era Callas, c'era dentro fino al collo. Cantante lirica che il melodramma ha reso pop.

Estratto dell'articolo di Paola Jacobbi per repubblica.it il 29 Marzo 2023

Immaginate se domani Lady Gaga si ritirasse dalle scene. Così, di botto, a 36 anni, all'apice della sua fama e della sua carriera. È quello che fece, nel 1941, Greta Garbo, in quel momento la donna più famosa del mondo. Era arrivata a Hollywood appena ventenne, sedici anni prima. Aveva girato una trentina di film e persino superato a pieni voti il passaggio dal muto al sonoro.

 Ma dopo l'uscita di Non tradirmi con me, un film modesto e di poco successo, decise di sparire. Non convocò una conferenza stampa per annunciarlo. Successe e basta. Andò avanti così, fino alla morte, avvenuta nel 1990, Niente più film né interviste né fotografie. Tuttavia, è diventata, paradossalmente, una stella ancora più luminosa di prima, splendente proprio perché distante e irraggiungibile. […]

Ne svela la storia, istruttiva anche oggi, al tempo di Instagram, e molti segreti il libro Garbo (Il Castoro). L'autore è Robert Gottlieb […]

Il potere e la fama furono raggiunti con un'ambizione feroce. Fin da ragazza, quando passeggiava con un 'amica per le strade di Stoccolma, la giovane Greta si attardava davanti al Palazzo reale nella speranza che un principe la vedesse. Sapeva di essere bella ma amava anche sinceramente l'arte della recitazione. Il teatro fu la sua scuola, l'unica: pagata con una borsa di studio per ragazzi indigenti.

 Arrivò negli Stati Uniti chiamata da Louis Mayer della Metro Goldwyn Mayer che l'aveva vista in un film tedesco. Era smarrita, non parlava inglese, non sapeva che cosa ne sarebbe stato di lei. I primi tempi le usarono il solito trattamento riservato alle "starlet": tante foto posate, lezioni di recitazione ed equitazione. Ma il senso di spaesamento di Greta durò poco. La carne e il diavolo, […] Quelle tra Garbo e Gilbert erano focose e molto realistiche: baci a bocca aperta, lei sopra di lui, cose mai viste ai tempi.

Fuori dal set, ebbero una relazione. Erano innamorati ma Greta non volle mai sposarsi. Forse perché era gay o bisessuale? "Mi sono convinto che il sesso non le interessasse più di tanto, era troppo occupata a pensare a se stessa", risponde Gottlieb. "Voleva essere accudita, servita e riverita, non necessariamente amata".

Le sue amicizie particolari con uomini, gay e no, e con donne, sono infatti tutte molto simili a relazioni d'affari […] La entusiasmava far parte di ristrette cerchie ricche e colte. La poetessa lesbica Mercedes De Acosta la amava e venerava: anche troppo, infatti era così gelosa e ossessiva che Greta a un certo punto ruppe i rapporti. Difficili anche quelli con il fotografo Cecil Beaton che, pure, a lungo, fu quanto di più simile a un accompagnatore fisso.

Per non dire del lungo triangolo con la coppia formata da Valentina (emigrata dalla Russia, stilista apprezzata negli anni Venti) e il marito miliardario George Schlee. Legami strettissimi, finiti in liti irrimediabili. Greta trovò pace, forse, solo negli ultimi anni, accanto alla baronessa Cécile de Rothschild, quando ormai si era trasferita stabilmente a New York. "Evitava le occasioni mondane, ma usciva", dice Gottlieb. "La sua vita da reclusa in realtà non era né triste né patetica. Andava al ristorante, comprava pezzi d'antiquariato e opere d'arte nelle gallerie. Capitava che facesse delle improvvisate agli amici, per esempio a Katharine Hepburn, che abitava poco lontano".

[…] La fama l'aveva resa paranoica sulla sua privacy. Il denaro, invece, la rese più avara che mai. Ex domestici hanno raccontato quanto fosse oculata nelle spese di casa, con quanto puntiglio controllasse le uscite. Quando lavorava, si portava sul set il pranzo pronto (insalata, panino, latte o birra) in un sacchetto di carta.  […]

Gianmarco, figlio di Ugo Tognazzi: «Per goliardia comprò l’isolotto Fon Kul. Le gag di Amici miei nate durante le bevute». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 18 Aprile 2023 

L’attore: «Se fosse diventato troppo vecchio si sarebbe tolto di mezzo da solo». La beffa ai paparazzi: «Quando sono nato io, per accontentare i fotografi uscì dalla clinica con un fagottino in braccio. Ma dentro aveva messo uno scimpanzé di peluche»

Quando è stata la prima volta che ha capito di avere un padre famoso?

«Probabilmente il giorno dopo che sono nato — sorride Gianmarco Tognazzi —. A Villa Stuart, la clinica romana dove mia madre (Franca Bettoja, ndr) aveva appena partorito, arrivò una valanga di fotografi. Stazionavano sotto la finestra della camera urlando a mio padre: “Faccelo vedere! Faccelo vedere!”. E lui, stanco delle urla, scende giù con un fagottino in braccio: ma non ero io, dentro c’era uno scimpanzé di peluche... Dunque, in quella che avrebbe dovuto essere la mia prima foto con lui, c’era un pupazzo».

Che padre e che uomo era?

«Pur essendo più figlio dei suoi figli, ogni tanto provava a fare il padre, ma non era severo... ovviamente ci ammoniva dicendo quello che “non si deve fare”. Se però si metteva davanti allo specchio, poteva dire a sé stesso: io ho fatto peggio. Come uomo, per definirlo ho usato il termine Ugoismo, una parola che potrebbe apparire egoistica, invece riguardo a lui significa altruismo».

In cosa consisteva il suo altruismo?

«Godeva nel vedere gli altri beneficiare di ciò che era in grado di offrire. Si definiva “un povero che mantiene una famiglia di ricchi”: tutto quello che faceva per sé stesso, lo metteva a servizio del prossimo. I suoi apparenti egoismi, li condivideva con parenti e amici, per farli vivere bene. Per esempio, avere una casa grande gli serviva per ospitare tante persone».

Stiamo parlando di un santo?

«No, di un uomo onesto con sé e con chi gli era vicino. E soprattutto un irregolare in senso trasversale, cioè anticonformista. Non faceva le cose per finire sui giornali, semmai viveva la quotidianità, privata e artistica, fregandosene delle regole fissate».

Un attore di successo che non manifestava il suo successo?

«Proprio così, il contrario di colui che si vanta. Addirittura, quando conosceva una persona, per prima cosa raccontava una propria gaffe, una figura di m... che gli era capitata in una certa occasione. Un racconto divertente, un aneddoto comico per fare entrare quella nuova conoscenza in rapporto con l’uomo fallibile, non con il divo cinematografico. Si metteva sempre a nudo, un vero fuorilegge».

Anche perché ha generato quattro figli con tre donne: Ricky con l’inglese Pat O’Hara, Thomas con la norvegese Margarete Robsahm, lei, Gianmarco, e Maria Sole, con l’italiana Franca Bettoja...

«E lo ha fatto quando in Italia vigeva un bigottismo assoluto. Però, anche in questo caso, senza mai vantarsi, senza dire quanto sono figo e in controtendenza».

Gestire una compagna, Pat, una ex moglie, Margarete, e una moglie, Franca, più quattro figli non deve essere stato tanto facile...

«Le madri dei suoi figli sono diventate amiche, così noi fratelli. Una famiglia allargata, dove ci si scambiava e ci si scambia tutto, guidata da un uomo che non si atteggiava a patriarca: Ugo era uno spirito libero».

È vero che, durante la relazione con Margarete, acquistò un isolotto norvegese, perché si chiamava...

«Sì! Si chiamava Fon Kul... ed è inutile spiegare come suona questo nome in italiano e il motivo per cui si divertì a comprarlo. Intendiamoci, era un pezzo di terra infilato in un fiordo, non un’isola ai Caraibi».

Insomma, un personaggio goliardico, declinato nei modi più disparati...

«E le sue goliardate, a volte, gli sono costate parecchio. Quella volta che con Raimondo Vianello, nel varietà televisivo Un due tre, fecero la parodia del Presidente Gronchi che cade dalla sedia, nel palco reale, alla prima Scaligera, il programma venne subito dopo cancellato dal palinsesto Rai. E poi lo scherzo sulla rivista Il Male, con il suo finto arresto, accusato di essere a capo delle Brigate Rosse: un gioco che rivendicò come “diritto alla cazzata”... ».

Come nasce la celebre «supercazzola» del film «Amici miei»?

«Non è un’invenzione solo di Ugo, ma del gruppo di attori-amici con Mario Monicelli. Mia madre mi racconta che, mentre preparavano il film, si vedevano la sera e dopo cena, quando erano completamente brilli, decidevano le parole inventate, storpiate proprio dall’ubriacatura. E il vino era quello della Tognazza».

Perché il nome al femminile?

«Perché la tenuta è femminile, azienda agricola è femminile, casa vinicola è femminile, l’etichetta è femminile... quindi ecco la Tognazza a Velletri, una factory dove siamo cresciuti, aperta agli amici considerati dei familiari».

E sarete cresciuti anche sui set.

«Certo, era un modo per recuperare le sue assenze paterne. Siccome era poco presente in casa, ci portava sul suo terreno di gioco, era un modo di condividere le sue emozioni attoriali con i figli e, forse, più che per noi, lo faceva egoisticamente per lui».

Con quale dei suoi colleghi ha stretto una più profonda amicizia, con chi si sentiva più affine?

«La cerchia dei cinque, ovvero Gassman, Manfredi, Sordi, Mastroianni e Tognazzi, rappresentava il monopolio del cinema italiano, che condizionava il mercato. Le sue affinità maggiori, con Vittorio e Marcello. E poi un rapporto particolare, davvero speciale con Luciano Salce, che per noi figli era uno zio».

Tutti voi figli, in un modo o nell’altro, avete seguito le sue orme: consigliati o sconsigliati da lui?

«Ci ha sempre lasciati liberi nelle nostre scelte. Io, per esempio, ho cominciato dietro e non davanti alla macchina da presa. Poi mi sono messo a studiare seriamente il mestiere d’attore e sono ripartito dal teatro. Avevo vent’anni e una volta venne a vedermi recitare all’Argot, una piccola sala romana: 40 posti a sedere e pochi soldi per la messinscena. Lo spettacolo, Crack, raccontava l’universo pugilistico in modo violento: nel primo atto, il palcoscenico diventava una palestra, nel secondo il ring... Al termine dello spettacolo, si alzò in piedi per applaudire: era in visibilio e tornò a rivederlo».

Lei ha mai pensato di scegliere un nome d’arte per evitare paragoni con lui?

«No, non sarebbe servito, perché tanto avrebbero detto: è il figlio di Tognazzi e si è cambiato nome per non far vedere che è raccomandato. Comunque il suo talento e la sua genialità non sono riproducibili».

Finora abbiamo parlato solo dei suoi pregi: un grosso difetto?

«Ne aveva tantissimi, però era il primo che, se ne combinava una, alzava la mano e candidamente ammetteva: ho fatto una cazzata. E non si poteva non fargli un applauso».

Se avesse potuto festeggiare i suoi 100 anni, cosa avrebbe organizzato?

«Non credo avesse nessuna voglia di arrivare a un’età tanto avanzata, già pativa i suoi 68 anni quando è morto, si sentiva vecchio: se la morte non fosse arrivata naturalmente, si sarebbe tolto dalle scatole in altro modo».

Cosa le manca di più di suo padre?

«Tutto, ma penso che la morte non esista, spero e credo in dimensioni differenti, nelle quali ci ritroveremo prima o poi. Mi piace immaginare che sia in tournée con i suoi amici. E per adesso ho riempito l’assenza ugoistica vivendo nella casa-museo di Velletri dedicata a lui... custodisco gelosamente l’unica poesia che mi ha dedicato, dove l’ultima frase dice: “Io sono destinato a fare bimbi adulti, io che non so crescere”».

"Ugo Tognazzi è il capo delle Br": storia di una presa in giro nazionale. Il giornale satirico, "Il Male", titola a tutta pagina "Ugo Tognazzi è il capo delle Br". Uno scherzo su scala nazionale, una trappola ben riuscita. Tommaso Giacomelli il 16 Aprile 2023 su Il Giornale

Tabella dei contenuti

 La notizia scuote l'Italia per ore

 L'opera del Male

 Tognazzi "il brigatista"

È l'aprile del 1979. In Italia tira brutta aria già da tempo, il terrorismo ha fatto sprofondare lo Stivale in un perenne stato di allerta. Sono gli anni di piombo, di attentati violenti, di rappresaglie con scie di sangue che macchiano la stabilità dell'intera nazione. Pochi mesi prima un gruppo di intellettuali, legati all’Autonomia operaia, viene imprigionato con l’accusa di essere i capi delle Brigate Rosse, la massima organizzazione terroristica italiana di estrema sinistra. Il tema è caldo, discusso. Un groviglio di capi di imputazione porta in prigione Toni Negri e i suoi uomini. All'improvviso, una nuova scossa scuote il Paese. In un'anonima mattina primaverile compaiono tra i tavolini dei bar, sulle panchine dei treni, sui sedili dei tram, delle inquietanti copie di quotidiani nazionali che in prima pagina titolano: "Ugo Tognazzi è il capo delle Br"; "Arrestato Ugo Tognazzi". A corredo ci sono delle nitide foto, in cui il celebre attore e regista viene scortato in manette dai Carabinieri.

La notizia scuote l'Italia per ore

Le testate che si fregiano di questo scoop sono di grido: "Paese Sera", "La Stampa" e "Il Giorno". A riportare la sconvolgente scoperta ci sono anche quotidiani regionali, come il "Giornale di Sicilia". Nell'Italia devastata dalla paura e dalla violenza dei gruppi sovversivi si diffonde, rapida, la notizia che Ugo Tognazzi per anni abbia tessuto i fili del terrorismo rosso. Com'è possibile che quella figura così amichevole, gioviale e divertente, entrata nelle case degli italiani con stima e affetto, sia in realtà una mente criminale?

L'opera del Male

E, infatti, la notizia non è vera. Il Paese per qualche ora finisce sotto scacco di un settimanale satirico: "Il Male". Il giornale più sequestrato del periodo riesce ad architettare una burla mediatica dirompente e tracimante, in grado di mettere in crisi le certezze degli italiani. Spinti dal desiderio di instillare il dubbio sull'assoluta autorevolezza della stampa nazionale, quelli de "Il Male" inscenano un finto arresto con la complicità dello stesso Tognazzi, lettore e ammiratore della rivista. L'inventore della "Supercazzola" è stimolato dall'idea di finire in prima pagina, prendendo in giro tutti quanti. Dunque, con la grande professionalità che lo ha sempre contraddistinto, si fa ritrarre con sguardo torvo e bocca obliqua, mentre incredulo si fa ammanettare dall'Arma dentro alla sua villa di Velletri.

Tognazzi "il brigatista"

Quelle copie false furono un trabocchetto astuto, in grado di far cadere nella rete anche gente scafata e del mestiere. Pare che alcuni direttori dei giornali che riportavano la notizia a caratteri cubitali, si infuriarono per non essere stati avvertiti di ciò che era stato posto sulla (finta) prima pagina del loro quotidiano. Il Male raggiunse il suo scopo, grazie a quello scoop riuscì a fare numeri da capogiro, ma lo pagò a caro prezzo. Il direttore responsabile venne denunciato e il numero sequestrato. Lo stesso Ugo Tognazzi ebbe delle ritorsioni, tanto che la Rai lo ostracizzò per anni dai suoi schermi. In ogni caso, quella beffa clamorosa in anni di sangue riuscì a strappare un sorriso.

Ugo Tognazzi, storia dei suoi grandi amori (e della sua famiglia allargata). Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 23 marzo 2023.

L’attore, che nasceva a Cremona il 23 marzo 1922, si è sposato due volte e ha avuto quattro figli: Thomas, Maria Sole, Ricky e Gianmarco

La prima famiglia allargata

«Lui era avanti di vent’anni, la nostra è stata forse la prima famiglia allargata. Eppure, a Natale, voleva che ci riunissimo tutti attorno alla tavola, le sue mogli, noi figli di tre madri diverse. E non era un appuntamento finto, ci tenevamo tutti, stavamo bene insieme in quei Natali». A parlare - in questa intervista pubblicata nel 2022 su Sette - sono i quattro figli di Ugo Tognazzi, mostro sacro del cinema italiano che nasceva a Cremona il 23 marzo 1922: Ricky, il primogenito, figlio di Pat O’Hara; Thomas, figlio di Margrete Robsham e Maria Sole e Gianmarco, nati dall’unione con Franca Bettoia. Quattro figli nati da tre donne diverse.

L’amore con Pat O'Hara

Nei primi anni Cinquanta Tognazzi si innamorò di una ballerina della sua rivista, Pat O'Hara, di origini irlandesi. I due, che convissero per anni senza mai sposarsi, nel 1955 diedero il benvenuto al piccolo Ricky. «Mia madre è stata la mia luce, mi ha guidato sempre - ha detto Ricky Tognazzi nel 2019, ospite di Storie Italiane -. È la persona che mi ha curato, educato, c’è tanto di mia madre dentro di me. Mi ha sostenuto e ha sostenuto tanto mia figlia Sarah, che è cresciuta tantissimo da lei. Le sono infinitamente grato».

Incontro sul set

La relazione con Pat O'Hara finì nel 1961 quando Ugo Tognazzi conobbe Margarete Robsahm, attrice norvegese sua partner ne «Il mantenuto». I due convolarono a nozze nel 1963 e l'anno seguente nacque Thomas.

Tra Italia e Norvegia

Con Margarete Ugo ha vissuto tre anni, facendo la spola tra Italia e Norvegia. Quando si sono lasciati, ha raccontato Ricky in un’intervista del 2022 a Sette, «lui ha uno scatto disperato, prende il bambino con sè e scappa con lui di corsa nei boschi per portarselo via a Roma. Finisce che gli zii di Thomas lo bloccano, lo menano e lo rispediscono in Italia. Senza Thomas ovviamente…».

Dopo il divorzio

«Papà l’ho incontrato per la prima volta quando avevo sette anni, o almeno quello è il primo ricordo che ho - si legge in un’intervista di Thomas Robsahm su www.ugotognazzi.com -. Dopo il divorzio, Margarete, mia madre, si era risposata e aveva avuto una bambina, ma io non ho saputo di avere un padre diverso da quello di mia sorella sino ai sei anni. Credo sia stata mia nonna a dirmelo senza pensarci e quando l’ho saputo ho chiesto a mia madre se era vero. Fu lei che organizzò un incontro, che è avvenuto in Ungheria, in un albergo». A sei mesi di distanza da quell’incontro con suo padre Thomas è venuto in Italia per trascorrere le vacanze estive con lui e la sua nuova famiglia.

Il matrimonio con Franca Bettoja

Ugo Tognazzi si era sposato nel 1972 con l'attrice Franca Bettoja, che aveva diretto nel 1967 nel film «Il fischio al naso». Con Franca l’attore aveva avuto altri due figli: Gianmarco nel 1967 e Maria Sole nel 1971. «Aveva una pazienza e una sensibilità estreme - ha detto di lei Ricky in un’intervista a Sette -. Con lei Ugo ha fatto cose non da gentleman ma lo ha sempre perdonato e accolto facendo in modo che le scivolate “ugoistiche” non compromettessero gli equilibri di una famiglia difficile come la nostra». A proposito del rapporto tra i suoi genitori, Maria Sole ha raccontato nella stessa intervista a Sette: «Avevano un rapporto speciale e personalissimo, loro due. Magari si sono tirati i quadri addosso, ma papà è morto tra le braccia di Franca».

I fratelli Tognazzi

I quattro fratelli Tognazzi - Thomas, Maria Sole, Ricky e Gianmarco - sono sempre stati in ottimi rapporti tra di loro. «Siamo tenuti insieme dal fatto di avere Ugo Tognazzi come padre comune - diceva lo scorso anno Ricky a Dedicato -, ma anche dalla testa e dal cuore di Franca Bettoja, che è riuscita a farci stare uniti e non si è fatta sopraffare dalla gelosia».

Estratto dell’articolo di Massimo Fini per il “Fatto quotidiano” l'8 agosto 2023.

La carriera di Walter Chiari inizia con un’imitazione di Adolf Hitler. Uscito ventenne dalla guerra senz’arte né parte, anzi con una ignominiosa detenzione nel campo prigionieri americano di Coltano per la sua partecipazione al settimanale l’Orizzonte della X Mas, trovandosi per altro in buona compagnia, Dario Fo, Raimondo Vianello, Enrico Maria Salerno, Paolo Dordoni, Enrico Ameri. 

Le aveva tentate tutte per trovare un lavoro (magazziniere all’Isotta Fraschini, radiotecnico, impiegato di banca) ma per una ragione o per l’altra gli era sempre andata buca. Anche in banca fu un fallimento, ma insperatamente fruttuoso. Qui fu chiamato dal capoufficio perché scoperto a fare l’imitazione di Hitler in piedi su una scrivania. L’uomo si sbellicò dalle risa ma gli consigliò di dedicarsi a qualche altro mestiere, preferibilmente artistico.

Walter Chiari era un uomo generosissimo […] così […] si fece coinvolgere da mio padre, che dirigeva il Corriere Lombardo, a dedicare ogni santa mattina di ogni santo Natale ad aiutarlo in certe operazioni benefiche in giro per la città. Forse Walter avrebbe preferito passare quelle mattine con qualcuna delle sue donne (ne ebbe tantissime e bellissime da Ava Gardner a Lucia Bosè, per la Bosè prendeva ogni mattina l’aereo per la Spagna e rientrava appena in tempo per lo spettacolo della sera) ma non sapeva dire di no. […] 

[…] non potendo onorarli tutti […] arrivava sempre con un paio d’ore di ritardo. Un pomeriggio sempre di Natale era stato ingaggiato con altri artisti in un hangar vicino all’aeroporto di Bresso dove erano stati convogliati molti vecchietti […] Fra gli altri c’era anche Ezio Greggio. Greggio si limitò alla modica quantità, disse due parole soprattutto su suoi programmi futuri. Walter arrivò con il suo consueto ritardo di due ore ma fece una performance come fosse stato al Lirico.

Mentre lo aspettavamo chiacchieravo con Carlo Campanini, la sua storica spalla. E Campanini si tirò giù letteralmente le braghe e mi fece vedere il sedere pieno di pizzicotti perché Chiari improvvisava e lui doveva tenere la parte. Improvvisava anche nella vita.

Stava girando un film australiano, Sono strana gente, telefonò ad Alida Chelli e le disse: “Sono vestito da frate davanti a una fontana, se accetti di sposarmi mi ci butto dentro”. Due giorni dopo erano marito e moglie. 

Fossero tre mesi o tre anni Chiari si innamorava di tutte con la stessa intensità. È questa la caratteristica […] del vero seduttore. Un giorno ero a chiacchiera con Antonio Ricci, l’inventore di Striscia la Notizia, e gli chiesi: “secondo te Greggio è un attore?”. “Non lo so, è funzionale al mio programma”. “Beh io preferisco Walter Chiari”. “Ah, tu sei rimasto fermo alla battuta”. E di battute […] Walter Chiari è pieno fino all’inverosimile. […] Riusciva a tenere l’attenzione del pubblico per una decina di minuti buoni giocando sulla parola “missipipì” (Mississippi). […]

Credo che Walter fosse religioso anche se di questo non abbiamo mai parlato. Una volta si presentò da padre Pio che lo accolse con un “vade retro satana” perché sapeva che Chiari era un cocainomane. Che non è esattamente l’atteggiamento misericordioso che ci si aspetterebbe da un frate diventato famoso per stimmate molto dubbie. Lui ci rimase malissimo.

Dopo la guerra non fece mai politica ma qualcosa doveva essergli rimasto sul groppo. Nello spettacolo teatrale Chiari di luna tenuto a Genova nel 1975, disse a proposito del duce appeso per i piedi a piazzale Loreto: “Dalle tasche di Mussolini non cadde nemmeno una monetina. Se i nuovi reggitori d’Italia avessero subito la stessa sorte, chissà cosa uscirebbe dalle tasche di lorsignori”. Lo scandalo fu enorme e Walter Chiari fu estromesso di fatto dalla Rai. 

Da qui inizia la sua discesa, costretto a lavorare per tv minori: Tele Alto Milanese, Antenna 3 Lombardia, Tele Monte Penice. Come una Wanna Marchi qualsiasi. Famosi sono il suo soliloquio sul balbuziente che vuole ordinare una granita e il personaggio di Sarchiapone. Era irrefrenabile, quando cominciava a parlare non la finiva più […] Anche di persona aveva questa abitudine che credo fosse dovuta alla sua addiction alla cocaina. Poi si fermava di colpo e questo l’ho visto in tanti cocainomani e alcolisti. In Strehler, per esempio, che sulla piazzetta di Portofino tenne banco per ore e poi si sciolse in un mutismo assoluto. 

[…] Walter Chiari era proprio simpatico e la simpatia e il suo fisico atletico, un vero fusto (vinse nel 1939 i campionati di pugilato lombardi della categoria pesi piuma, fu un buon nuotatore, vinse i campionati organizzati dalla Gil nei 100 metri stile libero, e un buon tennista e giocatore di bocce) furono anch’esse alla base della sua fortuna. […] Ai suoi funerali non c’erano vip ma tremila milanesi che non l’avevano dimenticato. […]

Estratto dell'articolo di Valerio Capelli per corriere.it domenica 9 luglio 2023.

Simone Annicchiarico, 52 anni, musicista e presentatore in tv. Una volta ha detto che tra voi due il vero bambino era suo padre, Walter Chiari. «Conservò intatto il bambino che era in lui. Carlo Vanzina mi diceva che quando da casa di suo padre Steno andava via Walter, lui si metteva a piangere. L’avresti voluto come amico, padre, fratello». 

(...)

E alla fine degli spettacoli, suo padre...

«Papà diceva al pubblico, un saluto alla prima fila e alla decima. Lui nella Decima Mas durante il fascismo aveva militato davvero. Dopo, non sopportò l’egemonia culturale della sinistra. Ma lo ricordo quando mi diceva, Simone, non hai capito che io sono più a sinistra di tutti, era solidale, siamo tutti uguali, diceva».

L’egemonia culturale della sinistra la pagò?

«Non in carriera, Ugo Gregoretti e alcuni Teatri Stabili di sinistra si innamorarono di mio padre. Ma di fatto l’intellighenzia aveva un complesso d’inferiorità e godeva nel vedere certi idoli cadere. Papà i libri li divorava, si era fabbricato da solo una cultura. In un certo senso l’egemonia comunista la pagò con la galera». 

Non furono proprio loro a incarcerarlo. Quando lei nacque, suo padre era a Regina Coeli per droga.

«Io ‘sta cosa l’ho scoperta a casa della zia materna, Marilena, a dieci anni, sono stati bravissimi in famiglia a tenermela nascosta. Leggevo giornali tipo Novella 2000 e lessi un titolone sul suo passato in carcere. Mia zia sbiancò».

E lei cosa pensò?

«Mi sono detto, figurati se uno così non finiva in galera. Ne parlai con papà, ma non lo riteneva rilevante. Io sapevo dei suoi vizi». 

Uso e spaccio erano la stessa cosa.

«Fu Marisa Maresca, la soubrette, che lo prese come capocomico per portarselo a letto, a introdurlo alla cocaina. A fine spettacolo papà si allontanava con la ballerina di turno, la cocaina era legata al sesso, era timido e lo sbloccava, era il suo viagra».

Mise nei guai Lelio Luttazzi, finì in manette, un galantuomo che non sparò mai a zero su suo padre.

«Però poi non si videro più. Erano stati come fratelli. Se potessi tornare indietro, darei la mia vita al posto di quella di Lelio, che finì in carcere da innocente». 

Walter Chiari era un grande seduttore.

«No, era bello, atletico. E pudico. Erano le donne che gli andavano dietro. Ho la lettera che gli scrisse Ava Gardner, “Sono a letto sola pensandoti e desiderando di essere a letto con te”; ho una foto molto bella di lui che esce da un locale di via Veneto con Anita Ekberg, e poi Delia Scala che era bellissima, con Anna Magnani fu una storia breve e privata, Elsa Martinelli. Mi diceva, non sai quali volgarità possano uscire fuori da certe donne che sembrano principesse. E Mina, che in una lettera si finse bambina, faceva apposta errori di ortografia, scriveva di aver perso un palloncino. Per me, mamma e papà che cambiavano partner era normale». 

Sua madre, l’attrice Alida Chelli, come la ricorda?

«Doveva fare la figlia, non la mamma. Piena di problemi, paure. Era nevrotica, urlava invece di parlare. Gli amici avevano un’altra idea, dicevano che rideva, che era simpatica. Tony Renis girò il mondo con i miei genitori e disse che quando litigavano mamma metteva in difficoltà papà, era lui a perdere le staffe».

Quanti anni aveva quando i suoi si lasciarono?

«Tre. Si mise con Rocky Agusta, quelli degli elicotteri e delle moto, ricchissimi, mentre papà era figlio di un brigadiere pugliese e di una maestra di scuola che per sopravvivere lasciarono Andria e si trasferirono al Nord. Non ho un buon ricordo di Rocky. D’estate ero l’unico bambino su uno yacht, solo come un cane. La prima adolescenza l’ho vissuta un anno in America, un altro anno in Australia... C’erano le Brigate Rosse, il rischio di venire rapiti era alto. Un anno intero lo passai a Cortina, quando i miei riprovarono a stare insieme».

A un certo punto fu l’attore più pagato d’Italia.

«Fece 109 film. Il più bello è Il giovedì di Dino Risi, dov’era un padre scapestrato. Ma il ruolo che gli riusciva meglio era essere Walter Chiari. Metteva i premi per fermare le porte, usava il Nastro d’argento per schiacciare le noci. Erano super divi, lui, Sordi, Tognazzi, Gassman, mica gli attori di oggi. Dieci anni fa nella fiction su di lui ho interpretato in un cameo un suo fan. Papà era soprattutto un animale da palcoscenico, a lui venne l’idea di avere in tv il pubblico nei varietà, disse ai macchinisti di portare i parenti, prima c’erano solo i tecnici». 

Chi frequentavate?

«Ricordo una vacanza in barca all’Isola d’Elba con Andreotti, al Sestriere da Gianni Agnelli, avevo sei anni, feci una battuta del cavolo sul suo cognome, lui sorrise e se ne andò, papà si arrabbiò con me. Bettino Craxi veniva a casa nostra a Casal Palocco da solo, su un’utilitaria, senza scorta, ma aveva la pistola. Un giorno tolse i proiettili e me la diede, anche lì papà si arrabbiò moltissimo. Poi aveva amici gangster, tutta gente simpatica, non avresti mai pensato nulla di male. Ricordo in Costarica, dove feci l’ultimo viaggio con papà, nel 1991 poco prima che morisse d’infarto, Marietto, uno che faceva rapine a mano armata in Lombardia». 

Lei abita nello stesso palazzo in cui abitava Ennio Morricone. Il figlio Marco ci ha raccontato di come lei lo aiutò quando Ennio fu ricoverato.

«C’era l’ambulanza, era caduto un enorme pino marittimo, fece un boato che pensai al crollo del palazzo di fronte. Mi affacciai e vidi un uomo in barella: Ennio. Il pino impedì a Marco di prendere l’auto e gli buttai le chiavi della mia dalla finestra».

Come descriverebbe suo padre a un ragazzo di oggi?

«Più che parlargliene, gli farei vedere lo sketch quando si fingeva balbuziente. Aveva una mimica e una gestualità infantili». 

Era bugiardo?

«Mamma mia, era il re dei bugiardi. Gli avevo chiesto uno dei primi videogame, di ritorno da un viaggio dall’America. Lui se n’era dimenticato e mi inventò che il regalo si era incendiato su un’auto che andava a gas. Improvvisava con una fantasia pazzesca».

Suo padre sulla sua tomba fece scrivere, «Amici non piangete: è tutto sonno sprecato».

«Me l’hanno riferito ma io non ci sono mai andato, era stato un patto tra noi. Era fatto così. Quando morì sua madre, che aveva 84 ed era zoppa, lo chiamai costernato, papà com’è successo? Mi disse che si era iscritta a una gara di motocross a Barletta, all’ultima curva era caduta. Morta sul colpo senza soffrire. Tutta una balla. Scoppiai a ridere, quel giorno mi tolse la paura della morte».

Negli ultimi anni sembrò venir meno l’iperattivismo indomabile, anche il famoso ciuffo sembrava sfibrato.

«No, non è così, l’unica rottura di scatole fu Finale di partita di Beckett a teatro con Renato Rascel. Papà ha vissuto poco, 67 anni».

L’ultima volta che lo sentì?

«Il giorno prima di morire. Mi disse, sono andato dal cardiologo e mi ha detto che posso giocare a tennis per altri dieci anni».

Il ricordo. Walter Chiari e quell’ombra nera: non discutetelo, amatelo. Era solito salutare il suo pubblico dicendo: “Un saluto alla prima fi la e alla decima”. È vero. Ma non era solo un nostalgico. È stato un attore geniale. Fulvio Abbate su L'Unità il 6 Luglio 2023

Saranno stati i primi anni novanta, quando, su questo giornale, venne richiesto a un drappello di giovani scrittori di raccontare sulla pagina un proprio “mito”. Accadde che alcuni scelsero Che Guevara, meglio, litigarono per averlo assegnato in esclusiva, altri, metti, di Berlinguer, altri ancora Cesare Pavese o forse Elsa Morante. Quanto a me, volli Walter Chiari, così da dichiarare l’ammirazione per il suo talento inarrivabile, cominciando dall’immensa interpretazione di un padre fallito e insieme struggente ne “Il giovedì” di Dino Risi.

Nei giorni scorsi, sul Corriere della Sera, Simone Annicchiarico, amatissimo figlio di Walter, ha raccontato suo papà. Restituendo, fra molto altro, alcuni semisconosciuti umani dettagli della persona. Chiari, si sappia, si rivolgeva al pubblico teatrale con queste parole: “Un saluto alla prima fila e alla decima. Lui nella Decima Mas aveva combattuto davvero. Dopo, non sopportò l’egemonia della sinistra”. È noto che il nome e la memoria stessi dell’attore Walter Chiari da sempre ritornano nella narrazione revisionistica, venata di vittimismo cinto proprio del gladio che gli uomini di Salò portavano sul bavero delle uniformi. Parole della nostra destra, pronta a denunciare il “monopolio” della cultura e dello stesso spettacolo, sempre secondo quest’ultima, “in pugno alla sinistra”, anzi, “proprio ai comunisti”.

A Chiari, per cominciare, si attribuisce una frase, leggendariamente assolutoria, sulla sorte di Mussolini, destinata a suggerire la presunta specchiata onestà dell’economato del regime: “Quando fu appeso per i piedi a piazzale Loreto, dalle tasche non cadde nemmeno una monetina. Se i nuovi reggitori d’Italia avessero subito la stessa sorte, chissà cosa uscirebbe dalle tasche di lorsignori!”. Pronunciata a Genova, nel 1975, durante lo spettacolo “Chiari di luna”. Ora, che Walter Michele Annicchiarico (1924-1991) abbia vestito l’uniforme della Decima Mas e ancora, secondo testimonianze di commilitoni, si sarebbe perfino aggregato alla Werhmacht, partecipando all’offensiva nelle Ardenne, sembrerebbe un dato acquisito.

Nel dispositivo apologetico della destra che periodicamente sceglie di arruolarlo come icona, appare ancora quest’altra considerazione onnicomprensiva: “…lassù a Salò c’erano pure Dario Fo, che poi l’ha taciuto, Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello”. E ancora, aggiungo, il mio caro amico Riccardo Garrone, inquadrato nel battaglione nuotatori-paracadutisti sempre della Decima. Che Walter Chiari sia stato, grazie agli enzimi di un immaginario inesauribile, assai più di un immenso affabulatore sia comico sia drammatico, resta un dato, ma qui, forse, occorrerà altrettanto riflettere sul palmarès postumo che la destra dello Stivale mussoliniano ama periodicamente, dopo averlo lucidato, sollevare come reliquia spezzata, vilipesa, suggerendo così “l’onore” di chi “ritenne che il dovere stesse da quell’altra parte, quella sbagliata, dalla parte della Patria tradita…”.

Tempo fa, per esempio, e ne scrissi: la memoria di Chiari era stata ficcata dentro un obice polemico dal mio amico Luigi Mascheroni sul “Giornale”, muovendo dall’invenzione del leggendario Sarchiapone. Restituito altrettanto da Tatti Sanguinetti, cui si deve un antologia televisiva, “Storia di un altro italiano”, che di Walter riassumeva passi, ascesa e caduta, compreso il filmato che lo mostra mentre accoglie Laurel e Hardy, poveri, invecchiati, visi e gesti toccati dal tempo, nella loro tournée terminale, davanti ai binari della stazione Termini di Roma il 25 luglio 1950, con la folla che porta il Magro in trionfo sulle spalle e perfino le guardie di Ps che non trattengono un riso d’ammirazione infantile: “Che peccato, averli visti…”, è il requiem di Chiari per loro. Mascheroni, se non l’ho già detto, è giornalista intelligente e dotato di acume, ciononostante perfino lui non si sottraeva alla vulgata “nera” del caso Chiari, retorica del risarcimento post-fascista, dove perfino il Sarchiapone, metafisica da bestiario zoologico comico-fantastica, alla fine sembrava vestire anch’esso la divisa ora delle Brigate Nere ora della Guardia Nazionale Repubblicana, a seconda del turno-repliche.

Infine arruolato anche con le parole di Sanguinetti: “Walter Chiari in quegli anni doveva venire fuori dal ghetto dove certa intellighenzia paleostalinista italiana l’aveva confinato, in quanto marò della Decima Mas – tutti i comici sopra la Gotica erano fascisti, e inoltre capiva che doveva contrastare il successo montante di Alberto Sordi, sfruttando la moda della americanità nella società italiana: Un americano a Roma è del 1954… E così tirò fuori dal suo immenso talento il Sarchiapone.  O meglio: il Sarchiapone americano…”.

Sembra quasi che in cima al rifornitore “Esso” di piazzale Loreto, accanto a Mussolini, Petacci, Starace, Pavolini e gli altri, abbia trovato posto idealmente anche il cadavere, non meno a testa in giù, dell’inerme Walter. Sembra così che egli non potrà mai farci dono dei suoi migliori istanti d’attore, né di “Bellissima” di Visconti accanto a Anna Magnani, né del personaggio struggente che troviamo ne “La rimpatriata” di Damiano Damiani e neppure de “Il giovedì”, dove Walter interpreta, si è detto, un padre fallito in gita in città con il proprio bambino; inarrivabile per struggimento la scena finale dove fa scoppiare le castagnole prese al figlio lungo la scalinata di via Ronciglione a Roma. Sempre Walter raccontava di un incontro con Luisa Ferida al Cinevillaggio di Venezia, pare che lei gli abbia suggerito di farsi incidere chirurgicamente gli angoli delle palpebre, conquistando così un taglio d’occhi perfetto.

Nei racconti ormai lontani di mio zio Guido, giovane amante di una ballerina della compagnia di Marisa Maresca, la stessa degli esordi di Chiari – è il 1945 – c’è Walter che inguaia quest’ultima nei giorni delle epurazioni, eppure quando raccontai questo ricordo personale proprio su “l’Unità”, subito giunse la lettera di un ex partigiano che, da Rapallo, narrava Chiari per nulla fascista, anzi, amico di un comandante partigiano “garibaldino” della piazza di Milano, l’anziano scrivente escludeva del tutto che lo fosse mai stato. Su tutto, tornando al talento, resta la sua generosità umana e d’attore.

Qualche anno prima di andarsene, in scena insieme a Renato Rascel nel claustrofobico “Finale di partita” di Samuel Beckett, al termine d’ogni replica sembra che Chiari intrattenesse il pubblico con fuori programma, riaprisse il sipario per “risarcirlo” con mille barzellette dopo l’incubo vissuto in nome del teatro d’autore dell’Assurdo. Chiari già reduce dalla cella di Regina Coeli, accusato di “consumo e spaccio di cocaina”.

Toccante il racconto che Mario Dondero, maestro della fotografia, mi ha donato di Walter Chiari: sono i giorni successivi al 25 aprile 1945, Mario, diciassettenne, veste ancora l’abito da partigiano della brigata – la “Cesare Battisti” della Val d’Ossola, fazzoletto rosso al collo – proprio in quell’istante la prima immagine che racconta ai suoi occhi la liberazione di Milano dai nazi-fascisti, il tempo di pace ritrovato, mostra un ragazzo magro e sorridente che, sotto un gran pavese di lampioncini colorati, in piedi su un palchetto improvvisato, ai bordi della piscina di via Pier Lombardo, canta un motivo appena portato al successo da Natalino Otto, canzone di quei giorni, “Solo me ne vo per la città”, ed è proprio lui, Walter Chiari. La grazia giocosa e felice della pace riconquistata sembra ricominciare in quell’attimo, il fascismo è ormai sconfitto, la morte e ogni orrore appaiono cancellati per sempre. Ora e sempre Walter!

Fulvio Abbate 6 Luglio 2023

Dagospia martedì 5 dicembre 2023. “Amarcord story. Cronache e ricordi del capolavoro felliniano" di Nicola Bassano, storico del cinema e direttore del Fellini Museum per quasi un decennio, in libreria dal 6 dicembre. 

Il libro, che esce a cinquant’anni dall’uscita del film Premio Oscar “Amarcord” (18 dicembre 1973), mette a nudo l’anima del Paese negli anni Settanta, con i suoi difetti peggiori, a partire dal provincialismo e dal fascismo, fino al patriarcato e all’infantilismo maschile. 

È curioso quindi che, proprio a partire da questo film, il Maestro sia stato per anni bersaglio di una campagna denigratoria che lo ha visto accusato di misoginia e antifemminismo, a causa – si legge nel libro – di una «trasformazione consapevole delle donne in simbolo sessuale», in «un’operazione volta a deformarle e ingigantirle in modo da essere funzionali alla sessualità maschile».  Addirittura, per il giornale «effe», «Fellini è protagonista e vincitore della rubrica Un’antifemminista al mese». 

Aggiungo, infine, che nel volume sono presenti alcuni bozzetti tratti dal “Libro dei sogni” di Fellini e diverse foto scattate sul set, pubblicate per gentile concessione dell’Archivio Fotografico della Biblioteca Gambalunga di Rimini.

Estratti dal libro "Amarcord story. Cronache e ricordi del capolavoro felliniano" di Nicola Bassano 

(...) Le citazioni prese dal libro/sceneggiatura, uscito per Rizzoli a firma Fellini-Guerra:

Pag. 13: «…volpina, una ragazza con occhi bianchi fosforescenti, come i felini, divorata dalla sua femminilità,

selvatica, gattesca».

Pag. 15: «… Evidentemente qualcuno le ha toccato il sedere» (Donna di nome Gradisca).

Pag. 38: «Se voglio ti metto incinta con uno sguardo»

(Sempre a proposito di Gradisca). Ibidem: «È quella di

Zurigo. Mi dice: “ Vieni su subito che non ne posso più.

Stop”» (Telegramma di una straniera, riferito dal destinatario romagnolo).

Pag. 39: «La gente si assiepa per lasciar passare la carrozza, carica delle puttane della nuova quindicina».

Pag. 44: «Cos’è il mio culo? La pila dell’acqua santa?»

(Detto dalla «donna di servizio» – locuzione degli sceneggiatori – al nonno che «tocca e ritocca»).

Pag. 68: «Gradisca si avvicina al letto… Si sfila le calze… poi le mutande… Una volta nuda si distende sul letto, si tocca i capelli per sistemarli sul cuscino e con voce emozionata si rivolge al principe dicendo: “ Signor Principe, gradisca”» (Prostituta al servizio di un Savoia,anni trenta). 

Pag. 70: «Basti dire che in una sola notte sono arrivato a fare sette prestazioni, che è un record in Europa!» (Detta

da un maschio felliniano).

Pag. 71: «Quella è il mio amore dell’anno scorso. Cecoslovacca». Ibidem: «E questo è un amore, puro, puro. Mi ha concesso un’intimità posteriore. E io ne ho approfittato con

delicatezza e tatto per non procurarle dolore. Infatti ho sempre con me questo tubetto di vasellina. Poco prima di spogliarmi nudo mi metto un po’ di pomata dietro l’orecchio. Se vedo che la signora è così innamorata da volermi concedere la prova fondamentale, allora fingo per un attimo di grattarmi l’orecchio, le tocco col pollice unto di pomata la parte in questione e procedo con sentimento e determinazione». 

Pag. 78: «…allunga una mano e la posa sulla cosciona della donna, stretta nell’elastico come una mortadella».

Pag. 79: «Ginger Rogers – il culo della Gradisca – Le tette della tabaccaia» (Detto da due adolescenti che si stanno

masturbando).

Pag. 82: «A questo punto la tabaccaia affonda una mano nella scollatura della camicetta e tira fuori dal reggipetto un seno, enorme, nudo, posandolo sulla faccia di Bobo. E mormora freneticamente: “Succhia, succhia”. […] Ma Bobo non riesce a respirare con tutta quella carne in faccia». 

Dopo aver esposto alcuni esempi del presunto armamentario antifemminista utilizzato da Fellini in Amarcord la Cambria lancia la sua invettiva; per il regista riminese non c’è assoluzione, la condanna oramai è stata pronunciata, non gli resta che rifugiarsi nei propri ricordi come farà il Marcello Snàporaz de La città delle donne: 

Nel momento in cui la critica cinematografica italiana (magari internazionale) celebra sia pure più stancamente che per altri film il rito dell’omaggio a Fellini, la pubblicazione, netta e cruda, di queste poche battute della sceneggiatura di Amarcord non pretende altro se non di identificare un antifemminista dei più subdoli, morbidi, e, perché no?, anche gatteschi (l’aggettivo vale pure per i maschi, signor Fellini). Che poi antifemminista significa antidonna: nessuno, infatti, che ami le donne e riesca a percepirle, quindi, nella complessità del loro «paesaggio» umano, potrebbe ridurle ai tre melanconici stereotipi felliniani: l’opulenta toccata, frugata, pizzicata (o, se magra – ipotesi rarissima – furibondamente vorace): la madre-moglie, vittima dolente, la fanciulla «pura», cioè per il maschio felliniano – da deflorare con tutti i sacramenti (matrimoniali).

Che nel 1973, l’arte cinematografica italiana – e sia pure, nel caso, ormai intollerabilmente romagnola – s’impaludi ancora tra i quattro stereotipi della madre, della moglie, della fidanzata e della puttana, ci pare un segno di arretratezza culturale cui, secondo noi, non corrisponde nemmeno più tutta la realtà del paese. 

Senza voler fare qui del patriottismo femminile, vogliamo dire al signor Fellini che le donne in Italia (ed anche in Romagna), sia pur con fatica, con patimento, ma anche con un’allegria per lui – e ce ne doliamo – inconoscibile, stanno buttando al fuoco le quattro morte spoglie della mmfp. In quanto a Federico Fellini regista (artista) la coerenza del suo discorso anti-donna ci appare impeccabile: basti segnalare qui che, in 8 ½ – il capolavoro – le donne oltre i venticinque anni vengono soavemente (perché il maschio felliniano è soave, come il suo autore) spedite al piano di sopra. Maschio ormai avanzato negli anni, egli dovrebbe incominciare a preoccuparsi del suo proprio piano superiore. Né gli può valere di riscatto il personaggio di Gelsomina: la donna non è un clown, ma – semplicissima e tuttavia irricevibile verità – la donna è una persona.

La reazione del regista è incredula e risentita:

Io antifemminista? Ma non è possibile. Se c’è uno che ama le donne, e nei suoi film ama dar rilievo proprio ai personaggi femminili, questo sono io. Ci deve essere un errore. […] io sono profondamente emozionato di fronte a questo nuovo sentimento – risentimento da cui la donna si sente abitata. Seguo con solidarietà i segni del suo risveglio dalla soggezione, la timidezza, in cui per tanto tempo è rimasta prigioniera

(…)

Estratto dell’articolo di Maria Luisa Agnese per “Sette - Corriere della Sera” lunedì 4 dicembre 2023.

Il ragazzo che avrebbe rivoluzionato la musica aveva fatto la sua lunga gavetta nei sobborghi delle città americane: Baltimora, Miami, San Diego, Lancaster, coltivando la passione per la cultura underground e per ogni tipo di sonorità. Da randagio che era riuscito a fatica a liberarsi di una famiglia supercattolica di italica migrazione (papà Francis, severo e antagonista, era nato col nome di Francesco a Partinico in Sicilia) mangiava perlopiù noccioline per riuscire a mantenersi, e viveva in uno studio di registrazione per immergersi tutto il giorno e anche la notte nei suoi suoni e nelle sue sperimentazioni.

Quando nel 1966, dopo tante peregrinazioni reali e mentali, il talentuoso Frank Zappa, autodidatta musicale e sperimentatore sociale, pubblica Freak out! con il suo gruppo Mothers of Invention, il mondo della musica si ferma in ascolto. Un disco sfidante, definito già ai tempi il primo concept album, che mischiava ogni genere di strumenti e di musica, dal blues al rock, al jazz, alla classica alla contemporanea. 

Fondato su ispirazioni colte, da Edgard Varèse a Igor Stravinskij a Stockhausen Zappa padroneggiava con sicurezza il mix alto basso della scena musicale. Anche nei testi fortemente sarcastici cambiava le regole e i codici e, a cominciare dal titolo (dare di matto ma anche spaventare), prendeva di petto l’America dominante con le sue televisioni, e la sua ignoranza. Who are the Brain Police? si chiede Zappa in una canzone, con il verso «La polizia del cervello sta arrivando. Attento, ho detto attento, scendi» ripetuto ossessivamente. 

[…]

Era anche un intellettuale e un profeta della controcultura, ma Zappa, che sicuramente voleva il successo, lo pretendeva alle sue condizioni e quando Kurt Loder della rivista Rolling Stones gli ha chiesto se lui con il gruppo Le Madri fossero diventati emblema della scena freak di Los Angeles, Zappa ha risposto: «È stato un fenomeno molto breve, in realtà. Perché appena è arrivato sui giornali, è morto. È stato un successo antropologico molto fresco per un anno e poco più, fino a quando è arrivato su Time magazine». 

Ma Paul McCartney si inchina e dice che non ci sarebbe stato Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band senza quell’album. Intanto Frank pubblica Absolutely free, con Brown Shoes Don’t Make It, che venne descritta come «l’intera musica compressa in soli 8 minuti». E poi ancora Uncle Meat del 1969 dove la sua ironia torna a casa e canta in italiano Tengo ’na minchia tanta.

[…] il direttore d’orchestra Pierre Boulez lo incorona come talento assoluto del Novecento: «Come musicista Zappa era una figura eccezionale perché apparteneva a due mondi: quello della musica rock e quello della musica contemporanea». E tutto ciò, gran paradosso, ottenuto senza farsi contaminare dalla dominatrice del periodo, la droga: disgustato dopo una fuggevole fumata di erba, la proibiva anche ai suoi musicisti. 

[…] in nome della libertà totale, quella sancita dai padri costituenti, incrocia le lame addirittura con Tipper Gore, la moglie del futuro vicepresidente Al, che per difendere i bambini dalla pornografia musicale aveva lanciato nel 1985 un’Associazione (Parents Music Resource Center, Pmrc) per controllare i testi dei dischi in uscita.

Lui va a testimoniare in un’audizione al Senato Usa, un evento mediatico che dura 5 ore in cui Zappa tra l’altro paragona l’Associazione a chi «si propone di eliminare la forfora tramite la decapitazione».

Chiude presto la sua vita: a 52 anni, il 4 dicembre 1993, per un tumore alla prostata. Peccato, perché poco prima, sempre più arrabbiato con il suo Paese, Zappa si era candidato Presidente con lo slogan «Potrei mai far peggio di Ronald Reagan?». Chissà che America sarebbe stata se, per un ghiribizzo della storia, il beffardo turboanarchico Zappa ce l’avesse davvero fatta?

River Phoenix, 30 anni fa la tragica morte: l’infanzia nella setta, il successo con «Stand by Me», le ultime ore, 7 segreti. Storia di Arianna Ascione  su Il Corriere della Sera martedì 31 ottobre 2023.

«Stand by Me - Ricordo di un'estate» 8852 Sunset Boulevard, West Hollywood. Il 31 ottobre 1993, sul marciapiede davanti al Viper Room (locale notturno di culto, ritrovo di molte star di Hollywood), moriva a soli 23 anni uno degli attori più promettenti della sua generazione: River Phoenix. La sua scomparsa improvvisa e tragica sconvolse profondamente l'opinione pubblica. Molti avevano ancora impressa nella memoria l’immagine di lui ragazzino, nei panni di Chris Chambers in «Stand by Me - Ricordo di un'estate» (1986) di Rob Reiner, film tratto dal racconto «Il corpo» contenuto nella raccolta di Stephen King «Stagioni diverse».L’infanzia nella settaIn precedenza Phoenix aveva recitato in alcune serie e pellicole minori, spesso accanto ai suoi fratelli e sorelle. Nato a Madras - in Oregon - il 23 agosto del 1970 River Jude Bottom era il primogenito dei cinque figli di John Lee Bottom e di Arlyn Sharon Dunetz. Il nome River gli venne dato in omaggio al «fiume della vita» di cui Hermann Hesse parla nel suo romanzo «Siddharta», mentre il suo secondo nome, Jude, deriva dalla canzone «Hey Jude» dei Beatles. Nel 1973 i genitori dell’attore, che nel frattempo avevano avuto un’altra figlia nata in Texas (Rain), si unirono alla setta religiosa dei Bambini di Dio e iniziarono a viaggiare per l'America Latina, come missionari. Per questo motivo gli altri figli della coppia Joaquin (l’attore premio Oscar) e Liberty nacquero rispettivamente in Porto Rico e in Venezuela. In aperto disaccordo con il leader spirituale della setta David Berg, nel 1977 John e Arlyn decisero di recidere ogni tipo di legame con il gruppo e nel 1978 la famiglia fece ritorno negli Stati Uniti (in Florida, dove nacque l’ultimogenita Summer). Come simbolo del nuovo inizio nel 1979 il cognome originario, Bottom, fu cambiato in Phoenix, in riferimento alla figura mitologica dell'araba fenice che risorge sempre dalle proprie ceneri.I ricordi di Harrison Ford e Keanu ReevesPer River Phoenix Harrison Ford fu come un padre. Ha raccontato una volta il volto di Indiana Jones: «Ha interpretato mio figlio una volta (in Mosquito Coast, film del 1986 ndr.) e durante le riprese mi sono affezionato moltissimo a questo straordinario ragazzo, ero orgoglioso di vederlo crescere e diventare un uomo di tale talento, integrità e compassione. Mancherà profondamente a tutti noi, a me manca come un figlio». È stato proprio lui a volerlo in «Indiana Jones e l'ultima crociata» (1989) di Steven Spielberg, pellicola in cui River interpretò il giovane archeologo. In vita Phoenix fu anche molto amico di Keanu Reeves, con cui recitò nella commedia di Lawrence Kasda «Ti amerò... fino ad ammazzarti» (1990) e nel cult indipendente «Belli e dannati» (1991) di Gus Van Sant (per la sua interpretazione River fu premiato con la Coppa Volpi per il miglior attore alla Mostra del cinema di Venezia). «Non riesco a parlare di lui al passato - ha detto Reeves in un’intervista nel 2021 -. Era una persona speciale, unica, creativa e piena di talento. Era oscuro, ma anche divertente e pieno di luce. Mi ha ispirato molto e mi manca».La lotta contro le dipendenzeRiver Phoenix ha sempre nascosto le sue dipendenze - note agli addetti ai lavori - per evitare che gli rovinassero la carriera. Ha iniziato a fare uso di alcool giovanissimo, mentre il consumo di droga (cocaina, eroina, GBH ma anche allucinogeni) si fece più frequente nei primi anni Novanta. Spinto dai suoi agenti prese anche parte ad alcune sedute degli Alcolisti Anonimi, ma il tentativo di rimanere sobrio fallì.Le ultime oreIl 30 ottobre 1993 l’attore, tornato a Los Angeles dallo Utah per trascorrere un breve periodo di riposo prima di completare le ultime tre settimane di riprese del film di George Sluizer «Dark Blood», raggiunse la sua fidanzata dell’epoca Samantha Mathis, l'amico Dick Rude, sua sorella Rain e suo fratello Joaquin nella suite numero 328 dell’Hotel Nikko, a West Hollywood. Prima di andare al Viper Room, dove River avrebbe dovuto suonare insieme alla band P (composta da Flea e John Frusciante dei Red Hot Chili Peppers, Gibby Haynes dei Butthole Surfers, Al Jourgensen dei Ministry e Johnny Depp), il gruppo iniziò a fare largo uso di droghe e alcool.Le cause della morteUna volta al locale il party continuò. Molti dei presenti però testimoniarono che l'attore si stava comportando in modo molto strano. Bob Forrest, cantante dei Thelonious Monster e amico di Phoenix, ha raccontato nel suo libro di memorie «Running With Monsters» che River era pallido e madido di sudore. L’attore, che aveva già consumato un grosso quantitativo di droga prima di arrivare al Viper Room, cominciò a sentirsi male. Tornò al suo tavolo, mentre Flea dei Red Hot Chili Peppers e Johnny Depp si stavano esibendo, e lì perse i sensi. Dopo essersi ripreso chiese a Samantha Mathis e a suo fratello Joaquin di essere portato fuori dal locale per prendere un po’ d’aria. Una volta all’esterno River collassò sul marciapiede, vittima della prima delle cinque crisi epilettiche che lo colpirono. Joaquin chiamò il 911, ma quando l’ambulanza arrivò l’attore era già deceduto. Inutile la corsa in ospedale e i tentativi di rianimazione: River Phoenix fu dichiarato morto per insufficienza cardiaca. L’autopsia, effettuata sul corpo nei giorni successivi, rivelò un’overdose da speedball (un mix di eroina e cocaina). Furono trovate anche tracce di valium, efedrina e di un farmaco anti-influenzale per il quale non era necessaria la ricetta medica.I progetti mancatiNel pomeriggio del 31 ottobre River Phoenix aveva un appuntamento con un regista da lui molto amato, Terry Gilliam, che rimase ad attenderlo per ore prima di essere informato della tragedia. A seguito della morte dell’attore, per il trauma e per l’atteggiamento invadente dei media, Joaquin Phoenix si allontanò da Hollywood per diversi anni. La scomparsa prematura di River non gli permise di interpretare diversi ruoli per i quali era già stato scritturato: il giornalista Daniel Molloy in «Intervista col vampiro» di Neil Jordan (1994), poi andato a Christian Slater (che donò il suo cachet a due organizzazioni benefiche supportate da Phoenix), Arthur Rimbaud in «Poeti dall'inferno» (1995) e Jim Carroll in «Ritorno dal nulla» (1995), ruoli poi affidati a Leonardo DiCaprio. Gus Van Sant avrebbe voluto River nel suo film biografico su Harvey Milk, per la parte dell'attivista Cleve Jones da giovane, ma il progetto entrò in produzione solo nel 2007 (Jones è stato poi interpretato da Emile Hirsch). Anche James Cameron aveva pensato all’attore, per il ruolo di Jack Dawson in «Titanic», ma il film fu girato solo nel 1997.

Quando Verdone scelse Sora Lella in un bar. Elena Fabrizi conduceva una trasmissione radiofonica per cuori infranti su Radio Lazio: Carlo la intercettò mentre si scolava un crodino in pausa pranzo. Paolo Lazzari il 12 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Freme dalla voglia di imbattersi nel volto giusto, ma le occasioni languono. Si rigira nel letto, senza riuscire a saldare insieme i pensieri: a Trastevere ne ha scorte un mucchio con i requisiti richiesti, ma poi si fermano tutte alla battuta fragorosa e nulla più. Gli serve una donna che trasudi romanità nell’espressione e nei gesti, ma che sappia anche tenere la parte per tutto il tempo, senza disunirsi. Sta penando terribilmente, Carlo Verdone, perché le riprese del nuovo film si avvicinano con pressante irruenza e manca ancora un tassello essenziale.

Con Sergio Leone si sono parlati dritti: nessun personaggio, seppur secondario, può essere appannato. Serve una nonna dall’aria burbera e bonaria al contempo, una di quelle matrone capaci di addentare lo schermo. “Un sacco bello” l’ha infilato su un’autostrada inedita e lui intende continuare a premere sull’acceleratore. Mimmo, il personaggio dai pensieri tutt’altro che svelti destinato ad occupare il corpo centrale di “Bianco, rosso e verdone”, non può rimanere sprovvisto di quell’ingombrante parentala ancora a lungo.

L’illuminazione che fende la logorante ricerca arriva d’un tratto. Sfibrato, Verdone se ne sta curvo sul bancone del bar sotto casa sua, quando un suo amico lo risolleva pigolando: “A Ca’, stai a cercà una per fa’ tu nonna? Ce sta Sora Lella, la sorella di Aldo Fabrizi. Fa un programma su Radio Lazio per le donne che c’hanno un sacco de problemi, le conforta. Attacca alle undici, poi tutti i giorni a mezzogiorno scende qui a farsi un crodino”. Lampadina che si avvita. Carlo si sintonizza il giorno dopo. Palpebre inamidate quasi subito, ma perché quella ti tramortisce con repliche di una genuinità contundente: “Lella” Mi’ marito è tornato alle tre l’altra sera. Ho trovato un sacco de rossetto sul collo della camicia: che devo fa’?”. E lei, con consumata sicumera: “Daje un carcio ar culo!”. Tutte le sue sentenze radiofoniche, destinate a lenire eserciti di cuori infranti, sono composte di questa irresistibile sostanza. Un intruglio di ilarità e schiettezza, abbinate ad una faccia d'ambulante di Campo dei Fiori.

Quella notte Carlo dorme più liscio. La mattina dopo piomba nel solito bar, ma all’orario giusto. La trova, come di consueto, intenta a scolarsi avidamente un crodino dopo le fatiche di un’ora al microfono. È una donna corpulenta, con una nuvola di capelli che vorrebbero sbuffare ovunque, ma sono saldamente avvitati da molte forcelle. Indossa un vestitone e le calzette. Veste proprio come una nonna. Verdone rompe il ghiaccio, con deferenza: “Scusi, voi siete Sora Lella?”. Quella si gira di scatto, asciugandosi le labbra. “E voi chi siete?”. E lui: “Sono Carlo Verdone”. “Ma chi – chiede lei – quello che fa l’attore?”. “Sì, attore e regista”. “Mecojoni” è la riposta che cicatrizza una filosofia dell’esistenza.

Carlo le spiega quello che cerca. Lei pilucca mentre lo ascolta. Poi gli dice ce ci sta, ma che comunque tutti quelli che fanno cinema sono degli arnesi, mille promesse e poi si vedrà. Verdone la rassicura: “Signora mia, se me’ tiene le battute siamo a cavallo”. Uscito dal bar, le dita tremolanti per l’eccitazione indotta da quella epifania, si fionda alla prima cabina telefonica e compone il numero di Sergio Leone. “A Se’, ho trovato una fenomenale per il ruolo della nonna”. “E chi sarebbe?”. “Sora Lella, quella della radio”. Silenzio disarmante. Poi il cavo agganciato tra i due ricevitori vibra scompostamente: “Ma che c…o hai fatto? Questa c’ha il colesterolo a trecento, entra ed esce dal Fatebenefratelli. Questa ce’ more sul set!”.

Scosso dalla funerea premonizione, Verdone la chiama comunque per il provino. Sora Lella si disimpegna con una disinvoltura abbagliante. Anche Leone è costretto a fare spallucce: “Sì, è brava, ma questa tanto ce’ more sul set”. Allora Carlo fa una cosa. Va dalla futura nonna immaginaria e la ammonisce: “Ascolta, quando arrivano i cestini del pranzo non prende’ mai quello rosso, che è più pesante. Prendi solo quello bianco, mangia pocoa pasta e cerca di smaltire qualche chilo”. È una giaculatoria vana.

Dopo una settimana di riprese il capo macchinista la prende da parte: “A Sora Le’, farebbe na’ bella amatriciana carica per i macchinisti e gli elettriscisti?”. E quella mica si lascia pregare: “Come no, portame na’ pentola”. Mezz’ora più tardi una succulenta grandinata di bucatini intasa gli stomaci di mezzo cast. Gli attori, sedotti dall’effluvio di guanciale e cipolla che rimbalza sul set, sono arrivati in gran massa a rifocillarsi. Nello spazio di un amen il rito dei bucatini diventa irrinunciabile. Le mestolate con cui Sora Lella cosparge generosamente le scodelle, una manna celeste. Solo che il nuovo menù produce anche inattesi effetti collaterali. Dopo pranzo tutti si sentono terribilmente appesantiti. Le palpebre calano in sequenza. Le riprese vengono spinte sempre più in là, a pomeriggio inoltrato.

È un gaudente naufragare, ma il film reclama una scialuppa per non inabissarsi tra i flutti del colesterolo. Pur inebriato da quelle confortanti rimpinzante, Verdone capisce che bisogna darci un taglio. Si scruta la pancia e i fianchi: ha preso quattro chili. Leone, furente, lo striglia. “Levatele ‘sta pentola”, implora Carlo ai macchinisti. Si torna in fretta ai cestini bianchi. Le riprese, gioiosamente sonnolente, tornano sui ritmi consueti. La pellicola arriva in fondo. Sarà un successo fragoroso, sospinto anche da una Sora Lella spaziale.

Quei bucatini carichi allo spasmo, a distanza di oltre quarant’anni, restano però un trionfo che si colloca ben oltre l’effimera gloria della settima arte. Assurgono all’Olimpo dei ricordi che slacciano un sorriso e, dunque, si consegnano all’immortalità.

Audrey Hepburn moriva 30 anni fa: le prime nozze saltate, il matrimonio con uno psichiatra italiano, storia degli amori della star di «Colazione da Tiffany». Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 20 Gennaio 2023.

L’attrice, icona mondiale del cinema, se ne andava il 20 gennaio 1993

«L’amore è tutto»

Il 4 maggio 1929 nasceva a Ixelles, in Belgio, una delle icone più amate del cinema, regina di stile con la sua eleganza, capace di attraversare le generazioni con il suo fascino immortale e la sua semplicità. Parliamo di Audrey Kathleen Ruston, divenuta poi nota come Audrey Hepburn, più che diva - suo malgrado - l’anti-diva per eccellenza dato che, nonostante il successo ottenuto con pellicole diventate cult («Colazione da Tiffany», «Vacanze Romane», «Sabrina»), ha sempre preferito la tranquillità della vita familiare alla mondanità e alle luci dei riflettori. «Alcuni pensano che rinunciare alla mia carriera sia stato un grande sacrificio fatto per la mia famiglia, ma non è per niente così - raccontò una volta l’attrice -. È la cosa che più desideravo fare». Del resto «l’amore è tutto», come amava ripetere.

Nozze mancate

Nel 1952 Audrey Hepburn, all’epoca 23enne, annunciò il suo fidanzamento con l'imprenditore James Hanson. Nonostante fosse molto impegnata sul set del film che l’avrebbe lanciata nel firmamento di Hollywood («Vacanze Romane») nelle pause delle riprese continuava a portare avanti i preparativi per le nozze. L’attrice decise di far confezionare il suo abito da sposa proprio a Roma, nel prestigioso atelier delle sorelle Fontana. Ma non avrebbe mai indossato quel bellissimo vestito: il matrimonio saltò nel 1953 per via dei crescenti impegni lavorativi della coppia. «Per un anno ho pensato che fosse possibile far funzionare le nostre vite e combinare le nostre carriere - scrisse Audrey, affranta, in una lettera -. È tutto molto triste, ma sono sicuro che sia stata l'unica decisione sensata».

Il matrimonio segreto in Svizzera

Un anno dopo, ad una festa organizzata da Gregory Peck, Audrey Hepburn incontrò di nuovo l’amore: l’attore, suo partner di scena in «Vacanze Romane», le presentò Mel Ferrer, star della pellicola «Lili». Il 25 settembre 1954 la coppia convolò a nozze in Svizzera, in una chiesetta lontana da occhi indiscreti. Dall’unione, che durò in tutto 14 anni (e qualche film insieme, da «Guerra e pace» a «Mayerling»), il 17 luglio 1960 nacque un figlio: Sean Hepburn Ferrer. Per Hepburn fu una grande gioia: prima di riuscire a diventare mamma infatti aveva subito due aborti spontanei, di cui uno in seguito a una caduta da cavallo durante la lavorazione del film «Gli inesorabili» (1960).

Lo psichiatra italiano

Dopo il divorzio da Mel Ferrer, durante una crociera in Grecia, Audrey Hepburn conobbe colui che sarebbe diventato il suo secondo marito: lo psichiatra italiano Andrea Dotti, sposato nel gennaio del 1969. Da Dotti l’attrice nel 1970 avrà un altro figlio: Luca. Che descrisse così, nel 2015 a Vanity Fair, il rapporto tra i suoi genitori: «Mamma aveva perso la testa per papà, non era mai stata così innamorata. Sposarlo fu una scommessa. Sperava che lui crescesse più in fretta, ma non accadde: era un farfallone. Avevano dieci anni di differenza, ed era come se ne avessero ancora di più. I 30 anni di mio padre erano simili a quelli di oggi, i 40 di mia madre erano pesanti, soprattutto a causa della guerra. Erano troppo diversi: lui mondano e urbano, lei riservata e quasi contadina». Inoltre «per molti uomini è difficile avere una moglie famosa. Da italiano, il ruolo di principe consorte a mio padre non piaceva». Così, nel 1982, arrivò il divorzio.

Con Robert Wolders

Delusa dalla fine del suo secondo matrimonio Audrey Hepburn incominciò a frequentare l’attore olandese Robert Wolders, da qualche anno vedovo dell'attrice Merle Oberon: i due andarono a vivere insieme in Svizzera, sul lago di Ginevra. Non si sposarono mai e rimasero legati fino alla morte di lei. «Eravamo pronti l'uno per l'altra - ha raccontato lui nel 2017 a People -. Nel momento in cui ci siamo incontrati, entrambi avevamo commesso i nostri errori». Wolders ha condiviso con l’attrice anche l’attivismo: è sempre stato al suo fianco durante le campagne umanitarie per l’Unicef che hanno tenuto impegnata la star di «Colazione da Tiffany» negli ultimi anni della sua vita.

Trent'anni senza Audrey Hepburn: 15 curiosità su un'icona senza tempo. Erika Pomella il 20 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Audrey Hepburn, attrice, modella e icona impegnata anche nel sociale, è un nome immortale, impresso a fuoco nella storia del cinema, persino a trent'anni di distanza dalla sua morte

Audrey Hepburn non è stata solo un'attrice, ma è diventata un'icona, il simbolo di un cinema e di una Hollywood che forse non esistono più. La sua bellezza, unita al suo stile e alla sua eleganza, l'hanno resa una star quando nell'Olimpo del cinema il sistema del divismo era ancora agli apici e le stelle hollywoodiane sembrano creature che appartenevano più alla sfera divina che alla controparte umana.

Eroina romantica di grandi classici come Sabrina e Colazione da Tiffany, ma anche artista piena di ironia, capace di catturare lo sguardo della macchina da presa al punto da sconfiggere anche l'impietosa prova del tempo, Audrey Hepburn non ha mai smesso di irretire nuovi spettatori, di parlare a un pubblico trasversale che attraversa varie generazioni e che rappresenta il vero successo di un artista.

Il 20 gennaio 1993 la Hebpurn si spense a seguito di una battaglia contro un cancro: la sua eredità, però, non ha smesso di vivere e a trent'anni dalla sua morte il lascito di Audrey Hepburn è tale che ancora si guarda a lei e alla sua carriera quando si cercano gli standard del genere della commedia. Proprio in occasione dell'anniversario della scomparsa della grandissima attrice, ecco una serie di curiosità su Audrey Hepburn.

Tutte le curiosità su Audrey Hepburn

Una bambina traumatizzata dal Terzo Reich

Come si legge sul sito dell'Internet Movie Data Base, Audrey Hepburn si trasferì a Londra, a seguito del divorzio dei genitori, quando era ancora molto piccola. Qualche anno dopo, però, tornò insieme alla madre in Olanda, loro paese d'origine. Fu qui, mentre la Hepburn viveva a Anversa, che le truppe di Hitler presero possesso della città. L'occupazione nazista ebbe terribili conseguenze sulla futura attrice: soffrì di depressione e malnutrizione. Viveva in un seminterrato dopo che, secondo Cinematographe, i suoi zii erano stati catturati e giustiziati. Lavorò successivamente per la resistenza olandese.

La storia con William Holden

Tra i film più famosi, tra quelli interpretati da Audrey Hepburn, c'è Sabrina. Durante la lavorazione del film l'attrice si innamorò - ricambiata - dalla sua co-star William Holden. La relazione, secondo IMDB, si concluse quando la Hepburn lasciò William Holden dopo aver scoperto che l'uomo non poteva avere figli. "Curiosamente", gli attori morirono entrambi all'età di 63 anni.

Il debutto di Audrey Hepburn

Dopo la liberazione dall'occupazione nazista, Audrey Hepburn tornò a Londra, dove frequentò una scuola di ballo, cominciando poi a lavorare come modella. Sembrava che proprio il mondo della moda potesse essere il suo futuro, dal momento che la sua eleganza e la sua grazia non passavano mai inosservati. Nel 1948, però, venne notata da un produttore debuttò con una piccola parte nel film Nederland in zeven lessen. Più tardi ebbe un ruolo più grande in Racconto di giovani mogli. A quel punto Audrey Hepburn cercò fortuna in America: nel 1953 divenne la protagonista di Vacanze Romane, che le portò un premio Oscar e il successo che meritava.

Da Audrey a Edda

Nata come Audrey Kathleen Ruston, la futura attrice vide il suo nome cambiare durante la Seconda Guerra Mondiale. La madre, la Baronessa Ella Van Heemstra, decise di cambiarle il nome, per paura che il nome Audrey rivelasse troppo marcatamente le radici inglesi della bambina (da parte di padre). Audrey divenne Edda per non attirare l'attenzione delle truppe naziste.

Ancora William Holden

Nel 1964 Audrey Hepburn venne scelta come protagonista per Insieme a Parigi, in cui ritrovò il collega e amico William Holden. Quest'ultimo non aveva mai davvero superato la sua "cotta" per l'attrice. Secondo il sito dell'Internet Movie Data Base, Audrey Hepburn accettò di prendere parte al progetto con la speranza che la sua influenza avrebbe potuto aiutare William Holden a uscire dal blocco in cui sembrava essere incappata la sua carriera, anche a causa di problemi d'alcolismo. Nonostante la presenza della co-star, comunque, l'attore continuò a bere per tutta la durata delle riprese, causando ritardi sulla produzione e danni al budget.

Da dove viene Hepburn?

Come si diceva qualche riga più su, la famosa icona di Hollywood nacque con il nome di Audrey Kathleen Ruston. È dunque lecito domandarsi da dove venga il cognome Hepburn. Sempre IMDB riporta che, dopo la guerra, il padre di Audrey, Joseph Victor Anthony Ruston cominciò a fare delle ricerche per scoprire il proprio albero geneaologico e le proprie radici. Fu così che si imbatté in alcuni avi di nome Hepburn. A quel punto l'uomo cambiò legalmente il suo cognome che obbligò anche la figlia ad aggiungere il cognome.

L'odio con Humphrey Bogart

Una delle cose più sorprendenti della settima arte è quella di poter rendere credibili fatti che non esistono nella verità. In Sabrina, infatti, il cuore della storia è l'innamoramento tra il personaggio interpretato da Humphrey Bogart e quello di Audrey Hepburn. Nella realtà, invece, Bogart non apprezzò affatto la presenza della Hepburn, anche perché avrebbe voluto che il ruolo della protagonista andasse alla moglie Lauren Bacall. Secondo quanto riporta il sito dell'Internet Movie Data Base, quando a Bogart venne chiesto cosa ne pensasse della Hepburn, l'attore risposte: "È okay se non ti importa di dover ripetere la scena dodici volte."

Quando Audrey Hepburn venne doppiata

Un altro film molto amato nella filmografia di Audrey Hepburn è senza dubbio il musical My Fair Lady. La lavorazione, tuttavia, non fu affatto tutta rosa e fiori, dal momento che il produttore Jack L. Warner voleva doppiarla, ritenendo che la voce dell'attrice non fosse abbastanza forte per il ruolo di Eliza. Dapprima l'attrice prese male questa notizia ma poi, con la grazia che la contraddistingueva, accettò la decisione, sebbene promise a se stessa di non lavorare mai più a un musical, a meno che non fosse vocalmente preparata. L'attrice cantò comunque alcune parti della colonna sonora, inclusa la famosissima I could have danced all night. Le altre canzoni vennero eseguite da Marnie Nixon.

Un libro alla scoperta di Audrey Hepburn

Proprio perché Audrey Hepburn non ha mai davvero smesso di vivere nell'immaginario di coloro che amano il cinema e lo stile, non sorprende che le librerie siano piene di titoli dedicati all'attrice. Una delle pubblicazioni più recenti è Audrey. Una vita. Uno stile, di Chiara Pasqualetti Johnson. Una biografia accompagnata da ben centocinquanta ritratti che seguono pedissequamente la carriera dell'attrice.

Una dentista?

Prima di diventare una modella e di debuttare poi nell'industria cinematografica, Audrey Hepburn aveva seguito la formazione per diventare assistente dentistica.

Moon River

Moon River è il brano che accompagna il film Colazione da Tiffany. Il compositore Henry Mancini disse di aver scritto la canzone appositamente per Audrey Hepburn e affermò che, nonostante ci fossero molte altre versioni del brano, quella dell'attrice rimane la migliore.

Givenchy

È decisamente nota la lunghissima e proficua relazione professionale tra Audrey Hepburn e Hubert Givenchy, per cui l'attrice fu una vera e propria musa. La Hepburn indossa gli abiti del noto brand in Sabrina, Cenerentola a Parigi, Arianna, Colazione da Tiffany, Insieme a Parigi, Come rubare un milione di dollari e vivere felici, Sciarada e Amore tra ladri. Inoltre, proprio grazie alla collaborazione con Audrey Hepburn, Givenchy fu tra i primi stilisti ad assere accreditato nei titoli di coda di un lungometraggio.

Gli spettatori di Colazione da Tiffany

Sebbene non siano visibili sullo schermo, centinaia di spettatori e passanti assistettero alle riprese di Audrey Hepburn davanti alla nota vetrina del negozio che dà il titolo al lungometraggio e che apre il film. Quegli occhi costantemente puntati addosso misero molta ansia a Audrey Hepburn, che continuava a sbagliare la scena, sentendosi molto sotto pressione. Secondo IMDB è stato solo quando un cameram ha rischiato di essere fulminato dietro la macchina da presa che l'attrice si è ricomposta e ha concluso la scena.

L'imbroglio ai danni di Audrey Hepburn

Quando i produttori cominciarono a lavorare al film Cenerentola a Parigi si resero conto di volere avere come protagonisti Audrey Hepburn e Fred Astaire. Per assicurarsi la presenza di questi due grandi nomi della settima arte, allora, i produttori mentirono. Dissero ad entrambi che l'altro/a aveva già accettato il ruolo. La strategia si basava sulla certezza che né Fred Astaire né Audrey Hepburn avrebbero perso l'occasione di lavorare insieme.

Gli uomini di Audrey Hepburn

Nel 1954 Audrey Hepburn convolò a giuste nozze con l'attore Mel Ferrer e da cui ebbe un figlio, Sean, che vide la luce nel 1960. Vivendo e lavorando insieme ben presto i due archiviarono l'idillio della loro relazione, che si concluse con un divorzio nel 1968. Nel 1969, due anni dopo aver dichiarato di voler lasciare le scene, come ricorda IMDB, sposò lo psichiatra Andrea Dotti e l'anno successivo diede alla luce il secondo figlio, Luca. La nascita del figlio la portò a vivere a Roma, dove rimase fino al 1983. Nel 1982 ci fu un secondo divorzio. Successivamente l'attrice si innamorò di Robert Wolders, conosciuto a un'asta di beneficienza. Sebbene non si sposarono mai i due rimasero insieme fino alla morte di lei.

Estratto dell'articolo di Riccardo De Palo per “il Messaggero” il 5 gennaio 2023.

Senza di lui, la danza non sarebbe stata la stessa. Il balletto classico e quello moderno sarebbero rimasti incompatibili, non ci sarebbero stati fenomeni pop come Roberto Bolle - il cui show la sera di Capodanno su Rai1 è stato visto da quasi tre milioni di spettatori - e forse anche Maurice Béjart non avrebbe creato coreografie così centrate sul corpo e sulle movenze maschili. Parliamo del grande danzatore russo Rudolf Nureyev, di cui ricorreranno domani i trent' anni dalla morte.

 Era un vero personaggio da romanzo (...)

Freudianamente, Nureyev costruì tutta la sua carriera sulla ribellione contro il genitore. Julie Kavanagh, nella monumentale biografia a lui dedicata, Nureyev, la vita, ricorda che «Rudolf si ostinò a dire che odiava suo padre. Lo definiva uno stalinista, cosa che effettivamente era, ma così come sua madre, e in quel periodo quasi tutti i russi». L'unica e vera ragione, alla base del suo rancore, era che Khamet si rifiutava di accettare che il figlio danzasse.

 

Il piccolo Rudolf a dieci anni mostrava già un innato istinto musicale. Molto tempo dopo, disse di ricordare con nostalgia i solenni lutti di Stato dell'Urss, che erano un'occasione imperdibile per ascoltare, con la mastodontica radio sovietica che si trovava in casa, le composizioni di Schumann, di Beethoven, di ajkovskij. «Mi ricordo che piangevo, ma non certo perché mi dispiacesse della morte di Kalinin o di Stalin, ma perché ascoltavo quella musica bellissima».

Nel dopoguerra, Nureyev frequentò le prime scuole di danza, e si racconta che, quando partiva per raggiungere il Teatro dell'Opera di Ufa, dove seguiva dei corsi con un'allieva del grande Djaghilev, veniva puntualmente molestato dal capotreno. La prima grande occasione, per lui, arrivò nel 1954, quando la sua insegnante, Anna Udelcova, convinse il ragazzo, ormai diciassettenne, a iscriversi all'Accademia di danza del Teatro Kirov di Leningrado, l'odierna San Pietroburgo.

La seconda grande occasione arrivò nel 1961, quando il primo ballerino del Kirov si infortunò e gli proposero di partire al posto suo, per uno spettacolo in programma all'Opéra di Parigi. Fu un trionfo. Ma poco prima di lasciare la capitale francese per Londra, gli agenti del Kgb - che seguivano ovunque le star russe - gli chiesero di tornare in patria per un'importante esibizione al Cremlino, mentre gli altri avrebbero proseguito la tournée come previsto. Rudolf fiutò la trappola, e si consegnò direttamente agli agenti francesi in aeroporto, chiedendo asilo politico.

Nureyev non rivide più la sua patria per tantissimo tempo (fino al disgelo e al permesso concessogli da Gorbaciov nel 1987), e per lui si aprì una nuova vita in Occidente. La fuga gli procurò un'inattesa e fulminea notorietà; e il suo talento gli aprì le porte di tutti i teatri globali.  (...)

 Nel 1976 impersonò persino il ruolo di Rodolfo Valentino, in un film di Ken Russell. Nonostante il suo temperamento - quando non era soddisfatto delle ballerine le lasciava letteralmente cadere per terra - continuò a danzare anche oltre i quarant' anni, sperimentando coreografie e dirigendo qualche orchestra. A Carla Fracci non riservava dispetti: era legato a lei da profonda stima e amicizia. L'Aids aveva già ucciso nel 1991 il suo caro amico Freddie Mercury, una morte che l'aveva colpito tantissimo. Nureyev, a sua volta contagiato dall'Hiv, cercò a lungo di dissimulare i sintomi, di resistere al decadimento fisico, finché il suo cuore cedette, il 6 gennaio del 1993. Aveva 54 anni.

Oggi la Fondazione istituita in suo nome ha l'obiettivo di sostenere la ricerca sull'Aids e i danzatori, sempre e comunque. «La danza è tutta la mia vita - disse Nureyev, ripercorrendo le tappe della sua carriera - esiste in me una predestinazione che non tutti hanno. Devo portare fino in fondo questo destino. È la mia condanna, forse, ma anche la mia felicità. Se mi chiedessero quando smetterò di danzare, risponderei: quando smetterò di vivere». E così è stato.

Estratto dell’articolo di Francesco De Martini per “la Stampa” sabato 18 novembre 2023.

Due sere fa all'uscita del cinema dove era appena stato proiettato il docu-film di Anselma Dell'Olio Enigma Rol ho riconosciuto due miei ex-colleghi del Dipartimento di Fisica dell'Università La Sapienza che uscivano scuotendo la testa. Per uno scienziato quel film è "scandaloso" perché i risultati stupefacenti degli "esperimenti" condotti in vita dal gran signore torinese, Gustavo Adolfo Rol (1903-1994) stravolge gran parte dei paradigmi epistemologici e metodologici su cui la Fisica é stata costruita dall'età di Newton a oggi.

Non è qui il caso di citare questi esperimenti: sono centinaia, di natura diversissima. Tra i musicisti anche Riccardo Muti che nel film afferma di portare sempre con sé una carta da gioco affidatagli da Rol. E gli scienziati fisici, quelli cui principalmente Rol si rivolgeva? Pochi e di grande valore. Si narra che Albert Einstein battesse le mani felice quando Rol fece arrivare alcuni petali di rosa tra le corde del violino del grande fisico, dopo una sua riuscita esecuzione musicale. Un altro è stato Enrico Fermi cui è attribuito, a proposito di Rol, un significativo commento: «È un vero peccato che la scienza non sia in grado di analizzare lo spirito».

Un importante scienziato che anche ha a lungo interagito con Rol è stato Carlo Castagnoli, docente di Fisica sperimentale all'Università di Torino. In una lettera Castagnoli, gentilmente inviatami dal cugino di Gustavo, Franco Rol, afferma di aver esaminato con cura le condizioni entro cui venivano condotti gli "esperimenti". A conclusione di una estesa indagine, Castagnoli insiste sulla estrema "pulizia sperimentale", e quindi sulla assenza di ogni sotterfugio o frode. 

Io sono uno scienziato che ha sperimentato ed insegnato per molti decenni Elettronica quantistica e Informazione quantistica in vari istituti. Grazie a queste competenze scientifiche sento la responsabilità di avanzare qualche sommario commento sui risultati ottenuti da Rol. Questo perché lui ha esplicitamente più volte affermato: «I miei modesti esperimenti fanno parte della scienza». […]

Per molti anni, attorno all'anno '80 io e mia moglie frequentammo come amici il grande scienziato della relatività Tullio Regge e la moglie Rosanna Chester, ambedue docenti all'Istituto di Fisica dell'Università di Torino. Ricordo di averli incontrati a un Congresso a Bangalore in India. Mi dissero di avere appena ricevuto un invito da Rol per una prossima serata di "esperimenti". […] Tullio […] fu […] sarcastico: si predisponeva a "sbugiardare il veggente". Qualche mese dopo incontrai ancora i due in Spagna e chiesi notizie di quell'incontro. Tullio non volle parlarne. Ma l'amica Rosanna mi disse che sia lei sia Tullio erano rimasti semplicemente sbalorditi.

[…] Ecco quindi Gustavo Rol: un mago ? Un veggente ? Un sensitivo ? Chi può dire? Come commentare tanta prodigiosa quantità di prove, così ampiamente documentate? […] cerchiamo di capire il significato della sua esperienza. In questi ultimi decenni è emersa […] nel campo della fisica il concetto di "entanglement quantistico" che significa "intreccio inestricabile" delle "funzioni d'onda" delle particelle quantistiche. Queste, eventualmente in rapido reciproco movimento, se in uno stato "entangled" sono inevitabilmente tra loro "correlate". Ossia una misurazione compiuta su una di queste determina il risultato di analoghe misurazioni attuate sulle altre, a qualunque distanza queste si trovino nell'Universo all'atto delle misurazioni.

Il fenomeno di "entanglement" si determina mediante le collisioni tra particelle. Poiché nell'Universo, nel corso della sua lunga vita, 13.8 miliardi di anni dopo il Big-Bang iniziale e l'"inflazione" successiva, tutte le particelle hanno tra loro interagito, nell'Universo "tutto si tiene". Questo è l'aspetto misterioso della cosiddetta "nonlocalità quantistica", una proprietà tipica della fisica moderna, che Einstein stesso ha provocato con un suo famoso argomento dialettico.

Si potrebbe ipotizzare che, in un lontano futuro molti fenomeni nonlocali di tipo telepatico (comunicazione a distanza, tele-bilocazione, lettura a distanza, Rol che viene fotografato a Torino e simultaneamente e a New York) potrebbero forse essere ricondotti nell'ambito della Fisica. Ma oggi, non vedo alcun modello che renda concreta questa fenomenologia. 

Il teletrasporto quantistico è stato finora sperimentato con singoli fotoni, che sono particelle di massa eguale a zero. Forse entro in futuro il processo potrebbe utilizzare particelle pesanti e organizzate in oggetti. Un aspetto interessante investe la normale metodologia scientifica: la necessaria ripetibilità di tutti gli esperimenti e il pieno controllo e accessibilità ai metodi sperimentali utilizzati. Nell'ambito del caso Rol questo criterio è stato sollevato con forza da Regge e da altri scienziati.

Esiste una lunga lettera di Arturo Carlo Jemolo che prega Rol di sottomettersi ai controlli, ma lui non accettò, perché la "sorgente" del fenomeno prodotto non era nelle sue mani. La sua risposta è perfino commovente: «Io sono la grondaia», ossia il tubo che raccoglie e trasmette a terra l'acqua piovana e quindi non può influire sulla sorgente che è il cielo, che può essere nuvoloso o sereno. Nella metafora della grondaia, l'acqua che scorre è di fatto quello che Rol chiama lo "spirito intelligente", che sopravvive perfino alla morte. Le umane esagerazioni, gli scherzi, l'ironia e tutta la sua vita inducono a riflettere sul significato di una straordinaria avventura che oggi appare come un dono piovuto da una arcana, sconosciuta sorgente.

L'"Enigma Rol" che sconvolse Fellini. Anselma Dell'Olio dedica un docufilm al grande "mago". Pedro Armocida il 30 Giugno 2023 su Il Giornale.

«La mia vita si divide in prima di Rol e dopo Rol», diceva ai suoi collaboratori Federico Fellini. Ma chi era Gustavo Adolfo Rol nato a il 20 giugno di 120 anni fa a Torino dove è morto il 22 settembre 1994? Un sensitivo, un illuminato, un illusionista, un prestigiatore, un ciarlatano?

Sono appena terminate, al Parco Valentino di Torino, le riprese di Enigma Rol, il nuovo film di Anselma Dell'Olio che nei suoi recenti documentari si è occupata, non a caso, anche del regista di Rimini con Fellini degli Spiriti che, ricordava Roberto Gervaso, «non fa un passo, non muove foglia, non comincia, o non finisce, un film senza il viatico di colui che Buzzati definì il Maestro, l'Illuminato, il Sapiente, il Superuomo»: «Concludere le riprese del film nella città magica per eccellenza e nel giorno del compleanno di Rol è stata una sincronicità notevole, non programmata. Sin dall'alba dei tempi, l'umanità ha testimoniato innumerevoli eventi inspiegabili. Liquidarli come aneddotica significherebbe abbandonare questo terreno a credenti acritici e ciarlatani, invece di conquistarlo per la scienza, come affermava William James, fratello del romanziere Henry e filosofo insigne», ha detto la regista che ha scritto il documentario, prodotto da La Casa Rossa, RS Productions e Pepito Produzioni, con Alessio De Leonardis. Quattro settimane di riprese che si sono svolte tra Roma e Torino a metà tra documentario e film di finzione. I tempi sembrano perfetti per vedere Enigma Rol alla prossima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia dove Anselma Dell'Olio è stata protagonista lo scorso anno con una altro film dedicato a una figura di italiano non allineato, Franco Zeffirelli, Conformista Ribelle, a cui Rol, così come con Fellini, fece vedere i suoi prodigi.

Per la prima volta sullo schermo vedremo le testimonianze di amici e conoscenti che ammirano colui che considerano il supremo tra i «magi» e ne difendono l'autenticità, come Riccardo Muti e Elio Degrandi (Il mago Alexander). Ma ci sarà spazio ovviamente anche per chi smontava pezzo per pezzo le sue abilità paranormali come Piero Angela che dimostrò come i suoi «prodigi» potessero essere replicati senza problemi da qualsiasi prestigiatore. Ecco dunque le voci contrarie di noti scettici, illusionisti e divulgatori scientifici, che ritengono il gentiluomo torinese un mero prestigiatore, come Raul Cremona e Massimo Polidoro, anche perché Rol si rifiutò sempre di sottoporre le sue abilità a test scientifici dal momento che ammetteva di non essere in grado di utilizzare a comando i fenomeni soprannaturali di cui era solo il tramite.

Ma una cosa è certa, Rol, figlio di una famiglia dell'alta borghesia torinese segnata dalla figura possessiva, autoritaria e assai critica del padre banchiere, intraprese una carriera bancaria che ripudiava e, solo dopo la morte del padre, iniziò a dedicarsi veramente ai suoi veri interessi ossia l'arte, l'antiquariato e, soprattutto dimensioni altre, metafisiche. Ma senza mai trarne vantaggio economico. Una cosa inconcepibile in un'epoca in cui tutto è monetizzabile: «Quello che Rol sa fare è pauroso. Chi assiste prova la sensazione di un uomo che sprofonda in un abisso marino senza scafandro. È la testimonianza fascinosa e provocatoria di una trascendenza?», si chiese Federico Fellini. L'Enigma Rol sta tutto qui e, prossimamente, al cinema.

Giuseppe Culicchia per “Oggi” il 20 marzo 2022.

Gustavo Adolfo Rol morì a Torino – ormai novantunenne – il 22 settembre 1994, ma la sua figura non divenne leggendaria soltanto dopo la sua scomparsa: per molti, infatti, lo era già. Basti pensare che tra coloro che lo avevano voluto incontrare c’erano stati i presidenti Luigi Einaudi e Giuseppe Saragat, la Regina Elisabetta II e John Fitzgerald Kennedy, Gianni Agnelli e Cesare Romiti, ma anche Marcello Mastroianni e Walt Disney. 

Il giorno dei suoi funerali, visto il numero di persone convenute per l’occasione, la strada dove abitava nel quartiere San Salvario venne chiusa al traffico. Oggi lì dove viveva, al numero 31 di via Silvio Pellico, sulla facciata di un edificio che ricorda un poco il Liberty, una lapide gli rende omaggio con queste parole: «L’uomo dell’impossibile e dell’incredibile, una “LUCE” costante nella nostra vita».

Il suo appartamento, pieno di quei cimeli napoleonici che collezionava, nel frattempo è stato venduto; i mobili, battuti all’asta. Tuttavia, in città la figura di quest’uomo straordinario – proprio nel senso di fuori dall’ordinario – non è stata dimenticata. Da parte mia, non ebbimai occasione di incontrarlo; ma un giorno una persona che lo aveva conosciuto, stimatissima nel mondo dell’editoria, mi assicurò – dopo averne rievocato la gentilezza e il magnetismo dello sguardo – di avere visto coi propri occhi “prodigi” inspiegabili col metro della razionalità.

Quando le chiesi di che cosa si trattasse, ottenni in risposta un lungo elenco, comprendente fenomeni quali la chiaroveggenza (ossia la lettura di libri chiusi, o la visione di cose che accadevano o erano altrove), la telecinesi (lo spostamento di oggetti a distanza), la precognizione (la previsione di eventi futuri), la bilocazione (il trovarsi in due luoghi diversi nel medesimo istante). «L’ho visto attraversare una parete», aggiunse la mia interlocutrice. «Non so come, eppure l’ha fatto».

Di questo personaggio senz’altro misterioso esisteva finora una biografia, scritta da Remo Lugli all’indomani della sua scomparsa: Gustavo Rol. Una vita di prodigi. Ma tra i primi a occuparsene dopo Dino Segre, in arte Pitigrilli, che ne aveva scritto nel 1952, erano stati nel 1978 Enzo Biagi e Dino Buzzati. Il primo nel volume E tu lo sai?: «Vive a Torino un sensitivo capace di imprese che non hanno nulla di normale e che è impossibile interpretare.

È in grado perfino di fare viaggi nel tempo, e di conversare con entità che hanno raggiunto l’oltretomba da secoli». Il secondo, nel suo Misteri d’Italia: «Colpisce in Rol, che a 62 anni ne dimostra almeno dieci di meno, una vitalità straordinaria, e gioiosa. Insisto sulla serenità e l’allegrezza che ne emanano. Qualcosa di benefico si irraggia sugli altri». Lo stesso Buzzati tuttavia ne aveva scritto anche in precedenza.

Nel 1964 riportando la confidenza del proprietario dell’Hotel du Cap di Antibes: che a Rol doveva la vita, perché lo aveva convinto a rinunciare a un viaggio aereo conclusosi con un disastro. E nel 1965 intervistando Federico Fellini sulle ricerche compiute in vista della realizzazione del film Giulietta degli spiriti. «Il personaggio di gran lunga più interessante», gli aveva raccontato il cineasta, «il più portentoso è il dottor Gustavo Rol... un signore civilissimo, colto, spiritualmente raffinato, che ha fatto l’università, dipinge, si è dedicato per anni all’antiquariato. Ma dispone di tali poteri che non si capisce come non sia famoso in tutto il mondo. Chissà, forse non è ancora venuto il suo momento. Quel che Rol sa fare è pauroso. Chi assiste prova la sensazione di uno che sprofonda in un abisso marino senza scafandro. È la testimonianza fascinosa e provocatoria di una trascendenza».

Ora è Franco Rol, in Fellini & Rol. Una realtà magica (edito da Reverdito), a raccontare il rapporto di amicizia e di stima che unì il regista a suo cugino, ponendo però una premessa fondamentale: «Giornalisti e autori distratti continuano ancora a definire Rol come sensitivo, medium, mago, addirittura illusionista». 

Ma se ci si rifà alla storia delle religioni, Rol «va considerato come un illuminato, vale a dire un individuo che ha raggiunto l’illuminazione, la conquista più alta dell’elevazione spirituale, infinitamente al di sopra delle categorie ancora molto terrene e limitate di sensitivo, medium, mago eccetera, uno stato psico-fisico coincidente al nirvana, al samadhi, al satori della tradizione orientale».

Una condizione tale da conferire a chi la raggiunge «possibilità paranormali che appaiono stupefacenti al nostro mediocre stato di coscienza, ma che sono normalità per quello stato. Sono i carismi e i doni dello spirito della tradizione cristiana, le siddhi di quella indiana». 

Il rapporto tra Rol e Fellini, iniziato probabilmente già nel 1953 a Parigi, proseguì a partire dal 1963 – quando tra i due si stabilì una frequentazione vera e propria – fino alla morte del regista, che quando si trovava a Torino passava sempre a salutare Rol, e gli telefonava prima di prendere una decisione importante. 

Stando a  Guido Ceronetti, «la frequentazione di Gustavo Rol era per Fellini un appuntamento quasi morboso». Lo stesso Fellini del resto ebbe a riconoscere: «La mia vita si divide in “prima di Rol e dopo Rol”». Come ricordato un paio di anni fa dal Torino Film Festival in occasione di una rassegna dedicata proprio a Rol, fu questi per esempio a sconsigliare Fellini dal girare Viaggio di G. Mastorna detto Fernet, definito da Vincenzo Mollica «il film non realizzato più famoso della storia del cinema», salvo diventare poi un fumetto grazie al Viaggio a Tulum di Milo Manara.

Il produttore Dino de Laurentiis non la prese molto bene: ma dopo averne parlato con Rol, Fellini decise che quel progetto concepito come il viaggio di un clown nell’oltretomba non sarebbe diventato realtà. Comunque: grazie a questo volume documentatissimo, ricco di interviste, testimonianze e citazioni che dimostrano l’enorme lavoro condotto dall’autore in un continuo dialogo tra la spiritualità e il cinema, è possibile ricostruire oggi la lunga relazione tra i due.

E chi ama Fellini e la sua vera e propria adorazione per il fantastico, la sua fiducia nel potere smisurato dell’immaginazione può comprendere l’importanza che ebbe per lui l’incontro con Rol: un uomo fuori dall’ordinario che per tutta l’esistenza si sottrasse alla celebrità, preferendo condurre una vita ritirata. Ma che, ciò nonostante, per chiunque l’abbia incrociato resta indimenticabile. «Non so come, eppure l’ha fatto». Già.

  Chi era Gustavo Rol. Massimo Novelli per il “Fatto quotidiano” il 16 settembre 2019. Non poteva che nascere e vivere a Torino, che, secondo una certa tradizione, farebbe parte, assieme a Lione e a Praga, del cosiddetto triangolo della magia bianca. Nella città della Sindone e del Museo Egizio, d' altronde, ci passarono Nostradamus e il leggendario conte di Saint-Germain, che vi sarebbe addirittura sepolto, oltre a Giuseppe Balsamo detto il conte di Cagliostro e all'alchimista Fulcanelli, quello del Mistero delle Cattedrali. Gustavo Adolfo Rol (Torino, 1903-1994), tuttavia, non amava essere chiamato sensitivo o veggente, e tantomeno medium. A Roberto Gervaso, che lo intervistò nel dicembre del 1978 per il Corriere della Sera e che gli chiese di dare una definizione di se stesso, rispose di essere "un essere molto più alla buona, meno importante, ma diverso". E aggiunse di non possedere poteri paranormali, ma "possibilità", che si manifestavano attraverso la telepatia, la chiaroveggenza, la precognizione, la levitazione, la telecinesi e la materializzazione di oggetti. Una signora, Domenica Fenoglio, che lo aveva frequentato a lungo, raccontò a un giornalista di Novella: "Una volta andai da lui mentre dipingeva. Il pennello si mosse da solo, si alzò fino al soffitto e tornò nelle sue mani. Hai paura?, mi chiese. No, gli risposi; mi disse 'brava' e continuò a dipingere". Eppure non volle mai sottoporre i suoi "prodigi" a controlli di tipo scientifico. E a chi, per questa ragione, metteva in dubbio quelle facoltà oltre il normale, come lo scienziato Tullio Regge, Rol replicò in una lettera, il 6 luglio del 1986: "Lei invoca, a giusta ragione, controlli rigorosi ma chiede la presenza di 'prestigiatori professionisti di alto calibro capaci di scoprire immediatamente qualsiasi trucco del ciarlatano di turno'. Io mi domando a che cosa servono queste persone nel caso specifico che il ciarlatano non esista. Quel rapporto della mente col meraviglioso al quale accennavo verrebbe immediatamente turbato col risultato facilmente intuibile: la distruzione in partenza dell'esperimento". Amato da Federico Fellini e dall'avvocato Gianni Agnelli, da Franco Zeffirelli e da Cesare Romiti, da Pittigrilli e da Dino Buzzati, l'uomo che aveva quelle "possibilità", e che anche Walt Disney volle conoscere, nel 1942 fu convocato da Benito Mussolini a Villa Torlonia. Il Duce gli disse: "Mi dicono che fate delle previsioni. Come va la guerra?". Dopo avere indugiato per qualche secondo, Rol parlò: "Duce, per me la guerra è perduta". Mussolini lo incalzò: "E il Duce?". E Rol: "Gli italiani lo allontaneranno nella primavera del 1945". Mussolini, allora, diede un gran pugno sul tavolo e ordinò di congedarlo. Gustavo Adolfo Rol è morto venticinque anni fa, il 22 settembre del 1994, a Torino, dove era nato in un famiglia borghese benestante il 20 giugno del 1903. Tre lauree, antiquario e pittore, scoprì le sue facoltà, secondo quanto raccontava, quando volle provare a indovinare tutte le carte di un mazzo. Cadeva il 28 luglio 1927, era a Parigi. Sulla agenda annotò: "Ho scoperto una tremenda legge che lega il colore verde, la quinta musicale ed il calore. Ho perduto la gioia di vivere. La potenza mi fa paura. Non scriverò più nulla!". Ad apprezzarlo, tra i primi, ci furono il giornalista Renzo Allegri, Dino Buzzati e Federico Fellini. Rammentava l'autore de Il deserto dei Tartari: "Ma 'il personaggio di gran lunga più interessante' racconta Fellini che sta a sé, completamente fuori di questa galleria di fenomeni più o meno patologici, il personaggio portentoso è il dottor Gustavo Rol, di Torino. Anche lei certo ne ha già sentito parlare. Non si tratta di un mago più dotato degli altri. È un signore civilissimo, colto, spiritualmente raffinato, che ha fatto l' università, dipinge, si è dedicato per anni all' antiquariato. Ma dispone di tali poteri che non si capisce come non sia famoso in tutto il mondo". Sempre Buzzati, negli anni Sessanta, sul Corriere della Sera narrò che "un altro prodigio avvenne in un ristorante, pure a Torino. Avevano finito di pranzare, era già stato pagato il conto. "Andiamo?" propose Fellini. "Andiamo pure" rispose Rol. Fellini fece per avviarsi all' uscita ma si accorse che Rol stava seduto. "Non ti alzi?" gli chiese. "Ma io sono già alzato" fece Rol. "Io sono in piedi". Fellini guardò meglio: Rol era alzato, infatti, ma aveva la statura di un nano. Il dottor Gustavo Rol, che sfiora il metro e ottanta, non era più alto di un bambino di dieci anni. Qualcosa di folle, di allucinante: come Alice nel paese delle meraviglie. "Su, andiamo, andiamo" fece Rol a Fellini annichilito". Piero Angela, invece, ha sempre messo in dubbio le sue "possibilità", e soprattutto i "fenomeni" che ne scaturivano. Le dimostrazioni di Rol, a cui Angela aveva assistito, dall'utilizzo di carte da gioco alla lettura in libri chiusi, per lui erano probabili trucchi illusionistici. "Per decenni Rol", ha sostenuto Angela, "si è prodotto nei salotti torinesi, davanti (come lui stesso afferma) a "scienziati, medici, letterati, artisti, religiosi, atei, filosofi, militari, uomini politici, capi di stato e di governo, gente di ogni classe sociale", ecc.: cioè tutte persone incompetenti in trucchi! Perché invece non ha mai voluto fare i suoi esperimenti sotto l'occhio di un esperto? Neanche una volta?". Della stessa opinione era Tullio Regge. Quando Rol morì, scrisse su La Stampa: "Personalmente io ho visto solamente esperimenti fatti con carte da gioco e non ho rilevato di certo facoltà paranormali: in molti casi usò in modo ovvio le forzature dei prestigiatori". Anche se "rimane il ricordo", concludeva Regge, "di una personalità eccezionale, e inimitabile, veri o falsi che fossero i suoi esperimenti".

Da Gustavorol.org il 17 settembre 2019. Gustavo Rol, nato nel 1903 da una famiglia della ricca borghesia torinese, è stato un personaggio fuori dal comune: amante delle arti e pittore egli stesso, colto e carismatico, dopo aver lavorato come giornalista e bancario si è dedicato per tutta la vita alla sua grande passione, l’occulto. I suoi sostenitori gli hanno attribuito proprietà paranormali, i suoi critici hanno parlato di “mentalismo”, ma Gustavo Rol si è sempre dichiarato semplicemente un ricercatore e sperimentatore, con l’unico obiettivo “di incoraggiare gli uomini a guardare oltre l’apparenza e a stimolare in loro lo spirito intelligente”. Un uomo che ha attraversato il Novecento lasciando una traccia profonda nell’immaginario collettivo e nelle numerose personalità internazionali con cui è entrato in relazione: da Walt Disney a Marcello Mastroianni, da alcuni presidenti della Repubblica Italiana, come Giuseppe Saragat e Luigi Einaudi, al presidente John Fitzgerald Kennedy fino alla Regina Elisabetta II. Federico Fellini lo definisce “sconcertante”, legandosi a lui con una profonda amicizia. (tratto da: Allegri, R., "Così ho viaggiato nel paranormale", rivista "Chi" del 25/07/2001, p. 139) 

Una delle caratteristiche di Rol era quella di essere, quando era di buon umore, un gran burlone, e poteva fare degli "scherzi" abbastanza impressionanti, con un fine dimostrativo per i presenti e una eventuale lezione (esplicita o implicita) per i destinatari dello scherzo. Ad esempio, Giuditta Miscioscia ha raccontato quanto segue: «Tornavamo da Savona verso Torino, in macchina sull’autostrada. Arrivati sul passo del Turchino ci fermammo all’autogrill a pranzare. Al tavolo accanto al nostro c’era una coppia. Lei, grossa, enorme.  Erano già al gelato. Dovevano aver mangiato molto e la signora sorbiva il gelato lentamente, con difficoltà, perché era troppo sazia, ma si capiva che il gelato le piaceva molto. Rol la sbirciava da lontano e i suoi occhi scintillavano. Capii che voleva divertirsi.  Quando la signora ebbe finito il gelato, piegò la testa sulla spalla del marito e mormorò sfinita ma soddisfatta: “Ce l’ho proprio fatta, l’ho mangiato tutto”. “Facciamogliene mangiare un altro”, mi sussurrò Rol. “No, per carità, la fai morire”, supplicai, ma era tardi: Rol era già intervenuto, la coppa del gelato della signora era di nuovo misteriosamente colma. Il marito della donna, dopo aver sentito la frase “Ce l’ho proprio fatta”, aveva guardato la coppa che non era affatto vuota, ma piena e disse alla moglie: “E quello?”. Lei guardò e sbiancò. “Chi lo ha portato?”, chiese con un filo di voce. “È il tuo”, rispose il marito. “Impossibile, l’ho appena finito”, mormorò lei. “Ti sembrava di averlo finito”, disse l’uomo ridendo. La signora era smarrita. Si guardava intorno pallida. Riprese a mangiare adagio adagio, con fatica. Quando finalmente ebbe finito, sospirò verso il consorte tenendosi le mani sullo stomaco: “Non ne posso proprio più”. “Ancora, ancora”, ripeté sottovoce Rol come se desse ordini a una presenza invisibile, e la coppa del gelato della signora apparve di nuovo piena. Questa volta fu il marito a sbiancare. “Non è possibile”, lo sentii mormorare desolato e si guardava intorno sospettoso. Poi prese la coppa di gelato e cominciò a ispezionarla attentamente. Alla fine disse alla moglie: “Questo te lo mangio io”. Sorbì il gelato in silenzio, era nervoso. Appena finito scattò in piedi, ma Rol velocissimo aveva di nuovo ripetuto “Ancora, ancora” e la coppa era di nuovo piena. “Andiamo via, qui ci sono cose che non vanno”, e spinse la moglie verso la cassa del ristorante. Rol rideva a crepapelle, come un ragazzino».

Giuditta Miscioscia: «Una sera eravamo in casa di un famoso parrucchiere di Torino. Oltre a noi c’erano altri ospiti, persone molto importanti che desideravano conoscere Rol e vederlo in azione. Il padrone di casa si dichiarava scettico. (...). [Segue un esperimento con le carte, quindi Rol...] Cominciò a guardarsi in giro ostentatamente per attirare l’attenzione. Guardava soprattutto verso il soffitto e disse forte: “C’è tanta polvere lassù”. Il padrone di casa, un po’ imbarazzato, balbettò: “Sì, forse, non saprei”. “Ah c’è un solo modo per accertarsi se lassù vi è della polvere” disse Rol, “andare a vedere”. Eravamo in sette persone sedute intorno a un tavolo pesante e massiccio. Rol si concentrò fissando il soffitto. Dopo qualche attimo, tutti noi presenti, tavolo e sedie compresi, cominciammo ad alzarci per aria, ondeggiando lentamente. Ci guardavamo in faccia impalliditi e guardavamo Rol che era sempre concentrato. Salimmo fino a raggiungere il soffitto, poi scendemmo, quindi di nuovo risalimmo al soffitto e poi planammo a terra. “Sì”, disse Rol sorridente “lassù c’è molta polvere: l’avete vista anche voi”. C’era un grande silenzio in salotto, ma gli sguardi ironici erano completamente scomparsi».

Chiara Bologna: «Rol e mia nonna si trovavano in un appartamento. Ad un certo punto ha visto Rol alzare un piede come se dovesse scavalcare un piccolo ostacolo. Invece Rol ha lasciato il piede sospeso nell’aria, a circa 20 centimetri dal suolo. Ha quindi tirato su l’altro piede, portandolo un po’ più in alto del primo, che era rimasto sospeso là dove si era fermato. Rol ha iniziato a salire dei gradini invisibili, camminava nell’aria»

Remo Lugli (Marisa Guasta/Catterina Ferrari): «E’ il 21 giugno [1994], l’indomani del suo novantunesimo compleanno. Gustavo e Catterina sono lì a San Marzano da ieri, hanno dormito nella villa [del professor Guasta] e al pomeriggio si accingono a partire per far ritorno a Torino. L’amico professore si è dovuto assentare e Gustavo raggiunge l’auto accompagnato da Catterina e Marisa Guasta che lo affiancano dandogli il braccio. Racconta Marisa: “Quando si è girato per entrare in macchina si è afflosciato ed è andato a terra senza che potessimo trattenerlo. Rol pesava ottanta chili e quando abbiamo provato a prenderlo per le ascelle per sollevarlo abbiamo capito che non saremmo mai riuscite a tirarlo su, le nostre forze erano assolutamente inadeguate. Eravamo preoccupate, agitate, ci chiedevamo cosa fare, ma altre persone nelle vicinanze non c’erano. Lui ci ha calmate: “Aspettate un momento” ha detto, “provate, quando ve lo dico”. Un attimo ancora e poi ha ordinato: “Adesso”. Noi lo abbiamo tirato su, ma senza nessuno sforzo. Si è raddrizzato come se fosse spinto dal di sotto. Ha esclamato: ‘Sia ringraziato il Signore’ e si è fatto il segno della croce”. Catterina, che negli ultimi tempi lo doveva aiutare a salire e a scendere dal letto, svestirsi e vestirsi, dice che a volte lui le dava il comando adesso, “e per qualche attimo pesava come un bambino”. E allora rideva, contento».

Gabriele Romagnoli per “la Repubblica” il 19 settembre 2019. L'ultimo mistero di Rol non ha niente a che fare con l'esoterismo. Forse. Sennò, che mistero sarebbe? Di certo c' è che salvò due vite, ma nessuno può testimoniare come: con un trucco, un intervento paranormale o una mossa assolutamente normale? La verità è sepolta, come tutti quelli che c' erano. È un ricordo sbiadito, raccolto prima che svanisse, 17 anni fa. I fatti si svolsero 76 anni fa durante l' occupazione tedesca. Gustavo Adolfo Rol è morto 25 anni fa (22 settembre 1994), lasciandosi dietro una scia di nebbia fosforescente quanto la sua personalità. Il dibattito sulle sue potenzialità è stato più spesso ispirato dal pregiudizio che dal giudizio, talora al di sotto della sua studiata eleganza e sempre, tutto sommato, vano. Rol non chiese niente, si limitò a mostrare, e a pochi selezionati. Contano gli effetti, tranne quelli speciali, e in quel lontano 1943 ne ebbe. Si accenna all'episodio in uno dei numerosi libri a lui dedicati, Rol e l'altra dimensione, di Maria Luisa Giordano. Scrive: «Durante l'occupazione tedesca salvò molte vite umane, fece liberare partigiani e civili, ostaggi dei nazisti». Dove? Quando? Ma soprattutto, come? Nel 2002, volendo liberamente ispirare il personaggio di un romanzo alla figura di Rol, andai a Torino per raccogliere testimonianze e verificare quell'affermazione che si faceva più specifica indicando un fatto avvenuto a San Secondo di Pinerolo dove Rol e la sua famiglia erano sfollati e dove si trova oggi la sua tomba. Incontrai molte persone che l'avevano conosciuto. Tutte avevano comuni caratteristiche: erano scettici, non credenti, con professioni pratiche (chi fabbricava caminetti, chi dirigeva alberghi), eppure raccontavano con naturalezza: «L'ho visto aumentare di statura in ascensore» o «Fece apparire un dipinto completo sulla tela in pochi secondi». Il più attendibile mi parve Remo Lugli, ex inviato della Stampa, amico personale di Rol, ma capace di raccontarlo da cronista in Una vita di prodigi. Conosceva l'episodio di San Secondo, ma solo indirettamente. Sorrise e disse: «Avrà dato al comandante tedesco un assegno inesistente, come quello che fece apparire a noi». Si riferiva a un "esperimento" condotto in casa sua, alla presenza delle due mogli e dei coniugi Gaito e Innocenti. Rol fece dire quattro numeri e venne fuori 1943. Si mise a parlare con una presunta presenza invisibile: un uomo fucilato in quell' anno che avrebbe voluto pagare per evitarlo. Infine disse: «L'assegno è arrivato». Il dottor Gaito se lo ritrovò nella tasca interna della giacca, a lui intestato, datato 10 novembre 1943 per la somma di un milione. Il numero corrispondeva alle prime sei carte del mazzo sul tavolo. Mancava l' indicazione del conto di provenienza. Rol non ha mai tratto o prodotto un beneficio economico. Se non pagò, come salvò i condannati di San Secondo? Lugli mi diede due indicazioni: l'ultima compagna di Rol e sua esecutrice testamentaria, Catterina Ferrari, e un uomo del paese, un cavaliere del lavoro che mi avrebbe accompagnato a cercare superstiti del tempo di guerra. La dottoressa Ferrari, ex farmacista, ha trascritto quel che sostiene essere il ricordo di Rol sull'argomento: «La mattina del 30 settembre una donna venne a cercarmi di buon mattino...». Il comando tedesco aveva ricevuto una denuncia anonima e perquisito la casa di un certo Paschetto, che viveva con moglie, due figlie e due figli, trovando due pistole e un fucile nascosti nel porcile. I fratelli furono condannati all' esecuzione in piazza alle dieci della domenica seguente. Rol accolse l'invito della donna e si recò dal maggiore Werner, a capo degli occupanti, supplicando clemenza: «Intanto mi lavoravo il suo aiutante, tenente Utesh. Offrii loro due libri napoleonici di grande valore». Tre ore di "lavorazione" (qualunque cosa intendesse) e ottenne la commutazione della pena: deportazione in Germania. Intuì che la morte per i due sarebbe stata solo rinviata. E non di molto. Chiese di visitarli. Avevano un aspetto terribile. Uscì e tornò portando con sé, ben nascosto, un asciugamano inzuppato del sangue di una gallina che aveva fatto intanto uccidere. Lo diede a uno dei prigionieri, suggerendogli in dialetto di tossire platealmente e dichiararsi tubercolotico per impietosire i suoi carcerieri. Poi: «Nella notte, dinanzi a 14 ufficiali, perorai la causa di quei poveri disgraziati. Mi valsi perfino dei miei esperimenti di coscienza sublime per cattivarmi le simpatie di quei Teutoni! Lavorai sino all' alba. Finalmente, con la complicità di un giovane medico, venne steso un rapporto disastroso sullo stato di salute dei condannati. L'indomani il maggiore Werner portò l' ordine di liberarli e si congratulò: siete un buon italiano, un uomo di cuore». E bruciò le altre denunce anonime, di cui tuttavia conosceva l'autore. Anni dopo, annota la Giordano, l'ex ufficiale tedesco gli scrisse da Roma, dicendogli che in Germania aveva perso tutti i suoi cari e trovato solo distruzione e morte: era tornato in Italia per farsi frate domenicano. Anche di questo non esiste prova, come dei fatti accaduti quella notte. Sembra paradossale, almeno nei termini, che Rol possa aver evocato la "coscienza sublime" davanti a 14 nazisti che stavano incendiando l' Europa e progettando lo sterminio di un popolo. Eppure. Arrivato a San Secondo il cavaliere mi prese in consegna. Era un uomo schietto e provato. Suo figlio si era suicidato per un amore non corrisposto. Anche lui come gli altri che avevo incontrato non aveva propensioni per l' esoterismo, nemmeno per riallacciare un legame con chi aveva valicato la linea d' ombra prematuramente. Gli episodi della guerra sono spesso esagerati dal telefono senza fili della storia orale, taciuti i più straordinari. Mi condusse in un casolare abitato da una donna anziana. Era la vedova di uno dei fratelli Paschetto, i due ragazzi scampati alla fucilazione. Parlava solo in dialetto, la lingua delle istruzioni sul sangue della gallina. Il cavaliere tradusse. Suo marito le aveva raccontato, ovviamente, di quella notte aspettando la morte e di Rol. Lo ricordava senza aggettivi meravigliati, né un angelo né un illusionista, un uomo deciso, autorevole, capace di farsi rispettare: un negoziatore per conto della vita. Che cosa poi avesse fatto per convincere 14 nazisti era, resta e resterà un mistero. Un mistero benefico, come in fondo la sua esistenza. Non trasse profitti, dispensò regali, fossero anche illusioni, intrattenne i potenti ma fu vicino agli umili. Giocò molto e volentieri. Ma se salvò due vite, come ci viene spesso ricordato citando un testo sacro, salvò il mondo.

Federico Gazzola per “Nuova cronaca” il 21 settembre 2019. “Non era un impostore”. Il commento, laconico, correda un articolo online volto a smontare le doti di Gustavo Rol, relegando le sue facoltà a semplici trucchi di prestidigitazione. Parole da cui affiora anche l’affetto per una figura che ha saputo legare al proprio nome mistero e indubbie qualità umane. Gustavo Adolfo Rol nasce a Torino nel 1903 da genitori facoltosi. Cresce frequentando le famiglie dell’alta borghesia. Ottiene tre lauree: in Giurisprudenza, Economia e Biologia clinico-medica. Dopo aver trascorso un decennio come dipendente della Banca Commerciale Italiana, nel 1934 lascia il lavoro per aprire un negozio di antiquariato. Un’attività senza dubbio più consona alle sue inclinazioni: amante dell’eleganza e delle arti, Rol, uomo di sconfinata cultura, dipingeva e suonava violino e pianoforte. Ma proprio durante uno dei suoi viaggi come dipendente di banca Rol vive un’esperienza cruciale. Fin da piccolo interessato alla dimensione spirituale, inizia a interrogarsi, a leggere, ad approfondire. E a sperimentare. Partendo dalle carte da gioco: “Perché non dovrebbe essere possibile conoscere il colore di una carta coperta?”. Per anni prova e riprova, senza alcun successo. Fino al 1927. Durante un soggiorno a Parigi scrive parole enigmatiche sul suo diario. Sostiene di aver scoperto una legge che lega il colore verde, la quinta nota musicale e il calore. Una legge che definisce “tremenda”, che gli avrebbe tolto la voglia di vivere. Da quel viaggio, Gustavo Rol torna cambiato. Consapevole delle proprie capacità, mantiene viva la propria fede in Dio. Si definisce una “grondaia” attraverso la quale l’acqua, dal tetto, raggiunge il terreno. Una sorta di tramite tra una dimensione elevata e il piano materiale. Rifiuta però definizioni come mago, veggente, indovino. Detesta l’interesse della parapsicologia nei suoi confronti e rifiuterà sempre di sottoporsi a esperimenti tecnici da parte di esperti del settore: una volgarizzazione di ciò che riteneva espressione delle più alte vette spirituali mai raggiunte dall’uomo. Dopo la sua morte, avvenuta  sempre nella sua Torino nel 1994, proprio questa sua volontà lascerà, da una parte, la sua figura avvolta nel mistero, dall’altra campo aperto agli scettici che lo riterranno un impostore particolarmente abile nei giochi di prestigio. In realtà Rol non disdegnava dimostrazioni in presenza di uomini di scienza, figure che avrebbero potuto facilmente smentire le sue facoltà extrasensoriali. Ad assistervi furono personaggi del calibro di Albert Einstein ed Enrico Fermi. Ma anche gli scettici trovarono libero accesso, tra tutti Piero Angela, fondatore del Cicap, il Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sulle pseudoscienze: quest’ultimo, in effetti, parlò di Rol come di un abile mentalista, e nient’altro. Ma Rol andò su tutte le furie: durante la dimostrazione, infatti, Angela non avrebbe mosso alcuna obiezione in merito alle sue doti. Salvo poi metterne in dubbio la veridicità in alcuni scritti successivi all’incontro. Versione smentita, è bene specificarlo, dallo stesso Piero Angela. Ma esistono uomini di scienza che, al contrario, non hanno mai negato il proprio stupore. Testimonianze raccolte dal cugino Franco Rol che per anni ha lottato per “difendere” la reputazione del familiare. Interessante in questo senso è l’aneddoto del medico chirurgo Luigi Giordano che racconta di quando Rol accettò di essere “studiato” dal fisico Tullio Regge, membro del Cicap, che si presentò insieme a due assistenti in tre occasioni diverse. Spiega Giordano: “Dopo la terza sera i tre hanno detto che non sarebbero più tornati, perché non trovando una spiegazione logica a quanto capitava, non potevano permettersi di sovvertire tutte le leggi della fisica”. Altrettanto interessante è l’intervista a Carlo Castagnoli, datata 1972, anno in cui il celebre luminare era professore di Fisica Generale all’Università di Torino. Scettico, Castagnoli incontrò Rol proprio per interesse scientifico: “Ho visto cose che francamente non ho capito sulla base delle consuete spiegazioni ordinarie” sottolinea Castagnoli. Il professore racconta di quella volta in cui lui e Rol si trovavano a casa di amici. Castagnoli vide un libro di Wolfgang Pauli e da buon fisico lo estrasse per osservarlo. Rol, a quel punto, improvvisò uno schema con le carte da gioco arrivando a individuare un numero chiave, 85. Subito dopo iniziò a scrivere su un foglio. Erano le prime dieci parole proprio di pagina 85 di quel volume. Corrette, precise. Un libro non di sua proprietà, che Castagnoli aveva scelto senza alcun preavviso. Un altro episodio è raccontato da Gianluigi Marianini, professore di Lettere al Collegio Rosmini di Torino e studioso di scienze esoteriche e filosofia. Prima di un appuntamento con il mago, Marianini si fermò ad acquistare due mazzi di carte da gioco regolarmente sigillate. Giunto all’abitazione di Rol, quest’ultimo intimò all’ospite di non avvicinarsi. Non voleva avere contatti di alcun tipo con i due mazzi per non sollevare dubbi su presunti trucchi di prestidigitazione. “Quale carta preferisci?”, domandò. “Fante di fiori”, rispose l’amico senza pensarci. A quel punto Marianini, su invito di Rol, aprì i due mazzi scoprendo con meraviglia che entrambi contenevano solo fanti di fiori. Secondo i detrattori, Rol rifiutò di farsi esaminare da prestigiatori professionisti, per il timore che i propri trucchi potessero essere scoperti. Non corrisponde a realtà. Rol rifiutò di incontrare Silvan perché non provava simpatia nei suoi confronti. Ma allo stesso tempo accettò di essere “osservato” da illusionisti altrettanto celebri come Elio De Grandi, meglio noto come Alexander. Quest’ultimo racconta, in un’intervista a History Channel: “L’illusionismo consiste in tecniche ripetibili. Onestamente ho visto Rol compiere azioni che vanno oltre tutto ciò. Il famoso vaso lanciato attraverso una stanza e che improvvisamente si smaterializza, scomparendo invece di infrangersi contro il muro. Io conosco molto bene il mio mestiere, ma questo effetto non saprei riprodurlo”. Le capacità di Rol furono apprezzate anche da imprenditori, politici, celebri artisti. Si dice che, per esempio, il grande regista Federico Fellini lo avesse scelto come sorta di consulente per i propri progetti cinematografici. Lo stesso regista raccontò di una passeggiata attraverso un parco di Torino. A un certo punto i due videro un pappagallo, fuggito da qualche gabbia. “Rol lo chiamò - racconta Fellini - e il giorno dopo lo riconsegnò alla sua proprietaria. Una donna che prima d’allora non aveva mai visto né conosciuto”.

Barbara Giannini su Vanillamagazine.it il 24 settembre 2019. Il 28 luglio 1927, Gustavo Rol scrisse sul suo diario, con una matita rossa, “Ho scoperto una tremenda legge che lega il colore verde, la quinta musicale e il calore. Ho perduto la gioia di vivere. La potenza mi fa paura. Non scriverò mai più nulla.” E, in effetti, nelle pagine successive si legge solo “INCUBI… INCUBI… INCUBI”. Gustavo Adolfo Rol era nato a Torino nel 1903 da una famiglia agiata. Fu un ragazzo e un uomo colto e curioso del mondo: conseguì tre lauree, in economia, in legge e in biologia medica, parlava fluentemente sei lingue ma, oltre che per la sua cultura, egli fu famoso soprattutto per le sue straordinarie doti di sensitivo. Tuttora considerato uno tra i più grandi veggenti mai vissuti, molte sono le testimonianze di chi assistette ai prodigi di cui era capace, definiti spesso come autentici fenomeni paranormali. Grazie alle sue intuizioni e ai suoi esperimenti, stupì l’Italia e il mondo per settant’anni. Tra i suoi estimatori più entusiasti ricordiamo Fellini, Zeffirelli, Buzzati, Gianni Agnelli, e vollero incontrarlo anche Ronald Reagan, J. F. Kennedy ed Einstein, il quale pare applaudisse entusiasta come un bambino assistendo ai suoi prodigi. In tempo di guerra, nel 1939, Rol fu chiamato alle armi come capitano degli Alpini, e nel 1942 qualcuno disse a Benito Mussolini che a Torino c’era un alpino in grado di prevedere il futuro che faceva catastrofiche previsioni sulla guerra in atto, nonostante in quel momento – ricordiamolo – tutto lasciasse presagire il contrario. Pitigrilli, scrittore e probabilmente all’epoca già collaboratore dell’OVRA, scrisse una lettera a Rol in cui gli comunicava “Gustavo, si parla in altissimo luogo di te” e poco dopo seguì una convocazione ufficiale a Villa Torlonia. Quando fu al suo cospetto, Benito Mussolini chiese senza troppi preamboli: “Mi dicono che Voi fate delle previsioni. Come va la guerra? Parlate pure liberamente”. Rol, agitato, iniziò a tergiversare. “Vi ho chiesto di riferirmi quello che andate dicendo ad altri. Parlate liberamente. Vi garantisco che non Vi sarà fatto alcun male”, incalzò Mussolini. Allora Rol infine rispose: “Duce, per me la guerra è perduta”. “E il Duce?”, chiese ancora Mussolini. “Gli italiani lo allontaneranno nella primavera del 1945”. A questo punto, Mussolini batté un violento pugno sul tavolo e si alzò in piedi: “Vedremo! Ora vada”, e lo congedò…

Marco Giusti per Dagospia il 25 marzo 2023.

E che ci scordiamo il centenario di Mario Brega? E che possiamo essere così infami? Maddeché…

Ricordiamo solo i capisaldi, come diceva il Piotta ai tempi di Supercafone. “Come so’ ’ste olive?”.  “Sta mano po’ esse ferro e po’ esse piuma”. “Arzate! A ’nfame, arzate!”. “Aoh! Tu lo sai chi so’ io? So’ Mario Brega!”. Certo, che lo sappiamo chi è Mario Brega. Anche se non sappiamo e non sapremo davvero mai tutto su Mario Brega, come scrivevo qualche anno fa presentando l’unica monografia mai scritta su di lui, a opera di Ezio Caldarelli.

E, in fondo, concludevo, non lo vogliamo neppure sapere, perché è tanto più bello sentire le sue storie incredibili e le storie leggendarie che si raccontano ancora nel cinema e a Roma su di lui. Il “fratello perduto e ritrovato di Sergio Leone”, il “miglior amico di Robert De Niro”, quello che menava Gian Maria Volonté, che aveva perso a poker e non voleva pagare, che portava a letto sulle spalle Lee Van Cleef ubriaco perché la mattina dopo si doveva svegliare all’alba… Storie che sono quasi sempre se non in contraddizione, magari un po’ gonfiate, ma che dimostrano come nel cinema è sempre bene che vinca il mito piuttosto che la verità. Regolare.

Prendiamo la celebre scazzottata con Gordon Scott sul set di Buffalo Bill, eroe del West. E che poi dette vita alla memorabile scazzottata coi “due di passaggio” di Borotalco. Ho passato anni cercando di ricostruirla. Assieme a Carlo Verdone, certo, che la riprese già in uno dei suoi spettacoli teatrali, dove interpretava Brega. E grazie a Carlo ho ritrovato la celebre sequenza di fronte a Regina Coeli dove lo stesso Brega la raccontava con grande enfasi, “Questo menava pe’ davero…

 A Franco Fanta’…”. La misi all’interno di una specie di documentarietto, “Coatto come Mario Brega”, girato una ventina d’anni fa prima che nascesse Stracult. Poi incontrai Gianfranco Baldanello, allora aiuto regista del film, che mi raccontò un’altra versione dei fatti: “Avevano organizzato dei movimenti di scazzottata con il maestro d’armi, ma Brega non era molto per la quale... così si era scordato i movimenti e invece di parare il colpo di Gordon Scott gli ha mollato un pugno.

È finito sotto assicurazione e siamo rimasti fermi per tre giorni. La cosa più bella era vedere la faccia di Gordon Scott che durante la proiezione del film guardava il pugno di Brega che gli arrivava addosso”. La stessa cosa mi ha ripetuto più recentemente Sergio D’Offizi, operatore alla macchina sia per le prime scene di Per un pugno di dollari girate a Roma, quelle dove Clint Eastwood tira le botti addosso a Brega, ma anche per quella della celebre scazzottata di Buffalo Bill. “Mario si sbagliò e prese Gordon in pieno. Io dalla macchina vidi proprio Gordon Scott sparire. Mario, poverino si mise a piangere. Allora per uno stuntman dare un pugno vero al protagonista era un fatto grave.” Insomma, qual è la verità?

 Sarà vero quello che dicono Baldanello e D’Offizi? Magari sì. Ma quanto è più bella la storia di Brega che si vendica dell’americano che lo menava pe’ davero, “come da copione, come da copione…”, che lo stende per terra. Davanti a tutti, a Franco Fanta’ e a Osiride Pevarello. Con tanto di finale incredibile e verdoniano… “Sai che fa oggi Gordon Scott in America? Fa… il benzinaio!”. Vero o non vero, a noi Brega piace proprio perché anche nel racconto, nella mitologia del nostro cinema, è il Brega che vorremmo che fosse stato. Il Brega dei film di Sergio Leone e quello di Carlo Verdone, che porta dentro al suo personaggio non solo la rilettura da spaghetti western, ma anche quella verdoniano del fan.

Perché se è Leone a costruire il mito di Mario Brega nel nostro cinema in Per un pugno di dollari e in Per qualche dollaro in più, è poi Carlo Verdone a fissarlo per sempre come personaggio comico coatto romano. A renderlo cinema romano, a renderlo il nostro Mario Brega. Certo, se lo chiedeva anche lui perché quel giorno, negli studi di Alvaro Mancori a Settebagni, Sergio Leone scelse proprio lui e non Renato Baldini o qualche altro attore italiano di secondo piano. E si rispondeva da solo, “perché avevo la faccia da buono. Facevo il cattivo ma avevo la faccia da buono”. Può essere.

Ma la mia tesi, mia personale, è che Leone vide in Brega non solo un fratellone romano, come poteva essere Aldo Fabrizi, ma la chiave perfetta per sintetizzare la sua visione del cinema western e di tutto lo spaghetti western nostrano, il volto e il corpo del romano, anzi del trasteverino da imporre come volto e corpo da western alla Leone. La stessa cosa non accade, mi sembra, con certi attori più noti, tedeschi e spagnoli, presenti in Per un pugno di dollari e imposti dalle coproduzioni.

Ma con Mario Brega ci caschi subito. Come il sigaro e il poncho di Clint Eastwood, come l’asino che “non gli piace che si rida di lui”, come la musica del romano Ennio Morricone, come il sole a picco voluto da Leone e realizzato perfettamente da Massimo Dallamano, imposto da Papi e Colombo, Leone voleva il romanissimo Tonino Delli Colli, il corpaccione e il volto infido e vitale di Mario Brega diventano parte indelebile del cinema western che cambierà tutto il cinema successivo fino alla generazione dei John Woo e dei Quentin Tarantino. E in quel volto si legge la fatica del costruire con pochi soldi qualcosa di completamente nuovo.

Il miglior film che ha girato con Leone?, gli chiederà Carlo Romeo, nell’unica sua intervista che ci è rimasta, a Teleroma 56 nel 1991.  “Per un pugno di dollari”, risponde senza esitazioni. “L’avevamo fatto con la fame. Nun ciavevamo una lira. Papi e Colombo pensavano solo a quell’altro film, Le pistole non discutono con Rod Cameron. A noi nun ce pensavano. Nel  nostro hotel mi chiedevano sempre: Senor Brega, la cuenta. E io: domani, facciamo domani”. E qui non possiamo che credere totalmente alla versione di Mario Brega. All’idea che sia grazie alla fame che quel film è venuto fuori in maniera così speciale. E che la fame sia alla base anche dell’amicizia che ha legato per tanti anni Leone a Brega.

Brega, già attore di parecchi film in ruoli più o meno minori, pensiamo a I mostri o a La marcia su Roma, rinasce totalmente con Sergio Leone e diventa una sorta di braccio destro del maestro del western all’italiana. Anche se sul set recita in romano, come racconteranno tutti i suoi registi. Lo troviamo anche nel curioso The Bounty Killer, diretto dallo spagnolo Eugenio Martin, ma che doveva essere girato proprio da Leone, dove, da cattivo, affronta Tomas Milian al suo primo western. E il direttore della fotografia, guarda un po’, è un altro fratellone romano, Enzo Barboni, poi noto come E.B.Clucher, che proprio da queste esperienze di western con attori romani si inventerà il primo Lo chiamavano Trinità.

Perché, alla fine, come diceva Brega, il mistero del successo di Brega al cinema è proprio l’idea del cattivo con la faccia da buono, tradotta da Verdone per tutti negli anni ’80 col buono che ha la faccia e il corpo da cattivo, di quella mano che “po’ esse piombo e po’ esse piuma”. Un principe col fisico da coatto. Anche se Verdone, a differenza di Leone, riuscirà a imporre un Mario Brega con la sua vera voce romana e cavernosa. Una voce che da subito farà parte del repertorio del cinema di Verdone.

In un gioco di rimandi col cinema precedente e con la figura del Leone produttore assolutamente incantevole. Al tempo stesso Brega sarà, nei film di Verdone e poi in quelli dei Vanzina, sempre più una presenza forte e significativamente di un cinema avventuroso che si ritrova nella commedia. Ma, proprio per questa complessa e in fondo sofisticatissima costruzione di personaggio mitico per il cinema, non ci sarà mai un altro Mario Brega, più che un attore, un’idea di cinema.

Gian Maria Volonté, quell’Oscar per «Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto».  Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 6 Marzo 2023.

L’attore e il suo cinema impegnato, l’amore per Carla Gravina e la nascita della figlia Giovanna, la morte improvvisa per un infarto

Quell’Oscar con Volonté-Bolkan

Un indimenticabile Oscar come miglior film straniero nel ‘71: «Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto» (candidato anche per la miglior sceneggiatura originale di Elio Petri e Ugo Pirro). Un film pluripremiato , firmato da Elio Petri e interpretato da Gian Maria Volonté e Florinda Bolkan. Un film che venne inserito nella lista dei 100 film italiani da salvare. Volonté interpreta un dirigente di Pubblica Sicurezza, nonchè assassino (del quale per tutta la durata del film non viene mai fatto il nome)

La candidatura per «Porte aperte»

Nel 1991, arriva la nomination al Premio Oscar.per il film italiano «Porte aperte» del 1990 diretto da Gianni Amelio: il soggetto è ispirato all’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia . Gian Maria Volonté interpreta il giudice Vito Di Francesco; e Ennio Fantastichini dà il volto a Tommaso Scalia. Il titolo fa riferimento alla propaganda fascista, secondo cui la pena di morte sarebbe stata un deterrente sufficiente a garantire agli italiani di poter vivere con le “porte aperte” anche di notte. Una tesi che viene messa in dubbio dal protagonista del film in una discussione con un collega.

Dagli spaghetti western all’impegno civile

Gian Maria Volonté è stato un grandissimo attore teatrale, cinematografico e televisivo. Nato a Milano, il 9 aprile 1933 è scomparso a Florina, il 6 dicembre 1994) . Viene ricordato per la sua presenza magnetica, tanto che il regista Francesco Rosi disse di lui che «rubava l’anima ai suoi personaggi». Dopo la fama internazionale grazie al ruolo del cattivo negli spaghetti western di Sergio Leone, divenne l’attore-simbolo del cinema d’impegno civile.

La figlia, Giovanna Gravina

L’attrice Carla Gravina ha avuto una lunga relazione con l’attore Gian Maria Volonté, da cui è nata la figlia Giovanna Gravina (1961), che ha assunto il cognome della madre, poiché Volonté all’epoca era sposato con Tiziana Mischi e per legge non poteva riconoscere la figlia. La figlia di Volontè abita da 22 anni alla Maddalena: «Una scelta di sopravvivenza. Il rapporto con la natura è un bisogno: mangio ciò che raccolgo e vado a pescare». Dal 2003, Giovanna, a luglio, organizza in Sardegna, il festival “La valigia dell’attore” dedicato al padre, che proprio nell’isola volle essere sepolto. «Quando decisi di lasciare Roma per trasferirmi alla Maddalena, Gian Maria (lei il padre lo chiama così, per nome, ndr) era morto da un anno. In molti pensavano che volessi seguire le sue spoglie e una volta elaborato il lutto sarei tornata a Roma. Sbagliavano: sono qui da 22 anni e non me ne andrei per nulla al mondo».

Il successo grazie a Sergio Leone

Nel 1965, Gian Maria Volonté viene chiamato da Sergio Leone in Per qualche dollaro in più in cui interpretava El Indio, il sadico criminale tossicodipendente (protagonista, Clint Eastwood). L’interpretazione lo consacrò definitivamente al grande pubblico rendendolo, di fatto, il perfetto cattivo del genere. Volonté interpreterà altri film appartenenti al filone degli spaghetti-western, come Quién sabe? (1966), di Damiano Damiani, e Faccia a faccia (1967), di Sergio Sollima, al fianco di Tomas Milian che ritroverà l’anno successivo in Banditi a Milano di Carlo Lizzani. Nell’autunno 1967 Silverio Blasi, dopo il successo di Michelangelo, rivolle Volonté per il ruolo televisivo di Caravaggio, ma la messa in onda dello sceneggiato subì alcuni interventi di censura da parte dei funzionari RAI, ai quali Blasi e Volonté reagirono presentando alla magistratura un’istanza di sequestro. Le polemiche suscitate fecero sì che l’attore non fosse più convocato in televisione per oltre sedici anni, fino al 1982.

Il no a «Metti una sera a cena»

Convocato dalla produttrice Marina Cicogna, aveva firmato un contratto per il ruolo di Max in Metti, una sera a cena, di Giuseppe Patroni Griffi . Il compenso sarebbe stato il più alto finora ricevuto, 60 milioni di lire, per una commedia di ambientazione alto-borghese che avrebbe segnato una rottura netta nel suo percorso cinematografico fatto di ruoli impegnati e spesso apertamente “schierati”. Dopo il primo giorno di prove, l’attore rinunciò alla parte (che poi andò a Tony Musante, insieme a Jean-Louis Trintignant e Florinda Bolkan) e restituì l’anticipo, ma la produzione lo citò ugualmente in giudizio per aver bloccato l’inizio delle riprese nell’attesa di trovare un altro attore. Bersagliato dalla stampa e dalle associazioni di categoria, Volonté poi spiegò di aver anche rinunciato a un contratto più vantaggioso (quattro film in due anni con Dino De Laurentiis) per il timore di farsi strumentalizzare da persone che perseguono soltanto i propri interessi. La controversia con Marina Cicogna si risolse proprio grazie alla disponibilità di lei, che legò Volonté a un nuovo contratto che prevedeva tre film: uno diretto da Jean-Pierre Melville (I senza nome) e due diretti da Elio Petri, tra cui Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, la sua grande fortuna

Il cinema impegnato

Gian Maria Volonté ha dunque sempre scelto il cinema impegnato . Del resto le sue scelte sono sempre state nette: Volonté è stato iscritto al Partito Comunista Italiano fino al 1977. Il 16 giugno 1975 venne eletto consigliere regionale del Lazio, ma soltanto sei mesi più tardi decise di dimettersi. Fu candidato dal Partito Democratico della Sinistra in occasione delle elezioni politiche del 1992 nella circoscrizione Roma-Viterbo-Latina-Frosinone, risultando secondo dei non eletti]13]. Nel 1981 aiutò l’amico Oreste Scalzone, militante di Autonomia Operaia, a sfuggire al mandato di cattura emesso contro di lui in relazione al cosiddetto Processo 7 aprile, scortandolo clandestinamente con la sua barca in Corsica da dove poi, facendo scalo in Danimarca, si rifugiò in Francia. Alcuni dei titoli forti, di cinema politicamente impegnato, in cui ha recitato nel corso degli anni Settanta sono: Uomini contro (1970), Il caso Mattei (1972), entrambi di Francesco Rosi, nonché in Sacco e Vanzetti (1971) e Giordano Bruno (1973) di Giuliano Montaldo, La classe operaia va in paradiso di Elio Petri (1971) e Sbatti il mostro in prima pagina di Marco Bellocchio (1972). Diretto nuovamente da Rosi, ritrovò il successo con Cristo si è fermato a Eboli (1979), tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Levi, che ricevette diversi premi nazionali e internazionali

L’ultimo film, «Lo sguardo di Ulisse» di Theo Angelopoulos

Nei primi anni Novanta, l’attore vive una crisi depressiva. e lavora in un paio di pellicole poco note. Nel 1994 giunge una parte di rilievo in Lo sguardo di Ulisse di Theo Angelopoulos. Il 6 dicembre del ‘94 Volonté muore improvvisamente, durante le riprese del film, all’età di 61 anni, a causa di un infarto. Viene sostituito da Erland Josephson e il film verrà dedicato alla sua memoria. Il suo funerale si svolge a Velletri, dove risiedeva. Le sue spoglie riposano, come da sua volontà, sotto un albero nel piccolo cimitero de La Maddalena, in Sardegna.

L’amore per Carla Gravina

Carla Gravine, grande attrice e madre di sua figlia, ha detto, anni fa in una intervista: «Ho iniziato come attrice di cinema, e mi piaceva tanto, ma la mia carriera sullo schermo si è come interrotta dopo l’incontro con Gian Maria e la nascita di Giovanna. Una storia d’amore con un uomo sposato e una figlia nata fuori dal matrimonio: nei primi anni Sessanta non era una cosa accettabile, fu uno scandalo e il cinema mi chiuse le porte. Non mi facevano lavorare. Ricevetti molti insulti, però mi piace ricordare ci furono anche tante donne che mi scrissero lettere di incoraggiamento». Con Volonté poi l’amore finì. «Non era un uomo facile e anche io, insomma, ero tosta. Però l’ho amato tanto e lo amo ancora. Quando in televisione trasmettono un suo film e lo vedo mi emoziono ancora»

Massimo Troisi avrebbe 70 anni: gli inizi in un teatro parrocchiale, la censura a Sanremo, l’amicizia con la protagonista di «Flashdance», 20 (+1) segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 19 Febbraio 2023.

Una raccolta di aneddoti e curiosità, dalla A alla Z, per ricordare l’indimenticato attore e regista nato a San Giorgio a Cremano il 19 febbraio 1953

A di Annunciazione, annunciazione

Il 19 febbraio 1953, a San Giorgio a Cremano, nasceva Massimo Troisi. Pulcinella senza maschera, “re degli asincroni” (così lo ha definito il suo amico di sempre Lello Arena), proprio oggi avrebbe festeggiato i suoi 70 anni, se il suo cuore «pazzariello» non ce lo avesse portato via il 4 giugno 1994. Vogliamo ricordarlo con una raccolta di aneddoti e curiosità tra vita e carriera, partendo da uno degli sketch più famosi della Smorfia (il trio comico di cui faceva parte l’attore e regista, con cui conobbe il successo), «Natività»: Troisi vestiva i panni dell'umile moglie di un pescatore scambiato dall’Arcangelo Gabriele/Lello Arena e da un Cherubino/Enzo Decaro per la Vergine Maria. «Annunciaziò! Annunciaziò! Tu Marì, Marì, fai il figlio di Salvatore, Gabriele ti ha dato la buona notizia». Il personaggio dell’Arcangelo Gabriele - con la sua celebre esclamazione - prendeva spunto dal sacerdote che insegnò religione a Troisi alle scuole elementari. Oggi «Natività» è un classico della comicità, ma ai tempi lo sketch fu accusato di vilipendio della religione di Stato.

B di Benigni (Roberto)

«Massimo Troisi era un bell'attore, un bel regista e anche un bell'uomo. La sua è stata una perdita, un vuoto incolmabile. Con lui c'era un'amicizia e un amore speciali che raramente capitano. Quando eravamo insieme ci divertivamo moltissimo, bastava che ci guardassimo e ridevamo». Così ricordava qualche anno fa Roberto Benigni il suo grande amico Massimo Troisi, con cui nel 1984 ha scritto, diretto e interpretato quel capolavoro che è «Non ci resta che piangere». Morto Troisi Benigni ha scritto una commovente poesia a lui dedicata («Ha fatto più miracoli il tuo verbo di quello dell’amato San Gennaro» cit.). E in «La vita è bella» (1997) lo ha omaggiato con alcune citazioni: Benigni che in teatro cerca di far girare la maestra con la telepatia è un riferimento a Troisi che cerca di spostare un vaso con la forza del pensiero in «Ricomincio da tre» (1981), e la scena in cui Benigni corre intorno all’isolato per incontrare “casualmente” Nicoletta Braschi è la stessa trovata utilizzata da Troisi per incontrare Fiorenza Marchegiani in «Ricomincio da tre».

C di Clarissa Burt (e Nathalie Caldonazzo)

A proposito della vita privata di Massimo Troisi negli ultimi anni della sua vita l’attore fu legato sentimentalmente prima a Clarissa Burt («Ci lasciammo perché quando si sta insieme si sta in due e non in duecento. Ci lasciammo per questo», raccontava lei qualche mese fa al Corriere) poi a Nathalie Caldonazzo.

D di Daniele (Pino)

Con Pino Daniele Troisi instaurò una grande amicizia culminata in un grande sodalizio artistico: il cantautore infatti si occupò delle colonne sonore dei suoi film «Ricomincio da tre», «Le vie del Signore sono finite» e «Pensavo fosse amore invece era un calesse». Nel 2008 il cantautore gli dedicò il suo cofanetto di successi «Ricomincio da 30» («Caro Massimo questo progetto è dedicato a te. Nu Bacio! Pino», si legge sul retro del libretto allegato al lavoro discografico).

E di Ettore Scola

«Con Massimo abbiamo fatto tre film per il piacere di stare insieme». Ettore Scola diresse Troisi in tre pellicole: «Splendor» (1989), «Che ora è» (1989) e «Il viaggio di Capitan Fracassa» (1990). Per «Che ora è» l’attore napoletano e Marcello Mastroianni vinsero ex aequo alla Mostra del Cinema di Venezia la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile.

F di Famiglia

Per i suoi film e sketch Troisi - ha raccontato - ha preso spesso ispirazione dalla sua famiglia. Ad esempio il personaggio di Alfredo, attore comico di successo (interpretato da Franco Acampora) in «Scusate il ritardo», è autobiografico, mentre in «Ricomincio da tre» la scena del matrimonio della sorella, interpretata da Cloris Brosca, si ispira alle nozze della sorella dell'attore.

G di Garage

Ad appena 15 anni, mentre frequentava l'Istituto tecnico per geometri, Troisi esordì nel teatro parrocchiale della Chiesa di Sant'Anna insieme con alcuni amici d'infanzia (tra cui Lello Arena). In quegli anni Troisi iniziò a firmare atti unici e spettacoli teatrali, che portò in scena con la compagnia Rh-Negativo (a cui si aggiunse Enzo Decaro) in un nuovo spazio: un garage in via San Giorgio Vecchio 31 in cui venne fondato il Centro Teatro Spazio.

H di Houston

Per i suoi problemi di cuore Troisi fu operato per la prima volta a Houston, negli Stati Uniti, nel 1976 (per pagare il viaggio fu organizzata una colletta). Tornò in Texas nel 1993, per un controllo: «Dovevamo stare una settimana, restammo un mese e mezzo - ricordava Nathalie Caldonazzo, intervistata dal Corriere -. Lo ricordo come in un film: eravamo in sala d’attesa, entra il dottore, prende carta e penna e disegna il suo cuore. “E’ di un settantenne. Bisogna operare, ma decidi tu”. Ci guardammo, pensammo che fosse l’unica cosa da fare, invece fu una tragedia». Troisi decise di non sottoporsi ad un trapianto, per finire «Il postino» (il film a cui stava lavorando), con il suo cuore.

I di Il viaggio di Capitan Fracassa

Ne «Il viaggio di Capitan Fracassa», adattamento cinematografico del romanzo di Théophile Gautier «Il Capitan Fracassa», Massimo Troisi interpreta Pulcinella. Durante le riprese, nel 1989, conobbe Jennifer Beals (la Alex di «Flashdance»), anche lei impegnata a Cinecittà con le riprese del film «Doctor M.» di Claude Chabrol. «Lui era una persona veramente magica e siamo diventati molto amici - ha raccontato lei in un’intervista -. Non ho mai incontrato una persona così capace di giocare con il suo modo di parlare. Abbiamo trascorso molti giorni e molte notti insieme parlando delle nostre vite, di cinema, guardando film, andando in giro di notte per le strade di Roma».

L di Laggiù qualcuno mi ama

Il 23 febbraio 2023 arriverà al cinema il docu-film di Mario Martone omaggio a Massimo Troisi, «Laggiù qualcuno mi ama», presentato al 73º Festival Internazionale del Cinema di Berlino nella sezione Berlinale Special. «Massimo è sempre rimasto vivo nell’immaginario collettivo, perché era una grande anima e un grande artista. Facciamo questo film per riascoltarlo, rivederlo, stare con lui». L’obiettivo di Martone è mettere in luce Troisi come grande regista del nostro cinema prima ancora che come grande attore comico, delineando la sua parabola artistica dagli inizi alla fine.

M di Maradona

Gran tifoso del Napoli Troisi era molto amico di Diego Armando Maradona. Giocarono insieme durante una partita di beneficenza, proprio allo Stadio San Paolo (che oggi porta il nome del campione argentino).

N di Non stop

Non stop (1977) fu il primo programma a cui partecipò La Smorfia, il trio composto da Massimo Troisi, Lello Arena ed Enzo Decaro (che prima si facevano chiamare I Saraceni). Il nome La Smorfia fu un’idea di Massimo: quando Pina Cipriani, direttrice del teatro San Carluccio di Napoli, chiese ai tre «Ma come vi chiamate?» Troisi rispose con una smorfia. «Smorfia» è anche legato alla tradizione napoletana dell’interpretazione dei sogni per il gioco del lotto.

O di 'O ssaje comme fa 'o core

Questa poesia di Troisi messa in musica dall'amico Pino Daniele (e inserita nell’album «Sotto 'o sole» del 1991) fa riferimento all’amore ma anche alle patologie al cuore che Troisi e Daniele condividevano.

P di Pavignano (Anna)

L’incontro con Massimo Troisi alla fine degli anni Settanta - sul set di Non stop - ha letteralmente cambiato la vita di Anna Pavignano. «Lui stava registrando questa trasmissione televisiva - spiegava nel 2008 la sceneggiatrice e scrittrice piemontese - erano i tempi della Smorfia con De Caro e Arena. Io lavoravo nello stesso programma come comparsa. All'epoca studiavo, frequentavo ancora l'università. Ero iscritta a medicina che poi ho lasciato per psicologia». In seguito il produttore Mario Berardi chiese a Troisi di fare un film: «Diede carta bianca a Massimo dicendo: "scrivi quello che vuoi". Lui mi coinvolse perché aveva letto le cose che io scrivevo, allora in qualche modo abbiamo fatto confluire nella storia quella che era la nostra vita e la mentalità di quel periodo, le nostre esperienze alla fine degli anni '70. Il testo è stato scritto in una casa sul lago di Nemi, dove abitavamo io, Massimo, Lello Arena e Gaetano Daniele, che è un amico storico di Massimo, diventato poi co-produttore». Con Troisi Anna visse una lunga storia d’amore, che durò dieci anni, ma anche dopo la separazione i due continuarono a lavorare insieme: Pavignano scrisse le sceneggiature di «Ricomincio da tre» (1981), «Morto Troisi, viva Troisi!» (1982), «Scusate il ritardo» (1983), «Le vie del Signore sono finite» (1987), «Pensavo fosse amore... invece era un calesse» e «Il postino» (1994).

Q di Quando

Pino Daniele ha scritto «Quando» per la colonna sonora di «Pensavo fosse amore... invece era un calesse» (1991). Emozionante il filmato - visibile in rete - del cantautore che fa ascoltare la prima stesura della canzone all’amico Troisi, prima in cuffia («Questa è già ‘o sapore ddo film») poi dal vivo (fu l’attore e regista a suggerire alcune modifiche al testo).

R di Ricomincio da tre

Grande successo di pubblico e critica per «Ricomincio da tre» (1981), prima esperienza cinematografica di Troisi (sia come attore che come regista): ottenne incassi record e vinse numerosi riconoscimenti tra cui due David di Donatello e quattro Nastri d'argento. Molte scene sono entrate nella memoria collettiva, come quella in cui Gaetano/Troisi cerca di «salvare» dalla madre l’impacciato Robertino (interpretato da Renato Scarpa): «Quali complessi? Tu tieni un’orchestra intera in capa».

S di Sanremo

Un mese prima del suo esordio cinematografico Troisi fu chiamato da Gianni Ravera come ospite comico al Festival di Sanremo. Temendo un nuovo caso Benigni (l’anno prima il comico toscano aveva fatto irritare la Chiesa chiamando Giovanni Paolo II «Wojtylaccio») gli organizzatori vollero leggere in anticipo i testi preparati dall’attore, che avrebbe anche voluto improvvisare. La Rai propose a Troisi alcuni tagli - nei testi c’erano riferimenti a religione, politica e terremoto in Irpinia -, di ridurre al minimo l'improvvisazione e di fare un solo intervento (e non tre). Dopo una celebre intervista in cui ironizzò su quanto accaduto («Sono indeciso se portare una poesia di Pascoli o di Carducci») mezz'ora prima della diretta Troisi annullò la sua partecipazione.

T di Trastevere

Nel 1997 il cinema all’interno dell'edificio dell'ex GIL (progettato nel 1933 da Luigi Moretti, inaugurato nel 1937 e precedentemente dedicato a Induno), nel quartiere di Trastevere a Roma, è stato dedicato a Massimo Troisi.

U di Ultimo film

Massimo Troisi è morto a soli 41 anni il 4 giugno 1994, il giorno dopo l’ultimo ciak del suo ultimo film: «Il postino». L’idea di realizzare la trasposizione cinematografica del romanzo «Il postino di Neruda» (1986) di Antonio Skármeta venne proprio all’attore e regista, che dopo aver letto il libro volle a tutti i costi comprarne i diritti.

V di Verdone (Carlo)

Anche Carlo Verdone è stato un grande amico di Massimo Troisi: entrambi hanno mosso i primi passi televisivi nel programma Non stop. «Ci conoscemmo mentre eravamo in volo per Catania, io andavo a presentare “Bianco Rosso & Verdone” e lui il suo primo film “Ricomincio da Tre”», ha raccontato qualche anno fa Verdone, l'unico che riusciva a portare Troisi al cinema: «Pigro, geniale, lento, creativo e spiritoso come pochi, Massimo usciva molto poco da casa. Ero l'unico che riusciva a portarlo al cinema - scriveva Verdone nel 2020 su Facebook -. Ma si raccomandava di andare sempre al primo spettacolo, non voleva essere assalito dalle persone. Ma quel giorno la sala era piena pure alle 15:30. Non ricordo quale film fosse, di sicuro eravamo al cinema Gioiello, piccola sala sulla via Nomentana. Un paparazzo ci seguì e scattò questa foto (qui sotto, ndr.). E che ora un mio amico fotografo, trovata nel suo archivio, mi regala».

Z di Zio Vincenzo

In «Scusate il ritardo» (1983) Patrizia (interpretata da Lina Polito) sgrida sua figlia - che fa i capricci - con la minaccia «guarda che se non la smetti ti faccio mangiare da Zio Vincenzo!». Memorabile la risposta del diretto interessato, interpretato da Troisi: «Pecché devi dì sti ccose a 'a guagliona? Uno s'adda mettere paura proprio 'e me? Sta tanta gente cca e me l'aggia mangià proprio io 'a guagliona? Eh no, pecché poi si ricorda 'e sta cosa, dice: “Zio Vincenzo lo odio, perché da piccola mi dava i morsi, mi mangiava...”. Ma pecché? Ce sta tanta gente, falla mangià da Alfredo».

Estratto dell'articolo di Marina Cappa per “Vanity Fair” il 26 febbraio 2023.

 Quando Massimo Troisi la vide per la prima volta, Anna indossava una microgonna e un caschetto di nylon rosa. Oggi i capelli sono biondo-grigi, sono passati quasi 50 anni da quel primo incontro. In mezzo, c’è stato il grande amore con Massimo, poi altri mariti e figli. Un lavoro fatto di romanzi e sceneggiature, da Ricomincio da tre a Laggiù qualcuno mi ama, documentario di Mario Martone che sarà presentato al Festival di Berlino, per poi arrivare in sala. […]

Torinese, un po’ femminista, studentessa di psicologia, incontra un napoletano, dieci anni di studi da geometra, cabarettista della Smorfia e forse un poco maschilista…

«Sì, c’erano molte differenze culturali ma anche un tentativo di adeguamento reciproco. Sono stata travolta da tante cose: Napoli, Massimo, la sua famiglia così numerosa, erano sei fratelli, mogli, nipoti. Mi sono innamorata. Lui non pretendeva di essere femminista, ma ha capito al volo che c’era qualcosa da cambiare, è stato facile capirsi. Certo, alcuni tratti maschilisti in lui venivano fuori».

Per esempio, la gelosia?

«“Sono cresciuto con questa mentalità, l’onore, le corna, non me ne posso staccare”: è diventata una battuta di Ricomincio da tre, ma era qualcosa di cui avevamo parlato».

 […] Lei pensava al matrimonio, ai figli?

«Al matrimonio con Massimo no. I figli lui non li voleva, aveva un certo timore delle responsabilità e, fino a un certo punto, io ero d’accordo. In seguito, abbiamo avuto desideri diversi, e questo qualche attrito lo ha creato».

 […]

Massimo sarebbe stato geloso di Anna al lavoro con un altro?

«Penso di sì. A volte ho qualche rimpianto: mi rendo conto che tante occasioni non le ho sfruttate, per esempio non ho mai provato la regia, non mi sono messa in gioco, forse potevo farlo. Ma allora era giusto così, non volevo espormi in quanto fidanzata, in pubblico stavamo distanti per non farci fotografare insieme. Con lui vivevo la quotidianità dei sentimenti, pensando che così mi stavo formando. Se però fossi la madre della ragazza che ero, oggi le direi: “Fai anche qualcosa di concreto”».

[…] Troisi ebbe una prima operazione al cuore da ragazzo, e la seconda – non riuscita – l’ultimo anno. La malattia quanto era presente in lui?

«Non lo era. C’era una qualche rimozione, quando eravamo insieme non ho mai avuto la preoccupazione che potesse peggiorare. Stava bene, viveva come una persona normale, solo aveva bisogno di un po’ di accudimento in più. Ma questo era legato soprattutto al suo carattere. Esempio: usava sempre il taxi, anche per tratti brevissimi, ma lo faceva più per pigrizia. Giocava a pallone, andava in giro, non ha mai fatto una vita da malato, e non avrebbe comunque voluto».

Lei ha studiato psicologia: qual è la diagnosi su di lui?

«Per uno psichiatra sarebbe un narcisista, come tutti gli artisti. Ma forse meno di altri: un narcisista umile. Aveva voglia di esserci, però aveva una timidezza che era anche modestia, detestava chi diceva di sé di aver fatto cose meravigliose. Era sempre critico, insoddisfatto, cercava continuamente qualcosa di meglio».

Come si lavora e si vive accanto a un narcisista?

«Ai tempi, non sentivo di annullarmi standogli vicino, sono stati anni molto belli. Ora penso che forse mi sarei dovuta imporre di più».

 C’è un atto d’amore di lui che ricorda?

«Una volta mi venne a prendere alla stazione. Sembra poco? Per la sua pigrizia era tanto. Poi, mi ha scritto poesie molto belle».

[…] Se fosse vivo, Troisi festeggerebbe i 70 anni?

«Sì, amava le feste, e soprattutto ricevere regali. Io gli ho regalato tanti portapillole, perché andava sempre in giro con queste pastiglie da prendere a orari precisi e regolarmente se ne dimenticava».

Ida Di Grazia per leggo.it il 18 gennaio 2022.

Tra le sorprese di questa edizione del Grande Fratello Vip c'è senza ombra di dubbio Nathaly Caldonazzo. L'attrice ha raccontato la sua storia e il suo rapporto con gli uomini, che spesso sono stati cattivi con lei. Tra loro però c'è un'eccezione ed è stato Massimo Troisi. 

«Sono passati 28 anni - racconta emozionata la Caldonazzo - ero al ristorante con una mia amica e lui mi guardava continuamente, uscendo l'ho salutato e non se l'aspettava. Ha chiesto al proprietario come mi chiamavo, ma io all'epoca avevo un cognome diverso e quindi non mi trovava, poi il suo miglior amico si mise con la parrucchiera di mia sorella e mi invitò a prendere un caffè a casa sua. Mi aprì quest'uomo affascinante, e subito ho pensato potesse essere il mio uomo».

Nathaly e Massimo Troisi hanno vissuto insieme gli ultimi due anni di vita dell'attore napoletano: «Abbiamo fatto viaggi meravigliosi, poi durante l'ultimo viaggio in Costa Rica dimenticò un po' le medicine ed era molto affaticato. Io sapevo della sua malattia - spiega Nathaly - sentivo il ticchettio del suo cuore, mi raccontò che a 18 anni gli si fermò il cuore dopo una partita e il suo quartiere fece una colletta per farlo operare a Houston». 

Le fatiche del viaggio costrinsero la coppia a volare proprio a Houston e il responso del medico non fu dei migliori: «Gli dissero che aveva un cuore di un settantenne, pieno di cicatrici e si doveva rioperare, ma l'operazione non andò bene. Rimanemmo un mese e mezzo in quell'ospedale. Io avevo 25 anni, ha avuto un infarto sotto i ferri, ma io non gliel'ho mai detto, e doveva fare un trapianto.

Non riuscivamo mai a tornare. Dopo un mese e mezzo siamo tornati e lui ha voluto per forza fare il suo film (Il Postino ndr). Morì il 4 giugno e aveva la morte in faccia, facevo di tutto ma lui era caduto in una depressione molto forte, era difficile tirarlo fuori. Mi disse una frase di Neruda: "Il depresso è come un prigioniero con la porta aperta, io mi sento così". Mi manca come essere umano, come persona, ha sempre preso di mira se stesso e mai gli altri, non credo manchi solo a me».

Natascia Festa per corriere.it il 17 dicembre 2022. 

«Avrebbe compiuto 70 anni il 19 febbraio 2023. Massimo era un Aquario cuspide Pesci. Non che se ne importasse molto dei segni zodiacali, ma le stelle - alle quali è tornato - lo avevano disegnato così: sognatore e appassionato come un Aquario, protettivo e artista come un Pesci. E come un pesce non lo acchiappavi mai». Ricordando, sorride Nathaly Caldonazzo che aveva 24 anni quando conobbe il trentanovenne Massimo Troisi, all’apice della carriera e consapevole del suo charme.  

Non era più il ragazzo timido di San Giorgio a Cremano quando si mise in testa che quella bionda, figlia di una ballerina olandese delle Bluebell da cui aveva ereditato bellezza e seduzione, doveva dirgli di sì. Così Nathaly diventa l’ultima fidanzata di Troisi. Vivevano insieme a Roma, quando lui finì di girare “Il postino”: tra l’ultimo ciak e l’ultimo respiro passarono appena 24 ore. 

Ma partiamo dall’inizio, Nathaly. Come vi siete conosciuti?

«Era primavera inoltrata, lo ricordo come fosse ora. Dopo le sette di sera c’era ancora luce. Io venivo da un set fotografico: ero tutta truccata, carina. E affamata. Entro in un ristorante e lui era seduto a un tavolo con altre due persone. Da qual momento non mi ha tolto gli occhi da dosso. Vista l’insistenza, quando sono uscita dal locale gli faccio: “Ciao”. E lui: “Ciao”, risponde imbarazzato».

Lei ovviamente sapeva chi fosse.

«Sì, e non mi piaceva affatto. In quel periodo ero fidanzata con un ragazzo che avevo rubato alla mia migliore amica. Sì, avevo fatto un macello, un errore madornale che non ho mai più ripetuto. Dopo averlo sfilato all’amica, mi accorsi però che non me ne fregava nulla. In questa mia confusione emotiva, Massimo si è intrufolato benissimo». 

Come l’ha trovata dopo quel furtivo “ciao”?

«Ha chiesto il mio nome al proprietario del ristorante che però gli diede solo il cognome: Caldonazzo. Così mi cercò sull’annuario degli attori, ma non mi trovò; io ero registrata Snell (come sua madre; ndr). Il destino ha fatto il resto: il suo migliore amico dell’epoca, Massimo Bonetti, si fidanzò con la parrucchiera di mia sorella. Lo chiamò e gli disse: “Massimo, per la Caldonazzo abbiamo risolto. Va a farsi i capelli da Elena”». 

Quindi?

«Mi fa chiamare dalla parrucchiera che mi fa: c’è questo Massimo Troisi che ti vorrebbe telefonare… Posso dargli il numero? A quel punto cedo. Anche perché, la certezza che non mi piacesse mi faceva sentire al sicuro. Il giorno dopo mi arriva questa telefonata durante la quale, inutile dirlo, mi fa ridere molto. Stiamo un’oretta al telefono. E alla fine l’invito. “Un caffè da me?”. Rifiutai.  

Lui insistette molto e io mi lasciai convincere sempre per lo stesso motivo: tanto non mi piace! Arrivai davanti alla porta di casa sua. Mi aprì ed era bello come il sole: jeans, t-shirt e spalle enormi da maschio mediterraneo. Dico la verità, pensai: che gran figo! E non fu più vero che non mi piaceva affatto. Parlando sul divano pieno di sole, sentii questo tic tic… “Cos’è?”, gli chiesi. E lui: ‘O core mio. E mi raccontò della valvola ma senza particolare preoccupazione». 

“’O core mio” era anche una metafora d’amore, no? 

«Non pensai a una cosa romantica, mi dispiace deluderla. Lui mi incalzava con gli inviti. Che fai quest’estate? Vieni a cena da me domani… Andai. C’era il nostro amico comune e produttore americano Gianni Nunnari con la nuova fidanzata. Dopo cena decisero di andare a Porto Rafael in Sardegna. All’inizio rifiutai: “Non ci penso minimamente” e tra me e me pensavo che ero fidanzata e non avrei dovuto nemmeno starci in quella casa. In un niente però, mi ritrovai con loro in aeroporto, in partenza per Olbia. Una follia. 

Arrivati lì, gli diedi la buonanotte e mi chiusi nella stanza di questa grande villa che ci ospitava: se non te ne frega molto di chi ti corteggia, sei più decisa e risulti pure più attraente. Ma Massimo se la prese e il giorno dopo, in barca, non mi rivolse la parola. Ero nel panico: mia madre aveva saputo che ero partita con un attore molto più grande di me e il mio fidanzato non si era bevuto la bugia pessimamente inventata che gli avevo propinato. Il tutto per uno che non mi parlava nemmeno: è la fine, pensai. Invece era l’inizio». 

Racconti: ora vogliamo sapere tutto. Troisi, per chi lo ama, è come un parente. E dobbiamo sapere.

«Tutto successe quando dalla barca passammo al tender: era al tramonto, io ero triste e stavo per i cavoli miei quando lui mi abbraccia da dietro con il suo maglione, in silenzio. E stiamo così fino a quando mi chiede: restiamo qui un altro giorno io e te? Così ci conosciamo meglio”. Da allora non ci siamo più lasciati». 

Al rientro? 

«Novella 2000 ci aveva paparazzati: presi una sberla dal mio fidanzato e urla da mia madre. Intanto ci eravamo innamorati e siamo stati insieme negli ultimi due anni della sua vita».

Coppia bellissima: quanto l’abbiamo invidiata…

«Sì, eravamo molto uniti. Ci siamo presi totalmente, nel bello e nel brutto». 

Qual è stato il bello?

«L’amore e i viaggi: è noto che Massimo fosse sedentario e proverbialmente pigro. Certe sere mi faceva preparare a puntino, io mi mettevo in tiro per uscire e poi: “Amo’ veramente mi è passata la voglia. Rimaniamo a casa?”. Era così tenero. Con i viaggi svoltammo. 

Massimo non aveva viaggiato tanto, era stato solo a Santo Domingo, ma con me iniziò a farlo: Los Angeles, Belize, Miami e tanta Europa. Per il viaggio a Parigi mi fece uno scherzo: disse che non poteva portarmi perché si trattava di lavoro. Il giorno dopo eravamo a casa e mi telefonò. Lo facevamo spesso perché l’appartamento era a due piani. Scesi e trovai sul pavimento i biglietti con il mio nome». 

Sorprese d’amore. E litigate?

«Tante, soprattutto per gelosia: sia sua che mia. Era molto vendicativo nella relazione. Te la faceva pagare sempre. Ricordo una sera in Sardegna c’era una tavolata con una trentina di persone. Il figlio del proprietario della villa si era rotto un braccio e non riusciva a mangiare, così lo imboccai. Non l’avessi mai fatto. Per tutta la sera, Massimo non mi guardò più e parlò solo con le altre donne di quella tavolata: solo che si chiamavano Monica Bellucci, Isabella Ferrari e Alba Parietti… non so se mi spiego. Litigammo tutta la notte».

Com’era la convivenza con Troisi?

«Ci divertivamo. A me piace cucinare e passavo molto tempo a imparare i piatti che gli piacevano di più: gateau, salsiccie e friarielli, pasta con le polpettine e la ricotta. E che gioia quando arrivavano le mozzarelle da Napoli. Ricordo la festa intorno a quei contenitori di polistirolo dai quali uscivano delle trecce pazzesche, grandi come bambini». 

E il brutto qual era?

«Iniziò durante un viaggio in Costa Rica: eravamo a San José, la capitale. Avevamo fatto un casting perché Massimo cercava volti femminili per “Il Postino”. Non li trovammo. Così lanciammo una moneta in aria per decidere se andare a Nord o Sud. Scegliemmo Limon, Puerto Viejo: capanna sulla spiaggia e nulla intorno a noi. Lui aveva finito le medicine, gli venne l’asma, iniziò a non stare bene. Tornammo finalmente, eravamo un po’ provati da questo viaggio, ma dopo una settimana lui volle ripartire: “Dobbiamo andare a Los Angeles da Redford e passiamo per Huston: devo fare un controllo al cuore”. Era lì che si era operato la prima volta a 18 anni. La buttò giù così, in maniera light. A Los Angeles stette benissimo: faceva addirittura allenamento sul tapis roulant. Avevamo un albergo su una spiaggia magnifica. A Huston presi alloggio di fronte alla clinica perché non mi facevano dormire con lui. Dovevamo stare una settimana, restammo un mese e mezzo. Lo ricordo come in un film: eravamo in sala d’attesa, entra il dottore, prende carta e penna e disegna il suo cuore. “E’ di un settantenne. Bisogna operare, ma decidi tu”. Ci guardammo, pensammo che fosse l’unica cosa da fare, invece fu una tragedia». 

Lei ha detto che “Il postino” l’ha ucciso. 

«E’ vero. Era ostinato a finire il film anche senza forze. Non a caso ha cambiato il finale: nel libro Mario non muore. Nella sua versione sì. Se non è premonizione questa… Quando è morto io ero stata fuori per due giorni. Lui aveva finito di girare ed era a casa della sorella, nei pressi di Cinecittà. Aveva lasciato detto che se avessi telefonato io avrebbero dovuto svegliarlo. Io chiamo, la sorella va, ma lui non si sveglia. Io suggerisco di lasciarlo riposare. 

Rientro a Roma, arrivo a casa per raggiungerlo di corsa e sento la segreteria telefonica che impazzisce, un messaggio dopo l’altro. Ettore Scola, che era uno dei suoi migliori amici, l’architetto che ci stava rifacendo il bagno, tanti altri… ma non ci faccio caso. Sono di corsa, devo andare da lui. Invece era già morto: la tv l’aveva annunciato. Stavo per uscire quando chiamò mia madre: ora devi essere forte. Solo allora capii. Corsi da lui, gli misi una lettera tra le mani. Del resto non voglio parlare».

Cosa ha conservato di Massimo?

«Ho portato con me alcuni suoi pigiami e il maglione blu di Armani che aveva addosso durante quell’estate così felice. Ogni tanto lo rimetto, mi fa sentire bene, è la mia coperta di Linus».

Clarissa Burt e l’amore con Massimo Troisi: «Ci lasciammo perché insieme si sta in due, non in 200. Prendeva i farmaci e poi giocava a calcio». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 10 Dicembre 2022.  

L'attrice ed ex modella, che oggi ha 63 anni, ricorda l’attore scomparso nel 1994 nel documentario di Alessandro Bencivenga (dal 15 dicembre nelle sale): «Per il problema al cuore prendeva medicine in maniera disciplinata, sembrava che tutto si potesse gestire»

Clarissa Burt, un amore lungo tre anni nella vita di Massimo Troisi. Ne parla col suo fare gentile e un filo distante. È una delle voci del documentario «Il mio amico Massimo» di Alessandro Bencivenga, dal 15 al 21 dicembre nelle sale per Lucky Red, uno dei quattro che si stanno ultimando (compreso quello in uscita di Mario Martone). Nel 2023 saranno 70 anni dalla nascita di Troisi, scomparso nel 1994, tradito dal suo cuore malandato.

Come vi conosceste?

«Nel 1988, a cena da amici, era inverno, io mi lamentavo per il riscaldamento ma avevo in casa un camino. Massimo il giorno dopo mi mandò un furgoncino pieno di legna con un bigliettino: per tenerti al caldo».

E cominciò la storia.

«Era dolce, carino, affettuoso. Mi colpivano la sua gentilezza e la sua calma».

Dicono che amasse le carte e il biliardo.

«Nei tre anni in cui siamo stati insieme non l’ho mai visto giocare né a carte né a biliardo. Massimo si svegliava tardi, poi andava nello studio a scrivere progetti. Erano usciti i computer e i primi rudimentali cellulari. Era affascinato dalla tecnologia. Se rivedeva mai i suoi film? No, mai».

Quando recitava in napoletano stretto lo capiva?

«Ci ho messo un po’, ho dovuto imparare. Massimo mi “tradiva” anche le canzoni, per esempio "Malafemmena". Scusi, volevo dire mi traduceva».

Lapsus freudiano.

«Sì, ci lasciammo perché quando si sta insieme si sta in due e non in duecento. Ci lasciammo per questo».

La stessa situazione la visse con Francesco Nuti. Una donna così desiderata, come lo spiega?

«Non me lo spiego, dovete farvi qualche domanda voi uomini. Parlo di tutti gli uomini sulla faccia della Terra, non solo di quelli italiani».

Quelle di Troisi erano interpretazioni nevrotiche e piene di grazia.

«Era una napoletanità originale, mai scontata».

Carlo Verdone dice che era pigro.

«Sì, un tocco di pigrizia c’era in lui. Facevamo vita di casa, gli habitué erano l’attore Massimo Bonetti e l’autore televisivo Giovanni Benincasa».

Il ritratto di una coppia casa e pantofole.

«Io preparavo le torte, poi era il periodo che facevo tv nel programma di Raffaella Carrà. Ma uscivamo anche. Ricordo quando vinse lo scudetto il Napoli: andammo a festeggiare in barca con tutta la squadra, Maradona conosceva i film di Massimo».

Lei lo accompagnò al Festival di Venezia?

«Sì, quando vinse la Coppa Volpi per "Che ora è" di Ettore Scola. Ci chiamarono dal festival chiedendoci di non partire. Risposi io, cominciai a saltellare sul letto, allora hai vinto! E Massimo, non dire così, per carità, mi hanno solo chiesto di restare... Era superstizioso».

Vinse ex aequo con Marcello Mastroianni.

«Adoravo la sua semplicità, se penso agli attori di oggi».

Del problema al cuore le parlava?

«Sapevo che c’era quel problema, prendeva medicinali in maniera disciplinata, poi giocava a calcio, era una cosa che sembrava si potesse gestire, nessuno pensava che se ne sarebbe andato così presto, nemmeno lui. Quando morì ero appena tornata in America. Ripresi l’aereo e andai al funerale. Ci ho messo dieci anni per vedere il suo ultimo film, "Il postino"».

Quando arrivò in Italia?

«Nel 1983, facevo la modella, sapevo dire solo ciao e arrivederci. Vi restai per 22 anni, fino al ritorno a Phoenix, Arizona, dove vivevano i miei genitori».

Perché si presentò alle elezioni per Alleanza Nazionale?

«Solo per raggiungere il quorum, una cosa veloce, per le donne. Mi presentarono nei collegi rossi, ricordo qualche comizio, non feci quell’esperienza per essere eletta. Ma sono qui per parlare di Massimo. Eravamo come due bambini, felici di vivere una vita tranquilla».

Vi dovevate sposare, scrissero le riviste patinate.

Fa una lunga pausa. «Non lo so, non ricordo, è passato tanto tempo».

Di cosa si occupa ora?

«Ho un gruppo multimediale, si chiama Sotto i riflettori, ho una tv su una piattaforma, ci occupiamo di libri, di benessere, si insegna management. Ho una rivista digitale. Sono una imprenditrice. La mancata maternità? Ho otto nipoti che adoro». 

Quando un 21enne Sorrentino pregava Troisi di farlo lavorare: ecco la lettera inedita. Pubblicato martedì, 16 aprile 2019 da Natalia Distefano su Corriere.it. « Ho ventuno anni e sono nato a Napoli, abito al Vomero. Ho fatto il liceo classico e studio Economia e Commercio» ma «sono un appassionato di cinema» e «l’anno scorso ho frequentato un corso di sceneggiatura». Schietto ed essenziale. Così, con poche righe di presentazione, inizia la lettera che uno sconosciuto Paolo Sorrentino spedì all’inizio degli anni Novanta a un attore, regista e concittadino ben più noto, e certamente amato, cui sentì di poter confidare delusioni – «ho lavorato in qualità di “assistente alla regia” sul set del film “Ladri di futuro” di Enzo Decaro. Ero andato a Roma con molto entusiasmo, ma poi sono rimasto abbastanza sconcertato per il clima di freddezza e di non-umanità che c’era sul set» – ma soprattutto speranze: «Mi piacerebbe, però, ritentare», «le chiedo di poter lavorare nel suo prossimo film” e “mi auguro di poter fare cinema piuttosto che lavorare in qualsiasi altro campo con la mia futura laurea in Economia e Commercio”. Quell’attore era Massimo Troisi. E questa lettera è, senza dubbio, uno dei documenti più sorprendenti tra i molti esposti fino al 30 giugno a Roma, al Teatro dei Dioscuri al Quirinale, nell’ambito della mostra “Troisi poeta Massimo” a cura di Nevio De Pascalis e Marco Dionisi con la supervisione di Stefano Veneruso, promossa e organizzata da Istituto Luce-Cinecittà con 30 Miles Film in collaborazione con Archivio Enrico Appetito, Rai Teche, Cinecittà si Mostra. Una lettera finora rimasta inedita, recuperata dall’archivio personale di Troisi e già rimbalzata sui social, che svela alcuni insospettabili caratteri di Sorrentino. Come la “riservatezza e la mia timidezza” che lo spinsero a tornare a Napoli dopo l’esperienza romana. Amara come il ritratto che della Capitale confezionò vent’anni dopo ne “La grande bellezza”, portandosi a casa un Oscar e – verrebbe da pensare – anche una piccola rivincita. Non è chiaro se la missiva abbia mai ricevuto risposta. Quel che è certo è che i due non lavorarono mai insieme. Forse non ce ne fu neanche il tempo: Troisi sarebbe morto appena un paio di anni dopo. La mostra lo racconta con un percorso multimediale in oltre 80 scatti privati e immagini d’archivio, locandine, documenti e carteggi privati, installazioni audiovisive e testimonianze di colleghi e amici del genio napoletano raccolte per l’occasione: Anna Pavignano, Gianni Minà, Carlo Verdone, Massimo Bonetti, Gaetano Daniele, Renato Scarpa, Massimo Wertmüller, Marco Risi, Enzo Decaro. Seguendo il filo conduttore della poesia. “Massimo è stato un poeta senza definirsi tale, ha scritto poesie già in tenera età per ritagliarsi spazi d’intimità negati da una famiglia numerosissima – hanno commentato i curatori - e ha chiuso il cerchio con “Il Postino”, film in cui la poesia non è solo testo, ma anche e soprattutto un modo di vivere, di vivere poeticamente”. In cinque sale si snoda, con sequenza cronologica, il percorso umano e artistico di Troisi. Dall’infanzia a San Giorgio a Cremano fino alla folgorante ascesa teatrale, dal trio La Smorfia con Lello Arena e Decaro alla fama in tv e infine il cinema, con l’ultimo spazio dell’esposizione dedicato alla proiezione di filmati inediti girati nel backstage de “Il postino”: il film premio Oscar a cui Sorrentino in quella lettera, senza saperlo, chiedeva di lavorare.

Pirandello mai visto, nuove lettere sull’amore con Marta Abba. Pubblicato martedì, 16 aprile 2019 da Paolo Fallai su Corriere.it. Gabriele D’Annunzio scrive a Luigi Pirandello (Agrigento 1867-Roma 1936) per chiedere una raccomandazione per far entrare una fanciulla in una scuola femminile; lui stesso scrive all’amico Massimo Bontempelli il 15 aprile 1910 preoccupato che gli avessero «messo purtroppo il bollo del novellaro», lettere inedite di Marta Abba sulla loro vicenda amorosa insieme con una straordinaria quantità di fotografie che l’attrice ha raccolto. E questi sono solo alcuni gioielli del «Pirandello mai visto», mostra documentaria e iconografica inaugurata presso la Sala Mostre della Biblioteca nazionale centrale di Roma (Viale Castro Pretorio, 105) dove rimarrà aperta al pubblico fino al 28 giugno 2019. La mostra è stata curata da Annamaria Andreoli, Presidente dell’Istituto di Studi Pirandelliani e sul Teatro Contemporaneo, e Andrea De Pasquale, direttore della Biblioteca nazionale centrale di Roma. I materiali esposti sono il frutto di una stretta e proficua collaborazione: in parte appartengono alle collezioni dell’Istituto di Studi Pirandelliani e sul Teatro Contemporaneo, altri fanno parte dello sterminato patrimonio della Biblioteca nazionale centrale. Il catalogo è pubblicato da De Luca Editori d’Arte. Nel corso degli ultimi mesi, donazioni e lasciti all’Istituto di Studi Pirandelliani e sul Teatro Contemporaneo hanno arricchito di nuovi testimoni l’opera e la vicenda umana di Luigi Pirandello. Finora sconosciuti, la mostra offre manoscritti di opere narrative, teatrali e saggistiche insieme con un numero considerevole di documenti privati, a cominciare dal carteggio con Marta Abba (Milano 1900-1987), attrice amatissima, al fianco del grande scrittore durante un decennio decisivo per la carriera di entrambi. Pirandello la nominerà erede di un sesto del suo patrimonio e di alcune commedie, lascito che provocherà un contenzioso giudiziario ventennale tra l’attrice e la famiglia dello scrittore, vinto alla fine da Marta Abba. Luigi Pirandello è uno dei protagonisti del museo letterario «Spazi900» della Biblioteca nazionale centrale di Roma. Allo scrittore siciliano è dedicata una sezione all’interno della prima Galleria degli scrittori, dove è possibile vedere il «Taccuino segreto», senza dubbio il più prezioso documento pirandelliano conservato dall’Istituto, il manoscritto delle «Elegie renane» e le prime edizioni delle sue opere più note. Tuttavia tra le collezioni letterarie della Biblioteca erano presenti altri rilevanti documenti pirandelliani «mai visti» in un percorso espositivo. È infatti relativamente recente l’acquisizione della Raccolta pirandelliana, entrata a far parte del patrimonio della Biblioteca nel 2011 e costituita da autografi, lettere, fotografie e opere a stampa. Il percorso, documentario e iconografico, propone un’esposizione utile tanto alla ricostruzione biografica dell’autore, quanto al ragionamento e allo studio della sua poetica. Conosciuta in ogni parte del mondo, la vastissima opera di Luigi Pirandello ha dato voce a una folla di personaggi narrativi e drammatici che interpretano la crisi sulla quale si affaccia il Novecento. È l’immane malattia del nuovo secolo privo di certezze, che lo scrittore esplora e denuncia con gli strumenti della scienza psicologica ormai addentrata nei territori dell’inconscio e delle nevrosi. La mostra, formata da cinque sezioni, offre al pubblico manoscritti di opere che attestano le modalità di composizione e chiariscono il sistema creativo di laboratorio, tra le quali «La patente», «‘A Giarra» e dattiloscritti come «La tartaruga» e «Effetti di un sogno interrotto». Rilevanti sono i documenti utili alla biografia come le lettere inedite di Gabriele d’Annunzio, di Benito Mussolini e dello stesso Pirandello ai figli. Un’intera sezione, la terza, è dedicata a Marta Abba, musa amatissima di Pirandello, interprete ideale del suo teatro d’avanguardia. Dopo una sezione dove sono esposti alcuni quadri, concludono il percorso le carte pirandelliane “mai viste” presenti nelle collezioni letterarie della Biblioteca nazionale centrale di Roma. La mostra, arricchita da rari video e dai costumi di Nanà Cecchi, realizzati dalla sartoria D’Inzillo, per il recente spettacolo Enrico IV, rende così omaggio a quel continuo impegno nella scrittura che ha portato Pirandello a ricevere il premio Nobel per la Letteratura nel 1934. 

Lello Arena ricorda Troisi: “Tutti lo celebrano ma a Massimo hanno sbattuto tante porte in faccia”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 19 Febbraio 2023

Lello Arena non ci voleva neanche andare a San Giorgio a Cremano: aveva 12 anni quando i genitori decisero per il trasferimento, da Napoli a quel comune di provincia dove, non lo sapeva, ma gli sarebbe cambiata la vita. Dove avrebbe incontrato Massimo Troisi, di cui oggi si celebra il 70esimo compleanno post-mortem. “Lui è la mia spinta, la mia intransigenza: mi ha insegnato cose fondamentali che agiscono dentro di me. È difficile pensarlo come ‘non esistente’. Spesso mi sforzo di immaginare cosa avrebbe fatto in certe situazioni … In questi giorni di festa spesso abbiamo dovuto fronteggiare ipotesi di cose ‘fatte male’ e lui non le avrebbe mai consentite. Massimo ci ha cambiato il dna, non siamo uguali a chi non lo ha mai incontrato”, ha raccontato in un’intervista a Il Corriere del Mezzogiorno.

Arena e Troisi hanno fondato gli Rh-Negativo, I saraceni e infine La Smorfia con Enzo Decaro. Arena era nato dall’unione di due impiegati della manifattura tabacchi. Ha studiato al magistrale. Ha cominciato a insegnare da maestro itinerante in un circo. Sul set del film Le vie del Signore sono finite la rottura, per incomprensioni, anche se ricucita con il tempo comunque dolorosa. “Non ho rimorsi ma rimpianti: il rimorso è qualcosa che insorge quando hai fatto del male volontario a una persona e non puoi più far nulla per riparare. I rimpianti ci accompagnano per tutta la vita: ci sono cose che non farei, ma nel bilancio vengo confortato da tutte le cose belle che siamo riusciti a fare insieme. Quello che cambierei è poca cosa rispetto a ciò che non cambierei mai per tutta la mia vita. Il problema è che Massimo non ci sta più: se ci fosse ancora, prenderei il telefono e potrei fare di meglio di quello che ho fatto. Ma lui non c’è e la sua assenza cristallizza le cose fatte e quelle che si potevano fare in maniera diversa. In conclusione: rimpianti tantissimi, rimorsi zero e cose belle a migliaia. E questo mi rende contento”.

Ricorda che quel 4 giugno del 1994, quando Troisi morì, lui era al Villaggio Olimpico per il saggio di ginnastica artistica della figlia. Per Arena, Troisi “era una speranza per tutti quelli come noi che ci siamo sempre sentiti fuori posto, incapaci, a disagio, fuori gioco perché non capivamo come funzionava il meccanismo del mondo dello spettacolo. Il messaggio che arrivò era: non dovete preoccuparvi di sentirvi ‘fuori luogo’, cercate piuttosto di capire che cosa siete veramente: il resto devono farlo gli altri, non dovete vendergli voi la merce. E questo messaggio fu passato con una cifra unica. Massimo poteva dire quello che voleva senza sembrare blasfemo”.

Non lascia passare Arena, in mezzo a tutte le celebrazioni, l’occasione per togliersi qualche sassolino dalla scarpa. “Me le ricordo le porte in faccia, Massimo ne ha prese tantissime. Oggi è tutto un celebrare la sua genialità … ma all’inizio non lo hanno capito. Ricordo perfettamente i commenti da parte della cosiddetta classe dirigente del mondo dello spettacolo: ‘Ma chi è questo Troisi, ma che dice? Non si capisce una parola, che vuole fare? Dove vi avviate?’“.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Estratto dell’articolo di Natascia Festa per corriere.it il 19 febbraio 2023.

«Me le ricordo le porte in faccia, Massimo ne ha prese tantissime. Oggi è tutto un celebrare la sua genialità... ma all’inizio non lo hanno capito. Ricordo perfettamente i commenti da parte della cosiddetta classe dirigente del mondo dello spettacolo: “Ma chi è questo Troisi, ma che dice? Non si capisce una parola, che vuole fare? Dove vi avviate? Insomma non gli srotolavano tappeti purpurei! Noi non ci siamo mai fatti scoraggiare ma le porte in faccia facevano male lo stesso».

 Lello Arena, Massimo Troisi non lo capivano per il dialetto?

«No no, mica per quello. Non lo capivano per quel suo modo di parlare così unico che oggi tutti osannano. Adesso è facile. Potrei fare nomi e cognomi di chi ora lo onora — e magari dice pure di averlo sostenuto dall’inizio — e un tempo non lo riceveva neppure. Ma non li farò».

[…] Eppure, in tutto questo celebrare — mai un settantesimo compleanno post mortem ha visto una tale mobilitazione di forze creative, intellettuali e istituzionali — qualcosa va detta.

«È molto bello che ci sia questa “voglia di Massimo” e che ognuno la esprima con le sue competenze e talenti. Però bisogna stare molto attenti che tutto ciò abbia a che fare con la sua persona. I settanta di Troisi sarebbero stati importantissimi se lui fosse stato nella condizione di compierli veramente.

 Oggi è una festa postuma piena di presenze illustri: la Federico II grazie a Enzo (Decaro ndr) gli conferirà lunedì la laurea honoris causa e i miei amici Ficarra e Picone mi hanno anticipato che c’è l’ipotesi che il David di Donatello cosiddetto dello spettatore sarà intitolato a lui. Tutto ciò è fonte di grandissima gioia, ma per me che questa storia l’ho vissuta e raccontata in un libro (C’era una volta, Rizzoli ndr) è il tempo di mettermi da parte e lasciare che altri la reinventino.

Per mio alto privilegio la sua è una parabola in cui sono molto presente, ho condiviso quella leggenda che oggi stiamo festeggiando. Standoci fin troppo dentro è chiaro che debba muovermi in punta di piedi: essere parte della festa che lo riporta sugli schermi e sui palchi, ma restare al margine. Del resto egli stesso era molto riservato, intimo, privato. Quello che potevo fare per Massimo e con Massimo l’ho già fatto prima».

E c’è qualcosa che non rifarebbe?

«Non ho rimorsi ma rimpianti: il rimorso è qualcosa che insorge quando hai fatto del male volontario a una persona e non puoi più far nulla per riparare. I rimpianti ci accompagnano per tutta la vita: ci sono cose che non farei, ma nel bilancio vengo confortato da tutte le cose belle che siamo riusciti a fare insieme.

 Quello che cambierei è poca cosa rispetto a ciò che non cambierei mai per tutta la mia vita. Il problema è che Massimo non ci sta più: se ci fosse ancora, prenderei il telefono e potrei fare di meglio di quello che ho fatto. Ma lui non c’è e la sua assenza cristallizza le cose fatte e quelle che si potevano fare in maniera diversa. In conclusione: rimpianti tantissimi, rimorsi zero e cose belle a migliaia. E questo mi rende contento».

C’è una certa immanenza di Massimo Troisi. Senza fare dello spiritualismo, con Decaro avete detto che anche se in due restate un trio.

«C’è, c’è... se Massimo non ci fosse — parlo al presente — la mia vita sarebbe diversa. Lui è la mia spinta, la mia intransigenza: mi ha insegnato cose fondamentali che agiscono dentro di me. È difficile pensarlo come “non esistente”. Spesso mi sforzo di immaginare cosa avrebbe fatto in certe situazioni...  […]».

La sua presenza di artista era incoraggiante per chi non aveva niente: aveva destrutturato tutte le convenzioni arrivando a No Stop senza scenografia, con lei e Decaro e quattro pannetti come costumi.

«Era una speranza per tutti quelli come noi che ci siamo sempre sentiti fuori posto, incapaci, a disagio, fuori gioco perché non capivamo come funzionava il meccanismo del mondo dello spettacolo.

Il messaggio che arrivò era: non dovete preoccuparvi di sentirvi “fuori luogo”, cercate piuttosto di capire che cosa siete veramente: il resto devono farlo gli altri, non dovete vendergli voi la merce. E questo messaggio fu passato con una cifra unica. Massimo poteva dire quello che voleva senza sembrare blasfemo».

 Tipo?

«Tipo come parlava dei santi: sono certo che se San Francesco lo avesse sentito avrebbe applaudito pure lui, consapevole di aver esagerato con quel suo dono di parlare agli uccelli (ride ndr): e San France’ basta mo! Così come per Giuda e la tortura: “Io parlo subito anche se mi dicono: guarda che forse ti torturiamo io già parlo. E se non capiscono gli faccio anche un disegnino”. E potremmo fare migliaia di esempi in cui Massimo aveva il coraggio di parlare delle nostre debolezze umane: perché noi siamo così». […]

MASSIMO, RICOMINCIO DA TE. LELLO ARENA RICORDA TROISI A 25 ANNI DALLA SUA SCOMPARSA. Simonetta Fiori per “la Repubblica” il 4 giugno 2019. Periferia di San Giorgio a Cremano, un colpo di citofono nel pomeriggio di un Ferragosto lontano. «Era Massimo che mi chiedeva se poteva salire. Il mio grande rimpianto è di non essere tornato io a bussare da lui, quando era all' apice del successo: celebrato ma forse solo». Lello Arena è l' amico d' una vita. Da venticinque anni viene chiamato per ricordare Massimo Troisi nell' anniversario della scomparsa. Ma davanti alle immagini dell' attore che scorrono sullo schermo - la inconfondibile gestualità, il silenzio interrotto dalla parola smozzicata - non sorride mai. Forse perché il lungo sodalizio artistico - insieme nella Smorfia con Enzo Decaro, e insieme in molti film di successo - è solo una parte della storia, quella più raccontata.

Il primo ricordo di Troisi.

«Un minuscolo teatro nella parrocchia di Sant' Anna. Io militavo nell' Azione Cattolica e mi divertivo a mettere in scena pezzi della tradizione napoletana. Un giorno s' ammalò l' attore che doveva fare il salumaio in una farsa di Petito. Una particina in due battute. E chiamammo questo ragazzo che era conosciuto a San Giorgio per un fatto: faceva ridere qualsiasi cosa dicesse, mentre lui voleva essere preso sul serio».

Una comicità involontaria?

«No, una disperazione. Massimo era portatore di una diversità che se non si fosse riversata nel teatro sarebbe diventata follia o sperdimento».

Come si manifestò?

«In scena doveva elencare i salumi contenuti nella gerla. Ma lui cominciò a chiedere in quale ordine preciso andavano detti: se prima la soppressata e poi il mozzariello , o viceversa. Ma fai come ti viene, gli dicevo. Invece lui insisteva con quel suo perfezionismo ossessivo che sarebbe diventato proverbiale. Già durante le prove la gente moriva dalle risate. E lui restava incredulo. Ma non aggio capito , chist' è teatro ?Presto avrebbe capito: il palcoscenico era il posto per lui».

Che cos' era la sua straordinarietà?

«La diversità dei geni. Penso ai bambini "indaco", quelli che esprimono energia e creatività nei modi più imprevedibili. Io da maestro elementare sapevo riconoscerli. E sapevo che il talento richiede uno sfogo, perché altrimenti diventa pazzia o infelicità».

Era malinconico Troisi?

«No. Per Massimo la vita era un gioco. Un gioco da fare con una serietà che sfiorava l' esasperazione, ma restava divertimento. Per un periodo abbiamo anche vissuto insieme, con l' amico produttore Gaetano Daniele. Il quotidiano era un' invenzione continua, imprevedibile. Essere amico di Massimo ti cambiava la vita».

Non parlava mai dei suoi problemi al cuore?

«Poco. E, a parte il ticchettio della valvola di titanio, in lui niente evocava malattia. Lo accompagnai a Houston per un controllo dopo il primo intervento al cuore. Io ero la persona meno adatta a quel genere di assistenza, ma forse proprio per quello m' aveva scelto. " Stateve accuorte che mo' chisto sviene ", diceva con l' aria di parlare inglese al medico accorso al suo capezzale per un sanguinamento. Poi io lo spronavo a muoversi per la prova dell' holter: fai le scale, muoviti. "Ma la vita mia non è accussì . Io voglio fare la vita mia, seduto a un tavolo, fermo". Anche nei momenti drammatici, eravamo una coppia comica».

La comicità era un modo per stare nella realtà o per sfuggirla?

«Era un modo per rileggere la realtà, rovesciando come un pedalino tutti i luoghi comuni. Lui era capace di punti di vista straordinari, come di chi è spostato in un altro pianeta e da lì vede cose invisibili a noi comuni mortali. La risata scattava in quel momento: quando ci rivelava aspetti della vita e dei sentimenti fino quel momento ignoti».

All' epoca della Smorfia, in scena improvvisavate?

«In realtà c' era dietro un faticoso lavoro di scrittura. L' improvvisazione era ammessa quando il pezzo prendeva corpo nelle prove. Ma, una volta scritto il copione, nessuno di noi tre era autorizzato a farlo».

Quando avete smesso di divertirvi?

«Mai. Non abbiamo chiuso la Smorfia perché non ci divertivamo. Abbiamo chiuso perché il meccanismo creativo si stava esaurendo. E Massimo, che era in assoluto il più bravo, era anche quello più intransigente sulla qualità delle scelte. Temeva la mediocrità».

Poi sarebbe arrivato il grande successo di "Ricomincio da tre". La sua compagna dell' epoca, Anna Pavignano, in un bel libro pubblicato da e/o ne ha restituito lo smarrimento. Come se la popolarità l' avesse travolto.

«Massimo veniva chiamato dai più grandi maestri, ma lui aveva quella delicatezza che ho raccontato: la delicatezza di chi ti viene a citofonare a Ferragosto per non disturbarti quando hai da fare. La dimensione di Massimo era quel pianeta che ho raccontato. Dopo è stato costretto dal suo talento e dalla sua genialità a cambiare registro, senza capire che la ricchezza era già a bordo».

Percepiva un suo disagio?

«Percepivo una sua fragilità. Poteva dire di no a Scola o a Mastroianni? Certo che non poteva. Ma Massimo era anche una persona delicata. E quando si è sensibili, si può stare anche sotto i migliori riflettori del mondo ma continuare a sentirsi soli».

Perché dice questo?

«Se sei in un pianeta dove gli altri non arrivano, rimani solo. Puoi pure parlare con qualcuno, ma quando rientri lassù, in quel posto bellissimo dove vedi le cose che gli altri non vedono, sei molto solo. Penso che la dimensione del lavoro di gruppo, come è stata la Smorfia, l' abbia aiutato a scendere da questo paradiso di solitudine, facendolo maturare anche come solista».

Poi che cosa è successo?

«Credo che abbia sperimentato la felice consapevolezza di essere Massimo Troisi - un gigantesco concentrato di poesia, comicità, bellezza - una consapevolezza però accompagnata da una sofferenza. E qualche volta mi rimprovero di averlo lasciarlo da solo. Sarei dovuto essere più prepotente e suonare al suo citofono, come tanti anni prima aveva fatto lui: ma sei veramente felice? Io ci sono, ti voglio bene. E vaffa..., io ti faccio compagnia anche se non la vuoi».

Pensava che lui non la volesse?

«Ma era una cosa mia. L' errore è credere che il successo non contempli il diritto d' amore e di amicizia. E poi uno s' immagina sempre dei finali felici, mentre la vita ti mette davanti a epiloghi tragici».

Non si aspettava la sua fine?

«No, credevo che la sua malattia fosse più controllabile. Negli ultimi tempi non ci sentivamo più, anche se io ero informato di tutto. Ci eravamo allontanati per quei garbi che poi, nel consuntivo finale, si sono rivelati inutili sgarbi. Sono cose strane, che hanno a che fare con l' idea di gioco di cui parlavo prima. Massimo amava giocare e vincere. E l' idea che fosse circondato da persone con cui non aveva più le risorse per giocare né vincere mi metteva tristezza».

I medici gli avevano detto che le sue condizioni richiedevano un trapianto, ma lui preferì girare "Il Postino", il film che l' ha consacrato.

«Credo che abbia a che fare ancora con la sua idea della vita come gioco.

E che gli piacesse chiuderla con una vittoria. Fu un set molto doloroso, e alla fine deve aver realizzato che sarebbe stato impossibile tornare alle condizioni di prima, quando poteva giocare e vincere. Probabilmente quello è il momento in cui uno fa il pensiero: forse vale la pena di andare a giocare da un' altra parte».

Lo sogna mai?

«Sì, sogno lui che si dispera dalle risate vedendomi in difficoltà, una situazione che nella vita quotidiana accadeva molto spesso».

Cosa le manca oggi?

«Massimo con i capelli bianchi. E magari un Troisi junior da incoraggiare per le strade del mondo.

Da ragazzi ci immaginavamo decrepiti in sedia a rotelle a recitare monologhi. E poi mi manca il suo punto di vista, sempre imprevedibile. È stato uno dei pochi a rimanere coerente».

Non faceva comicità sulla politica, ma resta indimenticabile il suo Bossi che si fa la barba cantando "Tu si 'na malatia" di Peppino di Capri.

«E i leghisti oggi cosa fanno, o meglio fingono di fare? Massimo anticipava le cose, come solo i geni sanno fare».

Massimo Troisi a 25 anni dalla morte: quanto avremmo bisogno della sua ironia per combattere i mali di Napoli. Pubblicato martedì, 04 giugno 2019 su Corriere.it. «A Napoli non conviene neppure tornare bambini. No, perché con la mortalità infantile che ci sta sapete come succede? Al bambino, invece di dire “tu tieni tutta ‘na vita annanze”, dirai “tu tieni tutta ‘na morte annanze”...». Una risata e un graffio per distruggere un clichè e per denunciare che a Napoli si può restare impantanati nel fango del male, fermi, immobili, paralizzati perché il male ti può rubare il futuro e il futuro sono i bambini. Quante Noemi Massimo Troisi, di cui piangiamo oggi i 25 anni dalla scomparsa, aveva visto per raccontare così? E quanti anni sono passati? L’agguato di Piazza Nazionale dove una bimba è rimasta ferita poche settimane fa è una cosa già vista. E gli operai della whirpool che perdono il lavoro a ridosso della festa della Repubblica? E le storie sconosciute di tanti altri che nella vita si sono rimboccati le maniche e sono rimasti senza stringere nulla? «A Napoli c’è il problema dei disoccupati ma hanno detto che lo risolveranno con gli investimenti. La volontà ce l’hanno messa ma poi con un camion quanti disoccupati possono investire? A questo punto la politica dovrebbe fare camion più grandi...». La comicità di Troisi era un’arma che dovremmo tornare ad usare. Contro chi dice che è tutto cambiato e finge di non vedere che non è sempre così, contro chi racconta solo la bellezza di questa città e anche contro chi vorrebbe rappresentarla come un inferno senza scampo, contro chi non ne comprende la complessità, contro chi se ne approfitta, contro chi la vuole in perpetua emergenza. Un’arma per la verità, per prendere a schiaffi il potere e le passerelle: «A noi ci chiamano mezzogiorno d’Italia per essere sicuri che a qualunque ora scendevano al Sud se trovavano sempre in orario pe’ ce mangia ‘a coppa». Un arma contro noi stessi e contro una napoletanità che avvelena, quella che è sempre in attesa, quella che delega al masaniello di turno, quella schiava del fatalismo che ancora si affida a San Gennaro come nello sketch in cui Massimo e Lello Arena chiedono i numeri al lotto. Un arma contro la camorra, perché la raccontava deridendo i boss e i loro atteggiamenti intimidatori sbriciolando la loro forza, offuscando qualsiasi possibile idea di fascinazione. Anche quando il guappo don Tonino Parsifallo (Arena), riproposto lunedì su Rai2 da Giorio Verdelli in “Unici”, per una sciocchezza, uccide la madre innocente del suo rivale (Troisi). «Addirittura?» - dice sgomento Enzo De Caro - «Eh ma io so fetente», spiega il boss rivendicando e ribadendo il suo ruolo inutilmente feroce. Una risata può fare molto male. E Napoli ne ha ancora bisogno. Ne ha bisogno per quei figli che la vogliono cambiare, che esistono, combattono e qualche volta si arrendono perché spesso sono messi ai margini o vengono condannati. Sì proprio come lo era stato lo stesso Troisi braccato dall’assassino maniaco “funiculì funiculà” in “no grazie il caffè mi rende nervoso” mentre cercava di proporre una musica nuova di una nuova Napoli che però il maniaco non voleva che fosse cambiata, che doveva restare non fedele o salda nelle tradizioni ma imprigionata. Oltre la retorica e le commemorazioni, Napoli dell’eredità di Troisi dovrebbe sentire lo spirito reazionario e rivoluzionario, per non consentire più saccheggi e per vincere l’anestesia collettiva e scavalcare tutti i luoghi comuni, proprio come faceva lui: «vabbe’, però il napoletano ride, canta, balla, tiene ‘a musica dinto ‘e vene. E per forza: voi il sangue ve lo siete succhiato tutto quanto...».

Oggi Massimo Troisi avrebbe 70 anni: i suoi 5 film che dovete conoscere. Il genio di San Giorgio a Cremano oggi avrebbe compiuto 70 anni: da Ricomincio da tre a Il postino, le opere che hanno tracciato un solco nella storia del cinema. Massimo Balsamo il 19 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Ricomincio da tre

 Scusate il ritardo

 Non ci resta che piangere

 Pensavo fosse amore... invece era un calesse

 Il postino

Il comico dei sentimenti, il Pulcinella senza maschera, l’erede di Eduardo e Totò. Massimo Troisi è stato un fuoriclasse della comicità e le definizioni si sono sprecate. L’artista di San Giorgio a Cremano oggi, 19 febbraio, avrebbe compiuto 70 anni e la sua opera continua a rappresentare un punto di riferimento per diverse generazioni: le gag fulminanti, i suoi personaggi unici e le sequenze iconiche costituiscono un lascito dal valore inestimabile.

Massimo Troisi, giullare dell'amore

Massimo Troisi ha rappresentato una filosofia, ha incarnato il riscatto di una città attraverso la sua rivoluzione gentile. La napoletanità è sempre stata un punto di forza, senza però restare ingabbiato a un contesto meramente partenopeo. Attraverso il suo sguardo schietto e vivo ha posto l’accento su temi universali – a partire dall’amore – ma anche sulle ingiustizie della vita. E lo ha fatto senza mai scendere a compromessi, senza mai voler apparire a tutti i costi, senza chiedere nulla in cambio. La ricorrenza ci invita dunque a ripercorrere i cinque migliori film lasciati in eredità da uno dei più grandi artisti italiani del Novecento.

Ricomincio da tre

Ricomincio da tre” rappresenta la prima esperienza sul grande schermo di Massimo Troisi, qui in veste di regista-sceneggiatore-protagonista. 14 miliardi al botteghino e numerosi premi, a partire dai due David di Donatello, per un’opera che ha rivoluzionato dal punto di vista della commedia. L’artista di San Giorgio a Cremona con questo film è stato il primo a diffondere uno sguardo obliquo su Napoli. La svolta è già incarnata dal protagonista, non più un emigrato ma un “esploratore”. Un vero e proprio cult.

Scusate il ritardo

Secondo film da regista di Massimo Troisi, “Scusate il ritardo” arriva due anni dopo il successo di “Ricomincio da tre”. Il titolo è un riferimento al tempo trascorso dal film precedente, ma anche ai diversi tempi dell’amore e dei rapporti di coppia. Troisi trae libero spunto dalla sua autobiografia, in particolare dalla sua famiglia, definita sempre la sua “compagnia stabile”.

Non ci resta che piangere

Passa un anno ed ecco un altro film di culto. “Non ci resta che piangere” nasce dall’incontro tra Massimo Troisi e Roberto Benigni, protagonisti ma anche sceneggiatori (insieme a Giuseppe Bertolucci). Un’alchimia incredibile, tanto da spingere la critica all’ardito accostamento a Totò e Peppino. Diverse le gag surreali passate alla storia, dalla lettera a Savonarola (chiaro omaggio a “Totò, Peppino e la… malafemmina”) all’incontro con Leonardo Da Vinci.

Pensavo fosse amore... invece era un calesse

Pensavo fosse amore… invece era un calesse” è l’ultimo film da regista di Massimo Troisi. Un’opera interamente dedicata al tema dell’amore, qui esplorato attraverso uno sguardo ancora più personale. Più di una semplice commedia, basti pensare al finale sorprendente. Da segnalare le prove di Angelo Orlando e Francesca Neri, oltre ovviamente alla colonna sonora di Pino Daniele, a partire dal brano “Quando”, entrato nella storia come un classico della musica partenopea.

Il postino

Il Postino” di Michael Radford è l’ultima interpretazione di Massimo Troisi - morto subito dopo la fine delle riprese - una sorta di testamento artistico. Ispirato al romanzo “Ardiente paciencia” dello scrittore cileno Antonio Skarmeta, è senza ombra di dubbio il suo film più intimo, nonchè meno comico. Cinque candidature agli Oscar del 1996, con la vittoria della statuetta per la Miglior colonna sonora drammatica.

Da ilnapolista.it il 17 ottobre 2021. Massimo Troisi raccontato da Lello Arena nel libro “C’era una volta”. L’attore ne parla nell’intervista al Fatto quotidiano. Racconta diversi aneddoti (tra cui la relazione del comico con Jennifer Beals), ne riportiamo uno quello relativo alle ragazze Coccodè della trasmissione “Indietro tutta”. “Quando Renzo era impegnato con Indietro tutta e c’erano le ragazze Coccodè, Massimo il pomeriggio si vestiva, si profumava e usciva. Cosa rarissima, perché non andava mai da nessuna parte. Tempo dopo ho capito che andava a vedere lo spettacolo proprio per le Coccodè, fino a quando un pomeriggio è tornato da noi come una specie di belva: “Che è successo?”. “Niente, non ho voglia di parlarne”.“ma che hai?”.“ho litigato con Renzo”. Noi basiti. Per il carattere di entrambi ci sembrava impossibile una discussione. Lo calmiamo e capiamo: “Non si fa così! In mezzo a quelle Coccodè ci sono tre uomini. Uno deve avvisare”. E dopo un breve silenzio ha aggiunto: “Ho fatto il cretino con uno di questi travestiti”. Nella sua ottica quello di Renzo era il tradimento di un amico. (Pausa) Anche Renzo dovrebbe scrivere un libro su Massimo, sarebbe fantastico”. 

Racconta anche la sua lite con Massimo Troisi. “La lite con Troisi nasce da un ruolo in un film… Per Le vie del signore sono finite: dopo mesi e mesi di lavoro, di studio del mio personaggio, una sera Massimo mi chiama e mi comunica che avrei avuto un altro ruolo. Non accetto. E da lì parte un meccanismo più grande di noi, con incomprensioni e voci sbagliate”.

Massimo Troisi diede la vita per Il postino. Così è morto dopo l'ultima scena. Il postino è uno dei film cardine della filmografia di Massimo Troisi. L'attore accettò di proseguire il lavoro pur sapendo che questo lo avrebbe ucciso. E così è stato. Erika Pomella - Dom, 28/03/2021 - su Il Giornale.  Il postino - che andrà in onda questa sera alle 20.55 sul Canale 34 - è uno dei film più apprezzati della storia del cinema italiano e, senza dubbio, è uno dei più amati tra quelli della filmografia di Massimo Troisi. La pellicola, che è stata diretta da Michael Radford e Massimo Troisi, è tratta dal romanzo Il postino di Neruda, scritto dall'autore cileno Antonio Skármeta. La trasposizione cinematografica del romanzo fu fortemente voluta da Massimo Troisi, che ne acquistò ben presto i diritti e chiese a Michael Radford di dirigerlo.

Il postino, la trama. La storia del film segue Mario Ruoppolo (Massimo Troisi), figlio di pescatori, dal cuore buono e gentile che attraversa un brutto periodo non avendo alcun tipo di impiego. Sulla stessa isola del sud Italia vive anche il famoso poeta Pablo Neruda (Philippe Noiret), che sul suolo italiano ha cercato riparo, vista la sua condizione di rifugiato politico. Mario ben presto diventa il responsabile della posta del poeta: ogni giorno, infatti, l'uomo incontra Neruda a cui consegna la posta, ricevendone in cambio lunghe conversazioni su poesia, scrittura e tutto ciò conta nella vita. Tra i due inizia una bella amicizia che diventerà preziosa quando Mario si innamora di Beatrice (Maria Grazia Cucinotta) e userà proprio l'aiuto del poeta per scrivere alcune poesie per corteggiare il suo grande amore. Tutto però cambia quando Neruda riceve una comunicazione dal Cile, attraverso la quale il suo governo gli fa sapere che non è più un esiliato e che finalmente può tornare a casa.

Il film per cui Massimo Troisi diede la vita. Il postino è una storia d'amore e d'amicizia, un racconto che, attraverso il "sotterfugio" della parola, narra le vicende di un uomo semplice e generoso. Tutti elementi, questi, che senza dubbio hanno cooperato a rendere l'opera di Radford e Troisi una pellicola tanto amata dal pubblico di ogni generazione. Ma forse sono gli stessi elementi che hanno colpito l'immaginazione e l'arte di Massimo Troisi, spingendolo a voler fare questo film a ogni costo, letteralmente. Michael Radford era un regista esordiente quando, a inizio degli anni '80, domandò a Massimo Troisi di collaborare in Another Time, Another Place - Una storia d'amore, in cui l'attore avrebbe dovuto interpretare un prigioniero napoletano durante la seconda guerra mondiale che si innamorava di una massaia scozzese. Tuttavia l'attore, all'epoca, non se la sentiva ancora di partecipare ad un film straniero, oltretutto con un regista ancora agli esordi. Più tardi, quando ebbe modo di vedere il film, Massimo Troisi chiamò Radford e si complimentò per la pellicola, asserendo di essersi reso conto di aver perso una grande occasione. Da allora lui e Michael Radford divennero amici. Fu quasi naturale, dunque, per Troisi domandare anni più tardi proprio a Radford di girare Il postino, ma in questo caso fu il regista a temporeggiare. Come viene raccontato nel libro L'applauso interrotto. Poesia e periferia nell'opera di Massimo Trosi, l'attore partenopeo riuscì comunque ad avere Radford tramite un piccolo inganno: gli disse, infatti, di aver offerto la regia del film anche a Giuseppe Tornatore. Con Radford nella squadra, Massimo Troisi e lo sceneggiatore Furio Scarpelli volarono a Los Angeles per ultimare la sceneggiatura. In questa occasione, l'attore si recò all'ospedale di Houston, dove era già stato operato al cuore, da ragazzo. Purtroppo, le notizie che ricevette non furono affatto positive. Scoprì di doversi operare con una certa urgenza, dal momento che entrambe le valvole al titanio che permettevano al suo cuore di funzionare si erano deteriorate. L'intervento fu molto delicato e nel corso dell'operazione Troisi subì anche un attacco cardiaco. La sua vita venne salvata dalla prontezza dei medici che riuscirono a far ripartire il suo cuore, che riprese a battere.

Questo, naturalmente, comportò una degenza molto lunga in ospedale, che si protrasse per oltre un mese e mezzo. Periodo nel quale i medici consigliarono al futuro protagonista di Il postino di sottoporsi a un trapianto di cuore, l'unica soluzione adatta per il suo problema cardiaco. Tuttavia, come racconta il sito dell'Ansa, Massimo Troisi decise di non operarsi immediatamente e di girare prima Il postino. In questo modo non avrebbe dovuto rinunciare alla possibilità di avere Philippe Noiret nei panni del poeta Pablo Neruda. Le riprese iniziarono nell'autunno del 1993 sull'isola di Procida, ma come viene ricordato dal sito dell'Internet Movie Data Base, Massimo Troisi era sempre più debole. La sua fragilità gli impediva di restare sul set per più di un'ora: il che comportava che tutte le scene che lo vedevano protagonista dovevano essere girate in non più di due riprese. La lavorazione della pellicola, quindi, cominciò a ruotare intorno alla salute di Troisi: tutto veniva organizzato in modo da essere il meno pesante possibile per l'attore, che appariva sempre più in difficoltà. Tutto ciò venne reso possibile dalla scelta di una contro figura davvero molto somigliante a Massimo Troisi, che venne usata per le riprese in campo lungo o di spalle. In qualche modo, Il postino venne completato. Dodici ore dopo la chiamata dell'ultimo ciak, Massimo Troisi si trovava nella casa di Ostia di sua sorella Annamaria, cercando di riprendersi dalle fatiche accumulate nelle undici settimane di riprese. Ma il ristoro non arrivò mai: quella stessa notte subì un nuovo infarto da cui non si risvegliò. L'attore morì a soli 41 anni, di fatto dando la vita pur di realizzare Il postino.

Massimo Troisi, l'anarchico malinconico del cinema italiano. Ricordo dell'attore e regista, scomparso 25 anni fa. Dal cabaret con la Smorfia alle commedie, da 'Ricomincio da tre' a 'Non ci resta che piangere' con Benigni, fino al 'Postino' per cui ebbe una candidatura postuma agli Oscar. Roberto Nepoti il 03 giugno 2019 su La Repubblica. Qualcuno ha detto che ogni vero napoletano ricorda dove fosse e cosa stesse facendo il giorno in cui arrivò la notizia della morte di Massimo Troisi, il 4 giugno 1994. Ma l'osservazione si può estendere ben oltre i nati sotto il Vesuvio: in pochi anni di attività, cinematografica e televisiva, Troisi si era conquistato una popolarità che permise, presto, di paragonarlo a giganti partenopei dello spettacolo come Eduardo e Totò.

Massimo Troisi tra teatro e cabaret. Se si esclude il "debutto" precocissimo (da neonato fu scelto come testimonial per una pubblicità del latte in polvere Mellin), il futuro attore mosse i primi passi sul palcoscenico a quindici anni, nel teatrino della parrocchia; poi fece il Pulcinella per spettacoli domenicali. Più tardi diede forma, con gli amici Lello Arena (che sarebbe stato la sua "spalla" favorita sullo schermo) e Enzo Decaro, al gruppo cabarettistico La Smorfia: col quale, vestito di una semplice calzamaglia nera, metteva in scena sketch satirici basati sull'attualità, la religione (memorabile L'annunciazione), le tematiche sociali.

La Smorfia in tv 'L'annunciazione'. Col gruppo approdò in televisione, anche in programmi di prima serata che ne allargarono il successo a dimensioni nazionali. Si cominciò a capire allora che la "napoletanità" di Massimo, fieramente rivendicata, non avrebbe rappresentato un limite al gradimento del pubblico; anzi, sarebbe stata una delle caratteristiche salienti della sua popolarità.

Troisi e il cinema: 'Ricomincio da tre'. Come dimostrò ampiamente, all'inizio degli anni Ottanta, il debutto nel cinema. Il produttore Mauro Berardi, che voleva assolutamente lavorare con lui, gli diede carta bianca per un film da scrivere, dirigere, interpretare. Ricomincio da tre, uscito nel 1981, sorprese tutti: ma non tutti per gli stessi motivi. Ci fu chi lamentò il livello elementare della regia, quasi esclusivamente di inquadrature fisse; chi giudicò troppo bizzarro l'eloquio dell'attore, smozzicato e ritmato come un grammelot in stretto dialetto partenopeo; chi lo trovò più affine al cabaret che al cinema. Altri, invece, apprezzarono le note di modernità che entravano per la prima volta nel panorama ormai sclerotizzato della produzione italiana. In particolare un nuovo personaggio di giovane indeciso a tutto, refrattario ai vecchi cliché dell'immigrato napoletano, innamorato ma terrorizzato dall'emancipazione che le donne andavano conquistandosi nella società. Fu questo "carattere" a conquistare le platee, decretando la fortuna del film ai botteghini. Poi arrivò anche la critica, con una pletora di candidature e vittorie ai David di Donatello, ai Nastri d'Argento e ai Globi d'Oro. Gli imitatori fiorirono subito, dando origine al nuovo filone dei "malincomici": ispirati, con varie declinazioni vernacolari, al personaggio di Gaetano. Da allora Troisi si sarebbe dedicato completamente al cinema. Nel fondo, però, era un anarchico, che faceva film solo quando ne aveva voglia e si sentiva pronto. Anziché spremere il successo del debutto, cominciò a collaborare con lavori di altri (la farsa No grazie, il caffè mi rende nervoso di Ludovico Gasparini); e fece attendere due anni il suo secondo film, dall'esplicito titolo Scusate il ritardo, dove interpretava Vincenzo, un Gaetano ancor più timido e indeciso. Solo nel 1987 avrebbe diretto il terzo, Le vie del Signore sono finite, dalle soluzioni tecniche e dal linguaggio decisamente più evoluti rispetto ai precedenti.

Troisi e Benigni: 'Non ci resta che piangere'. Nel 1984 Massimo condivise la regia con un altro comico di grande popolarità: Roberto Benigni. Farsa su canovaccio in cui i due vengono rispediti dal presente nel 1492, Non ci resta che piangere salì al vertice degli incassi, superando concorrenti come Ghostbusters e Indiana Jones. Nel 1986 accettò un piccolo ruolo nel film di Cinzia Torrini Hotel Colonial, girato in Colombia; mentre i problemi cardiaci che lo tormentavano fin da bambino gli impedirono di essere il Pulcinella di Strawinskij in uno spettacolo teatrale di Roberto De Simone. Però Troisi recuperò, impersonando sullo schermo l'amata maschera napoletana nel Viaggio di Capitan Fracassa di Ettore Scola, regista per il quale, l'anno precedente, aveva interpretato altri due film: Splendor e Che ora è?, quest'ultimo sui rapporti conflittuali tra un figlio e un padre (Marcello Mastroianni, con cui Troisi condivise la Coppa Volpi per il miglior attore a Venezia).

L'ultimo Troisi: 'Il postino'. Immaginare quanto altro avrebbe potuto ancora dare al cinema italiano e mondiale Troisi, deceduto a 41 anni poche ore dopo la fine delle riprese del Postino, è esercizio frustrante quanto irresistibile, ma che ciascuno può svolgere a modo proprio. Il suo ultimo film da regista, sceneggiatore e protagonista (una concentrazione di ruoli che, dopo di lui e non sempre con risultati felici, dilagò poi nelle commedie italiane) fu Pensavo fosse amore... invece era un calesse, altra divagazione sui sentimenti e sulla difficoltà di portare avanti un rapporto di coppia. L'apoteosi internazionale di Massimo, però, arrivò con Il postino, diretto dal britannico Michael Radford ma voluto da Troisi (che aveva acquisito i diritti del romanzo di Antonio Skàrmeta Il postino di Neruda), nonché da lui co-sceneggiato e interpretato nella parte del titolo. Parte per la quale, nel 1996, ebbe una candidatura postuma agli Oscar come miglior attore.

Massimo Troisi. Un poeta fragile e imperfetto riscoperto anche dai giovani. Una mostra al Quirinale, tra scatti e spezzoni di film, per ricordare l'attore scomparso venticinque anni fa, scrive Pedro Armocida, Giovedì 18/04/2019, su Il Giornale. «Al mio cuore malandato/Almeno a lui ho messo le ali.../Io, padrone di un bel niente/Neppure di me stesso». Il 4 giugno 1994 moriva, a soli 41 anni, Massimo Troisi per un attacco di cuore (due volte operato a Houston: Abbiamo un problema!) che la poesia Al mio cuore, scritta nei primi anni Settanta «mentre la situazione/politica italiana/Andrebbe seguita/con molta più attenzione, aveva messo in conto perché «non è così importante/che muoia qualcosa dentro/Io cedo qualche sogno/e un po' di libertà». E la moltitudine dei suoi ammiratori ringrazia. Ancora. Perché la sua forza artistica è, come all'epoca, trasversale. E oggi, grazie soprattutto a Youtube, sono tanti i giovani che la (ri)scoprono. Ma ricordare Troisi, anche come persona oltre che come personaggio (ma c'è davvero una differenza quando parliamo di lui?), è fondamentale, così a 25 anni della morte arriva la mostra fotografica e multimediale «TROISI poeta MASSIMO», fino al 30 giugno a ingresso gratuito al Teatro dei Dioscuri al Quirinale di Roma, curata da Nevio De Pascalis e Marco Dionisi con la supervisione di Stefano Veneruso, nipote dell'attore-regista, e prodotta da Istituto Luce-Cinecittà con 30 Miles Film. Attraverso i cinque ambienti che portano alla sala del Teatro dei Dioscuri (dove ogni sera, fino al 28 aprile, la mostra verrà messa in scena in uno spettacolo omonimo con accompagnamento musicale) viene ripercorsa tutta la fulminante carriera di Troisi nato a San Giorgio a Cremano, il 19 febbraio 1953, in una casa divisa con i genitori (il padre ferroviere), i cinque fratelli, i nonni, gli zii e via elencando: «Sono nato in una casa dove vivevano sedici persone. Ecco perché quando ci sono meno di quindici persone mi prendono dei violenti attacchi di solitudine», ricorda la sorella Annamaria in una delle testimonianze che concludono il prezioso catalogo di Edizioni Sabinae. Certo la prima sala è quella più epifanica, perché ci racconta un Troisi meno conosciuto, dall'infanzia - quando già componeva poesie - alla gioventù, dal campetto di calcio che dovrà lasciare per la comparsa dei problemi al cuore fino alla foto accanto a Maradona per una partita di beneficenza al San Paolo di Napoli nel 1989. E si inizia con il naso all'insù perché la grande volta, è interamente ricoperta da un patchwork di immagini di Troisi realizzato da Marco innocenti. Un omaggio al suo essere un artista totale, un Pulcinella senza maschera, come è stato definito, erede della tradizione partenopea ma capace di attualizzarla in maniera originale. In questo senso la mostra si sofferma sull'esperienza fondamentale del Centro Teatro Spazio, un garage a San Giorgio a Cremano adattato a teatrino dove Troisi all'inizio del 1970 si cimenta nelle prime farse con la compagnia Rh Negativo (con, tra gli altri, Pino Calabrese e Lello Arena) su donne, politica, aborto, religione e Chiesa (bellissima l'immagine di Troisi sulla croce). Tutti temi che torneranno, come la mitica calzamaglia nera, negli spettacoli del gruppo formato con Enzo Decaro e Lello Arena, La Smorfia. Ed eccoci alla tappa fondamentale, quella televisiva, che lancia Troisi nell'olimpo dei comici. Correva l'anno 1978 e Enzo Trapani ideava Non Stop, fucina dei futuri campioni d'incasso del cinema italiano, Carlo Verdone, I Gatti di Vicolo Miracoli, I Giancattivi, e La Smorfia o, meglio, Massimo Troisi: «Rimasi molto colpito dai tempi di recitazione di quello che era il fulcro del trio. Rimasi incantato, ma talmente incantato che dissi: Ma questo è talmente grande ndo vado io con i personaggi miei?». Parola di Carlo Verdone per il quale Troisi «aveva l'arte di nascondere l'arte, era sempre naturale, proletario ed elegante allo stesso tempo». Come nei suoi film di grandissimo successo che decise di dirigere già dal primo, Ricomincio da tre del 1981 fino a Pensavo fosse amore e invece era un calesse del 1991, l'anno in cui Paolo Sorrentino, ventunenne studente di Economia e Commercio, gli inviava una lettera dattiloscritta chiedendo di prenderlo come aiuto regista. Cosa che non è accaduta. Certo Troisi ha sempre riconosciuto i suoi limiti di regista: «Io di Ricomincio da tre salverei solo un quarto d'ora, degli altri magari venti minuti. Ma è naturale vedersi e criticarsi, a meno che uno non sia un genio. Io non lo sono, non impazzirò mai per me stesso come regista». Perché «il cinema che faccio è un prodotto artigianale, un po' storto, imperfetto, come i vasi di ceramica fatti in casa». Ecco il vero Massimo Troisi che questa bella mostra ci racconta, quello che vediamo nelle inedite riprese del backstage sul set del suo ultimo film, Il postino di Michael Radford (l'attore è morto due giorni prima della fine delle riprese), quando deve baciare Maria Grazia Cucinotta e scoppia in ripetute risate. Con quel suo tipico sguardo, d'ingenuo imbarazzo, non moralistico ma morale. Di altri tempi.

Massimo Troisi visto da Martone: appunti inediti con idee e battute del comico. Paolo Mereghetti su Il Corriere della Sera il 17 Febbraio 2023.

Presentato nella sezione Special il documentario-omaggio «Laggiù qualcuno mi ama»: «Fu influenzato dalla Nouvelle Vague»

Non il personaggio Troisi ma l’uomo di cinema, attore e soprattutto autore dei suoi film. Questa la sfida, magnificamente vinta, affrontata da Mario Martone con Laggiù qualcuno mi ama, presentato alla Berlinale. Non era un compito facile perché la popolarità dell’attore napoletano, la sua simpatia, il suo successo (e l’improvvisa scomparsa a 41 anni) erano tutti elementi che potevano «distrarre» chi voleva scavare dentro il suo cinema. Ma Martone, con l’aiuto determinante di Anna Pavignano che i film di Troisi li ha sceneggiati tutti anche dopo la fine della loro storia, ha evitato le distrazioni e ha fatto centro.

Rivelando una capacità d’analisi da critico di vaglia, Mario Martone inizia ad avvicinarsi dalla prospettiva meno frequentata, quella cinefila, rivelando l’influenza che sui suoi film, a cominciare dall’esordio di Ricomincio da tre, aveva potuto esercitare la Nouvelle Vague e Truffaut in particolare. Paragone forse sorprendente ma quando si vedono certe similitudini e certe «citazioni» (i giochi con le mani dell’Antoine Doinel dei 400 colpi e quelli di Troisi; l’uso in certe scene dove non te lo aspetti della corsa) viene da battersi una mano sulla fronte e chiedersi come mai non fosse venuto in mente a nessuno prima.

Poi naturalmente c’è l’aspetto più conosciuto, quello dove il personaggio che impersonava si trova a fare i conti con le figure femminili. I critici più attenti se ne erano accorti fin dall’esordio: nel cinema italiano di allora (e anche precedente) nessuno aveva mai raccontato così bene la fragilità del maschio di fronte a un tale cambiamento di costumi, di cui metteva in scena non le frange più radicali ma quelle più profonde, più esistenziali. Qui il contributo di Anna Pavignano è più che centrale. Nel film mostra per la prima volta i fogli sparsi su cui Troisi appuntava idee e battute ma anche la convivenza dolorosa con la malattia o le prove poetiche (una fu musicata da Pino Daniele). E il nastro (mai sentito prima) dove lei e un’amica spinsero Massimo a cercare di dare forma razionale al suo rapporto con le donne è uno dei momenti più emozionanti di tutto il film.

Evitando volutamente le interviste di rito (sempre a rischio agiografia o mitizzazione), Martone si limita alla sua carriera pubblica, prima recuperando una serie di sketch degli inizi, con Lello Arena e Enzo Decaro ma anche con Valeria Pezza (suo il ricordo esilarante del libro su Kandiski) e Peppe Borrelli e poi analizzando i film con un’abbondanza di repertorio inedita per gli standard italiani (regalando così una perfetta antologia delle sue gag più celebri). Con più ricchezza sui film scritti e diretti da Troisi, ma senza dimenticare l’incontro con Scola e poi con Michael Radford e lasciando a Paolo Sorrentino (che confessa i suoi debiti), a Ficarra e Picone, a Goffredo Fofi (che propone un paragone illuminante di Troisi e Arena con Eduardo e Peppino degli anni Trenta) e pochi altri il compito di ricostruire la sua centralità nel cinema italiano degli anni Ottanta.

Per concludere con la sottolineatura della dimensione politica dei suoi film e delle sue scelte personali (rifiutò di partecipare a un festival di Sanremo per non accettare i limiti imposti dalla censura Rai), andando incontro a (bigotte) denunce di vilipendio della religione ma soprattutto usando la sua comicità pacata e tagliente per ribadire una scelta di campo libertaria e antifascista non proprio scontata.

Massimo Troisi raccontato da Mario Martone: “Quel gran genio del mio amico…”. Chiara Nicoletti su Il Riformista il 19 Febbraio 2023

Viene riconosciuto finalmente in tutta la sua internazionalità Massimo Troisi, nel 70° anniversario dalla sua nascita (il 19 febbraio) e a quasi trent’anni dalla sua scomparsa, grazie al ritratto appassionato e personale che di lui ne fa Mario Martone con Laggiù qualcuno mi ama, presentato al 73º Festival Internazionale del Cinema di Berlino nella sezione Berlinale Special. Uscirà il 19 febbraio nelle sale per un’anteprima e poi ufficialmente il 23 con circa 400 copie in tutta Italia.

Un viaggio personale, quello del regista di Qui Rido io, dentro il cinema di Massimo Troisi più che dentro il suo essere comico e attore. Quella con Troisi, è stata per Martone un’amicizia iniziata negli ultimi anni di vita di Massimo, incontrato al Festival di Montpellier durante la presentazione di Morte di un matematico napoletano. Nell’aria, poi, l’idea di un film insieme mai realizzato e finalmente oggi, Laggiù Qualcuno mi ama. A Berlino Martone racconta: “A distanza di anni dal film che non abbiamo potuto fare allora, ho voluto riportare Massimo sul grande schermo per gli spettatori. Quando ho avuto la proposta del documentario, ho chiesto di poterci montare i suoi film dentro. Amavo i suoi film da regista, quindi il suo cinema torna a vivere: provo a raccontare perché mi sembrava così bello nel suo rapporto con la Nouvelle Vague. Massimo era ribelle e aveva questo istinto politico a cui era sempre rimasto fedele”.

Si mette in gioco personalmente Mario Martone mettendoci letteralmente la faccia insieme a Jacopo Quadri, suo montatore storico, mentre si ritrae nell’atto di guardare e selezionare quegli spezzoni del cinema di Troisi da inserire nel film. “Ci sono tantissimi documentari molto belli su Massimo Troisi – commenta Martone, spiegando l’approccio del suo film. I racconti degli amici di Massimo sono cose che abbiamo sentito molte volte ma volevo provare a spostare l’asse. Volevo trattare Massimo come se fosse un pittore del 400 su cui si fa un documentario. Da lì viene fuori l’uomo”. Col montaggio dei film si intersecano alcune conversazioni, non con persone che frequentavano Troisi, ma con artisti che lo hanno amato e ne sono stati influenzati, come Francesco Piccolo, Paolo Sorrentino, Ficarra e Picone, critici che lo hanno studiato, come Goffredo Fofi e la rivista Sentieri selvaggi, e due tra gli artefici della sua opera postuma, Il postino, Michael Radford e Roberto Perpignani.

A donare una voce alle riflessioni e ai pensieri del regista di Ricomincio da tre, a cui Martone ha avuto accesso, sono Pierfrancesco Favino, Massimiliano Gallo, Valerio Mastandrea, Lino Musella, Silvio Orlando, Luisa Ranieri, Teresa Saponangelo e Toni Servillo. Laggiù qualcuno mi ama mette in luce uno degli aspetti più geniali e rivoluzionari di Troisi, l’aver rappresentato gli uomini e soprattutto le donne con uno spessore e una verità che ancora fatichiamo a vedere oggi nei film. Troisi condivide il merito di tutto questo con Anna Pavignano, sua compagna per molto tempo e co-sceneggiatrice per quasi tutta una vita artistica.

Rivela Martone: “Quando guardavo i suoi film mi incuriosivano questi personaggi femminili forti, diversi per l’epoca e vedevo sempre questo nome, Anna Pavignano.  Con l’occasione di questo film ho conosciuto Anna, torinese, che al tempo era una ragazza che veniva dai movimenti femministi, di cui Massimo si era innamorato. Pensate a Massimo Troisi, già famoso per la Smorfia, che, al suo esordio nel cinema, invece di prendere i migliori sceneggiatori “maschi” sul mercato, come si sarebbe fatto normalmente allora, scrive il film con la ragazza di cui si è innamorato. Questo dice tanto sulla totale libertà di Troisi, cosa che mi piaceva moltissimo e che si rifletteva nel modo in cui girava, inquadrava e montava le cose”. In un film su di una figura fondamentale per la cultura ed arte napoletana, non poteva mancare lo sguardo sul sodalizio artistico con Pino Daniele, altro pezzo di cuore di Napoli, amico fraterno di Massimo e suo alter ego musicale dentro e fuori dal cinema: “Le musiche di Pino si sposano con il cinema di Massimo come Nino Rota con Fellini, un quid artistico che nasce dalla fusione delle arti dei due” precisa Martone. Si fa prendere dall’emozione il regista nel descrivere “un dono” di questo film: rivedere Il Postino.

Per me era un film che non c’era, non esisteva, l’avevo visto tra le lacrime, era rimasto un buco nero per me come spettatore. Questo lavoro mi ha portato a rivederlo con Anna Pavignano ed a considerarlo come il punto di arrivo di tutto il cinema di Troisi, nonostante non fosse lui il regista”. Oltre all’amicizia, quali sono i punti di contatto tra Mario Martone e Massimo Troisi? “Siamo diversissimi ma credo ci accomuni questo senso di libertà, il voler fare più o meno le cose che vogliamo fare. Poi, anche io scrivo i miei film con una donna, Ippolita Di Maio, per capire che cosa significa il rapporto tra maschile e femminile nella scrittura. Siamo entrambi figli di Napoli in una maniera totale, mal soffrendo i luoghi comuni e gli stereotipi nei quali si viene messi dentro. Cosa lega me e Massimo? Credo che il cinema sia frutto di un lavoro collettivo ma al tempo stesso un film ha una cifra d’autore molto precisa.  Riconosciamo Fellini ma non possiamo dimenticare Nino Rota ed Ennio Flaiano. Solo il cinema riesce a farti sviluppare la tua poetica d‘autore nella relazione con gli altri. In questo senso Il Postino può e deve essere letto come ultimo film di Troisi anche se non lo ha diretto lui perché è il film che ha scritto e voluto fare”.

Il genio di Troisi è indubbio in Italia ma come verrà percepito dal pubblico internazionale della Berlinale? Martone non esita: “Il discorso sull’amore che non si raggiunge mai, il rapporto con una città in cui sei dentro e fuori contemporaneamente, l’inquietudine e il disappartenere sono temi universali che si possono rintracciare benissimo in altri cineasti, ad ogni latitudine”. Chiara Nicoletti

Quando il documentario (su Massimo Troisi) rischia di fare ombra al protagonista. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 17 Febbraio 2023.

«Buon compleanno Massimo»: vale più un minuto di testimonianza visiva di mille parole

Marcello Mastroianni: «Non capisco sempre cosa dice ma mi fa molto ridere». Si riferiva a Massimo Troisi, sul set di «Che ora è» di Ettore Scola. Il 19 febbraio Troisi avrebbe compiuto settant’anni. Per celebrare questo importante anniversario la Rai ha proposto il documentario «Buon compleanno Massimo» di Marco Spagnoli (Rai3). Allo scrittore Maurizio De Giovanni è toccato il compito di tracciare un profilo dell’artista e tenere insieme le molte testimonianze, persino troppe, con il rischio di fare ombra al protagonista. Si sa come vanno queste cose: si comincia parlando di Troisi e si finisce poi col parlare di sé stessi: «Io lo conoscevo bene».

E dire che c’è il repertorio, il prezioso repertorio: vale più un minuto di testimonianza visiva di mille parole. Come diceva Massimo a Pippo Baudo, a proposito delle troppe interviste: «Mi hanno intervistato cani e marzulli». La vita di Troisi viene ricordata dai suoi familiari, dagli amici, dai collaboratori e da chi ha avuto modo di conoscerlo. Però l’accumulo è sempre un nemico dell’efficacia espressiva. Bastavano il racconto di De Giovanni e alcune testimonianze significative. Un esempio: i Gatti di Vicolo Miracoli (Umberto Smaila, Nini Salerno, Franco Oppini e Jerry Calà) inscenano una descrizione del loro primo incontro con La Smorfia ai tempi di «Non stop» di Enzo Trapani. È una cronaca vivida, divertente, capace di ricostruire lo spirito di quella situazione. Ma che senso ha intervistare Frank Matano? Cosa c’entra con la comicità di Troisi? Sono importanti le testimonianze di Renzo Arbore, di Ferzan Ozpetek, di Vittorio Cecchi Gori (era disposto a interrompere le riprese de «Il postino» pur di salvaguardare la salute di Massimo), di Enzo De Caro (ma Lello Arena?) e di pochi altri. Il resto è ridondanza, cioè quanto di più lontano da quel misto di spaesamento e inadeguatezza che era il segreto della sua comicità.

Quanto ci manca il sorriso di Massimo Troisi. Fabio Ferzetti su La Repubblica il 18 Febbraio 2023.

Laggiù qualcuno mi ama” è l’emozionante omaggio di Mario Martone al grande attore che il 19 febbraio avrebbe compiuto 70 anni. Un viaggio tra memorie, testimonianze e aneddoti

Se Massimo Troisi fosse stato un grande scrittore qualcuno dopo la sua morte prematura avrebbe frugato tra le sue carte e ci avrebbe dato un’edizione critica delle sue opere fitta di inediti e note a piè di pagina. Per fortuna Troisi, che il 19 febbraio avrebbe compiuto 70 anni, non era uno scrittore. Era forse l’ultimo vero grande artista popolare espresso dal nostro cinema. Così, a quasi 30 anni dalla scomparsa (4 giugno 1994), continua ad aggiungere vita alla vita, cioè consapevolezza, buonumore, intelligenza. Con grazia preziosa e tutta sua che un altro grande uomo di spettacolo, Mario Martone, ci restituisce in un documentario personale, anche se fitto di testimonianze (Fofi, Piccolo, Sorrentino, Ficarra e Picone), ed emozionante come pochi: “Laggiù qualcuno mi ama”, dal 23 febbraio in sala.

Martone ha consultato le carte sconosciute di Troisi, disegni, appunti, bigliettini vergati con grafia ora nitida ora incerta, che il futuro autore di “Ricomincio da tre” accumulava fin da ragazzo. Una miniera di scoperte (e talvolta di tuffi al cuore, basti la poesia “La sorte e la morte”) che la sua compagna e sceneggiatrice Anna Pavignano, testimone e complice fondamentale del film di Martone, conservava aspettando qualcuno capace di riportarla in vita. Come fa Martone intrecciando quei foglietti con testimonianze e citazioni dal cinema, dal teatro e dalla tv di Troisi. Che nel confronto con la sua epoca, e col presente, emerge con la limpidezza di una voce che non ci ha mai lasciato ma parla ai giovani di oggi come fosse uno di loro.

Lo dice il gran finale, con quella folla di ragazzi riuniti per “Il Postino” nell’arena del Piccolo America a Monte Ciocci, a Roma. Ma è il senso complessivo di un film che restituisce a Troisi profondità, mistero, spessore politico ed esistenziale, estraendo dalla sua “scandalosa mitezza” una consapevolezza mai esibita ma radicata in tutta la sua poetica. Una poetica modernissima, capace di crescere e affinarsi anche quando recitava per altri, fossero lo Scola di “Splendor” e “Che ora è”, o il Radford del “Postino”, cui lui stesso affidò la regia dopo aver deciso di non andare negli Usa per un trapianto («Non farò “Il postino” col cuore di un altro»). Non molti ricordano che Troisi rinunciò a salire sul palco di Sanremo quando scoprì che avrebbe dovuto consegnare in anticipo il suo testo (non doveva nominare “terremoto, politica e religione”), o che l’esilarante sketch sull’Annunciazione costò al gruppo e alla Rai una denuncia per vilipendio alla religione. Pochi videro nella fragilità e nell’irrequietezza dei suoi personaggi una crisi del maschio con cui ancora facciamo i conti. Nessuno, se non Dario Fo, tra quelli nel documentario, sembrava trattarlo da uguale, i colleghi più anziani lo tenevano un po’ a distanza, come un alieno. Mentre Troisi, con la sua ritrosia, nascondeva il battito prepotente dell’autobiografia, e della malattia che lo minava fin da ragazzo, in quei foglietti privati, o in allusioni che tutti cercavano di non vedere (quanto amore e quanta morte nei suoi film...).

«Eppure un sorriso io l’ho regalato», scrive Troisi, citando la ‘’Antologia di Spoon River” riscritta da Fabrizio De Andrè. Quel sorriso arriva intatto fino a noi.

La mamma di Moana Pozzi: «Quei film? Diceva che non le piacevano: maledetto il giorno che incontrò Schicchi. La storia con Craxi mi faceva arrabbiare». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera l'11 novembre 2023.

Rosanna Alloisio, la mamma di Moana Pozzi: «Nemmeno io l’ho capita. Il tumore al fegato? Combattè come una leonessa, ma se ne è andata in 7 mesi. Ora al cimitero non c’è, ho ritirato io le ceneri, ma dove sono non lo dirò a nessuno»

«Le ripetevo: “Non spogliarti, non li fare quei brutti film”. Dio sa se ci ho provato a convincerla, non c’è stato santo. “Mammina, non ti arrabbiare, tanto lo so che mi vuoi bene lo stesso. In fondo non piacciono nemmeno a me”. E rideva, aveva denti bellissimi. “Come sei antica. Anche le statue sono nude. Metteresti il reggiseno pure a Paolina Bonaparte”. Litigavamo. Le passava subito. “Quelle parole cattive che ti ho detto, dimenticale, non ne pensavo nemmeno una”. Impossibile non amarla. A volte mi chiamava da Los Angeles solo per chiedermi una ricetta. O per dirmi che mi aveva comprato un paio di scarpe a pois, li adoravo. Non devo perdonarla di niente, quello spetta solo a nostro Signore». Rosanna Alloisio, 82 anni, casalinga piemontese, è la madre di Moana Pozzi, iconica diva del porno, morta all’Hôtel-Dieu di Lione il 15 settembre del 1994, a 33 anni, per un tumore al fegato. «I primi tempi mi illudevo che da un momento all’altro mi avrebbe telefonato. Invece no. Sarà andata in un posto migliore, dove spero sia felice».

Come lo era da piccolina.

«Una bambina tranquilla, curiosa. Amava tutti gli animaletti. Aveva una cornacchia, Penelope, le faceva il bagnetto nel catino. E dei criceti, di cui avevo il terrore. Da grandicella giocava solo con la Barbie. O con il Lego. A scuola era una meraviglia, imparò subito a leggere e scrivere. La sorella Tamiko è diversa, come la notte dal giorno».

Moana significa: «Là dove il mare è profondo».

«Quando ho conosciuto Alfredo avevo vent’anni, fresca di collegio dai Salesiani. Era bello. Mamma disse: “Ti farà piangere”. Ci aveva visto giusto. Sognavamo la Polinesia. Al prete quel nome non piaceva, non voleva battezzarla. Per convincerlo ho aggiunto Anna e Rosa, come le nonne».

Capricciosa?

«Mai. Buona, giudiziosa, dove la mettevi stava. Soffrivo di mal di gola. Moana metteva un dado nel pentolino con l’acqua. “Tranquilla, mammina, ti preparo il brodo”».

Dalle suore Orsoline.

«Alle elementari, le piaceva. A Ovada, qui vicino, c’era la scuola di musica Rebora, Moana studiava chitarra classica, suonava sempre Les jeux interdits. Era brava, cantava bene. Amava il tennis, prese il brevetto da sub sul mar Rosso con i militari americani. Faceva immersioni al lago di Bracciano, nell’acqua scura, non aveva paura di niente».

Adolescente complicata?

«No, anche se a 16 anni aveva già il corpo da donna, alta un metro e 78, prosperosa, non metteva minigonne o scollature, però attirava i ragazzi. “Oddio”, mi preoccupavo. Ero sola, mio marito, ricercatore nucleare, non c’era mai. Quando andava in balera stavo sveglia finché non rientrava, ma droghe non ne ha mai prese, non fumava e nemmeno beveva».

A 18 andò a vivere a Roma.

«Per studiare recitazione. Noi eravamo di stanza a Bracciano. C’era un alberghetto lì vicino. Vennero a girarci una commedia con Edwige Fenech. Moana passò, la notarono. “Bella come sei, potresti fare del cinema”. Ero contraria. “Prima finisci di studiare”. Cominciò a posare come modella per i pittori. Qualche particina, la tv. Noi sempre in trasferta, ci si vedeva poco o niente. Non so come o dove, un giorno purtroppo incontrò quello Schicchi. Ed entrò in quel mondo orribile. “Perché lo fai? Non ti rendi conto, finirai nel baratro”. Glielo spiegai in tutte le lingue. Però anche la migliore delle madri alla fine si stanca. “Non ti preoccupare, mamma, poi smetto”».

Invece continuò.

«Quando si ficcava in testa qualcosa andava fino in fondo. In paese, non le dico, c’era da vergognarsi a uscire. Nessuno ci mancava di rispetto però, specie per mio padre, era una pena. “Siamo una famiglia per bene, abbiamo sempre camminato a testa alta”. Moana restava zitta».

Felice?

«Non lo so. Con i primi soldi comprò un piccolo appartamento dietro San Pietro, con un terrazzo pieno di fiori. E un attico sulla Cassia, pareva la casa di una principessa. Andavamo a pregare sulla tomba di Papa Roncalli, il suo preferito. Era molto religiosa. Ho ritrovato la sua patente, nella foderina teneva una foto di Giovanni XXIII, una di Pallino, il suo cagnolino bianco, l’immaginetta di Santa Rita da Cascia. In camera da letto due quadri della Via Crucis, Il Cristo deriso e Ecce homo. “Come puoi fare quelle porcherie, allora?”, insistevo. “Sono diversa da come pensi tu. Ma resto sempre la tua Moana”».

L’ha mai guardato un suo film a luci rosse?

«No, per l’amor del cielo, non potrei sopportarlo, mi sentirei malissimo».

Con Bettino Craxi.

«Non erano solo amici. Lui non mi piaceva. “Come fai a stare con quel vecchiaccio?”. “È intelligente, gentile, si prende cura di me”. “Ti credo”, pensavo. Cercava la figura paterna che non ha avuto. Per mio marito io e le figlie eravamo soltanto una scocciatura, questa è la verità. Una volta Moana tornò a casa con una maglietta da uomo, enorme. “Me l’ha lasciata Bettino”. “Oddio, sembra quella di un ippopotamo”. “Dai, mamma, cosa importa?”. Lui diventò geloso, lei frequentava altri. Si sono lasciati».

Da ragazza ha avuto un figlio, Simone, che per anni fu creduto suo fratello.

«Non era suo figlio. Non ne ha mai voluti. “Si vergognerebbero di me”. Non è nemmeno mio, ma è come se lo fosse, sopravvivo per lui».

Eppure fu Simone a raccontarlo in un libro.

«Consigliato da una cattiva fidanzata che lo convinse a cercare pubblicità. Ma è un ragazzo d’oro, se n’è pentito».

A un certo punto Moana sposò Antonio Di Ciesco.

«Sedicente marito. Matrimonio a Las Vegas, con una pergamena a fiorellini. Un nullafacente, le faceva da autista. Si strafogava di ostriche con i soldi di mia figlia. Ha aspettato che morisse per registrarlo, lei lo avrebbe ucciso. Sul certificato di morte c’era scritto “nubile”».

La malattia.

«Era quasi Pasqua. Moana tornò a casa. Mi chiedeva sempre di prepararle i ravioli di carne e la cima alla genovese in brodo. “Mettici tanta maggiorana”. Quella volta però non toccò cibo. “Sono due mesi che ho sempre la nausea, se mangio vomito, mi sale la febbre. Sono stata in Africa, forse ho preso un virus”. Aveva gli occhi un po’ gialli. I dottori dicevano che era un’epatite mal curata. La convinsi a fare qualche accertamento a Lione con un medico nostro amico. Le hanno trovato il tumore al fegato. Però era fiduciosa. “Vedrai, mi curo e guarisco”. Voleva vivere. In sette mesi se n’è andata».

Gli ultimi giorni con lei.

«Quanto ha sofferto, ma era una leonessa. Aveva ripreso peso. Nel letto d’ospedale, mi mostrò le gambe. “Sono tornate com’erano”. Due giorni prima di morire mi chiese di toglierle lo smalto alle mani, per metterne uno trasparente. “Ai piedi lasciami quello fucsia”. Con l’aiuto di un’infermiera si lavò i capelli, con tubi e flebo attaccati. Parlavamo, ridevamo, ero convinta che si riprendesse. “Appena esco ci trasferiamo in campagna e apro una libreria”. Quando è morta era serena, ancora bella, le ciglia lunghissime. “Non metto nemmeno il mascara”. Sembrava che dormisse».

Voleva essere cremata.

«Al cimitero non c’è, ho ritirato io le ceneri, ma dove sono non lo dirò a nessuno».

Chi era davvero Moana?

«Una ragazza fuori dal comune, un enigma. Faceva del bene pure ai sassi. Leggeva tanto, amava i classici, poi non so cosa è successo. Ancora oggi mi chiedo dove ho sbagliato, me ne faccio una colpa. Il parroco dice che non devo, che è così che era scritto in cielo. L’ho sognata soltanto una volta. Vestita di bianco, con una borsetta d’argento, scalza. “Sei senza scarpe”. “Dove sto andando non servono, è un bel posto, si sta bene”. E mi ha sorriso».

Estratto dell’articolo di Federico Pontiggia per “ sabato 23 settembre 2023.

Euridice Axen, dopo averla interpretata a teatro ritrova la celebre pornostar in Essere Moana, la docuserie prodotta da Verve Media Company e disponibile su Discovery+: è recidiva. 

Moana Pozzi è per me un sogno, sfugge alla ragione, ti ci attacchi. Ancor prima di portarla sul palcoscenico in Settimo senso, avevo espresso il desiderio che venisse rappresentata, non necessariamente da me: dopo un mese e mezzo, mi è arrivata la proposta del regista Ruggero Cappuccio, un testo colto, finissimo. 

In Settimo senso denuncia la vera pornografia: quale sarebbe?

Quella non dichiarata, subdola, che alberga nella politica, alligna nelle nostre stesse bassezze e menzogne: tutto quel che è volgare, forzato, coatto, e sopra tutto subliminale, questa è la vera pornografia. Nello spettacolo, la mia Moana rivendica: “Io sono il porno per il porno, il nulla per il nulla, il gioco per il gioco”. […]

Lei che la conosce bene, c’è in Essere Moana, che annovera le testimonianze del marito Antonio Di Ciesco, Eva Henger, Rocco Siffredi, qualcosa che l’abbia sorpresa?

Che potesse far parte dei Servizi segreti. Plausibile, frequentando i politici, avendo contatti. 

Ma quando avrebbe iniziato?

Se fosse da molto prima che diventasse Moana, sarebbe la nostra Mata Hari, andrebbe oltre qualunque immaginario. Moana era sposata, il fratello era in realtà il figlio: poteva essere totalmente una copertura. Sfruttando le aderenze politiche, alla voce Bettino Craxi, lavorò con Fabio Fazio a Rai2 e venne ospitata da Pippo Baudo: una pornostar sulla tv generalista. […]

In Loro di Paolo Sorrentino chiede al ministro per cui si toglie le mutandine: “Lo senti l’odore della mia figa?”. Nessuna remora, nessun timore?

Se stai interpretando un personaggio, interpreti quello: c’era un grande regista, e una storia da raccontare, e da raccontare in quel modo. Ma la domanda che mi ha posto a un uomo di solito non la si fa: perché quello femminile dev’essere un atto di coraggio? Questa mentalità andrebbe scardinata. Io non ho tabù. All’opposto, so essere bacchettona quando una scena, di nudo o meno, è gratuita, senza senso: è lì che si innesca il voyeurismo. […]

Estratto da ilsussidiario.net venerdì 1 settembre 2023.

Nata a Genova il 27 aprile 1961, Moana  Pozzi era figlia di un fisico nucleare e di una casalinga, ma a 18 anni lasciò la famiglia per trasferirsi a Roma dove iniziò la sua vita e poi la sua carriera fino a diventare la regina del porno. In mezzo tanti amori e amorazzi ma, soprattutto uno che fece molto discutere, la sua liaison con Craxi e ne La filosofia di Moana raccontava: “Cominciò a farmi un sacco di complimenti (…) Ero gratificata (…) Due giorni dopo mi telefonò… Uscimmo soli. Cenammo in albergo e finimmo in camera. Lo feci per il carisma, non per altro. Allora non era nemmeno presidente. A lui piacevano più i preliminari che la cosa in sé. Era in adorazione per le donne, ti copriva di attenzioni, si preoccupava”.

Tratto da La Filosofia di Moana - Bettino Craxi, identificato come “Il segretario di un partito di sinistra”. 

“Un pomeriggio di dicembre del 1981, Antonella, una mia amica intrallazzona, mi telefonò tutta eccitata e mi disse: “Questa sera sono riuscita ad organizzare una cena con un politico importante, mettiti il vestito più provocante che hai… voglio che tu lo conosca perché se vuoi fare l’attrice ti può essere molto utile. Adora le ragazze vistose” – racconta Moana a proposito del rapporto con un politico italiano che sarà identificato come Bettino Craxi, anche sulle pagine di Repubblica. 

Quella sera al ristorante mi sentivo nervosa e fuori luogo, a tavola io e Antonella eravamo le uniche donne in mezzo a dieci uomini che parlavano sempre di politica. Lui, il segretario di un partito di sinistra, continuava a guardarmi pieno di interesse e dopo cena mi invitò a bere qualcosa nell’albergo in cui viveva. Non facemmo l’amore come avrei voluto, ma si masturbò accarezzandomi. Poi mi disse che aveva troppi pensieri per riuscire a concentrarsi (come quasi sempre successe in seguito).

A quell’incontro ne seguirono molti altri. Ci vedevamo nel suo albergo, in qualche ristorante di moda o a casa di una sua amica editrice. Qualche volta dormivo con lui. La mattina mandava il suo segretario personale a comprarmi dei vestiti e scarpe perché io avevo solo l’abito da sera del giorno prima e non potevo uscire dall’albergo tutta luccicante! 

Il politico era un uomo spiritoso e con lui mi divertivo. Una mattina ricevette nel suo studio un cardinale mentre io ero nella stanza accanto. I miei vestiti erano sparsi dappertutto e ridevo all’idea che il cardinale si sarebbe potuto accorgere di qualcosa. Quando lui mi chiamava al telefono presso il residence dove vivevo si presentava dicendomi: “Sono un ammiratore dell’hotel…” Credo che mi volesse bene e cercò di aiutarmi nel mio lavoro.

Mi fece fare un servizio fotografico per Playmen, poi mi presentò al direttore di Raidue che mi inserì come conduttrice, insieme a Bobby Solo, in un programma per ragazzi, Tip Tap Club. 

A lui non piaceva che io desiderassi fare cinema, mi diceva che era un ambiente poco serio e che avrei dovuto puntare tutto sulla televisione. Mi chiedeva spesso come facessi a mantenermi a Roma. A me seccava dirgli che avevo degli amanti generosi e gli rispondevo che i miei genitori mi mandavano un mensile. Quando otto mesi dopo, per colpa del mio carattere bizzarro smettemmo di frequentarci, mi dispiacque. Infatti se all’inizio avevo pensato di trarre solo vantaggi dalla sua amicizia, poi mi ero affezionata alla sua gentilezza e alle sue attenzioni. Voto, 7 e mezzo”.

L’amica editrice del politico alla quale si riferisce Moana è quasi sicuramente Adelina Tattilo, editrice di Playmen – non a caso infatti Craxi riuscì a farle ottenere un photoshoot sulla rivista. Tattilo fu amica di Craxi ed oltre ad essere la fondatrice di Playmen, fu una figura chiave nell’editoria italiana del suo tempo. Negli anni ’90 fondò anche la rivista gay Adam.

Valerio Cappelli per il “Corriere della Sera” lunedì 14 agosto 2023 

Euridice Axen ha in comune con una donna divenuta icona, Moana Pozzi, una dote preziosa: la libertà. […] Dal 9 settembre su Discovery+ nella docu-serie Essere Moana , e a teatro nella prossima stagione, a 30 anni dalla morte della pornostar, torna con Settimo senso di Ruggero Cappuccio: «È un dialogo immaginario sulla vera pornografia (la politica, l’individualismo sfrenato…) tra una giornalista e una donna, Moana, che però non si dice mai in modo dichiarato che è lei».

Sarebbe stato difficile vederla invecchiare… «Con la morte prematura, e misteriosa, è entrata nella leggenda, come Marilyn a cui mi sono ispirata. Moana è la nostra Monroe per quel senso di inafferrabilità, quella risata piccola che sfuggiva, come se nascondesse qualcosa, ma era meno fragile. Sorrideva anche su domande serie, c’era questo stacco netto tra il suo mestiere e la sua essenza. Aveva il sorriso enigmatico della Gioconda. Si è parlato tanto se sia ancora in vita da qualche parte, io la vedo molto dura, ne parlo nella docu-serie dove si adombra che forse avesse deciso di sottrarsi una volta malata, forse morì qualche mese dopo. Mi auguro sia in vita ma la vedo dura».

Cosa avrebbe detto Moana del suo spettacolo?

«Non le sarebbe piaciuto, così mi disse la sua assistente quando venne alla prima. Avrebbe odiato essere rappresentata. Andai in scena con quel peso».

Provò a fare cinema «normale».

«Ma non le diedero mai parti drammatiche. Diceva, preferisco spogliarmi (spingendosi oltre) e diventare una star, piuttosto che spogliarmi per Pierino e fargli da spalla come semplice apparizione».

Lei ha girato una scena audace per «Loro» di Sorrentino.

«Mi richiamò dopo The Young Pope . In Loro sono la donna dell’imprenditore pugliese che procurava ragazze a Berlusconi. E in piscina mi depilavo l’inguine. I miei amici rimasero increduli. Quando reciti il pudore non esiste. Mai avuto grandi problemi col nudo, non ho bisogno della grande firma per spogliarmi, se ha un senso e aggiunge al racconto. Sono altre le cose che mi imbarazzano, ho la sindrome della tavolata, quando al ristorante scatta una confidenza eccessiva col vicino di sedia».

[…]

Estratto dell’articolo di Andrea Palazzo per “il Messaggero” il 17 gennaio 2022.

«Ero più morta da viva e sono più viva da morta». A sussurrare queste parole in un vestito di tulle rosso è Moana Pozzi, che rivive a teatro nella pièce di Ruggero Cappuccio, Il settimo senso (dal 19 al Teatro Parioli di Roma, regia di Nadia Baldi).

 A trent' anni dalla scomparsa (a 33 anni, a Lione, il 15 settembre 1994), la diva del porno è di nuovo fra noi per parlare di sesso, potere e volgarità, giocando con i nostri pregiudizi come fosse uno sberleffo. Nei panni della protagonista Euridice Axen, 42, che racconta così il progetto: […]

 Per alcuni picconava la morale borghese, per le femministe - al contrario - la pornografia degrada le donne. Lei cosa ne pensa?

«Io sono per la libertà di espressione del proprio corpo, non ho tabù sessuali e se in passato la pornografia raccontava un mondo erotico destinato ai maschi, ora la fruizione è anche femminile».

Fosse degradante, non lo sarebbe anche per un pornoattore?

«Esatto, ma non penso lo sia per nessuno. Per Moana la vera donna-oggetto era la casalinga. Senza neppure uno stipendio, aggiungo io».  […]

 La sua carica sensuale spaventava gli uomini?

«In lei non c'era senso di colpa, paura del peccato o vergogna, ma padronanza assoluta del corpo. Molti se ne sentivano minacciati. In realtà Moana era anche profondamente ironica. Come se dicesse: se guardate i miei film la mamma non vi sgrida, tranquilli».

  C'è chi dice che fosse un bluff come pornostar

«Ha dedicato la carriera al sesso, non la sua vita. La scissione fra donna e attrice mette a disagio il maschio che voleva immaginarsela femmina insaziabile. Lei era la Greta Garbo del porno. Poteva anche pensare alle parole crociate: era lavoro, ma lo faceva come nessun'altra».

Negli ultimi tempi si era forse stancata del porno? È morta poco prima dell'avvento del web che ha rivoluzionato quel mondo.

«È possibile. Era troppo intelligente per farsi sfruttare dall'industria porno, che è cosa ben diversa dalla pornografia. Forse oggi ci direbbe di non esagerare col sesso virtuale. Sarebbe diventata una scrittrice oppure presenterebbe Sanremo». […]

Moana Pozzi moriva 28 anni fa: lo scandalo del porno, la liaison con Craxi, la morte misteriosa. Silvia Maria Dubois su Il Corriere della Sera il 15 Settembre 2022.

Ritratto della più grande attrice a luci rosse italiana, nata a Genova il 27 aprile 1961. Gli scandali e le relazioni «pericolose», la politica fino al decesso, con le ipotesi più diverse

La matematica, il clavicembalo e la fuga a Roma

Il suo nome era uno scivolo morbido di vocali, pronto a terminare la sua corsa nella taglia numero sei del suo seno, ma pure con il rischio di schiantarsi nello sguardo serio dei suoi occhi intelligenti. Moana. Per la precisione Anna Moana Rosa Pozzi: uno dei misteri più affascinanti del cinema a luci rosse (quando il porno era ancora un mondo sotterraneo e le videoteche avevano quella tenda nera che copriva le cassette vietate) terminato il 15 settembre 1994, esattamente 28 anni fa. Ma ecco alcune curiosità su di lei. Nata a Genova il 27 aprile 1961, figlia di un fisico nucleare e di una casalinga, seppe mescolare quei due mondi dentro di sé senza troppi squilibri: la madre spazzava la polvere dai pavimenti, il padre ne studiava la parte radioattiva. Moana, in mezzo, studiò e tanto: il liceo scientifico prima, il conservatorio poi. Le sue esibizioni di chitarra e clavicembalo devono essere state affascinanti. Ma Moana ebbe voglia di andare oltre: a 18 anni lasciò la famiglia per trasferirsi a Roma. Non dopo aver seguito i genitori nei tanti posti del mondo dove il padre veniva trasferito per lavoro: Brasile, Canada, infine Lione. Una città a cui Moana si affezionò in modo particolare, dove forse si sentiva sicura e anonima, e dove decise di vivere i suoi ultimi giorni: come fanno certi animaletti che si nascondono per morire, scegliendo un posto lontano ma conosciuto.

Gli esordi (già un “po’ porno”)

Estate 1980, camera da letto della Reggia di Caserta: è lì, in mezzo alla storia borbonica, che Moana scopre il seno davanti alla telecamera, per la prima volta. Senza troppi problemi, sicura del proprio corpo, nutrita di una certa dose di libertà post sessantottina che le cresce dentro. Si tratta di un cortometraggio, “Smorza ‘e llights ovvero Caserta by night”, di Arnaldo Delehaye, con Renzo Arbore. Ma l’ingresso “ufficiale” nella pornografia di “Serie A” avverrà solo sette anni più tardi. In mezzo, Moana, sembra quasi divertirsi a tirare la corda, calibrando uscite osè a lavori più istituzionali. A Roma si mantiene facendo la modella, con piccole parti nelle commedie italiane, che vivono la loro stagione più florida. Ma Moana osa troppo: nel 1982 le viene affidata una grande occasione, quella di condurre un programma per bambini su Rai 2 (“Tip Tap Club”), ma contemporaneamente si intensificano le sue presenze nei film proibiti, con scene sempre più hot. A nulla le servirà la sfilza di pseudonimi usati in quegli anni (Margaux Jobert si alternava a Linda Heveret): beccata dai dirigenti Rai, fu allontanata dal programma. Lì, il pubblico, inizio ad interessarsi a lei.

Fantastica Moana

È il 1987, l’esordio nei cinema è frontale: una pellicola con il suo nome, la regia di Riccardo Schicchi, un contratto con l’agenzia Diva Futura. Con “Fantastica Moana” si celebra il battesimo di fuoco di quella che sarà ricordata come la più grande pornostar italiana. Da lì, l’agenda della bionda genovese, non avrà più un giorno libero. “Moana la bella di giorno”, “Cicciolina e Moana Mondiali” sono solo due delle pellicole diventate cult, e cucite addosso alla fortissima personalità dell’attrice. Il mito in quegli anni sale di giorno in giorno: le tv se la contendono, i giornali la seguono, al pubblico piace pensare alla rivalità con Ilona Staller (i protagonisti del porno in quel periodo strategico diventano sempre più pop, hanno finalmente un volto e una vita extra, come dimostra anche il caso di Rocco Siffredi). Moana accontenta tutti: non risparmia ospitate nei salotti tv e nei primi, scandalosissimi “Erotik Festival” in terra italiana, incisioni musicali (“Mi sono rotta lo sai”; “Supermacho”), un libro sulle sue conquiste di letto che inguaia non poco personaggi istituzionali, come l’allora segretario del Psi Bettino Craxi. Il gioco delle ambiguità è un crescendo: nell’Araba Fenice, nel 1988, parla vestita solo di cellophane, scoppia il famoso caso della “rivolta delle casalinghe”, una sua lunga intervista a Baudo resta negli annali. Blob la manda in onda a più non posso. Censura permettendo. Lei stessa dirà più volte: “Il mio è un erotismo consapevole. Faccio all’amore e mi diverto. Ho fatto quello che volevo”.

La politica

Un cuore rosa, dentro una foto stilizzata di Moana. È il simbolo del Partito dell’Amore, fondato da Riccardo Schicchi e Mauro Biuzzi: nato all’inizio degli anni Novanta, vide un passaggio di testimone proprio fra le due antagoniste dell’hardcore, Cicciolina-Moana. La prima aveva già avuto la fortuna di entrare in parlamento con i Radicali, la seconda, meno fortunata, scese in campo per le elezioni politiche del 1992 e poi per le amministrative nella capitale. Nonostante i punti “seri” del suo programma (lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata) rispetto a quelli precedentemente sostenuti dalla collega (creazione di parchi dell’amore, legalizzazione delle case chiuse), non riuscì ad arrivare all’elezione. Ma Moana prese più voti (12.393 nominali) di Umberto Bossi e Francesco Rutelli. La sconfitta fece virare ancora di più il programma verso temi più seri e sempre meno scandalistici. Moana organizzava direttivi nella sua casa romana, metteva soldi di tasca propria (il partito aveva perso il diritto al rimborso elettorale), ci credeva. Il partito, sebbene trafitto dalle sconfitte elettorali, morì con la scomparsa di Moana. Anche se per un certo periodo lo ressero Biuzzi e la mamma dell’attrice, sostanzialmente per difenderne l’immagine, anche in tribunale.

La morte, tutto un altro film

“Moana è viva!” Moana è viva!”. Sembrano visioni. Con regolare periodicità una voce che non si arrende, si leva da qualche giornale, pronta a giurare che Moana esiste, si nasconde da qualche parte del mondo, come uno di quegli ex leader pronti a tornare al momento giusto. Voci pronte ad alimentare il mito, e a far male alla famiglia. Moana è morta all’Hotel-Dieu di Lione il 15 settembre 1994, dove era ricoverata da mesi. La sua morte è ufficialmente dovuta ad un tumore al fegato, ma si parla anche di epatite cronicizzata. E qui inizia un altro film, l’ultimo di Moana: la sua morte, a soli 33 anni, è ancora fonte di misteri. Dai più neri, come l’ipotesi di essersi spenta a causa dell’Aids a quelle più colorate (viva, felice, al caldo). A posteriori, tutti hanno qualcosa da dire: chi se la ricorda emaciata nelle ultime ospitate, chi la vedeva sempre più triste, chi ha letto spiegazioni nuove in sue vecchie dichiarazioni. La verità è che il pubblico ha bisogno di ricordare un personaggio che ha segnato un’epoca: una ribelle, sensuale libera, elegante e intelligente. Quasi ossimori se cuciti addosso ad una donna, fino a pochi decenni fa.

Silvia Maria Dubois per corriere.it il 2 ottobre 2021.

La matematica, il clavicembalo e la fuga a Roma. Il suo nome era uno scivolo morbido di vocali, pronto a terminare la sua corsa nella taglia numero sei del suo seno, ma pure con il rischio di schiantarsi nello sguardo serio dei suoi occhi intelligenti. Moana. Per la precisione Anna Moana Rosa Pozzi: uno dei misteri più affascinanti del cinema a luci rosse (quando il porno era ancora un mondo sotterraneo e le videoteche avevano quella tenda nera che copriva le cassette vietate) terminato il 15 settembre 1994. Che stanotte, su Cine 34, un documentario «Moana Pozzi, storia di una diva» prova a raccontare, alle 2.15. Ma ecco alcune curiosità su di lei. Nata a Genova il 27 aprile 1961, figlia di un fisico nucleare e di una casalinga, seppe mescolare quei due mondi dentro di sé senza troppi squilibri: la madre spazzava la polvere dai pavimenti, il padre ne studiava la parte radioattiva. Moana, in mezzo, studiò e tanto: il liceo scientifico prima, il conservatorio poi. Le sue esibizioni di chitarra e clavicembalo devono essere state affascinanti. Ma Moana ebbe voglia di andare oltre: a 18 anni lasciò la famiglia per trasferirsi a Roma. Non dopo aver seguito i genitori nei tanti posti del mondo dove il padre veniva trasferito per lavoro: Brasile, Canada, infine Lione. Una città a cui Moana si affezionò in modo particolare, dove forse si sentiva sicura e anonima, e dove decise di vivere i suoi ultimi giorni: come fanno certi animaletti che si nascondono per morire, scegliendo un posto lontano ma conosciuto. 

Gli esordi (già un “po’ porno”). Estate 1980, camera da letto della Reggia di Caserta: è lì, in mezzo alla storia borbonica, che Moana scopre il seno davanti alla telecamera, per la prima volta. Senza troppi problemi, sicura del proprio corpo, nutrita di una certa dose di libertà post sessantottina che le cresce dentro. Si tratta di un cortometraggio, “Smorza ‘e llights ovvero Caserta by night”, di Arnaldo Delehaye, con Renzo Arbore. Ma l’ingresso “ufficiale” nella pornografia di “Serie A” avverrà solo sette anni più tardi. In mezzo, Moana, sembra quasi divertirsi a tirare la corda, calibrando uscite osè a lavori più istituzionali. A Roma si mantiene facendo la modella, con piccole parti nelle commedie italiane, che vivono la loro stagione più florida. Ma Moana osa troppo: nel 1982 le viene affidata una grande occasione, quella di condurre un programma per bambini su Rai 2 (“Tip Tap Club”), ma contemporaneamente si intensificano le sue presenze nei film proibiti, con scene sempre più hot. A nulla le servirà la sfilza di pseudonimi usati in quegli anni (Margaux Jobert si alternava a Linda Heveret): beccata dai dirigenti Rai, fu allontanata dal programma. Lì, il pubblico, inizio ad interessarsi a lei.

Fantastica Moana. È il 1987, l’esordio nei cinema è frontale: una pellicola con il suo nome, la regia di Riccardo Schicchi, un contratto con l’agenzia Diva Futura. Con “Fantastica Moana” si celebra il battesimo di fuoco di quella che sarà ricordata come la più grande pornostar italiana. Da lì, l’agenda della bionda genovese, non avrà più un giorno libero. “Moana la bella di giorno”, “Cicciolina e Moana Mondiali” sono solo due delle pellicole diventate cult, e cucite addosso alla fortissima personalità dell’attrice. Il mito in quegli anni sale di giorno in giorno: le tv se la contendono, i giornali la seguono, al pubblico piace pensare alla rivalità con Ilona Staller (i protagonisti del porno in quel periodo strategico diventano sempre più pop, hanno finalmente un volto e una vita extra, come dimostra anche il caso di Rocco Siffredi). Moana accontenta tutti: non risparmia ospitate nei salotti tv e nei primi, scandalosissimi “Erotik Festival” in terra italiana, incisioni musicali (“Mi sono rotta lo sai”; “Supermacho”), un libro sulle sue conquiste di letto che inguaia non poco personaggi istituzionali, come l’allora segretario del Psi Bettino Craxi. Il gioco delle ambiguità è un crescendo: nell’Araba Fenice, nel 1988, parla vestita solo di cellophane, scoppia il famoso caso della “rivolta delle casalinghe”, una sua lunga intervista a Baudo resta negli annali. Blob la manda in onda a più non posso. Censura permettendo. Lei stessa dirà più volte: “Il mio è un erotismo consapevole. Faccio all’amore e mi diverto. Ho fatto quello che volevo”. 

La politica. Un cuore rosa, dentro una foto stilizzata di Moana. È il simbolo del Partito dell’Amore, fondato da Riccardo Schicchi e Mauro Biuzzi: nato all’inizio degli anni Novanta, vide un passaggio di testimone proprio fra le due antagoniste dell’hardcore, Cicciolina-Moana. La prima aveva già avuto la fortuna di entrare in parlamento con i Radicali, la seconda, meno fortunata, scese in campo per le elezioni politiche del 1992 e poi per le amministrative nella capitale. Nonostante i punti “seri” del suo programma (lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata) rispetto a quelli precedentemente sostenuti dalla collega (creazione di parchi dell’amore, legalizzazione delle case chiuse), non riuscì ad arrivare all’elezione. Ma Moana prese più voti (12.393 nominali) di Umberto Bossi e Francesco Rutelli. La sconfitta fece virare ancora di più il programma verso temi più seri e sempre meno scandalistici. Moana organizzava direttivi nella sua casa romana, metteva soldi di tasca propria (il partito aveva perso il diritto al rimborso elettorale), ci credeva. Il partito, sebbene trafitto dalle sconfitte elettorali, morì con la scomparsa di Moana. Anche se per un certo periodo lo ressero Biuzzi e la mamma dell’attrice, sostanzialmente per difenderne l’immagine, anche in tribunale. 

La morte, tutto un altro film. “Moana è viva!” Moana è viva!”. Sembrano visioni. Con regolare periodicità una voce che non si arrende, si leva da qualche giornale, pronta a giurare che Moana esiste, si nasconde da qualche parte del mondo, come uno di quegli ex leader pronti a tornare al momento giusto. Voci pronte ad alimentare il mito, e a far male alla famiglia. Moana è morta all’Hotel-Dieu di Lione il 15 settembre 1994, dove era ricoverata da mesi. La sua morte è ufficialmente dovuta ad un tumore al fegato, ma si parla anche di epatite cronicizzata. E qui inizia un altro film, l’ultimo di Moana: la sua morte, a soli 33 anni, è ancora fonte di misteri. Dai più neri, come l’ipotesi di essersi spenta a causa dell’Aids a quelle più colorate (viva, felice, al caldo). A posteriori, tutti hanno qualcosa da dire: chi se la ricorda emaciata nelle ultime ospitate, chi la vedeva sempre più triste, chi ha letto spiegazioni nuove in sue vecchie dichiarazioni. La verità è che il pubblico ha bisogno di ricordare un personaggio che ha segnato un’epoca: una ribelle, sensuale libera, elegante e intelligente. Quasi ossimori se cuciti addosso ad una donna, fino a pochi decenni fa. 

Introduzione a “Moana”, di Marco Giusti, Mondadori, 2004. Dagospia " il 27 aprile 2021. Svanito come un fiocco di neve, il corpo bianco di Moana ripercorre da fantasma i nostri anni Ottanta. Piccola Marilyn martirizzata ed esaltata dal porno, inutilmente santificata dai media, icona femminile di desideri creativi e di desideri puri, bassi e chiari, impone nel cinema il suo corpo-macchina sessuale e in tv la sua testa, magnificamente pensante. Più di tante star grandi e piccole del nostro schermo, Moana progetta razionalmente il suo mito e chiude drammaticamente la sua glorificazione, lasciandoci il suo grande corpo bianco, incontaminato e perfetto. Nella sua breve vita, Moana tocca o è toccata da tutti i personaggi illustri che danno vita all’Italia di fine Novecento. E’ una galleria di celebrità che Moana colleziona amorosamente e dalle quali è a sua volta collezionata. Si parte da Fellini, ovviamente, che la vuole corpo racchiuso dentro mille schermi nello schermo del suo film sulla tv, Ginger e Fred, che la ridisegna come sogno dentro altri sogni, pronto poi a ridurla, a tagliarla, a escluderla dalla totalità di un’opera già così parcellizzata e moribonda (l’agonia del cinema dentro la tv… l’agonia di un’Italia come sarà dopo trent’anni di dominio televisivo, cioè oggi…). E’ ancora Fellini, e il suo cartellone dell’Eur con Anita Ekberg gigantesca in Boccaccio ’70, che viene parodiato nella prima scena del primo hard ufficiale con il nome sul titolo della neo pornostar, Fantastica Moana, dove il suo grande corpo latteo, volutamente ekberghiano, prende vita proprio come un fumetto. Sfregio e omaggio al maestro, come vuole il mondo parallelo dell’hard, ma anche piccolo sfruttamento dell’universo felliniano per il lancio definitivo della nuova diva. Si passa poi a Craxi, il più potente politico italiano degli anni Ottanta, e quello che cadrà con più rumore di tutti, l’amante velato e svelato che la porta in televisione e cerca di aiutarla nella sua scalata verso l’eternità. Anche Craxi verrà moanizzato quando si tratterà di elencare i nomi degli amanti celebri, il “politico anonimo”, troppo nascosto e quindi massimamente esibito. Ma pensiamo anche a Mario Schifano, che la introduce nel suo studio da amica, Mimmo Rotella, che ne ritaglia il corpo dai manifesti dei suoi hard intuendone la grandezza da star, prima della santificazione, Sylvano Bussotti, che la espone alla Biennale come “musica del corpo”. E ancora i grandi comici italiani degli ultimi trent’anni, Massimo Troisi, forse qualcosa in più che uno dei duecento amanti e del quale cerca in tutti i modi di non raccontare troppo, Roberto Benigni, che la fa ridere, Beppe Grillo, Carlo Verdone, che la immortala sirena in Borotalco. Ma non sarebbe Moana se non apparisse contemporaneamente anche nel cinema delle pratiche basse dei comici del tempo, cioè assieme a Alvaro Vitali, Andrea Roncato, Lino Banfi, Bombolo, non ancora parodia di se stessa, ma corpo-presenza da rintracciare come una reliquia dopo la sua scomparsa in film che lei ha sempre detto di odiare. Commediole che la vedono nuda fra le tante, mai Moana. Per arrivare a quello avrà bisogno di dell’inferno dell’hard e di partner che, pur attraversandola in ogni parte del corpo, non le offuscheranno il primo piano da star come un qualsiasi comico degli anni Ottanta. Sfida anche il calcio, logicamente. Amante di Tardelli nella realtà, velina opinionista nel fondamentale “Appello del martedì” di Italia 1 condotto da Maurizio Mosca, parodia scatenata del “Processo del lunedì” di Aldo Biscardi e suo superamento spettacolare, poi vero corpo erotico assieme alla rivale Cicciolina nell’unico hard dedicato all’Italia dei Mondiali, Cicciolina e Moana ai Mondiali, dove le parodie oscene di Biscardi, Maradona e Montezemolo diventano corpi attivi nella flagranza del cinema hard. Del resto Moana attraversa l’alto e il basso, la verità e la parodia anche in pubblicità, ragazza della Saiwa e “donna più bella del mondo” dei folli spot dei mobili di “nonno” Ugo Rossetti, nella politica, candidandosi nel Partito dell’Amore e incontrando sul serio le star del nostro giornalismo come Indro Montanelli. E, ovviamente, in televisione, dove passa da icona nuda dello scandaloso “Matrjoska” di Antonio Ricci su Italia 1 a star erotica delle private, a opinionista delle grandi trasmissioni di Rai e Mediaset, intervistata da Pippo Baudo, Giuliano Ferrara, Maurizio Costanzo, da “Mixer” e da “Samarcanda”. Porta nelle reti nazionali la flagranza del corpo dell’hard senza turbarci con le esibizioni maniacali e reali del porno. Riporta nell’hard la figura nazionalpolare della diva del salotto televisiva che solo il suo pubblico affezionato vede in azione con Rocco Siffredi e Ron Jeremy. Al suo meglio Moana attraversa i due mondi del salotto borghese e della latrina del porno riuscendo a usarli entrambi per la sua ascesa mistica e, contemporaneamente, a starne fuori come se fosse sempre l’ospite più gradita che potete avere al massimo per una sera. Solo Sabina Guzzanti ne frena la forza parodiandola da un corpo esterno, quello del comico appunto, che ne mette in discussione la verità, catturandone l’aspetto più normalizzante della star, quello sessual-pedagogico dell’esperta televisiva. Logico che Moana la rifiutasse, svelando Sabina Guzzanti l'ossessività dell’operazione che Moana conduceva su se stessa nella sua marcia verso l’essere Moana, cioè la costruzione di un corpo-mito, che poteva essere autoparodiato, ma non parodiato da altri, perché con la risata ne venita minata la logicità. Moana, per tutta la vita, e perfino con la propria morte, ha sempre cercato maniacalmente di costruire oltre che il proprio corpo, base del mito, la propria funzionalità logica. Il rapporto col suo corpo non è meno ossessivo di quello con la propria testa, almeno analizzando i suoi discorsi in tv e sui giornali. Moana è sempre presente a se stessa, non dice mai sciocchezze, parla non l’italiano della tv ma un italiano complesso e perfetto, non adatto a una star del porno, anni luce lontano dal cicciolinismo anni Settanta di Schicchi-Staller. L’ultimo suo interesse, magari, è proprio quello verso il sesso, che lei adopera sempre come un mezzo per costruire Moana, mai per se stesso. La più pagata delle star italiane dell’hard è in realtà una delle meno “brave” sulla scena. Lo dicono tutti i suoi registi. E non riesce a sfondare internazionalmente come Cicciolina. Perché è una star di testa e di parola. E’ una star pensante e ragionante, sempre presente a se stessa, mai abbandonata alla deriva del cinema o della televisione. Costruzione impossibile dentro quel corpo, dentro quel cinema e quella televisione. Moana ci ha attraversato rapidamente, ha toccato i nostri occhi e la nostra testa, prima di colpirci al cuore con la propria morte. E’ l’unica diva italiana, di tutto il nostro cinema, che ci ha eccitato con la razionalità e ci ha fatto piangere col proprio corpo. Puntava a farci capire come era e non come era fatta. Moana non è un corpo o una testa, è “il punto dove il mare è più profondo”.

Elvira Serra per il “Corriere della Sera” " il 27 aprile 2021. Domani avrebbe compiuto sessant' anni. Ed è difficile immaginare come sarebbe diventata, perché gli eroi son tutti giovani e belli, e lei era bella ed era anche un'eroina, a suo modo, Fantastica Moana, sogno erotico di padri e di figli, perfino capolista del Partito dell'Amore alle politiche del 1992 (pensava davvero di fare i raid negli ospedali per vedere se le cose funzionavano) e audace candidata alle amministrative di Roma l'anno successivo. La madre Rosanna Aloisio raccontò tutt' altra figlia, nei giorni della morte, avvenuta il 15 settembre del 1994 all' Hôtel-Dieu di Lione per un tumore al fegato. Le leggevo Sant' Agostino, disse a Epoca, e quando mi interrompevo mi chiedeva di andare avanti perché la faceva stare bene. Aggiunse che aveva chiuso gli occhi con il rosario tra le dita e che uno degli ultimi pensieri fu per i nonni: «Ci rivedremo tutti insieme in paradiso, li andrò a cercare appena arrivo. Speriamo si possano mangiare anche lì gli agnolotti al vino». Non che non fossero mancati gli scontri con una figlia che era la nemesi di una famiglia super cattolica, scuola dalle Orsoline e dai Padri Scolopi, clavicembalo e chitarra classica al Conservatorio, papà ingegnere nucleare impegnato nel volontariato. E invece Anna Moana Rosa Pozzi, con quel nome che in dialetto polinesiano significa «il punto dove il mare è più profondo», ha fatto la storia del porno. Rivendicandone la scelta, sempre con eleganza. E guadagnandosi la stima di insospettabili intellettuali come Enzo Biagi, che facendo un parallelo con i ladri di Tangentopoli scrisse: «È più rispettabile una persona che dà del suo in confronto a chi si appropria di ciò che è di altri». «Vorrei essere eterna, vorrei non finire mai, essere sempre così... Sarebbe una cosa meravigliosa», rispose lei in una delle tante interviste, frasi testamento raccolte da Marco Giusti in Moana, pubblicato nel 2004 per Mondadori. Eterna lo è diventata, un po' come Marilyn o James Dean, Amy Winehouse o Paul Walker, eroi tutti giovani e belli. E se sentirne il nome ci riporta subito alla mente le sue onde bionde e il sorriso liquido, forse è proprio perché non è mai voluta essere diversa da come era. Con Pippo Baudo ammise: «Non sono pentita. Ne parlavo con mia madre pochi giorni fa. Le dicevo: mi dispiace che ti dispiaccia, ma rifarei tutto quello che ho fatto».

Livia Grossi per il “Corriere della Sera” il 27 giugno 2020. Sarà «davvero Moana Pozzi la donna con cui sto parlando? Le assomiglia troppo per non essere lei! Ma no che dico, è impossibile che una pornostar sia in grado di fare un'analisi così acuta su potere, politica e arrivismo». Sono questi i pensieri che quella notte scuotono la mente del giornalista alla caccia del suo articolo-rivelazione sulla misteriosa morte dell'attrice. È questo il nodo centrale di Settimo senso, il monologo di Ruggero Cappuccio interpretato da Euridice Axen. Un dialogo immaginario tra un morboso cronista e una bellissima donna che lo spiazza con le sue armi più affilate, intelligenza e seduzione. Una sfida all'ultimo sangue dal finale sospeso che costringerà l'uomo a scegliere: corteggiare quell'affascinante creatura o tradirla con uno scoop. Per indagare sull'universo femminile e sui limiti di chi lo osserva e lo giudica Cappuccio firma un testo dove dubbi e sensazioni contrastanti sono al centro della scena. A dirigerlo una regista da anni al suo fianco, Nadia Baldi. «Mi sono sempre occupata di temi urgenti che riflettono su costrizioni famigliari e sociali - afferma l'artista -, qui si esplora il paradigma della donna oggetto ragionando tra identità, media e stereotipi. Un'ottima occasione per analizzare lo sguardo maschile e le sue storture». Alla base dell'opera dunque la feroce strumentalizzazione dell'immagine femminile, ma anche la capacità di irretire e conquistare l'uomo in poche mosse. Per sottolineare la finezza intellettiva e l'irresistibile charme della protagonista, Nadia Baldi sceglie di avvolgere la sua Moana in un imponente costume-scenografia, lo strumento ideale per passare velocemente dal ruolo di icona sexy a gelida donna dalla lucidità spiazzante, implacabile nell'affondare la lama sulle questioni più scomode. «Sul palco la nostra eroina appare come una visione, da un parte è il simbolo della donna-merce, dall'altro una sorta di Madonna, un Cristo sulla croce, emblema di una provocatoria beatificazione». Con un linguaggio poetico in cui «alto» e «basso» si alternano creando una comunicazione diretta ed emozionale, in scena un testo in cui le diverse sfaccettature dell'universo femminile scatenano sensibili riflessioni: «Negli anni 80 e 90 quando Moana era una diva all'apice della sua notorietà ero molto giovane - dice la regista - ma ricordo bene quanto era forte la sua immagine di donna libera, capace di essere tutto ciò che desidera. L'ho sempre considerata una pornostar evoluta che ha saputo vivere la sua professione senza mai tradire se stessa e ciò che sentiva. La sua esperienza di vita credo che ancora oggi abbia molto da insegnare. Nel mondo del lavoro quando ci confrontiamo con il pianeta maschile tutte noi sappiamo quanto sia necessario dimostrare sempre una volta in più le nostre capacità. Questo spettacolo vuole essere anche questo, un manifesto sulla libertà individuale delle donne, ma anche una riflessione su tutti gli assurdi tabù che ancora oggi vivono nel nostro tempo, dal razzismo alle discriminazioni di ogni tipo». Infine in un Festival dove il tema centrale è la Paura e il Coraggio, sveliamo il significato di quel Settimo senso che dà il titolo allo spettacolo: «Si riferisce a una capacità altra rispetto ai cinque sensi che tutti noi conosciamo, qui si parla di sincronia, empatia e soprattutto di sensazioni, l'unico vero linguaggio che abbiamo per comunicare».

Renzo Parodi per calciomercato.com il 6 aprile 2020. A riposo forzato per mancanza di partite, i nostri giornalisti inviati di Centesimo minuto in queste settimane mettono a disposizione la loro esperienza e i loro vissuti con una serie di articoli legati a situazioni di cui sono stati Testimoni oculari. Scoccò la mezzanotte e come una Cenerentola rivisitata in salsa erotica Moana Pozzi apparve nel grande salone gremito della villa sulla Cassia sede della Agenzia “Diva Futura” del manager Riccardo Schicchi. La festa per l’elezione al Parlamento di Ilona Staller, alias Cicciolina, eletta con ventimila preferenze nelle file del partito Radicale di Marco Pannella, si era aperta da un paio d’ore e l’attico elegante brulicava di giovani donne in abiti succinti, pornostar e aspiranti tali, giovanotti palestrati, fotografi e il tipico sottobosco di quel genere romano che vive appeso al glamour, più o meno elegante, che ruota attorno al mondo dello spettacolo. Tutto quel brulicare di persone scomparve all’istante e si fece improvvisamente silenzio nel momento in cui la bellissima dea del porno apparve fendendo la folla come Mosé nell’attraversare il Mar Rosso spalancato davanti si suoi passi. Assai più spregiudicatamente del profeta ebraico Moana avanzava sorridendo radiosa, consapevole che gli sguardi di tutti, uomini e donne, si erano posati su di lei. Li attirava come una chiave di ferro attira una calamita. La osservai incedere, pareva una creatura soprannaturale, i capelli biondissimi sparsi sulle spalle nude, fasciata in un abito rosa chiaro, il colore della pesca matura, che le aderiva addosso come una seconda pelle, segnandole maliziosamente le curve. Il party di fatto si sciolse, ciascuno dei presenti si immerse in crocchi silenziosi, i bicchieri smisero di volare dal bar alle mani degli invitati, la musica divenne un brusio di sottofondo. Era l’inizio dell’estate del 1987, da pochi mesi ero stato promosso inviato dal Secolo XIX, il quotidiano genovese dove avevo cominciato a lavorare sette anni prima. Quel servizio politico a Roma per me era una sorta di battesimo del fuoco. Ero riuscito, non ricordo come, ad incollarmi a Pannella e a Cicciolina, li avevo seguiti nei giorni delle elezioni. Il 2 luglio la diva erotica venne proclamata deputato nella X Legislatura: erano le ultime elezioni prima del tornado di Mani Pulite che avrebbe spazzato via la prima Repubblica, ovviamente nessuno allora lo sapeva. Cicciolina era stata una intuizione mefistofelica di Marco Pannella, che ne aveva intuito la carica protestataria e provocatoria che circolava nel Paese. E lei, l’ammiccante gattina che girava film oseé ridondante di improbabili pizzi, volants e coroncine di fiori, aveva accettato di sostenere i temi cari al partito della Rosa nel pugno: antinucleare, difesa dei diritti, antiproibizionismo in fatto di stupefacenti, libero amore, pace nel mondo, educazione sessuale a scuola, campagne di informazione sull’Aids. Moana, sua partner a Diva Futura e in alcuni film erotici girati da Schicchi, si era tenuta alla larga dall’agone politico. Ci sarebbe entrata cinque anni dopo, subentrando a Cicciolina nel Partito dell’Amore, senza peraltro ottenere successi elettorali paragonabili all’exploit della collega. Torno alla serata sulla Cassia. Non erano trascorsi molti minuti dalla sua trionfale epifania e mi ritrovai da solo di fronte a Moana sulla vasta terrazza che dava sui pini marittimi. Vista da vicino Moana appariva ancora più bella che in fotografia. Gli occhi verdi, il sorriso dischiuso sulle labbra piene, l’atteggiamento naturale di una pantera. Una “fimmina”, l’avrebbe definita Camilleri, “da far firriare la testa a qualunque anima criata masculina”.  La sorpresa fu che dietro quell’aspetto che emanava sensualità ed erotismo si nascondeva una testa di prim’ordine. E una personalità spiccatissima. Cominciammo a chiacchierare appoggiati alla balaustra della terrazza. Parlammo della sua infanzia, del padre ingegnere nucleare, degli anni dell’infanzia trascorsi a Genova. A tredici anni il lavoro del padre l’aveva condotta prima in Brasile e in Canada e infine in Francia, a Lione, la città in cui Moana avrebbe vissuto i suoi ultimi giorni di vita, appena sette anni più tardi di quella serata romana. Una coincidenza che oggi mette i brividi addosso: “Genova mi stava stretta anche da ragazzina – mi confidò – Una città grigia, severa. Io amavo, io amo la vita e non riuscivo ad adattarmi. Dopo le parentesi all’estero a 19 anni lasciai la famiglia”. Mi ricordò di non aver intrapreso immediatamente la carriera di star del sesso. Nel suo curriculum infatti figura la scuola di recitazione diretta da Alessandro Fersen e persino un programma per bambini su Rai2, “Tip Tap Club” dell’82. La cacciarono appena scoprirono che sotto un nome d’arte stava girando film erotici. Non uscì del tutto dal circuito normale e ufficiale della Tv, nell’88 avrebbe presentato un programma di critica televisiva: “l’Araba Fenice”, avvolta solo da una pellicola di cellophane. Successivamente ancora tv su Italia1, apparizioni su Blob di Giusti e Ghezzi col cartoon a lei dedicato “Moanaland” e infine sulla passerella in carne ed ossa, sfilando come modella per le collezioni di Chiara Boni. Tutte le sue performance, dopo quel nostro casuale rendez vous, avrebbero confermato la mia sensazione che ci fosse ben altro che labbra e curve dietro quel corpo statuario. La carriera per la quale Moana è passata alla storia resta naturalmente il cinema hard. 44 pellicole girate senza veli e senza limiti di audacia. Protagonista ed esibizionista come si conviene ad un’attrice tout court." La gente pensa che io lo faccia per denaro – mi disse – ma non è questa la vera ragione. Io amo il sesso, mi piace fare l’amore e mi piace farlo con tanti uomini diversi. L’amore è la vita stessa”. Moana non era affatto un nome d’arte, all’anagrafe risultava Anna Moana Rosa Pozzi. Moana è un nome polinesiano, significa: “Là dove l’acqua è più profonda”. Nonostante tutto anche quel nome che suonava armonioso, quasi una promessa di carnali delizie, ebbe una parte nella sua fortuna. Una fortuna sfacciatamente cercata perché Moana non era tipo da mezze misure. Standole accanto provavo un filo di imbarazzo. Era alta quanto me però issata su un paio di scarpette con i tacchi a spillo mi sopravanzava di quasi un palmo. Ricordo di aver pensato che anche la statura e il fisico da amazzone (“il seno è naturale”, puntualizzò con un sorriso birichino) avevano contribuito alla sua fortuna come pornostar. Accanto a lei, la vezzosa, perennemente ammiccante Cicciolina, che recitava con puntiglio la sua parte di oggetto del desiderio, faceva la figura della sorellina minore. Una sorella Moana l’aveva, di due anni più giovane, anche lei battezzata con un nome esotico, Maria Tamiko, detta Mima. Si cimentò anche col porno, con scarsa fortuna. Non ricordo quanto riportai di quella conversazione nel pezzo che il giorno dopo scrissi per il mio giornale. Non tutto, immagino. Mi sembrava di violare il segreto che si era magicamente formato tra noi in quella mezz’ora trascorsa vis a vis. Non eravamo stati il giornalista e la regina del porno, eravamo stati un uomo e una donna, in vena di confidenze. Qualcosa di me probabilmente le avevo confidato, con parsimonia genovese e sono certo che lei, genovese come me, avrà compreso quella ritrosia. Le parole spesso sono il vestito per coprire l’indicibile. A volte invece diventano la porta dell’anima. Restai di sasso nell’apprendere della scomparsa di Moana, avvenuta il 15 settembre 1994 a Lione. Una malattia crudele e senza scampo l’aveva spezzata. Aveva 33 anni. Dopo la sua morte fiorirono leggende e speculazioni infami. Si disse che Moana non era affatto morta, che si nascondeva in qualche angolo del mondo, chissà perché. Un destino straziante comune ad altri divi, come Elvis Presley. Purtroppo era davvero morta e il marito anni dopo mostrò in tv il suo certificato di morte. Il corpo che aveva acceso i sogni erotici di milioni di uomini era stato cremato e le ceneri riconsegnate alla famiglia che verosimilmente le aveva inumate nella toma di famiglia del cimitero di Lerma, pese di origine della madre, nel basso Piemonte ai confini con la Liguria. La morte cancella i peccati e la terra le sarà certamente lieve.

Domenico Modugno, il doppio matrimonio con Franca Gandolfi e la battaglia dell’attore Fabio Camilli per farsi riconoscere la paternità. Arianna Ascione Online su Il Corriere della Sera il 9 gennaio 2023.

La vita sentimentale del grande cantautore, che oggi avrebbe 95 anni e di cui si è tornati a parlare nel 2019 dopo la sentenza che ha riconosciuto l’attore Fabio Camilli come suo figlio legittimo

Omaggi e successi

Nasceva a Polignano a Mare, il 9 gennaio 1928, Domenico Modugno. Considerato uno dei padri della musica italiana - trionfatore per quattro volte a Sanremo - «Mr Volare» (dalla canzone con cui ha vinto per la prima volta il Festival, «Nel blu dipinto di blu», nel 1958) ha scritto e inciso circa 230 canzoni, ha interpretato 38 film per il cinema e 7 per la televisione, ha lavorato in teatro e si è anche cimentato come conduttore di programmi televisivi. È tra gli artisti italiani che hanno venduto più dischi (oltre 70 milioni di copie) e negli ultimi anni è stato omaggiato con una fiction («Volare - La grande storia di Domenico Modugno», riproposta martedì 12 gennaio su Rai Premium alle 21.20) mentre lunedì 11 gennaio su Rai 1 in prima serata arriverà «Penso che un sogno così», lo spettacolo teatrale in cui Beppe Fiorello ha raccontato la sua vita sulle note del grande cantautore (del resto è stato proprio lui a prestargli il volto nella miniserie). Nel 2019 però si è tornati a parlare di Modugno anche relativamente alla causa per il riconoscimento di paternità intentata (e vinta) dall’attore Fabio Camilli, nato dalla relazione dell’artista con Maurizia Calì mentre era ancora sposato con la sua compagna di una vita, Franca Gandolfi. Ma andiamo con ordine.

L’incontro con Franca al Centro Sperimentale di Cinematografia

Tra Domenico Modugno e Franca Gandolfi non fu amore a prima vista: «Ci siamo conosciuti al Centro Sperimentale - ha raccontato lei nel 2019, ospite di Unomattina Estate - lui mi ha accompagnata a fare un provino diretto da Zampa. Da parte mia non fu amore a prima vista: lui era piuttosto vivace, faceva la corte a tutte le donne. Mi ha dovuta conquistare». Alla fine è riuscito a rubarle il cuore grazie alle sue canzoni, ma non è sempre stato facile stargli accanto: «Capii che sarebbe stata una vita difficile - disse lei nel 2013 al settimanale Oggi - e, infatti, feci di tutto per lasciarlo ma non ci fu verso. Si era fissato con me, lo trovavo ovunque».

Il matrimonio (doppio)

Cinque anni dopo il primo incontro, nel 1955, la coppia convolò a nozze. Il matrimonio fu celebrato civilmente, ma dopo qualche anno - come svelato dalla vedova Modugno - l’unione fu consacrata anche a livello religioso: «Dopo le nozze civili in Campidoglio, nel 1955, nel 1960 ci sposammo in gran segreto anche in chiesa - ha dichiarato nell’intervista a Oggi - C’eravamo solo noi e due testimoni, con gli abiti di tutti i giorni. Fu un giorno bellissimo perché sentivamo il bisogno di dirci di sì davanti a Dio e fu davvero solo un momento nostro». Dalla storia, durata 43 anni fino alla scomparsa dell'artista, sono nati tre figli (Marco, Massimo e Marcello): «In famiglia Domenico era come l’avete visto nella fiction Volare: un vulcano. Era un uomo travolgente, sempre allegro, ironico. E poi era molto simpatico. Nei 43 anni trascorsi insieme abbiamo superato tante difficoltà ma non mi sono mai annoiata un giorno».

Il figlio segreto

Mentre lavorava al Sistina di Roma nel 1961, nell’allestimento della commedia musicale di Garinei e Giovannini «Rinaldo in campo», Modugno - interprete di Rinaldo Dragonera - trascorreva molto tempo insieme alla coreografa e scenografa triestina Maurizia Calì, all'epoca sposata con l'ingegner Romano Camilli (curatore delle relazioni publiche del teatro). Nacque una complicità, che presto si trasformò in qualcosa di più e Maurizia, rimasta incinta, il 10 agosto del 1962 diede alla luce il piccolo Fabio. La verità sul suo vero padre (che era il cantautore, non Camilli) gli fu tenuta nascosta per anni. Poi un giorno, grazie alla rivelazione di un’amica, Fabio - che nel frattempo era diventato attore ed era amico di Marcello Modugno dato che frequentavano gli stessi ambienti dello spettacolo - scoprì ogni cosa: «Un giorno una mia amica, con cui avevo avuto una relazione e che poi si era fidanzata con Marcello, mi raccontò una sua confidenza - queste le parole di Camilli in un’intervista al Corriere del 2014 - le aveva svelato che eravamo fratelli, pregandola però di non dirmi nulla. Per me fu una cosa sconvolgente. Come fai a credere che quello che pensavi fosse tuo padre per quasi trent’anni in realtà non lo era?».

La battaglia legale per il riconoscimento

«Quello che posso dire è che conosco Fabio da più di 20 anni e la cosa buffa è che siamo sempre stati amici da prima che venissero fuori queste voci» raccontava Marcello nel 2001, quando la storia divenne di dominio pubblico dopo la pubblicazione di un articolo sul Foglio. «Ci ho messo del tempo a parlarne. Lo feci con un amico di famiglia e mi resi conto che il pettegolezzo girava da tempo. Come in un Truman Show: gli altri sapevano. Io no» ha rivelato Camilli, che nei primi anni Duemila ha avviato il procedimento per il riconoscimento di paternità. La battaglia legale, dopo l’esito positivo del test del dna nel 2014, si è conclusa definitivamente soltanto nell’agosto 2019: a pochi giorni dal venticinquesimo anniversario della morte del cantautore la Prima sezione civile della Corte Suprema di Cassazione ha riconosciuto Fabio come figlio legittimo di Domenico Modugno. «Ho dovuto fare una battaglia per poter affermare chi era mio padre. È stato un viaggio faticoso ed estenuante - ha commentato l’attore - Il procedimento di riconoscimento di paternità della durata media di 4-5 anni si è trasformato per me in un “percorso a ostacoli” lungo (e credo sia un record) 18 anni. Comunque ce l’ho fatta, è finita. Sono molte le persone che dovrò ringraziare per essermi state vicine in questi anni».

L'Oscar, il teatro, i 5 divorzi: Ginger Rogers, storia di un'icona. Grintosa e ambiziosa, sensuale e carismatica, ma anche pioniera dei diritti delle donne a Hollywood: Ginger Rogers ha scritto pagine importanti della storia del cinema. Massimo Balsamo il 4 Ottobre 2023 su Il Giornale. 

Tabella dei contenuti

 Una vita nel segno dell'arte

 Il successo sul grande schermo

 Il boom di Ginger Rogers & Fred Astaire

 Tra nuove sfide e l'Oscar

 Gli ultimi anni

Una stupenda ballerina ma soprattutto una straordinaria attrice, leggiadria e sensualità unite a una naturalezza unica, ma anche pioniera dei diritti delle donne a Hollywood. Ginger Rogers ha tracciato un solco nella storia del cinema e non solo per il sodalizio con Fred Astaire: la sua voglia di mettersi in gioco e la sua caparbietà l'hanno aiutata a scrivere pagine importanti della storia dell'arte scenica. Un personaggio frizzante a tutto tondo, come testimoniato dalla vita privata a dir poco movimentata: cinque matrimoni e cinque divorzi. Un'unica stella polare: la libertà.

Una vita nel segno dell'arte

Ginger Rogers, pseudonimo di Virginia Katherine McMath, nasce a Independence, Missouri, il 16 luglio del 1911, figlia unica di William McMath e Lela Emogene Owens. La futura stella di Hollywood vive un'infanzia piuttosto travagliata: i genitori divorziano e la madre ottiene l'affidamento dopo diverse battaglie. Nel mentre, la piccola viene sballottata per mezza America. È proprio la madre - sceneggiatrice, critica teatrale e scrittrice di commediole - a spingere la figlia verso la carriera artistica.

Una volta rientrata da Hollywood, la madre presenta a Ginger Rogers famosi artisti di spettacoli locali e la svolta arriva quando ha poco più di dieci anni. A Fort Worth, Texas, dove vive con la madre e il suo nuovo marito John Logan Rogers (prenderà il suo cognome), arriva la compagnia di Eddie Foy, commediografo alla ricerca di una prima ballerina dopo una serie di defezioni. Il ruolo va proprio a lei, che nel frattempo ha iniziato a studiare. A 14 anni vince un torneo di charleston e ottiene un contratto di un mese per una tourneè di vaudeville. Ma è solo l'inizio.

All'età di 16 anni Ginger Rogers è già una ballerina di charleston di livello mondiale. Dopo tanta fatica e tanto sudore, il meritato successo. Si abitua rapidamente alle luci della ribalta e alla fine degli anni Venti inizia il suo cammino verso il successo. Nel 1929 ottiene un ruolo nella commedia musicale di Broadway "Top Speed" e viene notata dal compositore George Gershwin che la sceglie per il musical di Broadway "Girl Crazy": alle coreografie lavora Fred Astaire, il primo incontro con l'uomo con cui condividerà numerosi successi di critica e di pubblico.

Il successo sul grande schermo 

La performance in "Girl Crazy" permette a Ginger Rogers di acquisire enorme notorietà. Dopo qualche apparizione in cortometraggi, firma un contratto con la Paramount e gira cinque lungometraggi: piccoli ruoli ma decisivi per la sua formazione. Da "Gioventù di Manhattan" a "Follow the Leader", l'attrice affina le sue qualità artistiche e conferma la sua grande presenza scenica. Tra il 1931 e il 1932 partecipa a diverse pellicole, ma un significativo salto di qualità arriva nel 1933 grazie a "Quarantaduesima strada" di Lloyd Bacon. Ginger Rogers riesce a dimostrare il suo talento comico, che le permetterà di vestire i panni di personaggi vivaci e impertinenti. E la sua esuberanza conquista il pubblico.

Sempre nel 1933 Ginger Rogers gira "Carioca" di Thornton Freeland, condividendo il set con Fred Astaire. La parte le viene affidata last minute, un ruolo secondario che però ammalia critica e pubblico anche grazie alla sorprendente alchimia con Astaire, tanto da oscurare i veri protagonisti Gene Raymond e Dolores del Rio. Quando ballano insieme, in questo caso la samba, scatta qualcosa di unico e la casa di produzione Rko coglie la palla al balzo: in cantiere diversi musical, tutti con protagonisti Ginger & Fred.

Il boom di Ginger Rogers & Fred Astaire

Ginger Rogers vuole affermarsi anche in ruoli drammatici, ma il ritorno sul set al fianco di Astaire è inevitabile. Il secondo film insieme è "Cerco il mio amore" di Mark Sandrich (1935), che diventa subito un simbolo dei musical degli anni Trenta. La pellicola sbanca il botteghino, il messaggio del pubblico è chiaro: nonostante le trame piuttosto semplice e prive di ambizioni, balli e musiche conquistano la scena. Se Astaire è un maestro della danza, la Rogers non è da meno, compensando lo squilibrio tecnico con l'energia e la sensualità.

Da "Roberta" di William A. Seiter a "Cappello a cilindro" di Mark Sandrich, passando per "Follie d'inverno" di George Stevens: Ginger Rogers e Fred Astaire sfoggiano numeri di ballo straordinari e innovativi - con le musiche composte da grandi nomi come Irving Berlin e George Gershwin - nonché una sintonia che entrambi non riusciranno a eguagliare con altri partner. Piuttosto sempliciotti, questi film regalano momenti di evasione al pubblico statunitense in un periodo particolarmente delicato. La Rogers entra facilmente nel cuore di grandi e piccini perché viene vista come la tipica ragazza americana, emblema della genuinità.

Tra nuove sfide e l'Oscar 

Nel 1939 termina la collaborazione con Fred Astaire con il film "La vita di Vernon e Irene Castle" di H. C. Potter e Ginger Rogers punta ad affermarsi come attrice drammatica. Dopo l'ottima commedia amara "Palcoscenico" di Gregory La Cava con Katharine Hepburn e Lucille Ball, arriva la consacrazione grazie alla sua interpretazione nei panni di una ragazza madre in "Kitty Foyle, ragazza innamorata" di Sam Wood: la Rogers viene premiata con l'Oscar alla migliore attrice, superando Bette Davis e la già citata Katharine Hepburn.

Sfruttando la popolarità acquisita con i musical, Ginger Rogers si cimenta in commedie e drammi, dimostrando di essere un'attrice di qualità e versatile. L'amore del pubblico le consente di ottenere un altro traguardo importante: a metà degli anni Quaranta diventa infatti l'attrice più pagata di Hollywood. Un altro passaggio fondamentale avviene alla fine degli anni Quaranta: la Rogers fonda una casa di produzione indipendente e sceglie in completa autonomia i ruoli che vuole interpretare, liberandosi dalle "catene" degli studios. Così apre la strada ad altre attrici, diventando una pioniera dei diritti delle donne a Hollywood.

"Preziosa come uno zaffiro": la storia della diva dagli occhi viola

Gli ultimi anni

Nel 1949 Ginger Rogers si concede un ultimo ballo con Fred Astaire: viene infatti ingaggiata per sostituire Judy Garland ne "I Barkleys di Broadway" di Charles Walters. Il suo nome viene avanzato proprio da Astaire, desideroso di tornare a condividere il set con lei. Il pubblico è felicissimo di rivedere la coppia sul grande schermo, uno straordinario canto del cigno. Poi nel 1952 l'ultima apparizione cinematografica degna di nota ne "Il magnifico scherzo" commedia svitata di Howard Hawks con Cary Grant e Marilyn Monroe.

A metà anni Sessanta Ginger Rogers decide di abbandonare il cinema per tornare a dedicarsi a un altro suo grande amore, il teatro. E il ritorno a Broadway è salutato dal trionfo di critica e pubblico: da "Hello, Dolly" a "Mame" - portato al Theatre Royal Drury Lane di Londra - l'amore del pubblico è commovente. Nonostante l'età che avanza, la Rogers non si ferma mai e all'età di 74 anni firma la sua opera prima. Una vitalità impressionante smorzata solo da due ictus: Ginger Rogers muore il 25 aprile del 1995 nella sua casa di Rancho Mirage, in California. Massimo Balsamo

Svolta nell'omicidio Tupac: il suo killer ha finalmente un nome? Guglielmo Calvi il 30 Settembre 2023 su Il Giornale.

Tupac Shakur, rapper hip hop ucciso all'età di 25 anni, potrebbe ricevere giustiza dopo quella tragica notte del 1996 in cui gli sono stati sparati quattro colpi di pistola

Il caso di Tupac Shakur, uno dei casi irrisolti più noti nel mondo musicale, potrebbe essere giunto ad una svolta clamorosa. Un uomo di 60 anni, Duane Keffe D Davis, è stato arrestato per l’omicidio del celebre rapper, morto il 13 settembre 1996, durante il ricovero per ferite d’arma da fuoco, provocategli il 7 settembre, sei giorni prima del suo decesso.

L'indagine era stata riaperta a luglio, con la polizia del Nevada che aveva perquisito una casa nei dintorni di Las Vegas, la cui proprietaria risultava la moglie di Davis. Le indagini della polizia, in merito all’omicidio di Shakur, si erano concentrate, già dal 2019, su Davis.

L’agguato e la morte

la sera del 7 ottobre 1996, Tupac Shakur, rapper 25enne all’apice del successo, si trovava all’MGM Grand Las Vegas, un casinò situato al 3799 Las Vegas Boulevard South, per assistere ad un incontro di boxe. All’evento c’era anche Orlando Anderson, membro della gang criminale Crips dei Compton, che l'anno prima aveva derubato, insieme ad altri, un membro dell'entourage della Death Row Records, etichetta discografica americana che aveva lanciato la carriera di Tupac. Il rapper, dopo aver notato la presenza di Anderson, si è scagliato contro di lui colpendolo più volte e tutto era stato registrato dalle telecamere di videosorveglianza. Dopo aver picchiato Anderson, Tupac ha lasciato il casinò a bordo di una BMW E38 con un convoglio di diverse macchine.

Tupac e i membri della sua band si stavano dirigendo verso un club di proprietà della Death Row ma, mentre la macchina con a bordo il rapper era ferma ad un incrocio, intorno alle 22:55 di quella sera, un fotografo si era accostato all'auto e aveva chiesto a Tupac di abbassare il finestrino per fargli fare qualche scatto e il rapper aveva acconsentito.

Dopo che l’auto era ripartita, alle 23:10, l’autista che trasportava Tupac si era fermato ad un altro incrocio e il rapper aveva avuto, così, l’occasione di dialogare con due donne in macchina alla loro sinistra per poi invitarle al club in cui stava andando. Poco dopo, si è avvicinata una macchina, una Cadillac, con a bordo un uomo che, abbassando il finestrino, ha sparato 12 colpi contro il posto dove era seduto Tupac; 4 sono stati i proiettili che hanno colpito la star: uno al torace, un secondo al bacino, un terzo alla mano destra e il quarto alla coscia.

Dopo la sparatoria, Tupac era stato trasportato all’University medical Center del Southern Nevada, dove ha subito diversi interventi chirurgici ma il 13 settembre 1996, dopo un apparente miglioramento, è morto a causa di un’emorragia interna.

L'indagine

Per 27 anni, le indagini sulla morte di Tupac Shakur non hanno portato a niente di concreto dato che persino il numero delle persone a bordo della Cardillac è rimasto incerto. L’investigazione ha seguito un nuovo corso nel momento in cui Davis, nel 2019, ha pubblicato il libro, "Compton Street Legend", in cui ha confessato di trovarsi a bordo della Cardillac da cui sono partiti i colpi di pistola. Davis ha detto di essersi seduto davanti e di aver fatto scivolare una pistola sul sedile posteriore, da dove partirono i colpi. Sul sedile posteriore era seduto suo nipote, Orlando Anderson, noto rivale di Shakur, con cui aveva dato luogo ad una rissa prima che entrambi lasciassero il casinò in cui si teneva l’incontro di boxe.

La confessione di David dato modo alla polizia di focalizzarsi sulla pista che portava a lui fino a giungere all’arresto di oggi.

Estratto dell’articolo di Viviana Mazza per il “Corriere della Sera” giovedì 20 luglio 2023.

[…] La notizia che la polizia di Las Vegas ha perquisito una casa nel sobborgo di Herderson per l’indagine mai risolta sulla morte del rapper Tupac Shakur ha scatenato una valanga di commenti online: un ottimo esempio del loro tenore è offerto dal gruppo Reddit «r/Tupac» che conta 27 mila membri. 

Se il luogo della perquisizione fosse confermato (al momento non lo è), non sarebbe sorprendente che possa trattarsi della casa di Keefe D (Duane Davis): in numerose interviste l’ex gangster ha detto per anni di conoscere l’identità del killer perché anche lui era nella Cadillac bianca da cui partirono gli spari che la notte del 7 settembre 1996 uccisero a 25 anni il re dell’hip hop della West Coast.

A suo dire, Keefe D è l’unico dei quattro della Cadillac ancora in vita. «Ero un pezzo grosso di Compton, uno spacciatore», spiega Davis nel documentario Unsolved: The Tupac and Biggie Murders. «Mi chiedono di questa storia da vent’anni, adesso parlerò perché ho il cancro e non ho più niente da perdere. Tutto ciò che mi importa è la verità». 

Disse che a sparare sarebbe stato suo nipote Orlando «Baby Lane» Anderson, anche lui gangster dei Compton Crips (morto a 23 anni in una sparatoria due anni dopo) che era stato pestato da Tupac e almeno quattro compari nella lobby dell’MGM Grand Hotel dopo un match di boxe di Mike Tyson perché sospettato di un precedente torto.

 La Cadillac si accostò alla Bmw di Tupac, guidata dal boss di «Death Row Records» Suge Knight all’incrocio tra Flamingo e Koval. Secondo Keefe D, videro Tupac che si sporgeva dal finestrino per salutare delle ragazze. «Passai la pistola a Dre (altro gangster, ndr ) ma lui disse “no, no, no”. Lane invece li ha beccati». […]

Tupac Shakur, dopo 27 anni riaperta l’indagine. Perquisizioni in corso. Storia di Redazione Spettacoli su Corriere della Sera il 19 luglio 2023.   

L’indagine sull’omicidio irrisolto di Tupac Shakur è stata riaperta. Ci sono voluti quasi tre decenni, ma è arrivato un nuovo colpo di scena, poiché le autorità del Nevada hanno notificato la notte scorsa un mandato di perquisizione in relazione alla morte della star del rap, considerato una delle figure più prolifiche dell’hip hop, morto il 7 settembre 1996 in una sparatoria a soli 25 anni nella città del gioco d’azzardo.

La polizia del Nevada infatti ha perquisito una casa vicina a Las Vegas ma non è chiaro cosa cercassero le autorità. Il portavoce della polizia ha ricondotto la scarsità di dettagli al fatto che l’inchiesta sulla fine di Shakur è ancora aperta. Era il 1996 quando il rapper viaggiava a bordo di una Bmw nera guidata dal fondatore della Death Row Records Marion «Suge» Knight insieme a un convoglio di altre 10 auto, dopo aver visto Mike Tyson mettere al tappeto Bruce Seldon in un incontro di boxe. Secondo la polizia una Cadillac bianca con quattro uomini all’interno si affiancò alla loro auto mentre era ferma al semaforo rosso a un incrocio vicino alla Strip di Las Vegas e una persona aprì il fuoco, crivellando di proiettili il lato passeggero dell’auto di Knight.

Seduto sul sedile del passeggero, Shakur fu colpito quattro volte, almeno due volte al petto. Il rapper morì sei giorni dopo in ospedale per arresto cardiaco. Tupac Shakur è stata una delle figure più prolifiche dell’hip hop, conosciuto anche con i nomi d’arte 2Pac e Makaveli. La sua carriera musicale è durata solo cinque anni, ma è stata folgorante: in quel lasso di tempo ha venduto più di 75 milioni di dischi.

La leggenda hip hop. Omicidio irrisolto di Tupac, la polizia fa una perquisizione a 27 anni dalla morte. Il cantante venne ucciso a colpi di arma da fuoco a Las Vegas, aveva 25 anni. I colpi vennero esplosi da una Cadillac bianca che aveva affiancato l'auto a un semaforo. Redazione Web su L'Unità il 19 Luglio 2023

Tupac Shakur venne ucciso nel 1996 a Las Vegas, in circostanze ancora misteriose. Era uno dei rapper più affermati al mondo, un classico mentre era ancora in vita, autore di ispirazione per tantissimi altri artisti arrivati dopo fino ai giorni nostri. La polizia di Las Vegas ha fatto sapere che in relazione all’omicidio ha eseguito un mandato di perquisizione. Non sono stati resi noti i motivi e il luogo dell’operazione condotta lunedì a Henderson, nello Stato del Nevada, a pochi chilometri da Las Vegas.

Tupac fu raggiunto da quattro proiettili, fu colpito mentre era in un’automobile, seduto sul sedile del passeggero. Era il 7 settembre del 1996. Il rapper aveva cominciato soltanto da cinque anni e già aveva raggiunto la notorietà internazionale. Aveva venduto milioni di dischi in tutto il mondo. Era il rappresentante più in vista dell’hip hop della West Coast e il rivale numero uno dell’altro numero uno dell’hip hop americano, Notorious B.I.G., che invece era di New York, Est Coast.

Con Tupac nell’auto c’era Marion “Suge” Knight, il capo dell’etichetta discografica Death Row Records. Erano fermi a un semaforo quando una Cadillac bianca si affiancò alla loro auto e vennero esplosi i colpi mortali di arma da fuoco. L’artista morì sei giorni dopo in ospedale a Las Vegas per arresto cardiaco, aveva soltanto 25 anni. Le indagini si erano ridotte allo stallo. La polizia può continuare a indagare sul caso perché nel Nevada non è prevista la prescrizione per i casi di omicidio.

Redazione Web 19 Luglio 2023

(ANSA il 19 Luglio 2023) Nuovi sviluppi nelle indagini sulla morte della leggenda del rap Tupac Shakur quasi trent'anni fa. La polizia di Las Vegas ha infatti perquisito una casa nella vicina città di Henderson, secondo quanto riportano i media americani. L'artista di 'California Love' è stato ucciso in una sparatoria nella città del Nevada, a soli 25 anni, e i suoi assassini non sono mai stati catturati.

Nonostante la breve carriera, Tupac è stata una delle figure più influenti dell'hip-hop e ha venduto 75 milioni di dischi diventando anche il simbolo della rivalità tra rapper della costa est e quelli della costa ovest degli Stati Uniti poichè era nato a New York ma si era trasferito da adolescente in California. Le circostanze della sua morte, nel settembre 1996, rimangono oscure e alla storia è stata dedicata anche una serie Netflix, 'Unsolved'.

Estratto da leggo.it il 16 maggio 2023.

Dario Baldan Bembo, ospite in tv alla trasmissione Oggi è un altro giorno, ha commentato le maldicenze che giravano sulla cantante Mia Martini, ma un tratto del suo discorso non è passato inosservato.  

(...)  

L'autore della celebre canzone "L'amico è" ha dichiarato che la cantante Mia Martini avesse un'aurea di maldicenze relative al fatto che portasse sfortuna e che tutto sommato si era creata da sola con il suo comportamento: «Non è tutto una maldicenza quello che si è detto su Mia Martini ma un po’ l’ha provocato anche un suo comportamento ma non voglio andare oltre, non voglio disonorare il grande rispetto che io ho per questa grandissima cantante e per la sua vita» - e continua- «Lei è stata una persona molto fragile, era talmente fragile che a volte si è dedicata a delle cose dove avrebbe dovuto avere più attenzione. 

Parlo di certi mondi dove si era appassionata che le si erano un po’ rivoltati contro».

Pare, infatti, che Baldan Bembo intendesse sostenere che la famosa Mimì si era avvicinata a dei mondi che ha definito "esoterici" e di cui era rimasta affascinata. Questo, a detta dell'cantautore, le si è riversato contro.

Aragozzini: «Artisti napoletani vergognosi, avevano corni e ferri di cavallo contro Mia Martini». E Mara Venier lo ferma. Storia di Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 5 febbraio 2023.

Si parla di Sanremo a «Domenica In» e non potrebbe essere diversamente visto l’inizio imminente del Festival (martedì 7 febbraio). Nella puntata andata in onda su Rai1 oggi pomeriggio, domenica 5 febbraio, Mara Venier e il suo parterre di ospiti hanno ripercorso gli anni e i personaggi storici del Festival tra ricordi e aneddoti, concentrandosi ad un certo punto su Mia Martini e sulla terribile diceria secondo cui la cantante portasse sfortuna, con le pesanti ripercussioni che ne derivarono sulla sua carriera e la sua vita.

Dopo la testimonianza di Maurizio Vandelli, che ha raccontato come tanti amici avessero abbandonato Mimì e come lei si fosse messa a piangere per un suo abbraccio, dicendogli «sapessi quanto tempo è che non mi abbraccia più nessuno», a intervenire è stato Adriano Aragozzini, patron di Sanremo a cavallo degli anni 80 e 90. Lui torna al 1989: «Quell’anno io organizzai Sanremo in the World e tutti gli artisti si dovevano presentare all’aeroporto. Quando siamo partiti mancava metà artisti perché non volevano prendere l’aereo insieme...», esordisce Aragozzini, subito interrotto dallo sdegno degli altri ospiti. «Una massa di cretini», dice Vandelli.

Aragozzini prosegue: «Scusate, io sto parlando di fatti successi. Conclusione: a New York arrivarono quasi tutti, ma la cosa più triste fu che c’erano, senza fare nomi perché diventa uno squallore, degli artisti napoletani che giravano con le giacche con dentro corni, ferri de cavallo, eccetera, una vergogna».

Mara a quel punto lo blocca: «No, Adriano non dire queste cose perché io amo Napoli e gli artisti napoletani sono gente di cuore e non posso pensare che qualcuno abbia fatto una cosa del genere». A quattr’occhi ti posso fare nomi e cognomi», ribadisce lui. «Non lo voglio neanche sapere», chiude il discorso Venier.

Estratto dell'articolo di Roselina Salemi per “La Stampa” il 17 aprile 2023.

«Amava le donne, tutte le donne. Ne amava la bellezza, la sensualità , la poesia, il calore: le dirigeva con trasporto, ne curava l'immagine come se dipingesse dei quadri. Insegnava loro l'eleganza, ne tirava fuori la forza e la delicatezza, la carnalità e la grazia». Nicoletta Maragno ha ragione: Giorgio Strehler le ha amate tutte. 

Lilla Brignone, Sarah Ferrati, Lia Zoppelli, Edda Albertini, Laura Adani, Valentina Fortunato e poi Valentina Cortese, Giulia Lazzarini, Pamela Villoresi, Andrea Jonasson (sposata nel 1987), Milly, rilanciata come chanteuse appassionata di Weill/Brecht, Ornella Vanoni, eclettica cantastorie della mala, e Milva che fino all'ultimo, ha tenuto sul comodino una sua foto.

Lo considerava il bizzarro angelo custode della sua carriera internazionale. Raccontava: «Anche se non abbiamo mai avuto una storia, mi toglieva la pelle di dosso. Per il carisma straordinario che aveva dentro. Ho anche pensato di essere innamorata. È stato un grande amore, certo, un amore intellettuale». 

Tutte o quasi si ritrovano nel libro di Stella Casiraghi Strehler interpreta le donne (Skirà) con la documentazione fotografica dall'archivio del Piccolo Teatro di Milano e una quantità di testimonianze appassionate. 

[…]  Rosita Lupi, la prima moglie, ballerina e coreografa, per lui fondamentale, venne eclissata da Ornella Vanoni. Una passione scandalosa perché lei era giovane e lui sposato. Ancora oggi ricorda: «Nessun uomo mi ha mai amata tanto». Poi ce n'è state altre, e una seconda moglie molto liberal, Andrea Jonasson, che non voleva essere «banalmente gelosa». Ma con l'ultima compagna, Mara Bugni, ha avuto qualche lite sull'eredità, chiusa dalla creazione del Fondo Strehler.

[…]  Giulia Lazzarini ricorda: «Non credo che mi abbia mai vista come donna. Mi ha sempre considerato uno strumento. Mi diceva: ‘Basta sfiorarti e suoni'». Sonia Bergamasco: «La sua voce, i suoi silenzi, i grugniti, i suoi modi mi incutevano paura. Ma ho sempre dissimulato, per orgoglio e testardaggine. Era una creatura poetica, che mi sfidava e accendeva la miccia di energie che non avevo mai esplorato prima».

Pamela Villoresi: «Il giorno del provino, era il 1975, ero carica ed emozionata, dissi che avrei recitato quello che lui voleva, come lo voleva. Mi mandò a cagare e mi spedì a studiare le parti delle tre ragazzine del Campiello (scritto in veneziano antico, in aramaico per me)». 

Laura Marinoni: «Era un homo eroticus. Un raro esemplare alchemico di magnetismo virile, estroversione e fascino. Impossibile restare indifferenti davanti a lui. Aveva il dono di intuire la tua anima al volo, e con una piccola indicazione, un movimento, un modo di camminare, riusciva a portarti nella direzione giusta». […]

Non è che venga fuori un santino. Nicoletta Maragno non dimentica gli insulti: «Tu sei nata per cantare... stronza!». Ottavia Piccolo la sofferenza della recitazione senza microfoni: «La mia voce non gli arrivava mai in platea, nonostante mi sembrasse di gridare come un'aquila. "Non ti sento!" era il suo invariabile commento urlato alle mie battute, condito da una serie di parolacce irripetibili. Aveva ragione? Probabilmente sì. Ero confusa, terrorizzata, eppure pian piano cominciai a capire che di lui mi potevo fidare». […]

Mattia Feltri per “La Stampa” - Estratti martedì 7 novembre 2023.

Due mesi dopo l’ultimo anniversario, otto dopo il penultimo e dieci prima del prossimo – a settembre erano venticinque anni dalla morte di Lucio Battisti, a marzo erano ottanta dalla nascita, a settembre 2024 saranno trenta dall’uscita di Hegel, disco di commiato sebbene non nelle intenzioni – mi sono avventurato su Wikipedia per verificare una data. 

Come tutti noi, infatti, canticchio sotto la doccia e l’altro giorno canticchiavo «… son fatti che attengono alla storia. / Chi fosse la provincia e chi l’impero / non è il punto, / il punto era l’incendio…». Questa è proprio Hegel, canzone da cui l’album prende il titolo, e ricordavo bene la data d’uscita: 29 settembre.  

(...) 

Guardo Wikipedia e leggo la seguente frase: «Questo disco, intitolato al filosofo Wilhelm Friedrich Hegel, annovera nei testi di Panella un notevole numero di richiami filosofici all’estetica e alla vita del filosofo dell’idealismo tedesco (…) vi è infatti una canzone intitolata all’evocativa città tedesca di Tubinga, dove Hegel soggiornò e fu studente in gioventù».

In effetti, in quel 29 settembre del 1994, una grande risata collettiva seppellì il disco di Battisti e Panella. Adesso questi due si danno alla filosofia, scrissero i giornali, si danno all’idealismo tedesco, si danno cioè delle arie, gli pare svilente mettere giù una canzonetta orecchiabile dove cuore fa rima con amore. Ma questa robaccia chi la ascolta? Non avvertono il patetico nel mescolare il pop e la fenomenologia dello spirito? 

Panella fu folgorante. «Chiedo scusa, è colpa mia, ma ero convinto che Hegel fosse un nome di donna». Una delicatissima presa per i fondelli, e molto oltre l’indizio. Hegel, la canzone, quella che canticchiavo sotto la doccia, comincia così: «Ricordo il suo bel nome / Hegel Tubinga / e io avrei masticato / la sua tuta da ginnastica. / Il nome se lo prese in prestito dai libri / e fu come copiare di nascosto, / fu come soffiare sul fuoco».

Davvero sta parlando di Wilhelm Friederich? E da che cosa si evince? Dieci secondi di canzone ed è tutto chiaro: Hegel è un nome di donna. E io il testo non posso mettervelo qui per intero, ma la donna il nome se l’è preso in prestito dai libri, ed è come soffiare sul fuoco che già arde in chi guarda, e ora scrive per Battisti. «Era la collisione / il primo scontro epico / perché non scritto ma cavalcato a pelo, / ed ognuno esigeva / la terra dell’altro / le mani, la terra, la carne, il terreno” (ho sempre amato quel verso, “non scritto ma cavalcato a pelo»: c’è un modo più tambureggiante e commovente di descrivere l’esordio, il passaggio dall’amore scritto all’amore praticato, anche se non fa rima con cuore?).

Tutto chiarito? Eh no. La folgorante battuta di Panella rimase lì, appesa al vento. E, siccome il medesimo Panella ha un’indole beffarda e tirannica, il disco non contiene i testi – quelli proposti da me scaturiscono dalla memoria, e la punteggiatura potrebbe essere sbagliata. Se i testi ci fossero stati, forse qualcuno sarebbe andato a leggerseli per sincerarsi se davvero parlassero del filosofo che vede la Storia nel Napoleone trionfante a Jena («e lei nel suo bel nome era una iena…», canta Battisti, ma qui sarà iena o Jena? Dolce mistero). Macché, toccava risentire il disco. E risentirlo e risentirlo e, chissà, rischiare addirittura di riconoscere il capolavoro. 

Ho provato a controllare che dicesse la Treccani. Di Wikipedia dubitiamo tutti – ingrati divoratori di Wikipedia. Ma la Treccani è la Cassazione, è il Tribunale celeste. Ed ecco a voi: «Album che annovera in alcuni testi richiami alla vita e al pensiero del filosofo». Ora il cronista pienamente digitalizzato dovrebbe forse indagare, vista la quasi perfetta sovrapponibilità di Wikipedia con la Treccani, su chi abbia copiato da chi.

Ma lo straordinario è che quasi trent’anni dopo anche per la Treccani quello rimane un disco su Hegel, il filosofo, e non su Hegel Tubinga, il nome di ragazza preso in prestito dai libri. E se vi fate un giro su Google, troverete centinaia di siti nei quali si ragguaglia sull’album che annovera richiami alla vita e al pensiero e avanti così. Un intero disco giudicato dal titolo, recensito per il titolo, stroncato a causa del titolo, irriso in ragione del titolo, e lo dico per le moltitudini di giornalisti in escursione sui social a maledire la modernità tecnologica per cui chiunque è dotato di tastiera e chiunque è abilitato a recensire, stroncare, irridere i nostri articoli dal titolo, senza averli letti. Eccolo l’apologo su di noi, e sulla cecità scambiata per innocenza.

Un’ultima annotazione. Sulla copertina del disco compare una grande «E». Non una grande «H». Altro indizio. E stamattina – mentre sotto la doccia canticchierò «… certo imbruniva / ma imbruniva fuori, / all’interno i colori erano luci spente / umiliate dalla tua bocca ponente…» –, visto il mio titolo, qualcuno starà già arrivando a passo di carica: Egel si scrive con la acca!

Dario Salvatori per Dagospia mercoledì 8 novembre 2023.

Se i quattro album Battisti-Panella pubblicati fino al 1994 avevano alimentato reazioni fra lo sgomento  e l’arrabbiato, niente poté superare il terremoto che accompagnò l’uscita di “Hegel”. Difficile interpretare questa “distrazione” o questo revisionismo critico di Mattia Feltri. Si sapeva già tutto. E’ vero, nella busta non c’era il testo, ma tutti cantavano (si fa per dire): “Ricordo il suo bel nome: Hegel Tubinga”. 

Lo scrittore Edmondo Berselli parlò di “sintomo di  cortocircuito mediatico”, commentando l’accaduto  aggiunse “la sconclusionata incompetenza che tuttavia non si nega a nessuno”. L’album raggiunge il quinto posto in classifica e non superò nemmeno le 60 mila copie, quando i dischi di Lucio Battisti con Mogol superavano facilmente il milione di copie. Il critico Carlo Boccadoro, però, lo incluse tra i pochissimi album italiani citati nel suo libro “Lunario della musica – Un disco per ogni giorno dell’anno” (Einaudi, 2007). Il mondo musicale è zeppo di situazioni “nascoste”, quasi sempre per non incappare nella censura.

E’ il caso di Ghigo, uno dei primi rocker milanesi, azzeccò un brano che divenne popolare, “Coccinella”, dedicato a Coccinelle ovvero Jacqueline-Charlotte Dufresnoy (1931-200), cantante, attrice, ballerina, tra le prime donne transessuali nel mondo. Cambio sesso nel 1958 a Casablanca e l’anno dopo prese parte al film “Europa di notte”, piazzando nella hit francese “Je cherche un millionaire”. 

Totò scrisse una canzone autobiografica sotto forma di sfogo, senza pensare che avrebbe fatto il giro del mondo: “Malafemmena”(1951). Silvana Pampanini fece di tutto per intestarsi la canzone, che in realtà si riferiva a Diana Dogliani, prima moglie di Totò. Centinaia gli interpreti di questo capolavoro. Il primo fu Mario Abbate, a seguire: Claudio Villa, Teddy Reno, Renato Carosone, Roberto Murolo, Fred Bongusto, Luciano Tajoli, Fausto Cigliano, Nunzio Gallo, Lina Sastri, Connie Francis, Fausto Leali, Cugini di Campagna, Renzo Arbore, Massimo Ranieri. Arrivarono anche dei film: “Totò, Peppino e la malafemmina”(1956) di Camillo Mastrocinque, “Malafemmena”(1957) di Armando Fizzarotti. Molte le canzoni agiografiche, quelle ironiche, quelle a risposta, quelle che causarono querele, in linea di massima prevalsero quelle caustiche.

 Nel 1980 i Decibel, guidati da Enrico Ruggeri, approdarono al Festival di Sanremo con “Contessa”, nulla a che vedere con l’omonima “Contessa”(1966) di Paolo Pietrangeli, canzone politica che non ha mai smesso di suscitare un certo fascino alle generazioni più giovani. Ruggeri disse inizialmente che il suo brano era dedicato a Renato Zero, poi lasciò cadere l’omaggio. Molto interessanti le canzoni-equivoco, a volte non creato a caso. Si pensi a “Georgia on my mind”(1930), canzone monumento di Hoagy Carmichael, a cui venne chiesto di scrivere una canzone sullo stato della Georgia, cosa che fece con grande slancio.

Lui e il suo paroliere, Stuart Gorrell, scrissero il brano pensando alla sorella di Carmichael, Georgia. Il brano, stupendo, venne inteso come lamento per la perdita di un amore di nome Georgia ma anche per gli abitanti della Georgia. 1250 le versioni discografiche, da Ray Charles ai Coldplay.  Fra le canzoni-dedica a tempo di ska spiccò nel 2005 “Vorrei cantare come Biagio Antonacci” di Simone Cristicchi, all’epoca ventottenne. Alla malizia di Cristicchi rispose l’abilità strategica di Antonacci, che in un concerto romano finì per ospitare il collega. Le canzoni-denuncia abbondano sia in Italia e all’estero. 

 Nel 1975 Francesco De Gregori scrisse “Piano bar”, dedicata al sodale Antonello Venditti, con cui in quel momento era calato il gelo. De Gregori nel suo brano lo definisce “uomo di poca malinconia”. Il dissidio si protrasse fino al 1978, anno in cui Venditti rispose con “Francesco” (“Come se il tempo fosse uno schiavo e noi/due aquiloni strappati che non volano più”).

Uno dei dissidi più famosi della musica italiana si dissolse da solo. Ora sono arrivati al duecentesimo concerto insieme. Evviva. Non potevano mancare i Beatles con la mano perfida di John Lennon in cui “How do you sleep?”(1971)“dedicata” alle nefandezze musicali di Paul Mc Cartney. Le canzoni omaggio al tempo dello swing. La coppia Bracchi-D’Anzi sfornò “Quando canta Rabagliati” nel 1941, cantata dallo stesso Alberto Rabagliati. L’anno dopo arrivò  Natalino Otto con “Natalino studia canto”, scritta da Gorni Kramer e subito “Natalino canta”. Ma lì ci si divertiva.

Perché la lite tra Mogol e Battisti è una ferita ancora aperta. Sono passati 43 anni dalla fine di quella storia, ma ancora abbiamo tanto da imparare. Gino Castaldo su L'Espresso il 27 Settembre 2023 

La querelle Battisti Mogol è un’ombra che ha una lunghissima scia, un velo spiacevole che rabbuia purtroppo una delle più splendenti avventure creative della storia della nostra canzone. L’origine di questa astiosa vicenda risale verosimilmente a quei mesi del 1980 che silenziosamente, senza un annuncio ufficiale, decretarono la fine del fortunatissimo binomio. Col tempo vennero fuori beghe poco edificanti, litigi da condominio, e una ufficiale e semplificata giustificazione fornita da Mogol, ancora oggi ribadita, secondo cui il problema, di principio, sarebbe stato legato a una ingiusta ripartizione dei diritti. E fin qui tutto bene, molto poco romantico, ma ci dobbiamo accontentare.

Eppure non dobbiamo dimenticare, soprattutto in questi tempi di fitto revival battistiano che di tutta questa storia noi abbiamo avuto sempre e solo la versione offerta da Mogol perché Battisti aveva scelto il silenzio, assoluto, sempre più rigido e senza alcuna eccezione, lasciando anche in eredità a sua moglie Grazia Letizia Veronese la consegna del silenzio. Battisti voleva che a parlare fosse solo ed esclusivamente la sua musica, non ha mai smentito o confermato alcunché, lasciando che si alimentassero le voci più assurde, compresa la leggenda secondo cui sarebbe stato un finanziatore della destra estrema. 

Per questo la lettera aperta scritta dalla signora Battisti a Mogol, uscita in questi giorni, è stata una sorpresa imprevista e scioccante. Mogol ha immediatamente risposto all’accusa di aver mentito sulla presunta lettera che gli avrebbe fatto recapitare negli ultimi giorni di vita, ma questo sembra quasi un dettaglio minimo di fronte all’accusa che francamente ci sembra di gran lunga più forte ovvero quella di eccesso di protagonismo («Lucio è diventato il tuo passepartout…», «Non riesci a staccare il tuo nome dal suo»). 

Sta di fatto che sono passati 43 anni dalla fine di quella storia e ancora abbiamo tanto da imparare.

Dal profilo Facebook di Marco Molendini il 18 Settembre 2023

Diciamola verità: altro che affetti spezzati, è solo questione di soldi. Non ci può essere un altro motivo nella lunga guerra dei Roses che divide Mogol da Grazia Letizia Veronese. Del resto se il «ragionier Giulio Rapetti, imprenditore, in arte Mogol, paroliere» (così lo definisce in una lettera pubblica la vedova Battisti) continua a far causa per «perdita di chance» (l'altro ieri la signora ha rivelato che ce ne è un'altra in ballo) si capisce come stanno esattamente le cose. A quali chance pensa Mogol? Le canzoni di Lucio (e sue), a lungo negate alle piattaforme per l'ostinato rifiuto della famiglia Battisti, ora sono disponibili e i dischi, si sa, non si vendono.

Ma anche lo streaming, in questo caso, non fa faville nonostante le continue riesumazioni del ricordo: l'ultima occasione è stata una piatta e scontata celebrazione televisiva per i 25 anni dalla morte di Lucio mandata in onda da Rai1 (i dirigenti farebbero bene a guardare sulle piattaforme come si fanno i documentari sui personaggi musicali: ce ne sono a decine). Su Spotify, la piattaforma più seguita, Battisti ha un milione e mezzo di ascolti al mese, una bazzecola rispetto ai 23 dei Maneskin, ai 9 di Sferaebbasta, anche se quasi quanto Vasco che ne ha 1,9 milioni. Oltrettutto, con la micragna che accompagna le royalties dello streaming, un milione e mezzo di ascolti corrisponde a poco più di cinquemila euro (per curiosità: Il mio canto libero, la più cliccata su Spotify, ha raggiunto un totale di 27 milioni pari a 100 mila euro.

Quindi quali sono queste chance? La risposta viene spontanea: l'utilizzo dei brani più famosi del repertorio pop nazionale soprattutto per la pubblicità (e forse per qualche colonna sonora o sigla tv). Tipo, se quella chance invocata da Mogol ci fosse, abbinare «non sarà un'avventura» alla pubblicità delle navi da crociera. Insomma, a questo punto la vedova Battisti e suo figlio Luca Filippo Carlo, che fa il cantante e ci ha provato con il nome d'arte di Lou Scoppiato ma anche con una band punk Hospital (13 ascolti mensili su Spotify), abbiano tutte le ragioni di essersi stufati delle continue mozioni degli affetti (interrotti) di Mogol seguiti da infinite azioni giudiziarie: sono passati 43 anni dal divorzio della celebre e rimpianta ditta e la storia della loro separazione adesso è diventata una lagna infinita, come per decenni è stata la storia del suicidio negato di Luigi Tenco. Oltretutto, visto che è di questo che si parla, di soldi non mi pare che tiri aria.

Estratto dell'articolo di Marinella Venegoni per la Stampa il 17 Settembre 2023

La caustica lettera aperta della vedova di Lucio Battisti, Grazia Letizia Veronese, all'autore dei suoi testi Mogol, in occasione dei 25 anni della scomparsa di uno dei più grandi e ancora oggi attuali artisti dei nostri tempi, ha riportato a galla le note vicende di un rapporto non idilliaco fra la signora e lo stesso Mogol, che con Lucio scrisse le più amate canzoni del canzoniere italiano, a partire dal loro incontro del 1965 e fino al 1980. 

Una storia intessuta di cause e controcause che si trascinano nel tempo. Nella sua rievocazione, la donna riporta tra l'altro un episodio che ha sempre incuriosito noi appassionati, avidi di particolari del rapporto fra i due: bruscamente concluso dopo che l'autore dei testi che tutti cantiamo a memoria aveva chiesto al musicista la pari dignità economica sui diritti d'autore (che per regola privilegiano la parte musicale), in nome delle palesi ventate di entusiasmo suscitate dal loro connubio. Racconta Mogol che Battisti, quella sera, gli disse subito di sì, ma chiese una notte per pensarci sopra.

Il mattino dopo, la risposta divenne negativa e fu l'addio.

Scrive tra l'altro Veronese, rivolgendosi a Mogol: «Ti invito a non raccontare più la commovente storia della "lettera consegnata di nascosto a Lucio", ora da un'infermiera, ora da un medico, ora da un non meglio identificato professore. Voglio precisare, una volta per tutte, che mio marito in quei giorni lottava per la sua vita, che nessuno ha mai ricevuto una tua lettera, che Lucio in quegli stessi giorni non è mai stato solo e non ha mai pianto, tantomeno ricordando la vostra «amicizia».

Sono stata testimone di una diversa versione dei fatti. In un colloquio dei giorni che precedettero la fine dolorosa di Battisti, Mogol mi aveva confessato di aver consegnato a un'infermiera, che lavorava nell'ospedale in cui Battisti era ricoverato, una lettera per il vecchio sodale, impossibile da dimenticare: la donna gli aveva promesso che l'avrebbe fatta consegnare. Gli disse poi di averla data a un medico di quel reparto. Mogol aveva scritto: «Caro Lucio, spero che i giornali esagerino circa le tue condizioni. Se hai bisogno, chiamami a questo numero...». Non una lettera di affetti, ma un segno di presenza.

Era il '98, fra agosto e settembre (Lucio se ne andò il 9). I cellulari erano ormai parte della nostra vita. Scrissi su questo giornale un articolo nel quale raccontavo l'episodio, chiedendomi: «Chissà se il messaggio è arrivato a destinazione».

Erano tempi nei quali i centralini dei giornali ancora erano semafori funzionanti della comunicazione fra lettori e redazioni, e un pomeriggio di poco successivo alla pubblicazione del mio articolo, arrivò alla mia scrivania una telefonata: «Sono il medico che ha ricevuto la lettera di Mogol per Battisti. Volevo dirle che l'ho consegnata al paziente, che in mia presenza l'ha aperta, e quando l'ha letta mi è parso commosso. Si è asciugato gli occhi con la mano». 

(…)

Estratto dell’articolo di Carlo Massarini per la Stampa il 17 Settembre 2023

In occasione del 25ennale della scomparsa di Lucio Battisti, la lettera aperta di Maria Grazia Veronese Battisti riapre una vecchissima querelle personale con Giulio Rapetti in arte Mogol. Siamo su un terreno scivoloso, quindi proviamo a raccontarla così. 

(…) Mogol (..) non s'è mai dato pace della fine del sodalizio con Lucio. Maria Grazia Veronese ha difeso la memoria (e i diritti di copyright) del marito in modo maniacale, sbagliando a mio parere quando non voleva che i brani di Lucio apparissero su Spotify (si difende la memoria di un artista gestendola, non rendendola inaccessibile), ma resistendo alle lusinghe dei soldi e senza lavare i panni sporchi in Arno.

Se ne fa menzione adesso è, suppongo, per l'irritazione della causa portata ora in Cassazione per «mancata chance»: tradotto, la non-volontà di aprire il catalogo di Battisti ai «diritti secondari», cioè film e pubblicità per la quale serve il parere dell'autore e non solo dell'editore, e che nel caso di Lucio aprirebbe le porte a lauti guadagni.

 Cosa sulla quale ormai han mollato anche gli intransigenti (resistono solo i Beatles), ma che una volta era un questione di integrità ed evidentemente rispecchia le ultime volontà di Battisti. E per la storia brutta della lettera consegnata per vie traverse a un Battisti commosso sul letto di morte, divulgata da Mogol e che lei sostiene sia assolutamente falsa. Da fan di Battisti-prima-e-dopo, dico sommessamente al signor Rapetti: ma metterci una pietra sopra e voltare pagina no?

Estratto da corriere.it sabato 16 settembre 2023.

«Eccomi qui. Sono passati 25 anni da quando Lucio Battisti non è più fra noi. Noto, caro Giulio, che non perdi occasione pubblica per spargere il tuo miele su Lucio, dichiarando di averlo amato tanto: io credo che tu abbia ragioni per amarlo molto di più adesso, visto che ancora oggi, dopo un quarto di secolo dalla sua morte, non ti riesce di separare il suo nome dal tuo». 

Inizia così la lettera aperta che Grazia Letizia Veronese, vedova di Lucio Battisti, ha scritto a Mogol, chiamandolo «ragionier Giulio Rapetti, imprenditore, in arte Mogol, paroliere».

(...) «Noto anche che, in queste occasioni non fai mai alcun cenno alle innumerevoli cause che hai intentato dopo la morte di Lucio: tre gradi di giudizio per una questione di confini, due gradi di giudizio per un risarcimento danni, per «perdita di chanche»: una causa che, visto l’esito, ha costretto in liquidazione le Edizioni Acqua Azzurra. Ed ecco ora, dopo sette anni dalla sentenza del 2016, una nuova identica causa, questa appena nata, ma ancora per «perdita di chanche».

Ti ricordo (fra parentesi) che sono ancora in attesa di una risposta alla lettera che ti ho scritto il 10 giugno del 2020, quando eri Presidente effettivo della Siae. Sono passati tre anni e hai ritenuto di ignorare quella lettera ma, nel frattempo, hai continuato a produrre programmi che hanno al centro Lucio Battisti (che, consentimi il termine, è diventato il tuo passepartout)». 

Proprio pochi giorni fa, in occasione dei 25 anni dalla morte, Battisti è stato rievocato su Rai1 con il docufilm «Lucio per amico. Ricordando Battisti».

Ma la lettera si chiude con altri toni amari: «Per quanto riguarda la salute di Lucio e le cause della sua morte, ti chiedo gentilmente di lasciar perdere le tue infondate supposizioni e ogni altra illazione. Ti chiedo soltanto di rispettare la sua dignità di uomo, dopo avere tanto lusingato la sua figura di artista.

A tal proposito, ti invito a non raccontare più la commovente storia della «lettera consegnata di nascosto a Lucio», ora da un’infermiera, ora da un medico, ora da un non meglio identificato «professore»; voglio precisare, una volta per tutte, che mio marito in quei giorni lottava per la sua vita, che nessuno ha mai ricevuto una tua lettera, che Lucio in quegli stessi giorni non è stato mai lasciato solo e che non ha mai pianto, tantomeno ricordando la vostra «amicizia». Ti rammento che il vostro «sodalizio artistico» si era interrotto nel lontano 1980. Sono passati ormai 43 anni, Giulio! Senza rancore. Grazia Letizia Veronese Battisti».

Mogol dopo la lettera della vedova di Lucio Battisti: «La gente sa giudicare da sola, ma io non dico bugie». Storia di Barbara Visentin su Il Corriere della Sera sabato 16 settembre 2023.

La voce al telefono tradisce amarezza, ma Mogol preferisce non replicare alla lettera aperta che la vedova di Lucio Battisti, Grazia Letizia Veronese, gli ha indirizzato l’altra sera, ultimo capitolo di una diatriba spinosa e infinita fra il paroliere e gli eredi del cantautore, scomparso 25 anni fa. «Non mi va di dire nulla, non ho voglia di litigare — fa sapere Mogol —. Penso che la gente sia più intelligente e saprà giudicare da sola».

La vicenda è complessa e vede da un lato l’approccio estremamente protettivo della famiglia Battisti (la vedova 80enne e il figlio Luca Filippo Carlo, 50 anni), che si oppone a ogni sfruttamento del suo catalogo «per motivi di lucro», e dall’altro Mogol, autore di tanti testi del periodo d’oro di Battisti, infilato in lunghe battaglie legali per i diritti e accusato di cercare soldi e visibilità tramite il nome dell’ex sodale, nonché di vivere di rendita.

«Noto, caro Giulio, che non perdi occasione pubblica per spargere il tuo miele su Lucio, dichiarando di averlo amato tanto: io credo che tu abbia ragioni per amarlo molto di più adesso, visto che ancora oggi, dopo un quarto di secolo dalla sua morte, non ti riesce di separare il suo nome dal tuo», esordisce Veronese nella lettera, chiamando poi Mogol «ragionier Giulio Rapetti, imprenditore, in arte Mogol, paroliere».

L’anniversario della morte di Lucio Battisti, avvenuta il 9 settembre 1998 dopo una malattia su cui è stato sempre mantenuto riserbo, sembra aver riacuito i dissapori, complice anche, con ogni probabilità, il docufilm andato in onda mercoledì scorso su Rai1 «Lucio per amico. Ricordando Battisti», dove un ruolo centrale nel ripercorrere la vita del cantautore è stato affidato proprio a Mogol.

Lui però non entra nel merito delle dure parole della vedova Battisti: «Se scrive lettere contro di me è un affare che riguarda solo lei — ribadisce —, non dico niente perché non ne vale la pena». Ci tiene a puntualizzare un passaggio, «solo una cosa», riguardo all’ultima parte del messaggio, in cui Veronese, facendo riferimento al periodo in ospedale di Battisti, gli intima di «non raccontare più la commovente storia della “lettera consegnata di nascosto a Lucio”, ora da un’infermiera, ora da un medico, ora da un non meglio identificato professore» e aggiunge di voler precisare «una volta per tutte, che mio marito in quei giorni lottava per la sua vita, che nessuno ha mai ricevuto una tua lettera, che Lucio in quegli stessi giorni non è stato mai lasciato solo e che non ha mai pianto, tantomeno ricordando la vostra “amicizia”».

Quell’episodio è vero, insiste invece Mogol, i cui rapporti professionali con Battisti si erano interrotti nel 1980: «Io le bugie non le racconto, specie di questo genere. Ci sono testimoni che hanno sentito il medico raccontare di aver consegnato la mia lettera, dicendo che Battisti si è messo a piangere. Non direi mai una bugia del genere perché penso che la cosa più importante per una persona sia la propria autostima».

Nessun riferimento, invece, alla «nuova causa appena nata», intentata da Mogol, a cui allude la vedova Battisti nella sua missiva, che si aggiungerebbe alle varie contese legali in cui è incagliato il patrimonio del cantautore, tra case discografiche, oltre a Mogol, che sono coinvolte a vario titolo.

La famiglia, a tal proposito, aveva da pochi giorni fatto sapere di aver incassato una vittoria in appello contro la Sony: i giudici di Milano hanno infatti confermato la sentenza di primo grado con cui era già stata respinta la richiesta di risarcimento (8,5 milioni di euro) avanzata dalla major discografica. Sony Music accusava gli eredi, tra le altre cose, di aver revocato il mandato alla Siae per l’ utilizzo online delle opere di Battisti.

Estratto dell’articolo di Aldo Grasso per il Corriere della Sera venerdì 15 settembre 2023. 

Le intenzioni sono sempre buone: «Raccontare l’avventura umana e artistica di Lucio Battisti, attraverso un vasto e, in alcuni casi, inedito materiale d’archivio italiano e internazionale, unito ai ricordi di chi lo ha conosciuto, primo fra tutti Mogol, il compagno d’arte e d’avventura». 

Questo voleva essere «Lucio per amico. Ricordando Battisti», un documentario di Maite Carpio per Rai1 (adesso si dice «docu-film» che fa più fino, come quando si dice «giornalista e scrittore»). Il titolo esatto, però, avrebbe dovuto essere questo: «Lucio per amico. Ricordando Mogol». Perché mi è venuto in mente di scrivere una simile stupidaggine? Forse perché Giulio Rapetti, in arte Mogol, è convinto di essere un poeta e si vive come tale (leggete i suoi testi, senza la musica di Battisti, e scoprirete la poetica del banalese). Forse perché al buon Franco Mussida è sfuggita un’eresia: «Mogol era il John Lennon di Battisti».

Forse perché c’erano più parole che canzoni. Forse perché Pasquale Panella andava comunque citato e non ignorato come se avesse provocato la morte artistica di Battisti (Mogol non pronuncia mai il suo nome, un vero signore). Sta di fatto che il protagonista della serata è stato Giulio Rapetti, in arte Mogol, poeta e paroliere. A Battisti è toccato un destino inverso a quello di Franco Battiato. Di Battisti si parla sempre del suo periodo più popolare, quando ha accettato che la sua musica innovativa fosse «tradotta» da un rabdomante dell’italiano medio, da uno stratega del mainstream, da un teorico, suo malgrado, del kitsch.

Nei confronti di Battiato, invece, c’è tutta un’ansia per esaltare i suoi momenti più sperimentali e colti 

(...) Nella leggendaria unione fra Giulio Rapetti, in arte Mogol, e il musicista Lucio Battisti continueremo a chiederci, con supremo anelito, chi dei due è stato il miracolato. Il docu-film parteggia per il poeta della brughiera.

"Non mi sembrano un granché...". Quel primo incontro tra Battisti e Mogol. A metà degli anni Sessanta una cacciatrice di talenti francese li porta Lucio a casa del paroliere, ma la scintilla tra i due non decolla affatto all'istante. Paolo Lazzari il 10 Settembre 2023 su Il Giornale.

L'appartamento è infilato dentro a una palazzina signorile, nel cuore di Milano. Lei lo sta aspettando sulla soglia, fasciata da un impermeabile beige, i capelli raccolti in un foulard, un paio d'occhiali da sole calati su quel naso francese. Lui la scorge da lontano e affretta il passo. Ha l'energia tracimante dei vent'anni a sospingerlo. Prima di entrare si rimescola quel groviglio di capelli. Poi Christine Leroux e Lucio Battisti entrano in casa di Giulio Rapetti, cioè Mogol.

Lui li fa accomodare spostando ceste di vinili dal divano: è la prima volta che vede quell'acerbo musicista. Lei invece la conosce da tempo: un'amicizia profonda sorta sull'asse Parigi - Milano, rinsaldata dal legame professionale, perché Christine dirige una casa di edizioni musicali. Ed è un vorace segugio di talenti. Mogol stappa una bottiglia. Sorseggiano qualcosa, poi Lucio rompe il ghiaccio: "Senti, allora ti faccio sentire due canzoni". Mogol fa cenno di sì.

Parte la musica, ma il paroliere si acciglia subito. Christine e Lucio se ne stanno in religioso silenzio, in attesa del verdetto. Ora il secondo pezzo ispeziona quel salotto, ma non genera reazioni di sorta. Lucio stacca la musica. "Ecco, è finito, erano queste". Mogol vorrebbe subito dire qualcosa, ma si vede che sta scegliendo accuratamente ogni sillaba. Solo che poi, dalle sue labbra, escono cinque parole contundenti: "Non mi sembrano un granché".

Chissà cosa deve aver pensato Battisti negli istanti immediatamente successivi a quella velenosa constatazione. Era giovane, d'accordo, ma il talento se ne infischia delle ragioni anagrafiche. Dopo gli esordi a Napoli si era trasferito a Milano, per fare parte de I Campioni, la band capitanata da Roby Matano. Lo stesso che poi in quel ragazzo sottile e testardo aveva scorto un baluginio sommerso, invitandolo a scrivere canzoni.

E quindi eccolo lì, adesso, piantato nel salottino di Giulio Rapetti con un'agente francese al fianco, mentre quello gli ha appena smontato due canzoni. Alcuni magari la prenderebbero sul personale, alzerebbero i tacchi e sbatterebbero la porta. Lui invece prende in contropiede Mogol. Calibra bene le parole e se ne esce ancora più ermetico: "Anche a me", sussurra allargando la bocca in un sorriso.

Christine, invece, sembra averla presa male. Mogol se ne accorge e decide di rincuorarla. In fondo l'umiltà mostrata da questo ragazzo l'ha spiazzato. Vero, come confesserà in seguito, in quel primo appuntamento non c'ha visto proprio nulla in Battisti, nei suoi testi, nella sua musica. Però forse ci si può lavorare. Dirgli che forse è meglio se prova a cantare, anche se quello è riluttante, che alle parole ci pensa lui. Così si alza ed emette una sentenza tutt'altro che tombale: "Ascolta, che ne dici di tornare da me tra qualche giorno? Ci prendiamo qualche ora per lavorare insieme e vediamo come va". Il volto di Lucio si illumina. Quello di Christine pure, perché è sventata l'ipotesi di una bocciatura netta.

Da quelle prime frequentazioni nasceranno Dolce di giorno e Per una lira. Poi il grande successo di 29 settembre. L'incipit di una collaborazione che rivoluzionerà la musica leggera italiana. Partita con un rifiuto, come le storie d'amore più crepitanti.

Dagospia mercoledì 6 settembre 2023. Comunicato

Mentre si approssima la ricorrenza della scomparsa di Lucio Battisti – il 9 settembre saranno 25 anni da quando l’Artista ci ha lasciati – non accenna ad interrompersi la querelle Battisti. 

Stavolta, ad alimentarla è stata la Sony Music, la quale nel 2017 ha iniziato l’ennesima causa contro gli Eredi di Lucio Battisti (Grazia Letizia Veronese e Luca Battisti). 

L’accusa mossa dalla Sony Music contro gli Eredi di Lucio Battisti è la stessa che Mogol aveva mosso contro di loro anni prima: aver opposto un diritto di veto a qualsiasi forma di sfruttamento economico delle opere musicali di Lucio Battisti. 

In particolare, gli Eredi di Lucio Battisti sono stati accusati dalla Sony Music di aver revocato il mandato alla SIAE per l’utilizzazione on line delle opere musicali di Lucio Battisti (in tal modo, impedendo alla Sony Music di commercializzare le registrazioni fonografiche delle canzoni interpretate da Lucio Battisti sulle principali piattaforme digitali, Spotify su tutte) e di aver ostacolato l’utilizzazione delle opere musicali di Lucio Battisti per sincronizzazioni (in tal modo, impedendo alla Sony Music di utilizzare le registrazioni fonografiche delle canzoni interpretate da Lucio Battisti in spot commerciali di noti marchi, Fiat e Barilla su tutti). 

La richiesta di risarcimento del danno monstre avanzata dalla Sony Music era stata di euro 8,5 milioni. 

La Corte d’appello di Milano, confermando la sentenza di primo grado, che aveva già respinto le domande della Sony Music, ha rigettato l’appello e condannato la Sony Music al pagamento delle spese processuali. 

«La decisione della Corte milanese - spiega l’avvocato Simone Veneziano, legale degli Eredi di Lucio Battisti – è significativa per almeno tre ragioni. 

In primo luogo, perché un giudice chiarisce, per la prima volta, che i contratti discografici stipulati da Lucio Battisti oltre cinquanta anni fa con i produttori fonografici danti causa di Sony Music non consentono, senza adesso il consenso (degli Eredi) di Lucio Battisti (o dei suoi Editori musicali), né di utilizzare on line le registrazioni fonografiche che incorporano le interpretazioni a suo tempo eseguite da Lucio Battisti, né di utilizzare le medesime registrazioni fonografiche per la pubblicità di prodotti commerciali. 

In secondo luogo, perché l’accoglimento della tesi di Sony Music avrebbe avuto un effetto dirompente nel settore della musica e, segnatamente, in quello dell’editoria musicale. Sony Music, infatti, ha sostenuto in giudizio che il comportamento ostruzionistico tenuto dagli Eredi di Lucio Battisti, anche nella loro veste di amministratori degli Editori musicali (Edizioni Musicali Acqua Azzurra S.r.l. e Aquilone S.r.l.) delle opere musicali di Lucio Battisti, avrebbe determinato in capo agli stessi una responsabilità da “contatto sociale”.

Siccome – sostiene Sony Music – i diritti dell’autore dell’opera musicale, dell’interprete e del produttore fonografico che fissa l’interpretazione su supporto sono diritti che si condizionerebbero l’uno con l’altro, nel senso che non sarebbe possibile lo sfruttamento della registrazione di una canzone senza che tutti gli aventi diritto (autore, interprete e produttore fonografico) abbiano espresso il loro consenso, gli Eredi di Lucio Battisti sarebbero stati obbligati a consentire a Sony Music di utilizzare le registrazioni fonografiche delle canzoni di Lucio Battisti per sincronizzazioni a scopo pubblicitario. In caso di accoglimento della tesi di Sony Music, avremmo dunque assistito all’affermazione del principio eversivo secondo il quale l’utilizzazione economica di un’opera musicale, anziché dall’autore (o dall’editore musicale), sarebbe governata dal produttore fonografico.

La decisione se, a chi e per quale corrispettivo concedere in licenza un’opera musicale non spetterebbe più all’autore (o all’editore musicale), bensì al produttore fonografico. Insomma, a “comandare” sulle opere musicali non sarebbero più gli autori (o gli editori musicali), ma le case discografiche. Chiunque invece sa perfettamente che chi voglia utilizzare, ad esempio in uno spot pubblicitario, una qualsiasi canzone deve farne richiesta, separatamente, sia al titolare della registrazione fonografica, sia all’autore (o all’editore musicale); e sa, ancor meglio, che ciascuno di tali soggetti è assolutamente libero di decidere se, a chi e per quale corrispettivo concedere la licenza.

In terzo luogo, perché gli Eredi di Lucio Battisti sono stati mandati assolti anche dall’accusa di aver violato, in qualità di amministratori degli Editori musicali (Edizioni Musicali Acqua Azzurra S.r.l. e Aquilone S.r.l.) delle opere musicali di Lucio Battisti, gli obblighi di diligenza nei confronti di Sony Music, non avendo addotto Sony Music alcuna condotta illecita degli amministratori diversa ed ulteriore rispetto a quella addebitata (peraltro, infondatamente, data l’insussistenza, come detto, di una responsabilità da “contatto sociale”) agli Editori musicali». La Sony Music ha preannunciato che proporrà ricorso in Cassazione. Gli Eredi di Lucio Battisti fanno sapere che attenderanno con serenità anche questa decisione.

Battisti e la fortuna di essere stato ragazzo quando c’era lui. Storia di Beppe Severgnini su Il Corriere della Sera domenica 20 agosto 2023

In soffitta ho creato il Museo del Passato Prossimo, per il divertimento della famiglia, convinta che questo sia un segno di eccentricità senile. In cosa consiste la mia collezione? Nell’accumulo, su una scaffalatura lunga quanto la parete, della tecnologia che normalmente la gente butta via. Il cassettone della nonna si tiene (non sempre, non tutti). Il mangiadischi, il registratore a cassette, lo Walkman, l’autoradio estraibile e la segreteria telefonica chi li ha conservati? Solo tu!, rispondono in coro i famigliari, ai quali è proibito avvicinarsi ai miei tesori vintage, soprattutto nei giorni della raccolta differenziata. Eppure — provo a spiegare ogni volta — è importante salvare alcune testimonianze del passato recente. Attraverso quegli oggetti, in fondo, è passata la vita. Alcuni hanno acceso passioni, diluito le delusioni, accompagnato le nostre giornate. Buttarli via sembra crudele. Meglio conservarli e, ogni tanto, sbloccare i ricordi. Marcel Proust ricorreva ai biscottini (madeleines). Perché noi non possiamo utilizzare un mangiadischi? Sempre ricerca del tempo perduto è.

Cassette e compilation

C’è di più. Molti oggetti sono collegati tra loro. Il mio registratore portatile Philips a mattonella anni ‘70 non si è mai separato da alcune cassette autoprodotte (Basf C90!). Registravano canzoni dalla radio, dai nostri Lp, dai dischi degli amici, con furore artigianale. Non siamo mai andati in galera perché — a differenza dei napoletani fratelli Frattasio («Mixed by Erry», guardatelo su Netflix!) — ne facevamo un uso personale. Una volta create le compilation, le riproducevamo fino alla consunzione. Soprattutto nell’autoradio. Estraibile, antifurto. Un marziano che fosse sceso sulla terra nel 1975 sarebbe rimasto sbalordito. I ragazzi italiani giravano con un’autoradio sottobraccio. Qualcuno, ogni tanto, concedeva l’altro braccio alla morosa. Ognuno aveva i suoi cantanti e i suoi gruppi preferiti. Solo un nome otteneva l’unanimità: Lucio Battisti. Conoscevamo le sue canzoni e memoria, e i testi di Mogol finivano per diventare i sottotitoli delle nostre giornate. A volte li prendevamo alla lettera. «Cantine», per esempio, non era un termine generico per indicare un locale bohémien. Le nostre cantine erano cantine: moralmente, climaticamente, catastalmente. Quando Battisti sussurrava «E la cantina buia dove noi / respiravamo piano» («La canzone del sole») descriveva una situazione reale. Se avessimo respirato forte tutti insieme, avremmo esaurito l’aria.

Mogol e Battisti si conobbero nel ‘65

Anime semplici

Eravamo, pensandoci adesso, anime semplici. «Vendo casa» — altra magnifica canzone di Battisti-Mogol, portata al successo dai Dik Dik nel 1971 — è stata la colonna sonora della mia quarta ginnasio e dei lenti a luci spente. Non indicava un precoce interesse al mercato immobiliare, ma un inno ai rovesci sentimentali che ogni quattordicenne ritiene di sperimentare per primo nella storia dell’umanità. Per fortuna il testo conteneva anche alcune simpatiche distrazioni. Quando ascoltavo «Un panino, una birra, e poi / la tua bocca da baciare» mi chiedevo ogni volta: deglutire prima, no? Una delle canzoni di Lucio Battisti cui sono più legato, «La collina dei ciliegi», compie quest’anno mezzo secolo. Era il singolo tratto dall’album «Il nostro caro angelo» (1973): un cantico della libertà individuale, un invito a non farsi schiacciare dalle convenzioni sociali. Questo lo capivamo. Non ci passava per la testa che il verso «...planando sopra boschi di braccia tese» fosse un’allusione ai raduni fascisti, come abbiamo letto e sentito poi. I fascisti c’erano, anche a scuola, ed erano riconoscibili dagli occhiali a specchio, indossati forse per nascondere sguardi non troppo intelligenti. Ma che Lucio Battisti inneggiasse ai saluti romani, be’, sembra francamente assurdo. Anche perché l’album precedente («Il mio canto libero», 1972) portava in copertina una selva di braccia tese verso l’alto. Come fanno le persone quando sono felici, non i camerati nei raduni (a proposito: non sono vietati?).

Battisti con Mina: un successo clamoroso il loro duetto in tv nel 1972

Sedili ribaltabili

Altre volte la decrittazione era meno facile. In sostanza: la canzone era incantevole, ma conteneva qualche passaggio oscuro. Torniamo a «Il mio canto libero». A un certo punto Battisti canta: «E vola sulle accuse della gente / a tutti i suoi retaggi indifferente». Qualsiasi adolescente era consapevole che il vocabolo «retaggi» avrebbe messo in fuga le ragazze. Ma capiva l’invito contenuto nella frase: fregatene, non farti condizionare dal giudizio degli altri. Un altro verso, poco dopo, suonava ancora più enigmatico: «La veste dei fantasmi del passato / cadendo lascia il quadro immacolato». Quale quadro? In camera, tutt’al più, appendevamo i poster. Altri versi di Battisti-Mogol erano meno misteriosi. Per un ragazzo di Crema, ad esempio, la parte agricola era familiare. «Le biciclette abbandonate sopra il prato e poi / Noi due distesi all’ombra / Un fiore in bocca può servire sai / Più allegro tutto sembra» («La canzone del sole»): escludo di aver masticato papaveri nei campi fra Sergnano e Pianengo, ma l’immagine era convincente. Così «Che ne sai tu di un campo di grano / poesia di un amore profano» («Pensieri e Parole»): capivamo il concetto, apprezzavamo la poesia, ma preferivamo i sedili ribaltabili della Fiat 127 al fastidio delle pannocchie sulla schiena (per non parlare degli accidenti del coltivatore diretto cui avremmo rovinato il mais).

Il regno di Saturno

Riascoltate oggi in successione, le canzoni di Battisti — tutte belle, alcune splendide — fanno quasi tenerezza: sembrano lontane nel tempo come il regno di Saturno. «Acqua azzurra, acqua chiara», «Ti telefono se vuoi / non so ancora se c’è lui» (non esistevano i cellulari). «I giardini di marzo», «All’uscita di scuola i ragazzi vendevamo i libri» (oggi guardano il telefono). «Mi ritorni in mente», «Quella sera /ballavi insieme a me / All’improvviso / mi ha chiesto / “Lui chi è?”» (ai tempi si riusciva a parlare ballando, oggi è impossibile). «Fiori rosa, fiori di pesco», «Scusa, credevo proprio che fossi sola / Credevo non ci fosse nessuno con te / Oh, scusami tanto se puoi / Signore chiedo scusa anche a lei” (cinquant’anni fa la gente, ogni tanto, chiedeva scusa). Eppure queste frasi — anche quelle anacronistiche, anche quelle un po’ retoriche — ci sono rimaste stampate nel cervello, insieme a molte altre. «Come può uno scoglio arginare il mare / Anche se non voglio, torno già a volare» («Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi...»): che importa questo incrocio di metafore degno di un gabbiano distratto? «Una giornata uggiosa»: chi, da sobrio, avrebbe usato un aggettivo così? «Domandarsi perché quando cade la tristezza in fondo al cuore / come la neve non fa rumore» («Emozioni»): se l’avesse scritto Giovanni Pascoli, avremmo sollevato obiezioni. Ma veniva da Battisti e Mogol, e ci lasciava a bocca aperta. Qualcuno si chiede perché la recente poesia italiana abbia faticato ad arrivare al grande pubblico. Be’, perché giravano cantautori come Battisti (De André, Battiato, Dalla, De Gregori, Guccini, Fossati, Venditti, Renato Zero etc), e hanno occupato un grande spazio nell’immaginazione collettiva. La nostra educazione sentimentale è passata dai testi delle loro canzoni, così come l’apprendimento della lingua inglese è transitato dai Beatles, dai Pink Floyd e da Bob Dylan. Oggi, mentre scrivevo e ascoltavo (ovviamente) Lucio Battisti, sotto uno dei video presenti su YouTube ho letto questo commento: «Che fortuna essere stato adolescente quando c’eri tu». Mi sembra un complimento bellissimo.

Raffaello Carabini per Spettakolo.it il 6 aprile 2023.

«Luca Battisti, il figlio di Lucio, doveva esordire come cantautore nel 2004 in un programma di Raidue», racconta il giornalista Michele Bovi. «Ero stato inviato dalla RAI a Milano nella veste di capostruttura della rete Due, con la principale missione di restituire spazio e operatività alla sede di Corso Sempione. Tra Quelli che il calcio e La talpa, tra Notti europee e Stelle con la coda, riuscii anche a piazzare una serie di appuntamenti di particolare soddisfazione, tutti in seconda serata: Eventi Pop e I 60 a colori che curavo personalmente, Nati a Milano affidato a Edmondo Berselli e Romano Frassa con la conduzione di Giorgio Faletti e il primo programma della RAI in virtual set: Galatea, un rotocalco di arti varie presentato da Barbara Ortelli per il quale avevo selezionato una squadra di eccellenti autori: Tommaso Labranca, Dario Baudini, Lucia Castagna e Roberto Avvignano.

 La sigla di Galatea doveva avere la musica e la voce di Luca Battisti, il figlio di Lucio. Mario Cantini, leggendario editore della RCA Italiana, mi aveva fatto ascoltare un cd con 14 provini dell’artista, tutti pezzi composti e cantati da lui in lingua inglese. Alcuni brani erano davvero piacevoli, sonorità che ricordavano i Beatles, eseguiti con slancio: voce interessante e vivace accompagnamento di chitarra. Potevano funzionare filtrati da un arrangiamento adeguato e una realizzazione di qualità. Tra i provini scelsi una canzone per la sigla di Galatea e d’accordo con la signora Battisti, proprietaria delle edizioni, feci formalizzare la richiesta dalla RAI.»

Però poi non se ne fece niente. Cosa accadde?

«Si aprì la trattativa tra i Battisti e la BMG per la realizzazione dell’album. Roberto Gasparini, direttore della casa discografica, mi ha detto che Luca voleva registrarlo a Londra, come faceva il padre. E fin lì nessun problema. Gasparini però pretendeva che tra i brani ce ne fossero almeno tre cantati in italiano e che Luca garantisse la disponibilità per un’intensa promozione. I Battisti non erano d’accordo, inoltre chiesero un anticipo sui ricavi che il dirigente della BMG ritenne spropositato. Il progetto tramontò e con esso il debutto di Luca nella sigla di Galatea.»

 Ne scaturisce un Luca Battisti identico a suo padre: già nell’eventualità dell’esordio poneva ai discografici le stesse condizioni e gli stessi ostacoli…

«Luca, e soprattutto sua madre Grazia, indubbiamente seguivano gli ammonimenti di Lucio: ovvero “artisti e autori vanno tutelati dai vampiri dell’industria discografica”. Le trattative erano sempre difficili. Lucio a priori non si fidava. Franco Reali, amministratore delegato della BMG Ricordi, mi ha raccontato che, dopo una delle tante estenuanti contrattazioni, aveva deciso di accontentarlo: “ok Lucio, adesso ci faccia ascoltare i brani del nuovo disco”.

E l’altro: “perché? Che cosa cambia se li ascoltate?” Insomma non riconosceva autorità, autorevolezza e mansioni della controparte. Reali la prese male e disse basta. E Battisti incise La sposa occidentale con la CBS.»

 Addirittura rifiutarsi di fare ascoltare i suoi provini al discografico. Malfidato a oltranza?

«Nello specifico non aveva tutti i torti. In quegli anni dagli archivi della BMG, negli storici stabilimenti capitolini di via Tiburtina, dipendenti disonesti trafugarono provini di Claudio Baglioni, Renato Zero, Patty Pravo, Lucio Dalla, Francesco De Gregori, Eros Ramazzotti, Riccardo Cocciante e altri, tutti destinati alla criminalità organizzata che li vendeva in musicassette sulle bancarelle dei mercatini romani e napoletani.

 C’erano anche diversi inediti di Battisti tra i quali Il paradiso non è qui rimasto fuori dall’ultimo album scritto con Mogol, Girasole scritto assieme alla moglie, Il bell’addio e Il gabbianone composti con Pasquale Panella. Franco Reali non aveva colpa, anzi aveva fatto arrestare un dipendente colto con le mani nel sacco. Ma è comprensibile la diffidenza di un artista riservatissimo, che pretendeva l’assoluto rispetto della privacy, che aveva scelto di abbandonare la scena.

Una scelta pagata di tasca propria: rifiutare di mostrarsi, di promuovere i dischi, di concedere la propria immagine a media e copertine degli album era antieconomico. Eppure preferiva così, pur di affermare il proprio disegno artistico. La celebrità lo esasperava. Una volta il direttore della BMG Roberto Gasparini andò a trovarlo per lavoro nella casa di Dosso di Coroldo. Ad accompagnare Gasparini c’era Antonio Coni, che passava per essere il più fidato collaboratore di Lucio. Ciononostante appena entrato nel parcheggio dell’abitazione Battisti gli chiese di aprire il baule dell’auto: voleva sincerarsi che non vi fosse nascosto un fotografo.»

 Gli scontri con i discografici però riguardavano soprattutto le percentuali di profitto.

«Sì. Lucio non ammetteva sconti, diceva: “chi vuole la mia musica sa dove trovarla e qual è il prezzo giusto per averla”. Quando dal 33 giri in vinile si passò al cd ci vollero mesi di negoziati per fargli accettare la riforma delle condizioni: il nuovo supporto era in fase promozionale pertanto con profitti minori destinati all’artista rispetto al disco.

 Dopo la sua scomparsa tutto è degenerato. Da quando i meccanismi di sviluppo sono radicalmente cambiati e discografici ed editori si rivolgono alle piattaforme web per realizzare guadagni, con gli introiti di artisti e autori ridotti al lumicino, Grazia e Luca Battisti sono in guerra con Universal Music e Sony.»

E con Mogol, l’altra firma del repertorio più amato dagli italiani.

«Sì, anche con Mogol, sensibile alle sempre elevate richieste del mercato e propenso al completo impiego del catalogo: d’altronde ogni canzone di Battisti contiene per metà il suo ingegno. È una disputa pertinente al diritto d’autore. La posta è lo sfruttamento economico dei brani, per le sincronizzazioni di prodotti audiovisivi, per la pubblicità: la signora Battisti vorrebbe proseguire a rifiutarsi di concedere autorizzazioni se non pienamente convinta di ogni singola utilizzazione: che tipo di prodotto deve reclamizzare la canzone, in quale scena del film o di altra opera deve servire da sottofondo, mostrando la stessa determinazione del marito nel negare sconti per l’ascolto dei suoi lavori.»

 Grazia Veronese Battisti è dipinta come un’arpia ostinata e litigiosa…

«Il pittore è soprattutto Mogol. I due non si sono mai amati e per lui è un gioco da ragazzi intingere il pennello nell’ostilità. Dalla scomparsa di Lucio lei è stata promotrice di una serie di controversie che ha finito per comprometterne l’immagine, fino a farla percepire come una sorta di Yoko Ono italiana. A Yoko Ono è almeno riconosciuto il valore aggiunto di artista; Grazia Battisti è soltanto La Vedova.

 L’ostinazione nel difendere la volontà e l’opera del marito l’ha trasformata in un unanime bersaglio: ciò che con Lucio in vita nessuno si era mai azzardato a fare è diventato prassi elementare dal settembre del 1998. 

Lucio non piaceva ai giornalisti, perché li teneva a distanza, si negava, non rilasciava interviste, zero dichiarazioni, zero commenti. Su di lui ancora oggi sussistono fisime ampiamente demolite dalla realtà dei fatti, come quella che fosse bravo nelle registrazioni in studio, ma impacciato, disarmonico, stonato dal vivo, malgrado vengano periodicamente riproposte le immagini di due suoi live straordinari: solo alla chitarra che esegue Eppur mi son scordato di te e con Mina nel duetto-medley più rivisitato nella storia della televisione italiana.

Si legge che non riuscì ad affermarsi negli Stati Uniti a causa della scadente pronuncia inglese. Un’idiozia. Abbiamo mai avuto cantanti italiani disinvoltamente anglofoni? La verità è che agli americani non piacque il suo stile: da un italiano si aspettavano melodia e gorgheggi. E magari non piacquero nemmeno i testi delle sue canzoni, che Mogol si ostinava a far adattare dal devoto Peter Powell piuttosto che farli rielaborare anche a costo di modificare i significati, come suggeriva la cantautrice e poetessa Marva Jan Marrow, collaboratrice americana della Numero Uno.»

 Va detto che gli eredi si sono distinti per controversie di ogni tipo, anche grottesche, come la guerra alla statua di Poggio Bustone o le feste in memoria di Lucio a Molteno. Grazia è l’incubo dei direttori di giornale: proteste, minacce di querela e diffide ogni volta che si parla di lui. Telefonò a Gianni Morandi e a Pupo per insultarli, dopo che in televisione avevano interpretato dei brani del marito.

«Se a Porotto di Ferrara, dove nacque mio padre, l’amministrazione comunale decidesse di dedicargli un obbrobrio qual è, secondo me, la statua eretta a Poggio Bustone, solleciterei le rappresaglie degli anarchici.

Le feste di Molteno valgono quanto le centinaia di commemorazioni che ogni anno vengono allestite per radunare gente e pubblicità in nome di un artista, da Enrico Caruso a Bud Spencer. In certi casi si tratta di iniziative serie, in altri di sagre della porchetta. Gli eredi, le istituzioni culturali andrebbero di volta in volta consultati per un confronto sulle tematiche. Nell’autentico rispetto dell’artista celebrato.

 Per quanto riguarda le diffide e le minacce di querela posso raccontare la mia personale esperienza. Su Lucio Battisti ho cominciato a confezionare dei Tg2 Dossier quando era ancora in vita. Lavoravo sui provini inediti, con sincronizzazione di immagini realizzata in montaggio, filmati catturati in televisioni straniere. Prima della trasmissione mi limitavo a indirizzargli un telegramma nella casa romana in cui annunciavo giorno e orario della messa in onda e i contenuti del programma. Mai ricevuto proteste. Dopo la sua scomparsa mi sono occupato talvolta di Battisti nei miei programmi e periodicamente ho sentito Grazia. Confronti, a volte non era d’accordo su soggetti o dettagli, ma senza minacce. Non ha un carattere arrendevole, ma è seria, diretta, perbene.

Su Morandi e Pupo è stata mia la responsabilità. Ero il capostruttura per l’intrattenimento di Raiuno quando, nel 2009, mandammo in onda lo show di Morandi Grazie a tutti. Sapendo del mio buon rapporto con gli eredi, Gianni mi chiese di lasciargli interpretare alla sua maniera un pezzo di Battisti. Stessa cosa accadde nel 2011 con Pupo, che tornava per il secondo anno a condurre I raccomandati assieme a Emanuele Filiberto: mi domandò se poteva confezionare un promo con la musica e la prima frase di Ancora tu (ma non dovevamo vederci più?).

 In entrambi i casi avrei dovuto chiedere l’autorizzazione degli eredi di Battisti, ma considerati i precedenti concilianti tirai dritto. Come previsto a me non giunse alcuna protesta, ma Grazia Battisti telefonò comunque a Morandi e a Pupo per reclamare maggiore rispetto verso il collega scomparso. Intendiamoci, non è soltanto lei a comportarsi così: per un fatto analogo anni prima Morandi era stato citato in giudizio da Francesco De Gregori.»

Però sempre nel 2011 le arrivò una diffida dagli eredi Battisti per Il paradiso non è qui…

«Era uno dei provini trafugati dagli archivi della BMG. Lucio era ancora in vita, il nastro-pirata fu inviato inizialmente ai giornalisti Tullio Lauro e Leo Turrini, che fecero ascoltare la canzone nel programma Target di Canale 5. Giunse anche al mio indirizzo della RAI e utilizzai a mia volta la canzone prima in un Tg2 Dossier intitolato Canzoni Segrete e successivamente nella rubrica Costume & Società nell’interpretazione sia di Battisti, sincronizzata con immagini di repertorio, sia dei Fiori d’acqua dolce, un gruppo della scuola di Mogol.

 All’interno del servizio Mogol invitava in sostanza l’ex partner ad autorizzare il deposito del brano alla SIAE per farlo incidere ai suoi ragazzi. Lucio non protestò ma neanche consentì il deposito alla SIAE della canzone.

Tuttavia il mancato assenso non scoraggiò il vecchio partner. Così nel giugno del 2011 nel programma destinato a Raiuno Le parole più belle con la conduzione di Fabrizio Frizzi, Mogol fece eseguire la canzone a Ron. E qualche giorno prima della messa in onda rilasciò un’intervista a Paolo Giordano per il Giornale in cui annunciava l’intenzione di depositare Il paradiso non è qui alla SIAE. Una condotta che i familiari di Battisti giudicarono provocatoria.

 La reazione fu una diffida a Raiuno di trasmettere il brano. In quanto capostruttura della prima rete, pertanto responsabile del programma, risposi che per legge dovevamo attenerci alla volontà degli eredi di Lucio Battisti: se dalla famiglia non fosse arrivata l’autorizzazione a mandarla in onda avremmo tagliato la parte in cui Ron cantava Il paradiso non è qui.

 L’autorizzazione non arrivò, così l’esecuzione di Ron fu sostituita dalla lettura del solo testo della canzone – quindi la parte di competenza di Mogol – affidata all’attore Remo Girone. Ma il programma non fu mai trasmesso, cancellato poco prima della data di collocazione in palinsesto (seconda serata del 23 giugno 2011) a causa di un contrasto amministrativo tra la RAI e il Centro europeo di Toscolano, la scuola di Mogol.»

 Perché tanto rigore verso Il paradiso non è qui? Mogol ha ragione: è un brano accattivante.

«È vero, anche la versione di Ron era suggestiva. Evidentemente, come i discografici che la esclusero dall’album Una giornata uggiosa, Lucio considerava quella canzone uno scarto di produzione. Il testo è molto efficace, ma descrive il disagio dell’emigrazione: nostri lavoratori in un paese di lingua inglese alle prese con odiosi luoghi comuni sugli italiani, usi e costumi inconciliabili, nostalgia d’amore. È probabile che a un anglofilo come Lucio, che aspirava di affermarsi negli Stati Uniti e pretendeva di registrare i suoi lavori in studi londinesi con musicisti e tecnici indigeni, quelle parole suonassero inadeguate»

 Dopo quella diffida ha sentito ancora la signora Battisti?

«Sì. Ci siamo anche incontrati a Rimini, prima per un aperitivo al Grand Hotel, poi a pranzo in un ristorante sul porto canale»

 E Lucio l’ha mai incontrato?

«Sì, due volte. Ma non ero un giornalista. Suonavo il sassofono nel gruppo le Pecore Nere e Battisti venne a trovarci mentre facevamo le prove da Cherubini, un negozio di strumenti musicali sulla Tiburtina. Lucio e Mauro Chiari, il nostro bassista, avevano suonato insieme nella band gli Svitati di Leo di Sanfelice. Ho rivisto Lucio un anno dopo a Milano, nell’Hotel Sorrento in piazza Castello.

Era una pensione che ospitava soprattutto musicisti: io ero con i Baronetti e ci esibivamo al Bang Bang, Battisti venne a trovare i componenti della Formula Tre, di cui era il produttore, che dovevano partecipare a Settevoci, il programma di Pippo Baudo. Pranzammo tutti assieme.»

 Non diventaste amici?

«No. Io ero un ragazzino, lui già una personalità nel panorama musicale. Interveniva solo lui. Io non ricordo di avergli rivolto una parola. Non mi era neanche molto simpatico, lo trovavo spocchioso.

 L’ho raccontato anche alla moglie ma non mi ha creduto, tanto è abituata a sentire gente che sproloquia del marito: ho conosciuto Lucio là, era molto amico mio, lo consigliavo, abbiamo fatto tante cose insieme, l’ho aiutato a diventare famoso e giù con frottole e panzane.»

 Un uomo spocchioso. E dell’artista che pensa?

«Il più grande degli italiani, superiore anche a Domenico Modugno.»

 È stato il suo prediletto?

«No, preferisco Sergio Endrigo, Edoardo Vianello, Don Backy, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Simone Cristicchi. Ma Battisti era un talento estremo. Soltanto lui ha avuto il coraggio di scovare nuovi percorsi di scrittura nel momento di massima popolarità. Poteva fare come tutti gli altri, ossia non discostarsi dalle formule del sicuro successo. Negli anni Settanta e Ottanta Battisti è stato per i musicisti italiani innovativo quanto i Beatles nei Sessanta.

 Ha influenzato tutti. C’era chi sfotteva cantautori come Umberto Balsamo accusati di imitare spudoratamente le sequenze armoniche di Battisti. Il maestro Vince Tempera mi ha detto che Balsamo era il più onesto: si faceva scoprire. In verità tutti attendevano l’uscita del nuovo disco di Lucio per imparare e ricalcare qualcosa di insolito. Addirittura Tony Santagata, cantautore tra folk e cabaret che era vicino di appartamento nell’abitazione romana di Battisti, confessò che appena gli sentiva imbracciare la chitarra attaccava a ventosa l’orecchio al muro per afferrare qualche idea singolare.

E non deve sembrare blasfemo l’accostamento con i Beatles. Kicked Around No More di Paul McCartney è del 1993: sembra di riascoltare Amarsi un po’, pubblicata da Lucio 16 anni prima. E i suoi nuovi percorsi convinsero gli artisti più raffinati. Ricordo che David Bowie nel 1997 dichiarò di ritenere Battisti illuminato almeno quanto Lou Reed nella creazione dei propri lavori. Alla faccia degli esegeti della pronuncia inglese stentata.»

 Mogol e Battisti si separarono perché il primo non voleva più accettare la ripartizione delle quote tra compositore e paroliere stabilita da norme e consuetudini che privilegiano l’autore della musica: Mogol pretendeva la metà.

«Penso avesse ragione Mogol. Quei testi su quelle musiche rappresentano alchimia perfetta. Il successo straordinario di Nel blu, dipinto di blu lo attribuisco a pari merito a Domenico Modugno e a Franco Migliacci. In America, come nel resto del mondo, si canta dal 1958 il ritornello in italiano: Vo-la-re, oh-oh e non Let’s Fly, ya-ya. Non cambierei la norma della ripartizione dei profitti, ma ammetterei delle eccezioni: quelle di Mogol e di Migliacci sicuramente.

 Pure se l’elenco potrebbe estendersi ampiamente: l’Italia ha prestato alle canzoni dei poeti formidabili, da Libero Bovio e Bixio Cherubini a Giorgio Calabrese e Franco Califano»

 Poeta è anche Pasquale Panella, il paroliere degli ultimi cinque album di Battisti. Inserisce anche lui tra le eccezioni?

«No. Panella è un estraneo. Esula dai confronti, è un prodigio allo stato brado. Che Battisti fosse un genio lo si capisce anche da questa scelta. Il lavoro con Mogol è di un’efficacia monumentale. L’album E già con le parole della moglie segna una transizione di valore considerevole; gli ultimi cinque sono quanto di più raffinato, pregiato, artisticamente esplosivo sia stato confezionato finora nella discografia italiana. Battisti ha lavorato con criteri sovversivi;

Panella è sovversivo di suo, però è paroliere per contingenza. Gli capitano altrettanti capolavori quando scrive di cinema o quando recita, quando canta e quando gli chiedi d’inventare il titolo per un programma di memorie televisive meditate e ti risponde Techetechete’. Il suono delle canzoni concepito da Panella e Battisti ha affascinato un target particolare, per esempio tutti coloro che nella letteratura francese preferiscono Morte a credito a Le inchieste del commissario Maigret, entrambi gioielli, ma diversi.

 Così quell’impasto di parole e musica ha stimolato cover di artisti eleganti: Ron, Alice, Morgan, EquiVoci, Max Pezzali con Stylophonic o jazzisti come Tiziana Ghiglioni, Sergio Cossu, Paolo Fresu.»

Eppure a inizio marzo nel celebrare gli 80 anni dalla nascita di Battisti molti hanno dimenticato di citare le canzoni scritte con Velezia, pseudonimo della moglie Grazia, e con Panella.

«Vero. La stragrande maggioranza di quanto è stato scritto, detto e mostrato in tv ha confinato Battisti nella sola prima fase artistica, soprattutto a causa della soggezione dei narratori nei confronti di Mogol, che di conseguenza è apparso di dilagante ubiquità. Così sono stati sostanzialmente censurati 12 anni di attività. Come se scrivendo di Pablo Picasso ci si fermasse a Guernica o di Federico Fellini senza andare oltre Amarcord»

Estratto dell'articolo di Giorgio Dell'Arti per “il Fatto Quotidiano” Il 6 marzo 2023.

Poggio Bustone Nel paese di Poggio Bustone, in provincia di Rieti, i cognomi più diffusi dono Battisti e Mostarda. Niente di strano che una Dea Battisti casalinga sposi l’ex mugnaio Alfiero Battisti, senza che i due siano parenti. Al primo figlio Lucio Battisti, morto di due anni, segue, il 5 marzo 1943, un secondo figlio, che i due Battisti insistono nel chiamare Lucio Battisti.

 Nome d’arte Nelle prime esibizioni si fa chiamare Lucio Poiano. “Poiano”, cioè abitante di Poggio Bustone.

 […]

Povero “Quando l’ho conosciuto io, Lucio era povero in canna, veniva a mangiare la minestrina a casa mia. L’ho visto crescere e diventare famoso ma mai, mai nemmeno una volta, mi ha parlato di politica. A lui non gliene è mai fregato niente” (Mogol).

 Melodia “Lucio veniva da me la mattina, alle 9 in punto. Prendevamo un caffè e poi lui cominciava a suonare con la chitarra la melodia sulla quale io costruivo il testo” (Mogol). Scrivono così 29 settembre, che Gianni Pettenati rifiuta e con cui l’Equipe 84 sfonda.

 […]

Casa La casa in largo Rio de Janeiro a Milano. Era una villetta indipendente con giardino, una di quelle casette anonime su tre piani che furono costruite da una cooperativa edile per ex ferrovieri. Cielo terra, si dice in immobiliarese, a significar che non si han vicini, né sopra né sotto. Gliela trovò l’amico Riccardo Pizzamiglio, un tecnico del suono e uomo di fiducia della Numero Uno a cui Lucio aveva dato istruzioni precise: la casa doveva essere spaziosa ma non lussuosa, in un quartiere tranquillo ma non troppo periferico, e soprattutto con un bel giardino interno.

 Fra queste mura, Lucio Battisti andò a vivere con Grazia Letizia Veronese – ex segretaria del clan Celentano, conosciuta a Sanremo – e lì nacque il loro figlio Luca, oltre a diversi capolavori come Emozioni, E penso a te e Il mio canto libero (Sergio Garufi).

 Fango “Per la copertina di La batteria, il contrabbasso, eccetera, pubblicato nel 1976, una delle mie preferite, il terreno era stato allagato apposta e Lucio dovette correre più volte in mezzo alle pozzanghere sollevando più acqua possibile. Indossava una muta sotto i vestiti. Gli feci fare centinaia di salti nell’acqua, il giorno dopo aveva la febbre” (Il fotografo Cesare Monti a Anna Maria D’Urso, L’Europeo).

 Nel 1976 Lucio Battisti guadagnava anche 4 miliardi all’anno solo in diritti d’autore, ma viveva in modo spartano.

Agnelli Una volta l’avvocato Agnelli avrebbe voluto realizzare un concerto di Lucio Battisti al Teatro Regio di Torino. Gli offrirono uno o due miliardi. Lucio rifiutò. Gli Agnelli dissero: “Riusciamo a parlare con Breznev in trenta secondi e non riusciamo a parlare con Battisti” (Fusco, Libero).

 Schiena Nel 1989 Fatma Ruffini, allora produttrice di Una rotonda sul mare di Canale 5, chiese a Pietruccio Montalbetti dei Dik Dik di riferire al suo amico Lucio che sarebbero stati pronti ad offrirgli qualsiasi cifra per una sua partecipazione. Battisti rispose a Pietruccio: “Chiediamo tre miliardi, uno per me, uno per Grazia e uno per te. Ma ad una condizione: io devo entrare di schiena sul palco da un lato e uscire dall’altro”. Non se ne fece nulla. (Fusco, Libero)

Morte Alla fine di agosto 1998 viene operato d’urgenza. Sta male. L’8 settembre viene spostato nel reparto di terapia intensiva dell’Ospedale San Paolo di Milano. Lucio Battisti muore la mattina del 9 settembre 1998, all’età di 55 anni.

 Si saprà solo molto tempo dopo che Lucio aveva un tumore al sistema linfatico, un linfoma non-Hodgkin, che già aveva anche tentato, senza fortuna, un trapianto di rene in Francia, e che negli ultimi due anni era dovuto ricorrere alla chemioterapia, probabile motivo dello stop alla musica e della sempre più stretta clausura. Ai funerali, celebratisi in forma privata a Molteno, furono ammesse appena 20 persone, tra le quali Mogol.

Giudizi “Non è, intendiamoci, che la sua sia musica d’avanguardia, è soltanto musica di consumo, però tenuta a un certo livello. In questo ambito consumistico Battisti è oggi il personaggio più valido” (Giorgio Gaber); “Non parliamo di genio, è un ragazzo di talento che ha saputo riprendere e far suo un certo genere musicale straniero” (Domenico Modugno); “Battisti è soltanto uno che ha indovinato cosa vogliono i ragazzi oggi” (Gianni Ferrio);

 “C’è del talento, ma è un talento alquanto limitato, chiuso in un determinato tipo di musica, per giunta scopiazzata” (Riz Ortolani); “Geni musicali, per me, sono Charlie Parker, Armstrong, Bach. Diciamo che Battisti ha molto talento” (Renzo Arbore); “Battisti è un dilettante spaventoso” (Augusto Martelli).

Avrebbe compiuto 80 anni. Lucio Battisti è la nostra educazione sentimentale: l’incrocio tra canzoni d’autore e popolari. Lucrezia Ercoli su Il Riformista il 5 Marzo 2023

Tu chiamale se vuoi emozioni”. Si potrebbe scrivere un pezzo solo con gli aforismi diventati luoghi comuni, con i versi entrati nel linguaggio ordinario pescati da quell’inesauribile serbatoio sonoro-emotivo composto dal duo Mogol-Battisti, i Da Ponte-Mozart della musica pop italiana. Il 5 marzo di ottant’anni fa – nel piccolo paesino di Poggio Bustone in provincia di Rieti – nasceva Lucio Battisti; e nel celebrare il compleanno del più popolare e del più schivo dei cantanti italiani torniamo a canticchiare quei motivetti che fanno parte della nostra vita intima e familiare. E forse ci troveremo più di quanto ricordavamo.

In un rapporto simbiotico tra suoni e versi – con le parole di Mogol, la musica di Battisti e la sua interpretazione vocale inconfondibile – quei brani sono un formidabile incrocio tra canzoni d’autore e canzoni popolari, piene di paesaggi familiari e di soluzioni sperimentali. Le canzoni di Lucio Battisti sono diventate i nostri “intimni”. Un neologismo creato dal filosofo Peter Szendy che fa capire bene quel particolare ruolo di “inno intimo” – collettivo e personale, universale e singolare – che riescono ad acquisire alcune canzoni pop. Entrano in contatto diretto con ciascuna biografia, pur mantenendo una diffusione commerciale di massa; quei brani sanno intessere trame di continuità tra generazioni diverse, connettendo ricordi privati alle emozioni collettive.

Battisti canta i piccoli e grandi sommovimenti del cuore: l’amore come spazio assoluto dell’intimità, come “vento tiepido” ci spinge fuori di noi e ci libera delle convenzioni sociali mettendoci in contatto con il nostro desiderio al di là della “prudenza più stagnante”; ma anche le storture di un amore che diventa tossica ossessione, sinonimo di possesso e di gelosia, che fa emergere le fragilità, le debolezze, le pretese, gli errori di un “uomo che ama”. Melodie che attraversano tutta la fenomenologia del sentimento amoroso, dal suo status nascente alla sua perversione paranoica. Dalla condizione insaziabile dell’innamorato, all’amore maturo che ha paura del cambiamento; dalla nostalgia di una perdita lontana che “ci ritorna in mente” alla sofferenza dell’abbandono in una casa “con tanti piatti sporchi da lavare”; dalla tentazione di “un’innocente evasione” alla scoperta traumatica del tradimento di una donna che “non ha mai chiesto di più”.

L’amore nasce come “un’avventura”, ma vuole diventare “una storia vera”, aspira all’eternità del “domani e sempre”. L’amore eterno che non teme il cinismo di tempi disincantati è lo stesso amore instabile e leggero come “una libellula in un prato”, esposto alle turbolenze della vita che non ci dice in anticipo “che sarà di noi”. La cognizione dell’amore passa solo attraverso l’esperienza e rimane aperta all’imprevedibilità del futuro: “lo scopriremo solo vivendo”. In questo catalogo erotico-sentimentale che compone i nostri Frammenti di un discorso amoroso, la voce protagonista alterna stati emotivi diversi. A volte sveste i panni del machismo e non ha paura di mostrarsi vulnerabile e sofferente: “non hai mai visto un uomo piangere”? Lo stesso uomo che è spaventato dalla libertà sessuale e sentimentale femminile, e si esprime con un maschilismo oggi non più orecchiabile: “donna tu sei mia e quando dico mia dico che non vai più via”.

La musica segue il fluire malinconico dei ricordi e simula il battito cardiaco accelerato del godimento e della paura, con continui rallentamenti e brusche accelerazioni. Un’alternanza tra ritmi distesi e serrati, che ancora oggi ci conquista con una potenza che va al di là delle parole. L’amore, infatti, si esprime in sintomi fisici – chi è innamorato “ha la lingua spezzata, gli occhi sono incapaci di vedere e le orecchie ronzano” aveva già detto Saffo, la poetessa di Lesbo – e Lucio Battisti ha cantato quel tremore che fa collassare il linguaggio razionale. “L’amore provoca così nel pensiero dei veri e propri sommovimenti geologici” scrive Marcel Proust; e Lucio Battisti canta quel paesaggio emotivo terremotato.

In un alternarsi tra la natura passiva dell’amato e attiva dell’amante, compone una sintomatologia amorosa che racconta – attraverso i nomi particolari di Anna, Linda e Francesca – la storia di una malattia universale che salva e distrugge. Un catalogo di storie diverse, tra la ricerca di un “canto libero” e la ricaduta nella dipendenza di un “uomo che muore”. Le canzoni di Lucio Battisti sono la nostra educazione sentimentale e, come i Rimedi d’amore scritti da Ovidio, ci aiutano a sopravvivere trovando nell’evasione musicale la via per uscire dall’impasse delle pene d’amore. Esiste la possibilità di guarire e il primo rimedio è la musica stessa. “Una canzone il tuo posto prenderà”. Lucrezia Ercoli

Dagospia il 5 marzo 2023. Tratto dal libro "Lucio Battisti" di Ernesto Assante

Emozioni: ecco attorno a cosa si muove, in fondo, tutta l'opera di Battisti. Ed ecco cosa trasmette a Mogol con la musica che gli fa ascoltare. E Mogol capisce e traduce il tutto in un testo a dir poco magnifico, che non narra nulla, che non racconta una storia. È una sequenza di immagini, di situazioni, di momenti, evocati dalla musica e a essa strettamente connessi, ma allo stesso tempo separati gli uni dagli altri.

 Attimi di assoluto realismo interiore, come l'uscire la mattina, nel silenzio della brughiera, per ritrovare se stessi; il parlare del più e del meno con qualcuno solo per coprire il senso di vuoto che ci avvolge; l'aggressività sfogata senza senso, fisicamente, nei confronti di chi non lo meritava; lo scoprire che la tristezza non fa rumore, o che l'erba può condividere con noi un sottile dispiacere; o, ancora, nella frase più celebre di tutta la canzone, il guidare come un pazzo a tutta velocità e con i fari spenti per mettere alla prova assurdamente la nostra voglia di autodistruggerci, cercando di morire "facilmente".

No, non è un pezzo qualsiasi. Chissà cosa avrà provato Mogol la prima volta che ha ascoltato la musica che Battisti aveva scritto, e chissà come è riuscito a condensare tutto in una canzone così emotivamente potente. E così libera, perché quel "se vuoi" lascia a noi la possibilità di condividere quelle emozioni, o addirittura di non considerarle tali, ma di riconoscerle, di sapere che sono indubbie verità, alle quali potremmo con facilità aggiungere le nostre: i nostri momenti di abbandono, di perdizione, di disperazione, di libertà, di sogno. Di emozione.

 È vero che Battisti non è un cantautore, ma è altrettanto vero che, insieme, lui e Mogol sono meglio di un cantautore solo. Perché, oltre a questo memorabile testo (in rima, con frasi particolarmente lunghe, fuori dai canoni metrici abituali della canzone italiana), c'è una musica bellissima, sottile e inafferrabile, e al tempo stesso maestosa e profonda. E c'è un'interpretazione che, possiamo dirlo con certezza, nessun cantante italiano ha mai eguagliato. Battisti vola, soffre, si inabissa, si solleva, piange; e per chi ascolta è tutto reale.

Per l'arrangiamento la scelta era caduta su Gian Piero Reverberi, che non solo aveva già collaborato con Battisti, ma anche con Mina, Paoli, Tenco, De André, Dalla, Vanoni... Reverberi ha una sensibilità sopraffina, e non lavora a "canzonette", ma a opere d'arte musicali. E fa lo stesso per Emozioni, usando l'orchestra come se fosse un intreccio di veli, lieve, sottile, sognante. E poi, come accade in alcuni casi specialissimi, ecco il colpo di genio e di fortuna.

 Lucio entra in studio con Mussida al fianco e l'orchestra alle spalle, chiede che la luce venga spenta e dà il via: tutti insieme accompagnano e lui canta. È l'unica versione a essere registrata, Emozioni non ne avrà un'altra. Quello che viene suonato e cantato è ciò che ancora oggi ascoltiamo. Magia pura. Emozioni.

 Il 45 giri, che esce il 15 ottobre 1970, ha un altro capolavoro sul lato B, Anna, decisamente più complicato, teso, oscuro, disperato. Un pezzo completamente rock, che potrebbe tenere testa, senza sfigurare minimamente, ai capolavori inglesi o americani dell'epoca. Innanzitutto per l'arrangiamento, firmato ancora da Reverberi, vagamente progressive, dove la chitarra acustica dialoga con l'orchestra (in Inghilterra si sarebbero accontentati di un mellotron, Battisti no) e lascia aperte praterie emotive in cui la voce di Battisti risuona, riempiendo lo spazio, su due accordi soltanto, ripetuti costantemente, come a sottolineare l'ossessione di cui è vittima il protagonista.

Un'ossessione interpretata da Battisti con una forza espressiva che nessun cantante italiano (e francamente pochissimi all'estero) era in grado di offrire. L'uomo in questione ha una vita ordinaria, tranquilla: casa, lavoro, famiglia. Ma tutto questo è nulla senza Anna, la donna di cui è follemente innamorato. Lo confessa a una terza persona, a cui racconta la sua miserrima condizione, davanti alla quale arriva a piangere, completamente distrutto.

 Mogol si limita a poche, pochissime frasi: il testo è ridotto all'osso. Tutta la "narrazione" è concentrata nell'interpretazione di Battisti, che è disperato, piangente, ha la voce rotta, roca; si esalta solo quando ricorda il tempo passato con Anna. E qui il brano cambia: trova improvvisamente, con accordi maggiori, uno squarcio di luce, di vita, e la rock band alle spalle di Battisti si anima, prima di ricadere nel buio, nella ripetizione ossessiva di quel "voglio Anna" in cui è concentrato tutto il significato della canzone. Un lunghissimo break di batteria porta al finale, dove Battisti e la band si lasciano andare, i musicisti suonano e lui urla.

"Lucio mi diceva "fai un break che non finisce più"" ricorda Franz Di Cioccio, "e io glielo feci, ma lui continuava: "Più lungo, più lungo, deve essere un break alcione, bello lungo". Disse proprio così e alla fine era quasi un'esagerazione, però aveva visto giusto perché quel break doveva essere anche una sorta di liberazione, di esplosione da parte del personaggio della canzone che vuole a tutti i costi questa ragazza, e infatti lui poi ne venne fuori con un grido da disperato. La suonammo come al solito in diretta, con lui e Mussida alle chitarre, e Baldan Bembo all'Hammond.10".

 Emozioni e Anna segnano un cambiamento radicale nella canzone italiana. Non si era mai sentito niente di simile in Italia, mai nessun cantante era arrivato a tanto, mai due autori erano riusciti a mettere insieme musica, testo e interpretazione in questa maniera. Era la fine di ogni equivoco: la "canzonetta" era definitivamente morta e sepolta; era solo un oggetto destinato al commercio, però decisamente lontano dalla vita, dall'arte.

 Dagospia il 5 marzo 2023. Tratto dal libro "Lucio Battisti" di Ernesto Assante

E Mogol capisce e traduce il tutto in un testo a dir poco magnifico, che non narra nulla, che non racconta una storia. È una sequenza di immagini, di situazioni, di momenti, evocati dalla musica e a essa strettamente connessi, ma allo stesso tempo separati gli uni dagli altri.

 Attimi di assoluto realismo interiore, come l'uscire la mattina, nel silenzio della brughiera, per ritrovare se stessi; il parlare del più e del meno con qualcuno solo per coprire il senso di vuoto che ci avvolge; l'aggressività sfogata senza senso, fisicamente, nei confronti di chi non lo meritava; lo scoprire che la tristezza non fa rumore, o che l'erba può condividere con noi un sottile dispiacere; o, ancora, nella frase più celebre di tutta la canzone, il guidare come un pazzo a tutta velocità e con i fari spenti per mettere alla prova assurdamente la nostra voglia di autodistruggerci, cercando di morire "facilmente".

No, non è un pezzo qualsiasi. Chissà cosa avrà provato Mogol la prima volta che ha ascoltato la musica che Battisti aveva scritto, e chissà come è riuscito a condensare tutto in una canzone così emotivamente potente. E così libera, perché quel "se vuoi" lascia a noi la possibilità di condividere quelle emozioni, o addirittura di non considerarle tali, ma di riconoscerle, di sapere che sono indubbie verità, alle quali potremmo con facilità aggiungere le nostre: i nostri momenti di abbandono, di perdizione, di disperazione, di libertà, di sogno. Di emozione.

 È vero che Battisti non è un cantautore, ma è altrettanto vero che, insieme, lui e Mogol sono meglio di un cantautore solo. Perché, oltre a questo memorabile testo (in rima, con frasi particolarmente lunghe, fuori dai canoni metrici abituali della canzone italiana), c'è una musica bellissima, sottile e inafferrabile, e al tempo stesso maestosa e profonda. E c'è un'interpretazione che, possiamo dirlo con certezza, nessun cantante italiano ha mai eguagliato. Battisti vola, soffre, si inabissa, si solleva, piange; e per chi ascolta è tutto reale.

Per l'arrangiamento la scelta era caduta su Gian Piero Reverberi, che non solo aveva già collaborato con Battisti, ma anche con Mina, Paoli, Tenco, De André, Dalla, Vanoni... Reverberi ha una sensibilità sopraffina, e non lavora a "canzonette", ma a opere d'arte musicali. E fa lo stesso per Emozioni, usando l'orchestra come se fosse un intreccio di veli, lieve, sottile, sognante. E poi, come accade in alcuni casi specialissimi, ecco il colpo di genio e di fortuna.

 Lucio entra in studio con Mussida al fianco e l'orchestra alle spalle, chiede che la luce venga spenta e dà il via: tutti insieme accompagnano e lui canta. È l'unica versione a essere registrata, Emozioni non ne avrà un'altra. Quello che viene suonato e cantato è ciò che ancora oggi ascoltiamo. Magia pura. Emozioni.

 Il 45 giri, che esce il 15 ottobre 1970, ha un altro capolavoro sul lato B, Anna, decisamente più complicato, teso, oscuro, disperato. Un pezzo completamente rock, che potrebbe tenere testa, senza sfigurare minimamente, ai capolavori inglesi o americani dell'epoca. Innanzitutto per l'arrangiamento, firmato ancora da Reverberi, vagamente progressive, dove la chitarra acustica dialoga con l'orchestra (in Inghilterra si sarebbero accontentati di un mellotron, Battisti no) e lascia aperte praterie emotive in cui la voce di Battisti risuona, riempiendo lo spazio, su due accordi soltanto, ripetuti costantemente, come a sottolineare l'ossessione di cui è vittima il protagonista.

Un'ossessione interpretata da Battisti con una forza espressiva che nessun cantante italiano (e francamente pochissimi all'estero) era in grado di offrire. L'uomo in questione ha una vita ordinaria, tranquilla: casa, lavoro, famiglia. Ma tutto questo è nulla senza Anna, la donna di cui è follemente innamorato. Lo confessa a una terza persona, a cui racconta la sua miserrima condizione, davanti alla quale arriva a piangere, completamente distrutto.

 Mogol si limita a poche, pochissime frasi: il testo è ridotto all'osso. Tutta la "narrazione" è concentrata nell'interpretazione di Battisti, che è disperato, piangente, ha la voce rotta, roca; si esalta solo quando ricorda il tempo passato con Anna. E qui il brano cambia: trova improvvisamente, con accordi maggiori, uno squarcio di luce, di vita, e la rock band alle spalle di Battisti si anima, prima di ricadere nel buio, nella ripetizione ossessiva di quel "voglio Anna" in cui è concentrato tutto il significato della canzone. Un lunghissimo break di batteria porta al finale, dove Battisti e la band si lasciano andare, i musicisti suonano e lui urla.

"Lucio mi diceva "fai un break che non finisce più"" ricorda Franz Di Cioccio, "e io glielo feci, ma lui continuava: "Più lungo, più lungo, deve essere un break alcione, bello lungo". Disse proprio così e alla fine era quasi un'esagerazione, però aveva visto giusto perché quel break doveva essere anche una sorta di liberazione, di esplosione da parte del personaggio della canzone che vuole a tutti i costi questa ragazza, e infatti lui poi ne venne fuori con un grido da disperato. La suonammo come al solito in diretta, con lui e Mussida alle chitarre, e Baldan Bembo all'Hammond.10".

 Emozioni e Anna segnano un cambiamento radicale nella canzone italiana. Non si era mai sentito niente di simile in Italia, mai nessun cantante era arrivato a tanto, mai due autori erano riusciti a mettere insieme musica, testo e interpretazione in questa maniera. Era la fine di ogni equivoco: la "canzonetta" era definitivamente morta e sepolta; era solo un oggetto destinato al commercio, però decisamente lontano dalla vita, dall'arte.

 Tratto dal libro "Lucio Battisti" di Ernesto Assante

Estratto dell’articolo di Michela Auriti per “Oggi” il 9 marzo 2023.

Andrea Barbacane, nipote di Lucio Battisti in quanto figlio dell’unica sorella Albarita, a guardarlo bene somiglia al celebre zio. Sposato con due figli, co-gestore di un panificio, ha sfornato due libri nel giro di un paio d’anni: ne Il grande inganno e Il padrone del tempo (entrambi editi da Divinafollia), racconta il lato umano di un artista diventato quasi inaccessibile. «È stato il più grande genio della musica italiana», esordisce. «Il punto di rottura tra i cantanti alla Villa o Modugno e un nuovo modo di fare musica. Per me, semplicemente, zio Lucio».

 […] Nel suo primo libro, Il grande inganno, lei racconta che a scuola suo zio veniva deriso perché grassottello. Era poi un ragazzino timido, chiuso.

«Penso che si fosse rifugiato nella musica anche per questo. Ma Roby Matano (del complesso I Campioni, colui che scoprì Battisti, ndr) cominciò a portarlo in giro per locali e fu allora che mio zio tirò fuori la sua allegria. Gli piaceva stare in compagnia, raccontare barzellette. Era uno sciampagnone».

 Poi il cambiamento.

«Avvenne con l’arrivo della moglie (Grazia Letizia Veronese, ndr). Si frappose tra lui e la famiglia e anche la stampa. Mio zio […] diventò inavvicinabile, un fantasma. Ma non era esigenza di privacy, piuttosto una fuga dal mondo. Forse la Veronese pensava che volessimo appropriarci di chissà quali fortune, di certo lei aveva un animo poco incline alla positività. Zio Lucio confidò a mia madre che il suo matrimonio era stato un fallimento. Non si separò per paura della stampa, del divorzio, delle spese (era tirato con i soldi). E per proteggere l’unico figlio, Luca Filippo, che io ricordo come un bambino bellissimo e simpatico. Insomma, si adagiò per quieto vivere».

Su Battisti circolano molte dicerie e lei ha fatto chiarezza nel suo primo libro. Una di queste era che fosse di destra.

«Una leggenda. La verità è che lui non si era schierato apertamente a sinistra, cosa sospetta negli anni in cui tanti lo facevano per opportunismo o visibilità. Fu Walter Veltroni a mettere una pietra tombale sull’argomento: “Battisti non era né di destra né di sinistra. È di tutti”. Nonostante l’ostracismo di parte, e la propaganda a favore di De Gregori o Guccini, nei covi delle Brigate Rosse furono trovati i dischi di mio zio. Eppoi sulla scrivania di mio nonno marcivano le sue cartelle elettorali, a riprova che non andava neanche a votare».

L’ultimo ricordo?

«Marzo 1998, l’anno in cui è morto. Mi trovavo a casa di nonno Alfiero e zio era venuto a trovarlo, come al solito di nascosto dalla moglie. Avevo 34 anni, ero già sposato con una bambina. Parlammo una decina di minuti, lui mi fece i complimenti per il fisico: all’epoca praticavo body building, anche a un certo livello».

 Qual è il rimpianto?

«Non essermi goduto zio Lucio nell’età più bella della vita. Mi è stato impedito dalla moglie[…] ».

Il ricordo del paroliere a pochi giorni dagli 80 anni. Il primo incontro tra Lucio Battisti e Mogol: “Queste canzoni non sono un granché”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 2 Marzo 2023

Non mi sembrano un granché”, disse Mogol ascoltando due canzoni di Lucio Battisti. Era la prima volta che si incontravano, il cantante e il paroliere, a presentarli la direttrice di una casa di edizioni musicale, Cristine Leroux. Era la prima volta che si incontrava il duo di autori più noto, celebrato e cantato della musica italiana e niente lasciava prevedere. Giulio Rapetti, in arte Mogol, ha raccontato l’aneddoto in un’intervista a Il Corriere della Sera, in vista del prossimo 5 marzo, quando Battisti avrebbe compiuto 80 anni.

Non avevo intuito nulla”, ha ammesso Mogol. “Però la terza canzone fu 29 settembre che divenne un successo dell’Equipe 84. All’inizio Lucio non voleva cantare, dovetti insistere prima di convincerlo”. Si incontravano a Molteno, alla villa di campagna di Mogol, scrivevano una canzone al giorno, Il mio canto libero quella di più grande successo. “Lui era un matematico. Studiava sette ore al giorno le canzoni dei più grandi artisti mondiali, un giorno mi disse che si era concentrato solo sulle pause di alcuni successi. Io ero la parte letteraria, mi chiamava ‘il poeta’. Ho sempre scritto le parole dopo la musica perché credo che ogni frase musicale abbia già un suo senso”.

Proprio Il mio canto libero e i “boschi di braccia tese” di La collina dei ciliegi vennero interpretati politicamente, in anni in cui tutto era letto in chiave politica, come celebrazioni filo-fasciste, di destra. “Quelle braccia non erano un simbolo politico. Lo hanno detto anche per quelle della copertina di Il mio canto libero. Ma sono braccia con i palmi aperti come per un’invocazione al signore. Volevano darmi del fascista perché non facevo canzoni impegnate. Non ho mai sentito Lucio parlare di politica: semplicemente non scrivevamo canzoni per il comunismo. Però i dischi di Lucio vennero trovati nel covo delle Br: è un fatto storico“.

Lucio Battisti sparì, si ritirò dalle scene nel 1970. “Non tornò a esibirsi nemmeno quando il clima cambiò. Credo che capì, anche se non me lo ha mai confessato, che questo l’avrebbe reso un mito”. La trasmissione Va ora in onda di Rai1 si inventò gli “abbattistamenti”: apparizioni e avvistamenti che venivano segnalati in tutta Italia. Battisti è morto il 9 settembre 1998, dopo un ricovero in condizioni gravi all’ospedale San Paolo di Milano. Viveva a Molteno, nella comasca, da qualche tempo. Non furono mai confermate le voci di un linfoma maligno al fegato o di glomerulonefrite.

La moglie Grazia Letizia Veronesi negò qualsiasi contatto con i cronisti. Appena una ventina di persone avrebbero presenziato ai funerali. C’era anche Mogol, che però nel 1980 aveva litigato con Battisti. “Non fu una questione di soldi, ma di equità. Lui otteneva due terzi dei diritti e io un terzo. Chiesi di dividere in parti uguali. Sembrava d’accordo, ma il giorno dopo cambiò idea. Gli dissi che non avrei più lavorato con lui”. Quando aveva saputo la notizia del ricovero Mogol scrisse e spedì una lettera all’amico affidandola a un’infermiera.

Diceva: ‘Caro Lucio, spero che i giornali esagerino come sempre, però se hai bisogno io sono qui’. Non seppi se l’aveva ricevuta oppure no fino a dieci anni dopo, quando scoprii che un medico gliel’aveva consegnata. Vide Lucio, in uno dei suoi ultimi momenti di lucidità, leggerla e poi mettersi a piangere”, ha raccontato Mogol anni dopo a Famiglia Cristiana. Quello che invece Mogol gli direbbe oggi invece è: “Lucio sta tranquillo, che tra un po’ staremo di nuovo insieme … Ho 86 anni …”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Oggi Lucio Battisti avrebbe 80 anni: i suoi 5 capolavori senza tempo. Scomparso nel settembre del 1998, il celebre cantautore oggi avrebbe compiuto 80 anni: il ricordo di un artista in grado di tracciare un solco nella storia della musica italiana. Massimo Balsamo il 4 Marzo 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Emozioni (1970)

 Un’avventura (1969)

 Acqua azzurra, acqua chiara (1969)

 E penso a te (1972)

 Il mio canto libero (1972)

Un’icona della musica leggera italiana, un talento cristallino, un artista semplicemente unico. Lucio Battisti ha messo la firma su alcuni dei brani più importanti della canzone nostrana, brani di qualità e in grado di tracciare un solco. L’artista di Poggio Bustone oggi, 5 marzo, avrebbe compiuto 80 anni e la sua opera continua a rappresentare un punto di riferimento per gli artisti di oggi, a 25 anni di distanza dalla sua prematura scomparsa.

25 milioni di dischi venduti, il legame con Mogol, l’audacia. Lucio Battisti si è fatto sì conoscere per la sua voce emozionante e distante dai canoni del tempo, ma anche per la sua unicità. Battisti, infatti, è stato un artista difficile da catalogare, basti pensare alla sua capacità di navigare tra i generi: dal soul americano al blues, passando per folk, rock e prog, persino il pop elettronico. Senza dimenticare il coraggio di esplorare argomenti del tutto nuovi per la musica italiana, diventando apripista per le generazioni future.

Due Lucio, un solo talento. Battisti cantava la vita. Dalla esaltava la fantasia

Emozioni (1970)

Contenuto nell’omonimo album, “Emozioni” è un brano del 1970 ed è uno dei più grandi successi di Lucio Battisti. Un brano melodico, caposaldo della produzione battistiana, che può contare su uno dei testi più belli firmati da Mogol. Un’analisi dei sentimenti, tra rabbia e dolore, che un uomo può provare, sentire.

Un’avventura (1969)

Due ragazzi che si innamorano, certi che il loro non sarà un sentimento passeggero ma la storia della loro vita. Presentata in gara al festival di Sanremo nel 1969 – sua prima e unica partecipazione – “Un’avventura” può vantare un ritmo inconfondibile su note rhythm&blus e ha un ritornello che rimane impresso sin dal primo ascolto.

Acqua azzurra, acqua chiara (1969)

Un tormentone dell’estate del 1969, vittorioso anche al Festivalbar. Ispirato dal Salento e dalla marina di Torre Squillace, “Acqua azzurra, acqua chiara” uscì come singolo insieme a un altro pezzo conosciutissimo di Lucio Battisti – “Dieci ragazze” – e anche in questo caso si parla di un ritornello inconfondibile, complice Mogol.

E penso a te (1972)

Altro brano composto da Lucio Battisti su testi di Mogol, altro trionfo. “E penso a te” racconta del pensiero nostalgico verso una ragazza assente, un brano triste, simbolo del rimpianto. Tra le curiosità più interessanti, la canzone fu composta in meno di venti minuti mentre i due erano in macchina da Milano a Como. Con il passare degli anni sono state realizzate decine di altre versioni, da Mina a Raffaella Carrà.

Il mio canto libero (1972)

Il mio canto libero” è uno dei successi più iconici di Lucio Battisti, un classico della musica leggera italiana. Una canzone con diversi spunti autobiografici – dalla separazione dalla moglie all’incontro con la nuova compagna – lo zenit dell’intesa tra il cantautore e Mogol. Un’affermazione clamorosa dal punto di vista discografico, con oltre 900 mila copie vendute soltanto nel suo anno di uscita.

Estratto dell’articolo di Giandomenico Curi per il Venerdì- la Repubblica il 4 marzo 2023.

Spettacoli teatrali, tour, ristampe di dischi e, soprattutto, di libri. Per rievocare gli 80 anni incompiuti dei due Lucio c'è in giro un'aria solenne di celebrazioni. E proprio la ristampa della prima biografia di Battisti è il motivo di questo viaggio nelle colline umbre fino al Centro Europeo di Toscolano, dove Mogol si è rifugiato dal 1992 con tutti che gli davano del matto.

 La biografia s'intitola L'arcobaleno. Storia vera di Lucio Battisti vissuta da Mogol e dagli altri che c'erano. La prima edizione era del 2000 e ora torna edita da Diarkos. L'ha scritta il musicologo Gianfranco Salvatore con l'aiuto fondamentale di Mogol che, per questo libro, ha deciso per la prima volta di rompere la consegna del silenzio e di aprire le sue ingombranti valigie dei ricordi. «Leggendolo» scrive nella quarta di copertina «ho rivissuto la nostra storia, la mia e di Lucio, che pur con qualche dispiacere non potrei immaginare più bella». Con lui in quelle pagine compaiono anche "gli altri che c'erano", i testimoni che hanno accompagnato l'avventura della Numero Uno, la prodigiosa casa discografica di Mogol-Battisti.

 Finita l'ora in palestra, davanti al fuoco, questo signore di 86 anni portati benissimo, ricorda e ripensa. Anche se «il fisico è a posto, ma la memoria un po' meno...».

Lei dice, con Leopardi, che "parole e musica si fondono indissolubilmente, e una volta unite non si staccano più". Perché?

«Quando scrivo, penso a cosa sta dicendo la musica. Anche durante le serate in giro per l'Italia racconto come si scrivono le canzoni. Prendo un brano, per esempio Io vorrei... non vorrei... ma se vuoi, e spiego perché ho scritto quella storia. E prima ancora spiego cosa dice la musica: "La sentite questa nostalgia? Questo leggero dolore?". Perché leggero? Perché in quel momento c'è un'altra donna vicino al protagonista della canzone.

Spiego perché la musica, quando si apre, fa vedere il mare, ci fa volare: perché ci sono "le discese ardite e le risalite".

Insomma spiego che tutto il senso della musica deve essere interpretato dalle parole».

Quindi, sempre prima la musica?

«Assolutamente. Dalla musica arrivano le storie che racconto. Storie che si riferiscono spesso alla mia vita. Dico la vita perché la fiction non è la vita, ma la falsa vita e la gente lo capisce: la vita vera ha un profumo diverso.

Essendo poi tutti professionisti della vita perché la viviamo, sentiamo che c'è qualcosa che va al di là della cultura: l'istinto. Per questo, la vita vera ci piace di più, ci colpisce di più».

 Nel libro ci sono momenti della sua vita da adolescente che poi ritornano nei versi di brani come I giardini di marzo, Pensieri e parole, La canzone del sole. Come faceva Battisti a immedesimarsi così intensamente nelle storie di un altro?

«Ogni volta che scrivevo una canzone, mi chiedeva di spiegargli tutto. Entrava nella storia solo dopo aver capito il senso profondo del testo. Perché quello che io scrivevo era vero. Quando parlo dei vestiti di mia madre, dei soldi che "al ventuno del mese erano già finiti", è tutto vero».

 Questa osmosi tra musica e parole, così profonda ed emozionante, è il vero marchio di fabbrica della premiata ditta Mogol-Battisti?

«Proprio così. Ed è una cosa davvero unica e misteriosa quando succede. Bisogna anche considerare che c'erano delle musiche straordinarie. E un interprete fantastico. Eppure ho dovuto lottare per convincere Lucio a fare anche il cantante. Portava le nostre canzoni agli altri, ma come le cantava lui erano molto più belle.

 Alla fine mi ha dato retta. Lucio aveva un'urgenza dentro, una luce, che gli altri non avevano. E poi aveva molta fiducia in me. Fino a quando, e qui lo devo dire, non è arrivata la moglie».

 Le mogli, nella musica, hanno talvolta questo ruolo, diciamo, un po' antipatico.

«Questa qui però era un po' diversa. Ma non voglio dire niente, lasciamo perdere. Comunque lei saprà che ci sono state delle cause che ho vinto, perché la signora Grazia Veronese aveva deciso che si potessero ascoltare le nostre canzoni solo su vinile e cd».

E lei lo sa che c'è stato un produttore, Pietro Valsecchi della Taodue, che voleva fare una fiction tratta dal testo di Salvatore, e che la signora Battisti ha bloccato tutto? C'era già un accordo con Canale 5 e con Claudio Santamaria come probabile protagonista. Ma la signora c'entra anche con la separazione?

«Sono io che ho voluto la separazione. Perché avevo chiesto a Lucio un'equa distribuzione sui diritti delle edizioni. Gli ho detto: "Scusa, io scrivo le parole e tu la musica, facciamo una divisione cinquanta e cinquanta". Lui prima ha detto di sì, ma dopo che ha parlato con la moglie ha cambiato di nuovo idea. E allora ci siamo separati».

 Prima dell'Arcobaleno, Salvatore aveva scritto un altro libro importante, Mogol-Battisti. L'alchimia del verso cantato – presto in ristampa per le edizioni Mimesis – che analizza il vostro intero repertorio e soprattutto la capacità che hanno le vostre canzoni "di fondersi totalmente nell'universo dell'ascolto, nella memoria storica, nell'autobiografismo delle nostre emozioni private". Come siete riusciti nell'impresa?

«Il problema è sempre lo stesso: trovare il senso profondo della musica e trasformarlo in un testo vicino alla gente. Poi, naturalmente, ci sono gli automatismi. Nel senso che c'è un rapporto tale con la musica che rende tutto più facile. C'è un divenire, un lavoro. Dio dà a tutti la stessa possibilità di talento, ma poi succede come con il seme e la pianta. Il seme è il talento che riceviamo, poi però la pianta bisogna coltivarla».

 Lei ha fama di saper capire al primo ascolto se un provino può diventare un successo. Ma se non le piace la musica che le propongono, che cosa fa?

«Non scrivo. Se non c'è una buona musica, non scrivo nessun testo».

 Cosa si aspetta da questo 2023 di iniziative per gli ottant'anni di Battisti?

«Io non mi aspetto niente, né ho sogni. Secondo me, è il miglior modo di vivere. Così, se succede qualcosa di bello, evviva, sono contento».

 E Lucio, a ottant'anni, come sarebbe stato?

«Lui era un grande studioso. E quindi me lo immagino così: che continua a studiare. Era un matematico, esattamente il contrario di me. Lucio, di qualsiasi cosa si appassionasse, andava fino in fondo. Impossibile fermarlo prima».

Lei diceva spesso: «Se a Lucio gli fai vedere un buco lui comincia a scavare e arriva fino al centro della Terra».

«Infatti io ero un orizzontale e lui un verticale. Completamente diversi».

 Un altro tema che ritorna è quello della sperimentazione. Ma cosa intendeva lei, all'epoca, per sperimentazione? E cosa intendeva Battisti?

«Veramente, più che di sperimentazione, io ho sempre parlato di libertà. All'inizio, quando Lucio è venuto da me, abbiamo provato a fare qualche esperimento con due o tre canzoni. Ma dopo il successo di 29 settembre la sperimentazione è finita».

 Battisti comunque ha rivoluzionato la nostra musica.

«Lui più che altro studiava. Sa cos'è l'io psicologico? È la somma fra il Dna, che non ne rappresenta neanche il dieci per cento, e l'assorbimento degli altri. Una volta capito questo, Lucio si è messo a studiare i grandi musicisti di tutto il mondo, assimilando il più possibile da ognuno: le canzoni, lo stile, il modo di cantare. Perché se lei studia a fondo un artista, ne diventa la brutta copia. Ma se lei ne studia dieci, diventa uno di loro. Perché prende qualcosa da tutti, ma non somiglia a nessuno».

 Però ci mette anche del suo. Soprattutto quando si avvicina al pop rock, non dimentica mai la melodia all'italiana.

«Questo è vero. Fin dai tempi di Amore non amore con la PFM. Battisti ha inventato una nuova cultura musicale: italiana con la ritmica americana. E poi molti innesti di musica nera, soprattutto blues. Era una spugna di creatività».

Pupo per Dagospia il 4 marzo 2023.

Oggi, Lucio Battisti, avrebbe compiuto 80 anni. Io, che conosco a memoria tutte le sue canzoni nate dal sodalizio con Mogol, non ho mai avuto il piacere e l'onore di incontrarlo. Nel tempo invece sono diventato fraterno amico di Mogol e non vi nascondo che, la tentazione di chiedergli che tipo di uomo fosse Lucio al di là della professione, è stata sempre molto forte ma, alla fine, non l'ho mai fatto. Non so perché, ma preferisco ricordarlo solo come artista.

 A volte, andare ad approfondire la conoscenza dei propri idoli, può riservare brutte sorprese. Dico questo perché io, ad onor del vero, un contatto indiretto con Lucio Battisti, l'ho avuto.

 Accadde dopo la sua morte, quando si scatenò una sorta di "guerra", legata alla diffusione e utilizzazione delle sue canzoni. La vedova Battisti, Grazia Letizia Veronese, osteggiava e in alcuni casi addirittura querelava, tutti coloro che, in qualsiasi modo, si azzardassero ad utilizzare (naturalmente pagando sempre i diritti) la musica del defunto marito. Io, che in quel periodo conducevo insieme al Principe Emanuele Filiberto il programma di Rai Uno "Ciak si canta", ignaro del veto dell'agguerrita vedova, scelsi per un promo il brano: "Ancora tu". Apriti Cielo, spalancati Terra! Una sera, mentre mi trovavo all'aeroporto di Kazhan, la città russa capitale della Repubblica dei Tartari, ricevetti una telefonata del tutto inaspettata.

 Era Grazia Letizia Veronese vedova Battisti che, senza alcun giro di parole, mi intimò di sospendere immediatamente la messa in onda del promo che aveva come colonna sonora, la canzone di suo marito. Non potrò mai dimenticare l'arroganza e lo scherno con i quali mi si rivolse. "Ma come si permette, uno che si fa chiamare Pupo e che scrive e canta canzoncine, di utilizzare e di sfruttare le opere di un genio come mio marito", mi disse ghignando.

 Non vi nascondo che, in quel momento, "grazie" a lei, mi stette postumo sulle palle anche Lucio Battisti. La telefonata poi, fra sarcasmo, epiteti e riflessioni deliranti di lei, andò avanti per un'altra decina di minuti. Io ascoltavo e basta.

Alla fine, le dissi che aveva chiamato la persona sbagliata e che per la sua richiesta avrebbe dovuto rivolgersi direttamente alla RAI. Da allora non l'ho più vista né sentita ma, quando Mogol mi chiamò, insieme a Gianni Morandi, a testimoniare presso il Tribunale di Milano nel corso di una causa (sempre per i motivi sopra citati) fra lui e la suddetta signora, fui ben lieto di mettermi a disposizione. È stato anche grazie alla mia deposizione che i giudici hanno dato ragione a Mogol. Limitare la diffusione e l'utilizzo di un repertorio di cultura popolare italiana come quello di Mogol/Battisti, è una roba che non si può sentire.

 "Roba da chiamare la Celere" direbbe il mio amico carrozziere. Adesso avrete capito il perché non mi sia dispiaciuto, non aver mai conosciuto Lucio Battisti. Molto probabilmente, ai miei occhi, l'uomo che si è innamorato ed ha condiviso la vita con la signora Veronese, non sarebbe stato all'altezza dell'artista che ho amato, che amo e continuerò ad amare.

Emanuela Giampaoli per il Venerdì – la Repubblica il 4 marzo 2023.

Un pomeriggio del 2009 il teologo e filosofo Vito Mancuso riceve una mail da Domenico Sputo, lo pseudonimo scelto da Lucio Dalla ancora oggi inciso sul campanello della sua casa bolognese in via d'Azeglio.

 (...)

E quando non parlavate di Dio?

«Discutevamo di tutto, una sera mi intrattenne su Attila, aveva letto qualsiasi cosa, era ferratissimo. Una inspiegabile fascinazione per il re degli Unni. Poi si confidava sugli altri cantanti: Lucio Battisti non gli piaceva, amava, naturalmente, De Gregori benché non ne capisse la ritrosia. Lucio al contrario adorava essere riconosciuto, non si sottraeva mai da foto e selfie. Con Guccini invece non si sono mai presi. Quello che stimava più di ogni altro era Franco Battiato, li accomunava il misticismo. Desiderava lo incontrassi, aveva preso casa in Sicilia a fianco al cantautore siciliano, poi come molte altre cose, non ci fu il tempo».

 Che altri progetti avevate?

«Mah, per esempio, voleva portarmi nelle fogne di Bologna, nei sotterranei.

Diceva che ci aveva accompagnato Patti Smith e le erano piaciuti più dei canali di Venezia».

 (...) Una volta affermò scherzosamente di essere uno dei cantanti più ricchi, "solo Vasco guadagna più di me" si inorgogliva». Però non è stato trovato alcun testamento. «In realtà vedeva diversi notai, aveva già architettato tutto, c'erano diversi progetti testamentari, solo non ha concluso». 

 (...)

9 settembre 1998. Com’è morto Lucio Battisti: gli “abbattistamenti” del cantante e l’omaggio a Sanremo. Vito Califano su Il Riformista il 7 Febbraio 2023

Da qualche tempo si parlava di “abbattistamenti”: la trasmissione Va ora in onda su Rai1 aprì l’omonima rubrica nel programma nel quale si segnalavano i presunti avvistamenti di Lucio Battisti in tutta Italia. Il cantante e autore si era ritirato dalle scene nel 1970 e sarebbe morto la mattina del 9 settembre 1998. Sarà ricordato al Festival di Sanremo, come ha annunciato in conferenza stampa il direttore artistico Amadeus, in occasione degli 80 anni dalla nascita – come Lucio Dalla – e dei 25 dalla morte. “L’idea è di far cantare tutto l’Ariston”, ha detto Gianni Morandi

Era fine agosto del 1998 quando si diffuse la notizia di un ricovero di Battisti in gravi condizioni cliniche. All’ospedale San Paolo di Milano. Da qualche tempo viveva a Molteno, nel comasco. Strettissimo il riserbo per gli undici giorni di ricovero. Nessun bollettino medico venne diffuso. Le condizioni del cantante peggiorarono inevitabilmente il 6 settembre, dopo un paio di giorni il trasferimento in terapia intensiva. Battisti è morto intorno alle 8:00 della mattina del 9 settembre, a 55 anni. L’Ospedale parlò di “quadro clinico severo fin dall’esordio”. Mai confermate le voci di un linfoma maligno al fegato o di glomerulonefrite.

Nessun accanimento terapeutico, spiegherà l’eroe positivo di questa pessima vicenda, il direttore del San Paolo Franco Sala, stretto per giorni tra diritti e doveri difficilissimi da gestire. Da subito, invece, dal primo giorno di ricovero una ‘alleanza terapeutica’ con il paziente che accetta tutto, anche una terapia sperimentale contro il male che lo devasta. Il fisico attaccato ferocemente dal male, la condizione di dializzato che impedisce o rende inutili le cure ad alto potenziale, il male che si estende fino a organi delicatissimi come fegato e pancreas”, è quanto racconta Antonio Dipollina per Repubblica.

La moglie Grazie Letizia Veronesi negò qualsiasi contatto con i cronisti. Fu concesso di visitare la salma solo al figlio Luca Battisti, alla moglie, alla sorella Alba Rita, ai cognati Marco e Sergio Veronesi. Il funerale si sarebbe tenuto in forma strettamente privata. A Molteno, appena 20 persone, tra cui Mogol: il paroliere con cui Battisti aveva scritto note e parole indelebili nella storia della musica italiana. Saputa la notizia del ricovero, il paroliere aveva spedito una lettera all’amico.

Nei suoi ultimi giorni, quando era in ospedale, gli scrissi una lettera, affidandola a un’infermiera. Diceva: ‘Caro Lucio, spero che i giornali esagerino come sempre, però se hai bisogno io sono qui’. Non seppi se l’aveva ricevuta oppure no fino a dieci anni dopo, quando scoprii che un medico gliel’aveva consegnata. Vide Lucio, in uno dei suoi ultimi momenti di lucidità, leggerla e poi mettersi a piangere”, ha raccontato Mogol a Famiglia Cristiana.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teat

Estratto dell’articolo di Carlo Martinelli per “Domani” il 9 febbraio 2023.

L’amico Mogol lo ha ripetuto più volte: «Lucio Battisti di destra, fascista? Non fatemi ridere». Eppure la leggenda metropolitana è tornata, periodicamente, a farsi viva. C’era quella foto che lo ritraeva con il braccio teso: in realtà non stava facendo il saluto romano ma, sul palco, stava dando l’attacco ai violini per il suo I giardini di marzo.

 Persino la copertina de Il mio canto libero, con quelle braccia sollevate, fu interpretata come una selva di saluti fascisti per non dire del verso di una sua canzone, «planando sopra un bosco di braccia tese». Poi, salta fuori che in un covo delle Brigate rosse c’erano i suoi dischi. […]

LUCIO BATTISTI MOGOL

Spunta una lettera che Lucio Battisti, di suo pugno, scrisse il 25 febbraio 1992. La si trova in un libro freschissimo di stampa: Balla coi libri, (Iacobelli 2023, pp. 208, euro 18) nelle quali Marcello Baraghini, l’inventore dei mitici Millelire, il padre di Stampa Alternativa, si racconta a Daniela Piretti. Sono 50 anni di controcultura quelli di Baraghini: bambino, giovane, capellone, radicale, giornalista, politico, editore, libertario sempre.

 In mezzo al libro, tra mille ricordi e mille battaglie, spunta Lucio Battisti. Che il ragazzo di Poggio Bustone, dove era nato il 5 marzo 1943, avesse professato una sola volta una chiara posizione politica, a favore dei radicali allora guidati da Marco Pannella, si sapeva.

 Ma Daniela Piretti, nelle lunghe conversazioni avute con Marcello Baraghini per la stesura di Balla coi libri, incappa nella lettera di Lucio Battisti, «su un foglio ingiallito la firma», capace di ridisegnarne in parte la figura.

E lei stessa a stupirsi per questa dichiarazione di voto a favore proprio di Baraghini, che aveva accettato la proposta di essere nella “lista Pannella”, nei primi posti, a Roma, Bari e Milano (la cosa poi finì con una clamorosa rottura, ma questo poco importa). 

Importa che la lettera di Battisti a Baraghini ci consegna un artista quasi barricadero, altro che reazionario, altro che fascista. E le sue parole, intrise di bellezza e lucidità, confermano semmai il suo essere fuori dal coro, per collocarsi però in una posizione sorprendente, alla luce di quel che si è raccontato (meglio, favoleggiato) per anni. […]

 «Caro Marcello, hai chiesto di scriverti perché bisognerebbe votare per te e di manifestare pubblicamente tale motivazione», esordisce Battisti. «Presto fatto: votare per Marcello Baraghini  non serve assolutamente a niente. Non serve a spostare una virgola negli sclerotici equilibri generali del sistema politico. Non serve ad avere la benché minima voce in capitolo nell’ammuffito dibattito interpartitico già preordinato.

Non serve a far leva su nessun interesse lobbistico o mafioso. Non serve a far confluire consenso sul mummifico schieramenti referendario e/o trasversalitico. Non serve a far tacere Cossiga. Non serve a sferzare la letargica sinistra italiana. Non serve alla politica. Non serve alla Patria. Non serve all’Europa. Come direbbe qualsiasi iscritto a qualunque schieramento politico italiano, votare Marcello Baraghini significa solo disperdere il voto». […]

Continua infatti il nostro, rivolto a Marcello Baraghini: «Ti posso enumerare da subito quale nefaste conseguenze potrebbe avere la raccolta di un numero di adesioni sufficienti a spedirti al parlamento».

 Un elenco che comprende: «Uscire dalla semiclandestinità per rimarcare il tuo passato di militante della libertà (137 procedimenti giudiziari per reati d’opinione) non omologato e non irregimentato: inondare le vie e le pazze cittadine di concerti, spettacoli e mostre gratuite; sparire la cultura della notte (spazi, occasioni, incontri);

 riaffermare la libertà di musica (per il rock nelle scuole, per le sale di registrazione gratuite, contro lo sciacallaggio e la pirateria); ripulire l’etere dalla mondezza consumistica e rincoglionente; stimolare vecchi e nuovi scrittori a tirare fuori dai cassetti i loro inediti, le loro testimonianze, la loro vita; fare un libro Millelire al giorno».

 Poi, la chiusura. Che è anche annuncio di quel che sarebbe stato di lì a poco Lucio Battisti, sino alla morte, il 9 settembre 1998: clandestino a quella “mondezza”. Scriveva: «Lascia perdere, Marcello, siamo rimasti veramente in troppo pochi a voler vivere veramente simili libertà. Lasciami in pace al calduccio dei miei quarant’anni suonati, un po’ schifato e un po’ annoiato.  Piantala di rompere le scatole alle nuove generazioni: non capirebbero!». Firmato: Lucio Battisti.

Che aggiunge un post scriptum: «Maledetto rompicoglioni avevo deciso di non andare a votare! Sono stato costretto a ragionare per scriverti questa lettera (e ragionare, di questi tempi, è pericoloso). Per non sentirmi un verme sono costretto a partecipare a  queste fottutissime elezioni e darti il mio fottutissimo voto…». […]

L'ultima telefonata di Fabrizio De André: «Dalla vita non si guarisce mai». Mario Luzzatto Fegiz su Il Corriere della Sera il 03 Aprile 2023

Un giorno mi confidò: «Se il prossimo disco non funziona apro una cava, nei miei terreni ne ho cinque, anche col marmo rosa della Sardegna». Sulle interviste disse: «Non si dice mai quello che si vorrebbe. Se io fossi capace di parlare andrei al Costanzo Show»

Una bella giornata di giugno. Siamo nel 1980. Il fuoristrada arranca sul sentiero sterrato. Tutto intorno macchia mediterranea. Da un cucuzzolo un grande spuntone di roccia. «Granito Limbara, il marmo bianco e nero» lo indica Fabrizio De André . «Se il prossimo disco non funziona qui apro una cava. Nel mio terreno ce ne sono almeno cinque, due delle quali col marmo rosa chiamato Granito Sardinia». Arriviamo a destinazione. Un set meraviglioso: un piazzale roccioso in lieve pendenza, una grotta, una vista mozzafiato. Siamo all’Agnata, il buon ritiro di Dori Ghezzi e Fabrizio. Gli operatori si danno da fare a sistemare telecamere e microfoni. Luvi, la loro figlia, nella confusione sfugge di mano e si dirige verso un burrone. «Presto fermatela» grida Dori.

Fabrizio è ancora sonnolento (è mezzogiorno) e non capisce bene quel che stava per succedere. Dobbiamo girare un servizio per Odeon, il rotocalco di Raiuno curato da Brando Giordani. È il ritorno sulla scena pubblica dopo il rapimento e il rilascio della celebre coppia. Fabrizio in realtà ha scelto la parte del principe consorte. Perché al centro della scena c’è Dori Ghezzi con un brano intitolato «Mama Dodori» ispirato alla piccola Luvi. L’idea è un coretto di famiglia allargato: Fabrizio, Dori, Cristiano De André, Luvi, Cristiano Minellono, Oscar Prudente (il produttore del disco). La canzone non è scritta da Fabrizio. È il primo prodotto dell’etichetta Fado creata con le sillabe Fabrizio e Dori. Inutile dire che l’obiettivo era quello di stanare Fabrizio che però non aveva nessun disco da promuovere (l’album con l’indiano in copertina uscirà l’anno successivo).

Fabrizio aveva un processo creativo complicato. Viveva a orari invertiti. Creava di notte e dormiva di giorno. Si svegliava nel pomeriggio con la terribile tosse del fumatore incallito. In genere di pessimo umore. La sua telefonata arrivava spesso a mezzanotte con una raffica di critiche, obiezioni, richieste di chiarimento. Mi resi conto gradualmente che domande, risposte e rassicurazioni non erano altro che un rito che durava 30 minuti. Durante queste conversazioni ingestibili io immaginavo il contesto. Il lettone matrimoniale era un campo di battaglia. Sfrattata Dori, un caos apparente di libri tutti aperti su pagine precise, con tanti segnalibri improvvisati. E mille foglietti sparsi. Oltre a due portaceneri colmi. Fabrizio comprava centinaia di libri e magari dalla lettura di un libro annotava una sola frase. Lavorava così, con lentezza.

Un giorno il suo discografico Antonio Casetta, già proprietario del castello di Carimate, che non sapeva pronunciare la lettera erre, lo rimproverò per i ritardi. E lui si giustificò dicendo «Non ho idee». Comica la reazione di Casetta: «E allora lei ubi ubi /(rubi rubi)». Ma lui non rubò mai. Fabrizio aveva uno spiccato senso dell’umorismo dominato da due elementi: la misericordia assolutoria («Il pescatore», «Anime Salve») e l’amore per Dori. Un giorno ero stato invitato nel reparto Penale di San Vittore (quello che accoglieva i detenuti con condanne pesanti) per tenere una conversazione sulla musica. L’incontro era nel primo pomeriggio. Verso sera Fabrizio mi chiese com’era andata. Gli raccontai che l’invito era partito da un odontotecnico di Milano che, nella sua casa in via Cesare Correnti, aveva ucciso la moglie, madre di quattro figli, con ventiquattro coltellate. «E perché mai?», chiese Fabrizio un po’ angosciato e come sempre curioso di tutto. E io, scherzando naturalmente: «Pare che avesse cucinato male la cena». E lui sornione: «Belìn, doveva essere proprio cativa!”.

Molti anni prima era rimasto solo in una torrida Milano per lavorare a un disco. Di malavoglia. Sentiva molto la mancanza di Dori. E diceva beffardo: «Io qui a cuocere, lei ad abbronzarsi a Santa Teresa di Gallura». Finalmente Dori annunciò l’imminente ritorno a Milano.«Belìn, son contento. (pausa pensierosa) Non credo che le darò il tempo di posare a terra i bagagli!». Amore e desiderio. Ogni tanto aveva delle strane manie: come quella di infilarsi in affari sballati o anomali. Mi propose di entrare in società con un apicoltore sardo, un tipo alquanto pittoresco, investendo una grossa somma per assicurarsi una bella quantità di miele amaro di corbezzolo (una vera squisitezza).

Fabrizio era la disperazione degli uffici stampa. Veniva pianificato tutto scientificamente, poi arrivava un quotidiano minore o la rivista anarchica e lui vuotava il sacco prima del tempo. Oppure si sottraeva all’ultimo momento all’intervista. O la rifiutava adducendo scuse come il non essersi svegliato in tempo. Diceva: «Nelle interviste non si dice mai quello che si vorrebbe dire io poi non ho nessuna idea chiara, se fossi capace di parlare sarei tutte le sere al Costanzo show». Molte canzoni di De André nascono ispirate a fatti di cronaca o da personaggi reali: in «Preghiera di gennaio» c’è la morte di Luigi Tenco, nella «Canzone di Marinella» un delitto con stupro, l’istriana Mariza era «Bocca di rosa» dove la barca diventava un talamo. E poi le canzoni ispirate al rapimento («Hotel Supramonte», «Quello che non ho»). C’è però una storia poco nota dietro una canzone davvero incredibile e altrettanto poco nota intitolata «Parlando del naufragio della London Valour», scritta assieme a Massimo Bubola e inserita nell’album Rimini del 1978.

La nave London Valour salpò il 2 aprile 1970 da Novorossisk imbarcando 23.606 tonnellate di cromo. Era diretta a Genova, dove giunse il 7 aprile e diede fondo nell’attesa dell’ormeggio. La mattina del 9 aprile la nave era ancora lì. Il comandante Edward Muir aveva ordinato lo smontaggio dei propulsori poiché dovevano essere revisionati una volta entrati in bacino con l’ausilio dei rimorchiatori. Il capitano si era fatto raggiungere a Genova dalla moglie. Improvvisamente sulla città si abbatté una libecciata di enorme violenza. Verso le 14.30, per via del fortissimo vento, l’ancora della nave cominciò a perdere la presa avvicinandosi pericolosamente alla barriera frangiflutti e finì poi per sbattere violentemente contro gli scogli. Quel che successe dopo fu sconvolgente. La moglie del capitano salì sulla teleferica creata dai soccorritori, che avrebbe dovuto portarla in salvo. Ma anche lei sbattè malamente sugli scogli e sparì fra i flutti. Il capitano si getta in mare per tentare un salvataggio in extremis. Periscono entrambi. Nel disastro persero la vita venti membri dell’equipaggio, in gran parte di nazionalità indiana e filippina.

Fabrizio racconta la vicenda a modo suo sottolineando che allo spettacolo del naufragio assistono i genovesi come si trattasse di uno show circense. Fabrizio canta, anzi recita, così: «E la radio di bordo è una sfera di cristallo dice che il tempo si farà lupo e il mare si farà sciacallo... E le ancore hanno perso la scommessa e gli artigli». La radio prevede ma nessuno l’ascolta al momento giusto. «E con uno schiocco di lingua parte il cavo dalla riva ruba l’amore del capitano attorcigliandole la vita». L’ultima telefonata tra noi due fu alla vigilia di Natale: «Oggi si guarisce di tutte le malattie tranne di quella chiamata vita». L’11 gennaio successivo furono le sue ancore a perdere la scommessa. Fabrizio sapeva difendersi anche dagli amici. Un giorno Beppe Grillo, allora suo buon amico, lo invitò a una crociera sulla sua barca. Faber chiese precisazioni: «Chi saremmo a bordo?». «Beh, noi e la ciurma» rispose Grillo. «La ciurma chi?» incalzò Fabrizio. «Tu io Dori e mia moglie». Quella crociera non salpò mai.

Un poeta chiamato Faber. Redazione L'Identità il 14 Gennaio 2023

di Benedetta Basile

L’11 novembre 1999 morì uno dei cantautori più grandi e amati del nostro Paese, Fabrizio De Andrè.

Sono passati 24 anni da quando l’artista ci lasciò, stroncato a 58 anni da un carcinoma polmonare, eppure ieri questa triste ricorrenza è stata celebrata con parecchi eventi commemorativi non solo nella sua Genova, ma in giro per l’Italia.

Ben 14 furono gli album pubblicati in circa 40 anni di carriera in cui l’artista, attraverso la sua musica, aprì la finestra su un mondo che spesso, troppo spesso, viene dimenticato, quello degli emarginati.

Chi non conosce “Bocca di Rosa”, una delle sue canzoni più famose e a lui più care, come dichiarò durante un’intervista televisiva a Vincenzo Mollica.

Il testo racconta la storia di una prostituta e del suo arrivo nel paesino di Sant’Ilario. In realtà “Bocca di Rosa” non era una prostituta, ma come recita la canzone – “c’è chi l’amore lo fa per noia chi se lo sceglie per professione, bocca di rosa ne l’uno ne l’altro lei lo faceva per passione” e il cantautore racconta la mentalità chiusa della società di Sant’Ilario che giudicò e discriminò questa donna prima ancora di conoscerla.

Fabrizio De Andrè nacque a Genova nel 1940 nel quartiere di Pegli, in via Nicolay 12, dove nel 2001 fu riposta una targa in sua memoria dal Comune. Fu uno dei maggiori esponenti della scuola genovese insieme a Luigi Tenco, Umberto Bindi, Bruno Lauzi e Gino Paoli. Durante la seconda Guerra mondiale in un primo momento visse da sfollato nella campagna di Revignano d’Asti, dove il padre acquistò una cascina, e dove conobbe Nina Manieri.

All’amica con cui condivise momenti felici e che mai dimenticò, dedicò la canzone “Ho visto Nina volare”.

Il suo primo importante incontro fu quello con Paolo Villaggio negli anni del Dopoguerra, con lui condivise la maggior parte delle scorribande giovanili da ragazzo tormentato, come raccontò lo stesso De Andrè: “L’ho incontrato per la prima volta a Pocol, sopra Cortina, io ero un ragazzino incazzato che parlava sporco; gli piacevo perché ero tormentato, inquieto e lui lo era altrettanto, solo che era più controllato, forse perché era più grande di me e allora subito si investì della parte del fratello maggiore”.

Le prime importanti sperimentazioni con la musica avvennero grazie alla scoperta della produzione di Georges Brassens, che divenne uno dei suoi riferimenti assoluti e di cui tradusse alcune canzoni che inserì nei suoi primi 45 giri. La sua passione prese corpo anche nel momento in cui ci fu la “scoperta” del jazz e quando consolidò la frequentazione di Tenco, Bindi e Paoli, grazie a cui iniziò a esibirsi in pubblico. De Andrè scelse uno stile poetico per raccontare nei suoi brani la vita vera, le storie di chi è considerato di “serie B”, le esistenze più drammatiche e difficili e poco abituate alle parole dolci e d’amore come vengono dedicate da lui. Come in “Creuza de ma” utilizzò spesso il dialetto genovese e costruì testi all’apparenza molto semplici, ma in realtà complessi per canzoni in cui spesso emerge la sua profonda fede cristiana e la sua misericordia. Nel 1964 pubblicò “La canzone di Marinella”, il suo primo grande successo e dopo due anni uscirono “La canzone dell’amore perduto” e “Amore che vieni, amore che vai”, che ne decretarono il successo in tutto il Paese. Nel 1967 scomparve l’amico Luigi Tengo, che fu ritrovato morto nella sua stanza d’albergo a Sanremo durante i giorni della kermesse, a lui Faber dedicò “Preghiera in gennaio”, in cui prega Dio di accogliere l’amico in Paradiso. Il legame tra i due era molto forte e il cantautore compose il brano di getto, sull’onda dell’emozione, dopo aver fatto visita alla salma. Gli anni più proficui furono tra il 1968 e il 1973 quando uscì il concept album “Tutti morimmo a stento” dove vengono affrontate tematiche esistenzialiste e che contiene “Cantico dei drogati” tratto da una poesia di Riccardo Mannerini.

La vita di Fabrizio De Andrè fu segnata da due importanti figure femminili. La prima fu Enrica Rignon, Puny, musa del suo “Verranno a chiederti del nostro amore” e madre di Cristiano e poi la compagna di sempre, Dori Ghezzi, con cui Faber condivise anche l’esperienza della prigionia: i due furono rapiti dall’anonima sequestri sarda e tenuti prigionieri alle pendici del Monte Lerno per 4 mesi.

Sa di tappo”. La gag di Vittorio Gassman con il vino più caro del mondo. Un viaggio in Provenza all’apice del successo, con Ugo Tognazzi e Paolo Villaggio. Una bottiglia da 4 milioni di lire. La boutade perfetta di un attore superbo. Paolo Lazzari il 26 Febbraio 2023 su Il Giornale.

La macchina scivola lenta nella placida campagna francese. Tutt’intorno, campi di lavanda, pascoli erbosi, chiesette e santuari. Il trio è disteso e compiaciuto. Al volante siede Vittorio Gassman, che negli anni Settanta ha già raccolto un consenso internazionale. Sul sedile del passeggero Ugo Tognazzi: freme passando in rassegna mentalmente il menù che li attende. Appollaiato dietro, Paolo Villaggio. Tre celebri italiani in Provenza per una gitarella di piacere. Fino a qui, tutto bene.

Parcheggiano cigolando a ridosso del ristorante e consegnano le chiavi al posteggiatore ufficiale. Poi entrano in quell’albergo dalla facciata imperiosa, che al suo interno contiene un tempio della cucina d’oltralpe. Quando la porta si spalanca, l’intera sala si volta per contemplarli. Gassman è indifferente, il mento alto, la voce priva di inflessioni, quel portamento regale. Tognazzi e Villaggio sembrano più timidi, ma si accodano in direzione del tavolo. Qua dentro tutti sanno con chi hanno a che fare. Il direttore di sala scende dal trespolo sul quale ha disposto l’agenda con le prenotazioni del giorno e inizia a gironzolare. Giacche ritirate. Sedute accompagnate. Salamelecchi a non finire.

Pranzo gaudente. Portate che fanno decollare le papille gustative. La cucina francese si dimostra all’altezza della maestria italiana. I tre sono amici fraterni. Nell’aria rimbalzano risate scomposte, guarnite da aneddoti sapidi. Il cibo rinfocola quel buonumore. Abitano ancora nella curva ascendente della loro vita. Attori lanciati, in vacanza nell’incantevole Provenza, le natiche incollate sulle sedie di uno dei ristoranti migliori del globo. Pretendere di più pare sinceramente difficile. Gassman però ha l’occhio svelto. È uno che deve sempre trainare. Mangiarsi il palco.

Fende dunque, Vittorio, quella balsamica serenità. Lo fa con una richiesta inconsulta, mandando il boccone di traverso a Tognazzi. “Sì, vorremmo questo vino qua”. Il sommelier lo scruta, trasecolato. Si assicura di aver capito bene. “Sì, ma certo. Ci porti questo qua”, indica Gassman premendo il polpastrello sulla lista, per fugare ogni residuo dubbio. Ora è Villaggio a sgranare le pupille. “Questo qua” sarebbe, infatti, uno Chàteau Lafitte Rothschild. Solo il Bordeaux più caro del mondo. Quattro milioni delle vecchie lire. Un’autentica fortuna, negli anni Settanta.

Parte, nel tempo contratto di un amen, una processione di vassalli, valvassini e valvassori. L’ordine del sommelier passa di bocca in bocca, fino a giungere al giacimento del ristorante. La notizia si diffonde rapidamente anche in sala, dove si solleva un vespaio. “Tesoro, hai sentito cos’hanno ordinato quelli là?”. Infine il preziosissimo nettare viene estratto dalle segrete e, una volta rinvenuto, esposto al tavolo, per il pubblico giubilio. Tognazzi suda freddo. Strattona per la giacca Gassman, che assiste composto, imperterrito, a quella scena. “Ma sei sicuro? Costa una fortuna!”. Villaggio ha la bocca asciutta. Non riesce a pronunciare una sola sillaba.

Rituale antico del collo che viene circuito da tenaglie incandescenti. Salta anche la ceralacca. Il sommelier recupera il tappo e lo sniffa avidamente. Poi fa un cenno di consenso ai suoi. Che si versi, l’imprimatur enologico. Ancora l’esperto di vini. Afferra il calice e affonda al suo interno con naso e labbra. Il vassallo delle uve pregiate fa mulinare il nettare in bocca per un tempo indefinito. Poi va alla ricerca, rimasta inevasa, di eventuali bruscoli schizzati via. Bene, adesso può essere servito ai commensali.

Fiato sospeso in sala. Assaggia Gassman, ma su questo nessuno nutriva uno scampolo di dubbio. Da attore consumato, riproduce le fasi esatte alle quali ha appena assistito. Appare distaccato e lucido, anche quando manda giù il vino dopo averlo a lungo fatto fluttuare tra le guance. Poi attinge al massimo dal suo repertorio teatrale. Pausa immensa. Fiati che si spezzano. Quindi la sentenza: “Sa di tappo”. Gelo in sala. Tognazzi si sente svenire. Villaggio sprofonda sulla sedia. Con ecumenica deferenza il sommelier si genuflette e, cospargendosi il capo di cenere, dice che ripeterà la procedura. La gente smette praticamente di parlare. Il codazzo di valvassori trema come foglie al vento. Qualcuno evita anche di inspirare.

Ripete, l’infilzato esperto, tutta la sacra gestualità precedente. Dai tavoli disposti intorno, nel frattempo, si osserva una transumanza di curiosi: fingono di doversi recare alla toilette, ma poi si gingillano in zona. Schiena bagnata e brividi che si infilano tra le scapole. Versa un altro bicchiere. Tognazzi recita giaculatorie mantriche. Villaggio non realizza più il confine tra finzione e realtà. Gusta di nuovo Gassman, per nulla intenzionato a concedere una seconda chance. Il suo disegno è cristallino. Solita pausa, prima di confermarsi anche in appello: “Sa di tappo”.

Ora il sommelier si sente implodere e indietreggia. Spiffera convulsamente qualcosa ai suoi sottoposti. Un paio di loro vola verso il direttore di sala. Quegli altri due si sentono morire. “Ma che fai?”, sussurra Ugo, in preda al panico. “Questi ci denunciano, ci arrestano!”. Inscalfibile Gassman. Arriva il direttore. Porge le sue scuse, poi chiede di assaggiare. Vittorio lo pungola: “Sa di tappo, no?”. Quello lo scruta con l’acredine di chi non accetta di farsi sabotare la giornata: “No”, decreta. E se ne va.

Gassman erompe in una grumosa risata liberatoria. La beffa è finita. Sono tutti sani e salvi. Tognazzi è madido: non è abituato a reggere simili livelli di impudenza. Villaggio precipita la faccia nel tovagliolo. L’attore deve saper tenere il palco a qualunque costo. Vittorio fa traboccare i calici. Quell’interpretazione magistrale gli scende giù più piacevole del Bordeaux.

Da metalskunk.com/ - Estratti domenica 12 novembre 2023.

Maurizio Arena (all’anagrafe Maurizio Di Lorenzo) nasce nel 1933 a Roma, nel quartiere popolare della Garbatella, da un muratore ed una casalinga. Da giovanissimo si lega sentimentalmente per qualche tempo all’attrice Anna Arena (il suo nome d’arte è una sorta di tributo alla sua storica compagna), ben quattordici anni più grande di lui, e comincia la sua scalata verso il successo. 

Nel 1952 arriva la prima esperienza con il mondo del cinema: Maurizio ottiene un ruolo ne La figlia del diavolo di Primo Zeglio. Questa piccola parte dà il via al suo periodo d’oro, gli anni Cinquanta: in questa decade Arena recita in oltre 40 film, via via in ruoli sempre più importanti, sino ad arrivare al suo picco massimo, la trilogia di Dino Risi (in coppia con un altro gigante di quegli anni, Renato Salvatori): Poveri ma belli (1956), Belle ma povere (1957) e Poveri milionari (1959).

Già a partire dal 1956 Maurizio Arena diventa un personaggio pubblico letteralmente mastodontico, strafamoso e amatissimo in tutto il Paese, nonché protagonista indiscusso della primissima dolce vita romana di via Veneto, tra donne, macchine di lusso e paparazzi. L’aitante giovane capitolino ha tutte le caratteristiche classiche del maschio italico di quel periodo: rude, muscoloso, duro, indolente e piacione. È quasi superfluo specificarlo: in un batter d’occhio diventa un sex symbol di portata nazionale. 

Alla fine degli anni Cinquanta a Maurizio non manca nulla, anzi: in un Paese malconcio ma in fase di ripresa lui è conosciutissimo, giovane, bello e soprattutto ricchissimo. Sente, complice anche l’età, di avere il mondo in mano e nel 1960, a 27 anni ancora da compiere, decide di dare alla luce una sua creatura, un film diretto ed interpretato da lui: Il principe fusto. Sulla carta il successo è assicurato. E invece no. Arena probabilmente ha terminato il suo credito con la fortuna: la sua opera prima è un flop clamoroso. Sembra quasi che insieme agli anni Cinquanta sia finita anche la sua epopea.

(...) È in questo contesto che il Nostro ha una crisi mistica: comincia ad ostentare una sorta di religiosità sempre più invasiva e millanta di possedere doti di guaritore donategli direttamente da Dio, grazie alle quali si dice in grado di far sparire ogni male. Molta gente gli crede e nella sua enorme villa di Casal Palocco c’è la fila, anche e soprattutto perché l’ex mister muscolo del rione non chiede soldi in cambio delle sue presunte prestazioni miracolose. Probabilmente è un modo per sentirsi amato dalla gente come un tempo, visto che nel corso degli anni, insieme al successo, sono andate via sia la bellezza che la prestanza fisica. 

Per entrare nel personaggio Arena è solito ricevere i malati con indosso uno strano camicione, sul quale fa cucire dei simboli esoterici. Un cambiamento surreale, in buona sostanza, che stride pesantemente con i tratti distintivi che lo hanno reso noto.

Sulla seconda vita di Maurizio Arena si sa poco, perché l’ex divo del cinema italiano popolare degli anni Cinquanta ha sempre fatto in modo di non renderla pubblica (o comunque di farlo il meno possibile), ma le voci di corridoio, alla fine degli anni Settanta, arrivano prepotentemente alle orecchie dei media, che a quel punto cercano lo scoop: un’intervista con l’amato protagonista di uno dei più grandi successi della storia del cinema nostrano, Poveri ma belli, che si autodefinisce un santone in grado di guarire i tumori grazie all’intercessione di Cristo oggettivamente non è roba da tutti i giorni.

È proprio in questo periodo che l’ex principe fusto della Garbatella si concede alla televisione nazionale per ben due volte: il 19 febbraio del 1979 è ospite di Maurizio Costanzo in una puntata di Acquario, la trasmissione dalla cui costola qualche anno dopo nascerà il popolarissimo talk show serale di Fininvest/Mediaset; il primo novembre dello stesso anno, invece, compare in uno speciale di Rai 2 dedicato al mondo dei paparazzi. 

Nel programma di Costanzo, Arena si presenta molto cambiato rispetto ai tempi andati: è in evidente sovrappeso e dimostra circa dieci in più rispetto alla sua età effettiva. Rifiuta la definizione di guaritore, ritenendola limitante, perché – spiega senza remore – lui è in grado anche di guarire le persone a distanza. L’attore romano è un fiume in piena e prosegue tirando fuori una sorta di supercazzola a base di cristianesimo, esoterismo, filosofie orientali, sedute spiritiche (tra le tante cose, si dichiara pure medium) e guarigioni miracolose, asserendo inoltre che le sue presunte capacità siano un dono divino.

Nel secondo troncone del programma Arena si confronta con un medico. I due hanno ovviamente posizioni antitetiche. La trasmissione prosegue insieme ad altri ospiti, ma il canovaccio rimane praticamente invariato. Il gran finale è un autentico capolavoro: Costanzo lascia uno spazio libero all’ospite principale, il quale si alza, fa il segno della croce e guarda verso la telecamera imponendo le mani senza dire nulla. Interrogato subito dopo dal presentatore riguardo la sua scelta comunicativa, diciamo così, Arena spiega che ciò che ha fatto “arriva dove deve arrivare” e invita chiunque abbia tratto benefici dal suo gesto a scrivere alla redazione. L’ex divo capitolino, in parole povere, afferma in maniera abbastanza esplicita di aver effettuato una (forse anche molteplici) guarigione a distanza in diretta televisiva.

Il taglio del servizio di Rai 2 è molto diverso. In questa occasione Arena ha un atteggiamento completamente differente rispetto a quello avuto nel salotto di Costanzo: a tratti è quasi aggressivo e, grazie anche all’argomento portante dello speciale (il mondo dei paparazzi, ricordiamolo), spazia maggiormente tra gli argomenti, sino ad arrivare a togliersi qualche sassolino dalla scarpa. 

Afferma senza mezzi termini di essere stato usato dal mondo del cinema, il quale, secondo lui, nel momento in cui ha tentato di crearsi una carriera indipendente da regista lo ha boicottato al punto da dare il via al suo declino artistico. Il prosieguo dell’intervista è sempre su questa linea: Arena si dice convinto di aver ispirato La dolce vita di Fellini (1960), perché a suo parere il protagonista del film (il giornalista di gossip Marcello Rubini, interpretato da Mastroianni) ha tanto in comune con lui. In una sorta di climax malinconico, Maurizio continua i suoi racconti parlando del carattere impetuoso che aveva ai tempi d’oro, da ventenne ricco e famoso, e dei vizi avuti in gioventù, contrapponendo quel periodo ormai andato al suo presente da mistico benefattore che aiuta il prossimo senza chiedere nulla in cambio, tra citazioni bibliche e infermi guariti in maniera prodigiosa dalle sue capacità.

L’epilogo della movimentata esistenza di Maurizio Arena è paradossale: venti giorni dopo la sopracitata intervista, il divo di borgata muore stroncato da un infarto, diretta conseguenza di una grave infezione renale che lo affliggeva da tempo. Poco più di un mese dopo avrebbe compiuto 46 anni. 

L’ex bullo romano che negli anni Cinquanta aveva regalato momenti lieti e scanzonati ad un’Italia ingenua e speranzosa e che circa vent’anni dopo, in un contesto completamente diverso, probabilmente si era anche illuso di poterla curare nello spirito e nel corpo, non riuscì preservare se stesso dal male, sia quello fisico che quello mentale. In un certo senso rimase per sempre povero ma bello, com’era giusto che fosse. (Il Messicano)

Estratto dell’articolo di Elvira Serra per corriere.it sabato 8 luglio 2023. 

Danny Quinn: il ricordo più bello di suo padre?

«Quando faceva Zorba a Broadway. Vederlo felice mentre lo applaudivano è stato uno dei momenti più gioiosi. C’eravamo tutti: io, mamma, i miei fratelli Lorenzo e Francesco». 

E il più brutto?

«Forse uno dei più difficili è stato quello del divorzio».

Suo padre era violento?

«No, anzi, per favore correggiamo questa cosa. L’ho visto mettere le mani addosso a mia madre una volta sola nell’arco di 30 anni, ed è quello che ho raccontato agli avvocati durante il loro divorzio». 

Quando eravate piccoli non vi picchiava con la cinta?

«No, anche quello è successo solo una volta e fu buffo, a suo modo, ma non potevo ridere sennò avrei peggiorato le cose. Non ricordo cosa avessimo combinato, eravamo tremendi. Era stata mia madre a chiedere l’atto disciplinare». 

Forse avevate dato fuoco a qualcosa?

«No, quello era Lorenzo». 

Ma lei aveva incendiato un banco di scuola dai Giuseppini, a Roma. E fu espulso.

«Io non ero proprio un incendiario, ero un fumogeno: avevo dato fuoco a della carta, senza calcolare che il banco era di legno; e prese fuoco...». 

Tornando alla punizione?

«Ci mise in fila e ci dette delle cinghiate sulle cosce, ma non ricordo che ci abbia fatto male. Mi sembrava una cosa degli antichi romani, molto scenografica». 

Però raccontò di aver preso in generale più botte di tutti.

«No. Una volta mio padre mi diede uno schiaffo, l’unico, ma eravamo a tavola e me lo presi in faccia perché avevo parlato fuori turno. Ma io parlo sempre fuori turno!». 

Allora era severo.

«Certo, per forza!». 

(...)

Apriamo la scatola dei suoi fratelli: ho calcolato 12 figli.

«Quando siamo nati noi tre lui ne aveva già 5 dal primo matrimonio. Chris era morto piccolino a 3 anni in piscina, infatti con la mia bambina ho il terrore, ma adesso che ha 5 anni va a scuola di nuoto».

Dunque: Chris, Christina, Catalina, Duncan, Valentina. Poi siete nati voi, dal matrimonio con Jolanda Addolori.

«Francesco (scomparso nel 2011, ndr), io e Lorenzo». 

Sean e Alex?

«Sono nati durante il matrimonio con mia madre da una tedesca che è appena morta. Ma c’è anche Matthiew, concepito con una francese: lui non ha mai voluto nessun rapporto con noi o con mio padre». 

Ci sono, infine, Antonia e Ryan, avuti con l’ex segretaria che poi sposò. E siamo a 13.

«Però Raúl Juliá jr mi disse che ne aveva altri due a Città del Messico. Forse faremo un progetto per cercarli». 

Vi siete mai visti tutti?

«No, ma non per cattiveria: abitiamo lontani e abbiamo vite diverse. Ryan, il piccolo, l’ho incontrato a Barcellona. Vorrei organizzare qualcosa, magari in America». 

(...) 

Sarà stato difficile condividere il suo papà...

«No, perché sinceramente non era condiviso. Il problema era per gli altri fratelli, semmai. Uno, in particolare, raccontò che vide per strada me, papà e Lorenzo, ma gli proibirono di avvicinarsi».

In casa non ne parlavate?

«Ricordo solo una conversazione a tavola, a 16-17 anni: mio padre diceva che aveva fatto un errore e voleva chiuderla lì. Con la tedesca, però, aveva fatto lo stesso errore due volte di seguito...». 

È stato un po’ difficile essere figlio di Anthony Quinn?

«No, semmai me lo sono reso difficile. Perché in realtà era bellissimo: ovunque andassimo la gente lo riconosceva e spalancava le porte». 

(...)

Ripensa ogni tanto al «suo» Sanremo dell’89?

«Per farlo ci vogliono tre mesi di preparazione: noi abbiamo avuto solo 10 giorni...».

(...)

Dove sono i due Oscar vinti da suo padre?

«È un tema delicato perché purtroppo mio padre ha lasciato la sua eredita all’ultima moglie: è anche sepolto su una proprietà privata».

Non può andarlo a trovare?

«Non è nelle mie corde, ma non so come funziona». 

Com’è possibile che abbia lasciato l’intera eredità a lei?

«In America puoi lasciarla anche al gatto. Può essere spiacevole, ma più per le cose sentimentali, per l’arte: mio padre era scultore e pittore, realizzò tantissime opere». 

Una parte non è a Roma?

«No, fece trasportare tutto negli Stati Uniti». 

È riuscito a salutarlo prima che morisse?

«Not really. Lui era a letto, e mio fratello gli ha avvicinato la cornetta. Non mi rivolgeva la parola da 5 anni. Aveva smesso di parlare solo con me, perché avevo preso le parti di mia madre nel divorzio».

(...)

 Danny Quinn, figlio di Anthony: «Gli altri 12 figli di papà, Chris morto a 3 anni in piscina e tutta l’eredità all’ultima moglie». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 31 Maggio 2023

Il divorzio e la lite: «Non è vero che fosse violento, ma era severo. Non mi rivolgeva la parola da cinque anni perché durante il divorzio avevo preso le parti di mamma»

Danny Quinn: il ricordo più bello di suo padre?

«Quando faceva Zorba a Broadway. Vederlo felice mentre lo applaudivano è stato uno dei momenti più gioiosi. C’eravamo tutti: io, mamma, i miei fratelli Lorenzo e Francesco».

E il più brutto?

«Forse uno dei più difficili è stato quello del divorzio».

Suo padre era violento?

«No, anzi, per favore correggiamo questa cosa. L’ho visto mettere le mani addosso a mia madre una volta sola nell’arco di 30 anni, ed è quello che ho raccontato agli avvocati durante il loro divorzio».

Quando eravate piccoli non vi picchiava con la cinta?

«No, anche quello è successo solo una volta e fu buffo, a suo modo, ma non potevo ridere sennò avrei peggiorato le cose. Non ricordo cosa avessimo combinato, eravamo tremendi. Era stata mia madre a chiedere l’atto disciplinare».

Forse avevate dato fuoco a qualcosa?

«No, quello era Lorenzo».

Ma lei aveva incendiato un banco di scuola dai Giuseppini, a Roma. E fu espulso.

«Io non ero proprio un incendiario, ero un fumogeno: avevo dato fuoco a della carta, senza calcolare che il banco era di legno; e prese fuoco...».

Tornando alla punizione?

«Ci mise in fila e ci dette delle cinghiate sulle cosce, ma non ricordo che ci abbia fatto male. Mi sembrava una cosa degli antichi romani, molto scenografica».

Però raccontò di aver preso in generale più botte di tutti.

«No. Una volta mio padre mi diede uno schiaffo, l’unico, ma eravamo a tavola e me lo presi in faccia perché avevo parlato fuori turno. Ma io parlo sempre fuori turno!».

Allora era severo.

«Certo, per forza!».

E poi come altro era?

«Papà è stato un magnifico uomo, con una curiosità immensa e un grande amore per la vita, in tutte le sue forme. Era molto colto, gli piaceva leggere, aveva 5 mila libri. A casa nostra venivano Gore Vidal, Oriana Fallaci, molto simpatica: a me sono sempre piaciute le donne dure, l’ho trovata giusta; e poi, per andare d’accordo con mio padre...».

Cos’ha preso da lui?

«Aveva un grande senso dell’umorismo, amava la gente, gli piaceva ridere, era generoso. Io amo la gente semplice, mi interessa aiutare gli altri e mi piace ridere. Ma mentre a lui piaceva raccontare le barzellette, il mio senso dell’umorismo è più inglese».

Il film che ha rivisto di più?

«Lawrence d’Arabia, non solo perché c’era mio padre, ma perché è uno tra i 10 più belli della storia del cinema».

Ha recitato con lui e con i suoi 2 fratelli in «Stradivari», nel 1988. Fu emozionante?

«Se sei figlio di un attore è quasi preferibile passarci del tempo a livello personale e non professionale. Ma in quell’occasione era rilassato, tranquillo, ed è stato bello passare del tempo insieme».

Chissà gli attori leggendari a casa vostra. John Wayne?

«Yes. Ero molto piccolo, ricordo il suo vocione (lo imita, ndr): Hey, how are you doing kid? Io guardavo in alto, lui era un metro e 92, un gigante...».

Altri miti?

«Casa nostra ad Albano Laziale era isolata, ma gli amici venivano a trovarlo. Mio padre frequentava molto Gregory Peck, un personaggio quieto e tranquillo, gli piaceva ascoltare, era bello vederli vicini, due caratteri opposti. Un altro era Don Rickles, comico cattivissimo, insultava tutti, ma aveva una grande umanità. Alla fine della carriera mio padre divenne molto amico di Robert De Niro e Scorsese».

Apriamo la scatola dei suoi fratelli: ho calcolato 12 figli.

«Quando siamo nati noi tre lui ne aveva già 5 dal primo matrimonio. Chris era morto piccolino a 3 anni in piscina, infatti con la mia bambina ho il terrore, ma adesso che ha 5 anni va a scuola di nuoto».

Dunque: Chris, Christina, Catalina, Duncan, Valentina. Poi siete nati voi, dal matrimonio con Jolanda Addolori.

«Francesco (scomparso nel 2011, ndr), io e Lorenzo».

Sean e Alex?

«Sono nati durante il matrimonio con mia madre da una tedesca che è appena morta. Ma c’è anche Matthiew, concepito con una francese: lui non ha mai voluto nessun rapporto con noi o con mio padre».

Ci sono, infine, Antonia e Ryan, avuti con l’ex segretaria che poi sposò. E siamo a 13.

«Però Raúl Juliá jr mi disse che ne aveva altri due a Città del Messico. Forse faremo un progetto per cercarli».

Vi siete mai visti tutti?

«No, ma non per cattiveria: abitiamo lontani e abbiamo vite diverse. Ryan, il piccolo, l’ho incontrato a Barcellona. Vorrei organizzare qualcosa, magari in America».

Lei ha una sola figlia.

«Luna. Mia moglie, Nancy Maamari, è libanese, conduceva un programma a Beirut. L’ho conosciuta in Sardegna».

Sicuro di non averne altri?

«No, grazie al cielo! È già tanto se ne ho avuto una».

Sarà stato difficile condividere il suo papà...

«No, perché sinceramente non era condiviso. Il problema era per gli altri fratelli, semmai. Uno, in particolare, raccontò che vide per strada me, papà e Lorenzo, ma gli proibirono di avvicinarsi».

In casa non ne parlavate?

«Ricordo solo una conversazione a tavola, a 16-17 anni: mio padre diceva che aveva fatto un errore e voleva chiuderla lì. Con la tedesca, però, aveva fatto lo stesso errore due volte di seguito...».

È stato un po’ difficile essere figlio di Anthony Quinn?

«No, semmai me lo sono reso difficile. Perché in realtà era bellissimo: ovunque andassimo la gente lo riconosceva e spalancava le porte».

È mai stato in analisi?

«Sì, sono andato da tre analisti in America, ma la più profonda era una junghiana a Milano. Ho scritto un libro sulla creazione responsabile: lo devo pubblicare».

Ripensa ogni tanto al «suo» Sanremo dell’89?

«Per farlo ci vogliono tre mesi di preparazione: noi abbiamo avuto solo 10 giorni...».

A livello cinematografico avrebbe voluto fare di più?

«Penso di non aver ancora cominciato, ho fatto solo la gavetta! La mia idea è fare un film che io stesso vorrei vedere. Ho avuto una conversazione con De Niro, che ha la stessa problematica dei figli con un padre famoso. Secondo me c’è troppa enfasi su quello che fai anziché su chi sei».

Dove sono i due Oscar vinti da suo padre?

«È un tema delicato perché purtroppo mio padre ha lasciato la sua eredita all’ultima moglie: è anche sepolto su una proprietà privata».

Non può andarlo a trovare?

«Non è nelle mie corde, ma non so come funziona».

Com’è possibile che abbia lasciato l’intera eredità a lei?

«In America puoi lasciarla anche al gatto. Può essere spiacevole, ma più per le cose sentimentali, per l’arte: mio padre era scultore e pittore, realizzò tantissime opere».

Una parte non è a Roma?

«No, fece trasportare tutto negli Stati Uniti».

È riuscito a salutarlo prima che morisse?

«Not really. Lui era a letto, e mio fratello gli ha avvicinato la cornetta. Non mi rivolgeva la parola da 5 anni. Aveva smesso di parlare solo con me, perché avevo preso le parti di mia madre nel divorzio».

Se potesse stare con lui un altro minuto cosa gli direbbe?

«Che bella questa avventura meravigliosa sulle montagne russe. E lo abbraccerei».

Ha dei rimpianti?

«Non vivo di rimpianti. Certo, sarebbe stato meglio se non avesse fatto altri figli fuori dal matrimonio».

A cosa sta lavorando ora?

«A un film su mio padre, ma forse sarà anche una serie tv, un documentario o altro, perché mio padre ha fatto 300 film in America, in Italia, in Medio Oriente, in Giordania, Libia, Marocco. Sto lavorando con i Quinn Studios di Valentina Castellani: mio fratello Francesco morì un mese prima di sposarla. Ora ha preso tutto in mano Miramax. Per me è importante farlo, non dico per chiudere un capitolo, ma per rimettere in ordine, portare chiarezza».

E dopo?

«E poi farò film che hanno un impatto sulla gente, che possano trasmettere un messaggio di crescita. Tipo Instersellar: quello è il mio genere».

Alex Baroni moriva 21 anni fa: l’incidente in moto, il coma, il ricordo dei fan. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 13 Aprile 2023

Il cantante ha perso la vita ad appena 35 anni, ma non è mai stato dimenticato

La scomparsa 21 anni fa

Il 13 aprile 2002 moriva Alex Baroni: una scomparsa prematura per il cantante milanese che aveva appena 35 anni ed è rimasto ucciso in un terribile incidente stradale. La sua figura, però, non è mai stata dimenticata e continua ad avere un peso importante nel panorama della musica italiana

La dinamica dell’incidente

Alex Baroni è vittima di un tragico incidente nel pomeriggio del 19 marzo 2002: sta guidando la sua moto lungo la circonvallazione Clodia a Roma quando viene travolto da un’auto che sta facendo inversione di marcia in un punto vietato. Sbalzato dalla moto, viene investito da un’altra macchina. L’autista che lo ha investito, inizialmente considerato responsabile dell’incidente, anni dopo è stato assolto: la causa dello scontro sarebbe stata l’alta velocità di Baroni in moto (che viaggiava anche con il casco slacciato)

Il coma

Le condizioni di Alex Baroni dopo l’incidente appaiono subito disperate: viene ricoverato in terapia intensiva all’ospedale Santo Spirito ed è in coma irreversibile. Muore dopo 25 giorni, la mattina del 13 aprile. Viene sepolto a Milano, nel cimitero di Greco

Il legame con Giorgia

Alex Baroni aveva avuto una relazione con Giorgia, finita pochi mesi prima dell’incidente. Anche se il loro amore era finito (la cantante ha rivelato anni dopo che lui al momento della morte frequentava un’altra persona), l’affetto è rimasto immutato nel tempo, tanto che per il ventesimo anniversario della sua scomparsa Giorgia gli ha dedicato un pensiero, scrivendo sui social «il tempo non cancella niente»

La vicinanza dei fan

L’agonia di Alex Baroni nei giorni di coma è stata vissuta con grande vicinanza dai suoi fan: amici, colleghi ed estimatori prendevano d’assalto l’ospedale, il suo sito veniva sommerso da e-mail in cui veniva manifestato tutto il dolore e l’incoraggiamento possibile. Un affetto che non si è mai spento negli anni successivi

Estratto del libro “L’insostenibile pesantezza del sublime – Esempi di stupidità contemporanea” di Roberto D’Agostino - 1989

UN DIALOGO PER CAPELLO – Da “Europeo” 

Aldo Busi interroga Carmelo Bene 

Bene: “Ho disfatto il Teatro e mi avventuro da solo nel Nulla. Mi resta la nostalgia del presente. Mi sono sbarazzato del Tempo autocommiserandomi a pensare all’adesso che mi manca. Il mio è un abbandono totale: dal mondo, dalla volontà, dalla rappresentazione. Legga Schopenauer, è già tutto scritto. Ma ciò che scritto è ancora testo: mi son disfatto anche di quello, perché la parola scritta non smargina. Bisogna uscir di pagina, uscir di sé, uscir di senno.

Solo Sade ha fatto il miracolo, servendosi della scrittura. Solo io ho fatto il miracolo, servendomi della parola. Per questo dico che ho abbandonato l’al di qua e il mio avvenire è già passato. Io e Sade siamo due divini, lui è marchese, io no. Buonanotte”. 

Busi: “Basta! Ne ho le palle piene di Lacan, Deleuze e di questa sua ecolalia. Voglio sapere di lei. Perché parla male degli omosessuali. Che rapporto ha con gli assessori e i socialisti. Come ottiene i finanziamenti. Perché mai lei sa essere divertente, umano, vero, quando è tra amici come io l’ho vista a Forte dei Marmi, e perché invece stasera parla come un fantoccio. Voglio sapere cosa prova quando si è sverginato e come fa l’amore”. 

Bene: “Ma lei cosa vuole? Io non mi occupo di codeste cose; legga la mia autobiografia, troverà di che cibarsi”. 

Busi :”La sua autobiografia la leggerò quando mi pare. Risponda!” 

Bene: “Ma che cosa vuole?...Al telefono mi disse: voglio vederla per una sera intera, sarò il suo fantasma. Si ricordi che i fantasmi stanno in silenzio e sono più educati”. 

Busi: “Cosa?!? I fantasmi parlano, gridano addirittura. Io li ho intorno quando scrivo, me li porto dentro i fantasmi!”

Bene: “Allora ne riparleremo a cena, l’ho invitata no?” 

Busi: “Risponda! Il mio tempo è prezioso. Vengono perfino da New York per intervistarmi e io rispetto chi lavora, lei rispetti me. Risponda!” 

Bene: “Mai! E non gridi! Son io l’ospite! E di lei mi disoccupo: niente più cena”

Busi: “Non scriverò di lei, me ne vado…”

Prezzolini, Gentile, Duce. Com'era conservatore il lettore Carmelo Bene. Luigi Mascheroni il 27 Maggio 2023 su Il Giornale.

Dopo i libri, ora inizia la catalogazione del resto dell'archivio: manoscritti, film, lettere, agende...

L'eredità di un genio è difficile da collocare. Lui potrebbe prenderla a male. E se il luogo non fosse all'altezza? Se fossero delle stanzucce borghesi-borghesi? O se fosse una location fornita dalla burocrazia statale? (E poi, location: che parola orribile, Lui la detesta!). O se fosse troppo spettacolare? Ci vuole poco a scivolare nel kitsch... Scegliere è difficile, soprattutto se Lui ha il carattere che ha.

Invece la sua Puglia ha scelto col superlativo assoluto del suo cognome: Benissimo. Lo spazio in cui è stata collocata l'eredità materiale di Carmelo Bene (1937-2002), pugliese di Campi Salentina, Càmpie, al confine fra Lecce e Brindisi, in bilico fra teatro e poesia, è perfetto: ampio, luminosissimo, color della pietra leccese, fra il bianco e il giallo della paglia. Tre lunghe sale i cui finestroni ad arco si affacciano sull'antica chiesa del Carmine, pieno centro storico, piena esuberanza barocca, e l'adiacente convento dell'ordine dei fratelli della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo. Il nome è un destino. Il sacro e il Profeta.

Benvenuti all'Archivio Carmelo Bene, dentro gli spazi dell'ex Convitto Palmieri di Lecce, la sua città, premio e castigo, nella terra di Puglia, fra Magna Grecia e Grecia Salentina. Acquistato dalla Regione Puglia nel 2019 per 160mila euro dopo una annosa vicenda legale, fra testamenti impugnati e volontà disattese (come la fondazione «L'Immemoriale», poi cancellata) grazie a un accordo firmato con le eredi di Carmelo Bene, la vedova Raffaella Baracchi e la figlia Salomè (senza la volontà delle quali tutto ciò non sarebbe stata possibile), poi allestito al piano nobile del Convitto Palmieri, dove ha sede anche la Biblioteca provinciale Nicola Bernardini, l'archivio è stato aperto al pubblico nel settembre 2021, con la cura di Brizia Minerva. Ma oggi è il direttore Luigi De Luca ad accompagnarci nella visita. Di qua una lunghissima libreria a parete con i 4600 volumi della biblioteca personale di Carmelo Bene che era per lo più nella sua Casa dei teatri di Villa Doria Pamphilj a Roma. Là una ventina di abiti di scena fra quelli che si sono salvati dalla dispersione e che erano custoditi nella casa di Otranto: costumi per Otello, Hommelette for Hamlet, Riccardo III, Pinocchio, La cena delle beffe, Macbeth-Horror Suite. E tutt'intorno alcuni oggetti personali: una poltrona, lo specchio (che per un attore, e tanto più per un genio, è tutto), il suo enorme televisore, alcune locandine storiche dei suoi spettacoli, e persino i due grandi angeli «berniniani» realizzati dall'artista Gino Marotta, legatissimo a Carmelo Bene, per lo spettacolo Hommelette for Hamlet del 1987 e che proprio grazie alle scenografie vinse il Premio Ubu.

Più che un nudo archivio, è un piccolo museo. Apparentemente un frammento dell'immenso lavoro creativo di Carmelo Bene - che fu attore, regista, drammaturgo, filosofo, scrittore e poeta - in realtà un generatore di progetti «carmelitani»: film e documentari, spettacoli, mostre, tesi di laurea, studi, ripubblicazioni... Come dice il direttore Luigi De Luca, «Carmelo Bene non è mai morto». E sì che manca ancora la parte più bella.

Eccola qui, in una stanza-deposito accanto: 117 scatoloni sigillati consegnati dalla vedova e dalla figlia, pieni di materiale in attesa di essere archiviato e digitalizzato. Ora la notizia è che l'archivio Carmelo Bene ha ottenuto dal governo 400mila euro per catalogare il tesoro sepolto nelle casse e poi mettere tutto su una piattaforma digitale, open access. Disponibile a tutti, gratuitamente. Un numero per ora imprecisato di manoscritti e dattiloscritti («Tra cui almeno un inedito, forse di più: di certo qui dentro c'è il poema Achilleis-Leggenda», si dice sicuro il direttore dell'archivio) e poi cassette Vhs, foto di scena, film, registrazioni, dischi, locandine e poster, lettere, articoli di giornale, altri libri appuntati, agendine... La memoria cartacea di Carmelo Bene.

Per il resto, eccoci qui a sfogliare la grande biblioteca Wunderkammer di un uomo di teatro, di visioni e di parole che ha lasciato detto: «Non si può essere autori di un'opera d'arte, bisogna diventare capolavori». Immaginavamo che la sua libreria potesse presentare sorprese. E infatti. Fra i suoi volumi, soprattutto di storia dell'arte, di teatro e di letteratura, molti annotati, spuntano nomi e titoli spiazzanti. Gli scaffali, anche solo a un veloce sguardo curioso, rivelano letture all'epoca non così accreditate, tenendo conto che la biblioteca - immaginiamo - sia stata costruita soprattutto fra gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. Forse perché abbiamo l'occhio allenato su certi dorsi, ma fra le fonti che hanno formato lo scrittore-regista, fra i testi e le filosofie che hanno costruito il suo immaginario, subito scorgiamo il grosso volume antologico con La Voce di Giuseppe Prezzolini nell'edizione Rusconi del 1974. Poi Il Papa di Joseph De Maistre, un Classico Rizzoli del 1984 con la custodia in cartoncino. Ci sono i saggi di Juan Donoso Cortés. C'è l'opera omnia di Benito Mussolini (da notare che l'edizione è quella di Ciarrapico, dunque recente: impossibile pensare a una eredità, molto più probabile l'abbia comprata lui). Ci sono testi di Giovanni Gentile. Di Friedrich Nietzsche e di Max Stirner. C'è la triade italiana Pascoli-d'Annunzio-Pirandello con tutti i testi nell'edizione Ricciardi. C'è la triade modernista Joyce-Eliot-Pound (e tanto Borges). C'è il poeta Friedrich Hölderlin. Ci sono moltissimi testi di religione, dalla Storia dei Papi di Ludwig von Pastor (edizione completa) alle opere del «dottore mistico» Juan de la Cruz, da quelle di Maddalena de' Pazzi a Santa Teresa d'Avila fino alla Leggenda Aurea di Jacopo da Varazze. E c'è la raccolta di saggi L'ortodossia di G.K. Chesterton. Quanto di più eterodosso ci possa essere per certa ortodossia del pensiero. Ma trattandosi di Carmelo Bene tutto, ovviamente, torna.

Testo di Giancarlo Dotto, L'Espresso, 15 marzo 2012. Intervista raccolta nell’estate del 1997 

Dieci anni dopo la sua morte, l'ho trovato in fondo a un cassetto. Un vecchio nastro. Un Carmelo Bene inedito che si diffonde sulle sue predilezioni e repulsioni letterarie, in fondo a una delle tante notti insonni nel suo eremo di Otranto, estate del 1997. Dell'opera di Bene si sa e si è scritto tutto, tranne l'indispensabile. 

Ancora prima che reinventare l'attore a teatro, ancora prima che ripensare il cinema e la tv, la letteratura e il verso, dislocare la voce dal corpo, il suono dal significato e l'atto dall'intenzione, la sua impresa, certosina, implacabile, è stata quella di diventare Carmelo Bene. E cioè mito a se stesso, mito trai miti, di un mitomane nato. Che, da bambino, andava a frugare sotto le vesti delle Madonne di cartapesta, in attesa di diventare la loro apparizione preferita. Quella notte iniziammo a parlare di miti sportivi, da Edberg a Van Basten e finimmo a parlare di miti letterari.

Cominciamo dai tedeschi e da Goethe. Risulta che non l'hai mai amato. Il tuo Fausta teatro è quello di Marlowe.

Lo trovo troppo esemplare, Goethe. Troppo esemplare e a sproposito. È anche per questo che André Gide lo stronca come si deve nelle sue note sull'Egmont. Peraltro stroncato per la concertistica anche dal suo amico Schiller, un altro poco interessante nei suoi conflitti morali. Virando in positivo? 

M'interessa molto Von Chamisso. Il suo Peter Schlemihl è il Faust più grande, dove l'anima da perdere è l'ombra. Gigantesco. Aggiungo il Rilke delle Elegie duinesi. 

Aspetterei una citazione dei tuo Hölderlin.

Sono d'accordo con don Benedetto Croce: per trovare una perla in Hölderlin bisogna scorrere tante cose cristologiche o teocratiche. L'ho anche tradotto, io. Dio mi perdonerà. No, non mi perdona perché non c'è. Sono io a perdonargli l'assenza. Certo, dove svetta, Hölderlin, svetta su tutti. Ci sarebbe poi un boemo di lingua tedesca. Su tutti, non ci piove, inarrivabile, Franz Kafka. Ho cominciato a leggerlo a quindici anni, ma non ero pronto. Troverò prima o poi il tempo di stilare un mio saggio sul «comico» in Kafka. E, quando parlo di comico, non intendo la consolazione del riso, ma il cianuro del porno. 

Continuiamo il gioco. Siamo in Spagna.

E qui non si finisce mai. La leggo in lingua la letteratura spagnola. Dico Gòngora, Quevedo, Antonio Machado. Naturalmente Pedro Calderòn de la Barca.

Tirso de Molina, il prete drammaturgo?

Non m'interessano i teatranti. 

Cervantes?

Ovvio. Non solo quello del Don Chisciotte, ma anche Vetrada, il dottore che si crede fatto di vetro e vive nel terrore di essere infranto, da cui il mio omaggio teatrale negli anni eroici delle cantine.

García Lorca?

Cose per la maggior parte da buttar via, pur essendo Lorca tra i più grandi simbolisti. Prendo quello del Paesaggio americano. Ci metto, il filosofo Unamuno con i suoi limiti. Nel suo commento al Don Chisciotte e Sancio- Panza ci sono cose interessanti. 

È il momento per affrontare i portoghesi.

Portoghese è il mio romanziere preferito: Eça de Queiroz. Il suo Illustre casata Ramires è un ceffone alla nobiltà, uno schiaffo all'araldica, di una desolazione sconfinata, le atmosfere gelate dei film di Joáo Monteiro. De Queiroz è uno dei miei dieci autori prediletti. 

Con i francesi il discorso si fa sterminato.

Inizio da François Villon a Rabelais, per restare nel Cinquecento. Se poi si passa al Sette-Ottocento, si va ai pazzi. Èmile Zola in primis. La bestia umana, una crudezza inaudita, il fango al fango. Lo metto trai dieci assoluti.

Più di Flaubert e Maupassant? Assolutamente. Di Flaubert prendo quello dei Racconti più che Bovary e Salambò. E poi tanto Balzac. Anche qui non dico Papà Goriot ma Sarrasine, quindici paginette e un miracolo della penna. Il mio francese preferito è, però, Villiers de L'Isle-Adam. Lo amo da sempre. E poi Sade, chiaramente. Come si fa a non citarlo?

Tra Baudelaire, Verlaine e Rimbaud?

Dico Tristan Corbière, più di Verlaine e di Rimbaud, più di qualunque altro poeta francese. Certo de Nerval, tanto in versi quanto in prosa. Di Baudelaire prendo, oltre a Les fleurs du mal, il suo interessamento a Poe e a Delacroix. 

Nella casa romana hai l’opera completa di Stendhal. Cinquanta torni. Non tanto e non solo Il rosso e il nero o La Certosa, a cominciare da quando, diciassettenne, scriveva le sue prime recensioni musicali, i suoi studi su Rossini. Con i francesi non si finisce più.

È quasi l’alba e mancano gli inglesi, i russi, gli italiani.

Qui rischiamo il manicomio. Con gli inglesi ci perdiamo del tutto. Da Chaucer alla grande vendemmia elisabettiana, Marlowe, Shakespeare, fino a John Donne, sopra tutto e tutti. Lo stesso Oscar Wilde, quello grandissimo de La ballata del carcere di Reading. 

La tua più grande dichiarazione d'amore rho sentita però per un dublinese.

L'Ulisse di Joyce fu la svolta dei miei anni giovanili. Nulla fu più come prima. Illeggibile nella versione francese di Valery Larbaud e dello stesso Joyce, ci vuole la traduzione italiana di Giulio de Angelis per riscattarlo. L'inglese moderno deve tutto a un irlandese come Joyce e a un americano come Ezra Pound. Irlandese d'origine era l'enorme Jonathan Swift. 

Lo stesso Bernard Shaw.

Non mi riguarda molto. Come non mi riguarda Samuel Beckett. Lo capisco talmente che non m'interessa.

Parliamo di Walt Whitman, per entrare nel mondo anglo-americano.

Non m'interessa. C'è piuttosto Henry James, in quanto rovescio di Joyce. C'è soprattutto il sublime Nathaniel Hawthorne, non tanto nella Lettera scarlatta ma nei racconti. Ha ragione Borges a consigliarli. Melville gli dedica il suo Moby Dick.

C'è il grande Francis Scott Fitzgerald.

L'infinito Francis Scott Fitzgerald. Un fratello per me. Uno che nega il tempo, non c'è infanzia, con lui non si è mai nati. Prendo i suoi romanzi brevi, Il prezzo era alto su tutti. Una penna magistrale che, a tratti, parrebbe giornalistica tanto butta giù rapido. Superbo e insuperato. 

Ernest Hemingway?

Appartiene al grande giornalismo. M'interessa molto, ma molto meno di Fitzgerald. 

Gli scrittori e poeti della Beat Generation?

A morte. Tutti da fucilare. Corso, Ferlinghetti, Ginsberg. Il William Burroughs del Pasto nudo. Kerouac?

Ha scritto delle cosine meno gravi, ma se ne può fare a meno benissimo.

La Beat Generation è stata sopravvalutata, come la Nouvelle Vague francese. Godard mi fa schifo, come tutto il cinema francese.

Charles Bukowski. Mai incrociato?

Ma sì, come Nabokov. Li ho aperti e chiusi. Non c'è tutto questo tempo disponibile. Lo stesso Zivago. Sono un ammiratore di Boris Pasternak, ma l'ho lasciato a metà. Però ha ragione Majakovskij: «Chi non conosce il russo perde due cose, Puskin e Pasternak ». Restando in terra russa, preferisco Gogol' a Gor'kij. 

L'italiano da affinità elettive?

 Il più grande, a tutt'oggi, rimane Matteo Maria Bandello, il novelliere. Ma, la manzoniana Storia della colonna infame è forse il più grande libro di tutta la letteratura italiana d'ogni tempo. Più della Vita Nova, più d'ogni cosa. È un miracolo scritto da un cattolico.

Il tuo Dante?

È come Chaucer o Shakespeare per gli inglesi. Pozzi senza fondo, troppo vasti per parlarne, tali che a un certo punto si smarrisce anche la tua deferenza. Certo, tra i poeti italiani il sommo resta Dino Campana. Nessuno, nemmeno Leopardi, arriva ai Canti orfici. Abbiamo omesso qualcosa di fondamentale? Ho taciuto Cime tempestose che è l'opera romantica più importante d'Europa, e forse non solo romantica. Georges Bataille mette quello di Emily Brontë fra gli undici libri della storia umana. Sono d'accordo. 

Ce n'è abbastanza perché possa anche tu stilare il tuo santuario della letteratura di ogni tempo.

L'Iliade in testa a tutto. Ecco, li c'è il bacio della Grazia in fronte all'orbita vuota di chi l'ha scritta. Si chiami Omero o qualsivoglia, l'Iliade è follia pura, nella versione di Einaudi. Tutte le altre sono da cestinare. A seguire ci metto l'Ulisse di Joyce e poi Cime tempestose. Franz Kafka tutto, anche avesse scritto solo la Descrizione di una battaglia, un raccontino. Basterebbe qualunque pagina di Kafka. Di Zola abbiamo detto. Si è fatta l’alba e non abbiamo toccato i latino-americani. Ne parleremo alla prossima veglia 

(Questa intervista è tratta da Carmelo Bene Si può dire solo nulla, a cura di Luca Buoncristiano e Federico Primosig, volume di oltre 1.700 pagine che raccoglie tutte le sue interviste appena pubblicato

da II Saggiatore)

Curzio Maltese, la Repubblica, 20 novembre 2000

Nella stanza rossa dell’attesa, la notizia colpisce alle spalle: «Carmelo Bene è morto, per favore non pubblichi foto, soltanto spazi bianchi». Una sciagura, ma poiché a dare il prematuro annuncio è lo stesso defunto, se ne può discutere. È l’inventore di divini spettacoli, dai Pinocchi ai Nostra Signora, che ancora meravigliano nelle notti di Rai 3 a trent’anni di distanza, torna in scena dal vivo o quasi all’Argentina dal 24 al 30 novembre con un lavoro sull’invulnerabilità di Achille, anzi l’in-vulnerabilità con il trattino come il centro-sinistra. Achille, l’eroe sciocco, l’invulnerabile che corre alla rovina, una ventennale ossessione di Carmelo Bene che come invulnerabile ha vissuto la vita e ne porta i segni.

I testi sono naturalmente da Omero, poi dall’Achilleide di Stazio e dall’amato von Kleist («Goethe, da assessore al classico, lo odiava quasi quanto odiava Beethoven») e dello stesso Bene, appena sommerso da una slavina di premi per il poema ’l mal de’ fiori, «opera di altissima macelleria» dove il Maestro, tumulato da tempo è senza rimpianti il cadavere del teatro, si dedica a farla finita una volta per tutte anche con la lirica del Novecento, ai suoi sopravvalutati Montale e Quasimodo, per tornare all’ottima pagina bianca. Perfino Bene è disposto ad ammettere che si tratti della più importante opera poetica del secolo.

«Considero queste di Achille le mie ultime prove, un testamento fra il concerto e lo spettacolo. E lo sconcerto dello spettacolo, che in me è forte quanto la vergogna di apparire davanti a un pubblico che intendo coinvolgere il meno possibile. Contro la retorica della partecipazione, vorrei che gli spettatori facessero come me, si comportassero come se non esistessero più. Basta un colpo di tosse e si fa sipario».

Un applauso alla fine è consentito?

Per carità, l’applauso è un’infamia. Ormai il pubblico a teatro applaude soltanto per pietà, nella giusta convinzione che, con un po’ di prove, quelli in platea farebbero meglio di quelli in scena.

Pare che il suo giudizio sul teatro non sia migliorato negli anni.

La situazione del teatrino nazionale e non riflette la generale resa alla mediocrità che avanza in un mondo dove l’arte si è messa da parte da sé. Che, se vogliamo, è perfino un bene.

Sono cose che ha già detto trent’anni fa e da allora non mette più piede in un teatro da spettatore, o no?

E che cosa dovrei andarci a fare? L’arte non esiste più, è diventata una sottospecie del turismo di massa. In questo senso l’intuizione del ministero del Turismo e dello spettacolo, che allora io chiamavo Spettacolo del turismo mancato, si è rivelata esatta. I teatri sono filodrammatiche di impiegati guidati da un facchino che ha letto qualche giornale in più. Tutti fermi al ruolo, alla rappresentazione, cose che attraverso di me sono state debellate tanti anni fa. Gli autori non esistono. Al pubblico si danno cose che già conosce. È tutto un ripetere, recitare, recensire, riscoprire. Ora per esempio si riscopre Eduardo, senza Eduardo, il che è impossibile. I suoi testi, le Filumene Marturano, sono ben poca cosa. La grandezza di Eduardo era altro.

Capisco che non sia la sua prima preoccupazione, ma se dovesse dare un consiglio a chi si ostina a fare teatro?

Baudelaire diceva: il teatro non sarà mai nulla finché gli attori non si decideranno a usare dei porte-voix, oggi si direbbe dei microfoni, a salire sui trampoli e a fare uscire di scena le donne.

In fondo, sarebbe un ritorno alle origini, al teatro greco.

Perché i Greci non avevano già capito tutto? Soltanto io sono andato oltre, all’essenziale. Ho tolto di scena, al posto di mettere in scena, lasciando soltanto la voce, la musica.

Tornando all’Achille e al suo testamento…

È un omaggio alla nostalgia per le cose che non furono.

Ma la nostalgia è sempre per le cose che non furono.

Esatto. E questo è il senso di tutto quanto ho fatto in teatro. E poi in poesia, al cinema, in radio, in televisione…

È sbagliato vedere nelle sue ultime prove segni di un’attenzione per la religiosità?

Il sentimento religioso mi attira più che mai ora perché non esiste più, soprattutto grazie alla Chiesa. Si prenda questo nauseante Giubileo. Hanno demolito ogni residuo di sentimento religioso di questo coma che è la vita, per celebrare un’altra festa del turismo di massa. Con l’applauso dei cosiddetti laici, laidi e laici che hanno magnificato lo spirito di queste greggi turistiche in pellegrinaggio. Mentre ci sono politici, come quel Casini, che parlano di Dio come se fossero in confidenza. Col Giubileo il cattolicesimo ha confermato la sua inferiorità rispetto al protestantesimo, che non nega l’individuo e non ha bisogno di questo delirio di massa.

Guy Debord profetizzava già negli anni sessanta il ritorno al cattolicesimo, che sarebbe più adatto alla società dello spettacolo.

O alla società dell’avanspettacolo, com’è questa. Negli ultimi trent’anni sulla scena della storia ci sono soltanto attoruncoli. Questo papa non era forse da giovane un mediocre attore polacco? Ha soltanto celebrato se stesso e i suoi predecessori, un fatto di narcisismo. D’altra parte tutti i papi hanno sempre saputo che Dio non esiste, altrimenti si sarebbero comportati diversamente.

È la stessa teoria secondo la quale i segretari del Pcus non hanno mai creduto nel comunismo.

Certo. E non c’era bisogno di aspettare la caduta dei muri per celebrare il fallimento del comunismo. Era tutto già scritto nel suicidio di Majakovskij nel 1930. Quello che non si dice è che insieme al comunismo è morto lo storicismo, l’idea che la storia serva a qualcosa, e l’illusione stessa della politica. È ora che la si finisca con questa assurdità che l’uomo sia nato per occuparsi del prossimo. La fraternità, la solidarietà sono sentimenti inumani, non ci appartengono. Se l’uomo è nato per qualcosa è per rovinare se stesso.

Homo homini lupus, di Hobbes, va letto nel senso che l’uomo è lupo di se stesso, più che divoratore dell’altro. Il suo ottimismo si estende anche alla democrazia, immagino. Che ne pensa di questo avanspettacolo dell’elezione americana?

C’erano periodi dell’Impero Romano in cui circolavano due o tre imperatori, come in queste settimane, e anche quelli non erano un granché. Il tutto certo è ridicolo. Non esistono più tragedie, è tutta fiction. Anche le guerre sono diventate fiction. Si vive in un eterno quotidiano dove la spinta all’immortalità è cancellata. L’eternità è il banale, il quotidiano ripetuto all’infinito, la televisione.

Il Grande Fratello?

Come scusi?

Niente. C’è qualcuno o qualcosa che rimpiange dell’epoca dei suoi esordi, della vita culturale degli anni sessanta e settanta?

Non ho fatto in tempo a conoscere Tommaso Landolfi, al quale i suoi amici, non molti, dicevano che io somigliassi. Mi capita di pensare a Pasolini, a proposito del quale ho evitato con cura di leggere le celebrazioni di queste settimane sulle gazzette. Eravamo amici, nonostante la differenza di età. Penso alla sua grandezza di antipoeta, di bestemmiatore di fede e speranza, di corruttore. Al suo autolesionismo, che non è masochismo ma autodistruzione. Le nostre brave sinistre non hanno mai voluto accettarlo in questa dimensione, eppure basta sbirciare nel Salò. Moravia lo diceva: il poeta è cattivo. I poeti devono essere cattivissimi.

Queste due interviste sono tratte da Carmelo Bene Si può dire solo nulla, a cura di Luca Buoncristiano e Federico Primosig, volume di oltre 1.700 pagine che raccoglie tutte le sue interviste appena pubblicato da Il Saggiatore.

Estratto dell'articolo di Pietrangelo Buttafuoco per il “Corriere della Sera” il 15 marzo 2023.

Bene è quel che finisce bene. All’s well, per dirla con Shakespeare. E figurarsi quanto ne viene di bene arrivando a Bene.

 Eccolo il dire del significante finalmente libero da ogni significato: Si può solo dire nulla . Un manufatto di oltre 1.700 pagine, il definitivo prontuario delle interviste di Carmelo Bene — che è il vertice culturale italiano del XX secolo — in un volume edito da il Saggiatore a cura di Luca Buoncristiano e Federico Primosig intriso di magnificenza postuma.

 Un librone che come I Ching , come il Canzoniere di Hafez, e come lo Zarathustra si può aprire a caso e trovarvi di volta in volta, sfogliandolo, il sé che manca, l’irrapresentabile.

Ognuno cerca quel che non ha, ciascuno è ciò che non è e la mancanza di Dio è «un grande e stupendo funerale».

L’irrapresentabile è l’indicibile e se l’Italia del suo tempo lo contiene — e il mondo di elevata cultura, da Parigi a Mosca, lo sostiene — Carmelo che nasce enfant terrible e muore enfant terrible oggi non avrebbe diritto di stare nella scena pubblica.

 Non avrebbe — con rispetto parlando — l’audience di un Lino Guanciale, nessuna professoressa oserebbe ammirarlo e un’Anna Foglietta si guarderebbe dal recitare con un ceffo così smisuratamente sessista, dunque antifemminista, un tipaccio disgustato dall’impegno, dalla dialettica del materialismo e dalla contemporaneità.

 Un suo solo urto — «bisogna essere contemporanei a tutti i secoli» come intima ai cronisti — già lo candida alla mannaia della imperante cancel culture .

E l’uomo è, infatti, un malinteso. L’incomprensione è il suo pane quotidiano: «In democrazia il popolo è preso a calci dal popolo per conto del popolo».

 (...)

Nel solco dell’abbagliante puntata di «Mixer Cultura» di Giovanni Minoli con Franco Bagnasco su Rai2, con Carmelo Bene è sempre — come da canone collaudato poi al Costanzo Show — un uno contro tutti. Ed è un rivendicare, il suo, oltre il «concerto dello sconcerto». L’essersi sempre battuto contro il giornalismo «in quanto informazione, essendo l’informazione inquinamento e minimizzazione di una più vasta cultura» lo destina alla non-storia. Così parla e non c’è da comprenderlo bensì — è la sempre valida regola con cui ci si regola con lui — c’è da dargliela sempre per intesa: «Io sono già dimenticato», confessa a Giancarlo Dotto, «meglio ancora ignorato, in vita. Mi hanno promesso a Otranto funerali da vivo. Non c’è bisogno di consegnare un cadavere per meritare la dimenticanza».

 Così si fa con lui che non copia la realtà ma sa sempre come penetrare il mistero. Lo spiega bene a Dotto, che è il suo alter ego, e lo svela al meglio — fuor di metafora calcistica — a Giampiero Mughini quando poi con lo sport capovolge i codici del significante: «Se uno vuole vedere un balletto lo trova in un incontro di Cassius Clay, non va alla Scala».

Il poeta giammai recita, piuttosto canta la dicibilità che resta invisibile. E la sua densa produzione teorica — generosamente elargita nel flusso delle interviste — lo conferma lirico nel suo essere inaudito. È Carmelo Bene ma è come se i Dino Campana — o gli Hölderlin, ma anche i Leopardi — avessero potuto beneficiare di un minimo tecnico per essere illuminati, amplificati e registrati. E raccontati nel disincanto del disbrigo promozionale di spettacoli, eventi e — da postumi — collezionati. L’epica di Carmelo Bene — e l’archivio giornalistico lo conferma — coincide con la sua stagione di Direttore della Sezione Teatro della Biennale di Venezia. Tutto un tramestio di idee, progetti, visioni e architetture che risulta oggi chimerico senza più lui, senza uno come lui, senza più il suo dire niente, il suo sontuoso teatro senza spettacolo.

Quel che più si ammira in teatro — si sa — è il lampadario.

 Con attori al più in prossimità con Bertold Brecht, tutti simil Roberto Benigni e non — ahinoi — dei Gianni Santuccio, ci si accomoda in sala e col naso in su s’arpiona l’unico effetto speciale.

 «Tempo due anni e nessuno più andrà a teatro» dice Bene a Marco Palladini in un’intervista a «Paese Sera». Corre l’anno 1988 e così, a maggior ragione, senza più lui in questa vita che — a suo dire — è «forse il più grande attore dai Greci in poi», il teatro di rappresentazione e spettacolo è tutto un buio da ferire a colpi di candele. Solo con chi s’è estromesso dall’ordinario per essere straordinario, soltanto con chi ben oltre il corpo, ben oltre la scena — in nuda voce — con chi ben Bene che sia è puro genio, il teatro è un esistere senza esistenza. Parigi vale Cesena quando è in scena, un 110 e lode all’ombra della Tour Eiffel lo lascia indifferente — «eccettuati alcuni consensi di certi personaggi che si chiamano Deleuze, Lacan, Foucault, Klossowski, Mandiargues» — e figurarsi quanto può impressionarlo ricevere le grandi firme in camerino se altra pratica non conosce che l’autoinganno, l’incommentabile, l’intoccabile, «l’eterno una volta per tutte».

(...)

Maurizio Di Fazio per il “Fatto quotidiano” – ESTRATTO il 6 febbraio 2023.

Carmelo Bene l’iconoclasta, l’anarchico, l’antipolitico, l’anti-Stato, l’anti-cliché, l’anti-se stesso. Il suo teatro, il suo cinema, la sua letteratura: tutta roba marziana per l’epoca e ancora oggi. Occhi fiammeggianti, sciamanico, altero, immolato all’arte inintelligibile dalla ragione: “L’incomprensibile è qualcosa che arriva medianicamente, che scompare quando si prova a razionalizzarlo. Il semplice è inavvicinabile... Capire il significato è impossibile” (La Nazione, 27 gennaio 1995).

 I francesi lo adoravano, paragonandolo a Ejzenštejn e Artaud. Noi suoi connazionali ci abbiamo messo un bel po’ a tollerarne le apparenti mattane.

E infatti sono stati i giornalisti italiani il suo bersaglio grosso.

 Questo libro-monstre, appena pubblicato dal Saggiatore (Si può solo dire nulla, a cura di Luca Buoncristiano e Federico Primosig) raccoglie, in 1.700 pagine, una buona parte delle interviste che l’Umbratile Maestro Autarchico e Patafisico rilasciò nei suoi quarant’anni di carriera. Un lungo ed estenuante corpo-a-corpo, anche in senso letterale: una volta, nel gennaio del 1974, sfidò a duello Franco Cordelli, allora critico teatrale di Paese Sera, “all’arma bianca”.

Come se avesse voluto affidare “ai traditori (i giornalisti, non gli apostoli) l’inconsapevole compito di trascrivere il proprio vangelo” spiega Buoncristiano. Una lettura succulenta per i suoi cultori, un vortice in cui perdersi e semmai ritrovarsi. E non serve linearità, come nel suo venerato Ulisse di Joyce.

 Gli esordi, traumatici. Un suo attore si denuda sul palco. Le denunce, gli scandali nell’arretrato pre-68. “Tutti coloro che hanno avuto modo di assistere alla prima di Cristo ’63 sono concordi nel convenire che le misure adottate dalla polizia sono, questa volta, ampiamente giustificate” (Il Messaggero, 7 gennaio 1963). “Nel corso di un recital, organizzato in una villa sulla Cassia, lui e i suoi si erano gettati sugli spettatori insultandoli, strappando le borsette alle signore, alla fine usando la sala come un orinatoio pubblico” (Sandro Viola, L’Espresso, 29 marzo 1964).

(...)

Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra. Bene non vuole che il suo film Nostra Signora dei Turchi circoli in Italia, “Paese troppo sporco, troppo mediocre. Non l’Italia di destra, intendiamoci: quella è furba e basta. L’Italia di sinistra, invece” (Lietta Tornabuoni, L’Europeo, 15 agosto 1968). “Non rispetto nessuna specie di conformismo, e tanto meno quella più diffusa nell’ambiente culturale italiano: il conformismo del rispetto umano di sinistra” (Giancarlo Del Re, Il Messaggero, 3 settembre 1968).

 Bene e il sesso. “Io non mi sono mai represso e quindi non me ne importa niente. Non contesto nulla. Mi autocontesto soltanto. Il mio ideale attuale è appunto un’autocontestazione all’infinito. Da non confondersi però con l’onanismo” (Men, 16 febbraio 1970).

 (...)

Bene contro tutti. Siamo nel 1994. Il libro non ne parla, solo un accenno nella prefazione. Ricordate la puntata di Uno contro tutti del Maurizio Costanzo Show con Carmelo Bene? Una pagina di storia della televisione. Il giorno dopo i centralini del Parioli andarono in tilt per le proteste.

Le sue ultime parole sulla carta stampata. Boutade, antifrasi, citazioni dottissime, impennate liriche e invettive salaci: provocazioni servite alla tana delle tigri degli addetti ai lavori. Il miracolo di fendere cinque decenni di storia culturale e tout court della penisola restando fedele al suo tracciato: osannato e messo al bando, perturbante ed enfant terrible fino all’ultimo respiro. Giancarlo Dotto su L’Espresso lo interpella a proposito di un omaggio a Elvis Presley per il suo festival Otranto-Musica.

È il 13 settembre del 2001, due giorni dopo l’attacco alle torri gemelle di New York. Sei mesi prima della sua morte, a 65 anni. “È il suo carisma che non ha eguali nella storia della musica moderna. Poteva berciare qualsiasi nefandezza ma ti costringeva a non staccargli gli occhi di dosso. Questa è grandezza”.

Orfano a 10 anni, poi a scuola vestito da femmina. Fu Sergio Leone a celebrare Charles Bronson. Maria Luisa Agnese su Il Corriere della Sera lunedì 28 agosto 2023

Figlio di un minatore lituano di etnia tartara aveva 14 fratelli, metà dei quali morti bambini. Rimase un irregolare nel mondo di Hollywood, rude e di poche parole, ma nel 1971 al Golden Globe viene presentato come « l’attore più popolare al mondo» 

Con quattro note un po’ spettrali uscite dal genio di Ennio Morricone Charles Bronson è entrato nella leggenda del West. Era già attore provetto ma con quell’armonica suonata con perizia sotto occhi di ghiaccio ceruleo nella scena chiave di C’era una volta il West, dove tre uomini cadono come manichini sotto i suoi colpi polverosi, Bronson entra nell’Olimpo attoriale.

Un traguardo impensabile per un vero underdog della corsa al successo americano. Undicesimo di quindici figli, metà dei quali morti bambini, era figlio di lituani di etnia tatara, immigrati e poverissimi, dal cognome incertamente traslitterato, Buchinsky o Bucˇinskis, e poi americanizzato.

Il padre, che lavorava in miniera, morì quando Charles aveva dieci anni, e la famiglia era così povera che lui fu costretto ad andare a scuola vestito da femmina, con gli abiti della sorella. A nove anni già fumava. Nonostante la bizzarria non voluta degli abiti fu il primo della sua famiglia a terminare la scuola media, finì anche il liceo e cominciò una trafila di lavori: minatore, spazzino, manovale, cameriere. Poi, grazie ai suoi occhi e al fisico che rendeva molto nelle scene a torso nudo, in gara con Marlon Brando, inizia una nuova gavetta nel cinema. Una prima particina nel 1951 la ottiene perché sa ruttare a comando.

Rimasto un irregolare nel mondo di Hollywood, rude e di poche parole (l’inglese era per lui una seconda lingua imparata a scuola) conquista un ruolo ne Il comandante Johnny, e arrivano i primi successi, nel 1960 I Magnifici Sette, pietra miliare del western Usa, La Grande Fuga, e Quella sporca dozzina: nei Sessanta è nella rosa degli interpreti stellari fra Clint Eastwood e Steve McQueen, ma sarà Sergio Leone a farlo conoscere nel mondo e soprattutto in Europa: il regista italiano lo aveva corteggiato a lungo, prima per la parte del protagonista in Per un pugno di dollari, e ancora per il Colonnello Mortimer in Per qualche dollaro in più, e ancora per Il Buono, il brutto, il cattivo. Ma Bronson declinò dicendosi non interessato o impegnato altrove. Tanto che i rapporti fra i due si erano un po’ raffreddati e per la parte di Armonica in C’era una volta il West, capolavoro di Leone di grandioso respiro che coglie il momento della fine dell’epopea del West e che incassa nel 1968, solo in Italia, due miliardi e mezzo di lire, primo venne interpellato Clint Eastwood. Ma l’appuntamento del destino fra i due non poteva essere rimandato e la parte alla fine fu di Bronson che, ricreduto, commentò su Leone: «Conosce meglio lui il western di tanti registi americani».

Nel 1971 quando vince il premio speciale del Golden globe viene presentato come «l’attore più popolare al mondo». Poi è stato per un ventennio il vendicatore urbano Paul Kersey nella serie Il giustiziere della notte, dal 1974 al 1994, sempre bivalente rispetto al suo ruolo di Montecristo (quasi) solitario, difendeva i suoi film: «Penso che diano soddisfazione alle persone che si rifugiano nel crimine perché le istituzioni non riescono a proteggerle». Ma aveva anche un desiderio non esaudito: «Vorrei per una volta fare la parte di chi beve un cocktail con il braccio appoggiato al camino». È morto il 30 Agosto 2003 per un cancro ai polmoni, cicatrice indelebile della sua prima vita da underdog.

Barbara Costa per Dagospia 20 anni sabato 22 luglio 2023.

“Sono grato a Dio. Lui mi ha liberato dalle droghe, e non mi fa desiderare né pensare più alle donne”. Puoi assaggiare morfina a 11 anni (!!!!!), diventare fumatore incallito a 12, e restarlo per la vita, metterti sulla via dell’autodistruzione ingoiando pillole per eccitarti, non dormire, dormire, svegliarti, miscelarle col whisky, più barbiturici “senza sosta a farmi male”, e devastare macchine, boschi, persone, sentimenti, matrimoni, figli, divorziare incolpato di “crudeltà mentale”, srotolare “condom sul pomello del cambio”, spazzar via le ceneri di amici, e entrare e uscire dalla galera, ma poi… incontri e dici sì a Dio, e ogni peccato ti è perdonato.

Ti laurei pure in teologia! E se sei una superstar mondiale, uno che è stato sulla cresta dell’onda nei '50, nei '60, e nei '70 ha fatto il record di vendite, e non fa niente che negli '80 si dimenticano che esisti, tanto nei '90 ritorni, e li rimetti in riga uno a uno… tutto questo, e mooooooolto altro, è stato mister Johnny Cash. 

Leggenda vivente, e morto 20 anni fa, sicché icona perpetua del country, non solo, celebrato nella Hall of Fame Country, Rock, e Gospel, di Johnny Cash esce in nuova edizione "L’autobiografia", (Baldini+Castoldi ed.): la seconda, quella della redenzione. Dove Johnny Cash non scorda, di essere stato “Man in Black”, e dove ci racconta le sue glorie, sì, ma insieme le sue cadute, rialzate, ricadute, rialzate, “troppe per ricordarmele tutte”. Con Dio al suo fianco.

Johnny Cash è stato un credente, fervente, praticante, “ma non un bigotto”, Johnny Cash "è" l’America, quella più reale, quella che detta certe regole di vita – e di potere – ed è l’America che non sta a New York e sia mai in California. Quella di Johnny Cash è l’America dove spirito e pensiero e cultura stanno nella Bibbia e solo lì. Johnny Cash ne è la contraddizione la più vivida.

Per buona parte della sua vita da star indiscussa – 100 milioni di dischi venduti – a spassarsela tra donne, sesso, pillole: “Se non ti piacevano quelle verdi, c’erano quelle arancioni, se non ti piaceva l’arancione, c’erano quelle rosse, ma se volevi provare qualcosa di straordinario, c’erano quelle nere: triplica la dose, quadruplicala, fino a che nelle vene ti scorrono solo quelle”.

E a distrugger case, stanze di hotel, e ampli e porte (con l’ascia, come Jack Nicholson in "Shining", uguale) e finire in prigione per tali disastri, e per possesso di droga, ma pure per avere incendiato riserve naturali causando strage di condor: “Non me ne frega un caz*o di quelle bestiacce!”. Risultato: non la galera, ma una multa “pari a più di 1 milione di dollari odierni”, a risarcimento del governo USA.

E però starci, in cella, come ci tiene a sottolineare Johnny Cash, “ogni volta una notte sola” perché hai manager – e soldi, tanti – che ogni volta ti vengono a salvare. Picchiare paparazzi che ti fotografano in manette, insultare chiunque, far soffrire figlie, 4, con Vivian, la prima moglie, e un figlio, John Carter, avuto dalla seconda e definitiva, June, e che, a detta di Cash, è una santa, una che mai l’ha lasciato, anzi, che per Cash ha lasciato il suo secondo marito, e che, da Cash, ne ha sopportate di allucinanti (sotto droga Johnny spacca tutto, urla, in down da sbronza non lo tieni, in nessun modo e, se se ne va, non sai quando torna, e se, torna). June, a differenza di Vivian, non ha avuto corna (con le groupie, di Elvis, “ed erano così tante, a ronzargli intorno, che il resto di noi viveva di rendita”). June che con Johnny rimane, pregando mattino e sera e pranzo e cena che Dio lo rinsavisse.

Ma dalla vita dissennata e alla deriva (e da un tentato suicidio in una grotta, sballato di amfe, e lì tra i cunicoli smarrendosi, puntando a morire di inedia e stenti, ma poi dalla grotta uscito) Cash non lo salva solo Dio ma le cliniche, i medici, i 12 passi, e un dottore, in particolare, ex alcolista peggio di lui, f*ttuto a tal punto da “prendersi a coltellate da solo presentandosi coltello in pancia alla consorte”. Johnny Cash fa propria la massima di San Paolo, uno che, si sa, prima della conversione a Damasco, ne ha combinate, di sesso, omo, etero e all: “Mi sono fatto tutto e tutti”.

Un personaggione, Johnny Cash, che ti lascia a bocca aperta. Fa nulla che si sia di generazioni successive. A bocca aperta, per il suo assassinio, di Jack lo Sguercio, un coccodrillo “bestia enorme, lunga 4 quasi metri e pesante più di 250 kg: l’ho ammazzato con 3 pallottole in testa, e non per vantarmi, ma ho una buona mira, visto che eravamo al buio più completo.

Jack si è ripreso e ha cominciato a divincolarsi come un maledetto. Sono serviti altre 5 colpi per riuscire a finirlo”. E la coda di coccodrillo “è un piatto ottimo, specie se affettata sottile, condita con spezie e arrostita”. Ma mai mai mai scontrarsi con uno struzzo vedovo: trattasi di struzzo reso pazzo per morte di moglie struzza, particolarmente aggressivo, e che “atterra, zampe affilate” su Cash rompendogli 5 costole lasciandogli “uno squarcio profondo lungo la pancia”. Solo la grossa fibbia della cintura gli salva il pene. Ma non lo salva dalla nuova dipendenza da antidolorifici. Allucinazioni annesse.

Le canzoni di Johnny Cash sono vita, vissuta, sperimentata. Non c’è chiacchiera, non c’è sentito dire. A 5 anni Johnny Cash stava sotto il sole cocente, e ore e ore, nei campi, a raccogliere cotone. A spaccarsi le mani. Quei segni non vanno via. “Ogni tanto portavo con me anche la pistola, sul palco. E neanche a dirlo, era carica”. Walk the Line: “Si spara a un uomo/ solo per vederlo morire”.

Il genio di Poldino, calabrese icona del cinema. EUGENIO ATTANASIO su Il Quotidiano del Sud il 22 Gennaio 2023

Era nato Reggio Calabria nel 1917, Poldino, come lo chiamava Federico Fellini, che lo aveva introdotto alla carriera attoriale, quasi per caso, perché Leopoldo Trieste aveva scelto in prima battuta di scrivere per il teatro e per il cinema.

Dal padre Leopoldo aveva ereditato la passione per la lettura e i grandi scrittori, ma fu lo zio paterno, Turi, ufficiale della Marina mercantile che viveva a Trieste, ad aiutarlo moralmente ed economicamente nella sua vocazione di drammaturgo precoce, quand’era ancora studente al liceo Campanella.

A tale scopo, aveva convinto la cognata a spostarsi a Roma nel 1935 per consentire al nipote di seguire il palcoscenico più qualificato in quegli anni, e iscriversi all’università. In tal modo Trieste era riuscito a frequentare la numerosa comunità di intellettuali meridionali operanti nella capitale, tra cui Salvatore Quasimodo. Leopoldo amava molto il calcio e le donne, da buon meridionale, rimanendo scapolo, al punto da meritarsi il titolo di Casanova calabrese: leggenda vuole che si trovasse a fare il provino felliniano per Lo Sceicco bianco proprio  sulle tracce di una ballerina.

Si era laureato a Roma nel 1939 con Natalino Sapegno, secondo relatore Mario Praz, discutendo una tesi su Luigi Tansillo, poeta cinquecentesco, che gli valse il premio Corsi e l’iscrizione agli studi di perfezionamento. L’etnologo Raffaele Pettazzoni gli aveva assegnato una borsa di studio per Boston, ma lo scoppio della guerra vanificava questa opportunità. Sempre nel 1939 si era iscritto al corso di regia nel Centro sperimentale di cinematografia, inseguendo la giovane attrice Adriana Benetti di cui s’era invaghito.

Ma già a diciotto anni aveva scritto almeno sette commedie, tutte nella misura dei tre atti; il primo testo però fu rappresentato solo nel 1945 al Quirino di Roma: La frontiera, per la regia di Mario Landi, con scene di Domenico Purificato. Il dramma, edito sul mensile  Teatro  si avvaleva di una breve nota di Luigi Squarzina che ne sottolineava la vitalità e la curiosità sul mondo, al di là della vita morale confinata in pochi personaggi.

Nelle sue opere tutto veniva scandito da dialoghi secchi, contrapposizioni violente e fini contrappunti tra caratteri ben sbalzati. In particolare, Cronaca, il primo copione italiano a parlare di Olocausto, varato a Milano nel 1946, nel 1952 (dopo aver sfiorato Broadway) trasformato in film, Febbre di vivere, regia di Claudio Gora, con Marcello Mastroianni protagonista. dato a Roma nel 1947 con la regia di Gerardo Guerrieri, e la giovanissima Anna Proclemer, presentò la dissoluzione dei valori legata alla catastrofe bellica.

Lo spettacolo fu anche riallestito dal Teatro Stabile di Calabria e portato in tutte le piazze della regione nel 1990, quando veniva riscoperto Trieste come drammaturgo, l’anima sua forse più profonda. Sem Benelli in camerino gli aveva gridato che la fiaccola del teatro era ormai passata nelle sue mani. Capriccio in la minore, radiotrasmesso nel 1948, revisionato quasi mezzo secolo dopo, fu insignito nel 1990 con il premio Flaiano.

Nel mondo del cinema Trieste era entrato all’inizio come soggettista e sceneggiatore in una trentina di titoli, collaborando tra gli altri con Suso Cecchi d’Amico, Mario Monicelli e Cesare Zavattini, e lavorando con registi vari, da Pietro Germi in Gioventù perduta, 1948 a Claudio Gora in Il cielo è rosso, dal romanzo di Giuseppe Berto, 1950. Girò, firmandoli come autore due film di esito controverso e scarsi incassi, ma valorizzati in un secondo tempo, anche in versione fotoromanzo, sia italiana sia francese. Città di notte, fatto circolare nel 1957-58, quando aveva ottenuto uno dei cinque premi di qualità della cinematografia italiana, era nato come dramma radiofonico in cui Trieste vi rovesciava le sue personali osservazioni maturate negli insonni giri notturni, un neorealismo in chiave onirica. 

Il Peccato degli anni verdi, racconta la vicenda di una minorenne sedotta con tentativi di comprarne il silenzio, era stato privato degli aiuti ministeriali perché considerato apolide, essendo la protagonista corsa. In entrambi si ritagliò due particine ironicamente autobiografiche, nel primo alludendo al suo passato di commediografo, mentre nel secondo teneva squinternate conferenze da teosofo in una località turistica e in una boutique alla moda leggeva versi di William Wordsworth.

Nel famoso incontro con Fellini, dice la leggenda che il regista, vedendolo in fila con aspiranti attori gli disse: Non è Leopoldo Trieste lei? Lei scrive bene, perché viene qui a perdere tempo? E Trieste: Mi interessa una ballerina. E Fellini così lo scritturò per il ruolo di Ivan Cavalli in Lo sceicco bianco. L’ anno dopo lo richiamò per I vitelloni facendogli interpretare un ruolo chiaramente ispirato alla sua persona. Cominciava così una carriera di 170 film.

Memorabili alcuni suoi personaggi ; il fragile Carmelo Patané irretito entro la diabolica macchinazione dell’adultero Mastroianni in Divorzio all’italiana di Germi, il sudicio barone Rizieri, ridotto in miseria, un dente annerito a simularne l’assenza e risolini autistici, di Sedotta e abbandonata, sempre di Germi, del 1964 (Nastro d’argento l’anno dopo), il maritino malaticcio e geloso visitato da un Alberto Sordi più intento a scrutare le forme esuberanti della di lui consorte che auscultarne la schiena in Il medico della mutua di Luigi Zampa del 1968, l’usuraio Roberto, borioso e poi all’improvviso, in disarmo davanti alla ben diversa durezza di Don Vito, nel Padrino parte II di Francis Ford Coppola del 1974.

Lavorò inoltre con registi internazionali, recitando in più lingue, da Charles Vidor (in Addio alle armi del 1957) a Jean-Jacques Annaud e a René Clément. Non ha interpretato parti da protagonista Leopoldo Trieste, eccetto forse il suo ruolo d’esordio, eppure la sua espressività, la sua recitazione, il suo talento catturavano lo spettatore, al pari del protagonista. 

Leopoldo Trieste è stato la prova che anche un attore sul quale non è costruito il film, con il suo carisma e la sua profondità intellettuale può dare vita a dei grandi personaggi. Il mio incontro personale con Leopoldo Trieste avvenne durante la mostra del nuovo cinema Di Pesaro nel 1995 all’epoca il direttore Adriano Aprà aveva dedicato una rassegna al cinema italiano e aveva invitato Trieste come regista del film Il peccato degli anni verdi.

Ne era seguito un interessante dibattito con il folto pubblico presente e, successivamente, mi ero presentato a lui intrattenendomi poi anche a pranzo. Nel corso della conversazione avevo avuto modo di conoscere Trieste uomo coltissimo, grande affabulatore, persino eccessivo, che mi raccontava della sua storia, dei suoi grandi amori perduti, su tutti Marina Berti che era andata in sposa poi a Claudio Gora. Speravo di poterlo invitare a Catanzaro o in Calabria, che un po’ era la sua Itaca, dove però non tornava mai, se non su qualche set cinematografico. Erano anni belli e fecondi per il teatro, e le sale erano sempre piene di un pubblico attento e desideroso di assistere agli spettacoli in cui figuravano attori di nome.

Fu così che inizio questa nostra amicizia scandita da lunghissime e gustose conversazioni telefoniche, nelle quali io prendevo appunti sulla storia del cinema italiano. Così alla fine, l’anno successivo riuscimmo a portare Leopoldo Trieste in quel di Amantea dove fu protagonista di un piccolo festival cinematografico. Leopoldo Trieste rimane una figura straordinariamente carismatica per il cinema e per il teatro, come attore e come drammaturgo che merita di essere riscoperta nel suo percorso artistico e con le sue opere innovative che hanno contribuito alla formazione della drammaturgia nel dopoguerra.

Rapito dal cinema ne divenne un’icona pur non essendo né bello né prestante, ma, con la sua straordinaria intelligenza e la grande simpatia riuscì a conquistare un pubblico e diventare un punto di riferimento per i registi di tutto il mondo.

Fabio Martini per “la Stampa” - Estratti martedì 7 novembre 2023.

Chissà se un'idea così modaiola sarebbe piaciuta ad un personaggio come Giorgio Gaber: riunire in una sala del Senato politici di rango e invitarli a ricordare un artista che a suo tempo sferzò proprio loro, i sinistri e anche i destri, oltre ai piccolo-borghesi, ai «femministaioli militanti» e ai seguaci di tutte le mode. 

E invece, alla fine, nell'appartata Sala Capitolare di palazzo Madama si è consumato un piccolo miracolo, davvero inatteso in tempi così perigliosi per l'ironia e così dominati dalle reciproche invettive: personalità agli antipodi come il presidente del Senato Ignazio La Russa e Pierluigi Bersani si sono ritrovati nel ricercare assieme un senso in ciò che un anticonformista vero come Gaber cantò e raccontò. Lo hanno fatto evitando appropriazioni indebite e con una piccola sorpresa finale: il messaggio unificante, se così si può dire, è uscito da Giorgia Meloni.

La Fondazione Gaber ha ritrovato e trasmesso durante l'incontro un intervento dell'allora ministra della Gioventù che 12 anni fa in un convegno sull'artista milanese ebbe a dire: «Gaber mi ha insegnato molte cose, ma una delle canzoni che amo di più è "Qualcuno era comunista". La mia storia politica è molto diversa ma io adoro questa canzone perché consente di misurarti con una storia molto diversa dalla tua, scoprendo a sinistra cose molto simili al tuo percorso. Come l'idea che l'impegno civile è esser vivi e felici se lo sono anche gli altri».  

(...)

Un uomo di sinistra che era diventato anarchico o addirittura simpatizzante di destra?

La moglie Ombretta Colli, che pure è stata presidente della Provincia di Milano per il centro-destra, è sempre stata attentissima a non "arruolare" neppure indirettamente il marito e tanto meno a lasciare spazio a letture postume con mezze frasi («Mi disse che…») e in questo senso il presidente del Senato Ignazio La Russa ha trovato le parole giuste: 

«Gaber certamente non era di destra, era un uomo di sinistra ma non della sinistra nel senso di una appartenenza ideologica». E ha persino detto: «Ho provato ad immaginarmi "Qualcuno era di destra" che avesse la stessa ironia…». Come dire, che in effetti non esiste o non è esistito, a destra, un artista che avesse la leggerezza sferzante di Gaber. Il compito relativamente più complicato spettava a Pierluigi Bersani, che nel convegno "rappresentava" quella sinistra che era diventata il bersaglio quasi preferito di Gaber. E Bersani è stato generoso negli elogi con un rilievo finale sincero.

E dunque, Gaber era «un personaggio straordinario perché non sono tanti gli artisti che vengono dibattuti per il loro pensiero», «l'ho vissuto come una specie di alter-ego, ruvido e urticante», nella sua vita di artista è stato capace di fare una scelta di vita «diversa dagli altri: dal gradino alto del successo televisivo si è preso la briga di passare al Teatro canzone, mettendo condizioni al successo, come diceva lui: non lo voglio comunque». 

E arrivando agli anni delle bastonate di Gaber verso una certa sinistra, Bersani ammette che «l'ironia diventa sarcasmo, invettiva e sembra non esprimere più speranza e questo feriva anche uno come me». E alla fine l'ex segretario del Pd conclude: «In quella fase era come in Gaber ci fosse troppa aspettativa» delusa. 

Ma Bersani si è ben guardato dal prendere in considerazione l'idea di uno scivolamento a destra di Gaber, al quale alluse, il 7 gennaio 1998, in un aspro, sgradevole articolo in prima pagina sull'Unità il latinista Luca Canali: «Sapersi ritirare è arte sovrana per chi non abbia più niente da dire», «se continua così arriverà a scrivere l'inno di Forza Italia». L'indomani Gaber replicò: «Non scriverò l'inno ma in quanto scrive l'Unità mi sembra di leggere lo stupore per chi ospita in casa sua una moglie che la pensa diversamente».

Paolo Di Stefano per il “Corriere della Sera” - Estratti domenica 5 novembre 2023.

Dalia Gaberscik, che immagine di suo padre viene fuori dal docufilm «Io, noi e Gaber», che sarà proiettato oggi alla Festa del Cinema?

«Per me era un uomo simpaticissimo, la persona più piacevole con cui passare una serata. Il film è un magnifico racconto affettuoso». 

Piacerebbe a suo padre?

«Il papà odiava riguardarsi, anzi rivedere i suoi spettacoli a casa era vietato, mentre quando era nella fase creativa prima o poi tirava fuori il tormentone o l’ossessione del momento, sentiva l’urgenza di confrontarsi». 

Era diverso a casa dal Signor G del teatro-canzone?

«Il lavoro era il suo gioco preferito. Si svegliava tardi, all’una o alle due, colazione, sigaretta, prove nel tardo pomeriggio, un toast prima dello spettacolo, primo tempo, secondo tempo, e anche un terzo tempo...». 

Terzo tempo?

«Raggiungeva la felicità alla fine dello spettacolo, una gioia fisica quando aveva consumato tutte le cellule: mi sembrava persino di vederlo più piccolo. Faceva due tempi per potersi cambiare la camicia nell’intervallo, che era fradicia, e alla fine ne buttava via un’altra, era come svuotato e rimpicciolito, ma era la felicità pura, si asciugava e in camerino cominciava il terzo tempo con la gente che andava a trovarlo. Più che i complimenti ascoltava le critiche, le domande...». 

(...)

Che coppia erano suo padre e sua madre, Ombretta Colli?

«Uniti quasi in forma patologica, con una complicità che superava ogni elemento esterno, comprese me e mia nonna. Comunque, quel che diceva mia madre era legge per lui, quel che diceva mio padre si poteva mettere in discussione. Poi a sorpresa lei lo sosteneva quasi sempre: persino quando nel 1970 decise di mollare la tv... Lasciare la Rai per il teatro fu una brutta botta economica». 

(...)

Fu una lunga malattia?

«Nell’87, aveva 48 anni e io 21, stavo studiando alla scrivania, lui arriva e mi fa: “Cazzo, ho fatto un esame medico e non è andato bene”. Il tumore si è ripresentato nel ‘93». 

Ha fumato fino all’ultimo?

«Era astemio, come noi tutti, e non era un mangione. Ma ha fumato Marlboro rosse per tutta la vita, 40, 50 al giorno. Diceva: “Più di così non posso”. Verso la fine non aveva voglia, e ci siamo preoccupati». 

Come reagì quando sua madre entrò in politica?

«All’inizio era molto perplesso su Berlusconi, ma quando capì che la mamma era convinta, le disse: “Vai, penso che la politica abbia bisogno di persone perbene”. Si infuriò perché la sinistra lo aveva messo in croce, qualcuno sosteneva persino che doveva divorziare...».

Ha avuto un rapporto difficile con la sinistra?

«Diceva: “Non sarò mai di destra, ma nessuno mi fa incazzare come la sinistra”. E poi: “ Io sono di sinistra, non della sinistra”. La morte di Berlinguer in casa fu un vero colpo: non ricordo se piansero ma poco ci mancò». 

Gli altri conflitti politici?

«Il momento più duro fu nella stagione ’77-’78: anche mio padre fu contestato, gli tiravano addosso di tutto. Anche Milani e Bisio ricordano di averlo fischiato». 

Come reagì?

«Raccontava che a un certo punto qualcuno gli urlò: “Non è giusto che canti solo tu...”. E lui: “Magari altri sono stonati, no?”. E quelli: “La stonatura è un’invenzione dei padroni”.

Era un clima di follia. Si è fermato per un anno, ma senza teatro si annoiava terribilmente. Fino a due anni prima andava a prendere mia madre alla Statale in Jaguar senza problemi. A pensarci rideva ancora dopo anni». 

(…)

Avevate spesso la casa piena di gente?

«Ricordo le serate con Mina, una figura mitologica anche in casa; se poi si era per strada, quando passava lei si fermava il mondo, non ce n’era per nessuno. Spesso venivano Ric e Gian, Cochi e Renato, Enzo, Milva. Una mattina suona in via Frescobaldi un tale Battiato, gli apre mia madre e quello dice: “Vorrei fare l’artista”. Papà ascolta un po’ di cose sue, sperimentali e strane, rimane perplesso, ma gli dà fiducia. Conduceva in Rai un programma con Caterina Caselli, dove ciascuno dei due portava un esordiente: Caterina portò Francesco Guccini e papà Francesco Battiato. Ma siccome erano tutt’e due Francesco, mio padre gli disse: “Facciamo che ti chiami Franco”. E da allora per tutti, anche per sua madre, diventò Franco». 

Rimase l’amicizia?

«Mia madre lo prese come chitarrista nelle serate estive. Lei portava delle minigonne inguinali, era di una bellezza incredibile, e Franco raccontava che in un paesino del sud a un certo punto percepì che un ragazzotto in prima fila aveva fatto dei gesti verso la minigonna e di colpo lo vide cadere al suolo: mia madre gli aveva spaccato il microfono in testa. Era tremenda. Soccorritori, ambulanze.... Franco è rimasto un amico storico». 

Serate divertenti?

«A casa nostra c’era un poker stabile con papà, mamma, Battiato, Roberto Calasso, il direttore dell’Adelphi, e sua moglie Fleur Jaeggy. Giocavano fino alle due o alle tre mettendo in palio i libri dell’Adelphi. Dunque Roberto perdeva anche quando vinceva».

E con Sandro Luporini che amicizia era?

«È un tipo strano, storto, indolente, un ipocondriaco. Si vedevano da noi in Toscana tutti i giorni per lavorare. Sandro arrivava e cominciava: “Ho male qua, ho male là...”. Un giorno aveva male persino ai capelli. Papà rideva: “Tu mi sotterri”. Infatti».

L’ultimo ricordo?

«Papà era campione mondiale del biliardino, faceva morir dal ridere, intimoriva l’avversario, rullava, faceva gol di gancio, micidiale. Quel che mi manca è la sua allegria».

Vi Racconto parte il 6 novembre su Cine34 con Vittorio Gassmann di cui si vedrà, dopo l'introduzione di Vanzina, Il Sorpasso, il capolavoro di Dino Risi.

Non chiediamo scusa se parliamo di Gaber, l'ultimo intellettuale. Fu un artista geniale che mantenne intatta la propria umanità davanti alla storia. Luca Doninelli su Il Giornale il 28 Febbraio 2023

Chiedo scusa se parlo di Giorgio Gaber. Ci sono cose più importanti, non dico di no, però è giusto parlare di lui, oggi più di ieri, a vent'anni dalla morte. Lo sta facendo il Centro Culturale di Milano, con una bella rassegna già iniziata, condotta da Paolo dal Bon e Massimo Bernardini, che si concluderà il 22 di marzo. Titolo: Si può. Tra gli ospiti: Gioele Dix, Andrea Mirò, Fausto Bertinotti, Lorenzo Luporini, Santoianni, don Claudio Burgio.

A parlare di che?, dell'«attualità» di Giorgio Gaber? La sola attualità di Giorgio Gaber è questa: che la sua inattualità, la sua radicale, voluta, amata inattualità, da vent'anni ci manca come l'aria. Per questo è importante parlare di lui.

Lo conobbi nell'ultima parte della sua vita. Era stato lui a volermi incontrare perché, recensendo un suo spettacolo (al tempo facevo il critico teatrale), l'avevo definito «l'ultimo grande intellettuale di questo Paese», e questa cosa l'aveva incuriosito. Mi disse di non amare troppo gli intellettuali. Ma ci trovammo d'accordo una volta che gli ebbi spiegato che cos'era per me un intellettuale.

Un intellettuale è prima di tutto un uomo: e questa è la cosa meno scontata che ci sia. È un uomo che, di fronte alla storia, si impone di mantenere intera la propria umanità. Una volta Miles Davis disse di non essere un jazzista, ma un musicista che usava il jazz per realizzare la propria musica. Questa è la differenza, e Giorgio Gaber apparteneva (appartiene) a questa razza.

Lo si capiva fin dagli anni Sessanta, quando era un cantante di successo: le sue canzoni permanevano un fiato oltre l'esibizione, le parole semplici e la musica allegramente dubbiosa trattenevano un pensiero, una differenza. Ed era così fin da quando cantava, quasi festeggiandola, la piccola vita delle osterie di periferia (La ballata del Cerutti, Il Riccardo, Trani a gogò, Barbera e champagne) sulla scia della tradizione milanese della «mala» e, prima ancora, del Porta e del Tessa - tutti figli illegittimi e nipoti bastardi di Alessandro Manzoni.

Si capiva che in lui, come nel suo grande amico Enzo Jannacci, c'era qualcosa in più. L'uomo di cui parlo è questo qualcosa in più, un mistero che mette la testa sopra le brutture della storia, che guarda il deserto senza farne parte; è questo ciò che definisce un intellettuale.

Con l'inizio degli anni Settanta le sue canzoni si tinsero più decisamente di ironia, e con l'ironia di un filo di amarezza: E allora dai, Com'è bella la città e altre come L'orgia dove canta: «Ero lì in un'orgia/ facevo qualche cosa/ però non mi ricordo/ una serata così noiosa». L'orgia è la storia, l'orgia è la politica, orgia sono le illusioni collettive.

Gaber provò una passione infinita per lo stato nascente di quelle illusioni, per la speranza che le faceva esistere e dava loro parole, idee, argomenti. Il '68 fu questo. Forse ci fu anche della malafede, fin dall'inizio, ma la speranza era autentica, autentica la scommessa su una vita più giusta, più felice. E Gaber abbracciò questa speranza, e lo fece senza riserve.

Nacque così (era il 1970) un personaggio, un avatar, il Signor G, che fu protagonista di alcuni memorabili spettacoli: e con il Signor G nacque il Teatro Canzone, un genere che Gaber inventò, uscendo di fatto dalla tv (dove era ben posizionato) per poter stare a contatto fisico con le persone, con i corpi. Per questo la parola «intellettuale» sulle prime non gli piacque: «Gli intellettuali» mi disse «non hanno il fisico, non ci mettono la faccia, non stanno lì, a dieci, a cinque, a tre metri dalla gente».

Gli risposi che un intellettuale era, secondo me, un uomo che aveva come unico padrone il proprio pensiero, la propria responsabilità, il proprio coraggio. Che non consideravo intellettuali tutti quelli che, in un modo o nell'altro, erano a libro paga, che (consapevoli o no) erano al servizio di un qualsiasi potere o progetto di potere. Che gli intellettuali si chiamavano Pier Paolo Pasolini, Giovanni Testori, e con loro pochissimi altri. Che un intellettuale è uno che «pensa» e non uno che «la pensa». Che davanti alle parole di un intellettuale l'espressione «sono d'accordo» è del tutto priva di senso.

A queste ultime parole sorrise, malizioso.

«Se è così, posso essere d'accordo con te».

Poi aggiunse. «Però Pasolini e Testori sono morti».

«Tu sei vivo» dissi.

Lui sorrise di nuovo, fece una smorfia, alzò le spalle e si girò dall'altra parte.

Gaber non era mai sodale a priori con il suo pubblico. «Andavamo a sentirlo» ha detto Gioele Dix «per sapere quello che noi stessi avremmo pensato di lì a qualche anno, anche se sul momento ci irritava terribilmente». Per molto tempo i teatri si riempirono di gente che credeva di trovare in lui un complice, poi ci si accorse che lui non strizzava l'occhio a nessuno. Nel 1973, all'indomani del golpe di Pinochet in Cile, durante una manifestazione infuocata ebbe l'ardire di cantare Chiedo scusa se parlo di Maria, forse la sua canzone più bella. Il risultato fu il gelo.

Gaber capì per primo che buona parte dei furiosi estremisti di allora aveva un'anima borghese e benpensante, che lui colpì con alcuni dei suoi spettacoli memorabili già nel titolo (Anche per oggi non si vola, E pensare che c'era il pensiero, Un'idiozia conquistata a fatica); ma capì anche che in quella generale illusione era rimasta un po' di sincerità, e volle salvarla, a costo di essere il solo a farlo.

L'artista in un primo tempo diede a questa cosa un nome, «0partecipazione» (La libertà non è star sopra un albero, Non è neanche un gesto o un'invenzione, La libertà non è uno spazio libero, Libertà è partecipazione). Ma la parola poteva sembrare ambigua, come se declinasse un sentimento generico di rinnovamento collettivo, un'utopia condita con un po' di rabbia o di civismo. Così la «partecipazione» diventò «appartenenza», che è la stessa cosa ma con un accento più profondo: «appartenenza è avere gli altri dentro di sé», dice una celebre canzone, dove la comunità umana è anzitutto una decisione intima, personale, un atto di libertà non derogabile.

Per la destra Gaber fu un uomo di sinistra, per la sinistra finì a destra. Ci resta il suo pensiero, poco catalogabile, sempre vibratile, sempre attento a questa cosa che chiamiamo Realtà, che non è un macigno, ma una domanda nata come un fiore dal tempo presente, alla quale occorre rispondere subito, mettendo in gioco testa, cuore, corpo. Anche quando le teste altrui sono perse tra passato (rimpianto, rancore) e futuro (utopia, rabbia)

Questo è l'artista le cui parole si sono fissate in tanti di noi, mai complici, sempre interrogative, fastidiose. Questo è l'intellettuale come dovrebbe essere. Un umanista vero. Insomma (come già detto): un uomo.

Renzo Arbore: «Giorgio Gaber dovrebbe essere studiato nelle scuole». I primi concerti. Gli anni Settanta, l’impegno, i dubbi. E la voglia di vera libertà. Il grande showman rievoca canzoni e ricordi: «Oggi sarebbe un cane sciolto, critico e perdente». Francesca De Sanctis su L’Espresso il 18 gennaio 2023.

«Giorgio Gaber? Sono stato uno dei primi a scoprirlo. Conservo un 45 giri in cui lui ancora non firmava da solista, era del gruppo Rocky Mountain Old Times Stompers, che lui fondò con Enzo Jannacci, Luigi Tenco, Paolo Tomelleri e Gian Franco Reverberi».

Lo dice con un certo orgoglio Renzo Arbore, mattatore della tv e ambasciatore della musica italiana nel mondo. «Per uno come me che apparteneva al mondo del jazz non era facile ammettere che un artista come Gaber, che faceva musica country e rock and roll, fosse così bravo. Noi jazzisti avevamo un po' la puzza sotto il naso quando sentivamo parlare di rock and roll, ma Gaber incantava tutti, e così cominciai ad affezionarmi alla sua musica, a seguire il suo percorso artistico».

Una carriera densa quella di Gaber (all’anagrafe Giorgio Gaberscik), nato a Milano il 25 gennaio del 1939 e morto il primo gennaio del 2003 in Versilia. Gaber iniziò a suonare come chitarrista nel gruppo di Ghigo Agosti (Ghigo e gli arrabbiati), poi entrò nei Rock Boys, il complesso di Adriano Celentano, e subito dopo nacquero i Rocky Mountain Old Times Stompers. Nell’estate del 1958 cominciò a sperimentare le sue doti canore. Un giorno fu notato da Nanni Ricordi e iniziò la sua carriera da cantante di successo che tutti noi conosciamo. Ma forse la definizione più giusta per lui è quella di intellettuale. A 20 anni dalla sua scomparsa, ne parliamo con Renzo Arbore, che sta lavorando a un progetto per Rai Cultura in cui rilegge le varie tappe della musica italiana, compresi i brani musicali del Signor G, recuperati integralmente.

Che ricordo ha di lui?

«Gaber era una persona di grande talento, ma non amava la tv, e questo è un peccato. L’avevo invitato tante volte quando conducevo “L’altra domenica” su Rai 2 ma non accettò mai il mio invito».

All'inizio della carriera si esibiva al Santa Tecla, a due passi dal Duomo, in cui passavano Adriano Celentano e Mogol…

«Sì, in quegli anni Santa Tecla era un club frequentato anche da Luigi Tenco, Gino Paoli, Enzo Jannacci e tanti ragazzi che sognavano il successo. Diciamo che artisticamente Gaber ha avuto due grandi periodi. Il primo fu quello in cui a scrivere le sue canzoni era Umberto Simonetta, che aveva scoperto anche Jannacci. Il suo successo più grande fu “La ballata del Cerutti”, nel 1960, ma ci furono anche “Trani a gogò” o “Il Riccardo”, tutte canzoni ricche di poesia che raccontavano ciò che accadeva al bar del Giambellino, in cui Gaber passava le sue serate e di cui raccontò più avanti anche nel brano “Le nostre serate”, pentito di quelle “serate stupide e vuote”. In quegli anni erano nate anche “Torpedo blu” e “Non arrossire”, ma ad un certo punto Gaber capì che doveva inventare qualcosa di diverso».

Cosa cercava?

«Non voleva solo cantare le sue “canzoncine” e venderle. Per questo incontrò Sandro Luporini, poeta, scrittore, con il quale inventò “Il Signor G”, che ha fatto molto discutere ma ha anche narrato quel periodo lì. Erano gli anni di piombo, gli anni delle proteste e i cantanti dovevano essere “impegnati”. Attraverso il Teatro Canzone, genere di cui Gaber fu l'inventore, rifletteva su tutto ciò che accadeva. Negli anni Settanta lui era controcorrente, critico, ma era anche discutibile. C’era uno sdoppiamento da parte sua, come ci indica anche il titolo dell'album “Dialogo fra un impegnato e un non so”. Una sua frase della canzone “Un’idea” diceva: “Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione”. Quando uscì il brano “La libertà”, in cui cantava che la libertà era uno spazio di partecipazione, non uno spazio libero, fu accusato di essere ambivalente».

Negli ultimi anni di Teatro Canzone fu però molto critico nei confronti della società.

«Quando uscì “Far finta di essere sani” fu molto critico verso il governo e cominciò a raccontare le paure dell'epoca, i suoi monologhi interpretavano la società di allora, finché scrisse “Io se fossi Dio”, un brano spiazzante che era un’invettiva contro tutti, giornalisti, politici, intellettuali. Negli anni di piombo scrisse anche “Qualcuno era comunista” e “Destra-Sinistra”, una canzone scherzosa ma ricca di significato. Verso gli anni di fine carriera uscì l’album “E pensare che c'era il pensiero”. La seconda vita di Gaber è stata un inseguimento del pensiero che voleva analizzare, criticare, condividere. Gli anni di piombo erano gli anni di Marcuse, Mao, Adorno, ma io penso che in fondo in fondo Gaber fosse un liberale. Lui non si esponeva, voleva decifrare, era stordito dalla politica invadente che etichettava».

Esattamente 10 anni fa lei reinterpretò “Non arrossire”, immagino sia uno dei suoi brani preferiti…

«Sì, “Non arrossire” è un brano che ho amato molto, che interpretai a Viareggio con Stefano Di Battista in un concerto organizzato da Dalia, la figlia di Giorgio. Amo molto anche “Porta Romana”. Mi piaceva quel modo che aveva Gaber di raccontare Milano, lo faceva talmente bene che era impossibile non innamorarsi. Noi “terroni” subivamo il fascino di Milano. E così ho continuato ad amare Gaber per tutta la vita».

Qual è l'eredità di Gaber, perché ancora oggi lo ricordiamo?

«Aveva visto lontano, i suoi brani sono ancora attualissimi, perché affrontava delle tematiche che riguardavano tutti. È importante comporre canzoni a futura memoria. Ed è giusto riscoprirle, come fanno portandole in giro nei teatri Neri Marcorè o Andrea Scanzi».

Gaber parlava spesso di politica, di libertà. Cosa direbbe Gaber della società di oggi?

«Sono argomenti sempre attuali. Ma oggi credo che Gaber sarebbe un cane sciolto, assolutamente critico e perdente, i suoi ideali non sono stati realizzati, sarebbe un deluso della società».

Esistono Festival, manifestazioni, c'è una Fondazione che rendono omaggio a Gaber. Si può insegnare il pensiero critico?

«Certo, Gaber è senza dubbio da approfondire. Io credo che andrebbe studiato nelle scuole. Penso sia giusta questa riscoperta di un cantante che è riuscito a fotografare un’epoca complicata. Il suo era un pubblico di sinistra, acculturato, con cui doveva fare i conti. Ma era molto amato».

Se la tv si dimentica di Giorgio Gaber. Piccolo schermo e teatro hanno dimenticato i 20 anni dalla morte del cantante milanese. Genio anarcoide, non apparteneva a nessuno e oggi solo pochi lo celebrano (su Youtube)

Francesco Specchia su Libero Quotidiano l’8 gennaio 2023.

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Forse Giorgio Gaber meritava di più. Forse per omaggiare i vent' anni dalla morte di quel pazzo di talento che rivoluzionò la stessa missione sociale dello spettacolo, per colui che è stato un po' il Pelé della canzone italiana (i fondamentali li aveva tutti: scrittura, voce, dribbling di poesia e rabone d'anarchia), be', forse si poteva fare di più.

Ci siamo dovuti accontentare di Tutto Gaber una seppur encomiabile maratona in streaming sul sito della Fondazione Gaber: un mélange sentimentale fatto di filmati unici di «apparizioni televisive della Svizzera italiana, con il Signor G, alle retrospettive registrate nel 1980 al Teatro Lirico (ora Teatro Lirico Giorgio Gaber), agli spettacoli degli Anni 80 e 90 nei più importanti teatri italiani, alla produzione video voluta dallo stesso Gaber e realizzata a Pietrasanta nel 1991». Tutto molto bello, per carità. C'è, perfino, nel racconto gaberiano on line, la benedizione della Rai che apre le sue teche ma non i suoi canali e della tv svizzera. Ma diciamo pure che non c'è quell'inondazione di speciali televisivi (di tutte le tv da Mediaset a La7, alla stessa tv di Stato), di dibattiti pubblici, di rassegne che ci saremmo aspettati. In realtà, ha ragione Sandro Luporini, l'alter ego di Gaber, quando dice «i ragazzi di oggi non ci conoscono, quelli della generazione che ha cinquant' anni sì».

UN PASSO AVANTI A TUTTI La fotografia plastica di quest'oblio diffuso su Gaber e sulla sua eredità culturale sta in un emblematico servizio della testata Fanpage.it dove in un montaggio divertito e sconsolato, alla domanda del cronista Luca Iavarone a mandrie di 15/20enni milanesi se conoscessero «l'intellettuale libero del teatro-canzone?», la risposta è stata una prateria di cristallina ignoranza. D'altronde cantava lo stesso Gaber «Giovani si fa per dire/Giovani, non tanto giovani/ allegri ragazzoni, senza offesa eroi di quell'età un po' vaga/ e anche un po' difettosa/ carichi di un potenziale che per adesso non si è ancora espresso/ in termini di doti straordinarie e anche di sesso». La spiegazione, forse, è che Gaber si è sempre trovato fuori sincrono, perché era sempre un passo avanti a tutti.

Sicché, in questo giorni di necessaria evocazione, dobbiamo accontentarci di Youtube come friabile ex voto di un anticonformista che aveva destrutturato sì la canzone romantica e swing (Non arrossire, Il Riccardo, Porta Romana, La ballata del Cerutti); ma pure aveva attraversato, con i suoi show, la storia d'Italia. Dalle illusioni del '68 al rapimento Moro, da Tangentopoli al berlusconismo, dalla caduta delle ideologie al prefigurarsi del populismo e del qualunquismo venato di reazione, dai drammi individuali all'incombere del consumismo fino all'ossessione dell'apparire e dei numeri come principale criterio di valutazione: gli spettacoli di teatro-canzone di Gaber e Luporini hanno indagato i temi più laceranti del dibattito pubblico senza alcuna concessione al facile consenso, distillando ironia e cultura come strumenti per esprimere liberamente il proprio pensiero, anche a costo di attirarsi critiche feroci. Cosa che ovviamente accadde.

Giorgio Gaberscik, nato nel 1939 a Milano, già grande musicista di stampo jazz con la passione degli chansonnier fu l'essenza dell'anticonformismo, il capobranco dei cani sciolti.

Soffriva le catalogazioni al punto di rompere con la tv sia per eludere le soggezioni politiche, sia per dedicarsi al contatto diretto col pubblico calcando il palco. I suoi esegeti affermano che Gaber non abbia mai fatto politica. Non è esatto. Non l'ha fatta in senso stretto. Ma se prendete i suoi anni artistici dal 1972 al '78 e ascoltate Dialogo tra un impegnato e un non so (contiene capolavori come Un'idea, La libertà) o l'intero Polli di allevamento o Quando e moda è moda dove sbeffeggia il movimento giovanile del '77 ; ecco, lì sentirete la lama sottile della satira infilarsi nella carne viva della politica. E se riprendete il Gaber, oramai affaticato, degli anni 2000, beh, gustatevi La mia generazione ha perso; o il patriottico Io non mi sento italiano («ma in fondo/ o per fortuna lo sono»); o Destra sinistra, Il conformista, Qualcuno era comunista; e capirete che la politica intesa nel senso etimologico di servizio ne ha sempre permeato il pensiero anarcoide.

PENSIERO ANARCOIDE E che fosse un pensiero fastidioso a sinistrapur proveniendo Gaber da quel mondo - sta nelle cose. Luca Canali sull'Unità scrisse del «triste tramonto di un menestrello», Giovanni Raboni sul Corrierone cercò di inquadrarlo nella nascente narrazione leghista; ed erano viste con sospetto alcune delle sue frequentazioni come quella di Vittorio Feltri, o di Berlusconi quando lo sondò per una candidatura (che poi toccò alla moglie, Ombretta Colli). Ma è proprio per questa capacità di dirigere il traffico delle idee sotto la sua ala liberal e il suo naso imponente, che Gaber merita l'attenzione dei più giovani. Non foss'anche che su Youtube. Mio figlio all'età di cinque anni mi chiese: «Papà ma è più forte Gaber o Iannacci?», mentre i suoi coetanei usciti dai film Marvel si domandavano chi menasse meglio tra Hulk o Thor. Non fui in grado di rispondergli. Ma non è un caso che nei suoi giri milanesi abbia tuttora una predilezione per Porta Romana o per il Bar del Giambellino... (e credo che Dalia Gaberscik, la figlia di Giorgio, ancora se ne ricordi)

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 2 gennaio 2023.

Spirava un'aria frizzantina quella placida domenica sera di luglio a Bergamo alta. All'interno delle ciclopiche mura, a cui il mio cuore resta inchiodato, era in corso la festa dell'Unità, alla quale aderivano con entusiastica partecipazione non solo i comunisti delle valli e della città ma tutti i bergamaschi desiderosi di trascorrere del tempo ameno ascoltando musica e divorando succulento cibo di strada, come si usa fare tuttora nelle sagre paesane.

 Persino io, che all'epoca ero socialista, mi univo con delizia a questa adunata di rossi e rossi scoloriti, insieme a qualche amico. Ero appena diciottenne e quell'anno era stato invitato all'evento un artista già conosciuto ed apprezzato in tutta la penisola, il cantautore Giorgio Gaber. In estate nelle piscine pubbliche di Bergamo i suoi brani facevano da sottofondo.

 Aveva 22 anni allora e non si dava affatto delle arie, come del resto non fece mai.

Ho davanti agli occhi un'immagine di lui sul palco, mentre intona una delle sue canzoni. Indossava una camicia celestina, una giacca blu classica con tre bottoni, un pantalone grigio e le clarks.

 L'eleganza mi rimane più impressa nella mente della sciatteria, la quale cerco di dimenticare. Allora anche i giovani vestivano in modo sobrio e raffinato ed è forse questo ciò che rimpiango del tempo passato, pur non avendo uno spirito sentimentale e nostalgico nei confronti di ciò che fu. Il rimpianto è da sfigati. Preferisco il pentimento. Ma torniamo a quel giovanotto lassù, con la sua chitarra tra le braccia ed i suoi modi composti. Nessuno della platea che lo osservava si strappava i capelli, non era Paul McCartney né Elvis Presley, eppure incantava.

 Terminata l'esibizione, quando la maggior parte della gente accorsa era già rincasata, Giorgio scese dal rudimentale palchetto e si avvicinò al baracchino delle birre, ne prese una e poi fece due o tre passi verso quei ragazzi che se ne stavano seduti ad un tavolino, tra i quali c'ero pure io. Non osò chiederci se potesse accomodarsi accanto a noi, eppure ci lanciò un'occhiata. Non mancammo di incitarlo ad unirsi alla brigata, ed egli accettò di buon grado l'invito.

 All'improvviso il "divo", l'ospite d'onore, l'attrazione della serata, era uno di noi.

Chiacchierammo a lungo. E prima di congedarci, Gaber ed io ci scambiammo il numero di telefono, promettendoci a vicenda che ci saremmo fatti vivi nel caso in cui io mi fossi trovato a Milano, dove Giorgio abitava, o lui fosse tornato a Bergamo.

Vada sé che non ci telefonammo mai. Tuttavia conservai il suo numero, appuntato scrupolosamente nella mia rubrichetta personale che tenevo sempre in tasca.

Qualche anno dopo mi trasferii nel capoluogo lombardo per lavorare a La Notte, eppure non chiamai Gaber, non mi sembrava opportuno disturbarlo dicendogli: «Ehi, ti ricordi di me? Ci siamo conosciuti alla festa dell'Unità diversi anni orsono. Sono Vittorio, bevemmo una birra insieme». Sarebbe stato ridicolo. Addirittura imbarazzante. Ma il contatto mi risultò utile non appena mi fu affidata la stesura di un articolo riguardante proprio il cantante.

 Lo chiamai. Mi rispose. Accettò l'intervista. Non feci parola del passato. Ci incontrammo. Lo intervistai. Ad un certo punto, vidi lo sguardo di Giorgio impegnato in uno sforzo mentre mi scrutava.

 «Mi sembri un viso conosciuto. Credo che ci siamo già visti da qualche parte».

«Beh, sì, in effetti, ci siamo già visti. Alla festa dell'Unità di Bergamo, sette o otto anni fa».

«Ma certo, sì. Mi ricordo. Vittorio, poi non mi hai telefonato...».

«Come no?! L'ho fatto adesso».

 Nacque così la nostra amicizia. Che forse era già nata.

Solo che noi ancora non lo sapevamo. Giorgio mi leggeva e spesso telefonava in redazione per complimentarsi per i miei pezzi o per commentarli. Non erano rare le sere in cui, uscito distrutto dal giornale, incontravo Giorgio per cenare insieme.

Di solito ci recavamo nelle solite vecchie osterie, chiamarli "ristoranti" sarebbe troppo, erano taverne dall'ambiente accogliente, caldo e familiare. Lì ci sentivamo a nostro agio.

Una in particolare era cara a Gaber, non ricordo esattamente la via, né il nome del locale. Si trovava nei pressi di Porta Romana. Lì a volte ci raggiungeva una nostra amica. Si mangiava, ma soprattutto si rideva.

 Io e Giorgio andavamo d'accordo perché eravamo molto simili.Era refrattario come me alle etichette, ai luoghi comuni, ai cliché, ai pregiudizi e ai giudizi. Gaber era un ribelle, un anarchico, un anticonformista. In lui convivevano in perfetta armonia uno spirito introspettivo, umbratile, riservato, se non addirittura solitario, ed uno spirito giocoso, bambinesco, scanzonato ed irriverente.

Penso che questo trapeli pure dalle sue canzoni. Personalmente prediligo di gran lunga il primo Gaber, a livello artistico, ossia quello romantico, quello di una delle mie canzoni preferite: "Porta Romana". Ammetto che tuttora, quando la ascolto, mi commuovo. Vengo travolto da vecchie e tenere memorie custodite nei meandri del cuore.

Ripenso alla mia prima moglie, Maria Luisa, morta giovanissima. E anche ai primi amori, agli anni Sessanta, quando i novelli fidanzatini per godere di un barlume di intimità si recavano al cinema ed occupavano le ultime file, poco interessati al film in proiezione e molto interessati alle reciproche esplorazioni. Nulla di scandaloso.

 Nulla di losco. Tutto aveva un sapore dolce ed innocente, persino ciò che allora sembrava peccaminoso adesso mi appare così ingenuo. Puro. E lo era. Un'altra canzone che ascolto sovente è "Mi innamoro a poco a poco", del 1964.

 Una sera, mentre consumavamo la nostra cena, Giorgio mi confidò di essere afflitto da una sorta di rimpianto o complesso.

 Non si era mai laureato e questo lo faceva sentire quasi difettoso, incompleto, o inadeguato. Era un artista di successo, amato e stimato dal grande pubblico proprio per i suoi testi arguti, eppure si percepiva monco. Si era iscritto alla facoltà di filosofia e studiava forsennatamente ma pure a fatica dato che la sua carriera era tutt' altro che poco impegnativa, al fine di colmare quello che considerava un terribile handicap. Sentendolo parlare, mi resi conto della serietà della sua inquietudine.

 E volli sdrammatizzare senza prenderlo in giro. Anche perché mi appariva assurdo soffrire per non avere la laurea. Gli stilai dunque sul momento la lista di intellettuali, scrittori, poeti, giornalisti, scienziati, premi Nobel che non avevano mai frequentato l'università e che pure nelle università erano entrati sì, ma come autori da studiare e mai nel ruolo di studenti. Annoverai Eugenio Montale, Umberto Saba, Gabriele D'Annunzio, Benedetto Croce, Grazia Deledda, Enzo Biagi, Orio Vergani, Salvatore Quasimodo, Walt Disney, Henry Ford, Guglielmo Marconi. L'unico Nobel italiano laureato per la letteratura fu Pirandello. Giorgio restò attonito per qualche minuto.

Mi guardava perplesso, a bocca aperta, rimuginando pensieri nella sua testa. Poi si mise a ridere. «Ma dici davvero? Sei sicuro?», mi domandò ancora incredulo.

«Certo, e se vuoi ora ti faccio l'elenco dei coglioni con la laurea», risposi. E scoppiamo a ridere. Quella sera Giorgio guarì definitivamente dal suo complesso d'inferiorità o di inadeguatezza. Ed io posso dire di avere un merito: ho fatto sì che Gaber lasciasse gli studi. E prendesse finalmente pace. Non diede più un esame. E a lungo mi ringraziò per averlo liberato dall'ansia di dovere a tutti i costi diventare dottore.

Nel corso di uno dei nostri incontri in osteria nacque uno dei brani più celebri di Giorgio: Destra-Sinistra. Ci domandavamo che diavolo di senso avesse ancora discettare di sinistra e destra, rossi e neri. Cosa è di sinistra e cosa è di destra? Era questo il quesito fondamentale. Egli tirò fuori dalla tasca della sua giacca un foglio piegato in quattro e la penna ed iniziò a prendere appunti.

 «Fare il bagno nella vasca è di destra, fare la doccia invece è di sinistra», «un pacchetto di Marlboro è di destra, di contrabbando è di sinistra», «una bella minestrina è di destra, il minestrone è sempre di sinistra», «la patata per natura è di sinistra, spappolata nel purè è di destra», «il culatello è di destra, la mortadella è di sinistra», «non si sa se la fortuna sia di destra, la sfiga è sempre di sinistra», «i collant sono quasi sempre di sinistra, il reggicalze è più che mai di destra». A quel punto fui sopraffatto da un'esigenza corporale e lo dissi in modo anche esplicito, addirittura triviale: «Scusate, devo pisciare, ma non seguitemi». E Gaber: «La pisciata in compagnia è di sinistra», ed io aggiunsi «il cesso è sempre in fondo a destra».

Non avevo idea che venissero concepite così le canzoni e restai a dir poco sbalordito, oltre che compiaciuto, allorché Giorgio mi fece consegnare al Giornale il cd che conteneva l'opera.

 Ogni volta che Giorgio si esibiva a Milano o nella mia città natale, mi inviava i biglietti per i miei figli, che lo adoravano. Aveva queste attenzioni, queste delicatezze quasi commoventi. Era un animo gentile. Uno dei miei amici più cari.

 Gli impegni, i guai, i fatti della vita, questa corsa spericolata verso non si sa cosa, ci conducono spesso a perderci di vista per un po'. Eppure tra amici veri quel filo sottile e invisibile che ci lega non si spezza mai. Ecco perché ritrovarsi è come rivedersi dopo ieri.

Sapevo che Giorgio era molto malato. Un giorno mi telefonò sua moglie, mi fece capire che egli stava per lasciarci. Me lo fece intuire, poiché non aveva la forza di parlarne esplicitamente. Quindi, in un certo senso, il suo trapasso me l'aspettavo.

 Era nell'aria. Tuttavia, restai raggelato quel dì. Era il primo gennaio del 2003. Alcuni redattori irruppero nel mio ufficio. «È morto Giorgio Gaber, direttore. Dove lo inseriamo?».

Il giornalista ha la dannazione di arrivare per primo anche alle notizie che non vorrebbe mai apprendere e chissà perché si dà sempre per scontato che queste non gli facciano più nessun effetto. Fu un pugno allo stomaco. Il sangue si congelò nelle vene, il respiro si bloccò nei polmoni, mentre nella mia mente scorrevano immagini mute alla velocità della luce.

 Eccomi lì, oltre 40 anni dopo il nostro primo incontro, da Bergamo a Milano, dalla fanciullezza all'età adulta, dalle fervidi speranze per il futuro alle sudate sicurezze del presente. Giorgio in tutto questo era cresciuto insieme a me. E non ce ne eravamo quasi accorti. Come era possibile? E ora lui non c'era più.

 Quel ragazzo con l'asciutta giacca blu, i pantaloni grigi, la camicia celestina e le clarks, che con la mia stessa timidezza si era seduto accanto a me al tavolino di un bar improvvisato se ne era andato via. Per sempre. Lo ritrovo ancora. Quando ascolto la sua voce. La sua musica. E lì ritrovo anche me stesso.

Giorgio Gaber se ne andava 20 anni fa: gli inizi come chitarrista, il debutto de «Il signor G», 7 segreti.  Arianna Ascione su Il Corriere della Sera l’1 gennaio 2023.

Moriva il 1° gennaio 2003 l’inventore del teatro canzone, autore di brani immortali come «La ballata del Cerutti» e «La libertà»

La maratona streaming

Se ne andava in questo giorno di 20 anni fa, nella sua casa a Montemagno in provincia di Lucca, Giorgio Gaber. Per ricordare il cantautore dalla mezzanotte del primo gennaio - per 24 ore - la Fondazione che porta il suo nome propone in free streaming (su www.giorgiogaber.it) una maratona di filmati unici, una lunga sequenza senza ordine cronologico in prosa e in musica, un’occasione per ripercorrere i trent'anni di teatro canzone (il genere ideato in sodalizio artistico con Sandro Luporini). Gaber, nato a Milano il 25 gennaio 1939 (Gaberscik all’anagrafe), si è avvicinato alla musica fin da piccolo: di salute cagionevole durante l'infanzia si è ammalò due volte di poliomielite. Per curare una lieve paralisi alla mano sinistra, causata dalla malattia, suo padre Guido gli regalò una chitarra e lui imparò a suonarla. «Tutta la mia carriera nasce da questa malattia», dirà poi il cantautore. E questa non è l’unica curiosità su di lui.

La carriera da chitarrista

Al Santa Tecla, locale a due passi dal Duomo, nella seconda metà degli anni Cinquanta si intrecciano le strade di numerosi artisti che faranno la storia della musica italiana. Gaber inizia come chitarrista nel gruppo di Ghigo Agosti «Ghigo e gli arrabbiati», e dopo due anni entra nei Rock Boys, il complesso di Adriano Celentano. Al pianoforte c’è Enzo Jannacci e con quest’ultimo, insieme a Luigi Tenco (in quel periodo trasferitosi a Milano da Genova), Paolo Tomelleri e Gian Franco Reverberi Gaber dà vita ai Rocky Mountains Old Times Stompers. Un giorno il cantautore viene notato da Mogol, che lo invita alla Ricordi per un'audizione.

Il bar del Cerutti Gino

«Ciao ti dirò», «Geneviève», «Non arrossire», «Porta Romana»: come artista solista Gaber spazia tra diversi generi musicali (dal rock degli inizi ai lenti fino alle ballate popolari) e conquista anno dopo anno una sempre maggiore popolarità. Partecipa a Canzonissima, va quattro volte al Festival di Sanremo, e conduce programmi tv come Canzoni di mezza sera e Canzoniere minimo. Tra i suoi brani più celebri scritti negli anni Sessanta c’è «La ballata del Cerutti». Forse non tutti sanno che il bar citato in un verso esisteva davvero: era il Bar Gino, in via Giambellino 50.

L’amore con Ombretta Colli

Il 12 aprile 1965 Giorgio Gaber convola a nozze con la cantante e attrice Ombretta Colli a Chiaravalle. «Studiavo. E per guadagnare qualcosa facevo la modella - ricordava lo scorso anno Colli al Corriere -. Fui chiamata precipitosamente per delle pose che riguardavano la copertina di un disco in sostituzione di una collega indisposta. Dovevo posare con Giorgio, già allora piuttosto famoso, ma molto nervoso e molto poco disponibile. Già allora certe incombenze professionali lo disturbavano. Fu un approccio tutt’altro che facile e non riuscivamo a trovare feeling. Suggerii un bacio per l’immagine di copertina. La tensione si allentò, ma ci congedammo molto professionalmente convinti che mai più ci saremmo rincontrati». Invece si incontrarono una seconda volta, a Roma: «Lui rintracciò con fatica il mio albergo e mi chiamò in piena notte dopo una festa in un attico molto elegante. Fui svegliata con grande disappunto nel cuore della notte, ma anche ammirata e intrigata. Tempo dopo primo appuntamento a cena a Milano. Al momento di pagare si accorse di non avere il portafogli. Non l’ho mai più rivisto così a disagio». Dall’unione nascerà la figlia Dalia.

L’esordio de «Il signor G»

Negli anni Settanta, al culmine della popolarità, Gaber lascia la televisione per dare vita al teatro canzone, formula che porterà avanti con successo fino alla sua morte. Il 18 ottobre 1970 «Il signor G» - il primo di una serie di spettacoli in cui Gaber affronta temi sociali e politici - esordisce al Teatro San Rocco di Seregno, con la regia di Beppe Recchia e la direzione musicale di Giorgio Casellato. «Il signor G - si legge nel programma di sala - è l’uomo che fa fatica a vivere e a cui crollano uno dopo l’altro i miti della giovinezza». Al termine della prima stagione Gaber chiede all'amico Sandro Luporini di scrivere insieme a lui i testi delle canzoni e dei monologhi. Nasce così «Storie vecchie e nuove del signor G», una versione ampliata dello spettacolo precedente. La collaborazione con Luporini proseguirà anche nei decenni successivi.

Il Teatro Lirico a lui intitolato

Il Teatro Lirico in via Larga 14 a Milano, riaperto nel 2021 dopo essere rimasto chiuso per 22 anni, è intitolato a Giorgio Gaber. Qui il cantautore si è esibito con Mina a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, tappa di una storica tournée, e qui ha proposto i suoi spettacoli. Al Lirico, ha ricordato Dalia Gaberscik in occasione dell’inaugurazione lo scorso anno, «festeggiammo anche a sorpresa i 60 anni di mio papà, il teatro era già chiuso ma riuscimmo ad avere un permesso speciale e papà si ritrovò sul palco con una cinquantina di amici carissimi».

La targa sulla casa in cui nacque

«Qui nacque nel 1939 Giorgio Gaber. Inventore del Teatro - Canzone. La sua opera accompagna vecchie e nuove generazioni sulla strada della libertà di pensiero e dell’onestà intellettuale». In ricordo degli ottant’anni della nascita del Signor G. il 25 gennaio 2019, sulla facciata della casa natale dell’artista in via Londonio 28 a Milano (zona Sempione), è stata apposta una targa commemorativa.

Antonio Gnoli per “la Repubblica – Robinson” il 28 luglio 2022.

È una tarda mattinata quella in cui Sandro Luporini mi riceve avvolto nella sua vestaglia color amaranto. Artista e memorabile scrittore dei testi di Giorgio Gaber, vive i suoi 92 anni alla periferia di Viareggio, in un complesso di palazzine immerse nella quiete. Dalla finestra si intravede un lembo di pineta. La stanza è ampia e disordinata. Sembra di essere piombati nello spazio di un fantasioso rigattiere. 

Ammonticchiati da un lato si vedono una chitarra, una vecchia macchina da scrivere, un imponente ventilatore, armadi a vetro pieni di carte e di libri, delle scarpe appese, qualche lampada e naturalmente quadri, che fanno parte della sua storia. Sediamo su due sedie di solido legno scuro ,che un tempo arredavano immagino stravaganti tinelli, in mezzo un tavolino su cui poggia il gioco di una dama con una partita ancora in corso. Gli chiedo se lo preferisce agli scacchi. 

Mi risponde che nella dama tutto è più semplice, meno arzigogolato. Ma agli scacchi ha giocato a lungo: «Passavamo interi pomeriggi con Gianfranco Ferroni a muovere pedoni e i pezzi importanti.

Avevamo accanto alla scacchiera l'orologio da premere dopo ogni mossa. Sembravamo due autorevoli giocatori. Ma la verità è che preferivamo le bocce e il bridge». 

Dove eravate?

«A Milano, è lì che ci siamo conosciuti. Ci siamo annusati come artisti e frequentati per poi diventare amici. Gianfranco non era un tipo facile. Ma se entravi nelle sue grazie non c'era cosa che non avrebbe fatto per te». 

In che anni vi siete frequentati?

«La seconda metà degli anni cinquanta. Facevamo parte della Galleria Bergamini. Ferroni era la punta di un movimento che si chiamava "realismo esistenziale". Niente a che vedere con le teorie di Sartre e le Cave dove Boris Vian suonava la tromba e la Greco di nero fasciata illanguidiva sulle note di Les feulles morte, quella roba rifatta da noi rischiava di essere caricatura». 

E voi che cosa volevate progettare?

«Abbiamo rimosso tutta la roba intimista e dolente e ci siamo chiesti che cos' è che conta per un artista? Abbiamo capito che la cosa importante è come vedi quello che c'è fuori. Il mondo è molto più ricco di quello che ti porti dentro. Questo abbiamo pensato cercando di realizzarlo con i nostri quadri. 

Ricordo che un discorso analogo feci a Giorgio Gaber e lui che allora leggeva poco e poco sapeva di arte mi ascoltò con curiosità. Non era la prima volta che ci vedevamo. C'eravamo già incrociati al Bar Sempione di via Procaccini, dove abitavo e la casa di Giorgio non era distante. Poi arrivò quel pomeriggio, mi vide in Galleria ed entrò. Fu in quel momento che ebbe inizio il nostro rapporto. Sto parlando dei primi anni Sessanta». 

Tu sapevi che era un cantante?

«Sapevo che suonava. Un giorno si presentò in galleria con la chitarra e strimpellò un po' di note accompagnandole con la voce. Gli dissi mica male, Giorgio. E lui, molto timidamente, mi ringraziò e poi disse che gli sarebbe piaciuto dar vita a un progetto comune». 

Quale?

«Voleva che lo aiutassi a scrivere i testi per la sua musica. E lì compresi la prima cosa che Gaber possedeva: una grande modestia. Credeva fermamente nel suo lavoro di musicista, ma conosceva perfettamente i suoi limiti letterari. Ha impiegato anni prima di sentirsi su quel piano meno insicuro».

Ma tu non avevi mai scritto testi per canzoni?

«La mia prima reazione fu appunto di dirgli no. Poi ha prevalso la curiosità. Con Ferroni provammo a buttare giù qualcosa, decisamente troppo cupa, un po' come i quadri "esistenzialisti" che dipingevamo. 

Alla fine riuscii a dargli un testo compiuto con un titolo bizzarro: Suono di una corda spezzata. Giorgio lo musicò e divenne il retro del 45 giri che conteneva La ballata del Cerutti. Era il 1961. Quella canzone piacque solo a noi due, ma fu l'inizio di una collaborazione durata mezzo secolo». 

Ti sei sempre sentito in sintonia con Gaber?

«Di screzi ce ne sono stati pochi. Discutevamo tantissimo. A casa, in osteria, in albergo. Lui adorava vivere in albergo. Potevamo passare ore attorno a un tavolo cercando di mettere a fuoco che cosa volevamo dire con una canzone. Eravamo il cantante e il pittore, due dilettanti - diceva Giorgio - un po' speciali». 

Quando hai capito che anche il rapporto con lui era speciale?

«Beh, quando all'inizio degli anni Settanta abbiamo pensato che scrivere canzoni fosse un'occasione per fare teatro». 

La conferma vi arrivò con "Il signor G"?

«Un po' prima. Negli anni in cui cominciò a fare televisione, Gaber scoprì la sua vocazione recitante. Fu in virtù del bellissimo rapporto professionale con Mina che riuscì a tirare fuori le doti di intrattenitore a volte ironico e altre caustico. "Il signor G" che doveva essere all'inizio una canzone divenne un vero e proprio spettacolo. E fu grazie a Paolo Grassi, allora direttore del Piccolo di Milano, che lo spettacolo un po' alla volta decollò». 

Ma chi era questo "Signor G"?

«L'iniziale farebbe pensare proprio a Gaber. In realtà era il piccolo borghese che cercava di scrollarsi di dosso la patina di conformismo. La storia di un uomo insignificante che, in un periodo di cambiamento sociale, cerca di rispondere ai primi dubbi che gli vengono su di sé». 

Volevate farne un rivoluzionario?

«Ma no, la sua presa di coscienza non aveva niente di ideologico. Vedevamo anche i limiti di quei tentativi di cambiamento. Infatti, subito dopo realizzammo Dialogo tra un impegnato e non so e l'anno successivo, 1973-74, Far finta di essere sani. Fino alla stagione 1974-75 quando realizzammo Anche per oggi non si vola, dove era abbastanza chiaro che il desiderio di cambiamento era naufragato nel velleitarismo». 

Prendeste la politica dalle corna per abbatterla?

«Non ci credevamo più, la stagione si stava concludendo nella violenza e nel fumo del settarismo. Io non avevo rinunciato alla mia piccola dose di utopia, ma non si adattava a quel clima. Per me e Giorgio la politica era parlare di vita, provare a raccontare quello che ci portavamo dentro. In polemica con una certa cultura dominante». 

Ma era una cultura di sinistra quella che allora dominava.

«Sai, ho sempre avuto un atteggiamento un po' anarcoide, diciamo pure da irregolare. Al Capitale di Marx che pure ho leggiucchiato preferivo Viaggio al termine della notte. Dicono: Céline era un fascistone, antisemita. D'accordo, e non sarò io a giustificarlo.

Ma quel libro a me ha cambiato la vita». 

Cosa vuol dire?

«È quando cominci a respirare insieme allo stile del romanzo, che arrivi a comprendere come certe parole diventano qualcosa di vitale. Mi fai venire in mente che, a proposito dello spettacolo Polli di allevamento, scrissi una canzone La festa che prende spunto proprio da Céline, quando dice che gli uomini riescono a dare il peggio di sé durante i giorni di festa. 

Non sanno che farsene del tempo libero, lo usano in maniera convenzionale, meccanica. Il tempo libero è il modo con cui la società del consumo mette noi in catene». 

A proposito di tempo libero, trovavi il modo di continuare a dipingere?

«Non ho mai smesso. L'ho fatto durante i vent' anni in cui ero a Milano e ho continuato quando sono tornato a Viareggio». 

Perché andasti via?

«Me ne andai perché era finito un periodo. Milano era ormai l'esaltazione del superfluo, una città modaiola e di faccendieri divisi tra politica e finanza. Feci la mia scelta. Quanto alla pittura passai insieme ad altri artisti - Bartolini, Biagi, Ferroni, Mannocci, per fare dei nomi - dal realismo esistenziale alla Metacosa. Aggiornai così il mio linguaggio in un tentativo di confronto con le esperienze artistiche americane». 

Dipingi ancora?

«Ho continuato a farlo fino a sette, otto anni fa. A un certo punto mi sono accorto che quello che volevo dire con la pittura l'avevo detto. Gli ultimi miei quadri sono delle mareggiate, ne ho realizzate diverse. Mi sembrava di dipingere a memoria. E allora ho messo un punto. Il bello della pittura è di non sapere dove vai a parare. E non mi divertivo più sapendo perfettamente in anticipo cosa avrei realizzato». 

Hai anche continuato a scrivere di teatro dopo la scomparsa di Gaber?

«Sì l'ho fatto, mi pareva che avessi ancora qualcosa da dire». 

Come sono stati gli ultimi anni della collaborazione con Gaber?

«Immagino che ti riferisca al periodo della malattia. Sono stati anni intensi, anche se mi pare nel 2002 Giorgio aveva smesso di sperare di tornare sul palcoscenico». 

Te lo disse?

«No, ma lo capii dalla sua stanchezza, dal riserbo. Quasi una forma di rassegnazione. Almeno così io ho vissuto quei momenti. Sai, durante quel periodo non nominammo mai la sua malattia. La parola "cancro".

E non c'entra niente se eravamo più o meno intimi in quel momento. Era una forma di pudore. Se le parole non spiegano il mistero della vita e della morte, allora meglio tacere. Continuammo a vederci con regolarità. Ma ogni nostro incontro apparentemente pieno di progetti, in realtà era una recita. Facevamo finta di lavorare». 

Lui ne era consapevole?

«Lo eravamo entrambi. Anche se qualcosa provammo ad allestire. Immaginammo uno spettacolo dal titolo emblematico Io non mi sento italiano. Fu quello l'ultimo disco. Ricordo che allestimmo un camion con tutte le attrezzature davanti alla sua casa di Montemagno. Giorgio cantò Se ci fosse un uomo. Non ce la faceva a stare in piedi per lungo tempo. Cantò dalla poltrona. Era seduto e la voce nel microfono mascherava la sofferenza.

Quella fu l'ultima canzone di Gaber che ascoltai». 

Cosa immaginavate con "Se ci fosse un uomo"?

«Non lo so, sono passati tanti anni e certe volte le risposte si rivestono degli interrogativi del momento. Eravamo entrati baldanzosi nel nuovo millennio. Ma l'Occidente era ancora traumatizzato dal crollo delle "Due torri".

Avemmo la sensazione che gli uomini fossero stati sostituiti dagli eserciti, dal fanatismo, da entità strane come la mega-finanza o da quelle nuove strutture, allora nascenti, che tengono interconnesso il mondo. Non ci piaceva quello che sfilava sotto il nostro naso. E, con qualche ingenuità, cominciammo a pensare a un nuovo umanesimo, un nuovo modo di stare insieme. Un abbaglio? Forse. Ma ci piaceva pensare che da una nuova terra sconosciuta ci fosse di nuovo l'uomo al centro della vita». 

Hai smesso di pensarlo?

«Ho smesso di pensare a un sacco di cose. Alla fine tutto quello che è sguardo sull'orizzonte si chiude o si concentra su un punto.

La vecchiaia è anche un modo di riportare lo splendore dell'aperto, quando tutte le possibilità esistono, al lumicino di ciò che resta. Non mi lamento. Ero bello e ho perfino fatto l'attore. Ero forte e sportivo e ho giocato per anni ai massimi livelli del basket. Mio padre pittore mi ha trasmesso il dono del dipingere. Giorgio mi ha dato l'opportunità di aprire un lungo e splendido capitolo delle nostre vite». 

Splendido quanto?

«Nella misura straordinaria di qualcosa che si è tradotta in un'amicizia vera. Grazie alla quale nessuno dei due ha fatto ombra all'altro. Nessuna gelosia o invidia ha oscurato il nostro territorio comune. Non accade spesso. Ma quando succede anche un non credente come me può gridare al miracolo»

"Col Teatro canzone Gaber è stato la bandiera (unica) di un altro "68". Eleonora Barbieri il 2 Luglio 2022 su Il Giornale.

Lo studioso analizza testi, spettacoli e pubblico degli anni '70: "Una boccata d'aria per molti"

L'approccio di Fabio Barbero, insegnante di italiano a Parigi, è quello dello studioso, interessato a «leggere i testi»: al tema che è poi diventato il suo approfonditissimo libro, Giorgio Gaber, Sandro Luporini e la generazione del '68 (Arcana, pagg. 432, euro 22) ha dedicato infatti la sua tesi di dottorato in Letteratura italiana alla Sorbona. «In Francia c'è più attenzione che in Italia a certe figure come Fo, Gaber e i cantautori... Questo primo volume è sugli anni '70, poi vorrei farne altri due, sugli anni '80 e '90».

Partiamo dal Teatro canzone di Gaber che, dice, non solo fa pensare, ma è esso stesso «pensiero in note, gesti, ritmo, luci e parole».

«Innanzitutto, in Italia lo hanno inventato Gaber e Luporini: lo stesso Gaber, quando gli chiedevano se ci fossero altri che facessero il suo mestiere, rispondeva di no. Era un po' unico, quello che faceva».

Perché?

«Ci voleva un'epoca, gli anni '70, in cui potesse nascere, con un pubblico che andasse a vedere e ad ascoltare spettacoli non solo per divertirsi ma, anche, per pensare; e ci voleva qualcuno che accomunasse, in un unico artista, una capacità di cantare molto bene e una verve attoriale notevole».

Che tipo di teatro era?

«Una forma che Gaber non chiamò mai politica, bensì di comunicazione: qualcuno va sul palco per due ore, da solo, con la chitarra o le basi musicali e riesce a intrattenere e allo stesso tempo far pensare su temi dei quali la gente si sente partecipe. In questo contesto, l'apparato teatrale aiuta ad amplificare l'emozione, ma la dimensione della parola è quella principale».

Gaber dice di scrivere «per i ragazzi del '68».

«All'inizio no ma, piano piano, con lo spettacolo Far finta di essere sani, del '73-'74, c'è un incontro con questi ragazzi, che sono la maggior parte del suo pubblico».

Che cosa trovavano?

«Chi aveva idee dure e pure, per cui solo la dimensione ideologica era importante, aveva difficoltà ad andare a vedere Gaber; ma nel Movimento c'era di tutto, e in lui i ragazzi trovavano uno che non parlava solo di questioni ideologiche ma anche personali, che i ragazzi stessi vivevano. E c'era anche un'ironia forte sul Movimento stesso, i suoi miti, il ruolo del leader, l'idea di essere i migliori... Lo sentivano uno di loro, però anomalo, perché molto critico; del resto lui stesso si prendeva in giro. Faccio spesso il paragone con Fo».

Ecco, com'era il rapporto con Fo?

«Negli anni '80, Gaber dice scherzosamente: ricordo i pomeriggi interi a parlare, in cui Fo mi faceva una testa così e cercava di convincermi a fare diversamente... Però si conoscevano dagli anni '60, Gaber doveva la sua formazione attoriale a Fo. C'erano amicizia e stima».

Però c'era una contrapposizione nell'idea di teatro?

«È Gaber che lo dice: l'idea di poter dare un messaggio dall'alto di un palco, che è una forma di potere, non corrisponde al suo essere, al suo temperamento e alla sua mente. Lui dice: non ho certezze, ho dubbi. Quelli di Fo erano spettacoli, ma anche comizi. Il suo era un teatro di intervento, quello di Gaber ha un altro taglio».

Più individualista?

«No, perché lui stesso rifiutava questa definizione. Direi dubbioso, e allergico a tutto ciò che era un maître à penser, un maestro che pensa per gli altri. Diceva: se mi dicono che sono un rompicoglioni, mi fa piacere. Però non esisterebbe il Gaber personaggio pubblico fra gli anni '70 e il 2002, senza Sandro Luporini».

Che scriveva i testi, dopo lunghe chiacchierate.

«In estate, quando Gaber finiva la tournée, si incontravano, parlavano e individuavano i temi per lo spettacolo successivo, a partire da quel brusio che Gaber aveva ascoltato. Luporini era schivo, si isolava, leggeva Céline, Stirner, Sartre, Pasolini, mentre Gaber preferiva i saggi, anche il Pasolini saggista».

Luporini scriveva e poi?

«Poi Gaber aveva l'occhio del teatrante, tagliava, sforbiciava, rielaborava musicalmente. Leggendo i testi si vede questo incontro unico».

Gaber è stato «la bandiera di un altro '68»?

«È Nanni Ricordi, vicino alla sinistra, a dirlo, paragonandolo a Fo. È la bandiera di chi non ha bandiere da sventolare, di chi è alle strette in certi discorsi troppo ideologici che, poi, diventeranno violenti. Gaber è attento alle persone, non solo alla lotta di classe, e porta sul palco dinamiche delle quali, nei gruppi militanti, non si può parlare. E lo fa in modo ironico e divertente: una boccata d'aria per tanti».

Racconta anche la fine dell'avventura?

«Sì, in Libertà obbligatoria e Polli d'allevamento, gli ultimi due spettacoli del decennio. Polli d'allevamento è uno spettacolo duro in un periodo difficile e, per me, è l'icona di come Gaber fosse impossibile da intrappolare». 

La relazione lunga 40 anni. Giorgio Gaber e l’amore con la moglie Ombretta Colli: “Al primo appuntamento il Signor G dimenticò il portafoglio”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 25 Gennaio 2022. 

Giorgio Gaber e Ombretta Colli si sono conosciuti in un pomeriggio di lavoro. L’inizio di un amore durato quarant’anni tra canzoni, teatro, televisione e politica. Gaber avrebbe compiuto oggi 83 anni. Google lo ha celebrato con un doodle personalizzato. Gaberscik, nato in via Londononio 28 a Milano, diploma da ragioniere, chitarrista nonostante la mano sinistra indebolita dalla poliomelite, è stato uno dei cantautori più influenti e celebrati della musica italiana.

“Tutta la mia carriera nasce da questa malattia”, raccontò in seguito. I primi successi degli anni ’60, con la ballata Non arrossire. Quindi quattro partecipazioni al Festival di Sanremo, la televisione, l’impegno sociale con Com’è bella la città, il teatro. Si è distinto da tutti gli altri grandi della canzone proprio per il teatro canzone: una forma che fondeva la musica, la poesia e il teatro. È morto il primo gennaio 2003, poco prima di compiere 64 anni a causa di un tumore ai polmoni. Solo la morte lo ha diviso dal suo grande amore, Ombretta Colli. Cantante, attrice e politica: eletta Presidente della provincia di Milano, assessore regionale, senatrice ed europarlamentare. Lei di Genova, lui di Milano. Una relazione raccontata appena, sempre con parsimonia, molto intima almeno fino alla pubblicazione di Chiedimi chi era Gaber, un memoir che ha raccontato il sodalizio amoroso e artistico della coppia.

Si era incontrati per la foto di copertina di Benzina e cerini, nel 1961. Lei aveva 18 anni ed era arrivata seconda a Miss Italia dietro Stefania Sandrelli. Lui aveva 22 anni ed era uno degli astri nascenti della musica italiana. “Studiavo. E per guadagnare qualcosa facevo la modella. Fui chiamata precipitosamente per delle pose che riguardavano la copertina di un disco in sostituzione di una collega indisposta. Dovevo posare con Giorgio, già allora piuttosto famoso, ma molto nervoso e molto poco disponibile. Già allora certe incombenze professionali lo disturbavano. Fu un approccio tutt’altro che facile e non riuscivamo a trovare feeling. Suggerii un bacio per l’immagine di copertina. La tensione si allentò, ma ci congedammo molto professionalmente convinti che mai più ci saremmo rincontrati”, ha raccontato Colli a Il Corriere della Sera.

Nessun colpo di fulmine allora. Qualche tempo dopo i due si incrociarono di nuovo a una festa mondana a Roma. “Quando mi accorsi della presenza di Giorgio tra gli ospiti, non potei fare a meno di chiedermi cosa ci facesse un uomo come lui in un ambiente simile”, ha raccontato lei. Chiacchierarono un po’ ma non si scambiarono i numeri di telefono. Alle 3 del mattino il telefono nella stanza di Ombretta squillò: era Giorgio Gaber che aveva telefonato a tutti gli alberghi di Roma per trovarla. Lei era allo steso tempo disturbata, ammirata, intrigata.

Al primo appuntamento a cena lui dimenticò il portafoglio. Il matrimonio nel 1965, dopo un solo anno di fidanzamento, nell’abbazia di Chiaravalle. La figlia Dalia nel 1969. Lei passa al cinema e alle canzoni – la sua Facciamo finta che … è diventata colonna sonora della pandemia in Spagna. Lui si consolida come cantautore e protagonista della televisione fino al rifiuto del piccolo schermo e all’esplosione del “teatro canzone”. I momenti difficili: proprio il passaggio al teatro canzone per lui, la discesa in politica per lei. “Molti amici di sinistra non mi perdonavano la scelta di Forza Italia e non la perdonavano neppure a Giorgio! Secondo loro avrebbe dovuto lasciarmi per questo”. La minaccia, nel 1973, del rapimento della figlia: con una trappola della polizia i malviventi vennero catturati. Colli la femminista, seguiva un decalogo di regole per “non farsi mai fotografare con i figli”, “indossare abiti appariscenti e provocatori”, “essere a favore del divorzio”, “contraria alla maternità”, “affermare di essere disposta a sacrificare la famiglia per la carriera”.

Così Colli ha raccontato nel suo libro la relazione con il marito: “Credo che alla fine la nostra sia stata per il pubblico una coppia, se non eternamente felice, quantomeno solida. E in effetti è stato così. Abbiamo attraversato le gioie e i dolori di una coppia normale. (..) Certo quando ci sono l’innamoramento, l’attrazione e il desiderio tutto è più facile, ma non è tutto. È inutile tentare di scappare dalla sofferenza con i colpi di testa, le sbandate e i piccoli o grandi tradimenti. È soprattutto lì che si cresce, che si diventa adulti. Sì, con Giorgio abbiamo costruito qualcosa di solido, di cui essere orgogliosi. L’abbiamo capito e davvero realizzato il giorno in cui Dalia ci ha comunicato che aspettava un bambino”. Gaber è morto nella loro casa di Camaiore, La Padula, tra la campagna e il mare.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Il Gaber di destra-sinistra, un ribelle incasellabile tra italiani signor G (come grigi). Maria Luisa Agnese su Il Corriere della Sera il 23 Dicembre 2022

Abbandonò i successi con Luigi Tenco e Mina per inventare il Teatro canzone e dare voce all’uomo comune. La lite con Adriano Celentano, l’amicizia con Vittorio Feltri. E in una sua celebre chanson ha fatto convivere barbera e champagne

Cominciamo dalla fine o quas i. Seduto su una sedia Giorgio Gaber è ospite di Adriano Celentano nella sua osannata/contestata trasmissione del 2001, 135 milioni di Caz...ate, ricordano i tempi del debutto quando i due, divisi da un anno d’età, cominciavano nella Milano anni Cinquanta e il più giovane Gaber faceva da chitarrista al già più noto Adriano. Poi succede che Giorgio scrive insieme a Luigi Tenco la prima canzone total rock italiana, Ciao ti dirò, la incide. Ma Celentano lo bissa e la riincide. «Volevo fargli capire: guarda che tu sei solo il mio chitarrista, ma non ci sono riuscito». Non è un placido regolamento di conti postumo senza spargimento di sangue, ma una lezione di spettacolo e di televisione con i due che si alzano — e chissà quanta fatica è costato a Gaber che già malato morirà poco dopo, il 1° gennaio 2003 —, e concludono dimenandosi e rockettando con freschezza e foga di ragazzi.

La formula del Teatro canzone

Gaber, monumento della musica italiana senza nessuna boria, avrebbe fatto una fortunata escalation nel mondo della canzone — Non arrossire, La ballata del Cerutti, Trani a gogo, Goganga, Porta Romana, Barbera e champagne — e alla tv con Mina e non solo: ma all’apice del successo televisivo “lascia” tutto per i palcoscenici e comincia a dare vita al Teatro canzone, che porterà avanti per tre decenni con successo travolgente, a partire dal Signor G, dove G sta per Gaber ma anche per grigio, per volontà di dar voce a un uomo come tutti. Attraverso quest’uomo Gaber ha l’ambizione di interpretare lo spirito del tempo senza conformismi e questo piano piano lo staccherà dal conformismo di sinistra e dal relativo consenso: «Chi non ha avuto la fortuna di assistere a un recital del Signor Gaberscik difficilmente potrà comprendere il coinvolgimento fisico che il suo teatro-canzone sapeva ingenerare» ha scritto Gianluca Voltri.

L’elenco delle cose di sinistra e di destra

Sferzava con acuminata intelligenza i costumi del tempo, utilizzando insieme la parola e la musica, e tutto il corpo. I suoi spettacoli nascono d’estate, scritti in vacanza con Sandro Luporini, pittore e intellettuale in simbiotica sintonia con lui. Dalla Libertà a La mia Generazione ha perso. Fino a Destra-sinistra, manifesto dell’autonomamente scorretto. Vittorio Feltri, che aveva conosciuto Gaber quasi ragazzo a Bergamo e che ne fu per sempre amico, ha raccontato nel suo libro L’irriverente come è nato quel testo. In uno dei loro incontri a tavola in osteria avevano cominciato ad annotare cosa fosse di destra (la minestrina) o di sinistra (il minestrone) fino a che Feltri comunica di voler andare in bagno che è sempre in fondo a destra.

Nel podcast in cui legge il testo con voce più volte rotta dal groppo in gola, Feltri conclude: «Io e Giorgio andavamo d’accordo perché eravamo molto simili, era refrattario come me alle etichette, ai luoghi comuni, ai cliché, ai pregiudizi e anche ai giudizi. Gaber era un ribelle, un anarchico, un anticonformista». Un incasellabile di natura, un ribelle di indole dolce però: coltivava una rete di amici amplissima che nel recente libro di Andrea Scanzi, E pensare che c’era Giorgio Gaber (PaperFirst), rendono tutti testimonianza al suo genio con aneddoti e giusti inchini. Postumi, ahimè.

Antonio Iovane per “il Venerdì di Repubblica” il 28 dicembre 2022.

Il complesso residenziale si trova all'altezza del porto, dove si dirama il canale che una stagione fiacca di piogge ha sedato. In un piccolo appartamento in penombra stipato di libri vive Sandro Luporini, 92 anni di cui un terzo trascorso come altra metà del Signor G. Siede in poltrona, jeans, camicia a quadri e barba bianca dei venerati maestri - anche se sull'importanza nel tempo del teatro canzone coltiva qualche dubbio. 

«I ragazzi di oggi non ci conoscono, quelli della tua generazione sì», dice al giornalista quarantottenne. Luporini preferirebbe essere ricordato piuttosto per i suoi dipinti, se non fosse per la parentesi trentennale di Far finta di essere sani, Polli d'allevamento, La mia generazione ha perso e un'altra quindicina di spettacoli che hanno raccontato la storia d'Italia dal movimento del '68 al riflusso fino al berlusconismo.

 Proprio in queste settimane Viareggio celebra il pittore del movimento della Metacosa con una esposizione allestita fino all'8 gennaio alla Galleria d'arte moderna e contemporanea "Lorenzo Viani". «È una mostra grossissima con 70-80 quadri», s' illumina Luporini. Ma se siamo qui a ripercorrere sigaretta dopo sigaretta la sua vita artistica con Giorgio Gaber - il primo gennaio saranno vent' anni dalla sua morte - è perché la carriera dell'autore di testi ha impallato, per dirla col linguaggio teatrale, quella pittorica. 

«Con Giorgio era un continuo parlare, parlare, parlare. C'era sempre della roba da masticare. Ora, anche con gli amici, discuto poco, sono un po' ritirato a dormire e basta». 

Immagino i litigi

«Quando convertiva qualcosa col metro dell'ottimismo io mi incazzavo, ma non si litigava. Per esempio mi ha cambiato il finale di Non insegnate ai bambini. Io avevo scritto "Ma se proprio volete insegnate soltanto il silenzio e l'assenza". Giorgio mi disse che gli sembrava troppo disastroso e pessimistico e lo sostituì con "Raccontategli il sogno di un'antica speranza"». 

Da chi veniva la prima idea per uno spettacolo?

«Da me. Io ero l'autore del testo e quello che mi passava per la testa lo scrivevo. Naturalmente era il frutto delle nostre lunghissime conversazioni. Solo una volta è venuta prima la musica del testo, quando ho scritto Si può. Me la son cavata, ma si fa fatica a scrivere per la musica già fatta».

Quale canzone considera la più riuscita?

«Il dilemma perché sono un dilemmista. È la canzone più bella che abbiamo scritto anche se poco commerciale».

 Tanti successi ma anche tanti attacchi. Nel 1980, mentre tutti celebravano Aldo Moro, ucciso due anni prima dalle Br, lei se n'è uscito con Io se fossi Dio: quattordici minuti di invettiva violentissima...

«L'ho scritta in mezz' ora. C'era una rabbia anarcoide che in me è sempre stata forte e che lì avevo rivolto contro tutto e tutti: giornalisti, radicali, socialisti, Dc, Pci».

Nella canzone scriveva che "Aldo Moro resta ancora quella faccia che era", e non si trattava di un complimento.

«Devo dire la verità: pensavo che mi avrebbero messo in galera. Ma la maggior parte della gente, soprattutto giovani, l'ha accettata come un vangelo». 

Ne sembra quasi deluso.

«No, no, mica ci tenevo ad andare in galera». 

La soddisfazione più grande?

«Vedere che la generazione del '68 apprezzava certe nostre osservazioni. Mi sentivo molto vicino a loro».

Però poi avete deciso di prendere le distanze dal Movimento: nel 1978, quando Gaber cantava Quando è moda è moda, che segna la fine dell'idillio con la generazione del '68, sul palco pioveva di tutto. È stata la canzone per la quale siete stati più attaccati?

«Forse sì. Ma c'era stato un rilassamento rispetto a quegli ideali. Per me gli anni 80, che erano dietro l'angolo, sono proprio brutti». 

È pentito di qualche canzone?

«Sì. La marcia dei colitici. Sono un po' rimette del cazzo, una specie di bravura tecnica quasi alla Mogol. Non mi piace». 

Non le piace neanche Mogol, quindi?

«Questo non posso dirlo, Mogol ha fatto un sacco di canzoni di successo e tecnicamente era bravo. Poi bisogna anche considerare che lui scriveva su musica già fatta. Nel mio caso era più facile». 

Altri pentimenti?

«La libertà. Mi son pentito molto per quel "libertà è partecipazione". Ricordo che sentii, in periodo craxiano, una camionetta che faceva propaganda elettorale e che diceva "Andate a votare!", e come sottofondo c'era quella nostra canzone. 

Allora pensai: porca miseria, mi son spiegato male. La libertà è stata interpretata come dire "andate a votare", ma io nemmeno ci andavo a votare, figuriamoci. Avrei dovuto scrivere "la libertà è spazio d'incidenza". Se tu puoi incidere nel mondo hai una libertà che ha senso. Solo che in una canzone scrivere "libertà è spazio d'incidenza" suona malissimo. Oddio, come metrica ci sta pure...». 

Quindi la libertà non è partecipazione.

«No». 

Si è mangiato le mani tutta la vita per quella strofa.

«Tutta la vita no, ma da un bel po' in avanti sì». 

Altri pentimenti?

«Destra/sinistra conformista. Sembrerebbe quasi che la canzone voglia dire che non ha senso parlare di destra e sinistra, e invece oggi come oggi è la cosa che ha più senso di tutto».

Ora a votare ci va?

«Era un po' che non ci andavo, alle ultime ho votato Sinistra Italiana. Non essendoci più la sinistra, mi devo accontentare di quello che c'è. Sono ancora compagno».

E di questo governo cosa pensa?

Ride. «Non ne penso». 

È tra quelli che ritiene che Giorgia Meloni sia davvero fascista?

«Profondamente. Anche quelli che ha messo guardi Ignazio La Russa, era un fascistone pazzesco». 

Questo presente potrebbe ispirare uno spettacolo di Gaber e Luporini?

«Sì. Il tema potrebbe essere la difficoltà di toccare il fondo». 

 Ascolta musica?

«No. Mi ha rotto i coglioni tutta la vita, non ci capisco niente». 

Però negli anni 70 ascoltavate i cantautori. Chi amava di più?

«Luigi Tenco. Ma mi piacevano molto anche Guccini, Battiato». 

De André?

«Sì, ma non l'ho mai conosciuto, Guccini e Battiato li ho conosciuti bene». 

A più di cinquant' anni dall'esordio, ha capito cos' è che convinceva il pubblico a seguirvi?

«Credo il dissenso. Molta gente restava in silenzio ma non sopportava certe cose e si sentiva rappresentata dalle nostre canzoni: sentirsele dire era una cosa gradita». 

Come autore di testi, non si vedrebbe bene in un manuale scolastico?

«Mi vien da ridere». 

Cosa le manca di più di Gaber?

«Quando scrivevamo le nostre cose ci divertivamo. Mi manca il divertimento».

Alberto Sordi moriva 20 anni fa: gli inizi come comparsa, premiato negli States, 10 segreti. Arianna Ascione su il Corriere della Sera il 24 febbraio 2023

Una raccolta di aneddoti e curiosità poco note sull’attore romano di «Un americano a Roma» e «Il marchese del Grillo», morto il 24 febbraio 2003

Nato a Trastevere

Vent’anni senza Alberto Sordi: il gigante del cinema italiano se ne andava il 24 febbraio 2003. Era nato il 15 giugno 1920 in via San Cosimato 7 a Roma, nel rione di Trastevere, ultimo figlio del professore di musica e strumentista Pietro Sordi (1897 – 1941, tuba contrabbasso nell'orchestra del Teatro dell'Opera di Roma) e dell’insegnante elementare Maria Righetti (1898 – 1952).

Fratelli e sorelle

La famiglia Sordi era composta anche dalla sorella Savina (1911 – 1972), dal fratello Giuseppe (1915 – 1990) e dalla sorella Aurelia (1917 – 2014), mentre il terzogenito, di nome Alberto, morì nel 1916 dopo pochi giorni di vita (l’attore è stato battezzato con il suo stesso nome in suo ricordo).

Generoso (e non avaro)

Nel volume «Alberto Sordi segreto» uscito nel 2020 Igor Righetti - voce storica di Radio1 nonché cugino dell’attore - ha svelato numerosi aneddoti. Di Sordi ad esempio si diceva fosse avaro. In realtà era molto generoso: «Chi conosceva veramente Alberto sa che frequentava gli orfanotrofi e che aveva adottato a distanza decine di bambini, filantropia sempre fatta in silenzio, come era il suo stile».

Vita privata

«E che so matto? Me metto un’estranea dentro casa?!». Della vita privata di Alberto Sordi - che non si è mai sposato e non ha mai avuto figli - è sempre trapelato pochissimo. Si sa che a 22 anni si fidanzò con la collega attrice Andreina Pagnani, più grande di lui di 14 anni, incontrata in studio di doppiaggio, e che la storia finì agli inizi degli anni Cinquanta. Parlando di flirt Sordi ebbe una fugace love story nei primi anni Settanta con la contessa Patrizia de Blanck.

Ha sempre vissuto a Roma

Ha vissuto dalla nascita fino al 1930 in via San Cosimato 7 a Roma. In seguito alla demolizione dell'edificio la famiglia dell’attore si trasferì in un appartamento in via Venezia, per poi spostarsi dopo la morte del padre nel 1941 in un appartamento di via dei Pettinari. Dal 1958 fino alla morte Sordi ha vissuto in una villa di via Druso posta all'interno del parco archeologico delle Terme di Caracalla (oggi diventata una casa museo).

Espulso dall’Accademia dei filodrammatici

Forse non tutti sanno che Alberto Sordi ha vissuto a Milano per un brevissimo periodo della sua vita, nella seconda metà degli anni Trenta quando frequentava l'Accademia dei filodrammatici. Da cui fu espulso a causa della sua marcata inflessione romanesca.

Gli inizi come comparsa

Nel 1937, rientrato nella Capitale da Milano, Sordi trovò lavoro come comparsa a Cinecittà. Apparì nel kolossal «Scipione l'Africano», nei panni di un soldato romano. Successivamente, dopo aver interpretato ruoli minori in una ventina di film, negli anni Cinquanta arrivò la popolarità: Sordi si fece notare prima ne «Lo sceicco bianco» di Federico Fellini (1952) poi ne «I vitelloni», sempre di Fellini (1953), e nei film di Steno «Un giorno in pretura» (1953), «Un americano a Roma» (1954) e «Piccola posta» (1955).

Voce di Oliver Hardy

Dal 1939 al 1951 Alberto Sordi ha doppiato Oliver Hardy (l’Ollio della coppia comica Stanlio e Ollio). Iniziò dopo avere vinto un concorso indetto dalla Metro-Goldwyn-Mayer. Il 25 giugno 1950 l’attore ebbe l'occasione di incontrare e doppiare dal vivo Hardy in occasione di una tournée italiana della coppia comica a Villa Aldobrandini a Roma, dove era stato organizzato uno spettacolo per bambini. Come doppiatore Sordi lavorò fino al 1956: prestò la voce a numerosi attori tra cui Anthony Quinn, Robert Mitchum, Franco Fabrizi e persino Marcello Mastroianni (nel film «Domenica d'agosto» del 1950).

L’incontro con Harry Truman

La popolarità di Alberto Sordi ha varcato i confini nazionali. Nel 1955, come premio per la promozione positiva degli Stati Uniti in relazione al personaggio di Nando Moriconi («Un americano a Roma»), il presidente degli Stati Uniti Harry Truman gli consegnò le chiavi della città di Kansas City e la carica di governatore onorario dell'American Royal.

L'epitaffio

Sulla tomba di Alberto Sordi, che riposa nella cappella di famiglia nel Cimitero Monumentale del Verano a Roma, è inciso l’epitaffio «Sor Marchese, è l'ora», battuta ripresa da uno dei suoi film più celebri: «Il marchese del Grillo» (diretto nel 1981 da Mario Monicelli).

da “Alberto Sordi” di Alberto Anile, CSC-Edizioni Sabinae, Roma, 2020

Gli scherzi più belli, entrati nella leggenda, risalgono a quando Sordi era poco più che ventenne, all’epoca in cui frequentava Andreina Pagnani, e con lei il mondo serissimo del teatro di prosa. A Renato Simoni, che pare fosse particolarmente credulone, giurò di aver visto Ermete Zacconi diventato piccolissimo su una sedia, perché affetto da una malattia rara e perniciosa, «il morbo di Trottinson». Pure Gino Cervi, Rina Morelli, Dina Galli, Paolo Stoppa dovettero subire la loro dose di burle.

Sordi all’epoca era una vera mina vagante, incapace di frenare la tentazione di avventarsi sulla vittima designata, anche quando il luogo in cui si trovava sconsigliava azzardi. «Una sera, con Andreina, andammo a casa della scrittrice Alba de Céspedes, per una festa in costume. Appena entro ti vedo un uomo massiccio, autorevole, vestito con un bel costume dell’Ottocento. Si teneva in mano un paio di occhiali dalle lenti spesse, e si massaggiava due occhi gonfi, rossi, doloranti: infiammatissimi. Feci un balzo.

 Appena Andreina si allontanò con Alba e rimasi solo gli andai alle spalle e gli cacciai da dietro due dita a uncino negli occhi, tirando e dicendo intanto: “Chi sono? Chi sono?”». «Era un momento in cui io non potevo frenare certi istinti, non potevo frenare questi scherzi, anche a volte violenti, io lo riconosco. Era come un diavoletto che c’avevo addosso: appena vedevo, così, un motivo che si prestava allo scherzo, zang!, saltavo […]. Come un grugnito soffocato da quest’uomo cominciò a venir fuori: “Oh Dio… Oh Dio… Oh mamma mia, Oh Dio...”.

Chi sono?”, io continuavo, “chi sono?”. A un certo momento partì con una voce roboante: “OH PORCACCIO…!”, non vi dico il resto. Fece voltare tutti gli astanti, guardò, io lasciai subito, mollai, mi misi in mezzo agli altri così a guardare, anch’io interessato... Allora questo, tutto febbricitante, tremante dall’emozione, a un certo momento cercava di spiegare. Gli domandarono “Ma che è successo?”. “Non so! Non so chi è! Mi aveva messo due dita qui!”, e indicava questi occhi doloranti, “e stringeva, stringeva…”».

Ovviamente la Pagnani, se c’era Sordi per casa, aveva le sue remore a invitare ospiti di un certo riguardo. Grazia Livi racconta di un pranzo con un colonnello di cavalleria, il conte Bettaro, che ammorbava gli ospiti rievocando eroiche azioni di guerra ed elargendo consigli non richiesti sull’addestramento equino. «Sordi da un pezzo aveva fatto gli occhi lucidi e ironici come uno che sta per esplodere.

 La Pagnani era sui carboni ardenti. Infatti di colpo si alzò dalla sedia e portandosi la mano alla fronte in un saluto scattante gridò: “Colonnello che n’è degli alpini!”». «“Che significa” balbettò lui. “Perché non parla dei nostri meravigliosi alpini?”. E nella costernazione generale», è Sordi a raccontare, «cominciai a cantare a piena voce, sull’attenti, le canzoni della montagna. Andreina, sconvolta, si alzò e andò via. Visconti non riusciva a fermare il convulso di risa. A poco a poco tutti cominciarono ad alzarsi e a filarsela. Una serata stupenda».

Uno dei più bersagliati dell’epoca fu Cervi, che Sordi provocava irrompendo sulla scena in pieno spettacolo. L’aneddoto più conosciuto è ambientato al teatro Eliseo, dove Cervi e la Pagnani recitavano in Gli ultimi cinque minuti di Aldo De Benedetti. «La scena rappresentava una casa vuota, appena costruita, che tutti e due volevano affittare. Io mi ero messo a guardare da una quinta, in attesa che finisse la commedia. Ad un certo punto Cervi mi scorse e mi fece un segno di saluto con la mano. Io non ci pensai due volte: entrai in scena, mi presentai (a Cervi, perché la Pagnani era scappata subito spaventata) e dissi: “Sono stato chiuso qui per tre giorni perché il muratore mi aveva murato dentro per errore. Ora grazie a voi posso finalmente uscire e raggiungere la mia famiglia che sarà certamente in pensiero”. Strinsi la mano a Cervi sbalordito ed uscii».

Masolino d’Amico riporta lo stesso episodio con accenti ancora più assurdi, e proprio per questo ancora più probabili: «Piombò scarmigliato in scena, durante un dialogo tra la Pagnani e Gino Cervi, il quale perse per un momento il suo aplomb e gli abbaiò di scatto: “Ma lei chi è?”. “Chi sono?” fece Sordi, che all’epoca il pubblico non conosceva affatto. “Sono l’inquilino dell’appartamento accanto! Sono rimasto chiuso dentro e mi sono dovuto scavare un buco nel muro con le unghie. È da settimane che scavo…”. E continuò improvvisando un assolo interminabile».

Un’altra di queste intemerate avvenne durante le repliche milanesi di Il signore che venne a pranzo. «Gino Cervi che era di scena e che secondo le necessità del copione doveva aprire un sarcofago, ne vide sbucare improvvisamente e inaspettatamente Alberto Sordi, inappuntabilmente vestito da cameriere. “Il signore ha suonato?”, chiese, inchinandosi a Cervi che lo guardava sbalordito. “No, no, potete andare”, cercò di rispondere il povero attore, mentre sospingeva Sordi verso le quinte nell’assurda speranza che il pubblico non si accorgesse dello scherzo. E l’altro, imperturbabile: “Eppure, signore, avrei giurato di aver sentito suonare”. Cervi finì per mettersi a ridere».

Non sempre gli andava bene. Infilatosi in una cassapanca con Aroldo Tieri fra il primo e il secondo atto di Arsenico e vecchi merletti, gettò nel panico Rina Morelli, che aveva visto il coperchio della cassa muoversi misteriosamente; l’attrice si tranquillizzò quando riuscì, sempre in scena, a guardarci dentro, e Dina Galli richiuse e diede un giro di chiave, lasciandoli prigionieri e semiasfissiati fino alla fine del terzo atto.

 Gli amici di Sordi lo sapevano, prima o poi uno scherzo sarebbe toccato a ciascuno di loro. Anzi, più amici erano e più pesante era il tiro che potevano aspettarsi. A De Sica, durante le riprese del Vigile, Sordi ne fece uno da togliergli il saluto. Vittorio, come si sa, era diviso fra due famiglie, quella ufficiale con Giuditta Rissone e la figlia Emi da una parte, e quella ufficiosa con Maria Mercader e i piccoli Christian e Manuel dall’altra, ed era costretto a dividersi equamente fra l’una e l’altra, nel tentativo di illudere separatamente figlia e figli che ci fosse una sola famiglia.

L’ultimo giorno di riprese del Vigile, Paolo Bianchini, collaboratore alla sceneggiatura di Zampa, accolse sul set De Sica, arrivato a Viterbo da Roma col suo autista. «Nel cofano», ha raccontato Bianchini, «aveva due valigie con due cambi di vestiti. Ci spiegò: “Io pranzo due volte, quando vado da Giuditta e quando vado da Maria. E devo indossare le loro cravatte, guai se mi sbaglio”. A un certo punto Vittorio è bloccato sulla barella: Sordi arriva di corsa, apre il cofano e sposta le cravatte da una valigia all’altra. In quel momento era un personaggio dei Vitelloni».

È fin troppo semplice fare paralleli fra il divertimento che Sordi sapeva dare a teatro, in radio o sullo schermo, e quello prodotto da queste “recite” occasionali. Ma forse questi scherzi riescono a illustrare meglio di tanti saggi la capacità camaleontica dell’attore, il guizzo luciferino dell’invenzione improvvisa, la possessione diabolica che lo prendeva alla possibilità di fingersi qualcuno, e la costanza nel diluire e rilanciare, con la massima “professionalità”, ciò che altri risolverebbero in una semplice battuta a effetto. E lasciano intravedere a quali infinite riserve di vitalità, e di folle cattiveria, potesse attingere il Sordi degli anni d’oro quando andava poi a lavorare su un vero palcoscenico, su un vero set, mescolando gusto d’osservazione, capacità d’improvvisazione e rigore d’interprete.

Estratto dell’articolo di Fulvio Abbate per mowmag.com il 25 febbraio 2023.

Nanni Moretti, con una battuta che sarebbe diventata celebre tra i detrattori, in “Ecce Bombo” gridava “Te lo meriti Alberto Sordi”, intendendo che fosse la personificazione ideologica del qualunquismo nazionale. Ma, a vent’anni dalla sua morte, Fulvio Abbate ci ricorda che il colonnello (generale o maresciallo, per i romani) della commedia all’italiana è stato anche molto altro

 Alberto Sordi in città, a Roma, era anche un riferimento topografico immediato. Non mi riferisco alla casa di famiglia in via dei Pettinari, tra Ponte Sisto e Campo de’ Fiori, neppure a quella dove nacque, a Trastevere, oggi non più presente, ricordata ai passanti da una targa posta accanto alla trattoria “Capo de Fero - I rigatoni democratici”, semmai alla sua villa, progettata dall’architetto Clemente Busiri Vici, già residenza di un alto gerarca fascista, tra via Druso e piazza Numa Pompilio, posta all’ingresso dell’Appia Antica e alle Terme di Caracalla.

Accade infatti, erano i tardi anni Ottanta, di avere scorto un manifesto che annunciava un concerto, “Toretta Stile”, nel gergo musicale underground capitolino, come indicazione topografica semplicemente: “Di fronte casa di Alberto Sordi”. Bastava quel cenno affinché pischelle e pischelli comprendessero. Non c’era romano che, scorgendone la residenza, non facesse caso alle persiane sempre accostate, così come agli avvolgibili dell’attichetto che si aggettava subito sopra, con tutti a domandarsi con stupore magico: …chissà se in questo momento Sordi è in casa, e che starà facendo, starà davanti al “piatto unico” che sempre gli prepara la sorella Augusta?

 Vent’anni fa, tarda sera, ero in fila nella piazza del Campidoglio in attesa di vederlo composto nella bara, aperta, un rosario tra le mani; una fila interminabile fin davanti la statua di Cola di Rienzo al lato della scalea giù in basso, giunta a rendere omaggio alla memoria cinematografica di uno dei “colonnelli” della cosiddetta commedia all’italiana - generale, di più, maresciallo d’Italia, in verità, per i romani - dove gli altri, i comprimari, erano Gassman, Mastroianni, Manfredi e, sebbene in posizione più defilata, tenente colonnello quest’ultimo, Tognazzi… Ma blocchiamo questo fotogramma, come in un fermoimmagine, in attesa di farvi ritorno.

Ricordo di averlo incontrato in un albergo di Pescara, in occasione del Premio Flaiano: lui in procinto di prendere l’ascensore per raggiungere la stanza, gli occhiali da vista, d’improvviso ricacciato al pianterreno, il tempo di sentirli pronunciare indispettito e sarcastico: “… e che cazzo stamo a fa’?”

 Ora che ci penso bene, c’è stata però anche un’altra circostanza che ci ha visti insieme. Il giorno in cui il sindaco del tempo volle nominarlo “vigile onorario”. Per un giorno lui a indirizzare il traffico dalla pedana di piazza Venezia, accolto infine in piazza della Consolazione, dove il comando della Polizia Municipale, ora Roma Capitale, ha la sua storica sede, sotto il Campidoglio, la Rupe Tarpea e Monte Caprino. Gli sto accanto in veste di presentatore cadetto quando gli viene consegnato il casco bianco da “pizzardone”, e, a quel punto, rivolgendomi a Rutelli, primo cittadino, e allo stesso Sordi, non posso fare a meno, ricordando il film omonimo di Luigi Zampa, che sarebbe davvero il caso di consegnargli una giraffa di pelouche destinata ai bambini per la festa della Befana, come quella che De Sica dona alla sua amante nella stessa pellicola, peccato che gli applausi siano lì a coprire le mie parole, lo stesso Sordi ha poca voglia di trattenersi oltre il necessario, un attimo dopo ed è già iniziata la proiezione…

A proposito di quell’avventura, un amico che recita nello stesso film nei panni del tenente, Riccardo Garrone, raccontava che “Albertone” gli aveva rubato molte battute “perché, agli occhi dell’attore protagonista, il caratterista, non esiste, è invisibile, dunque se l’attore protagonista non vuole che Riccardo dica quella battuta, Riccardo alla fine la battuta non la dice”.

Di Sordi, fra molto altro, si diceva fosse “tirchio”, resta il mistero, insieme all’assenza di figure femminili, coniugali, visibili, evidenti nel corso dell’intera sua pubblica esistenza. Forse non a caso Carlo Verdone raccontava che la sua casa “assomigliava all’abitazione di una cantante lirica molto religiosa, ovunque ritratti di santi e madonne, tele antiche di pregio”. Ancora Verdone si soffermava sulla volta in cui, sempre lì da Sordi, ebbe necessità del bagno, scorgendo sgomento negli occhi del padrone di casa, “... alla fine mi venne data la chiave di un piccolo gabinetto, accanto al lavabo una vecchia saponetta quasi pietrificata, piena di ragnatele”.

 (...)

 Perfino nei suoi film tardi, il Sordi declinante, “Nestore, l’ultima corsa” del 1994, racconta un amico, “… c’è sempre una battuta meravigliosa da salvare”. Esempio: “… tra la vita e la morte nun ce sta ’na via de mezzo”.

Estratto dell'articolo di Antonio Iovane per repubblica.it il 25 febbraio 2023.

«Durante una pausa del doppiaggio Mario Monicelli mi fa: a' Gobbi, ma tu lo sai che stai a lavora' col più grande di tutti? Perché Alberto può fare tutto». È il 1981, Monicelli e Alberto Sordi hanno appena finito di girare Il marchese del Grillo, la storia di Onofrio del Grillo che nella Roma papalina trascorre le giornate oziando e beffandosi di tutto e tutti grazie alla propria posizione sociale.

 Nel ruolo del servitore Ricciotto il regista ha scelto un attore esordiente, il ventiquattrenne Giorgio Gobbi, che in Alberto il cinico, primo episodio della serie podcast Attorissimi, racconta di Sordi rivelando i segreti di quel set. «Seppi che cercavano attori e quando incontrai Monicelli per la prima volta mi feci subito notare per la mia sincerità», ricorda Gobbi.

(…)

E alla fine fu scelto. Come andò il primo incontro con Sordi?

«Non bene, mi salutò con freddezza. Scoprii che all’inizio non mi voleva, quando vide il mio provino disse: ha una bella faccia ma è troppo giovane e inesperto. La produzione pensava a Ninetto Davoli e Franco Califano, ma Monicelli insistette e alla fine feci Ricciotto».

 Quand’è che la tensione tra voi si sciolse?

«Dopo la scena in cui Ricciotto informa il marchese che la sua amante non è incinta di lui ma di un altro uomo, quando pronuncio la frase “chi se gratta la fronte c’ha le corna pronte”. Capì che gli davo bene le battute e ne fu contento. Da allora è nata un’intesa»

 (…)

 Olimpia?

«Le faceva una corte serrata mandandole fiori e champagne in camera. Caroline Berg però si innamorò del ciacchista. Questa roba uscì fuori e Alberto rosicò al punto che chiese che Giorgio non battesse più il ciak. Da allora fu tolto dal set, si occupò di altro ma sul set non tornò più».

 Cosa ha rappresentato Sordi, secondo lei, coi suoi personaggi?

«Ha fatto diventare vincente ciò che è perdente. Ha dato dignità ai difetti, alle incongruenze e alle intemperanze degli italiani, gli ha dato una nobiltà. Le ha esorcizzate. Gli ha dato un valore umano e sociale».

Vent'anni senza Alberto Sordi: le 5 interpretazioni indimenticabili. Il 24 febbraio del 2003 la scomparsa di uno dei più grandi attori del cinema italiano, punto di riferimento della commedia all’italiana (e del nostro Paese). Massimo Balsamo su Il Giornale il 24 febbraio 2023.

Tabella dei contenuti

 I vitelloni (1953)

 Un americano a Roma (1954)

 La grande guerra (1959)

 Il vigile (1960)

 Il marchese del grillo (1981)

Sono trascorsi venti anni dalla morte di Alberto Sordi, venti anni senza uno dei più grandi interpreti della storia del cinema italiano. Quasi duecento film alle spalle, molti dei quali con i migliori registi del panorama nostrano: da Federico Fellini a Ettore Scola, passando per Mario Monicelli e Dino Risi, fino a Sergio Corbucci e Steno.

Sono trascorsi venti anni dall’addio all’”Albertone nazionale”, ma la sua impronta sulla cinematografia italiana è ancora palpabile, vivida. L’interprete capitolino è stato l’emblema della commedia italiana e meglio di tutti è riuscito a incarnare gioie e dolori del popolo. Alberto Sordi ha vestito i panni dell’italiano medio, incarnando abitudini, vizi e virtù senza mai fare sconti. Tanta gavetta e un talento unico: dalla mimica facciale alla gestualità, passando per l’incredibile versatilità. Andiamo adesso a ricordare le sue 5 interpretazioni indimenticabili.

I vitelloni (1953)

Tra le migliori prove attoriali di Alberto Sordi è impossibile non citare quella ne “I vitelloni” di Federico Fellini. Qui interpreta l’infantile Alberto, affiancato dall’intellettuale Leopoldo (Leopoldo Trieste), dal maturo Moraldo (Franco Interlenghi), dal giocatore Riccardo (Riccardo Fellini) e dal tombeur de femme Fausto (Franco Fabrizi). Una commedia irresistibile sulla vita di provincia, che nasconde un retrogusto amaro. Un vero e proprio cult la sequenza in cui Sordi spernacchia un gruppo di lavoratori…

Un americano a Roma (1954)

Pochi non conosco la scena in cui Alberto Sordi divora un piatto di spaghetti con un prologo iconico: “Maccherone, m’hai provocato e io ti distruggo!”. Sequenza contenuta in “Un americano a Roma” del 1954, regia di Steno. Una commedia all’italiana piuttosto semplice e grottesca – ma non priva di sfumature malinconiche – che accende i riflettori sull’ossessione italiana per il mito americano.

La grande guerra (1959)

Vincitore del Leone d’Oro alla Mostra di Venezia e candidato agli Oscar come miglior lungometraggio straniero, “La grande guerra” di Mario Monicelli rientra nell’elenco dei migliori film italiani sulla guerra, in questo caso la Prima guerra mondiale. Una commedia romantica che prende di mira la retorica patriottica e che pone l’accento sulla raggelante bravura di Alberto Sordi, qui affianco dal monumentale Vittorio Gassman.

Il vigile (1960)

Anni Cinquanta e Sessanta epoca d’oro per la commedia nostrana, di cui “Il vigile” è tra gli esponenti più importanti. Il film diretto da Luigi Zampa racconta la storia del disoccupato Otello Coletti che per caso riesce a farsi assumere come vigile motociclista. Grazie alla divisa ha l’occasione di vendicarsi delle prese in giro accumulate negli anni. Tra spunti geniali e gag classiche, un’altra interpretazione di spessore di Alberto Sordi.

Il marchese del grillo (1981)

Tra i ruoli più amati di Alberto Sordi troviamo sicuramente quello ne “Il marchese del Grillo” diretto ancora da Mario Monicelli. Ambientato nella Roma di inizio Ottocento, l’opera che fa parte dell’epilogo della commedia all’italiana, in grado di fare sorridere ma anche riflettere lo spettatore. La battuta passata alla storia la conoscono anche i sassi: "Ah... mi dispiace. Ma io so' io... e voi non siete un cazzo!".

Estratto dall’articolo di Pedro Armocida per il Giornale il 23 Febbraio 2023.

Non troverete mai, in tutte le 223 pagine, un riferimento al celebre sberleffo, che, per la verità, invecchia peggio ogni anno che passa, di Nanni Moretti che, in Ecce bombo del 1978, risponde urlando: «Ma che siamo in un film di Alberto Sordi? Ve lo meritate Alberto Sordi», a un uomo che al bar aveva detto: «Gli italiani, rossi e neri, sono tutti uguali».

Perché, nel volume Caro Alberto - Le lettere ritrovate nell'Archivio Sordi a cura di Alberto Crespi appena pubblicato da Laterza, tutti quelli che hanno scritto al grande attore e regista sentivano di meritarselo proprio l'Albertone nazionale. Forse il più grande attore che abbiamo mai avuto e che, nonostante il successo, «era diversissimo ricorda Carlo Verdone in una delle due prefazioni (l'altra è di Walter Veltroni, presidente onorario della Fondazione Museo Alberto Sordi) dalla maschera che vedevamo sullo schermo. Sordi viveva nell'ordine, nel silenzio, nella penombra.

Pochissime persone erano ammesse nelle stanze della sua villa, le cui finestre erano perennemente schermate da persiane che difendevano Sordi dal sole e dagli sguardi del mondo. Era casalingo e solitario. Viveva come un monaco (...) mi sembrava la casa di un prelato. Era piena di figure sacre, santi, Madonne; e di foto di famiglia. Una cosa che mi ha sempre stupito è che non ci fosse una sola foto con personaggi dello spettacolo».

 (…)

 Enrico Vanzina per “il Messaggero” il 23 Febbraio 2023.

(...) Alberto ha copiato gli italiani ma il suo modello è diventato così forte che gli italiani hanno iniziato a copiare lui che copiava loro. Infatti tutti noi siamo cresciuti incontrando per strada, in viaggio, in vacanza, negli uffici, negli ospedali, migliaia di Alberto Sordi della vita reale.

 LA MAESTRIA In cosa consiste questo modo "alla Alberto Sordi" di parlare e di affrontare la vita? Sarebbe riduttivo dire che è il "modo romano". Certo, le sue espressioni sono sempre colorate dal vernacolo e dall'umorismo romano, ma quelle di Albertone hanno qualcosa di diverso. Sono costruite sul suo modo di guardare la vita e gli altri. Nel film Fumo di Londra, Alberto, nel film Dante, si trova a pranzo nel castello di una anziana nobildonna inglese.

 (...)

 Naturalmente la lista delle battutone di Alberto che fanno parte della nostra vita quotidiana sono tantissime: «Ammazza che fusto», «A me m'ha bloccato la malattia», «Hai una età ed è ora che tu sappia di chi sei figlio», «America me senti?», «Non facciamoci riconoscere», «Magna er pappone», «Lavoratori» (seguito da pernacchia), «Signorina Margherita», «Con chi parlo con chi parlo io», «Maccarone m'hai provocato», «Pensa a te e alla famiglia tua». «Boni, boni, state boni».

 È una meravigliosa partitura sinfonica di perle del nostro glossario corrente. Alberto Sordi non c'è più. Ma rimane eterno. Con i suoi film, con le sue straordinarie apparizioni in Tv (Kessler, Mina) e con la ricchezza linguistica che ci ha lasciato in eredità. Oso dire, con un senso di devota riconoscenza, che è stato l'ultimo Trilussa della nostra città.

Alberto Sordi, storia di un italiano. Alberto Sordi non c’è più da vent’anni, ma la sua «storia di un italiano» continua né mai si fermerà, immaginiamo. OSCAR IARUSSI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 febbraio 2023.

Alberto Sordi non c’è più da vent’anni, ma la sua «storia di un italiano» continua né mai si fermerà, immaginiamo. Quel tipo di italiano sbruffone, servile, scaltro e opportunista immortalato da «Albertone» in virtù della vocazione accrescitiva di chi sarebbe inadeguato a compiti superiori, epperò se ne impipa. «Che ci volete fare: ma io so’ io, e voi nun siete un cazzo» sentenzia Alberto Sordi-Marchese del Grillo (1981).

Eppure sempre lui, in coppia con Vittorio Gassman, in La grande guerra di Mario Monicelli (1959) si fa fucilare dagli austriaci pur di non tra- dire il suo esercito, urlando di essere un vigliacco. Codardia sublimata in eroismo per caso: praticamente l’Italia, la nostra eterna commedia sullo schermo e fuori. «Signor colonnello, accade una cosa incredibile... I tedeschi si sono alleati con gli americani. Ci stanno attaccando!».

È una delle proverbiali battute di Tutti a casa di Luigi Comencini (1960), il film con l’indimenticabile sottotenente Innocenzi, uno dei personaggi più riusciti nella galleria tricolore di Sordi, in grado di restituire il caos e le speranze degli avvenimenti successivi all’8 settembre 1943 e, di lì a poco, delle Quattro giornate di Napoli. Comencini lo presenta così: «Sordi non è un vigliacco, ma un ufficiale che tiene immensamente al proprio grado e che fino alla fine cerca di compiere quello che ritiene il proprio dovere. L’unico problema è che, senza saperlo, non ha capito nulla». Memorabile la scena della polenta al misero desco con l’ufficiale americano che tenta di «usurpare» la salsiccia centrale. Sorrisi amari. «Ma ‘ndo vai, se la banana non ce l’hai?» è il refrain di Polvere di stelle, interpretato al Petruzzelli: «Ahò, il teatro più grande del mondo!» (Oggi è intitolato a Sordi lo slargo a fianco del Petruzzelli). A proposito di Venezia, Sordi è il fruttivendolo Remo di «Le vacanze intelligenti», episodio del trittico Dove vai in vacanza? (1978). Il Nostro porta la moglie nei padiglioni della Biennale d’Arte: un giro nel dedalo del contemporaneo fra l’ammirato scetticismo di lui e i piedi gonfi di lei, che per la stanchezza si accascia su una sedia parte di un’installazione artistica… Momento surreale degno di Duchamp, grottesco e sublime. Milano e diretto da Sordi nel 1973. Ricordate? «Dove mi porti?» - «Ti porto a Bari, amore mio». Siamo di nuovo all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre, quando il capocomico Mimmo Adami e la soubrette Dea Dani (Monica Vitti), con la loro scalcagnata compagnia di avanspettacolo, navigano su un barcone che nottetempo in Adriatico ha cambiato rotta.

Era diretto a Venezia, ma per un colpo di mano contro i tedeschi a bordo approda nel capoluogo pugliese. È una Bari euforizzata dall’arrivo delle truppe americane e i guitti s’inchinano commossi dinanzi invece è la cinica cornice di Il vedovo di Dino Risi (1959), con cui Albertone due anni dopo girerà il capolavoro Una vita difficile. Da romano trapiantato al Nord e industriale «cretinetti» in ambasce per i debiti, il Vedovo architetta l’omicidio della ricchissima consorte, una Franca Valeri di sublime petulanza, restando però vittima dell’«incidente» in un ascensore. Ma naturalmente il legame essenziale nella carriera di Sordi è con Federico Fellini, il quale ne fa il protagonista e il divo dei suoi primi capolavori, Lo sceicco bianco e I Vitelloni (1952-53), «ritrovando» poi il complice di gioventù in una scena esilarante e tuttavia commovente di Il tassinaro diretto dal medesimo Sordi nel 1983.

Federico e Alberto sono legati tra loro da vincoli artistici e di affetto che hanno segnato e scandito la Storia del cinema, ma anche il costume, i valori, i sentimenti, il carattere stesso degli italiani. L’attore trasteverino avrebbe dovuto fare da testimone di nozze di Federico con Giulietta Masina il 30 ottobre 1943, in piena guerra, ma non si presentò perché aveva lo spettacolo pomeridiano al cinema Galleria di piazza Colonna. Quel giorno, accorgendosi dell’arrivo della coppia in platea, Sordi invita ad accendere le luci in sala e chiama l’applauso: «Si è sposato proprio oggi il più grande amico mio, io non sono potuto andare al suo matrimonio e allora è venuto lui qui in teatro. Si chiama Federico Fellini, è un grande umorista e un giorno forse sarà un regista…». Poi tutti a tavola in casa o in trattoria, dove ancora oggi quando ti siedi risuona l’eco dell’inno nazionale: «Maccarone, m’hai provocato e io ti distruggo adesso, io me te magno!».

Estratto dell'articolo di Alberto Crespi per "la Repubblica" il 22 febbraio 2023.

(...)

Alberto Sordi è stato sindaco di Roma per un giorno: il 15 giugno del 2000, giorno del suo ottantesimo compleanno. L’allora sindaco Francesco Rutelli gli consegnò per 24 ore le chiavi del Campidoglio. Ma verso le cinque del pomeriggio, dopo un inenarrabile bagno di folla, si rivolse così al "collega": «A Rute’, ripijate ’a fascia, che qui nun è aria».

Il rapporto di Sordi con la politica potrebbe sembrare secondario rispetto alla carriera dell’attore e invece ci sembra centrale, anche ripensando al giorno della sua morte, avvenuta esattamente vent’anni fa, il 24 febbraio del 2003: la gente raccolta sotto quello stesso Campidoglio, l’omaggio delle istituzioni.

I legami tra Sordi e il potere — sia palesi sia sommersi — sono parte integrante della sua personalità. Era amico personale di Giulio Andreotti, al punto di averlo come partner in una scena di Il tassinaro . È stato amico personale di Walter Veltroni, per il semplice fatto che il padre di Walter, Vittorio, lavorava alla Rai ed è stato assieme a Ettore Scola co-autore delle prime leggendarie "macchiette" radiofoniche, Mario Pio e il Conte Claro.

Ha mantenuto rapporti importanti con leader politici, presidenti della Repubblica, presidenti della AS Roma, papi e cardinali. Ha cullato a lungo il sogno di interpretare un film su Henry Kissinger. Giuliano Montaldo ci raccontò una volta che fra i suoi progetti non realizzati c’era un film sul grande poeta Giuseppe Gioacchino Belli, e che Sordi ne sarebbe stato il perfetto protagonista.

Ma, interpellato in proposito, aveva declinato: «Sì, er Belli! E poi, quando arrivo su da San Pietro e quello mi rimprovera di aver interpretato un mangiapreti che scriveva sonetti intitolati "er cazzo se po di’", che je racconto?».

Anche per questo, Sordi non ha eredi. Quale attore italiano di oggi può ambire a fare il sindaco, sia pure per un giorno? Quale attore italiano (non solo comico) può trattare da pari a pari con i potenti?

Quale artista italiano ha lo stesso legame profondo con la propria gente? Forse la Ferragni, che artista non è. E comunque nemmeno lei potrebbe comporre un’antologia dei propri post su Instagram e intitolarla Storia di un’italiana . Al massimo sarebbe la storia di una influencer. Parlando di attori, e restringendo il campo ai romani, anche uno straordinario artista come Carlo Verdone può fare Vita da Carlo , che poi è la sua vita, non quella di tutti noi.

Per carità: romani che fanno ridere, al cinema e in tv, ce ne sono sempre. È una tradizione che parte da Plauto, passa per Petrolini e Aldo Fabrizi, arriva a Verdone e Gigi Proietti, alle due strepitose Paole: Minaccioni e Cortellesi. E sicuramente su YouTube o su TikTok stanno nascendo fenomeni che dobbiamo ancora intercettare. Ma a fare la differenza è sempre il suddetto titolo: Storia di un italiano .

Quel programma televisivo andò in onda per la prima volta nel 1979.

Occhio alla data: significa che Sordi ebbe l’idea poco dopo Un borghese piccolo piccolo , film del 1977.

Perché grazie alla sua intelligenza aveva capito che oltre quel film era impossibile andare. Lui, Monicelli e Cerami (autore del romanzo omonimo) non avevano solo seppellito la commedia all’italiana: avevano messo la parola "fine" a un fenomeno culturale straordinario, alla prodigiosa identificazione fra una cinematografia e un popolo. In Sordi, e in altri attori come Manfredi, Gassman, Tognazzi, Vitti, Mastroianni, Totò — ma soprattutto in Sordi, più di chiunque altro — gli italiani si erano riconosciuti.

Il cinema era stato lo specchio di un Paese, nel bene e nel male, dal ’45 in poi: la fine della guerra, i conti irrisolti con il fascismo, gli entusiasmi e le delusioni della ricostruzione, il boom, le nuove libertà degli anni Sessanta. Poi, che succede? In Un borghese piccolo piccolo un uomo ormai anziano vede morire il figlio (di nuovo, niente eredi) e uccide il suo assassino, che a sua volta potrebbe essere suo figlio.

Finisce la commedia all’italiana, finisce la centralità del cinema nella cultura e nel costume dell’Italia. E finisce il rapporto simbiotico fra Sordi e il suo popolo, e anche fra Sordi e coloro che quel popolo lo governano. Dopo, è tutta un’altra storia. Oggi bisogna cercarsi altri modelli. Ed è difficile trovarli al cinema. Anche Luca Medici/Checco Zalone ora è in tournée in teatro, ed è l’unico che abbia la sua genialità e la sua cattiveria.

Ma è diversissimo da Sordi: è un formidabile musicista prima che un attore, lavora più sulla parodia che sulla creazione di personaggi, ha il respiro dello sketch, non dei film. Tra mezzo secolo cercheremo un suo erede. E non lo troveremo. Perché i fuoriclasse sono irripetibili.

Vent’anni dopo Igor Righetti e la favola dell’avarizia del Sordi segreto. Nicola Santini su l’Identità il 22 Febbraio 2023

Il 24 febbraio ricorre il ventesimo anniversario della scomparsa di Alberto Sordi, avvenuta nel 2003. Per ricordarlo, uscirà l’undicesima ristampa del libro scritto da suo cugino Igor Righetti, "Alberto Sordi segreto" pubblicato nel 2020 in occasione del centenario della nascita del grande attore, il primo volume che racconta la vita fuori dal set dell’Alberto nazionale. Righetti, giornalista professionista, docente universitario di comunicazione, autore e conduttore radiotelevisivo Rai, con la sua famiglia fin da bambino ha frequentato l’illustre cugino che chiamava zio in quanto Sordi lo considerava come un nipote. Pubblicato dall’editore Rubbettino con la prefazione del critico cinematografico Gianni Canova, "Alberto Sordi segreto" è disponibile nelle librerie, su Amazon e su tutti i bookstore online anche in versione ebook: il volume sta riscuotendo grande successo non soltanto in Italia, ma anche in Europa, Argentina, Stati Uniti e Australia. Finora ha ricevuto cinque Premi letterari di cui due internazionali: "L’Apoxiomeno international Award" per la Letteratura e quello dell'"International Tour Film Fest", il Premio nazionale Caravella Tricolore, il Premio "Cinema Anni d’oro – Premio George Hilton" e il Premio nazionale Alberto Sordi del Comune di Popoli (Pescara).

La versione cartacea è stata richiesta da numerose librerie di città americane come Chicago, Boston, New York e Washington. Alberto Sordi, infatti, non è amatissimo soltanto in Italia: anche all’estero lo ricordano con grande affetto. La dimostrazione viene proprio dall’11ª ristampa di "Alberto Sordi segreto", scritto da chi l’attore lo ha conosciuto bene e frequentato in tante situazioni familiari e non sul set, per motivi professionali o per interviste ufficiali, ma in quanto suo familiare.

Come nasce la leggenda della sua presunta avarizia? "Dal fatto che nel momento dell’apice del suo successo – spiega Igor Righetti – ai tempi della Dolce vita, periodo in cui i divi si davano alla pazza gioia in via Veneto tra night, ristoranti alla moda e fiumi di champagne, lui non partecipava mai perché la sera studiava il copione e al mattino doveva alzarsi presto per stare sul set. In quel periodo Alberto ha realizzato anche dodici film all’anno, spesso girandoli contemporaneamente, passando da un set a un altro, quindi non aveva tempo da perdere. Mi raccontò, invece, che una giornalista mezza tacca e dotata di scarsa ironia, frequentatrice assidua dei party vip, scrisse che Alberto non frequentava gli incontri mondani, come facevano invece gli altri attori, perché era taccagno e non voleva spendere. Era molto orgoglioso di aver evitato il più possibile di farsi fotografare dai paparazzi a queste feste. Non ha mai smentito la sua presunta avarizia perché, geniale fino in fondo, divenuto ricco e famoso aveva capito che con quella fama nessuno lo avrebbe importunato. Ha alimentato lui stesso questa leggenda della taccagneria divertendosi a provocare e giocando sul suo attaccamento al denaro anche sfruttando il suo cognome (soldi in romanesco diventa "sordi"). L’ha cavalcata a suo favore interpretando il film ‘L’avaro’. Era oculato e parsimonioso nelle spese, quello sì, ma non taccagno. Non era nato ricco, aveva anche vissuto la fame agli inizi della sua carriera e conosceva bene il valore del denaro".

E aggiunge Righetti: "Avrebbe potuto avere auto lussuose, ma non amava ostentare, così come non ha mai voluto fotografi nella sua villa romana. Anzi, sorrideva quando vedeva sui settimanali o in tv servizi fotografici realizzati nelle case di personaggi dello spettacolo in cui venivano immortalati nella camera da letto, nel bagno, in cucina o accanto al frigorifero aperto. Alberto, invece, ha fatto tanta beneficenza, ma sempre in silenzio. Ha pagato cure mediche per amici e colleghi in disgrazia, ha adottato a distanza molti bambini poveri, ha fatto tante donazioni a vari orfanotrofi, alla casa del barbone e alla casa dello studente. Ma anche la beneficenza la faceva senza sbandierarla, non si lasciava fotografare con le gigantografie degli assegni come fanno altri. Soltanto dopo la sua morte il pubblico ne è venuto a conoscenza delle sue numerose iniziative benefiche. Molto di ciò che ha avuto, quindi, l’ha poi ridato.

Altro che macchietta. Sordi fu il simbolo nel bene e nel male del boom italiano. L'attore non è stato la maschera grottesca del Paese moderato. È stato il protagonista (poco amato) di una stagione irripetibile. Claudio Siniscalchi il 23 Febbraio 2023 su il Giornale.

L'identità italiana del dopoguerra, per un lungo tratto di tempo, è stata ricostruita e raccontata attraverso l'appartenenza ideologica. C'è stata l'Italia democristiana. Quella comunista. Quella socialista. Quella laica. Quella neofascista. Quella sessantottina. Poi, nell'ultimo ventennio del Novecento, quella indipendentista. Giovannino Guareschi è stato un insuperabile maestro nel mettere in scena la più rappresentativa contrapposizione ideologica. Nel piccolo centro emiliano di Brescello, in fondo, si rifletteva nello stereotipo, spesso tagliato con l'accetta, un affrontamento epocale. Italiano certo. Ma al tempo stesso europeo e mondiale. Non a caso nell'ultima puntata romanzesca di Don Camillo, i rivali di sempre, il curato e il sindaco, si trovano ad affrontare, vecchi e disillusi, nemici nuovi quanto imprevisti: i «giovani d'oggi». A Peppone toccano i maoisti. A don Camillo i preti conciliari ye-ye. Ma c'è una figura in grado di raccontare la straordinaria avventura dell'Italia moderna, negli splendori e nelle contraddizioni: Alberto Sordi.

Nella ricorrenza del ventennale della sua scomparsa, è arrivato il momento di uscire fuori dalla gabbia nella quale l'Albertone nazionale è stato rinchiuso. Sordi rappresenterebbe il prototipo negativo dell'italiano. Furbo, imbroglione, privo di morale, cinico. Però sempre a galla. Spesso con il solo naso fuori dall'acqua. Democristiano, in perenne odore di sacrestia, piccolo-borghese, custode del «familismo amorale». Il suo romano-centrismo racchiuderebbe i vizi comuni ai palazzi della politica e a quelli vaticani. Questi sono gli steccati. Ma bisogna andare oltre, scardinando le ovvietà. Sordi non è la maschera grottesca dell'Italia moderata. Non è lo specchio nel quale si riflette la deludente immagine dell'autobiografia della nazione. È il protagonista di una stagione unica ed irripetibile. La fotografia dell'Italia nel 1945 è quella di un paese uscito distrutto dalla guerra. Le macerie, però, più che materiali sono morali, identitarie. Per vent'anni la piccola Italia si è autorappresentata all'insegna della continua grandezza. Di colpo la macchina è tornata inesorabilmente indietro. Sui primi anni del dopoguerra si addensano minacciose le «paure» degli italiani, che la cinematografia neorealista intercetta. La perdita di una bicicletta, nel 1948, trascina un onesto padre di famiglia nel baratro della disperazione.

Il volto di Sordi non c'è nel neorealismo. Comincia ad apparire quando le nebbie dell'inquietudine rapidamente si diradano. Le «paure» vengono rimpiazzate dalle «speranze». Condensate nel grande successo commerciale della commedia, cosiddetta all'italiana. Ecco allora Sordi entrare in scena. Cavalca il «miracolo economico» di film in film. L'Italia corre, sfreccia. Si modernizza. La bicicletta lascia il posto alla motoretta, poi all'utilitaria. Spesso ad entrambe. Il benessere si diffonde. La lingua si unifica. Per imparare a leggere e a scrivere non è mai troppo tardi. Gli indici di scolarizzazione e demografia schizzano verso l'alto. Questa irripetibile stagione è stata perlopiù raccontata da una «vulgata» di matrice progressista, impegnata a tratteggiarne impietosamente i lati negativi. Sordi è stato elevato a maschera grottesca spesso macchietta, basti pensare al pasticcione Cretinetti de Il vedovo (1959) di Dino Risi di quest'epoca a guida demo-clericale. Uno stereotipo duro a morire. Ogni nuova fabbrica nella zona industriale più dinamica del suolo, è stata edificata su un cadavere. È l'amara conclusione del film Una bella grinta (1965) di Giuliano Montaldo. Sordi è un altro mondo. La Grande Italia ha deciso di costruirsela da sé. Da oscuro impiegato, aspirante vigile motociclista, piccolo commerciante, professore nelle scuole secondarie, avvocato senza grandi competenze, imprenditore spesso sconclusionato.

L'Italia di Sordi è sì piccolo-borghese. Ma il suo ruolo è positivo. Anche se ha goduto, e tuttora gode, di pessima rappresentazione. L'ostilità nei confronti della borghesia è il filo rosso che lega la cultura dominante italiana degli anni Trenta (fascista) con quella, altrettanto dominante, degli anni Sessanta (antifascista). Il romanzo Gli indifferenti (1929) di Alberto Moravia, pubblicato dalla casa editrice milanese di proprietà di Arnaldo Mussolini, viene trasposto sullo schermo dal comunista Citto Maselli nell'omonimo lungometraggio del 1964. La figura di Alberto Sordi non solo è rimasta estranea alla cultura dominante nel dopoguerra, ma ha incrociato, addirittura, una maggiore ostilità nell'universo generazionale affermatosi negli anni Settanta. Valga un solo ma significativo esempio: Nanni Moretti. Il giovane regista romano è infastidito a tal punto da Sordi che nel suo film-manifesto Ecce bombo (1978), scarica il proprio incontenibile malumore nella battuta: «Ve lo meritate Alberto Sordi!». A meritarselo sarebbero gli italiani mediocri, borghesucci, arruffoni, pantofolai, dai gusti banali, dalla cultura inesistente, dai comportamenti imbarazzanti, dagli imbrogli perenni.

Sordi resta l'imitatore un po' scemo dei peggiori stereotipi della nuova modernità americana, che s'avventa, privo di garbo, sulla scodella di maccheroni della crapulona tradizione nostrana. La vecchia sinistra, come la nuova, non ha mai digerito Sordi. Ma, ad essere onesti, la globalità della cultura italiana, tranne rare eccezioni, gli è stata, se non ostile, indifferente. La perfetta istantanea è quella del «tassinaro» verace che, fatto salire inaspettatamente Giulio Andreotti per una corsa, alla fine gli chiede la raccomandazione per il figlio. Anche nella versione drammatica di Un borghese piccolo piccolo (1977) di Mario Monicelli, Sordi resta patetico, alla spasmodica ricerca della solita raccomandazione per il figliolo non proprio sveglio. È ormai giunto il momento di rivedere con occhi nuovi l'avventura cinematografica di Alberto Sordi. Non tanto per confermare la grandezza dell'attore, che è indiscutibile. Ma per capire come l'Italia si è messa in scena nei suoi film. Senza pregiudizi ideologici. Di nessun tipo.

Il ricordo di Verdone: "Viveva come un monaco". Nelle lettere dell'Archivio, ora edite, l'affetto dei vip e di tantissima gente comune che gli dava del "tu". Pedro Armocida il 23 Febbraio 2023 su il Giornale.

Non troverete mai, in tutte le 223 pagine, un riferimento al celebre sberleffo, che, per la verità, invecchia peggio ogni anno che passa, di Nanni Moretti che, in Ecce bombo del 1978, risponde urlando: «Ma che siamo in un film di Alberto Sordi? Ve lo meritate Alberto Sordi», a un uomo che al bar aveva detto: «Gli italiani, rossi e neri, sono tutti uguali». Perché, nel volume Caro Alberto - Le lettere ritrovate nell'Archivio Sordi a cura di Alberto Crespi appena pubblicato da Laterza, tutti quelli che hanno scritto al grande attore e regista sentivano di meritarselo proprio l'Albertone nazionale. Forse il più grande attore che abbiamo mai avuto e che, nonostante il successo, «era diversissimo ricorda Carlo Verdone in una delle due prefazioni (l'altra è di Walter Veltroni, presidente onorario della Fondazione Museo Alberto Sordi) dalla maschera che vedevamo sullo schermo. Sordi viveva nell'ordine, nel silenzio, nella penombra. Pochissime persone erano ammesse nelle stanze della sua villa, le cui finestre erano perennemente schermate da persiane che difendevano Sordi dal sole e dagli sguardi del mondo. Era casalingo e solitario. Viveva come un monaco (...) mi sembrava la casa di un prelato. Era piena di figure sacre, santi, Madonne; e di foto di famiglia. Una cosa che mi ha sempre stupito è che non ci fosse una sola foto con personaggi dello spettacolo».

La villa è quella romana, famosa ma spartana e priva di qualsiasi lusso se non una sala di proiezione, di via Druso 45 che è naturalmente l'indirizzo presente in quasi tutte le migliaia di missive (una è indirizzata a Cinecittà...) che l'attore conservava gelosamente perché sapeva bene che doveva tutto a quel suo pubblico. «A molte rispondeva scrive il curatore Alberto Crespi Sugli originali protocollati spesso c'era la scritta foto, a mano, a indicare che a quell'appassionato era stata spedita l'agognata fotografia con un autografo». Poi certo ci sono lettere rimaste senza risposta come quella in cui c'è la bizzarra proposta di tagliare una fettina del Monte Testaccio per trasformarla in un sito archeologico che, per la verità, richiama il finale di Gallo Cedrone di Verdone forse il suo unico vero erede in cui il protagonista si butta in politica e, parlando del Tevere, dice che oramai «nun ce serve» e che sarebbe meglio trasformarlo in una lingua d'asfalto a tre corsie per azzerare il traffico: «Signori, se scóre! Finalmente se scóre a Roma!». Oppure ci sono richieste di denaro ben sapendo che Sordi, a dispetto delle malelingue che lo volevano tirchio, «faceva molta beneficenza ma in modo mirato, attraverso associazioni affidabili», sottolinea il curatore. Peraltro non c'è la dicitura di foto spedita neanche alla lettera di un direttore di un ufficio postale in provincia di Teramo che, scrive, «vengo con la presente a proporle la realizzazione di un meraviglioso e impegnativo film a livello internazionale della durata di tre ore circa, sarà un vero capolavoro () e dovrebbe essere UN CONCENTRATO DA ALBERTONE INTERCONTINENTAL». È un'Italia semplice, ingenua, quasi pura quella che traspare da queste lettere in cui, quasi sempre, i fan usano il tu e si rivolgono a lui come se fosse un amico, un confidente: «Ero a casa da mesi e non riuscivo né a parlare, né a sorridere, sul mio letto di tristezza vedevo senza partecipazione la televisione come fosse qualcosa di lontano, di sconosciuto. Poi all'improvviso misero inonda una serie di suoi films (...) Certamente i farmaci che prendevo facevano effetto ma lei è stato determinante per la mia guarigione» scrive una signora anonima.

C'è poi una seconda parte del volume che conserva le lettere di personaggi famosi, da De Sica a Gina Lollobrigida, da Anthony Quinn a Aurelio De Laurentiis fino a Monica Vitti che per ben due volte si scusa per essere stata assente in altrettante occasioni. Poi ci sono tre presidenti della Repubblica, Leone, Scalfaro e Ciampi e Silvio Berlusconi che, nell'89, di suo pugno gli scrive «con l'ammirazione di sempre». Ma il politico più fedele, che gli scriveva quasi sempre per il compleanno a giugno, è stato Giulio Andreotti. La sezione conclusiva raccoglie invece le lettere giunte dopo la scomparsa di Sordi, il 24 febbraio 2003 a 82 anni. Sulla soglia della sua villa, dove questo volume inizia e finisce, uno dei tanti messaggi lasciati recita: «'A lupa t'ha allattato, er mondo t'ha adottato». È una donna che lo vuole ringraziare per aver rappresentato il nostro Paese al cinema: «Per come lo hai fatto mi sono sentita sempre orgogliosa di essere romana e italiana». Ma ce lo meritiamo davvero Alberto Sordi?

Alberto Sordi, l’amore per gli Usa e il western scritto (mai girato) sul trombettiere del generale Custer. Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 5 Febbraio 2023.

La storia dei soggetti inediti firmati da Sordi: L’unico superstite della battaglia di Lille Bighorn contro gli indiani era italiano. L’attore voleva farne un film, come «America» sul mitico Meniconi

Alberto Sordi era molto divertito dalla storia di John Martin, il trombettiere del generale Custer. Di Giovanni Martini, come realmente si chiamava, nato a Sala Consilina, lo affascinava la faccia tosta, quella che si dice lo avesse portato ad essere colpito da un pugno di Garibaldi perché aveva venduto il di lui cavallo bianco, quella che lo aveva spinto a emigrare verso l’America inseguito dai parenti di una ragazza messa incinta, quella che lo aveva portato ad arruolarsi con il generale Custer, a combattere contro gli indiani, ad essere catturato e poi rilasciato perché entrato nelle grazie di una delle mogli di Toro seduto.

John, Giovanni, fu, non per caso, l’unico superstite della battaglia di Lille Bighorn dove venne raso al suolo dagli indiani il settimo Cavalleggeri. A John fu affidato, nel cuore della battaglia, il compito di portare un messaggio nelle retrovie. Non sapendo bene la lingua Martini salta a cavallo, si piega sul fianco dell’animale, risponde all’attacco degli indiani e consegna il foglio al colonnello Benteen. Torna da Custer e lì, misteriosamente, riesce a salvarsi. Solo lui e un cavallo sopravvivono allo sterminio del Settimo Cavalleggeri. C’è chi dice, ma forse sono solo malelingue, che, vista la mala parata, Martini abbia detto a Custer che andava a cercare rinforzi e si sia volatilizzato. A conferma di questa tesi sempre i pettegoli riferiscono che Martini accampò per due anni un deficit di memoria che purtroppo gli impediva di rispondere a domande su Little Bighorn.

Fece otto figli, aprì un negozio di alimentari nel quale faceva indossare ai clienti il cappello di Custer e suonare nella tromba con la quale lui stesso aveva intonato la carica. Lo strumento era stato rinvenuto sul campo di battaglia da un indiano, Donnola Gialla, che lo aveva conservato. Sordi scrisse sul tema un soggetto con Alberto Bevilacqua. Il romanziere di Parma, infatti, aveva scovato questa storia e si preparava a farne un articolo per un quotidiano. Sordi, informato dal collega Luigi Zampa, lo bloccò e insieme scrissero il soggetto che pubblichiamo. Si scatenò una guerra per la realizzazione del film tra Alberto, che lo aveva proposto ad Haggiag e De Laurentiis il quale, a sua volta, depositò un testo con titolo analogo e stessa storia. A un certo punto sembrò addirittura che Frank Capra avrebbe diretto Sordi in questo film. Sarebbe stata una scelta magnifica. Il film, tanto conteso tra Robert Haggiag e Dino De Laurentiis, non fu però mai realizzato. Anni dopo, in una intervista a Settimana Tv nella quale gli si chiedeva quale fosse il suo film più caro, Alberto rispondeva: «Quello che devo fare da sette anni: Il trombettiere del generale Custer. Un western».

Pubblichiamo anche un altro soggetto inedito. Quello che negli archivi della Fondazione Sordi, che cura e classifica l’immenso patrimonio di Alberto, è chiamato semplicemente America. La storia, scritta nel 1964, è centrata sulla figura di Nando Meniconi, l’americano a Roma del magnifico film di quel genio di Steno. Si conosce l’amore di Sordi per il mito americano, l’idea che quella fosse la terra del futuro e delle promesse, il suo desiderio di conoscerla e raccontarla. Questo soggetto parla proprio di questo. Con una clamorosa curiosità. Nel 1964 Sordi aveva immaginato la scena degli schiaffi ai viaggiatori che si affacciano dai finestrini del treno che sta per partire. Sequenza che sarà colonna portante del primo magnifico episodio di Amici miei. Ma non è detto che Germi, Benvenuti, De Bernardi e Pinelli abbiano saputo dell’idea di Sordi e l’abbiano copiata. Avendo avuto la fortuna di conoscere molti di quella generazione, genio e allegria, non dubito che, tra loro, fosse una disciplina praticata davvero.

Fabrizio Roncone per corriere.it il 7 novembre 2022.

Questa non è la storia di Alberto Sordi. Questa è una storia su Alberto Sordi.

Piccola, molto personale. Conservata, con cura, nel cassetto segreto che ciascuno di noi possiede. Qui al Corriere mi hanno chiesto di aprirlo. 

Così devo tornare indietro alla mattina del 25 febbraio 2003. In una camera d’albergo a Pisa, dentro la luce sporca che filtra dalle persiane. Con il portiere che, alle 7.30, bussa, consegna il pacco dei giornali e chiede: «Ha saputo?». No, cosa? «È morto Sordi». Non mi ha nemmeno detto buongiorno. Ma aveva questa urgenza: avvertirmi del lutto nazionale. 

Sento una mano afferrarmi le budella. No, Alberto no. A Roma, lo chiamiamo tutti per nome: più che un amico o un mito, un parente stretto. Ripenso a Beniamino Placido che, in occasione del suo settantesimo compleanno, scrisse di come i suoi personaggi cinematografici avessero inciso così tanto sui romani, sulla loro psiche e sul loro linguaggio, che erano ormai i romani a parlare e comportarsi come Sordi, e non il contrario. 

È morto a 82 anni, poche ore fa. Malato da tempo. Poi una bronchite diventata polmonite. Me lo immagino nella penombra della sua villa di via Druso, le finestre con le serrande sempre abbassate sul panorama delle Terme di Caracalla. Apprendo dalla tivù che già molte persone sostano davanti al portone, in cima alla collinetta. Sarei stato tra loro, abito a poche centinaia di metri, e invece sono qui: il giornale mi ha chiesto di raccontare i no global che bloccano i convogli ferroviari carichi di armi, dalla base americana di Camp Darby le portano a Vicenza, gli Stati Uniti si preparano ad invadere l’Iraq. 

Poi squilla il cellulare. La riunione del mattino, in via Solferino, sta per cominciare: bisogna programmare pagine su pagine, chiedono un contributo di idee. Butto giù qualche banalità, saluto mortificato. Per vanità, ogni giornalista vorrebbe sempre seguire il fatto del giorno: stavolta, invece, io vorrei solo essere un romano tra i romani.

La giornata scorre grigia. Un po’ il cielo basso, di piombo, un po’ la retorica di quei finti rivoluzionari (uno dei capi era Nicola Fratojanni, adesso onorevole Fratojanni, che è riuscito a portare in Parlamento persino la moglie, Elisabetta Piccolotti): lavoro in coppia con il mio fraterno amico Enrico Fierro, inviato speciale dell’Unità. Che, sebbene sia di origini irpine, come me adora Alberto. Insieme andiamo a sentire i portuali di Livorno: annunciano che rallenteranno, in tutti i modi, i lavori di carico sulle navi yankee. Da Roma, intanto, arriva la notizia che il sindaco Walter Veltroni ha dato ordine di allestire la camera ardente in Campidoglio, nella sala Giulio Cesare. Tra i primi ad arrivare, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, accompagnato da sua moglie Franca; dietro, in coda, la processione di un’intera città.

La lettura dei quotidiani, il mattino seguente, fornisce la sensazione battente di una crudele diserzione sentimentale. Non essere lì. Non salutare Alberto. Inaccettabile. Eppure è a Pisa che dobbiamo restare: alle 17, in piazza Sant’Antonio, è prevista una manifestazione. Agenti in tenuta anti-sommossa. Blindati con gli idranti. Però non succede niente. Da Milano chiedono un racconto di 90 righe. Fierro prenota un tavolo alle 22. 

Mangiamo ascoltando le notizie dalla tivù: il funerale si svolgerà nella basilica di San Giovanni, Gigi Proietti e Carlo Verdone terranno un discorso. La città è a lutto. Drappi neri alle finestre. Strazianti scritte sui muri. Enrico mi ripete a memoria alcuni brani del film Il Vedovo , in cui Sordi è il commendatore Alberto Nardi, un giovane industriale romano, megalomane, ma con uno scarso senso degli affari; sposato con la ricca Elvira Almiraghi/Franca Valeri, imprenditrice milanese spregiudicata e di successo che, tra ironia e rassegnazione, lo chiama «Cretinetti». 

Nel lungo elenco dei necrologi usciti sul Corriere, struggente, e confuso tra i tanti, c’era anche quello della Valeri. «Ciao, Cretinetti. Milano, 26 febbraio». Ricordiamo altri tre film girati insieme dalla coppia: Il segno di Venere , dove Sordi si esibisce in uno strepitoso duetto con Peppino De Filippo; Piccola Posta, con Sordi che bacchetta le anziane di un ospizio; e Un eroe dei nostri tempi, film erroneamente considerato minore.

La tagliata era squisita, abbiamo già quasi vuotato una bottiglia di rosso, squilla il cellulare: un amico comune ci spiega che il centro di Roma è bloccato; migliaia di romani, in silenzio nella notte, aspettano il loro turno, passo dopo passo, per andare a salutare Alberto.

Enrico mi guarda.

Io guardo Enrico.

Stiamo pensando la stessa cosa. 

Enrico, accendendosi una Camel: «Quanto ci vuole?». «Non meno di 3 ore e mezza».«Quindi potremmo essere a Roma intorno alle 4. Giusto?». «Enrì, la macchina che ho affittato è una Ford Focus…». «E noi la mettiamo alla prova, questa Focus». 

Partire, un blitz tra passione e riconoscenza, contro il destino con dolcezza: che però comporta l’abbandono del servizio, sia pure per un tempo limitato. Se succede qualcosa, i rispettivi giornali sarebbero scoperti. Si va dalla lettera di richiamo, al licenziamento per giusta causa.

Ma ormai abbiamo deciso. Enrico ordina il conto e due caffè doppi. 

Un’ora dopo siamo in autostrada e ragioniamo sui migliori film di Alberto. Dobbiamo aiutarci con le categorie. Il Conte Max e Il Vedovo : leggendari. Una vita difficile , forse il migliore. Ma un centimetro dopo ci sono La Grande Guerra e Tutti a casa, con la commovente scena finale (Sordi che, durante la rivolta di Napoli, il 28 settembre 1943, mitraglia i tedeschi). A Firenze ci fermiamo a fare rifornimento, la Rai sta mandando in onda I magliari, film superbo, sottovalutato. Molti film di Alberto vengono spesso dimenticati: Ladro lui, ladra lei, Lo scapolo, Il seduttore, Fortunella , che fu diretto da Eduardo De Filippo. Alberto ha recitato con tutti i più grandi registi: da Fellini a De Sica, da Monicelli a Risi, da Comencini a Scola, a Rosi, Pietrangeli, Steno, Loy, Magni, Zampa. Riusciva a girare anche 12 film in un anno. 

A lungo è stato l’attore più ricco di Cinecittà. Una volta lo intervista Oriana Fallaci e lui la invita alla Casina Valadier, al Pincio. Un caffè per lei, una granita per lui: «Chiariamo subito, madame. Io tirchio non sono. La conosco questa voce che circola. Se volessi, potrei comprarmi il locale. Ma non lo compro perché non mi va. Adesso mi va la granita».

 Arriviamo in piazza Venezia alle 3,48 del mattino. Parcheggiamo l’auto sotto l’Ara Coeli e saliamo la scalinata del Campidoglio insieme ad un autista dell’Atac («Ho finito il turno e so’ venuto: Alberto è come un fratello maggiore») e un’infermiera in divisa («Sono sfinita, ma pareva brutto non esserci»). In cima, troviamo Luigi Coldagelli, all’epoca giovane addetto stampa del sindaco. Ci chiede da quale festa stiamo tornando. Gli spieghiamo tutto. Dice che siamo fortunati, hanno dovuto tenere aperta la camera ardente perché il flusso dei visitatori è stato inarrestabile.

Alberto giace al centro della sala. La bara è nascosta, sommersa da fiori e orsacchiotti, sciarpe della Roma, bigliettini. Per un istante, mi torna in mente l’unica volta che l’ho conosciuto. Sul set di uno dei suoi pochi film dimenticabili, Sono un fenomeno paranormale: la produzione reclutò a Paese Sera, dov’ero un cronista ventenne, alcune comparse che avrebbero dovuto interpretare il ruolo dei giornalisti durante una conferenza stampa.

Gli mando un bacio, faccio il segno della Croce — quella volta che Gassman gli chiese se fosse credente, e lui: «Vittò, e che te dico? Nell’incertezza, hai visto mai…» — risaliamo in macchina e, per tornare in Toscana, imbocchiamo l’Aurelia.

Albeggia. Viaggiamo in silenzio. Esausti e soddisfatti. A Cecina accendiamo la radio. 

Un’emittente locale ha messo su «Ma ‘ndo Hawaii»: è la celebre colonna sonora del film Polvere di stelle, e anche del nostro viaggio d’amore. Che finisce qui.

Sono certo che Enrico, da qualche parte, l’avrà già raccontato anche ad Alberto.

La mia fuga notturna per Alberto Sordi: Roma, i film e un bacio. Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera il 6 Novembre 2022.

Fabrizio Roncone racconta Sordi, storia di una «diserzione sentimentale»: «Quel 25 febbraio 2003 ero a Pisa per il giornale, ma io volevo essere solo un romano tra i romani» 

Questa non è la storia di Alberto Sordi. Questa è una storia su Alberto Sordi.

Piccola, molto personale. Conservata, con cura, nel cassetto segreto che ciascuno di noi possiede. Qui al Corriere mi hanno chiesto di aprirlo.

Così devo tornare indietro alla mattina del 25 febbraio 2003. In una camera d’albergo a Pisa, dentro la luce sporca che filtra dalle persiane. Con il portiere che, alle 7.30, bussa, consegna il pacco dei giornali e chiede: «Ha saputo?». No, cosa? «È morto Sordi». Non mi ha nemmeno detto buongiorno. Ma aveva questa urgenza: avvertirmi del lutto nazionale.

Sento una mano afferrarmi le budella. No, Alberto no. A Roma, lo chiamiamo tutti per nome: più che un amico o un mito, un parente stretto. Ripenso a Beniamino Placido che, in occasione del suo settantesimo compleanno, scrisse di come i suoi personaggi cinematografici avessero inciso così tanto sui romani, sulla loro psiche e sul loro linguaggio, che erano ormai i romani a parlare e comportarsi come Sordi, e non il contrario. È morto a 82 anni, poche ore fa. Malato da tempo. Poi una bronchite diventata polmonite. Me lo immagino nella penombra della sua villa di via Druso, le finestre con le serrande sempre abbassate sul panorama delle Terme di Caracalla. Apprendo dalla tivù che già molte persone sostano davanti al portone, in cima alla collinetta. Sarei stato tra loro, abito a poche centinaia di metri, e invece sono qui: il giornale mi ha chiesto di raccontare i no global che bloccano i convogli ferroviari carichi di armi, dalla base americana di Camp Darby le portano a Vicenza, gli Stati Uniti si preparano ad invadere l’Iraq.

Poi squilla il cellulare. La riunione del mattino, in via Solferino, sta per cominciare: bisogna programmare pagine su pagine, chiedono un contributo di idee. Butto giù qualche banalità, saluto mortificato. Per vanità, ogni giornalista vorrebbe sempre seguire il fatto del giorno: stavolta, invece, io vorrei solo essere un romano tra i romani.

La giornata scorre grigia. Un po’ il cielo basso, di piombo, un po’ la retorica di quei finti rivoluzionari (uno dei capi era Nicola Fratojanni, adesso onorevole Fratojanni, che è riuscito a portare in Parlamento persino la moglie, Elisabetta Piccolotti): lavoro in coppia con il mio fraterno amico Enrico Fierro, inviato speciale dell’Unità. Che, sebbene sia di origini irpine, come me adora Alberto. Insieme andiamo a sentire i portuali di Livorno: annunciano che rallenteranno, in tutti i modi, i lavori di carico sulle navi yankee. Da Roma, intanto, arriva la notizia che il sindaco Walter Veltroni ha dato ordine di allestire la camera ardente in Campidoglio, nella sala Giulio Cesare. Tra i primi ad arrivare, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, accompagnato da sua moglie Franca; dietro, in coda, la processione di un’intera città.

La lettura dei quotidiani, il mattino seguente, fornisce la sensazione battente di una crudele diserzione sentimentale. Non essere lì. Non salutare Alberto. Inaccettabile. Eppure è a Pisa che dobbiamo restare: alle 17, in piazza Sant’Antonio, è prevista una manifestazione. Agenti in tenuta anti-sommossa. Blindati con gli idranti. Però non succede niente. Da Milano chiedono un racconto di 90 righe. Fierro prenota un tavolo alle 22.

Mangiamo ascoltando le notizie dalla tivù: il funerale si svolgerà nella basilica di San Giovanni, Gigi Proietti e Carlo Verdone terranno un discorso. La città è a lutto. Drappi neri alle finestre. Strazianti scritte sui muri. Enrico mi ripete a memoria alcuni brani del film Il Vedovo , in cui Sordi è il commendatore Alberto Nardi, un giovane industriale romano, megalomane, ma con uno scarso senso degli affari; sposato con la ricca Elvira Almiraghi/Franca Valeri, imprenditrice milanese spregiudicata e di successo che, tra ironia e rassegnazione, lo chiama «Cretinetti». Nel lungo elenco dei necrologi usciti sul Corriere, struggente, e confuso tra i tanti, c’era anche quello della Valeri. «Ciao, Cretinetti. Milano, 26 febbraio». Ricordiamo altri tre film girati insieme dalla coppia: Il segno di Venere , dove Sordi si esibisce in uno strepitoso duetto con Peppino De Filippo; Piccola Posta, con Sordi che bacchetta le anziane di un ospizio; e Un eroe dei nostri tempi, film erroneamente considerato minore.

La tagliata era squisita, abbiamo già quasi vuotato una bottiglia di rosso, squilla il cellulare: un amico comune ci spiega che il centro di Roma è bloccato; migliaia di romani, in silenzio nella notte, aspettano il loro turno, passo dopo passo, per andare a salutare Alberto.

Enrico mi guarda.

Io guardo Enrico.

Stiamo pensando la stessa cosa.

Enrico, accendendosi una Camel: «Quanto ci vuole?». «Non meno di 3 ore e mezza».«Quindi potremmo essere a Roma intorno alle 4. Giusto?». «Enrì, la macchina che ho affittato è una Ford Focus…». «E noi la mettiamo alla prova, questa Focus».

Partire, un blitz tra passione e riconoscenza, contro il destino con dolcezza: che però comporta l’abbandono del servizio, sia pure per un tempo limitato. Se succede qualcosa, i rispettivi giornali sarebbero scoperti. Si va dalla lettera di richiamo, al licenziamento per giusta causa.

Ma ormai abbiamo deciso. Enrico ordina il conto e due caffè doppi.

Un’ora dopo siamo in autostrada e ragioniamo sui migliori film di Alberto. Dobbiamo aiutarci con le categorie. Il Conte Max e Il Vedovo : leggendari. Una vita difficile , forse il migliore. Ma un centimetro dopo ci sono La Grande Guerra e Tutti a casa, con la commovente scena finale (Sordi che, durante la rivolta di Napoli, il 28 settembre 1943, mitraglia i tedeschi). A Firenze ci fermiamo a fare rifornimento, la Rai sta mandando in onda I magliari, film superbo, sottovalutato. Molti film di Alberto vengono spesso dimenticati: Ladro lui, ladra lei, Lo scapolo, Il seduttore, Fortunella , che fu diretto da Eduardo De Filippo. Alberto ha recitato con tutti i più grandi registi: da Fellini a De Sica, da Monicelli a Risi, da Comencini a Scola, a Rosi, Pietrangeli, Steno, Loy, Magni, Zampa. Riusciva a girare anche 12 film in un anno. A lungo è stato l’attore più ricco di Cinecittà. Una volta lo intervista Oriana Fallaci e lui la invita alla Casina Valadier, al Pincio. Un caffè per lei, una granita per lui: «Chiariamo subito, madame. Io tirchio non sono. La conosco questa voce che circola. Se volessi, potrei comprarmi il locale. Ma non lo compro perché non mi va. Adesso mi va la granita».

Arriviamo in piazza Venezia alle 3,48 del mattino. Parcheggiamo l’auto sotto l’Ara Coeli e saliamo la scalinata del Campidoglio insieme ad un autista dell’Atac («Ho finito il turno e so’ venuto: Alberto è come un fratello maggiore») e un’infermiera in divisa («Sono sfinita, ma pareva brutto non esserci»). In cima, troviamo Luigi Coldagelli, all’epoca giovane addetto stampa del sindaco. Ci chiede da quale festa stiamo tornando. Gli spieghiamo tutto. Dice che siamo fortunati, hanno dovuto tenere aperta la camera ardente perché il flusso dei visitatori è stato inarrestabile.

Alberto giace al centro della sala. La bara è nascosta, sommersa da fiori e orsacchiotti, sciarpe della Roma, bigliettini. Per un istante, mi torna in mente l’unica volta che l’ho conosciuto. Sul set di uno dei suoi pochi film dimenticabili, Sono un fenomeno paranormale: la produzione reclutò a Paese Sera, dov’ero un cronista ventenne, alcune comparse che avrebbero dovuto interpretare il ruolo dei giornalisti durante una conferenza stampa.

Gli mando un bacio, faccio il segno della Croce — quella volta che Gassman gli chiese se fosse credente, e lui: «Vittò, e che te dico? Nell’incertezza, hai visto mai…» — risaliamo in macchina e, per tornare in Toscana, imbocchiamo l’Aurelia.

Albeggia. Viaggiamo in silenzio. Esausti e soddisfatti. A Cecina accendiamo la radio. Un’emittente locale ha messo su «Ma ‘ndo Hawaii»: è la celebre colonna sonora del film Polvere di stelle, e anche del nostro viaggio d’amore. Che finisce qui.

Sono certo che Enrico, da qualche parte, l’avrà già raccontato anche ad Alberto.

Sor Marchese, è l’ora”: un secolo di Alberto Sordi. Manuel Fondato su Culturaidentita.it il 15 Giugno 2022 

Oggi avrebbe compito 102 anni: il 15 giugno 1900 nasce a Roma Alberto Sordi, fra i protagonisti della commedia all’italiana. Fra i suoi film più riusciti “La grande guerra”, di Mario Monicelli, ”Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?“ di Ettore Scola, “Detenuto in attesa di giudizio” di Nanni Loy e “Lo scopone scientifico” di Luigi Comencini. Fra le sue migliori interpretazioni quella in “Un borghese piccolo piccolo” e “Il Marchese del Grillo” di Mario Monicelli. Nel 1995 ottiene al Festival di Venezia il Leone d’oro alla carriera. Muore nella sua villa di Caracalla nella notte tra il 24 e il 25 febbraio 2003: Roma, la sua adorata città e l’Italia intera diranno addio all’attore e regista con un abbraccio di massa, 500mila persone alla camera ardente in Campidoglio, 250mila al funerale a San Giovanni in Laterano. Per tributare il grande attore vi proponiamo il pezzo che il nostro Manuel Fondato ha scritto in occasione del centesimo anniversario della nascita (Redazione).

Sono passati 100 anni dalla nascita di Alberto Sordi (nacque a Roma il 15 giugno 1920) e un po’ si sentono: l’Italia in cui visse e che i suoi film hanno descritto meglio di un manuale di sociologia non esiste più.

Fu sublime in ruoli drammatici come il tenente Innocenzi in Tutti a casa di Luigi Comencini, Giuseppe Di Noi in Detenuto in attesa di giudizio di Nanni Loy o Pietro Vivaldi di Un borghese piccolo piccolo di Monicelli. Nemmeno il coraggio e la perseveranza gli mancavano.

Il suo cammino verso il successo fu lastricato di delusioni e incomprensioni, fino a che non pescò il jolly nel 1937, ancora minorenne, in un provino alla Metro Goldwin Mayer che aveva bandito un concorso per trovare la voce italiana dell’attore Oliver Hardy, in arte Ollio. Il resto fu finalmente in discesa, negli anni’50 e ’60, dove risiede la crème della sua filmografia. Capolavori come Un americano a Roma di Steno, La Grande Guerra di Monicelli, insieme a Vittorio Gassman e Silvana Mangano, I Vitelloni del suo fraterno amico Federico Fellini, Il vedovo di Dino Risi, resteranno pietre miliari del nostro cinema, assieme ad altri ruoli cult del decennio successivo come l’Otello Celletti de Il Vigile, il dottor Guido Tersilli del feroce Il medico della mutua o lo stracciarolo Peppino che ne Lo scopone scientifico, sempre di Comencini, ogni anno sogna di arricchirsi battendo a carte la ricca e avida Bette Davis, in coppia con la moglie Antonia, interpretata da Silvana Mangano.

A partire dal 1966 diventò lui stesso regista dei suoi film, con esiti in chiaroscuro: a pellicole riuscite come Polvere di stelle in coppia con Monica Vitti o Finchè c’è guerra c’è speranza, dove è Pietro Chiocca, un cinico venditore di armi nei paesi africani, alternò altre meno belle come il cripto-misogino Io e Caterina.

Negli anni’80 la sua interpretazione migliore fu senza dubbio quella ne Il marchese Del Grillo. Divertenti i due film in coppia con il designato erede Carlo Verdone In viaggio con papà e Troppo forte, anche se a posteriori Verdone dichiarò di non aver apprezzato il taglio che Albertone diede all’avvocato Giangiacomo Pignacorelli In Selci.

Snobbato da pubblico e critica è stato invece quello che l’attore considerava il proprio testamento spirituale: il malinconico Nestore l’ultima corsa del 1994. L’attore si è identificò nel protagonista, il vetturino Gaetano Bernardini, costretto a separarsi dal cavallo Nestore destinato al mattatoio, metafora di un cinema che stava cambiando e andando incontro a un’involuzione negli interpreti e nelle trame.

Albertone morì la sera del 24 febbraio 2003 all’età di 82 anni, nella sua casa. Quanto fosse una parte fondamentale di Roma lo dimostrarono i suoi 250 mila concittadini che, dopo averlo omaggiato in Campidoglio, parteciparono il 27 febbraio ai funerali solenni nella Basilica di San Giovanni in Laterano. Sordi riposa nella tomba di famiglia, presso il cimitero monumentale del Verano. Sulla lapide c’è scritto: “Sor Marchese, è l’ora”.

Sandro Ciotti, la voce rauca che accarezzava i sogni degli italiani. Radiocronista, ma anche calciatore, paroliere, musicista: ritratto del cantore per eccellenza del romanzo pallonaro nostrano. Nel suo curriculum 2400 radiocronache, quaranta festival di Sanremo, 15 Giri d'Italia e 14 Olimpiadi. Paolo Lazzari il 23 Settembre 2023 su Il Giornale.

Di sicuro quella trasferta non l'aveva immaginata così. Un italiano guarda a Città del Messico come ad un catino rovente e invece ti ritrovi zuppo fin dentro le ossa. Dopo quattordici ore ininterrotte sotto la pioggia anche i pensieri iniziano a farsi umidi. Però Sandro Ciotti non si muove. Resta dritto per tutto quel tempo compresso dentro un giorno delle Olimpiadi del 1968, a raccontare quello che sta succedendo. La voce è ancora morbida, levigata. Dopo tutta l'acqua incassata però si svilupperà una raucedine infida che, mista alle moltissime sigarette avidamente succhiate, produrrà quello che d'istinto gli sembrerà un patatrac. I medici che lo visitano, del resto, scuotono vistosamente il capo. Il verdetto è terrificante per uno che vive facendo radio: edema alle corde vocali.

Ciotti è sconvolto. Teme di dover appendere prima del tempo quel suo talento raro. Invece Sergio Zavoli e Paolo Rosi lo rassicurano: quella insolente seccatura può diventare un marchio di fabbrica. Un fatto così potenzialmente letale - per la professione - stappa una carriera che diventa rutilante. E che era iniziata ufficialmente qualche anno prima, nel 1958, quando era approdato in Rai per collaborare con Lello Bersani ad alcune trasmissioni cinematografiche. Quel mondo lo attirava da tempo. Da piccolo Sandro trangugiava film e canzoni. Però ci sapeva fare anche nello sport, al punto che era entrato a far parte delle giovanili della Lazio e poi lo avevano preso a giocare in serie C.

Però premeva per erompere, in sottofondo, un sentimento genetico. Succede quando sei figlio di un giornalista e il tuo padrino di battesimo è Trilussa. Sandro aveva scoperto che ci sapeva fare pure con le parole. E d'un tratto tutto era diventato più limpido: smesso di giocare, avrebbe fatto il giornalista. Meglio se sportivo. Così sbocciava Tutto il calcio minuto per minuto. Venti milioni di italiani con i padiglioni auricolari incollati alla radiolina, a pendere dalle tue labbra per novanta minuti più recupero, pregando che tu pronunci frasi salvifiche per la loro squadra.

Ciotti era diventato il cantore di quel romanzo popolare. Prestava occhi e voce a chi si trovava lontano, trasformando ogni partita in una liturgia attesa spasmodicamente per tutta la settimana. La sua voce increspata e profonda, le figure retoriche di cui cospargeva le cronache, quello stile a tratti barocco, ma comunque irresistibile. Era un modo descrittivo, quasi pittorico, di intendere lo sport tutto, non solo il calcio. Distante da quello del collega rivale Ameri, con il quale fioccavano battibecchi e interruzioni - tra cui il celebre Scusa Ameri - e che invece prediligeva un racconto ossequioso, puntuale, ritmico sì, ma meramente rivolto a informare.

Così tra uno sciabolata in avanti e un clamoroso al Cibali, aveva creato una sua epopea personale, diventando figura di culto nell'orizzonte del giornalismo sportivo italiano. Sapeva stare a suo agio anche in tv. Un giorno triste, mentre conduceva La domenica sportiva, dovette apprendere e dare in diretta la notizia della scomparsa di Gaetano Scirea, mentre Tardelli - distrutto - lasciava lo studio. Qualche anno dopo, era il maggio del 1996, Ciotti prendeva la linea per salutare tutti quanti: “Quella che ho faticosamente cercato di concludere è stata la mia ultima radiocronaca. Un grazie a tutti gli ascoltatori, mi mancheranno”. Era l'ultimo atto di un racconto durato per 2400 radiocronache di partite di calcio, ma c'era stato anche molto di più, in quella sua strada costellata di interessi. Quaranta Festival di Sanremo, 15 Giri d'Italia, 14 Olimpiadi, 9 tour de France.

E, di sicuro, c'era stato anche il Ciotti oltre lo sport. A casa aveva quintali di vinili. Quella sua passione per la musica, pulsante fin da ragazzino, se la sarebbe sempre portata dietro. La Rai l'aveva capitalizzata mandandolo spesso a Sanremo - dove raccontò anche il suicidio di Tenco, avanzando diversi dubbi - e caldeggiando la collaborazione con grandi artisti. Scrisse canzoni per Enzo Jannacci e Peppino Di Capri. Intervistò Modugno, Mina, Gino Paoli e poi virò anche sul cinema - altra passionaccia - confrontandosi anche con Fellini.

Quando se ne andò, un giorno di vent'anni fa, rimanemmo disorientati. Era una voce che c'era sempre stata. La voce rauca che accarezzava i sogni degli italiani.

Luca, il figlio di Nino Manfredi: «Papà diede del cialtrone al suo amico Tognazzi. Mamma gli perdonò parecchie scappatelle».  Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 06 giugno 2023

Il figlio di Manfredi: «Fu l’unico a dire a Wojtyla che le sue commedie non erano granché». «Non sapeva chiedere scusa, anche se aveva torto marcio. Abbiamo recuperato il nostro rapporto iniziando a lavorare insieme»

Luca Manfredi racconta il padre, il grande Nino, scomparso nel 2004. «Eh già... — sospira — sono passati quasi vent’anni».

Che c’entra il sanatorio con la recitazione?

«Venne ricoverato a 15 anni all’ospedale Forlanini per la tubercolosi, dove restò rinchiuso tre anni. E proprio lì ebbe la possibilità di assistere per la prima volta a una rappresentazione teatrale: Vittorio De Sica offrì ai degenti uno spettacolo. Nino rimase molto sorpreso, tanto che quando finalmente venne dimesso, cominciò a realizzare spettacolini nel teatrino della parrocchia: si divertiva a interpretare ruoli femminili, gli venivano particolarmente bene. Lo notò un parrocchiano, l’attore Carlo Campanini, che lo spronò a coltivare la sua capacità espressiva».

Nino frequentava la parrocchia perché era molto religioso?

«Macché! Era molto scettico in materia però, mentre era al Forlanini cominciò a porsi delle domande sulla fede. Assisteva i suoi compagni di camerata che, pur essendo molto credenti e assidui frequentatori della chiesa, gli morivano tra le braccia: lui era l’unico sopravvissuto, l’unico miracolato e il dubbio sulla credenza religiosa lo ha accompagnato per il resto della sua vita. Parecchi anni dopo, non a caso, interpretò Per grazia ricevuta, con cui vinse la Palma d’Oro a Cannes».

Dal sanatorio come approdò all’Accademia d’arte drammatica?

«Per caso. Frequentava l’università, perché suo padre voleva assolutamente che si laureasse in Legge. Un suo amico gli propose di accompagnarlo alla Silvio D’Amico, per informazioni sull’iscrizione. Nino scopre con stupore che esisteva una scuola per imparare il mestiere d’attore: pensava che la recitazione fosse un hobby, non un lavoro. Fece domanda di ammissione e superò l’esame: dai compagni veniva soprannominato il Ciociaro, per la forte cadenza burina e il carattere caparbio. Mantenne fede al patto con suo padre, laureandosi, e si diplomò all’Accademia. D’Amico gli disse che aveva una naturale vocazione per l’ironia: la satira poteva diventare il suo punto di forza. Un altro punto di forza era il suo rigore da perfezionista, grazie agli insegnamenti del maestro Orazio Costa».

Per esempio?

«La mimica era importante, prima che con la parola, occorreva esprimersi col corpo. Per interpretare un personaggio nevrotico, doveva imitare una formica nei suoi scatti nervosi, per interpretarne uno diffidente, Costa gli diceva: ispiratevi ai movimenti di un gatto. Con l’esperienza, Nino divenne un camaleonte: spariva l’attore nella pelle del personaggio. Dino Risi lo definì un orologiaio, per la precisione con cui costruiva i suoi ruoli, lavorava come un attore americano».

Però non divenne famoso oltre oceano...

«Registi famosi, come Billy Wilder e David Mamet, cercarono di convincerlo a fare film con loro, ma il suo cruccio era di non conoscere l’inglese. Per questo, ce l’aveva con la propria madre vissuta in America insieme al padre minatore e che, quando era tornata in Italia, si rifiutava di parlare in americano: per lei rappresentava il marchio da emigrante. Quando Wilder gli propose di girare un film con Jack Lemmon, Nino rispose: se Lemmon accetta di recitare in italiano, così come io reciterò in inglese, lo faccio... e ovviamente non se ne fece niente».

Che rapporto aveva con i colleghi italiani?

«Gande amico di Alberto Sordi, Marcello Mastroianni e soprattutto di Vittorio Gassman, che aveva conosciuto in Accademia e che per primo lo coinvolse in uno spettacolo con la Compagnia di Evi Maltagliati. Alle prime prove, mio padre era talmente emozionato che non riusciva a proferire parola. Nel grande imbarazzo per tutti Evi si rivolse incavolata a Vittorio: mi hai portato un attore muto? Gassman lo difese strenuamente, rispondendo: diamogli un’altra possibilità... e così fu. Negli anni seguenti, erano in tournée insieme, ma Nino si ammala, febbre a 40, e una sera non voleva fare lo spettacolo: “Ho vuoti di memoria!” ripeteva a Vittorio, che ribatteva: “Non preoccuparti, ti do una mano io, se hai un vuoto lo riempio in qualche modo”. E lo aiuta talmente tanto, troppo, che ogni volta che Nino stava per aprire la bocca per recitare una sua battuta, Vittorio lo anticipava, temendo il vuoto. A sipario chiuso, papà gli disse: “A Vitto’, va bene che mi volevi aiuta’, ma almeno una battuta me la potevi fa’ di’!”».

E i colleghi con cui non andava d’accordo?

«Con Ugo Tognazzi ebbe una frattura, durata qualche anno. Stavano girando insieme un film e, mentre Nino era il rigore fatta persona, studiava scrupolosamente il copione, era sempre puntualissimo sul set, Ugo invece, come si sa, era uno che la sera amava fare baldoria con gli amici: feste, cene, bevute... Una mattina si presenta sul set in uno stato talmente confusionale che non si ricordava nemmeno che film stessero facendo. Mio padre, non essendo diplomatico, esplode e dice al produttore: «Adesso io vado nella mia roulotte e quando questo cialtrone avrà studiato le scene, mi chiamate» e sparisce. Anche Ugo si arrabbiò moltissimo, ma ovviamente aveva ragione Nino: il lavoro va rispettato».

Era così rigoroso anche nella vita privata?

«Accipicchia! Per esempio non sapeva mentire, diceva sempre quello che pensava e una volta fu sincero persino con Papa Wojtyla. Era stato invitato in Vaticano per assistere a una commedia scritta proprio dal Santo Padre, La bottega dell’orefice. Al termine della rappresentazione, tutte le personalità presenti si precipitano dal Pontefice per fargli i complimenti, tipo... “che testo meraviglioso, Santità... perché non ha continuato a scrivere commedie, poteva diventare un grande autore... il teatro ha perso un talento”. Mio padre se ne stava zitto, in disparte: era imbarazzato, perché aveva trovato lo spettacolo piuttosto noioso. Il Papa lo nota e gli chiede: “Lei Manfredi non dice niente?”. Lui risponde: “Santità, se posso permettermi di darle un consiglio... se fossi in voi mi terrei ‘sto posto in Vaticano, perché come commediografo non sareste diventato così famoso”. Giovanni Paolo II inizia a ridere, lo abbraccia e lo ringraziò per la sua sincerità».

Sul fronte dei difetti?

«Non sapeva mai chiedere scusa, anche a torto marcio. Un esempio? Vado a trovarlo nella sua villa al mare e, strada facendo, mi compro maschera e pinne, per poi pescare cozze e ricci che lui amava tanto. Quando mi vede pronto a tuffarmi in acqua, mi chiede sospettoso: scusa, ma quelle pinne sono le mie? Io ribatto: no, le ho comprate poco fa. Lui insiste: sono le mie! Io, torno indietro, vado a frugare in casa e trovo le sue: non si ricordava dove le aveva messe e gliele porto sotto al naso. Invece di scusarsi, si limita a rispondere: bè, hai delle pinne che non sembrano le tue... Paradossale».

Che padre era?

«Assente, sempre occupato sui set. Quando era a casa, si chiudeva nel suo studio con gli sceneggiatori. Il merito di portare avanti la famiglia è di mia madre Erminia, che ha sopportato e perdonato le sue varie “scappatelle”: ne ha fatte di cotte e di crude».

Severo?

«Parecchio. Da ragazzino mi rifugiai su un albero in giardino, perché voleva costringermi a mangiare le lumache, che mi fanno schifo. Abbiamo recuperato il rapporto in seguito, cominciando la lavorare insieme».

Lei gli ha dedicato un film, «In arte Nino», un documentario, «Uno, nessuno, cento Nino» e un libro, «Un friccico ner core».

«Una pacificazione postuma. La sua arte lo ha reso immortale. Rivedendo i suoi film, con i suoi movimenti “nineschi”, è come se continuasse a vivere con noi. Un grande privilegio avere un padre così».

La donna, 83 anni, nei giorni scorsi era stata sottoposta a un intervento chirurgico. Addio a Rosa Serrapiglia, moglie di Mario Merola: l’annuncio del figlio Francesco, “mammà ora abbraccia papà”. Redazione su Il Riformista il 9 Aprile 2023

Mamma’ mo va abbraccia a papà, siete nel mio cuore per l’eternità“. E’ il messaggio che affida ai social Francesco Merola annunciando, la domenica di Pasqua (9 aprile), la morte della madre Rosa Serrapiglia, vedova di Mario Merola, re della sceneggiata napoletana scomparso nel 2006.

La donna aveva 83 anni e nei giorni scorsi era stata sottoposta a un delicato intervento chirurgico. Inizialmente le sue condizioni di salute erano sostanzialmente stabili poi con il passare dei giorni si sono ulteriormente aggravate fino al drammatico epilogo delle scorse ore.

Serrapiglia sposò Mario Merola nel 1964. Dalla loro unione sono nati Michele Roberto, Loredana e Francesco.

Proprio Francesco, attore e cantante, nei giorni scorsi (5 aprile) aveva provato a rassicurare i fan sulle condizioni della madre: “Buongiorno amici, da giorni sto ricevendo l’affetto e messaggi da tutti voi per mia madre grazie a tutti, ora posso dirvelo va molto meglio ringrazio Dio, mio padre e tutti i medici. Spero presto di fare un video messaggio con lei per voi.Cara mamma sei forte, mi hai sbalordito, torna sta casa aspetta a te”.

Dolore e sgomento sui social dove sono centinaia i messaggi di cordoglio alla famiglia Merola per la scomparsa di Rosa Serrapiglia. Scrive il cantante Andrea Sannino: “Chi è stato almeno una volta a casa vostra, avrà conosciuto tutta l’umanità, la gentilezza, la dolcezza e l’amore di questa meravigliosa donna. La sua tavola aveva sempre un posto per tutti, e chiunque si sia seduto almeno una volta, diventava suo figlio, suo nipote. È stata mamma e poi nonna, non solo per voi ma per intere generazioni che amano da sempre la vostra famiglia… tra cui ci sono anche io. Non la dimenticherò mai! Ti abbraccio forte fratello. Piango con voi”.

Estratto dell’articolo di Massimo Galanto per “il Messaggero” l'8 maggio 2023.

Ci sono esistenze che sembrano una sceneggiatura cinematografica. È il caso di Anna Nicole Smith, la modella statunitense scomparsa tragicamente nel 2007, alla soglia dei 40 anni. […] 

Su Netflix dal 16 maggio sarà online il documentario Anna Nicole Smith - La vera storia, che racconterà con testimonianze inedite la vicenda della bionda americana - Vickie Lynn Hogan all'anagrafe - che sognava di essere la nuova Marilyn Monroe. Fragile, sexy, determinata. E, forse, ingenua. Di sicuro una vita segnata dagli eccessi. Primo matrimonio a 17 anni, primo figlio a 18, gli inizi umili nel mondo del lavoro, poi l'incontro con il magnate 89enne J. Howard Marshall, che sposa a 26 anni. Lui, 13 mesi dopo, muore. 

Il successo, la copertina della rivista Playboy nel 1992, la pubblicità di Guess, una parte nel film Una pallottola spuntata 33 - L'insulto finale, la trasformazione in icona, le battaglie legali per il testamento del marito defunto. Quindi una nuova gravidanza e la nascita della figlia. Che in poche ore si trasforma in tragedia: muore improvvisamente il figlio ormai ventenne Daniel, che era andato a trovare la madre e la sorellina, proprio nella camera d'ospedale dove si trovava Anna.

L'epilogo è scontato per lei: nel febbraio 2007 viene trovata priva di sensi in una stanza d'albergo in Florida. Muore per un collasso in seguito all'uso eccessivo e contemporaneo di almeno nove sostanze diverse. 

L'opinione pubblica ha mostrato una morbosa attenzione nei confronti della storia vissuta con l'89enne miliardario J. Howard Marshall: «Quando lui stava male - raccontò la Smith in tv - mi veniva impedito di andarlo a trovare in ospedale, potevo farlo, ma solo per trenta minuti alla volta. Fisicamente non ero attratta da lui, ma nessuno mi ha mai amato e rispettato così tanto. E io lo amavo per questo». 

[…] Recentemente Radaronline ha raccolto la testimonianza anonima di un amico di Anna: «Una volta mi disse: "Se mi succede qualcosa, voglio che tu prenda il mio computer e impedisca che finisca nelle mani sbagliate". Sembrava convinta che le sarebbe successo qualcosa».

Funari, Funari, Funari questa sera su Cielo il docufilm che ricorda luci e ombre del fuoriclasse. Nicola Santini su L'Identità il 12 Luglio 2023 

In occasione del 15esimo anniversario della morte di Gianfranco Funari, avvenuta il 12 luglio del 2008, Cielo (canale 26 del digitale terrestre) manderà in onda oggi alle ore 21:20 Funari, Funari Funari.

Il docufilm, uscito il 21 marzo 2022, dopo gli ottimi risultati ottenuti su Sky Documentaries e su NOW, sarà trasmesso per la prima volta in chiaro: una grande opportunità per tutto il pubblico che non l’ha ancora visto e che non ha mai dimenticato uno dei personaggi più innovativi del piccolo schermo.

Un’occasione per ricordare il giornalista iconico Gianfranco Funari che si aggiunge al Premio Funari – Giornalaio dell’anno che a febbraio 2024 giungerà alla terza edizione. L’evento pubblico che si tiene a Viareggio in occasione del Carnevale, in passato ha visto vincere personaggi come Rosario Fiorello, Diego Zoro Bianchi, Serena Bortone, David Parenzo…

Gianfranco Funari è stato un personaggio televisivo unico, la cui storia è stata caratterizzata da grandi innovazioni e sorprendenti successi, ma anche da fallimenti, censure, scontri e polemiche.

Un grande comunicatore Gianfranco Funari, un artista coraggioso, una persona che ha giocato d’azzardo con la vita e che ha avuto la grande capacità di cambiare pelle, di stupire, di morire e di rinascere più volte dalle proprie ceneri, sempre rimanendo nei cuori di un pubblico che ne reclama tutt’oggi la schiettezza, l’arte di comunicare con efficacia, e l’onestà intellettuale, che lo hanno reso in più occasioni un personaggio scomodo, ma sempre inappuntabile per stile e una certa classaccia da animale televisivo sopra le righe. Eccentrico e diretto, ma mai fazioso, era capace di raccontare a modo suo anche le verità più scomode. La lite in tv con lui è stata sdoganata.

Funari, Funari, Funari è paragonabile ad un viaggio tra luci e ombre, tra palcoscenico e vita privata, che rende omaggio a un uomo geniale e controverso, che ha attraversato tre decenni di spettacolo e di politica.

Il docufilm in onda stasera è il racconto di un pezzo di storia di un’Italia del recente passato, forse più attuale che mai.

Funari, Funari, Funari è scritto da Marco Falorni e Andrea Frassoni, in passato già collaboratori di Funari. Il docufilm è una produzione sky original e prodotto da Libero Produzioni.

Michael Jackson: i 40 anni di Thriller, il videoclip che ha cambiato le regole. Gabriele Antonucci su Panorama il 30 Novembre 2023

L'iconico cortometraggio di John Landis, il primo "minifilm" della storia del pop, è stato proiettato per la prima volta il 2 dicembre 1983 su MTV. Un nuovo documentario, che in Italia sarà trasmesso su Paramount+, racconta la storia del video più famoso di sempre Il 2 dicembre 1983 è una data che ha segnato un autentico spartiacque per la musica pop e, più in generale, per la cultura popolare. Quel giorno fu trasmesso, per la prima volta su MTV (che aveva anche partecipato alla spese di produzione), il videoclip diThriller di Michael Jackson, costato allora un milione di euro: una cifra enorme, all’epoca. Il video scatenò una sorta di isteria collettiva, tanto che gli spettatori intasarono i centralini della tv musicale chiedendo di trasmetterlo più volte al giorno (erano ancora lontani i tempi di Youtube e dello streaming). Curiosamente, l'album Thriller era stato pubblicato un anno prima, il 30 novembre 1982: da esso erano già stati estratti come singoli The girl is mine insieme a Paul erano già stati estratti come singoli The girl is mine insieme a Paul McCartney, Billie Jean e Beat It. Il disco, sopratutto dopo l'uscita di Billie Jean (primo video di un artista nero trasmesso su MTV), stava andando bene, ma il lancio del video di Thriller ha fatto impennare le vendite a livelli che nessuno, tanto meno la Sony, aveva mai lontanamente immaginato, se non il solo Jackson, che voleva realizzare, dopo la delusione di un solo Grammy vinto dall'eccellente Off The Wall, l'album pop più venduto di sempre. La première del cortometraggio si tenne a Hollywood il 21 novembre del 1983 in un grande evento di lancio simile a quelli che si organizzavano per i film ad alto budget, con star del calibro di Marlon Brando, Elizabeth Taylor, Diana Ross e Cher tra il pubblico. «Fu una serata incredibile», ha ricordato il regista John Landis. Alla fine della proiezione ci fu una lunghissima standing ovation e la richiesta di vedere altri filmati. Landis, visibilmente imbarazzato e incredulo, disse che non aveva altro da mostrare. «Allora fateci vedere quella maledetta cosa un'altra volta», urlò un survoltato Eddie Murphy, grande fan nonché imitatore di Jackson. E così fu, con una seconda, applauditissima proiezione. Thriller, che originariamente si sarebbe dovuta chiamare Midnight man o Starlight, è una canzone che suona epica e drammatica allo stesso tempo, sorretta da un basso persistente, da una solida chitarra funky e da spettrali tastiere. Il video, il più famoso e celebrato di sempre, è un vero e proprio film dell’orrore, pur se stemperato da una buona dose di ironia, della durata di quasi quattordici minuti, girato dallo specialista John Landis. Il cortometraggio è considerato una pietra miliare del ventesimo secolo, non solo in campo artistico, ma anche per ciò che riguarda la cultura pop. «Lavorare con Michael all'epoca fu esaltante - ha dichiarato Landis al giornalista Joseph Vogel- perché era al suo apice. Era come lavorare con i Beatles al culmine della Beatlemania o qualcosa del genere. Stare con lui era qualcosa di straordinario, era famoso in un modo assurdo. Dicevo sempre che era come stare con Gesù, perché ogni volta che lo vedeva, la gente impazziva». Il plot del video è semplice, ma efficace: un giovane Michael, in un'atmosfera tipicamente Anni Cinquanta, va al cinema con la sua ragazza, la splendida Ola Ray, e le confessa di essere diverso dagli altri, cioè un lupo mannaro. «Jackson mi disse che amava Un lupo mannaro americano a Londra e mi fece domande sulla metamorfosi da uomo a lupo -ha dichiarato Landis al "Corriere della Sera"- Era affascinato dagli effetti speciali creati dal truccatore Rick Baker. In definitiva, voleva diventare un mostro». Il videoclip è una parodia dei film horror ma, dietro la facciata del puro intrattenimento, insinua domande tutt'altro che banali sull'identità, sulla diversità e sulla pirandelliana sovrapposizione di finzione e realtà. Michael è sempre stato entusiasta del video di Thriller: «Mi piace tantissimo - ha dichiarato in un'intervista del 1983- Ti fa evadere dalla realtà, è divertente. Diventare qualcos'altro, un'altra persona, è un'esperienza fantastica, soprattutto quando ci credi davvero e non è come se stessi recitando». Indimenticabile l’inquietante parte vocale recitata da Vincent Price, che Michael conosceva fin da piccolo, pagato con un forfait di soli 20.000 dollari (ma probabilmente avrebbe preferito una percentuale sugli incassi-monstre della canzone), così come la coreografia, una delle più iconiche e imitate di sempre nelle scuole di danza moderna, grazie anche allo straordinario trucco del premio Oscar Rick Baker. Il video è un vero e proprio tesoro americano, tanto da essere inserito nel 2009 nel Registro Nazionale del Film dalla Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. Ha vinto 2 Grammy Awards come "Best Video Album" per la VHS "Making Michael Jackson's Thriller" e "Best Video, Long Form" nel 1985, oltre a 3 MTV Awards agli MTV Video Music Awards 1984 come "Best Overall Performance in a Video", "Best Choreography in a Video" e "Viewer's Choice". Dagli spettatori di MTV, Thriller è stato votato nel 1999 alla numero uno dei "100 Greatest Music Videos of all Time" (i 100 migliori video musicali di tutti i tempi). La ricorrenza dei quarant'anni del video di Thriller sarà festeggiata in tutto il mondo il 2 dicembre con la prima del nuovo documentario Thriller 40, in streaming negli Stati Uniti su Showtime e in contemporanea nel resto del mondo (in Italia sarà disponibile su Paramount+). Diretto da Nelson George e prodotto con la collaborazione della Michael Jackson Estate, il docufilm contiene interviste a numerosi personaggi del mondo della musica e del cinema, tra cui Usher, Mary J. Blige, Will.I.Am, Mark Ronson, Misty Copeland, Maxwell e, naturalmente, John Landis, regista difilm cult come Animal House, Blues Brothers e Una poltrona per due, che ha diretto nel 1983 il videoclip. «Se Thriller uscisse oggi, sarebbe ancora il più grande album mai realizzato», sostiene nel documentario Will.I.Am dei Black Eyed Peas, che ha lavorato con Jackson a quello che sarebbe dovuto essere il suo ultimo disco, prima della prematura scomparsa nel 2009. «Ci sono solo due cose nel mondo della musica: prima e dopo Thriller», dichiara nel documentario il critico musicale Steven Ivory. Ecco perché, ancora oggi, quel video e quella canzone non smettono mai di regalare emozioni, di farci cantare, di farci ballare, di spaventarci e di divertirci al tempo stesso.

Marco Risi per “la Repubblica” il 29 novembre 2022.

Il sorpasso lo conoscono tutti, anche il Papa. Quando l'ho incontrato nel febbraio dello scorso anno a casa di mia zia Edith (Bruck), a un certo punto gliel'ho chiesto. Non a freddo, il discorso stava vagamente scivolando verso il cinema: «Santità, da argentino forse conosce un film di mio padre che ha avuto un grande successo nella sua terra Il sorpasso?». 

Papa Francesco non ha avuto un attimo di esitazione: «Eh, come no, tutte quelle curve!» e ha sorriso, con quel suo bel sorriso simpatico e allegro.

"Tutte quelle curve" aveva un senso che mi ha svelato qualche tempo dopo Tatti Sanguineti: «In Argentina non ci sono curve». 

Non ci avevo pensato, io che in Argentina ho girato due film. Effettivamente è vero, in Argentina non ci sono curve. 

Poi ho chiesto, sempre al Papa, se avesse visto un altro film di mio padre, girato proprio lì in Argentina, Il gaucho. Ma no, non lo aveva visto. Il gaucho è un film molto bello che non ha avuto il successo del Sorpasso ma che a me piace tanto e a tratti quasi più di quello (esagero!). 

Fu rifiutato anche in Argentina.

Papà sosteneva per colpa della scena in cui Gassman sputava il mate (bevanda sacra in Argentina), aggiungendo anche "Ammazza che schifo, oh" Il Clarín, giornale della capitale, uscì con un titolo a nove colonne "Gassman escupió el mate".

Ma torniamo al Sorpasso che cambiò la nostra vita e anche quella del produttore Mario Cecchi Gori. Noi ci trasferimmo sulla Cassia, loro ai Parioli. Cecchi Gori, che se avesse piovuto un altro giorno non avrebbe permesso di girare il finale del film, l'incidente e la morte, per intenderci, non sopportava di vedere la troupe in albergo con le mani in mano in quel penultimo giorno di pioggia: "Finisce così, con loro due che se ne vanno via allegri". Per fortuna non piovve e in quel momento, con la morte di Trintignant, ci si accorse che finiva un'epoca, quella dell'innocenza, e ne cominciava un'altra, quella della furbizia. 

Il sorpasso era molto amato anche negli Stati Uniti. Easy rider nasce, per ammissione dei suoi autori, come ha ricordato Marco Tullio Giordana su Repubblica, da Easy life (titolo americano del Sorpasso) e fra i suoi estimatori aveva il grande Martin Scorsese che mi ha raccontato di quanto il suo insegnante di cinema ne fosse innamorato, al punto da studiarlo con una meticolosità tale da accorgersi che il percorso che percorreva l'automobile formava alla fine un punto interrogativo. Quando il giorno dopo lo raccontai a papà, scusate, non riesco a trattenermi, rido lui disse, con un ghigno allegro: "Oh, finalmente qualcuno che se n'è accorto". Non era vero, naturalmente. Lo devo sempre specificare perché magari qualcuno ci crede, al punto interrogativo.

Chiuderei, anche per non tediarvi troppo, con la genesi del Sorpasso, è d'uopo. Il film nasce da due viaggi in macchina che Dino aveva avuto l'avventura di compiere con due personaggi a modo loro folli. 

Uno era l'amico e produttore lombardo Gigi Martello, che una mattina, a Milano, gli disse: "Dài, accompagnami in Svizzera a comprare le sigarette", e finirono nel Liechtenstein a pranzo alla corte del principe. Per farsi ricevere Martello aveva tirato fuori la tessera del tram spacciandosi per giornalista. 

L'altro viaggio era con Pio Angeletti, allora direttore di produzione e in seguito grande produttore nonché tifoso malato della Roma. Famosa una sua frase quando la Lazio vinse lo scudetto: "Odio il cielo perché azzurro". 

Stavano viaggiando verso Maratea per sopralluoghi. Era domenica e la radio trasmetteva una partita della Roma. Stava perdendo. Vi lascio immaginare il resto. Papà, a ogni curva, temette seriamente per la sua vita (Dino si divertiva molto a dire che avrebbe dovuto morire in un incidente, così i giornali avrebbero potuto titolare: "Muore in un sorpasso il regista del Sorpasso"). Questo per dire che, se qualcuno avesse mai pensato che Dino fosse Gassman, si sbaglia. 

Dino era Trintignant, con una forte simpatia per Gassman. Ed è stata proprio quella simpatia a far deragliare il Paese all'ultima curva. Qualcuno l'ha pensato e lo ha anche detto e lo pensa ancora e forse è anche vero ma in fondo chissenefrega perché, come dice Bruno Cortona a Roberto, il cognome non lo sa, l'ha conosciuto il giorno prima: "A Robe', che te frega delle tristezze. Lo sai qual è l'età più bella? Te lo dico io qual è. È quella che uno ci ha giorno per giorno".

Estratti da “Versetti Sardonici”, di Dino Risi (ed. Gog), pubblicati da “il Fatto quotidiano” il 5 luglio 2022.

Vederlo inciampare la fece innamorare. 

Non ho amato Stalin non ho fatto sit-in partecipato a cortei contro gli ebrei fatto digiuni firme per la pace gridato viva Mao né letto un tazebao fatto crociere di piacere frequentato discoteche cineteche né scritto mai sui muri con lo spray rossi troioni laziali cagoni

non mi è mai occorso di portare avanti un discorso 

non ho detto valido puntuale e nemmeno virtuale mai barattato l’impegno con l’ingegno nella misura in cui non ho partecipato a tavole rotonde condotte da brutte donne bionde 

non sono stato in depressione non ho contestato le donne in visone i nudi in copertina i seni al silicone non ho marciato incolonnato con il braccio alzato purtroppo non ho avuto dazioni di milioni nemmeno una tangente piccola da niente

non credo in Dio nel Demonio nel matrimonio degli omosessuali in quanto tali non ho sniffato stuprato neppure molestato ho evitato analisti semiologi progressisti dietisti ecologisti rockettari paninari sfilate di modelle antipatiche ma belle ho sfuggito metafore punti di riferimento donne col doppio mento buddhisti meditazionisti integralisti teorici del pallone pallonari della televisione (complimenti per la trasmissione)

non ho protestato per il celibato dei preti per i polacchi lavavetri per i viados in periferia e sotto casa mia né per le cacche dei cani sui marciapiedi romani non ho vinto lotterie e nemmeno mountain bike pubblicizzate da Mike non ho usato detersivi lassativi contraccettivi promossi dai divi non ho mai detto “cioè” non dico “un attimino” neppure ad un bambino non ci son cose in cui credo insomma mi chiedo (parole amare)

Volle che nel cimitero sulla tomba fosse scritto NON È VERO. 

Che bella invenzione la televisione ha abolito la conversazione tra moglie e marito che bella invenzione il telecomando puoi far tacere chi ti sta annoiando che bella invenzione il televisore che ti risparmia di fare l'amore. 

Se quando le ho detto ti amo non mi avesse detto passami l'insalata l'avrei sposata.

La pallottola gli e rimasta da vent'anni dentro il cuore ieri in strada lei lo vede lo saluta lui non l'ha riconosciuta.

Il canaro all'amico che l'ha tradito ha strappato gli occhi la lingua la pelle della faccia gli ha rotto gambe e braccia ma a un tratto ha smesso la carneficina doveva andare a scuola a prendere la bambina. 

Uàoo ha detto lei Uàoo ha risposto lui solo questo hanno detto prima di finire a letto. Le aperse il cuore e scoprì che dentro c'era l'amore ma per un altro. 

Fu un errore del Direttore proiettare in prigione film d'evasione.

Era una piccola attrice fu definita grande quando apparve in un film senza mutande.

Aveva la villa lo yacht l'aeroplano era iscritto al Partito Comunista Italiano.

Il guaio di essere abbastanza intelligente da capire che non vali niente.

Volle che sulla sua lapide al cimitero fosse scritto mi sono tolto un pensiero.

Sono nato sfigato cercavo l'amore e l'ho trovato. 

Mancandogli qualcosa per essere un artista pensò bene di iscriversi al partito comunista.

Fu Dott fu Cav fu Ex fu Comm fu Vip fu GrUff adesso non è più è diventato Fu. 

Non piangere Liù non è colpa mia se non mi tira più. 

Un comico da strapazzo ebbe un'alta audizione ripetendo la parola cazzo in Televisione. 

Volevi l'amore grande l'amore puro e adesso ti lamenti perché non ce l'ho duro?

Estratto dell'articolo di Eugenio Murrali per il “Corriere della Sera” domenica 24 settembre 2023.

Ho intervistato Marco Risi a casa di sua zia Edith Bruck, scrittrice testimone della Shoah, moglie del poeta Nelo Risi, fratello di Dino. […] Con Marco Risi abbiamo ricordato alcuni successi del padre Dino, cercando di sfiorare la sua difficile essenza, raccontata dal figlio in Forte respiro rapido (Mondadori, 2020). 

[…]

Gesti di affetto?

«Rari. A tavola, se andava a rispondere al telefono, mi poggiava la mano sulla testa.

Misuravo quella pressione. Mio fratello Claudio era più coccolato. Di me diceva: “Il vecchietto”. Claudio era più istintivo, aperto, io chiuso, pensieroso». 

[…] Scrive che un giorno lei è passato dalla parte di sua madre.

«Raramente, ma papà poteva essere crudele. Abitavamo sulla Cassia, avevo tredici anni. Disse qualcosa che ferì mia madre. Lei si alzò da tavola, corse via. Di solito eravamo tre italiani contro la svizzerotta. Lì, invece, andai da lei, rimproverando intimamente mio padre. Mi colpì vederla quasi in ginocchio contro il comò, in lacrime. Mi aspettavo che papà facesse qualcosa, ma lui sapeva che tutto si sarebbe risolto presto. In questo era cinico».

Davvero lo era?

«Sì e no. I cinici spesso lo sono per paura. Sotto la scorza aveva una sua delicatezza e fragilità». 

I suoi discutevano?

«No. Mio padre era un rompiscatole e mia madre sopportava. Poi si è stufata, gli ha detto basta, ma noi a quel punto eravamo grandi. A sessant’anni è andato via. Ha preso una stanza per una settimana al Residence Aldrovandi. Ci è rimasto trent’anni. Un giorno ha chiesto di tornare. Lei ha detto: “No”».

Le prime lettere alla moglie sono tenere.

«È difficile dare una definizione di chiunque, di uno come lui ancora di più. Credo fosse stato molto innamorato di mia madre, forse più lui di lei. Poi il cinema, le donne…» 

Un giorno entrò, meteora nel cinema e nella vita di Dino Risi, Alicia Brandet.

«Esco dal cinema Fiamma un pomeriggio. Vedo la Mercedes Pagoda di mio padre.

Mi fermo. Ci guardiamo. Accanto ha Alicia Brandet. Papà non poteva ignorarmi e per cavarsela disse: “Ah, ti sei messo le mie scarpe?”. Frase che torna ne Il tigre , il film più autobiografico. Stava per lasciare tutto e tutti, come il protagonista». 

E voi?

«A tavola chiese: “Ma se io me ne andassi, vi dispiacerebbe?”. Mio fratello disse: “No”.

Allora io per recuperare: “Sì, mi dispiacerebbe”». 

Era scherzoso?

«Bisognava essere seri sullo scherzo, leggeri sulle cose serie. Pensiamo a Il sorpasso , è considerato una commedia, ma è un film drammatico». 

Era il ’62. Sordi rifiutò il ruolo preso da Gassman.

«Sì: “Faccio tutto io, me faccio un culo così, poi er merito se lo pija quell’artro ”. Dopo si è pentito. È un film profetico, segna un’epoca: la fine della ricostruzione, delle Vespe, delle Lambrette, dell’Italia felice, la fine dell’innocenza, il via all’Italia della sopraffazione, della furbizia».

[…] 

Mai un complimento?

«Quando vide il primo film, Vado a vivere da solo , un modo per cominciare invece di stare a casa a criticare tutto e tutti, mi fece un complimento che non lo era: “Ah, sei un professionista”. Come a dire: “Manca l’anima”».

Il vostro rapporto è cambiato dopo «Mery per sempre». Cosa lo colpì?

«La verità di quei personaggi, quelle facce, quella Palermo. Forse non se lo aspettava, o forse sì. Questo mi piacque, io tenevo moltissimo al suo giudizio». 

Gli pesava la solitudine?

«Alla fine tutti siamo soli. Uno come lui, che aveva vissuto veramente la vita, con donne, figli, una moglie deliziosa, quando vedeva che tutto si stava slabbrando, soffriva. Gli amici non c’erano più: Gassman, Tognazzi, Mastroianni, Zapponi, La Pegna. Sta succedendo anche a me, mi stanno morendo tutti: fratelli, amici».

[…] Credo invece che gli sarebbe piaciuto molto Fortapàsc. Su quel set ci siamo incontrati per l’ultima volta». 

Come andò?

«Mio padre venne a Castel Volturno, dove giravo. Era sorridente ed era bello averlo lì. Dopo le riprese siamo andati in albergo, doveva tenere una conferenza. C’erano pochissime persone, quindi tutta la troupe si fermò».

E lì?

«Disse una cosa bellissima: raccontò la prima volta che, in Liguria con suo padre, vide il mare. Una strada stretta tra due file di case, all’improvviso la distesa d’acqua azzurra. Quella vista lo emozionò e gli venne da piangere».

"Uno splendido regalo". Milano ricorda il partigiano Mike Bongiorno. Una targa sulla sua casa è stata scoperta durante una cerimonia patrocinata dal Comune di Milano: la città ricorda il re dei telequiz, tra i padri fondatori della televisione italiana, ma anche il giovane partigiano incarcerato a San Vittore. Lorenzo Grossi l'8 Settembre 2023 su Il Giornale.

Milano rende omaggio a Mike Bongiorno e al passato di partigiano. In zona Sempione, una targa è stata scoperta davanti alla sua abitazione in via Giovanni da Procida al civico 10 dall'assessore alla Cultura, Tommaso Sacchi. Presenti la moglie di Mike, Daniela Zuccoli, e i figli Niccolò e Michele, nonché alcuni residenti del condominio che hanno promosso l'apposizione della targa. A Bongiorno è stata anche dedicata la passeggiata di Porta Nuova, sotto i grattacieli, parallela a viale della Liberazione. Nella targa si legge: "In questa casa visse Mike Bongiorno, detenuto in gioventù nel carcere milanese di San Vittore perché antifascista. Fu storico presentatore televisivo e tra i padri fondatori della televisione italiana. Legato con amore alla città di Milano". 

"Questa casa me lo ricorda tantissimo, io qui ho vissuto 43 anni, ci sono nati i miei figli e mi commuovo ancora - ha commentato la vedova - . Questo è un regalo molto bello della città di Milano, per cui Mike ha fatto tanto, anche con le sue trasmissioni". L'anno prossimo si terrà il centenario della nascita di Mike Bongiorno, che verrà celebrato con un ampio cartellone di eventi e anche con una fiction Rai di cui una parte riguarderà il giovane partigiano che rischiò la fucilazione.

Sarà proprio in quel periodo (1944) che il re dei telequiz conobbe Indro Montanelli, anche lui portato a San Vittore dai nazifascisti. Quegli anni "hanno segnato profondamente la sua vita", hanno spiegato i figli dello storico conduttore televisivo scomparso l'8 settembre del 2009. Nato a New York il 26 maggio 1924, Mike accompagnò la nascita della tv italiana con il programma "Arrivi e partenze", diventò famoso qualche anno dopo con "Lascia e raddoppia" e "Rischiatutto" prima di approdare alla neonata Telemilano 58, che poi divenne Canale 5. 

Nicolò e Michele Bongiorno ci tengono a sottolineare come "nostro padre era legatissimo all'Italia e in particolare a Milano. Per lui l'Italia era Milano, e questo quartiere, a cui era molto affezionato". A piedi, ricordano, "papà usciva dal portone e si incamminava verso i vicinissimi studi Rai e quelli della Fiera dove ha registrato alcuni dei suoi più grandi programmi, come Rischiatutto". Anche l'assessore Sacchi ha ricordato l'unione speciale con Milano di "un protagonista assoluto della storia del nostro paese, una carriera poliedrica che appartiene alla memoria collettiva di tutti noi. La sua vita è stata molto legata a Milano e Milano lo amava moltissimo. Per questo - ha concluso - abbiamo scelto di ricordarlo così".

1990, quando Mike Bongiorno scoprì i bigliettini della signora Livoli. Al popolare quiz "Telemike" una concorrente viene beccata mentre legge i suoi appunti e sgorga l'ira di Mike: "Come gli scolaretti". Lei poi si giustificò: "Avevo una colica renale". Paolo Lazzari il 13 Agosto 2023 su Il Giornale.

Scende una placida sera di maggio dentro le case degli italiani. Fuori è il 1990 e, in ordine sparso, monta l'attesa per quelle possibili notti magiche a domicilio, devono ancora scoperchiare Mani Pulite, al governo siede Giulio Andreotti e il Napoli ha appena vinto il suo secondo scudetto. Ora di cena. Centinaia di migliaia di tubi catodici si sintonizzano all'unisono. C'è da vedere "Telemike". C'è da capire chi si intascherà quel monumentale montepremi da 120 milioni delle vecchie lire. Il quiz è popolarissimo. Mezzo paese freme.

"Allegria", suggerisce Mike Bongiorno entrando trionfalmente in studio, come sempre. Cartellina con le domande già stretta tra i polpastrelli della mano destra, gesticola ampiamente con la sinistra per tratteggiare il perimetro della serata. Telespettatori rapiti. In gara ci sono il campione in carica, il signor Carosi, e una giovane sfidante, la signorina Maura Livoli. Sorriso tiepido, sulla trentina, dice che si sta formando per fare la psicoterapeuta. Quel che non rivela in diretta, invece, è che non si sentirebbe per nulla bene.

Inizia il gioco. Raffica di domande. Il campione in carica si difende, mentre la Livoli pare annaspare. E sembra anche agitata. Si muove di continuo dentro la cabina dei concorrenti. Anche troppo. In particolare sembra armeggiare con qualcosa e punta spesso lo sguardo verso il basso. Una sequela di movenze sufficienti ad attirare l'attenzione del Mike nazionale. Insospettito, Bongiorno frena con le domande del quiz - il tema era Guglielmo Marconi - e inizia a rivolgersi alla concorrente. Subito dopo la pubblicità Bongiorno aveva ricordato che la Livoli era stata molto male, aggiungendo che sperava si fosse ripresa. Ora tutto quel gingillarsi lo stranisce. "Signorina, posso domandarle che cosa sta facendo in questo momento?".

Da qui in poi la situazione degenera. Pubblico a casa incollato a sedie e divani. Mike manda la sua assistente, Sabrina, a verificare. Nel frattempo la Livoli nasconde un bigliettino nel reggiseno. Sgamata di brutto, in diretta nazionale. Colta in flagrante consegna il corpo del presunto reato. "Erano dei miei appunti", ha la forza di mormorare. Mike si inferocisce. "I suoi appunti? Complimenti signorina. Vogliamo vedere qui? Mi meraviglio di lei, come gli scolaretti a scuola. Ma cara signorina, come si permette lei, mentre io sto leggendo le domande per un valore di 120 milioni? Lei stava compiendo una truffa in questo momento".

Colata verbale che seppellisce la Livoli, mortificata. Lei prova a ribattere con un "Io mi sono sentita mal...", ma Mike chiede ai giudici di squalificarla, perché un comportamento del genere davanti a 8 milioni di persone in ascolto è indifendibile. E infatti la squalifica arriva immediata. Carosi confermato campione. La Livoli intanto sviene, ma non impietosisce Bongiorno: "Volete portarla fuori? Adesso non so se qui facciamo delle sceneggiate". L'unico che sorride, ma solo interiormente, è Carosi che si intasca 220 milioni.

Finita così? Per nulla. Perché Maura Livoli, che oggi ha 63 anni e in effetti fa la psicoterapeuta di professione, fa causa a Mike e alla trasmissione per essere stata accusata del tentativo di truffa. E riporta la sua versione dei fatti: "Mi costrinsero a partecipare anche se stavo male e in studio non avevano degli analgesici. Solo degli psicofarmaci calmanti. Li assunsi e andai in confusione, altrimenti non avrei mai nascosto i biglietti nella camicetta, con la telecamera puntata verso di me".

La vicenda finirà in prescrizione, ma nel frattempo una pagina cult della storia televisiva italiana è stata confezionata. Singolare concomitanza di eventi o meno, gli ascolti delle settimane successive salgono ancora, Mike è felice, Maura un po' meno e la gente con gli occhi limati davanti allo schermo cena ancora in allegria.

Estratto da repubblica.it -  5 luglio 2023

Nel giorno in cui Barbara D’Urso spiega a Repubblica che la fine della trasmissione Pomeriggio 5 non è stata concordata con l’azienda […] rispunta uno spezzone d’archivio con Mike Bongiorno ospite di Fabio Fazio a Che tempo che fa in cui racconta che un trattamento simile venne riservato anche a lui. 

Era il 2009 e durante la trasmissione sulla Rai il celebre conduttore […] si era sfogato con l’amico e collega: “Adesso chi ha in mano il gruppo è il figlio, Pier Silvio. A Natale non è arrivato niente, ho chiamato un funzionario che mi ha detto 'come non ti hanno detto niente?' No a me non hanno detto niente. 

Strano però sai non abbiamo soldi quindi non rinnoviamo il contratto. Ma pensa te... parlare di soldi? Io ho tanto lavoro, non ho bisogno di quello. Sono rimasto così male che tu non hai idea. Non mi hanno preavvisato, non mi hanno chiamato anche solo per dare un saluto 'grazie per tutti questi trent'anni che hai fatto qui con noi'. 

Niente sono spariti tutti. Ho sofferto molto. Lo puoi chiedere a mia moglie. Non è possibile lavorare con un gruppo per trent'anni e poi all'improvviso sei fuori e nessuno ti preavvisa o ti dice grazie".

Bongiorno allora decise di chiamare Silvio Berlusconi: “Ho chiamato il patron  […] la televisione l’ho fondata con lui. Sono passati più di cinque mesi, non mi ha mai richiamato. Sono molto triste, ho fatto qualcosa di brutto, chissà cosa ho combinato. […] Ho cercato di fargli gli auguri a Natale, la segretaria mi ha detto: ‘C’è una lunga lista, la richiamiamo quando è il suo turno”.

Estratto dell'articolo di Candida Morvillo per il “Corriere della Sera” il 19 Giugno 2023. 

Il padre di Michele, Nicolò e Leonardo è stato l’uomo che, per due volte, inventò la nostra tv.

Fu lui, Mike Bongiorno, a inaugurare le emissioni ufficiali della Rai conducendo, nel 1953, Arrivi e partenze e fu sempre lui a inaugurare la prima tv commerciale, conducendo nel 1979 I sogni nel cassetto sulla Telemilano 58 che di lì a poco sarebbe diventata Canale 5. Il 26 maggio, avrebbe compiuto 99 anni, invece se n’è andato all’improvviso l’8 settembre 2009. Finora, non era mai successo che i tre figli, tutti nati dal matrimonio con Daniela Zuccoli, si ritrovassero insieme per un’intervista sul papà. Michele ha 50 anni e fa il produttore di documentari, arte, biografie, Nicolò ne ha 47 e fa il regista, Leonardo ne ha 33 e si occupa di investimenti in finanza e real estate. 

Vostro padre è stato tra i fondatori della tv e il re dei telequiz, di «Lascia o raddoppia?», «Campanile sera», «Rischiatutto», «La ruota della fortuna...». Quanto era fiero di quello che aveva fatto e quanto ne parlava?

Michele: (...) A noi, non ha mai fatto lezioni su Mike Bongiorno e la tv». 

Nicolò: «Non si celebrava mai. Anche degli anni da partigiano e della sua prigionia ha cominciato a parlarmene solo quando scrivemmo insieme la sua biografia, La Versione di Mike, uscita nel 2007.

Era stato arrestato durante una missione di partigiani e aveva rischiato di essere fucilato dai tedeschi. Erano vicende che lo avevano formato e fatto diventare chi era, ma non erano le cose che metteva davanti. Preferiva raccontare le sue avventure e disavventure sportive, come la storia di quando restò bloccato sulla vetta del Cervino a 4.478 metri sotto la bufera, o raccontava i suoi acciacchi, il suo elenco infinito di infortuni, gli episodi più comici». 

Leonardo : «Dei suoi racconti di vita e di disavventure, ricordo sempre i suoi riferimenti agli angeli custodi. Non era praticante, ma aveva una forte spiritualità, parlava spesso di come si potesse trasformare un’esperienza negativa in qualcosa di buono e di come, tante volte, le cose gli erano andate bene contro ogni previsione. S’immaginava gli angeli come se fossero proprio delle figure alle sue spalle che lo accompagnavano». 

Michele : «Prendevamo seriamente quei momenti. Raccontava che gli angeli lo avevano assistito anche nel lavoro: quando lasciò la Rai e 25 milioni di ascolti per una piccola tv privata era stato un salto nel vuoto. Ma lui conosceva il successo che le tv private stavano avendo in America ed era rimasto affascinato da Silvio Berlusconi. Raccontandolo, diceva: qualcuno dall’alto mi ha consigliato e mi ha messo sulla strada buona».

(...) 

Comunque, i viaggi erano molto on the road: in macchina, facendo una vita semplicissima, montando una tenda in un canyon. A Milano lo vedevamo sempre vestito in modo elegante, formale, lì sembrava un’altra persona, che faceva rafting e dormiva nel nulla. Nonostante potesse permettersi dei lussi, era molto spartano». 

Leonardo : «Io mi ricordo di quando in un motel della Death Valley non c’era abbastanza posto e lui dormì nella vasca da bagno».

Nicolò : «Il mio ricordo più bello è quello di quando ci siamo uniti a una tribù indiana che navigava sul Colorado River e poi abbiamo dormito in sacco a pelo su una sponda». 

Quanto gli corrispondeva il suo famoso motto «allegria»?

Michele : «Totalmente, lui era molto grato alla vita per quello che gli aveva dato. E che entrasse in scena o che si sedesse a tavola con noi, portava sempre una botta di buonumore. Poi, a me faceva molto ridere quando giocava coi dialetti. Avendo girato ogni paesino d’Italia, li sapeva tutti».

Nicolò : «Con Giro Mike aveva coperto tutte le feste di paese e aveva una tale memoria che di un paesino di 200 anime sapeva darti le indicazioni per arrivare al supermercato. E, a casa, quando si metteva a raccontare i suoi aneddoti e c’erano i miei amici bambini come me, pendevano tutti dalle sue labbra, e poi si rideva con le lacrime agli occhi». 

Faceva anche in casa le gaffes per cui era celebre in tv?

Leonardo: «Le gaffe erano tutte spontanee, non costruite. Poi, lui era bravo a ricamarci su. Diceva che gli venivano perché aveva due binari nel cervello: uno con quello che stava dicendo, un altro con quello che doveva dire».

Nicolò: «Comunque, quando scrivemmo il libro, io e lui ci siamo rivisti la famosa puntata in cui avrebbe detto “signora Longari, mi è caduta sull’uccello” e quella frase non l’abbiamo trovata». Lui come si spiegava che fosse su tutti i giornali? «Non se lo spiegava, ma questa cosa lo faceva ridere e ci ha marciato un po’». Invecchiando, come era cambiato? 

(...)

Nicolò: «In realtà, non si sentiva nonno, ma si sentiva ancora padre. Ricordo che, poco prima di morire, mi accompagnò a scegliere un alano. Fu un bel momento padre-figlio. Mentre mamma ama ricordare che, venti giorni prima di andarsene, papà fece il suo discorso più bello. Alla festa dei vent’anni di Leo raccontò a lui e ai suoi amici, tutti giovani con una vita agiata, di quando lui aveva avuto 20 anni durante la guerra, pesava “40 chili con la cintura” e rischiava di morire e non avrebbe mai immaginato di avere tutto quello che ha avuto. Mamma dice che quello è stato, per lui, una specie di testamento spirituale».

Farrah Fawcett avrebbe 76 anni: perché lasciò «Charlie's Angels» al culmine del successo, gli amori, 7 segreti su di lei. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 2 febbraio 2023.

La vita e la carriera della star di «Charlie's Angels», icona pop e sex symbol, morta per un cancro nel 2009

Gli inizi

Nonostante abbia recitato in «Charlie's Angels» soltanto per una stagione grazie al suo carisma Farrah Fawcett negli anni Settanta è riuscita a stregare il pubblico televisivo, che l’ha incoronata icona pop (e sex symbol) già dai primi episodi della serie. L’attrice, nata il 2 febbraio 1947 a Corpus Christi, in Texas, ha dato il via alla sua carriera nel mondo dello spettacolo quasi per caso: nella seconda metà degli anni Sessanta - nel suo primo anno di college - fu nominata tra le «dieci studentesse più belle del campus». Le sue foto furono inviate a varie agenzie di Hollywood e l’agente David Mirisch la chiamò, esortandola a trasferirsi a Los Angeles, ma lei inizialmente preferì continuare gli studi.

Protagonista di «Charlie's Angels»

Qualche tempo dopo, finalmente arrivata nella Città degli Angeli, Farrah debuttò come attrice televisiva nel telefilm «Strega per amore» (1969). La sua carriera inizialmente faticò a decollare. Poi però nel 1976 il produttore Aaron Spelling, che giocava spesso a tennis con lei e il suo allora neo-marito Lee Majors (protagonista di «L'uomo da sei milioni di dollari»), la scelse tra le protagoniste di nuova serie, «Charlie's Angels». Il primo episodio del telefilm, con Fawcett nel ruolo della detective Jill Munroe, andò in onda il 22 settembre dello stesso anno.

Perché Aaron Spelling le fece causa

«Charlie's Angels» ottenne fin da subito un successo clamoroso, e persino il taglio di capelli di Farrah diventò iconico. Contemporaneamente però nel matrimonio con Lee Majors iniziarono ad insinuarsi delle crepe (si disse perché l’attore non sopportava che la moglie fosse impegnata per lunghi periodi sul set). Così Fawcett, dopo una sola stagione, decise di lasciare la serie, scatenando la rabbia del produttore Aaron Spelling che le intentò una causa milionaria (la vertenza si risolse con un accordo extragiudiziale: Fawcett pagò una pesante penale e si impegnò a partecipare ad alcuni episodi della terza e della quarta stagione in qualità di guest star). Questo evento bloccò la carriera di Farrah, per anni faticò molto a trovare nuovi ruoli.

Ritorno sulle scene

Nel 1983 Farrah Fawcett ottenne il plauso della critica per il suo ruolo nella produzione teatrale «Extremities»: scelta anche per la trasposizione cinematografica (titolo italiano «Oltre ogni limite») nel 1986 ottenne una candidatura ai Golden Globe. Tre anni dopo affiancò il suo nuovo compagno, Ryan O'Neal, nella miniserie «Sacrificio d'amore», che le valse la doppia nomination agli Emmy e ai Golden Globe.

L’amore con Ryan O'Neal

Nonostante il divorzio, arrivato nel 1982, Lee e Farrah riuscirono a rimanere in buoni rapporti, tanto che fu proprio Majors a presentare la sua ex ad un caro amico, Ryan O'Neal (che ai tempi aveva già alle spalle due matrimoni, tre figli e numerosi flirt): «Perché non la porti fuori a cena una sera?». I due attori, dopo essere andati insieme non a cena ma ad un concerto, iniziarono a frequentarsi (e Ryan garantì di aver finalmente messo la testa a posto grazie a questo nuovo amore). Nel 1985 nacque il loro unico figlio, Redmond, ma la serenità era ancora di là da venire: «A volte Ryan mi spezza il cuore, ma è anche responsabile di avermi dato fiducia in me stessa» raccontò una volta Farrah, che nel corso degli anni ha sempre sopportato i tradimenti e le intemperanze del suo compagno. Quando però nel 1997 lo sorprese a letto con un’altra (l’attrice Leslie Stefanson) decise di lasciarlo e dopo qualche tempo cercò di riprendersi dalla rottura con un nuovo amore: aveva incontrato il regista canadese James Orr, ma anche questa fu una relazione tumultuosa. Si interruppe bruscamente nel 1998, quando Orr fu arrestato e condannato per averla picchiata durante un litigio.

Quando posò per Playboy

Fawcett, che negli anni aveva rifiutato numerose offerte per posare nuda, accettò di farsi immortalare senza veli dalla rivista Playboy nel 1995 (esperienza poi ripetuta due anni dopo per festeggiare i suoi cinquant'anni). Questo numero della rivista divenne il più venduto degli anni Novanta, e nello stesso anno all’attrice fu conferita una stella con il suo nome sulla Hollywood Walk of Fame.

Il cancro

Nel 2006 a Farrah Fawcett fu diagnosticato un cancro. Dopo essere inizialmente guarita ebbe una recidiva e nell'aprile 2009 l’attrice fu ricoverata in Germania per ulteriori cure. Accanto a lei il suo compagno di una vita, Ryan O’Neil (i due si erano riavvicinati nel 2001). Aiutata dall'amica e produttrice Alana Stewart Fawcett documentò in video questo periodo difficile: il documentario «La storia di Farrah Fawcett» - che commosse tutto il mondo - andò in onda il 15 maggio 2009, 40 giorni prima della morte dell'attrice, sopraggiunta il 25 giugno 2009. Per un tragico scherzo del destino la notizia della scomparsa di Farrah Fawcett passò quasi inosservata: quello stesso giorno infatti morì Michael Jackson. Destino decisamente amaro per l’attrice che ha fatto sognare intere generazioni.

Estratto del libro “Così parlo Monicelli” (Cue Press) pubblicato dal “Fatto quotidiano” domenica 13 agosto 2023.

Mi piaceva Flaubert, avrei voluto scrivere come Dostoevskij. Mi sono accorto però abbastanza rapidamente – perché non sono del tutto stupido – che era meglio abbandonare questa ambizione. E ho ripiegato sul cinema, che comunque mi piaceva. Mi interessava entrare nel mondo che vedevo da ragazzino. Sono del 1915, e perciò vedevo il cinema muto, sono stato educato con quel cinema lì. 

Io volevo essere un romanziere o un poeta: mi capitò intorno ai diciassette anni di leggere Gogol’, Le anime morte, e allora capii che era meglio abbandonassi quest’idea di fare lo scrittore e ripiegai su una cosa assai più modesta, che è il cinematografo. Con il cinematografo puoi dividere la responsabilità con gli attori, per esempio, e dare anzi tutta la colpa a loro se una cosa è venuta male, oppure al direttore della luce, allo scenografo e soprattutto agli sceneggiatori. E ho avuto una vita più serena.

È dal 1934 che lavoro nel cinema. Da troppo tempo perché non sia viziato. Sono un regista accentratore, che sceglie i soggetti, li scrive, cura la sceneggiatura, sceglie gli attori eccetera. Come molti di quelli che credevano di avere qualcosa da dire ho cercato di farlo attraverso la letteratura, poi mi sono accorto rapidamente che non era cosa. Ho provato con la musica, e anche lì mi sono accorto rapidamente che non era il mio campo, e allora ho scelto come ripiego il cinema. 

I miei maestri sono gli autori delle farse, i cortometraggi non più lunghi di dieci minuti che quando ero bambino si mettevano in coda ai filmoni con Rodolfo Valentino, Mary Pickford o Douglas Fairbanks. Ufficialmente le farse erano anonime, ma gli autori erano i giovani Charlie Chaplin, Buster Keaton, King Vidor o John Ford che facevano il loro apprendistato come oggi si fa girando spot pubblicitari.

Per me sono stati una scuola impagabile: di tempi comici, di psicologie secche, non troppo elaborate ma credibili, e anche di fantasia e di capacità di astrazione... Non c’è niente di cui non si possa sorridere. In ogni tragedia, anche nella guerra più atroce, c’è il grottesco, c’è l’umanità degli individui, con le loro debolezze, i momenti di tenerezza, anche con il dolore. 

Da ragazzi si andava in questi cinemetti dove lo schermo era una parete bianca dipinta malamente, e lì si svolgevano delle vicende... cose meravigliose: battaglie, amori, cavalli in corsa... Io non capivo bene, ero bambino, cinque o sei anni, noi tutti non sapevamo bene se fosse roba vera o una finzione.

Era una cosa magica, meravigliosa... Io allora ero talmente affascinato che volevo entrare in quel mondo, ma non sapevo come, non sapevo nemmeno cosa volessi fare: l’attore, il regista o chissà che... volevo entrare lì nel mezzo; per fortuna tanto ho fatto che ci sono arrivato, molto presto. A fare cose molto umili: l’attrezzista, l’aiuto trucco e così via; insomma piano piano mi sono infilato lì e ci son rimasto tutta la vita. […]

Con i cattivi registi si impara molto. Si impara a non fare. Con Fellini cosa vuoi imparare? Non impari niente, perché o sei lui, oppure lasci andare. Cosa vuoi imparare con Fellini o con Antonioni? Non si impara. Si impara con quelli che fanno le stupidaggini, sennò non impari. Impari, casomai, l’atteggiamento, un certo tipo di serietà oppure, al contrario, di non prendere troppo sul serio quello che stai facendo. 

Aveva ragione Longanesi che raccontava di Rossellini, il quale si lamentava: “Ora non si possono più fare bei film... Allora vi era la guerra, un mondo distrutto”. E Longanesi: “Ma che, dobbiamo perdere un’altra guerra o farne un’altra per farti fare bei film?”.

Il cinema ha il potere di rispecchiare, di raccontare, ma non quello di fare prediche... Il cinema dovrebbe essere muto, non parlato. Dovrebbe essere composto solo di belle immagini mute che, montate le une con le altre, raccontano tutto quello che c’è da raccontare, e infatti, per i primi vent’anni, il cinema è stato così. Sono stati girati bellissimi film drammatici, comici, farseschi, avventurosi, tutti muti, senza musiche, senza sonoro. […]

Dario Salvatori per Dagospia il 26 aprile 2023.

Trieste, 1942. Lo studente di Giurisprudenza Lelio Luttazzi non riesce ad andare oltre ai primi due esami. Preferisce la musica, il jazz, particolarmente il dixieland l’America degli anni Venti, in particolar modo Louis Armstrong. Si esibisce con giovani musicisti della sua città. Improvvisamente arriva l’episodio inaspettato. Nel 1943 arriva a Trieste Ernesto Bonino, cantante jazz già molto noto, Lelio dirige il suo gruppo e il cantante torinese si interessa a lui, chiedendogli una canzone. 

Lelio la scrive e la spedisce. Si tratta di un brano swing, “Il giovanotto matto”. La guerra insabbia un po’ tutto, ma cinque anni dopo a Luttazzi arriva un assegno della Siae, la sua canzone ha maturato ben 350 mila lire! Un botto. Intanto aveva conosciuto Teddy Reno, triestino, buon cantante, piace alle ragazze e anche lui ha voglia di sfondare. I due si trasferiscono a Milano, dove Teddy Reno fonda una casa discografica, la Cgd, che diventa un’etichetta di successo, di cui Luttazzi ne assume la direzione artistica. Nel giro di qualche anno la Cgd contrattualizza cantanti di successo, Jula De Palma, Johnny Dorelli, l’arrangiatore Gianni Ferrio e gli stessi Luttazzi e Reno. 

Nel 1954 Lelio si trasferisce a Roma, chiamato dalla Rai a dirigere l’orchestra ritmica, cresce come arrangiatore, firma le sue prime colonne sonore ed è attratto dalla conduzione.

Adora i presentatori americani, i cosiddetti MC, maestri di cerimonia, ed impone il suo stile elegante, raffinato, un po’ snob, ma di grande estro. La sua pedana di lancio fu il programma radiofonico “Nati per la musica” ed è lì che affina il gusto dell’arrangiamento. In realtà in direttore d’orchestra di quel programma era Gorni Kramer, il quale, preso da molti impegni, fra Milano e Roma, finì per consegnare molti degli arrangiamenti nelle mani di Luttazzi. Amava il colore delle brass section di Glenn Miller, cercando di ricostruire quel pizzico di America che sognava e non aveva mai visto da vicino. In realtà fece molto di più. Si concentrò sulle sonorità, le inflessioni, i timbri degli strumenti, l’accentuazione e la dosatura dei toni, con una libertà  e una forza di caratterizzazione in grado di trascendere dalla partitura stessa.

Come compositore non ha mai perso di vista Jerome Kern e Cole Porter, e nelle sue canzoni, sia quelle “descrittive”, come “Souvenir d’Italie”, “Quando una ragazza a New Orleans”, oppure “Canto anche se sono stonato”,  lo swing c’è sempre. Poi ci sono quelle scritte per Mina: “Una zebra a pois”, “Bum ahi che colpo d luna”, fino a quelle ironiche, eseguite da lui stesso, per esempio “Legata ad uno scoglio” o “ El can de Trieste”. Il successo non ha mai mutato i suoi gusti musicali.  Del resto è rimasto il custode di una tradizione di un genere che ha attraversato due secoli: lo swing. Fenomeno certamente non prevedibile, tanto più che l’alfiere di questa torrida miscela arriva da Trieste con confini geografici a volte molto labili. E  per di più, fin da subito, capitale dell’ operetta.

Al di là di “Studio Uno”, la sua frequentazione televisiva è molto assidua: “Il paroliere questo sconosciuto” (con una Raffaella Carrà diciottenne) e “Ieri e oggi” i programmi da ricordare. I  fasti di “Studio Uno”, lo storico show del sabato sera, abitua i telespettatori alle grandi star e Luttazzi ne assume la conduzione e i suoi duetti con Mina ed Alice ed Ellen  Kessler e con tanti altri ospiti diventano mitici. Entrano prepotentemente nella storia della Tv. 

Nel 1967 la Rai gli affida la “Hit Parade”, prima classifica di dischi compilata dalla Rai. Per la prima volta un programma radiofonico raggiunge i 4 milioni di ascoltatori.

Nel 1970 Luttazzi viene arrestato per colpa di Walter Chiari, ma il conduttore dopo tre settimane ne uscirà con la formula piena e l’anno dopo la Rai gli restituirà il programma. Ma è l’uomo ad uscirne frastornato, moralmente contuso, anche se l’artista e il talento ne usciranno “illesi”. 

Luttazzi si defila, abbandona Roma, si stabilisce a Ceri, paese di alta collina in zona Cerveteri,e soltanto nel 1979, dopo aver sposato Rossana Moretti, ripartirà anche artisticamente.

Arriva la Tv, nuove composizioni, dischi, collaborazioni e un tributo  continuo e sincero di tutto il mondo dello spettacolo, comprese le nuove generazioni. 

Lelio Luttazzi muore l’8 luglio 2010 ad 87 anni, dopo che era tornato a vivere a Trieste, la sua città. 

In occasione della ricorrenza del centenario della nascita, la Fondazione Luttazzi, ha prodotto un nuovo album, “Oltre il blu”, contenente le gemme cinematografiche, ovvero i film musicati come compositore. La title-track è da considerarsi l’ultima composizione del Maestro, scritta nel 2008 e rimasta inedita fin da oggi. 

Un brano strumentale, mai eseguito, con un arrangiamento e un’orchestrazione a cura di  Gabriele Comeglio e all’ultimo, con la voce sognante di Gianluca Gori (alias Drusilla Foer). Un personaggio del momento che ha stupito tutti, che interpreta questo brano con sofisticata emotività, con il suo stile, il suo garbo, con leggerezza, proprio lo specifico di Lelio: la capacità di entrare sempre in punta di piedi.

Cent'anni di Lelio Luttazzi rivestì l'Italia di swing. Dopo il grande successo, fu arrestato ingiustamente come Enzo Tortora. E faticò molto a tornare in scena. Paolo Giordano il 27 aprile 2023 su Il Giornale.  

L'unica volta che il destino entrò senza bussare nella vita di Lelio Luttazzi fu quel mattino del 22 maggio 1970: alla porta c'era la polizia. Fu arrestato per detenzione e spaccio di droga in una inchiesta che coinvolgeva anche Walter Chiari, Franco Califano e altri. La sua carriera improvvisamente si bloccò, le manette poi si aprirono ma continuarono per decenni a tenere idealmente, ma pure concretamente, sotto scacco il suo animo. Oggi, 27 aprile, questo gigante della musica italiana compirebbe cent'anni ed è tuttora struggente pensare che un caso di malagiustizia abbia frenato, clamorosamente frenato, la creatività di uno dei più completi musicisti della storia italiana non solo del Dopoguerra.

Lelio Luttazzi era nato a Trieste nel 1923 e ben presto capì che al codice civile della facoltà di Giurisprudenza preferiva il codice libero della facoltà di jazz e, a vent'anni, iniziò a suonare ovunque potesse in quell'epoca di guerra, di povertà e, soprattutto, di ignoranza. Per il regime fascista, il jazz era musica «negroide», guai ad ascoltarla, e nessuno o quasi conosceva l'idolo di Luttazzi, ossia Louis Armstrong. Suonare jazz non era solo un piacere ma pure una sfida alle regole, ai gerarchi, talvolta anche al pubblico. Una sera del 1943 si esibisce con il famoso Ernesto Bonino che gli chiede una canzone. Luttazzi gliela spedì, si intitolava Il giovanotto matto e, nel marasma della guerra, non si accorse che era diventata un successo che ancora oggi, 80 anni dopo, qualcuno ricorda. Da quel momento il giovanotto matto Lelio inizia a diventare il golden boy della «musica alta». Dirige la casa discografica Cgd dell'amico triestino Teddy Reno e, tra gli artisti sotto contratto, c'era pure Johnny Dorelli. Lo chiamano a Roma per salire sul podio dell'orchestra ritmica Rai e da lì alla radio il passo è stato brevissimo.

Con Gorni Kramer il programma Nati per la musica diventa un successo nell'Italia ancora in preda, come dicevano i Cantacronache di Italo Calvino, alle «canzoni gastronomiche» sublimate dal Festival di Sanremo. Luttazzi, bell'uomo austero e musicista sopraffino, divenne uno dei simboli della nuova musica italiana che metabolizzava i ritmi afroamericani per traghettare il jazz o lo swing nel nostro immaginario musicale. Luttazzi è il golden boy. Funziona in radio. Funziona in tv (dove esordisce come direttore d'orchestra nel 1955). E funziona come compositore visto che firma anche Una zebra a pois per Mina, Vecchia America per il Quartetto Cetra, Souvenir d'Italie, El can de Trieste (cantato da lui in dialetto) Eccezionalmente, sì per Jula de Palma e You'll say tomorrow registrato in italiano da Sophia Loren. Quando inizia a condurre programmi, va ancora meglio. Debutta nel 1962 con una sconosciuta Raffaella Carrà poi fa il leggendario Studio Uno con Mina, Doppia coppia con Sylvie Vartan, Teatro 10, Ieri e oggi che diventa un suo appuntamento abituale. Ovviamente il cinema non poteva lasciarselo scappare. Recita per Michelangelo Antonioni (L'avventura) e Dino Risi (L'ombrellone) e compone molte colonne sonore tra le quali quella di Totò, Peppino e la...malafemmina (la scena della celebre lettera in italiano precario arriva poco dopo un suo intermezzo).

Quando la Rai gli affida nel 1967 la conduzione di Hit parade (con la classifica dei 45 giri più venduti secondo la Doxa), Lelio Luttazzi entra definitivamente nell'immaginario degli appassionati di musica. Il celebre urlo «Hiiittt Paradeee» che apriva la trasmissione non era solo il più atteso da chiunque amasse la musica ma era il momento cruciale anche per gli artisti e i discografici che attendevano di conoscere la sorte dei loro brani. Insomma a fine anni Sessanta Lelio Luttazzi era uno dei pochi artisti davvero multitasking: faceva tutto e lo faceva bene.

Però quel mattino di maggio 1970 tutto si spezzò. Tempo prima il suo amico Walter Chiari lo aveva chiamato a casa e, alla domestica, chiese di fare una telefonata a un tale Lelio (coincidenza) e trasmettere un messaggio perché «io sono all'Hotel Baglioni di Bologna e non riesco a raggiungerlo». Luttazzi telefona allo sconosciuto, che in realtà è uno spacciatore, e finisce nei guai. La polizia lo intercetta e il magistrato lo rovina. Luttazzi viene scarcerato dopo ventisette giorni, completamente scagionato dagli addebiti. Una vicenda drammaticamente simile a quella di Enzo Tortora tredici anni dopo (tra l'altro Tortora scrisse dell'arresto sulla Nazione prima accusando e poi scusandosi). Una vicenda pazzesca e purtroppo non unica, come confermano anche le ultime cronache. Su questo Luttazzi scrisse il libro Operazione Montecristo che ispirò anche il film Detenuto in attesa di giudizio di Alberto Sordi.

Dopo la scarcerazione Luttazzi ritorna anche a Hit Parade ma rimane sostanzialmente nell'ombra per tanti anni. Incontra la sua donna definitiva, la dolcissima Rossana, quella che ancora oggi ne tiene luminosa la memoria. «Io lavoravo a Il Giornale, ci siamo conosciuti a casa di un'amica giornalista, io ero molto più giovane di lui ma abbiamo deciso che saremmo stati insieme e lo siamo stati per 36 anni, ci siamo sposati ed è stata una favola» ha detto tempo fa. Dopo essere stato quasi dimenticato, Luttazzi ritorna sotto i riflettori anche grazie a Fiorello (sempre sia lodato), si rifa vedere a Sanremo (con Arisa) riceve l'omaggio tardivo e mai sufficiente di un pubblico al quale un giudice colpevole l'aveva sottratto. Adesso esce un disco che si intitola Oltre il blu come uno degli inediti in sclaetta. Qui lo canta la sorprendente Drusilla Foer ed è l'ultima canzone scritta da Lelio Luttazzi poi morto nel 2010, un gigante della musica italiana che una miserabile leggerezza giudiziaria ha brutalmente stordito togliendo a lui la serenità e a tutto il pubblico il piacere di goderne il talento.

L’incredibile vita artistica di Lelio Luttazzi (sempre in smoking). Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 5 Marzo 2023.

Il docu-film su una delle figure più rappresentative del periodo magico in cui musica, teatro, cinema e televisione parlavano un linguaggio comune

Souvenir d’Italie — come una delle sue canzoni di fama internazionale — racconta l’incredibile vicenda professionale di un artista originale e appassionato (Rai3). Il docu-film scritto e diretto da Giorgio Verdelli ripercorre la vita, non solo artistica, di Lelio Luttazzi, una delle figure più rappresentative del periodo magico in cui musica, teatro, cinema e televisione parlavano un linguaggio comune. Scavando tra le foto, i programmi, i film e l’immenso catalogo delle edizioni musicali delle sue opere il docu-film è impreziosito da molte interviste. Francesco Montanari, rigorosamente in smoking, guida in questo viaggio attraverso i momenti più significativi della vita artistica di Luttazzi grazie anche alle testimonianze e alle performance vocali e strumentali di artisti come Stefano Bollani, Bobby Solo, Drusilla Foer, Fiorello, Fabio Fazio, Pupi Avati, Riccardo Rossi, Massimiliano Pani e della figlia Donatella Luttazzi e della moglie, Rossana Luttazzi.

Enrico Vaime lo aveva definito «portatore sano di smoking» perché la sua carriera artistica si è sempre intrecciata con grandi personaggi, con occasioni di grande professionalità ed eleganza. In Luttazzi sensibilità e intelligenza si sono sempre mescolate, senza remora. Un giorno succede l’irreparabile. Walter Chari viene arrestato il 20 maggio del 1970, mentre si sta recando negli studi radiofonici della Rai per registrare una puntata di Speciale per voi. L’accusa è di consumo e spaccio di cocaina. Per un negligente equivoco viene arrestato anche Luttazzi, Risultato? Un mese di carcere, la perdita della trasmissione Hit Parade e una sfiducia totale nei confronti della vita. Nonostante venga completamente scagionato, Luttazzi non si riprende più dalla botta (anche perché Chiari non lo degnò nemmeno di una telefonata di scuse). L’incredibile vita di Luttazzi è ancora tutta da scrivere.

«L’orrore giudiziario stroncò Lelio Luttazzi, l’uomo più ironico e libero della tv italiana». Paolo Conti su Il Corriere della Sera il 7 Marzo 2023

La vedova Rossana: «Per anni a ogni arresto per cocaina tiravano in ballo lui, totalmente innocente in quel 1970». Un docufilm di Giorgio Verdelli, finalista al Nastro d’Argento, racconta la vita e i successi di «un portatore sano di smoking», come lo definì Enrico Vaime

Lelio Luttazzi con Louis Amstrong, ospite alla Rai. Lo aveva ascoltato per la prima volta a 13 anni, nell’interpretazione del brano After you’ve gone, e ne rimase folgorato.

«Questo bellissimo documentario propone il vero e autentico Lelio così come era nella vita. E finalmente si chiarisce, spero una volta per tutte, ciò che successe nel giugno 1970: lo spiegano i documenti e lo stesso Lelio. Un autentico non errore ma orrore giudiziario, come sostiene nella sua testimonianza il magistrato Santino Mirabella, che parla non di arresto ma di sequestro di Stato. Abbiamo sostenuto cause su cause, e io ho continuato anche dopo la sua morte, nel luglio 2010. Bastava un qualsiasi caso di arresto per cocaina e giù tutti a citare come esempio l’arresto di Lelio e di Walter Chiari, accoppiando i nomi, e compiendo così un ulteriore errore. Per fortuna da un po’ hanno smesso....».

Insieme per 36 anni

Rossana Moretti Luttazzi è stata per 36 anni prima compagna e poi moglie di uno dei grandi protagonisti dello spettacolo italiano della seconda metà del 900, Lelio Luttazzi, triestino, classe 1923, musicista, compositore e direttore d’orchestra, cantante, presentatore in tv e alla radio, attore, showman, mito del jazz italiano: segno distintivo il suo impeccabile completo da sera, indossato con rara e sicura eleganza («un portatore sano di smoking», secondo la celeberrima definizione di Enrico Vaime).

Luttazzi con la moglie Rossana. Si erano conosciuti nel 1976. In quel periodo lei lavorava come redattrice nella redazione milanese del quotidiano Momento Sera

Una storia artistica stroncata nel luglio 1970 con un arresto durato 27 giorni: poi arrivò il proscioglimento completo. Ma quell’arbitrio assoluto (Luttazzi era assolutamente estraneo a una vicenda che poi davvero coinvolse Walter Chiari) segnò la sua carriera e la sua personalità: venne allontanato dalla Rai, lui reagì chiudendosi al mondo. Scrisse il libro autobiografico Operazione Montecristo (che ispirò ad Alberto Sordi la trama per il suo Detenuto in attesa di giudizio del 1971) e girò anche il suo unico film L’illazione del 1972, trasmesso da Rai5 solo nel 2011. Ora arriva il docu-film Souvenir d’Italie, scritto e diretto da Giorgio Verdelli, coprodotto da Rai Documentari e Mad Entertainment col contributo di Rai Teche e in onda venerdì 3 marzo su Rai3: è nella cinquina finalista dei Nastri d’Argento per i Documentari 2023 nella sezione cinema, spettacolo cultura.

Il docu-film ricostruisce, seguendo il racconto affidato all’attore Francesco Montanari (significativamente in smoking) biografia personale e successi pubblici di Luttazzi. Appaiono tanti amici e colleghi che ricostruiscono grandi pagine di storia dello spettacolo italiano in cui giganteggia la presenza di Luttazzi: Pupi Avati, Fiorello (che lo riportò in tv dopo 25 anni di assenza), Fabio Fazio, Stefano Bollani, Bobby Solo, Drusilla Foer, la figlia Donatella e appunto Rossana, la moglie. Ancora: Rossana Casale, la scrittrice Camilla Baresani, Massimiliano Pani, figlio di Mina che fu partner di capitoli televisivi considerati autentici cult, e altri. Aggiunge Rossana Luttazzi: «Ringrazio la Rai e il regista Giorgio Verdelli ma in particolare i produttori Maria Carolina Terzi, Luciano e Carlo Stella. Senza di loro nulla sarebbe stato possibile».

La musica dentro

Luttazzi aveva molte attitudini artistiche: ma qual era la sua più autentica identità, Rossana Luttazzi? «Sicuramente il musicista. Ma amava tantissimo anche il cinema e la letteratura. Scriveva romanzi, ma solo per sé. Mario Soldati, con cui avevo lavorato da giovane, aveva letto i suoi scritti e lo spronava a pubblicarli. Ma lui non ne ha mai voluto sapere». E la sua eleganza, la sua ironia? «Lelio era elegante per istinto, sul lavoro e nella vita quotidiana. Poi era uno spirito libero e libertario, nato e cresciuto nel crocevia culturale forse più importante d’Europa. Orfano di padre, con una madre irredentista, aveva ricevuto una severa educazione austroungarica che fu la radice del suo profondo senso del dovere. In quella Trieste, che era stata di Italo Svevo e di James Joyce, passarono gli americani che gli trasmisero la passione per il jazz, da George Gershwin a Cole Porter. Lelio era un fantastico impasto di tutto questo misto a un immenso senso dell’umorismo».

Un liberal di sinistra

Che idee aveva sulla società, sulla politica? «Si sentiva forse più europeo che italiano. Certamente lontanissimo dallo schema Dio-Patria-Famiglia. Si sentiva uomo di sinistra ma non di quella certa sinistra becera. Era un liberal, all’avanguardia in tante posizioni, per esempio sull’omosessualità, sulla libertà di vivere la propria vita. Nel docu-film mi ha commosso il legame con le nuove generazioni, dalla cantante Rossana Casale alla scrittrice Camilla Baresani. Lelio è popolarissimo tra gli studenti del Conservatorio che producono tante tesi su di lui. E sono tanti i candidati anche alla quinta edizione del Premio Luttazzi per giovani pianisti jazz dai sedici ai trent’anni, organizzato da noi della Fondazione Luttazzi».

Come fu l’ultimo capitolo della sua vita? «Per dire del suo carattere, il giorno prima dell’ultimo straordinario concerto in piazza dell’Unità a Trieste, splendidamente strapiena, il 15 agosto 2009, passò l’intero pomeriggio a fare le scale al pianoforte per allenarsi. Mi mancano le sue osservazioni, la sua cultura, la sua ironia. Nonostante l’età, sono sincera: non mi era mai venuto in mente, ma proprio mai, l’idea che potesse morire, che potesse volare via, che potesse lasciarmi sola....»

Barbara Costa per Dagospia sabato 9 settembre 2023.

“Mi piacciono le straf*ghe da copertina. Io sono più un ragazzo che una ragazza. Però non sono lesbica. E comunque non prima di aver bevuto una sambuca!”. Ve la ricordate Amy Winehouse? In questi giorni avrebbe compiuto 40 anni, se n’è andata d’alcool scoppiata a 27, abbandonata a sé stessa da amici e fidanzati e parenti, e chi se la ricorda, come, se la ricorda? 

Svalvolata e al pari artista inarrivabile, o la santa che oggi portano in mediatica processione i suoi cari? Esce un altro libro autorizzato dalla sua famiglia, "Amy Winehouse in her words", (HarperCollins ed.), “e questa è la vera Amy”, ci assicura il padre Mitch.

Certo, come no, su Santa Amy Winehouse di libri ne hanno firmati (e incassato) in parecchi, pure la suocera, fatto sta che io e non solo io Amy ce l’ho stampata in mente taaanto diversa, autentica fuorché santa. Era o non era, Amy, “una alcolista” e lo ammetteva lei per prima, “ho sbronze orribili, violente, prepotenti, da tempesta emotiva”. 

E non è stato lo strameritatissimo successo improvviso a f*tterla, perché Amy ha iniziato “a bere a 12 anni, e non ho più smesso. Bevo tutti i giorni, io adoro l’alcool, il suo sapore”, e beveva pure in rehab, beveva appena si svegliava, verso le 4 del pomeriggio, da diva quale era, “io faccio colazione con pancetta e uova, subito dopo bevo bourbon, o vodka, o Jack Daniel’s con Coca-Cola”.

Amy cantava di stomaco “dove senti che nasce l’amore, e il dolore dell’amore che finisce”, e Amy scriveva e cantava “di cose che mi sono successe, di cui non posso liberarmi sul piano personale. Ho qualche tendenza all’autodistruzione…”. 

Autodistruzione in cui rientrava il sesso, e gli uomini: “Io non ho necessità sentimentali ma solo fisiche, il sesso mi rilassa”. Amy era coerente: “Credo nel sesso occasionale, in fondo è come farsi una canna!”, e era lei a fare la prima mossa, sempre, “c’è chi mi considera una pericolosa psicopatica, ma io voglio frequentare chi mi pare. Io sono una da: tu mi piaci, io ti piaccio? Sì? Dai, combiniamo!”. 

La prima storia seria Amy l’ha avuta con Chris, 7 anni più grande di lei, sposato, nonché suo datore di uno dei vari lavoretti che Amy, piantata la scuola a 15 anni, si trovava per pagarsi la vita, l’erba, e il canto. Chris è in ogni traccia di "Frank", primo disco di Amy, disco “che è farsi una p*ppa!”, e disco inc*zzosissimo come ci stai col primo che ti spezza il cuore. È di Chris che Amy non ha “intenzione di conoscere tua madre/ voglio solo spalmarmi il tuo corpo sul mio”.

A Chris seguono flirt di poca importanza, tra cui un certo Tyler, con cui convive, finché in uno dei pub di Londra dove Amy va a giocare a biliardo, e a sbronzarsi mentre ascolta musica dei '60, musica Motown (“dovevo nascere in quell’epoca”), incontra Blake Fielder-Civil, uno che non ho mai compreso che arte avesse, che lavoro facesse, consulente musicale, boh. 

Blake è il primo amore assoluto di Amy. Blake è il suo “Baby”. Stanno insieme 2 anni, poi si lasciano, “e ci siamo trattati di m*rda”. Dopo Blake, Amy si fidanza con Alex, nato il suo stesso giorno 2 anni prima di lei, e ci va a convivere a 4 con una sua amica e il di lei fidanzato. Amy sta con Alex ma “sogno Blake”. Alex “è str*nzo”, bastano 7 mesi e “non c’è più passione, siamo abitudinari, fine fuochi d’artificio”.

Amy e Blake tornano insieme, è Blake che la inizia all’eroina, e al crack. E a tagliarsi. Esce "Back To Black", il secondo disco di Amy, vendite spaziali, Amy che assurge a stella mondiale, ed è il disco dove le canzoni parlano del suo periodo disperato, quando lei e Blake si erano lasciati, e lui era tornato dalla sua ex, e lei si era messa con Alex, per cornificarlo con Blake. Amy e Blake si sposano, a Miami, in una cerimonia con solo loro due, e che costa 130 dollari. Passano la giornata con quelli di "Rolling Stone" che la intervistano per un servizio che fa il giro del mondo.

Blake finisce in carcere per aggressione, e Amy fa in pubblico e no la moglie inconsolabile. Ma è Blake che, scarcerato, chiede il divorzio. Amy glielo concede e cade in un baratro drogato su cui i tabloid ci banchettano. Non ci sono più suoi dischi ma sporadiche collaborazioni, roba incisa ma non ultimata, ci sono altresì altri uomini. C’è Reg Traviss, regista, c’è Pete Doherty, rocker matto e drogato peggio di lei, con cui Amy passa più di un lungo weekend da fattoni. 

Amy fuma crack più 60 sigarette al giorno, i medici le diagnosticano un principio di enfisema. E Amy non lo negava né lo ha mai nascosto, di soffrire di disordini alimentari: “Ho flirtato con ogni specie esistente di disturbo alimentare, e non intendo legarmi a un disturbo in particolare. Mi gira così”. 

Pochi giorni prima di morire, è in ospedale, è gravemente debilitata, il padre rivela (nel suo memoir "Amy, mia figlia") che lui non può andare da lei perché “mia figlia non è un relitto come dicono i media”, e poi lui è in USA in tournée (papà Mitch è un ex tassista che, coi soldi e il successo della figlia, ha fatto un suo disco, jazz, dacché lo vuol fare pure lui, il cantante) ma più perché si è siringato da solo una singolare sostanza per spianarsi le rughe della fronte e sostanza che gli ha provocato una non grave paresi facciale. Solo quando gli giunge la notizia della morte della figlia, corre da lei.

Amy Winehouse non mai cercato scuse, o bugie: “Io non mi metto con la p*ssera al vento come certe popstar. Io sono una musicista e lotto per esserlo in un mondo dove si insegue esclusivamente la notorietà. 

E io non perdo tempo a metterti a tuo agio. Io mi scuso solo con me stessa perché sono una testa di caz*o fissata con sé stessa”. Amy non voleva “rimpianti, e non voglio morire vecchia. Lo so, io sono difficile, e ti parlo volgare, ma questo dipende dal fatto che non me ne frega un caz*o, e non mi pento di niente”.

Elizabeth Taylor, la diva dagli occhi viola nell'Olimpo del cinema. Vincitrice di due premi Oscar alla miglior attrice, Elizabeth Taylor ha saputo coniugare eleganza e sensualità in un modo mai visto prima. Massimo Balsamo il 16 Agosto 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Il colpo di fulmine con la recitazione

 Il successo immediato

 Il passaggio dall'adolescenza alla maturità

 Elizabeth Taylor nell'Olimpo

 Scandali, l'Oscar, Cleopatra

 La seconda età dell'oro

 Le iniziative benefiche e gli ultimi anni

Per molti è l'ultima grande diva dell'era d'oro di Hollywood. Ciò che è certo è che rientra di diritto nell'elenco delle migliori attrici della storia del cinema. Elizabeth Taylor ha saputo coniugare eleganza e sensualità in un modo mai visto prima, sfruttando la sua straordinaria bellezza - a partire dagli occhi viola - e innovando il mondo della recitazione in uno dei passaggi cruciali, tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Come ogni grande diva che si rispetti, ha avuto una vita sentimentale a dir poco tumultuosa: otto matrimoni con sette mariti diversi, tante prime pagine e diversi scandali.

Il colpo di fulmine con la recitazione 

Elizabeth Taylor nasce il 27 febbraio del 1932 a Londra, secondogenita di un rispettato mercante d’arte e di un’aspirante attrice - conosciuta con il nome d'arte di Sara Sothern - entrambi statunitensi. Già all'età di tre anni rivela la sua passione per la recitazione e i genitori la portano a lezione di danza classica. Liz si esibisce persino davanti alla Royal Family, ma la parentesi britannica si chiude con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.

Liz Taylor si trasferisce con la famiglia a Los Angeles ed entra subito in contatto con il mondo dello spettacolo grazie alle conoscenze della madre. Nel 1942, quando ha ancora nove anni, partecipa al primo film: "There's One Born Every Minute" di Harold Young, prodotto dagli Universal Studios. Le sue qualità non passano inosservate: tutti restano colpiti dalla bellezza, dagli occhi particolarissimi, nonché dalle ciglia folte.

Il successo immediato 

Elizabeth Taylor ha il potenziale per bucare lo schermo: la Metro-Goldwyn-Mayer la ingaggia subito e le affida "Torna a casa, Lassie!" di Fred M. Wilcox, un classico molto amato dai bambini. Un film semplice ma con un successo incredibile: Liz ha undici anni, ma già conquista tutti, grandi e piccini. Inizialmente punta su aspetto fisico e carisma, più che sul talento e nel 1944 ottiene un altro ruolo importante: è infatti la protagonista di "Gran Premio" di Clarence Brown. Per quel ruolo si allena settimane e settimane, impara ad andare a cavallo e sfrutta l'occasione nel migliore dei modi. La pellicola è un successo al botteghino e rappresenta il trampolino di lancio per la sua carriera.

Elizabeth Taylor entra a fare parte del mondo delle celebrità ad appena dodici anni. Le vengono affidati ruoli in film sentimentali, in grado di colpire ed emozionare lo spettatore. Quando la vedi sullo schermo, non puoi fare a meno di pensare a quanto sia incredibilmente bella, e i produttori fanno a gara per lei: il cachet sale alle stelle nel giro di pochissimo tempo, diventando una delle attrici più pagate di Hollywood.

Il passaggio dall'adolescenza alla maturità 

Grazie alle sue capacità e al suo talento, Elizabeth Taylor riesce a superare facilmente il passaggio da bambina ad adulta. La fase dall'adolescenza alla maturità è quella più delicata per una baby star, ma lei è più forte di tutto. Da "Piccole donne" di Mervyn LeRoy a "Alto tradimento" di Victor Saville, inanella una serie di interpretazioni di spessore. "Un gioiello di grande valore, un vero zaffiro, una stella", la reazione del Time, che la affianca a personaggi del calibro di Montgomery Clift, Kirk Douglas e Ava Gardner.

Dopo il matrimonio con Conrad Hilton jr ad appena 18 anni - durerà solo otto mesi, il figlio del fondatore della celebre catena di hotel "divenne astioso, arrabbiato e abusante, dal punto di vista fisico e mentale", come scrisse la stessa attrice nella sua autobiografia - Elizabeth Taylor fa un ulteriore salto di qualità in carriera grazie a "Un posto al sole" di George Stevens. Viene lodata da critica e pubblico per la sua presenza accattivante e per l'alchimia con Montgomery Clift, tanto da guadagnare la nomina a coppia più bella della storia del cinema.

Elizabeth Taylor è all'apice della sua bellezza, lo sguardo ammiccante e sensuale fa girare la testa a mezza Hollywood e la sua forte personalità inizia a emergere. Ma Liz vuole essere presa sul serio come attrice e non solo per l'aspetto fisico: per questo inizia a essere sempre più insoddisfatta dei ruoli stereotipati che le vengono offerti. Non è interessata ad apparire solo come una creatura celestiale: aspira a qualcosa di più dinamico e stimolante. Da questo punto di vista l'epico "Ivanhoe" di Richard Thorpe rappresenta uno spartiacque. Una prova di spessore, l'ennesima, ma da attrice matura, pronta a tracciare un solco nella storia del cinema.

Elizabeth Taylor nell'Olimpo 

Dopo il secondo matrimonio - convola a nozze con il collega Michael Winding - Elizabeth Taylor ha l'opportunità di interpretare un ruolo più consistente in un film d'azione mai visto prima a Hollywood: "Il gigante" di George Stevens, tratto dal leggendario romanzo di Edna Ferber. Protagonista femminile al fianco di Rock Hudson e James Dean (sarà il suo ultimo film), Liz entra a fare parte delle icone di Hollywood.

È in questa fase che Elizabeth Taylor scardina le regole della recitazione della "vecchia" Hollywood, alzando l'asticella. Non si limita a interpretare un personaggio, ma vi si immedesima. Anima e corpo per una parte. Dopo "Il gigante", l'ambizione di Liz cresce e mira solo a progetti di qualità. Ed è anche fortunata, perché si ritrova a vivere una fase in cui molte produzioni sono raffinati adattamenti letterari che vanno oltre i soliti blockbuster - termine che già negli anni '50 veniva usato per descrivere produzioni cinematografiche che incassavano milioni di dollari.

Allontanatasi dal marito Michael Wilding, la Taylor viene corteggiata dal produttore Mike Todd, più anziano di 23 anni. La incalza a tal punto da farla innamorare: ottenuto il divorzio, i due si sposano nel febbraio del 1957. Nel 1958 si fa notare per la sua interpretazione nel dramma in costume "L'albero della vita" di Edward Dmytryk, tanto da ottenere una candidatura all'Oscar. Ma quattro giorni prima della consegna dei premi, deve fare i conti con una tragedia: il marito Mark Todd muore in un incidente aereo. All'età di 26 anni è già vedova, un dolore sconvolgente. Ma tornerà sui set più forte di prima.

Scandali, l'Oscar, Cleopatra 

Nel 1958 recita ne "La gatta sul tetto che scotta" di Richard Brooks, nei panni della bella ma infelice moglie di uno sportivo interpretato da Paul Newman. Un'opera audace, ben girata e ben recitata. La Taylor colleziona così la sua seconda candidatura all'Oscar. Ma dal successo allo scandalo il passo è breve: dopo la morte del terzo marito, si avvicina a Eddie Fisher, migliore amico di Todd. E l'amicizia si trasforma in amore: il pubblico non la prende bene. Elizabeth Taylor sposa Fisher il 12 maggio del 1959 e scatena l'indignazione del pubblico moralista: nessuno la vede più come prima. Ma lei se ne frega del giudizio della gente e tira dritto.

Nel 1961 accetta senza troppo entusiasmo di recitare in "Venere in visone" di Daniel Mann, in cui interpreta una prostituta che prova a riconquistare il suo primo amore. Un'opera non indimenticabile, ma che le consente di aggiudicarsi il primo premio Oscar. Eletta l'attrice più pagata di Hollywood, Elizabeth Taylor firma un contratto da un milione di dollari con la 20th Century Fox per interpretare la regina Cleopatra nell'omonimo film in costume. Un film difficile, una lavorazione complicata da una serie di fattori. Tra questi, la polmonite che colpisce Liz e che la porta ad un passo dalla morte.

“Cleopatra” è un altro passaggio segnante nella carriera di Elizabeth Taylor. Il film si rivela uno dei più grossi fallimenti della storia di Hollywood, ma Liz raggiunge l'apice della notorietà nonostante non sia tagliatissima per il ruolo. Al suo fianco c'è Richard Burton nei panni di Marco Antonio. E proprio con Burton scatta la scintilla: un vero e proprio colpo di fulmine. La relazione non è vista di buon occhio da parte del pubblico americano, considerando che entrambi sono sposati. Girano tante voci sulla loro storia, il solito gossip scandalistico. Ma l'amore è vero, come testimoniato dal gesto della Taylor, che una volta terminate le riprese di "Cleopatra" segue Burton in Canada. Ottenuti i rispettivi divorzi, si sposano a Montreal nel marzo del 1964. I due reciteranno insieme in tre film.

La seconda età dell'oro 

Con “Chi ha paura di Virginia Woolf?” di Mike Nichols sia Elizabeth Taylor che Burton riconquistano l’affetto del pubblico. Liz si mette in gioco come mai prima: abbandona le vesti da diva affascinante e accetta un personaggio negativo, un'acida alcolizzata, senza trucco e trasandata. Così emerge la grande interprete. Una delle prove migliori della sua carriera, premiata con il secondo Oscar alla migliore attrice. Sempre con Burton, la Taylor recita ne "La bisbetica domata" di Franco Zeffirelli, in cui replicano le liti furiose della vita reale. Poi recita per John Houston in "Riflessi in un occhio d'oro" al fianco di Marlon Brando, altra prova di spessore. E ancora: "Il dottor Faustus" diretto dallo stesso Burton e "I commedianti" di Peter Glenville.

I mille volti di Ingrid Bergman sullo schermo

L'amore con Burton termina nel 1973, ma i due rimangono amici - si risposeranno nel 1974 dopo un grosso spavento per la salute della Taylor, ma l'unione durerà quattro mesi. L'attrice conosce il senatore americano John Warner e i due si sposano nel dicembre del 1976 per divorziare nel novembre del 1982. Il legame con Burton rimane forte nonostante il passare degli anni e i due recitano insieme nella commedia teatrale "Vite private". Nel 1984 l'amato attore muore e Liz decide di disintossicarsi in una clinica. Lì incontra l'operaio edile Larry Fortensky, che sposerà nell'ottobre del 1991. I due divorzieranno nel 1996.

Le iniziative benefiche e gli ultimi anni 

Elizabeth Taylor continua a recitare tra grande e piccolo schermo, ma spende gran parte del suo tempo per le iniziative benefiche. Con la morte del grande amico Rock Hudson - sopraggiunta nel 1985 - l'attrice organizza manifestazioni e raccolte fondi per la lotta all'Aids, diventando una delle fondatrici dell'American Foundation for Aids Research (Amfar). Colpita da alcune malattie, negli ultimi anni - costretta su una sedia a rotelle - riduce il numero di apparizioni pubbliche. Da tempo malata di cuore, Elizabeth Taylor muore il 23 marzo del 2011, all'età di 79 anni, circondata dall'amore dei suoi figli. Massimo Balsamo

Lucio Dalla secondo Veltroni «Il cantautore più felliniano». Laura Zangarini su Il Corriere della Sera martedì 14 novembre 2023.

Nel documentario «DallAmeriCaruso» il concerto inedito al Village Gate di New York del 1986 e la leggenda del tenore Enrico Caruso

Il Village Gate era una discoteca all’angolo tra Thompson e Bleecker Street nel Greenwich Village, New York. Nel suo periodo di massimo splendore, comprendeva anche uno spazio per spettacoli al piano superiore, noto come Top of the Gate. È qui che nel 1986 Lucio Dalla tiene un famoso concerto, ripreso integralmente da Ambrogio Lo Giudice, tour producer con Pressing Line. Immagini che si credevano quasi interamente perdute e ora ritrovate, restaurate e rimasterizzate in Dolby Atmos. Prodotto da Nexo Digital e Sony Music, e diretto da Walter Veltroni, «DallAmeriCaruso. Il concerto perduto» arriverà nelle sale come evento speciale dal 20 al 22 novembre; in contemporanea sarà disponibile in digitale l’album «DallAmeriCaruso - Live at Village Gate, New York 23/03/1986» (dal 1° dicembre in formato doppio cd e vinile).

«Da sempre mi interessa il rapporto con il tempo, con la sua tridimensionalità, con la memoria — spiega il regista, amico di lunga data del cantautore bolognese scomparso nel 2012 —. Da questo concerto ci separano 37 anni, eppure vibra di potente attualità. Aver ritrovato questo live, averlo “rigenerato” in termini di qualità dell’audio, significa poterlo “eternizzare”, consegnarlo alla storia nella sua integrità. Spero che nelle sale in cui verrà proiettato le persone lo vivano come un film da cantare». Nel documentario, prosegue Veltroni, «abbiamo poi cercato di ricostruire ciò che mancava al concerto, Caruso e la leggenda che accompagna il brano, cui Lucio credette pur sapendo che non era vera, e che trasformò in una canzone epica. Era affascinato da tutto ciò che è incernierato nello spazio tra realtà e fantasia, è stato il più “felliniano” dei cantautori italiani».

Tutto nasce dal racconto di Angelo Leonelli, barista dell’Hotel Excelsior dove Dalla, di ritorno dagli States, è costretto a fare tappa per via di un’avaria alla sua barca, al largo della costa di Sorrento. Gli assegnano la camera dove, nel 1921, ha soggiornato Enrico Caruso. Leonelli gli racconta che il grande tenore, malato, e prossimo alla fine, in quelle stanze si è invaghito di una giovane a cui insegna musica. Seduto al pianoforte di Caruso, nell’hotel che di quell’amore (vero o inventato che fosse) è stato testimone, Dalla compone quello che è considerato uno dei capolavori della musica moderna, con milioni di copie vendute nel mondo.

«Ho voluto molto bene a Lucio — confida Veltroni —, questo film è un modo per testimoniargli affetto. Era uno spirito libero e, come tutte le persone intelligenti, curioso. La sua musica, tra tradizione e modernità, mischia fado, sonorità brasiliane, pop, Murolo... Era un uomo colto, gli piaceva esplorare mondi. Per questo forse amava l’America, t erra di frontiera. Mi manca la sua fantasia. Vincenzo Mollica aveva ospitato un dialogo tra Lucio e Fellini, si capivano al volo, due meravigliosi bugiardi, due inventori di favole. Mi sembra che oggi questo un po’ manchi. Quando mi hanno detto che un Indiana Jones aveva ritrovato i nastri di questo concerto, mi è sembrato bello restituire agli occhi di tutti qualcosa che non si sarebbe più potuto vedere».

Lucio Dalla svela la nascita di "Caruso". Il concerto perduto sbarca al cinema. Il Tempo il 10 novembre 2023

«Qui dove il mare luccica e tira forte il vento...». L’incipit di una delle canzoni più celebri della musica italiana apre squarci di poesia accompagnandoci per mano in una cornice che profuma di salsedine, notte, passione e melodramma. Dalla compose «Caruso» in modo rocambolesco nell’estate del 1986, reduce dal celebre concerto al Village Gate di New York. Dal 20 novembre verrà pubblicato in digitale e dal 1° dicembre anche in formato fisico «DallAmeriCaruso- Live at Village Gate, New York 23/03/1986», l’album contenente proprio quel live seminale. Il disco esce in occasione dell’arrivo al cinema il 20, 21 e 22 novembre di «DallAmeriCaruso. Il concerto perduto», film diretto da Walter Veltroni contenente le riprese integrali del concerto newyorkese. L’evento al cinema è pensato per rivivere l’emozione della musica di Dalla, sbarcato nella grande mela e affiancato dalla sua band: gli Stadio. Il docu-film porta sul grande schermo le riprese integrali del live andate quasi interamente perdute, ora ritrovate, restaurate e rimasterizzate in Dolby Atmos. Oltre a far rivivere quella notte speciale, il film racconta la nascita di «Caruso», brano composto a Sorrento e pubblicato esattamente 37 anni fa, il 10 ottobre 1986.

Nell’estate di quell’anno Lucio Dalla, in compagnia di alcuni amici, stava attraversando il golfo di Sorrento con la sua barca. Era di ritorno dal concerto al Village Gate di New York dove aveva registrato con gli Stadio un album destinato a chiamarsi «Dall’America». Le cose, però, andarono diversamente. All’album mancava una canzone inedita che tardava ad arrivare. Ed è proprio di ritorno dagli States, quando la sua barca si ruppe al largo della costa di Sorrento, che nacque «Caruso». Il disco cambiò nome e divenne «DallAmeriCaruso», l’album più famoso di Dalla, capace di vendere più di 38 milioni di copie.

Come spiegò lo stesso Lucio Dalla, la genesi di «Caruso» si colloca in un giorno preciso: quello in cui, quando la sua imbarcazione in panne tra Napoli e Sorrento fu rimorchiata a riva, Dalla andò a dormire all’Hotel Excelsior dove gli fu assegnata la camera in cui nel 1921 aveva soggiornato Enrico Caruso. Secondo la leggenda il grande cantante, malato e alla fine della vita, in quell’hotel di Sorrento si era innamorato di una giovane cui insegnava musica. A Dalla lo raccontò l’allora barista dell’albergo, Angelo Leonelli. Seduto al pianoforte di Caruso, nell’hotel che era stato palcoscenico di quell’amore straziante, il «naufrago» Lucio Dalla compose un brano che tiene insieme la fantasia pop e la migliore melodia napoletana e italiana. Nel film troviamo gli oggetti e i pensieri di quei giorni e li ripercorriamo in compagnia di Angela Baraldi, che era a bordo del «Catarro» quando avvenne il guasto, Gaetano Curreri e Ricky Portera degli Stadio, i proprietari dell’Hotel Excelsior Guido e Lidia Fiorentino, l’ex concierge Antonino Galano, Gino Castaldo, il regista Ambrogio Lo Giudice, l’autore tv Nicola Sisto e Paolo Glisenti, spettatore della serata al Village Gate di New York. A completare il racconto, le immagini private e inedite di Lucio Dalla e l’interpretazione struggente del pianista Danilo Rea. Un film e un album da ascoltare e cantare che raccontano il viaggio americano, per Dalla un punto d’arrivo e l’occasione per una nuova ripartenza che lo porterà a scrivere uno dei suoi più grandi capolavori.

Barbara Costa per Dagospia domenica 15 ottobre 2023.

“Non mi interessa parlare di omosessualità. E non ce ne sarebbe bisogno, nel caso fosse vero che io sia gay. Farci in merito delle dichiarazioni di voto mi sembra davvero ridicolo”. È Lucio Dalla, intervistato nel 1979, quando io non c’ero, ma eccome se c’ero, quando Lucio Dalla è morto, e quanti ne ho sentiti, di commenti stupidi, irrispettosi, nei suoi confronti? Attenti, perché ogni cosa è scritta, e pesata e stampata in "Lucio Dalla. Disperato Erotico Poetico" (Giunti), e l’autore, Andrea Pedrinelli, sì che si è fatto il mazzo: ha preso canzone per canzone, di Dalla, comprese quelle famose un cavolo, e ci svela tutto ma proprio tutto quello che c’è stato dietro.

E cosa e chi c’è stato? C’è chi è stato dietro al feretro di Dalla, ma di facciata, perché poi gli ha fatto (e gli fa) comodo pavoneggiarsi sui media a biasimargli i funerali cattolici (eh, ma Dalla era gay!), la sua fede cattolica (ma Dalla era di sinistra!), e che altro? Perché c’è ben altro. A Dalla da vivo lo hanno offeso, e gli hanno rotto le p*lle fino al ridicolo: c’è chi gli dava del “peloso puzzolente, e del busone”, che starebbe per fr*cio se non peggio, e si sa il motivo per cui lo facevano: l’invidia e quella che sfregia.

Chi parla invidioso di Dalla accusandolo di “calarsi le braghe per vendere”, di “scrivere male apposta per le classifiche”, di uno che “fa canzonette da Ricchi e Poveri” (qui hanno diritto a inc*zzarsi Angela e Angelo), poi con Dalla “patetico e trash” che è primo in classifica e ci rimane mesi, e vende milioni di copie, e all’estero è osannato, e ti crea brani ("Caruso", e non solo, "Caruso" la sanno pure i Metallica!) che fanno il giro del mondo graffiando il cuore a chiunque… sicuro che vai oltre i gomiti a rosicare!!! 

Ma invece voi criticoni, voi che “dovevate insegnarci con tutte le cose/ non solo a parole”, potevate poco poco intuirlo che quei cortei e quegli slogan con cui nei '70 avete fracassato zebedei e vite, artisti come Dalla (con la chitarra di Portera), come Vasco (con la chitarra di Solieri), ve li hanno cannoneggiati e di santa ragione!!!

Nel gioco della vita ci sono sconfitti e vincitori, non si scappa, e Dalla ha vinto. Vince chi entra in testa alla gente “e pur distrattamente”, e ostinato non se ne va. A questo puntava Dalla, ci è riuscito, e che gli vuoi criticare? Che era omosessuale, e non te lo veniva a sbandierare? O che se lo viveva da persona libera e non te ne faceva lagna da svendere al gossip? Ma poi, Dalla, gay, lo era? In questo libro ci stanno tutti, pure chi insolente dubita dell’amore tra Dalla e Marco Alemanno, suo ultimo compagno, svilendone il rapporto “a maestro e allievo”. 

E ci stanno altresì le donne, che Dalla ha amato, finite e no nelle sue canzoni: c’è Eva, e c’è Anna, sorella di un suo produttore, che è "Anna Bellanna", e "Bella" è Daniela, e c’è Anna Rosa maestra elementare che Lucio porta a casa da mamma Iole, e "Cara" è Dalla “a cena con una donna molto più giovane: immaginai una macchina da presa tra noi”.

Oddio, moralisti, come si fa, con Dalla che in più di un album ci sta dentro fotografato nudo, come si fa, se con De Gregori Dalla i marinai in originale non si baciano tra di loro, ma “sc*pano”? Ma come si fa a farvi capire che, in "Ciao", il verso “è colpa di non so di chi” non è anti-Nato? E come si fa se Dalla andava “a f*ga” per davvero, come canta in "Ballando Ballando" ? "Disperato Erotico Stomp", “è autobiografia pura: incontrai una z*ccola, mi incuriosì perché veramente bella ma con cui parlai di libri e sociologia”. 

A tale z*ccola, va in regalo una copia di "Come è profondo il mare". E… Blanco, i guai non capitano soltanto a te: Dalla, quando va a Sanremo con "Piazza Grande" con Ron chitarrista, e Ron sbaglia l’attacco, “ma Lucio si voltò, rise, e bloccò tutto e fece ripartire il brano daccapo

Ehi, sarà vero che Luca Carboni, nel 1981, in un ristorante, incontra Dalla, e gli dà “una busta con dentro i miei testi e il mio numero di telefono. Lucio la aprì, diede una scorsa ai fogli e senza aprir bocca la passò agli Stadio. Il giorno dopo ero a lavorare con loro”…? Pierdavide Carone, a Sanremo con Dalla un mese prima della improvvisa morte, paragona la sua "Nanì" a "4 marzo 1943". Chissà perché non se n’è accorto nessuno.

A metà anni '70, Lucio Dalla fa tre dischi mai rinnegati “su testi scritti da Roberto Roversi”, poeta impegnato, e… ci si ammala di stomaco! Dalla si invaghì dei testi di Roversi, con essi ha voluto sperimentarsi, in canzoni che non hanno avuto pubblico, ma mai ne ha sposato le gabbie politiche. Ma come fai a respirare con chi “non sente ragioni” e vive “in un universo allucinante, soffocante, senza via d’uscita”? Dalla, con e per Roversi, “un giorno stavo per buttarmi nel cesso

Ecco quanto gli rode a Roversi che Dalla lo molli per canzoni “firmate Lucio Dalla, musica e parole” prime in classifica: “Dalla ha voluto essere lasciato a cantare il niente”. Canterà Dalla post Roversi: “Ciao al tuo pugno chiuso/ caprone col pelo sul cuore”. E dirà: “Io non sono mai consolatorio, la mia musica non sana ferite”, e “la vera rivoluzione è essere normale”. 

E quanto gli scoccia, a Pupi Avati, che Dalla era più bravo di lui? Avati "soffre" dal 1963, da quando “Dalla mi estromise dal sogno del jazz”. Estromise!? È Avati che briga, invano, affinché “non lo prendano nella stessa orchestra dove sto io”. È Avati che frigna che “Gino Paoli m’ha rovinato, ha scelto Lucio e non me!”. È vero questo: se Lucio Dalla è diventato Lucio Dalla, lo deve a Gino Paoli: “Senti mo' bene, tu sei matto”, gli risponde Dalla, la prima volta che Paoli, e ci sta pure Stefania Sandrelli, gli dice che deve cantare. 

Però poi Dalla a Paoli lo ha ringraziato una vita intera. Tranne che a Sanremo '67. Dalla sta alla camera n. 217, accanto alla n. 219 dove si spara Tenco. Dalla lo trova morto, con Dalila. È Dalla che dà l’allarme. Dalla mai ha creduto “al foglietto che ha lasciato Luigi. Per me Tenco si è sparato in un momento di debolezza, di paura”. Gino Paoli non sente ragioni: “Col corpo di Tenco ancora caldo, Lucio va sul palco, a cantare "Bisogna Saper Perdere" !? Io Lucio l’ho preso per il bavero, e attaccato al muro”. 

Lucio Dalla: il concerto perduto di New York arriva al cinema e nei negozi. Gabriele Antonucci su Panorama il 13 Ottobre 2023

Per tre giorni sarà disponibile sul grande schermo il docufilm Dallamericaruso, contenente le riprese inedite del concerto di Dalla del 1986 al Village Gate di New York. Dal 20 novembre quell'esibizione leggendaria sarà disponibile per la prima volta in un album live Nell’estate del 1986 Lucio Dalla, in compagnia di alcuni amici, stava attraversando il golfo di Sorrento con la sua barca. È già considerato uno dei giganti della musica italiana ed è di ritorno dal concerto al Village Gate di New York, dove con gli Stadio ha registrato un album live destinato a chiamarsi Dall’America. Le cose, però, vanno diversamente, e non è detto che sia un male. All’album, infatti, manca ancora una canzone inedita, che tarda ad arrivare. Ed è proprio di ritorno dagli States, quando la sua barca si rompe al largo della costa di Sorrento, che nasce Caruso, una delle canzoni italiane più conosciute e amate a livello internazionale. Quando la sua imbarcazione in panne tra Napoli e Sorrento fu rimorchiata a riva, andò a dormire all’Hotel Excelsior dove gli fu assegnata proprio la camera dove, nel 1921, aveva soggiornato Enrico Caruso. Secondo la leggenda, il grande cantante, malato e alla fine della sua vita, in quell’hotel di Sorrento si era innamorato di una giovane a cui insegnava musica. A Dalla lo racconta l’allora barista dell’albergo, Angelo Leonelli. Seduto al pianoforte di Caruso, nell’hotel che era stato palcoscenico di quell’amore straziante, il cantautore bolognese compone un brano che tiene insieme la sua fantasia pop e la migliore melodia della tradizione napoletana e italiana. Così, il disco cambia nome e diventa DallAmeriCaruso, l’album più famoso di Dalla, un classico assoluto della canzone internazionale, capace di vendere, in varie lingue, più di 38 milioni di copie. A 80 anni dalla nascita di Lucio Dalla, in occasione del ritrovamento delle riprese integrali del suo famoso concerto al Village Gate di New York del 1986, arriva al cinema solo il 20, 21 e 22 novembre Dallamericaruso. Il concerto perduto, un film evento diretto da Walter Veltroni e prodotto da Nexo Digital e Sony Music (elenco delle sale su nexodigital.it). Questo nuovo documentario arriva sulla scia del successo di Fabrizio De André e PFM – Il concerto ritrovato, dagli stessi creatori, sempre diretto da Veltroni: l’evento al cinema è pensato per far rivivere agli spettatori l’emozione della musica di Lucio Dalla, sbarcato nella Grande Mela forte di un repertorio incredibile affiancato dalla sua band, gli Stadio. Un film da ascoltare e da cantare, che racconta il viaggio americano, per lui un punto d’arrivo e al tempo stesso l’occasione per una nuova ripartenza che lo porterà a scrivere uno dei suoi più grandi capolavori. Il docu-film in 4K porta sul grande schermo le riprese integrali del concerto al Village Gate di New York del 1986 di Dalla, a cura di Ambrogio Lo Giudice, tour producer Pressing Line, andate quasi interamente perdute, ora ritrovate, restaurate e rimasterizzate in Dolby Atmos. In Dallamericaruso. Il concerto perduto troviamo gli oggetti e i pensieri di quei giorni e li ripercorriamo in compagnia della cantautrice rock e attrice Angela Baraldi, ripercorriamo in compagnia della cantautrice rock e attrice Angela Baraldi, che era a bordo del “Catarro” quando avvenne il guasto, di Gaetano Curreri e Ricky Portera degli Stadio, dei proprietari dell’Hotel Excelsior Guido Fiorentino e Lidia Fiorentino, dell’ex concierge Antonino Galano, del critico musicale Gino Castaldo, del regista Ambrogio Lo Giudice, dell’autore televisivo Nicola Sisto e di Paolo Glisenti, spettatore - come hanno mostrato le immagini di repertorio - della serata del Village Gate. A completare il racconto, le immagini private e del tutto inedite di Lucio Dalla e l’interpretazione struggente del pianista Danilo Rea. Dal 20 novembre in digitale e dall’1 dicembre in formato fisico, il concerto sarà disponibile per la prima volta in un album, Dallamericaruso - Live at Village Gate, New York 23/03/1986 (Sony Music). Le versioni fisiche contengono anche tre testi scritti da Walter Veltroni, Ambrogio Lo Giudice e Lorenzo Cazzaniga. La versione Dolby Atmos, inoltre, contiene anche il brano Caruso. Un'occasione speciale per riascoltare dal vivo, durante un concerto speciale, le canzoni profonde e intense di Dalla, la sua voce straordinaria, la sua musica così ricercata che attingeva alle sue esperienze giovanili nel jazz (soprattutto nell'uso dello scat), che lo rendevano un artista fuori dal tempo, che ha lasciato un vuoto incolmabile nel panorama della musica italiana.

Lucio Dalla? “Tirchio, bugiardo, immenso”: chi era davvero. Luca Beatrice su Libero Quotidiano il 04 marzo 2023

Federico Fellini sosteneva che Lucio Dalla fosse la persona più bugiarda che avesse mai incontrato, ovviamente dopo di lui. Non che la verità sia poi così importante, però a Lucio l’invenzione pirotecnica e strampalata piaceva. Ai compagni di scuola raccontava strane storie sul padre che non ha mai conosciuto, Caruso si regge su una versione totalmente apocrifa di una possibile allieva amante del tenore mai esistita. Aveva un alter ego che chiamava signor Sputo, cui veniva lasciato ampio margine di movimento oltre il comune senso del pudore. Il suo carattere non era certo facile, basterebbe chiedere a Francesco De Gregori con cui condivise Banana Republic, il primo tour negli stadi dopo l’embargo del terrorismo: non andava mai alle prove e diceva un sacco di parolacce, cosa che al Principe dava alquanto fastidio.

Quando scrisse 4 marzo 1943, la sua data di nascita, oggi sono ottant’anni, parlando di una ragazza madre e del suo bambino, io piccolo ero piuttosto convinto che quella mamma fosse la mia, nata pure lei nel 1943. «Per i ladri e le puttane mi chiamo Gesù Bambino» fu il verso censurato dalla Rai e al Festival di Sanremo e fu il titolo che diedi al mio libro pubblicato qualche anno fa sulla vita e le opere di Lucio Dalla, uno di quei misteri che più scavi più trovi cose nuove e incredibili.

Per esempio, la sua passione per le automobili, anzi perla Porsche: guidava solo quella e ci fece anche una Mille Miglia, co-pilota Oliviero Toscani ma la macchina si ruppe subito. Era un collezionista d’arte piuttosto competente, con un gusto disordinato che passava dal rinascimento bolognese dell’Amico Aspertini alla pittura della Transavanguardia, dalle maschere in ceramica di Luigi Ontani al delicato tratto di Valerio Berruti che disegnò la copertina del suo ultimo album, Angoli del cielo.

Adorava frequentare gli artisti, soprattutto la comunità di Bologna, dove era considerato un semi Dio. Andava al Dall’Ara a vedere i rossoblù insieme a Gianni Morandi e pranzava nelle solite trattorie, facendo apposta a dimenticare il portafoglio. La sua tirchieria, parlando di soldi, era leggendaria e la sua generosità si esprimeva sotto altre forme, per esempio aiutando i giovani musicisti più giovani, Curreri, Antonacci e soprattutto il timido Bersani che un giorno si presentò con una cassetta e lui lo fece salire sul palco a cantare. Non aveva paura del talento altrui, non ci teneva affatto a reprimerlo, e negli ultimi tempi sosteneva che Mengoni fosse il più bravo. Come Lucio Battisti, non esiste un solo Lucio Dalla, ognuno ha il proprio legato a qualche ricordo, a qualche momento particolare della vita. Volendo periodizzare, ci sono almeno tre momenti salienti, quello degli inizi culminato con 4 marzo e Piazza Grande, quello autoriale insieme al poeta Roberto Roversi, dischi difficili, criptici e la voglia di scappare da una nicchia troppo ristretta e ideologica, quello del grande successo che parte dal disco eponimo del 1979, un capolavoro dove ogni canzone è un singolo, da Anna e Marco a L’anno che verrà, da L’ultima luna a Stella di mare, doppiato l’anno successivo da Dalla, altri gioielli come Balla balla ballerino, Cara e Futura. Lo stato di grazia di Lucio, forse, finisce lì. Poi lo reggerà uno straordinario mestiere, la capacità di tirar fuori ogni tanto il pezzo giusto - Caruso, Attenti al lupo, Washington - ma quella stagione che segnò davvero il passaggio dall’epoca oscura dei ’70 a una nuova Italia più leggera, spensierata, innamorata, porta la sua firma. E noi continuiamo ad ascoltare quelle canzoni che sono autentici frammenti di poesia.

Emanuela Giampaoli per il Venerdì – la Repubblica il 4 marzo 2023.

Un pomeriggio del 2009 il teologo e filosofo Vito Mancuso riceve una mail da Domenico Sputo, lo pseudonimo scelto da Lucio Dalla ancora oggi inciso sul campanello della sua casa bolognese in via d'Azeglio.

 (...)

E quando non parlavate di Dio?

«Discutevamo di tutto, una sera mi intrattenne su Attila, aveva letto qualsiasi cosa, era ferratissimo. Una inspiegabile fascinazione per il re degli Unni. Poi si confidava sugli altri cantanti: Lucio Battisti non gli piaceva, amava, naturalmente, De Gregori benché non ne capisse la ritrosia. Lucio al contrario adorava essere riconosciuto, non si sottraeva mai da foto e selfie. Con Guccini invece non si sono mai presi. Quello che stimava più di ogni altro era Franco Battiato, li accomunava il misticismo. Desiderava lo incontrassi, aveva preso casa in Sicilia a fianco al cantautore siciliano, poi come molte altre cose, non ci fu il tempo».

 Che altri progetti avevate?

«Mah, per esempio, voleva portarmi nelle fogne di Bologna, nei sotterranei.

Diceva che ci aveva accompagnato Patti Smith e le erano piaciuti più dei canali di Venezia».

 (...) Una volta affermò scherzosamente di essere uno dei cantanti più ricchi, "solo Vasco guadagna più di me" si inorgogliva». Però non è stato trovato alcun testamento. «In realtà vedeva diversi notai, aveva già architettato tutto, c'erano diversi progetti testamentari, solo non ha concluso». 

 (...)

Quale allegria. L’ottantesimo quattro marzo di Lucio Dalla, l’undicesimo in cui non c’è, e anche noi non ci sentiamo tanto bene. Guia Soncini su L’Inkiesta il 4 Marzo 2023.

L’unico compleanno che ancora ricordiamo senza l’aiuto di Facebook è quello che è anche il titolo d’una canzone. Non c’è ragione di festeggiare, ma siamo un’epoca così scema che diciamo buon compleanno ai morti

Primo flashback. Quella volta che in un romanzo che avevo scritto qualcuno raccontava un aneddoto in cui uno diceva «Ciao», qualcun altro rispondeva «A te e a tuo figlio finocchio», e poi conoscendo i miei polli avevo fatto dire a uno dei due «Lucio Dalla», e l’ufficio legale della casa editrice mi disse serissimo che rischiavo una querela per aver dato del finocchio a Dalla, e allora avevo molti meno anni di social in curriculum e ancora non sapevo che l’ufficio legale era il lettore medio: che non coglie neanche le citazioni facilitate.

Una volta sapevamo i compleanni e i numeri di telefono. Perlopiù li sapevamo: «Avrei voluto parlarti questa sera ma sono solo nella casa di Roma e non so il tuo numero a Teramo», scrive Dalla a Roberto Roversi dopo aver finito d’incidere il primo disco.

Che i numeri di telefono che spesso componevamo li ricordassimo ha una qualche logica. Ma i compleanni, come diavolo facevamo? Adesso, se non me lo ricorda Facebook, di compleanno non so neanche il mio.

Ogni sedici aprile penso che è il compleanno della mia amichetta delle medie, e non la vedo da più di vent’anni e non le faccio gli auguri forse da trentacinque, ma morire se mi ricordo i compleanni di gente con cui parlo tutti i giorni, e che non ha Facebook non avendo rispetto dell’altrui smemoratezza.

In comune tra le due stagioni, c’è l’unico compleanno che sappiamo tutti, perché sta in un titolo (come la morte di Napoleone, disse lei grazie a Google, santo Google che le ha evitato di dire che il 5 maggio è notoriamente il compleanno di Napoleone, d’altra parte «Ei fu, siccome immobile» è una tipicissima frase da biglietto di auguri).

Il compleanno che sanno tutti non c’è ragione di festeggiarlo, non essendoci più nessuno da festeggiare, ma siamo un’epoca così scema che diciamo buon compleanno ai morti, e quindi oggi è l’ottantesimo compleanno di Lucio Dalla, un uomo del quale non c’è niente da dire.

Cosa dici d’un pezzo di paesaggio? Cosa dici di casa tua? Cosa dici d’un tizio che quando ha deciso di cominciare a scriversi lui le canzoni ha scritto “Com’è profondo il mare”, cosa dici quando quarantasei anni dopo i cantautori neanche esordienti scrivono dei testi che sembrano temi delle medie, cosa dici, meno male che sei morto e non sai che non hanno imparato niente? («Le responsabilità sono tante, l’impegno è totale, le possibilità infinite», scrive sempre Dalla in quella lettera a Roversi del secolo in cui un disco era un punto d’arrivo).

Forse potremmo giocare a disco di Dalla preferito, a canzone di Dalla preferita, a verso di Dalla preferito, ma è un gioco impossibile: io cambio idea ogni quindici secondi, ho certezze solo sui dispiaceri (“Caruso” sta a Dalla come “Una giornata particolare” sta a Scola: se vi piacciono quelle due opere, non vi piacciono quei due autori).

Piazza grande” è una delle due canzoni che mi fanno più piangere nella storia della musica, ma mica sono sicura che sia la migliore canzone di Dalla. Forse “Il parco della luna”. Forse “Telefonami tra vent’anni”. Forse “Disperato Erotico Stomp”.

(Quel che i disagiati cui non piacciono Dalla e Scola non capiranno mai, nel loro sdilinquirsi per “Caruso” e per “Una giornata particolare”, è che son bravi tutti con lo struggimento: far commuovere il pubblico è facile, è girare “Brutti, sporchi e cattivi” o scrivere “Disperato Erotico Stomp” che fa di te un genio).

Secondo flashback. È un’estate delle scuole elementari, nella piscina del circolo del tennis che la mia famiglia frequenta nonostante non giochi a tennis. Dalla è sotto la doccia, e una bambina più coraggiosa di me mi convince ad andargli a chiedere se ci canta “L’anno che verrà”. I dettagli di questa scena me li ricordo diversi ogni volta che me la rivendo – credo d’essermela rivenduta la prima volta quand’è morto, undici anni fa, con un certo anticipo rispetto alla coccodrillite egotica che tanto si porta in questo decennio. L’unico dettaglio che non cambia mai e che sono certa non sia un falso ricordo è: Dalla faceva la doccia col basco di lana, il che alla me settenne pareva perfettamente normale, avendo lui quel basco sulla copertina del disco, non avendo io il senso delle stagioni, essendo lui un cartone animato. Mica ti aspetti di vedere Braccio di Ferro non vestito da marinaio.

Il quattro marzo in cui Lucio Dalla compirebbe ottant’anni è l’undicesimo quattro marzo in cui Lucio Dalla non c’è, in cui non esiste la possibilità di una nuova “Quale allegria” ma neppure quella di una nuova “Mambo”. In cui sfogliamo reperti delle vite che furono, leggiamo il Dalla trentenne che scrive a Roversi «Non venderei questo disco neanche per la vita di mia madre (forse ho esagerato)» e piangendo ci viene da ridere, in cui ci sembra preveggenza ogni riga di ogni corrispondenza, specie quella sulla «dolce cialtronesca mediocrità», che – se parlava di sé e non delle nuove uscite su Spotify – è solo perché non le aveva sentite, beato lui.

Lo so, lo so: sono diventata mia nonna. Nostalgica e sempre con in tasca l’aneddoto pronto su quant’era verde la mia valle e ai miei tempi che ne sapete voi giovinastri. Quanta brillantina e coraggio mi mettevo: guarda oggi come piango.

80 anni di Lucio Dalla: venti canzoni bellissime (ma poco conosciute). Gabriele Antonucci su Panorama il 03 Marzo 2023

Abbiamo scelto alcune perle nascoste dello straordinario repertorio del cantautore bolognese, in modo da coglierne tutta la grandezza, al di fuori dei grandi successi

Lucio Dalla, nato il 4 marzo 1943, avrebbe compiuto 80 anni, e chissà quante altre perle avrebbe potuto lasciarci in eredità se quel maledetto primo marzo del 2012 un attacco cardiaco in un albergo di Montreux non avesse spezzato prematuramente la sua vita. Le sue canzoni profonde e intense, la sua voce straordinaria, la sua musica così ricercata che attingeva alle sue esperienze giovanili nel jazz (soprattutto nell'uso dello scat), il suo personaggio buffo e al tempo stesso delicato, con il cappello e la barba, lo rendevano un artista fuori dal tempo, che ha lasciato un vuoto incolmabile nel panorama della musica italiana. Nessuna raccolta, per quanto ben compilata, è mai riuscita a contenere tutta la strabordante genialità compositiva e interpretativa di Dalla. Tutti conosciamo 4 marzo 1943, Piazza Grande, Caruso, Anna e Marco, Stella di mare, Futura e Canzone, ma forse la grandezza di Dalla la ritroviamo anche e soprattutto nei brani cosiddetti minori, che di minore hanno solo il successo, non certo la qualità. Per celebrare gli 80 anni di uno dei più grandi artisti della musica pop italiana, vi proponiamo 20 canzoni bellissime, ma meno conosciute, del suo repertorio.

1) Quale allegria (Come è profondo il mare, 1977) Scritta originariamente per Ornella Vanoni e ispirata dalla scomparsa di mamma Iole nel 1976, Quale allegria è una riflessione malinconica sulla caducità della vita, costruita sopra una melodia morbida da romanza e impreziosita dalle chitarre di Ron e Ciccaglioni: «Quale allegria cambiar faccia cento volte per far finta di essere un bambino, con un sorriso ospitale ridere, cantare, far casino, insomma far finta che sia sempre un carnevale».

2) Meri Luis (Dalla,1980) Considerata da Lucio stesso come una delle canzoni più importanti, Meri Luis, riportata al successo nel 2011 in duetto con Marco Mengoni, è uno dei suoi brani più icastici e cinematici, nel quale il ritratto delle debolezze umane, grazie a una melodia trascinante, diventa un potente inno alla vita.

3) 1983 (1983) La title track dell'album 1983 è un brano straordinario che supera i sei minuti, in cui ritroviamo tutta la genialità musicale e la poetica di Dalla: una panoramica su quarant’anni di storia italiana, in bilico tra autobiografia e memoria collettiva, tra tristezza e gioia, che parte dal 1943 e arriva fino al presente.

4) L'ultima luna (Lucio Dalla, 1979) L’ultima luna, una vera e propria poesia, ha una struttura discendente che parte dalla settima luna per arrivare alla prima, presentando, per ogni tappa, persone, gruppi o addirittura un luna park. Un canzone che attraversa tutti i sentimenti che agitano l'animo umano, dall'amore all'inquietudine, fino alla speranza rappresentata da un bambino, l’uomo del domani

5) Tu parlavi una lingua meravigliosa (Anidride solforosa, 1975) Una delle più grandi qualità di Dalla è quella di evocare situazioni, luoghi e personaggi in modo così nitido da sembrare di trovarci lì anche noi: non fa certo eccezione Tu parlavi una lingua meravigliosa, che ci porta nel mezzo della provincia italiana, dove l'attesa in una stazione poco frequentata viene rivitalizzata dal suono della voce di una persona amata in passato. Lui si nasconde dietro a un giornale, ascolta quella voce amata, ma non sa che fare: il treno parte con lei, ma il ricordo di quell'incontro resterà per molti anni.

6) Il coyote (Il giorno aveva cinque teste,1973)

Il coyote è l'unica canzone del periodo Roversi - Dalla dove prima fu scritta la musica da Lucio e in seguito fu scritto il testo dal poeta, ispirato da una favola tratta da libro di racconti mitologici: una riflessione sul ruolo dell'Arte e del Mito all'interno della vita umana.

7) Due ragazzi (Automobili, 1976) L'album Automobili, trascinato dalla celebre Nuvolari, è frutto di uno spettacolo televisivo, Il futuro dell'automobile e altre storie, trasmesso dalla Rai. Roversi era contrario al concept dell'album, tanto da firmarsi Norisso alla SIAE: una frattura, quella con Dalla, che non sarà più ricomposta. Il disco si chiudeva con Due ragazzi, una sorta di prova generale del capolavoro Anna e Marco, nella quale la scocca di un auto in demolizione è il nido d'amore dei due protagonisti.

8) Mambo (Dalla, 1980) Mambo è un brano corrosivo sui sentimenti che si provano dopo la fine di una breve storia d'amore con una donna «con il cuore a forma di imbuto» e poco incline alle relazioni stabili. Non solo rabbia, quella del protagonista abbandonato, ma anche nostalgia per ciò che poteva essere e che non sarà mai, che gli lascia una ferita aperta nel cuore.

9) ....e non andar più via (Come è profondo il mare, 1977) Apertura intima solo piano e lungo finale sinfonico che induce alla riflessione sul testo di un brano intenso e politico in senso lato, tra desiderio di fuga, lotte quotidiane e capacità di assaporare i piccoli, grandi piaceri della vita: non andare più via perché tutto ciò che ti serve è già qui e ora.

10) Le rondini (Cambio, 1990) Le rondini, la confessione di un uomo in cerca del significato profondo della vita, è stata letta al funerale di Lucio Dalla dal compagno di vita Marco Alemanno. La canzone racconta il punto di vista di una rondine che si infila nel mondo degli uomini per guardarli con stupore. «Vorrei seguire ogni battito del mio cuore. Per capire cosa succede dentro e cos'è che lo muove».

11) Amore disperato (Tosca - Amore disperato, 2003) La title track dell'ambizioso progetto tra melodramma e musical pop, Amore disperato, viene incisa da Dalla nel suo studio Casadilucio, nelle Isole Tremiti, per poi essere mandato a Lugano dall'unica voce che il cantautore reputa all'altezza di una parte così impegnativa: Mina. A settembre del 2003, i due artisti si incontrano negli studi Fonoprint di Bologna per incidere insieme la versione definitiva dal vivo, con l’arrangiamento di Roberto Costa e con l’orchestra d’archi DIMI diretta da Beppe D’Onghia.

12) Soli io e te (Bugie, 1985) Due persone, stufe del rumore di un locale, iniziano a parlare e si accorgono di essere sole e di vivere quasi per inerzia, senza mai fermarsi a riflettere su dove stiano andando realmente: ma forse c'è ancora una speranza di cambiare le cose. «Obbligati tra la gente, buttati lì per caso, vivi, ma per niente, non ci siamo più fermati faccia a faccia nel silenzio come adesso io e te».

13) Malinconia d'ottobre (Il contrario di me, 2007) Scritta dallo stesso cantautore bolognese e Marco Alemanno,Malinconia d’ottobre racconta in modo delicato il sentimento di tristezza che ti invade quando finisce una storia d’amore. «Dimenticami, cancellami, tienimi fuori da te, convinciti, rassegnati: questa storia non c’è».

14) Prima dammi un bacio (Lucio, 2003) Prima dammi un bacio, una moderna romanza operatic pop dall'arioso ritornello sul sentimento nobile ed eterno dell'amore, è una delle tante perle che Lucio Dalla ha seminato lungo la sua straordinaria carriera. Pubblicato nell'album Lucio e nella colonna sonora del film Prima dammi un bacio, il brano ha vinto meritatamente il Nastro d'Argento nel 2004 come miglior canzone originale.

15) Il cucciolo Alfredo (Come è profondo il mare,1977) Il cucciolo Alfredo, prima canzone in ordine cronologico creata da Dalla per Come è profondo il mare, è una canzone legata a un fatto di cronaca realmente accaduto l’11 marzo 1977 a Bologna, quando, nel corso di una manifestazione, un proiettile della polizia raggiunse lo studente universitario Francesco Lorusso. Memorabile l'inciso polemico nei confronti degli Inti-Illimani, il gruppo preferito dalla sinistra extraparlamentare negli anni Settanta: «Il complesso cileno affisso sul muro promette spettacolo, un colpo sicuro. La musica andina, che noia mortale, sono più di tre anni che si ripete sempre uguale».

16) Washington (Viaggi organizzati,1984) Un inno antimilitarista ballabile e ancora terribilmente attuale, che racconta l'incontro/scontro tra due piloti d'aereo, un giapponese e un americano, diretti uno contro l’altro dopo essere sopravvissuti all’esplosione della bomba atomica. «Volevo far ballare in discoteca una canzone dai contenuti drammatici», ha dichiarato il cantautore bolognese.

17) Corso Buenos Aires (Come è profondo il mare, 1977) Il tema delle radici ha sempre giocato un ruolo fondamentale nella poetica di Dalla. Lo conferma Corso Buenos Aires, un brano veloce e ricco di ironia ambientato in una delle vie più affollate di Milano, dove un padre e un figlio, con il loro cane, decidono di abbandonare il caos della metropoli e di tornare nella loro casa del Sud, in una dimensione più umana.

18) Un uomo come me (Storie di casa mia, 1971 ) Uno dei brani più belli del primo periodo, Un uomo come me, che anticipa alcuni temi di Piazza Grande, ha una struttura singolare, tra folk e pop orchestrale. Il pittoresco protagonista della canzone, uno che ha «un lupo dentro il cuore/ tu lo senti gridare ma non credi all’amore», ha ispirato nel 2016 una cover di Colapesce.

19) La borsa valori (Anidride solforosa,1975) La riuscita collaborazione tra Dalla e il poeta Roberto Roversi, caratterizzata da sperimentazioni sonore e impegno civile, ha uno dei suoi vertici nel brano La borsa valori, che tratta il tema attualissimo dell'ambientalismo, oltre che dell'anticapitalismo, il tutto alleggerito dalla consueta ironia di Lucio.

20) Pecorella (1983) Pecorella è una delle più belle canzoni d’amore degli anni Ottanta, costruita sopra il pianoforte, un vero classico di Dalla, che ha il suo acme nell'improvvisa esplosione melodica. «Che porca vita è mai questa? Sempre col coltello nella schiena e un desiderio che si secca in gola e il cuore è un'altalena».

Oggi Lucio Dalla avrebbe 80 anni: le 7 canzoni nella storia. Scomparso nel 2012, il cantautore bolognese ha tracciato un solco nella musica italiana e ha messo la firma su brani simbolo per diverse generazioni. Massimo Balsamo il 4 marzo 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Caruso (1986)

 4 marzo 1943 (1971)

 Futura (1980)

 L'anno che verrà (1979)

 Piazza Grande (1972)

 Anna e Marco (1979)

 Tu non mi basti mai (1996)

La stagione beat, la sperimentazione ritmica e musicale, la canzone d'autore. Un grande sperimentatore, sempre alla ricerca di nuovi stimoli e di nuove avventure. Lucio Dalla è stato uno dei più grandi artisti del panorama italiano, amato da diverse generazioni e in grado di raccontare la società senza filtri e senza scorciatoie.

Oggi, sabato 4 marzo 1943, il cantautore bolognese avrebbe compiuto 80 anni. Una ricorrenza importante, che sarà celebrata da tutti i suoi seguaci attraverso le sue canzoni, gemme che faranno sempre parte della storia musicale italiana. Una produzione ampia e variegata, in grado di abbracciare generi diversi, simbolo di una vita legata indissolubilmente alle note e alle parole. Tante, tantissime le collaborazioni di prestigio collezionate: da Sting a Luciano Pavarotti, passando per Mina, Gianni Morandi e Francesco De Gregori. Un genio, semplicemente. La ricorrenza sopra citata ci invita a ripercorrere le sette canzoni firmate da Lucio Dalla da ascoltare almeno una volta nella vita.

Caruso (1986)

"Caruso" è uno dei più grandi capolavori della musica contemporanea. Il brano scritto dallo stesso Lucio Dalla durante il suo soggiorno a Sorrento (nella stessa stanza dove aveva alloggiato anche il tenore Enrico Caruso) è tratto dall'album dal vivo "DallAmeriCaruso" e ha venduto oltre 38 milioni di copie nel mondo.

4 marzo 1943 (1971)

"4 marzo 1943" è un brano fortemente autobiografico, legato appunto alla data di nascita del cantautore. Questa canzone popolare da cantastorie parla di una ragazza madre e doveva intitolarsi inizialmente "Gesù Bambino", considerato però troppo forte. Terzo posto al festival di Sanremo del 1971.

Futura (1980)

Brano di chiusura dell'album "Dalla" del 1980, "Futura" racconta la possibile storia d'amore tra due ragazzi, uno di Berlino Est e uno di Berlino Ovest, in una Germania spaccata in due dal muro. Due giovani che progettano di fare una figlia, che si chiamerà appunto Futura. Eterna.

L'anno che verrà (1979)

Chi non saprebbe canticchiare "Caro amico ti scrivo"? "L'anno che verrà" del 1979 è uno dei brani più famosi di Lucio Dalla, una canzone in grado di unire satira sociale e nonsense. Perentorio il giudizio dello stesso cantautore: "Ho fatto una canzone tutto fuori che pessimista, non ci sono miracoli, l'unico che possiamo fare è quello su di noi, essere sempre funzionanti, non vedere sempre il nero, il terribile".

Piazza Grande (1972)

Composta insieme a Ron, Gianfranco Baldazzi e Sergio Bardotti, "Piazza Grande" è uno dei primi grandi successi di Lucio Dalla. Un brano dedicato a Piazza Cavour, Bologna, dove l'artista abitò da giovane. Solo ottavo al festival di Sanremo del 1972, con il passare degli anni è diventato un classico del suo repertorio.

Anna e Marco (1979)

Tra i meravigliosi brani dell'album "Lucio Dalla" del 1979, impossibile non citare "Anna e Marco". La storia coinvolgente di due ragazzi uniti dal desiderio di scappare da una vita che non gli appartiene. Una ballata emozionante, di impatto, tra le più amate del suo immenso patrimonio.

Tu non mi basti mai (1996)

Scritto con Tullio Ferro, "Tu non mi basti mai" fa parte dell'album "Canzoni" del 1996. Un delicato pezzo d'amore, con un testo intimo e commovente, in grado di toccare le corde più profonde dell'anima.

L'anniversario della scomparsa. Chi era Lucio Dalla: ritratto dell’artista che avrebbe compiuto 80 anni. David Romoli su Il Riformista il 3 Marzo 2023

Lo sanno proprio tutti che oggi Lucio Dalla, se non fosse stato stroncato da un infarto a Montreux il primo marzo 2012, compirebbe 80 anni. Merito della occhiuta censura dell’eterno Sanremo: quando nel 1971 si trovarono sul tavolo un pezzo intitolato Gesù bambino, con testo della futura storica dell’arte Paola Pallottino su musica di Dalla, i controllori fecero una serie di salti sulla sedia. Testo inconcepibile: “E ancora adesso che gioco, rubo e bevo vino per i ladri e le puttane sono Gesù bambino”: neanche a parlarne.

I censori cambiarono una strofa via l’altra e anche il titolo empio fu considerato inaccettabile. La canzone fu ribattezzata con la data di nascita del cantante, 4/3/1943. Spopolò a Sanremo e nei negozi di dischi, trasformò Lucio in una superstar. Non che fosse uno sconosciuto. Era anzi già un veterano con quasi 15 anni di carriera alle spalle, presenza fissa a Sanremo e al Cantagiro, l’altra grande sagra della canzone dell’epoca. Era anche “nipote d’arte” ma zio Ariodante Dalla, detto Dario, che pure tra i ‘40 e i ‘50 era stato piuttosto famoso, chi se lo ricordava più?

Nato a Bologna, orfano di padre a 7 anni, sbattuto subito dopo in un collegio di preti a Treviso da mamma Jole, convinta che fosse un genio e non aveva tutti i torti, Lucio era cresciuto studiando poco e suonando molto: un virtuoso del clarinetto, che aveva imparato a padroneggiare da solo già a partire dai 10 anni, in grado presto di duettare con una leggenda della tromba come Chet Baker, allora di stanza a Bologna. In una delle band jazz in cui suonò da adolescente c’era anche Pupi Avati, il regista che giusto qualche giorno fa ha scatenato la solita ondata di polemiche stonate avanzando il dubbio che l’omosessualità di Lucio fosse conseguenza di una cura ormonale a cui fu sottoposto da bambino nella speranza di regalargli qualche centimetro. Ci guadagnò invece solo parecchi peli in più e, e secondo la bizzarra ipotesi del regista, un cambio di identità sessuale che peraltro il diretto interessato non ammise mai apertamente.

Non perché se ne vergognasse ma perché, come disse in una celebre intervista del 1979, «fare delle dichiarazioni di voto mi sembra ridicolo. Io non appartengo a nessuna sfera sessuale». Del resto, nonostante le canzoni politicissime scritte da Roberto Roversi nella prima metà dei 70, rifiutava anche le”dichiarazioni di voto” politiche. «Sono un uomo abbastanza appartato anche a livello di sentimenti. Sono solo perché lo voglio essere, organizzo il mio mondo strettamente e forse malinconicamente ma con coraggio, molto vicino al mondo del lavoro per cui il fatto stesso di comunicare alla gente, a tanta gente, è una esemplificazione di tante tensioni», diceva di se stesso e quella solitudine appartata, la scelta di comunicare attraverso l’arte invece che con i comizi a mezzo stampa e le dichiarazioni stentoree, è ancora una delle chiavi principali per capire l’uomo e il musicista.

Raffinato jazzista, Lucio Dalla non disdegnava le canzonette. I Flipper, la band che aveva formato con Franco Bracardi e il grande Massimo Catalano, “quello della notte”, oltre che con la loro musica sbarcavano il lunario facendo da supporto a Edoardo Vianello nelle canzoni dell’estate tipo la famosissima I Watussi. Poi Gino Paoli lo sentì cantare, lo convinse a battere la strada del solista. A Sanremo 1966 presentò Pafff… Bum, un pezzo surreale in coppia con gli Yardbids, l’olimpo del rock, in quel momento con Jeff Beck alla chitarra, l’anno dopo ci riprovò con I Rokes, Bisogna saper perdere. Lucio a metà si lanciò in un “miao miao” da gatto che per un po’ diventò: “quello che miagola”. Era un cantante di medio successo ma molto popolare, non notarlo era impossibile.

Appariva fuori dal comune persino in un momento in cui essere fuori dal comune era la norma. Riusciva a essere eccentrico anche quando non esisteva più alcun centro. Chissà se sono vere le voci secondo cui gli capitava di girare con ciliege intorno alle orecchie oppure portando al guinzaglio una gallina: probabilmente no ma conta poco, erano verosimili. Tutto in Dalla era particolare: lo stile trasandato non per finta, il modo di cantare con ampio uso dello scat, roba che in Italia allora la sentivi solo nei pezzi di Ella o Louis Armstrong, i testi che non scriveva da solo ma sembravano ed erano fatti apposta per lui.

4/3/1943 e poi l’anno dopo Piazza Grande, che contrariamente a quanto si crede non è Piazza Maggiore ma Piazza Cavour, resero Lucio una stella internazionale ma chiusero anche la lunga fase di cantante popolare, da Festival e Cantagiri. All’iniziò degli anni 70 sterzò bruscamente. Dopo l’incontro con il poeta Roberto Roversi imboccò il sentiero opposto, quello dell’avanguardia sul piano sia musicale che dei testi firmati da Roversi. I tre album di quei primi anni 70, per alcuni i suoi migliori, certo i più spericolati e politicamente combattivi,sono uno dei pochissimi casi nei quali la definizione sempre sospetta di “canzone d’autore” non significa solo un testo poetico ma anche sperimentazione musicale pura nonché un modello di canzone capace di essere radicalmente politica senza concedere niente alla retorica militante.

Il Lucio Dalla che tutti conoscono e di cui tutti ricordano le canzoni è nato dopo la rottura a metà anni 70 con Roversi, collaborazione che sarebbe risorta solo nel 1998 con la messa in scena dello spettacolo Enzo Re, musicata da Dalla. A partire dal 1977, con Come è profondo il mare, Dalla si è scritto da solo i testi, è diventato a tutti gli effetti un autore grandissimo e completo. Anche se il suo più grande successo, Caruso, oggi un classico della canzone mondiale, è arrivato molto dopo, anche se alcune delle sue canzoni più famose le avrebbe scritte nei decenni successivi, il picco Lucio Dalla lo ha raggiunto allora, a cavallo tra i 70 e gli 80, quando è riuscito a mettere in musica e in parole più di chiunque altro gli umori, i sentimenti, le paure, le speranze di un’intera epoca storica.

Lucio Dalla ha venduto milioni di dischi in tutto il mondo. Ha inaugurato con Francesco De Gregori, nel Banana Republic Tour del 1979, l’epoca dei concerti negli stadi: oggi pare strano ma prima di loro non era mai successo in Italia. Ha fatto teatro e curato opere liriche. Ha cambiato stile più volte. Ha collaborato con gli amici come Gianni Morandi e soprattutto l’eterno Ron, Rosalino Cellamare, autore di alcuni dei migliori pezzi di Dalla e probabilmente la persona a cui Lucio è stato più legato come amico e come musicista, nella sua vita.

È morto all’improvviso, stroncato da un infarto oltre 10 anni fa. Della cospicua eredità a quello che comunemente si ritiene essere stato il suo compagno (ma Ron smentisce), Marco Alemanno, non è andato niente. Difficile dire se sia stato il più grande musicista italiano degli ultimi decenni: di certo è l’unico di cui si possano identificare fasi e momenti creativi distinti, molto diversi tra loro, sempre eccellenti nel loro genere. Capita a pochi e solo ai veri artisti. David Romoli

Gli 80 anni di Lucio Dalla: lo speciale della Gazzetta. Com'è profondo il mare delle Tremiti, l'amore del cantante per le Diomedee in Puglia. ENRICA SIMONETTI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 4 marzo 2023.

Un blu profondo, svolazzo di diomedee, cime di pini scosse dal vento adriatico. Potremmo immaginarlo lì, seduto su uno scoglio della “sue” Tremiti: Lucio Dalla ha amato le isole pugliesi da sempre. Le frequentava già negli anni Settanta, quando la Puglia non era la meta-boom del turismo e quando arrivarvi significava attraversare una terra dall’anima languida, cinta da un mare azzurro cobalto che ancora oggi mette i brividi, tanto è profondo, limpido, imponente.

E infatti, «Com’è profondo il mare» è una delle canzoni che pare sia nata qui, tra San Domino e San Nicola, tra quegli isolotti che visti dal mare pare che galleggino, liquidi anch’essi. Lucio passeggiava o restava chiuso in villa. Lucio arrivava alla Punta del Diamante. Lucio e il suo studio di registra- zione sull’arcipelago pugliese. Sono tante le storie, tante le leggende che ancora continuano. Abbondano le no- tizie sulla sua casa venduta o data in affitto, sul gozzo che amava guardare, sui pescatori che aveva conosciuto.

Quel pesce che il mare protegge – di cui parla in questa canzone - probabilmente era frutto di una di queste conversazioni; e chissà quel «stanno uccidendo il mare», quella profezia che era intinta di libertà e non solo di natura. Anche «4 marzo 1943» fu pensata alle isole Tremiti. La canzone con cui Dalla partecipò al Festival di Sanremo nel 1971 classificandosi terzo e che fu poi seguita l’anno successivo da «Piazza Grande», dedicata ai senza- tetto. Oggi Lucio avrebbe scritto an- che dei migranti, degli «schiavi» del Terzo Millennio sui quali perpetriamo ingiustizie. Temi sui quali si è espres...

Estratto dell'articolo di Giorgio Dell'Arti per “il Fatto Quotidiano”

Scarpe. “Ho imparato ad allacciarmi le scarpe a ventun anni”.

 Cane. Gli si chiede che cosa, da bambino, pensasse di fare da grande. Sua risposta immediata: “Il cane”.

 Padrone. Ha avuto molti cani “tra cui uno di nome Piero che in quindici anni non mi ha mai riconosciuto come padrone”.

Scopo. “Lo scopo della mia vita? Ridare dignità alla figura altamente nobile ed esteticamente pura del maiale”.

Vitello. “Mi imbarazza la gente che mi guarda come un vitello a due teste…” [a Lina Coletti].

Pastore tedesco. Sulla rottura con Roversi (1977): “È come quando scopi con la Schiffer, a un certo punto lei non c’è più e al suo posto c’è un pastore tedesco”.

Frottole. Roberto Roversi, il poeta, aveva fatto lo stesso liceo di Pasolini. Lucio raccontava che l’insegnante d’italiano per poter dare i voti ai temi aveva inventato l’11 e il 12 e questa era quasi sicuramente una frottola, ma gentile. Come quando presentò a David Zard, che esitava a operarsi al fegato, un amico che lo tranquillizzò: “Io mi sono operato un mese fa, e ora guardami, sto benissimo”. Al funerale di Dalla, Zard ritrovò il tizio e gli chiese: come stai? “Bene, perché?”. Il fegato… “Quale fegato? Non sono mai stato operato. Era un trucco di Lucio, perché ti operassi tu” (Aldo Cazzullo).

 Borsa. “In Anidride solforosa gli feci cantare perfino le quotazioni di Borsa” [Roberto Roversi].

 Bastardi. “I veri poeti sono come i bastardi, tutti li accarezzano, ma nessuno li vuole in casa”.

 […]

Calzini. Il proprietario del night concepito per le signore bene di Torino che si sturba quando lui si presenta senza calzini. Subito, col lampostil, Lucio si dipinge i calzini neri sulle caviglie.

 Sanremo. Dopo il primo Sanremo, a un tratto stitico.

 Pigiama. Lucio Dalla, barba lunga e incolta, che durante le prove indossa i pantaloni del pigiama.

 Catarro. Il nome della sua barca era Catarro. Sul citofono della sua casa di Bologna c’era scritto: Domenico Sputo.

 Stronzetto. “Lo ‘Stronzetto dell’Etna’, un vino fatto vicino alla mia casa di Milo e che consumo esclusivamente alla mia tavola o sulla mia barca”.

 […]

Sosia. “Lucio raccontava pure di avere un sosia, che ogni tanto lo sostituiva ai concerti, cantando in playback, mentre lui andava a vedere la Virtus, la squadra di basket di cui era tifoso. Ero sicuro che fosse una frottola, fino a quando sotto casa in via Massimo d’Azeglio mi presentò un omino identico a lui, persino nel pelo: era il sosia. Nella vita faceva l’imbianchino, e Lucio raccontava – ma quella era quasi certamente un’altra frottola – che in cambio un giorno era andato a lavorare in cantiere al posto suo”. (Aldo Cazzullo).

 Sosia/2. “Intendiamoci, non è che cantassi e mi spacciassi per il Dalla vero ma durante le prove salivo sul palco e simulavo la sua presenza mentre lui arrivava solo il giorno dell’esibizione. Oppure se non poteva proprio andare partivo io. Il pubblico andava in visibilio, poi veniva avvisato che ero solo il sosia. Si divertivano lo stesso. Bastava una gag per buttarla in ridere. Allo Stadio Olimpico di Roma, Gigi D’Alessio ha fatto finta di essere sorpreso: tu bolognese tiri un pacco a me napoletano? Non esiste!” (Vito D’Eri, il sosia).

LUCIO DALLA

Miti. “Nella mia vita ho avuto solamente due miti, un po’ diversi tra di loro. Uno è stato Ezio Pascutti, ala sinistra del Bologna, l’unico – insieme a Sean Connery – al quale ho chiesto un autografo nella mia vita. L’altro, un po’ più da adulto, è stato Gino Paoli”.

 Berlusconi. “Conobbi Berlusconi nell’87. Mi invitò ad Arcore l’antivigilia di Natale. Mi accompagnava il mio produttore, ma fu lasciato fuori dalla porta. Berlusconi preferiva vedermi da solo. Pensai a una proposta di lavoro. Voleva solo conoscermi. Parlammo per ore, di musica, di me, del mondo dello spettacolo. Ha assorbito un poco della mia forza. Mi ha chiesto di insegnare alla scuola dei suoi manager, come poi ho fatto. E devo riconoscere che qualche anno prima il mio mito, l’unico politico di cui tengo la foto a casa, Enrico Berlinguer, non mi aveva fatto la stessa impressione. Mi portò da lui Walter Veltroni, insieme con Francesco De Gregori. Un gelo terribile. Qualche parola di tanto in tanto, qualche sguardo. Per spezzare il silenzio gli dissi che trovavo simpatico Cossiga. Sapevo che erano cugini alla lontana, pensavo di fargli piacere. Credo però che avessero litigato, perché ci rimase malissimo. Siccome non poteva finire così, Veltroni ci riprovò. Ci invitò a cena, e quella volta parlammo. Berlinguer si era preparato”.

Berlinguer. “Eravamo uno più imbarazzato dell’altro. Berlinguer chiese a De Gregori che differenza ci fosse tra una chitarra elettrica e una acustica. De Gregori rispose: una è elettrica, l’altra è acustica”.

 Berlinguer. “A me domandò chi avrebbe vinto il campionato di basket. E comunque un mito è un mito. Non deve essere simpatico”.

 Senna C’è una frase di Senna che mi piace molto: “Un vincitore è uguale a un vinto”.

 […]

 Finisce. “La terra finisce, comincia il cielo”.

Estratto dell'articolo di Ernesto Assante per “la Repubblica” l’1 marzo 2023.

Omosessuali si diventa, non si nasce. Ne è convinto Pupi Avati, che sembra saperne più della scienza che sul punto invece parla di un insieme di fattori ma certo esclude un determinismo così netto. Il regista invece pensa che sia possibile diventare omosessuali, a causa ad esempio di una cura ormonale errata. Ed è convinto che questo sia accaduto a Lucio Dalla, come spiega in una intervista pubblicata ieri sulla Stampa.

 Ora, a parte il fatto che Dalla non ha mai dichiarato di essere omosessuale e che, anzi, nelle pochissime occasioni in cui ha toccato l’argomento in interviste si è ben guardato dal darsi una definizione riguardo al proprio orientamento sessuale, è di fatto impossibile poter affermare che sia diventato gay a causa di una cura ormonale che la madre gli fece fare in giovane età. Cura che fece, è certo, e che gli causò una evidente ipertricosi e con buona probabilità gli procurò anche disagi psicologici. Ma non lo spinse a diventare gay.

È incredibile che nel 2023 ci sia qualcuno che consideri ancora l’omosessualità come una malattia, dalla quale è magari possibile liberarsi con delle cure appropriate. È incredibile che ci sia ancora chi crede che alla nascita siamo tutti eterosessuali e che poi influenze esterne, fisiche, psicologiche, culturali, ci spingano a diventare omosessuali, confermando quindi che si tratti di un’eccezione alla norma. 

 (...)

Estratto dell'articolo di Marinella Venegoni per “la Stampa” l’1 marzo 2023.

«Attendo ogni anno con terrore l'inizio di marzo, e l'arrivo ogni volta di scempiaggini che mi deprimono al massimo. Sono tra i pochi sopravvissuti, potrei raccontare qualsiasi cosa, tanto nessuno mi può smentire. Però basta». Paola Pallottino, autrice dell'iconico testo di Gesù Bambino che lanciò Lucio Dalla a Sanremo nel 1971, mette subito le mani avanti.

 (...)

 Cara Paola, lei conosce Pupi Avati, che ieri su La Stampa ha raccontato tanto di Lucio?

«No ma mi piacerebbe molto, io sono romana, quando sono arrivata a Bologna nel'64, ho conosciuto questa regione attraverso i suoi film. Sarà un bugiardo matricolato, come lo sono stati del resto Fellini e lo stesso Lucio Dalla. Sono artisti».

 Ma lei sapeva dell'ormai famoso beverone che la mamma Jole fece ingoiare al figlio, visto che tardava a crescere?

«Queste cose le raccontava lo stesso Lucio. Le cose stanno così: da piccolissimo, una pulce, faceva parte di una specie di un'associazione che faceva delle operette e ci sono foto che lo mostrano a 4-5 anni, mascherato da spagnolo, da orientale, da Ginger e Fred, con una damina sorella di un mio amico al quale ho dato le foto che girano per varie mostre, adesso a Napoli.

 Deve vedere che carino, che faccino meraviglioso il Lucio pulce: sembrava nato sulle tavole del palcoscenico. Poi successe che gli altri della compagnia crescevano, e anche la damina, ma lui no. Così la Jole pensò bene di dargli questo bibitone che non lo fece crescere di un millimetro ma in compenso lo coprì di pelo».

Questo ce lo ricordiamo tutti...

«Diciamo che i danni fatti da questi ormoni fanno parte della leggenda. Io l'ho sempre visto ignudo perché girava per casa in perizoma, nudo ma coperto di pelo che sembrava una scimmietta, quando andavo da lui per lavorare insieme: ma era sempre della stessa altezza. Ahimé gli ormoni della Jole non ebbero effetto».

Estratto dell'articolo di Luca Beatrice per “Libero quotidiano” l’1 marzo 2023.

Tra Pupi Avati e Lucio Dalla il rapporto non è mai stato troppo facile per vecchie ruggini della giovinezza e una vera e propria pace non arrivò mai. Lo ha raccontato diverse volte il regista, tutto nasce da quel sentimento dell’invidia che più umano non si può. A fine anni ’50 Avati fonda a Bologna una jazz band dove suona il clarinetto, almeno fin quando non arriva il giovane Lucio, autodidatta e con un orecchio musicale fuori dal comune, che soppianta dal gruppo il più anziano collega.

 Non gliela perdonò mai e una volta, in tournée a Barcellona, Avati pensò seriamente di lanciarlo giù dalla Sagrada Familia. 

 (...)

 Il filosofo Stefano Bonaga, compagno di scuola e amico d’infanzia, sostiene addirittura che Lucio fosse figlio di Padre Pio, di cui la mamma era fervente devota, facendone notare la somiglianza soprattutto nelle mani. Ora secondo Avati sarebbe da imputare agli ormoni il repentino cambio di gusti sessuali nella giovinezza. Certo, fosse così facile avremmo le farmacie prese d’assalto dai fluidi contemporanei.

Estratto dell’articolo di Fulvia Caprara per “la Stampa” l’1 marzo 2023.

Il primo pensiero è semplice, stringato: «Lucio? Il talento allo stato puro». Poi ne vengono tanti altri, mescolati alle memorie, alle verità, alle confessioni: «Tutte le persone che lo hanno conosciuto gli hanno voluto bene, non ho mai sentito nessuno parlar male di lui, e questa, in un mondo in cui non si vede l'ora di poterlo fare, è la cosa più bella che si può dire». Il 4 marzo Lucio Dalla avrebbe compiuto 80 anni e, in questi giorni di omaggi e celebrazioni, l'amico Pupi Avati, di pochi anni più grande, lo ricorda con il nitore dei ricordi lontani, quelli più lucidi, più sinceri, proprio perché parte di un altro tempo.

 Qual è la prima immagine di Dalla?

«Lo rivedo bambino, a 3-4 anni, sul palcoscenico dei teatri di Bologna dove era la star, cantava, ballava, zampettava, chiudeva lo show in un tripudio di successo, frac e il cilindro in testa. Sui manifesti dello spettacolo parrocchiale della domenica il nome più grande era il suo. Era l'attrazione della serata, un bambino bellissimo, travolgente, avremmo voluto essere tutti come lui e, infatti, per tutta la mia vita, ho desiderato essere Lucio».

Una specie di bambino prodigio?

«C'è uno studio americano secondo cui i bambini prodigio nascono con una competenza che non è spiegata dall'applicazione su un determinato tema, ma è insita, in sé, e ha a che fare con la telepatia.

 Il bambino prodigio assorbe il sapere del suo tempo, ci ho pensato quando ho fatto il film su Mozart da piccolo. A 14 anni Mozart aveva memorizzato una partitura del "Miserere" e l'aveva trascritta. Lucio aveva in sé qualcosa di misterioso e sacrale, la sua era un'intelligenza speciale, era una sorta di tuttologo, capiva di tutto, quando vedeva i miei film scopriva cose che io stesso non sapevo di averci messo».

 In che modo è cresciuto Lucio Dalla?

«La parabola di Lucio è stata come un viaggio siderale. Dopo la stagione d'oro dei teatri parrocchiali ha avuto una penalizzazione fisica esplicita, che ha gettato nel panico la madre.

Lucio non cresceva, la mamma gli fece fare una cura a base di ormoni che in qualche modo lo ha compromesso. Non solo non è cresciuto, ma a un certo punto Lucio è diventato ispido, peloso. Non so se questo mutamento abbia avuto riflessi in ambito sessuale».

 In che senso?

«A Lucio, nel periodo in cui suonavamo insieme, piacevano moltissimo le ragazze, era un assatanato delle donne, era innamorato pazzo della sorella dell'impresario Cremonini, l'attrazione per il mondo femminile era in lui presente e inequivocabile. Poi, a un certo punto della sua vita, qualcosa cambiò.

 È una storia che ho in qualche modo trasferito nel mio film "Regalo di Natale", ho raccontato il cambiamento di sessualità di uno degli amici. Allora era diverso, non è come oggi, certe cose si vivevano con impaccio e imbarazzo. Lucio chiuse tutti i rapporti con le persone del prima, credo anche un po' per quella ragione.

È un problema che tutti noi amici abbiamo vissuto, io di sicuro. Con Lucio, in tutta la mia vita, ho parlato di qualunque cosa, tranne che di questo aspetto. Mai».

 Quando vi siete persi di vista?

«Il mio Lucio si chiude una sera in uno dei locali più eleganti di Bologna, si chiamava "Wisky a gogò". Ci esibivamo insieme, a un certo punto ci dicono che in sala c'è Gino Paoli, allora una grande star, cerchiamo di suonare nel miglior modo possibile. Alla fine arriva un cameriere e ci dice che Paoli voleva parlare a Lucio. Quella sera è nato il Lucio cantante. Con noi, fino ad allora, faceva "scat", quel virtuosismo jazz in cui si canta imitando gli strumenti musicali, Paoli ne era rimasto colpito, gli fece incidere il primo disco. Noi amici, da quella sera, lo abbiamo perso».

 Quando vi siete rivisti?

«L'ho chiamato per recitare nel mio film "La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone". Volevo dimostragli che anche io, nella vita, avevo fatto qualcosa. Lucio è sempre stato di un'enorme generosità professionale, non economica… da ragazzi, a Bologna, lo chiamavamo tutti "il ragno" perché non aveva mai offerto un caffè a nessuno, era di una tirchieria pazzesca».

 (…)

Lucio e l'Italia: viaggio tra note, strade e piazze secondo Dalla. Lucio Dalla ha cantato senza luoghi comuni le bellezze d'Italia: oltre a Bologna, i suoi brani parlano di Sorrento, Milano, Roma e Torino. Angela Leucci l’1 Marzo 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 La Sorrento di Caruso

 Roma ne La sera dei miracoli

 Dalla Calabria con Un’auto targata “To”

 Milano di lacrime e nostalgia

Lucio Dalla ha composto e cantato moltissimi meravigliosi brani nel corso della sua lunga carriera. E alcuni di questi brani contengono delle piccole curiosità sul territorio italiano, talvolta in chiave autobiografica ma sublimata dall’arte, tra l'altro legata all’osservazione dell’esperienza collettiva. Come il santuario della Madonna di San Luca, che è la prima cosa che i bolognesi vedono quando tornano a casa, e il fatto che “nel centro di Bologna non si perde neanche un bambino”. Tuttavia Dalla non ha raccontato nelle strofe solo la sua Bologna, ma anche molti altri luoghi.

La Sorrento di Caruso

La Campania è stata una regione importante per Dalla. Basti pensare al fatto che il video di Canzone è girato nel centro storico di Napoli, tra le strade antiche e labirintiche che scorrono e si sciolgono rivelandosi nella loro autenticità. “Ho girato il video a Napoli - disse l’artista una volta - perché è la città che sento più vicina a me”.

Un po’ più a sud di Napoli si trova invece Sorrento, cittadina che ispirò Dalla a scrivere Caruso, brano che parla del tenore Enrico Caruso. “Vide le luci in mezzo al mare / Pensò alle notti là in America / Ma erano solo le lampare / Nella bianca scia di un’elica”: in questo punto la canzone fa riferimento al fatto che tradizionalmente la pesca rappresenta un capitolo importante dell’economia campana. Pesca che ancora oggi si svolge qui con l’aiuto delle lampare, delle lampade molto luminose e grandi che vengono appese alle barche impegnate nella pesca notturna di acciughe, sarde e sgombri.

Roma ne La sera dei miracoli

Scrive Dalla ne La sera dei miracoli: “Si muove la città / Con le piazze e i giardini e la gente nei bar / Galleggia e se ne va / Anche senza corrente camminerà”. La Roma che il cantautore descrive è in realtà la porzione romanticissima di Trastevere. Si tratta del quartiere appartiene al nucleo storicamente più antico della città imperiale - tanto che diverse personalità della politica e della cultura vi costruirono qui le loro ville - che si trasformò durante il Medioevo, assumendo la tipica pianta urbana più caotica e meno ordinata (ma molto più affascinante e suggestiva) del precedente assetto.

Dalla Calabria con Un’auto targata “To”

Nel 1981 Dalla scrisse Un’auto targata “To”, un brano che parlava delle migrazioni interne: si parlava di persone che dalla Calabria si spostavano nella Torino industriale in cerca di lavoro e di una vita di benessere. Ma nella triste ballata di un tempo e di un viaggio assai lontani - nel 1981 era molto più complesso spostarsi rispetto a oggi - trova spazio anche la narrazione della bellezza del capoluogo piemontese: “Questo luogo del cielo è chiamato Torino / lunghi e grandi viali, splendidi monti di neve / sul cristallo verde del Valentino / illuminate tutte le sponde del Po”.

Il Valentino con il suo cristallo verde è il Parco del Valentino, che dal XIX secolo è parco pubblico. La sua storia è interessante: il nome sembra provenga da una cappella intitolata al santo degli innamorati oggi non più esistente che nel tempo ha subito differenti modifiche da parte delle famiglie gentilizie che vi abitarono. All’interno vi sono diversi monumenti, come la Fontana dei Dodici Mesi in stile rococò, la statua a Massimo D’Azeglio e i busti per il politico Cesare Battisti e il poeta Nino Costa.

Milano di lacrime e nostalgia

Milano è in un omonimo brano del 1979, in cui si citano le banche, i film poliziotteschi che all’occhio di un osservatore-turista erano così lontani dalla realtà, il cosmopolitismo della metropoli e la passione calcistica. “Milano tre milioni respiro di un polmone solo / Che come un uccello gli sparano ma anche riprende il volo / Milano lontana dal cielo / Tra la vita e la morte continua il tuo mistero”, scrive Dalla, come hanno fatto molti altri colleghi da Enzo Jannacci ad Alberto Fortis. E mentre Dalla scrive, da osservatore esterno, attribuisce a Milano il fascino che solo i suoi abitanti riescono a vedere: quello di una città in cui tutto è possibile, in cui i sentimenti dell’uno diventano i sentimenti della collettività, in cui, anche se la solitudine esiste, mai nessuno è solo per davvero.

DAGONEWS il 27 dicembre 2022.

Whitney Houston stava combattendo con le sue dipendenze proprio prima della sua morte.

Il produttore discografico 90enne Clive Davis, che ha firmato per la prima volta un contratto con la cantante quando aveva 20 anni e ha lavorato con lei per tutta la sua carriera, dice a “Page Six” di essere rimasto scioccato quando ha appreso della sua morte nel 2012. 

«Ero con lei 48 ore prima della sua morte – ha detto Davis - Non mi è mai venuto in mente che sarebbe morta due giorni dopo. Mi fece vedere quanto si stava impegnando per restare pulita. Mi stava mostrando cosa aveva fatto in riabilitazione. Come aveva smesso di fumare, come si era schiarita la gola dalla nicotina. E voleva iniziare ad andare in studio. Non avrei mai pensato 48 ore prima della sua morte, che ci sarebbe stata quell'orrenda, prematura fine. In quel periodo stava facendo un coraggioso tentativo di rinunciare alla droga e rimettersi in pista».

La cantante di "I Will Always Love You" è stata trovata priva di sensi in una suite del Beverly Hilton, immersa nella vasca da bagno l'11 febbraio 2012. I paramedici hanno eseguito la rianimazione, ma ormai era già morta. L'ufficio del medico legale della contea di Los Angeles ha riferito che la sua morte è stata accidentale e causata dall'annegamento e dagli "effetti della cardiopatia aterosclerotica e dell'uso di cocaina". I risultati tossicologici hanno trovato altri farmaci nel suo sistema tra cui Benadryl, Xanax e cannabis.

Il fondatore di Arista Records ricorda ancora quando Houston fece il provino per lui cantando la canzone "The Greatest Love of All".

«Sapevo a quell'audizione che era un cantante unica - ha detto Davis che ha prodotto il biopic sulla cantante – Il film risponde a tutte le domande del pubblico sulla sua sessualità, il modo in cui ha reagito a qualsiasi insinuazione che non stesse cantando abbastanza in “modo nero”, l'impatto delle droghe».

Houston, che ha sposato e divorziato da Bobby Brown, è stata a lungo perseguitata dalle voci secondo cui aveva una relazione con l'assistente Robyn Crawford. «Nel film è molto chiaro che ha avuto una relazione con Robyn da adolescente, e poi lei, da sola, ha detto: 'Questo non fa per me', ha spiegato la Davis. Voleva dei bambini, non voleva una guerra con ii genitori e non voleva andare contro la sua religione. Era chiaramente attratta dagli uomini ed era eterosessuale. Non era frustrata sessualmente con Bobby. Erano entrambi in una relazione autodistruttiva, ma lei non era frustrata».

 I wanna dance: Whitney Houston è una leggenda destinata all’immortalità. Massimo Carugno, Avvocato e scrittore, su Il Riformista il 27 Dicembre 2022

A poco più di dieci anni dalla sua tragica scomparsa (11 febbraio 2012) Anthony Mac Carten, dopo il grande successo di Bohemian Rapsody, ci riprova con un’altra grandissima della musica moderna, Whitney Houston.

Voluto soprattutto dalla cognata Pat Houston, attuale presidente della fondazione che gestisce il patrimonio della cantante, e da Clive Davis il suo discografico, “I wanna dance with somebody. Whitney una voce diventata leggenda” è il film sulla vita controversa della grande cantante statunitense uscito nelle sale da appena quattro giorni. La trama ripercorre la straordinaria carriera di Whitney Houston che, a differenza di altri artisti a lei simili e contemporanei, è stata particolare per la travolgente rapidità con la quale ha letteralmente bruciato le tappe.

In soli quattro anni dalla firma del contratto, con i suoi primi due album “Whitney Houston” (1985) e “Whitney” (1987), la cantante polverizzò tutti i record di vendite sino ad allora esistiti e ancora oggi rimasti imbattuti. Aveva appena 23 anni. E su questo aspetto il film non centellina proprio nulla supportato da una bravissima Naomi Ackie, che seppur fisicamente molto diversa dalla cantante ne fa una interpretazione straordinaria rendendo allo spettatore la sensazione di essere di fronte a una Whitney reale, e da una colonna sonora basata esclusivamente sui brani originali della Houston.  Il risultato finale è che, per lo spettatore, è una grande goduria.

Tra le righe del racconto di questa incredibile carrellata di successi l’autore non lesina le pieghe intime e a volte dolorose della vita di Whitney a cominciare dai gravi dissapori tra i suoi genitori, che rimbalzarono con violenza nella sua adolescenza, e passando per la spregiudicatezza di un padre-manager che, alla faccia dell’affetto paterno, vide nel talento della figlia il modo per fare, e spendere, soldi in proporzioni inimmaginabili. E non cerca neanche di tenere nell’ombra la promiscuità del rapporto con l’amica-segretaria Robin Crawford e la sincera e fedele presenza di Clive Davis, interpretato da un bravissimo Stanley Tucci,  che non fu solo il suo discografico o un mentore e  neanche le fu solo un amico, ma fu l’unica persona che rimase sempre al suo fianco, in ogni momento e sino all’ultimo giorno, mostrando di credere in lei come solo un padre sa fare.

Qualche sconto l’autore lo fa, invece, sulla parte oscura della vita di Whitney, gli ultimi anni, il disastroso matrimonio con un autentico scellerato di cui traspare l’invidia violenta per il talento e i successi della moglie, le droghe, il baratro psicologico dal quale riesce a riemergere proprio aggrappandosi alla mano tesa di Davis.

Tutte vicende che nel film non sono taciute e neanche tenute nascoste ma sono raccontate con delicatezza nel tentativo di non offuscare il grande talento dell’artista e con l’intento di narrare non una donna dissoluta, preda di vizi e perversioni, ma una persona fragile che pensò di trovare nelle forme e con i mezzi più sbagliati il rimedio a dei vuoti, iniziati con l’adolescenza e culminati con un matrimonio fallito, derivati dalla mancanza di una famiglia che fosse lo scrigno dell’amore ma anche della fiducia tra le persone.

Ecco il motivo per cui il film non termina con le scene dei suoi ultimi istanti di vita ma con la rievocazione di un evento meno noto dei suoi tanti successi, riproposti nel film, ma che ne racconta il suo straordinario talento: la interpretazione, alla premiazione degli American Music Awards del 1994, di un medley arrangiato con “Porgy, And I Am Telling You I’m Not Going e I have nothing” in nove minuti di note difficilissime arricchite da una serie di acuti talmente lunghi e  ripetuti  da sfiancare un campione di immersioni in apnea.

Ed è sicuramente per lo stesso motivo che nel corpo del film l’autore pone un delicato ma significativo accento su un altro evento della vita artistica di Whitney, probabilmente sfuggito ai più, ma indicativo della sua bravura.

Sono sempre gli stessi anni, quelli anche dell’uscita del film Bodyguard che la rese una stella planetaria. A Tampa in Florida si gioca il Superbowl e, come da tradizione, l’inno nazionale viene cantato dall’artista in auge nel momento. Il National anthem americano è un brano difficilissimo perché il ritornello sale di 2 ottave e l’acuto finale è un “fa5” che pochissime cantanti liriche sono riuscite a toccare.  In quella occasione la interpretazione di Whitney Houston fu talmente strepitosa che ancora oggi, nelle tantissime classifiche delle migliori performance dell’inno che gli americani amano tanto fare, la edizione di Tampa cantata da Whitney continua a essere annoverata come la più straordinaria di sempre alla faccia dei tantissimi celebri talenti che su quel ritornello e su quella celebre nota si sono incredibilmente abbarbicati e a volte letteralmente frantumati.

E se nel titolo era racchiusa la mission che gli autori del film si erano proposti non c’è che dire che lo scopo è stato raggiunto.

Alzandosi dalla poltrona, mentre scorrono i titoli di coda e le note di I will always live you accompagnano gli spettatori verso l’uscita, le emozioni che restano nella mente e accarezzano il cuore sono i ricordi delle imprese musicali di una dolce ma fragile donna che come una rarissima perla nera è diventata oggi, nella storia della musica mondiale, una leggenda destinata all’immortalità.

Estratto dell'articolo di Arianna Finos per “la Repubblica” il 15 Dicembre 2022.

(…) arriva al cinema un'altra icona della musica, una vita al ritmo della pop dance, un vissuto non meno drammatico. 

Whitney Houston voleva ballare con qualcuno che l'amava ed è morta sola nella vasca da bagno del Beverly Hilton Hotel dieci anni fa, a 48 anni. Il titolo italiano di I wanna dance with somebody, film di Kasi Lemmons in sala il 22 dicembre (targato Sony, distribuito da Warner) è Whitney una voce diventata leggenda. Ad incarnare la cantante è la britannica Naomi Ackie, attrice e cantante anche se - a differenza di Andra Day e Jennifer Hudson - nel film ci sono le esibizioni originali della Houston.

(…) 

L'ascesa e le tappe più importanti della carriera sono scandite dai successi, da The greatest love of all, a I wanna dance with somebody, dall'inno americano cantato a Super Bowl del 1991 a I will always love you, colonna sonora di Guardia del corpo, il film con Kevin Costner. L'amicizia con Rubyn, che diverrà sua assistente, l'incontro con il marito Bobby Brown, la nascita dell'amata figlia Bobbi Kristina (che sarebbe morta nel 2015 in circostanze simili a quelle della madre), il declino, l'abuso di droga, i danni alla voce. 

(…) Impossibile non ripensare al doc di Kevin Macdonald del 2018, che affrontava il passato oscuro di Whitney, le molestie subite dalla zia Dee Dee Warwick: «Penso di averlo interiorizzato, quel lato - spiega Naomi - Whitney, consapevole o meno, adattava la sua immagine, era al servizio di chi le era intorno e del pubblico globale. Cercava di affrontare le proprie difficoltà, stando attenta alle reazioni dei suoi cari». 

Per la regista, questo «è un film celebrativo del talento di Whitney. Volevamo, senza essere irrispettosi, raccontare la storia dell'essere umano dietro l'icona. Una donna con difficoltà profonde in cui ci si può identificare».

Una donna padrona delle proprie scelte: dalle canzoni che esprimessero il sentimento del momento, alla svolta R&B per disinnescare il pregiudizio "troppo bianca", dal rapporto distruttivo con Bobby Brown all'uso di droga (in una scena dice a Davis che alcune delle performance che lui ama di più sono state aiutati della droga, «per cantare con gli dei hai bisogno di una scala»).

«Ho parlato con molti che la conoscevano e nessuno la ricordava vittima. Era una donna forte, ha saputo controllare la sua carriera e il tipo di musica che faceva è diventata negli anni sempre più autentica: c'è bellezza e trionfo in questo». Il film dedica spazio al rapporto con l'amica e innamorata Rubyn: «Chissà cosa sarebbe successo se Whitney non fosse stata messa sotto pressione dall'esterno, dall'immagine da fidanzata d'America che sentiva di dover mantenere. Robyn era dalla sua parte, teneva a lei. Ma volevamo anche ritrarre la forza e la bellezza della loro amicizia, lunga una vita».

Whitney Houston, dieci anni fa l’addio alla diva: il racconto dei suoi ultimi giorni. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera l'11 febbraio 2022.

I retroscena sulla morte della cantante, tra le voci più influenti del panorama musicale, scomparsa tragicamente l’11 febbraio del 2012 a 48 anni

Whitney e il suo inferno personale

«Il mio più grande demone sono io. O sono il mio miglior amico o il mio peggior nemico». L'11 febbraio del 2012 Whitney Houston veniva trovata morta in un hotel di Beverly Hills a 48 anni, ultimo atto di un inferno personale durato tutta una vita. L’artista, tra le voci più influenti nella discografia («How will I know», «I wanna dance with somebody» e «I will always love you» sono solo alcune delle sue hit più amate), ha venduto 190 milioni di copie in tutto il mondo, è entrata nel Guinness dei primati ed è stata una delle donne più premiate della storia della musica. Quando scendeva dal palco però trovava sempre i suoi problemi privati ad attenderla: la dipendenza da droga e alcol, il matrimonio turbolento con Bobby Brown (da cui ha divorziato nel 2007), senza contare gli strascichi psicologici del suo passato (gli abusi sessuali subiti quando era ancora una bambina). E non ha trovato pace nemmeno nei suoi ultimi giorni.

Il gala di Clive Davis

Whitney era arrivata al Beverly Hilton Hotel, che sorge sulle colline di Hollywood, il 9 febbraio. Insieme a lei le amiche (e colleghe cantanti) Brandy e Monica, la figlia Bobbi Kristina, i suoi collaboratori e Ray J, il suo fidanzato: erano tutti in città per partecipare al gala (che precede la serata di assegnazione dei Grammy) organizzato ogni anno dal discografico Clive Davis, proprio colui che tanti anni prima aveva scoperto l’incredibile talento della diva. Houston trascorre la giornata tra qualche tuffo nella piscina dell’albergo (lo racconta lei stessa quando interrompe per un saluto l'intervista video che Brandy e Monica stavano rilasciando a E! insieme a Clive) e gli incontri con la stampa.

Una serata movimentata

La sera del 9 febbraio Whitney partecipa ad una serata pre-Grammy organizzata da un’altra collega, Kelly Price (il «Kelly Price & Friends Unplugged: For the Love of R&B»), al nightclub Tru Hollywood: è annunciata come special guest, e sale sul palco con Kelly per duettare su alcuni inni gospel. Tutti però notano come, durante quella che sarebbe stata la sua ultima performance pubblica, l’artista non sia al massimo della forma, fisicamente e a livello vocale (la sua voce è incerta). Alla festa Whitney si imbatte anche nell'ex star di X-Factor, Stacy Francis, e tutto in un primo momento sembra filare liscio, fino a quando le due donne iniziano a discutere. In seguito Houston, mentre lascia il club, viene fotografata con aria stravolta (le immagini dei graffi che si notano sul suo braccio e delle tracce di sangue visibili lungo la sua gamba fanno il giro del mondo). «Sono profondamente dispiaciuta per gli eventi che hanno portato all'incomprensione di giovedì, ma rispetto e amo Whitney più di quanto posso dire. Questo per me è un momento triste. Amavo Whitney Houston con tutto il cuore. È stata un'incredibile influenza musicale», scriverà su Twitter Francis il 12 febbraio.

Le ultime ore

Sabato 11 febbraio, dopo aver trascorso la notte precedente al bar dell’hotel a bere con un gruppo di amici (come hanno riferito alcuni testimoni), l’artista si sveglia molto tardi. Nel primo pomeriggio Whitney e sua cugina, Dionne Warwick, si sentono telefonicamente per assicurarsi di essere sedute allo stesso tavolo alla festa di Davis e intorno alle 15.15 Houston chiama sua madre Cissy (le dice che le vuole bene e che sarebbe andata a trovarla al suo ritorno da Los Angeles). Sono i suoi ultimi istanti: gli eventi precipiteranno nel giro di pochi minuti. L’assistente personale Mary Jones è l’ultima persona a vedere Whitney in vita: la lascia sola giusto il tempo di andare a comprarle - su sua richiesta - dei cupcake. Al suo ritorno, alle 15.43, trova la cantante nella vasca da bagno della suite, stesa a testa in giù nell’acqua, e chiama subito la sicurezza. Anche la polizia, che già si trovava in hotel per via dell’evento di Davis, arriva nella stanza, ma tutti i tentativi di rianimazione sono vani: Whitney Houston viene dichiarata morta alle 15.55. Il medico legale rivelerà in seguito che il decesso è stato causato dall’annegamento accidentale e «dagli effetti di una cardiopatia aterosclerotica e dall'uso di cocaina (ne aveva assunta anche poco prima di morire, ndr.)». Nel suo sangue - come rivelato dagli esami tossicologici - un mix di farmaci: difenidramina, alprazolam, cannabis e ciclobenzaprina.

Un tragico destino

Nei giorni successivi alla scomparsa della madre Bobbi Kristina Brown viene ricoverata al Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles, sopraffatta dal dolore. Tre anni dopo seguirà il suo tragico destino: il 31 gennaio 2015, a soli 22 anni, quello che nel frattempo è diventato il suo fidanzato - il «fratellastro» Nick Gordon, che era andato a vivere nella famiglia Houston quando aveva 12 anni - la ritrova priva di conoscenza, a testa in giù - proprio come Whitney - nella vasca da bagno della loro villa ad Atlanta. Ha in corpo un cocktail di alcol, droga e farmaci, ma è ancora viva e viene subito portata in ospedale. Rimane in coma per sei mesi: il 6 luglio - senza essersi mai ripresa - muore. Gordon, che fa uso di stupefacenti, viene accusato dalla famiglia di aver fornito le sostanze alla sua compagna, e di aver così inconsapevolmente causato l’incidente che ha portato Bobbi Kristina alla morte. Gli Houston e Bobby Brown gli fanno causa, la vincono, ma Nick - che non si è presentato in tribunale - non pagherà mai il risarcimento di 36 milioni di dollari: il 1°gennaio del 2020 viene stroncato da un’overdose di eroina.

Estratto dell'articolo di Massimo Basile per “la Repubblica” il 9 gennaio 2023. 

[…] Un nuovo libro racconta una parte della storia lunga cinque decadi di Lou Reed, uno dei più grandi e sfaccettati interpreti della scena rock americana degli anni Sessanta e Settanta, […] diventato esponente dell'underground musicale, poi star mondiale e infine filosofo esistenziale, fino alla morte, avvenuta il 27 ottobre del 2013, a 71 anni.

 Ma in The art of the straight line: my Tai Chi , in uscita il 14 marzo per HarperOne, vengono raccolti gli scritti del musicista incentrati sulla pratica orientale del Tai Chi, arte marziale e della meditazione in movimento.

La prefazione è della donna che è stata la sua ultima compagna e moglie, la compositrice e musicista d'avanguardia Laurie Anderson. Reed ha praticato il Tai Chi dagli anni Ottanta, allievo del maestro Ren Guang-Yi, parlato di questa arte marziale con artisti, amici, praticanti come Iggy Pop, Tony Visconti e Julian Schnabel. […] Immaginare Lou Reed in questa forma poteva sembrare impossibile alla fine degli anni Sessanta, quando il leader dei Velvet Underground, […] imperversava sulla scena metropolitana con la sua musica e le sue storie da maledetto, legato agli stupefacenti, il volto scavato da solchi.

«Ho studiato l'arte marziale per venticinque anni - raccontò una volta - i primi quindici anni in preparazione per le mie avventure con il maestro, Ren Guang-Yi. Non voglio farla troppo sdolcinata qui ma qui ho trovato più vita che un disco d'oro o nella gloria». […] Anderson, che è stata con Lou per ventuno anni, ha raccontato di come il maestro avesse creato per l'artista una serie di movimenti limitati nello spazio, in modo da praticare nelle stanze d'hotel durante le lunghe tournée. La chiamarono la "forma dei 21 movimenti". […]

(ANSA il 5 gennaio 2023) "Dieci anni per me sono pochi. E' come se fosse andata via ieri. Perché non solo era un'artista di grandissimo talento, ma era proprio una donna, una persona bravissima. Vorrei fosse ricordata di più. È stata una vera eccellenza italiana". Sospira un attimo Renzo Arbore a raccontare all'ANSA Mariangela Melato, l'amore di una vita, ma anche "la più grande attrice del teatro italiano di sempre", scomparsa l'11 gennaio 2013, proprio dieci anni fa.

Per l'occasione, Rai Storia riproporrà Mariangela!, il documentario realizzato pochi mesi dopo la sua scomparsa da Fabrizio Corallo, con anche Arbore tra i tanti interventi (l'11 gennaio alle 21.20). Nata a Milano il 19 settembre del 1941, bellissima con quegli occhi azzurri e la voce inconfondibile, la Melato ha regalato all'Italia una galleria di personaggi, in palcoscenico come in tv e al cinema, che sembrano interpretati oggi. La storia con Arbore, che la diresse anche ne Il Pap'occhio, era iniziata all'alba degli anni '70. "Un amore che è durato tutta la vita - racconta lui - anche se abbiamo avuto altre storie, perché non era solo amore, ma stima, amicizia. Con lei ho scoperto il teatro con la T maiuscola, quello dei grandi registi, dell'avanguardia.

 Ricordo l'Orestea diretta da Ronconi: sei ore filate di spettacolo, in cui Mariangela recitava coperta di bende. Uno sforzo incredibile. Quando uscì in scena a un certo punto, mi riconobbe in platea appeso a una colonna per la disperazione - ride - Ma ha fatto veramente di tutto", prosegue citando Caro Michele di Mario Monicelli, Mimì metallurgico ferito nell'onore e Travolti da un insolito destino di Lina Wertmuller, Filumena Marturano di Eduardo. Ma la lista dei "grandi" con cui ha lavorato, dalla prosa al musical, è davvero infinita, da Luchino Visconti ad Elio Petri, Giorgio Strehler, Pupi Avati, Giuseppe Bertolucci, Garinei e Giovannini, Vittorio De Sica, Luigi Comencini.

Mariangela Melato e la sua storia d’amore con Renzo Arbore, durata tutta una vita. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera l’11 Gennaio 2023.

Dieci anni fa - il 11 gennaio 2013 - ci lasciava l’attrice, indimenticata interprete di «Travolti da un insolito destino…» e «La classe operaia va in paradiso»

«Una donna piena di grazia»

L’11 gennaio 2013 il mondo del cinema e del teatro italiano diceva addio alla grande Mariangela Melato. «Una donna piena di grazia», disse di lei la poetessa Alda Merini, milanese come l’attrice, nata e cresciuta in via Montebello (al civico 7). Una vita, la sua, vissuta in piena libertà fino alla fine, prestando il volto - sul palco e sul grande schermo - a tante donne forti e indipendenti, dalla ricca snob di «Travolti da un insolito destino…» a Lidia in «La classe operaia va in paradiso», da Filumena Marturano nel capolavoro di Eduardo De Filippo a Nora in «Casa di bambola». «Credo proprio che le donne dovrebbero imparare a vivere anche senza gli uomini. Io credo che una parte della vita la si deve vivere con noi stessi. Vivere è anche diventare padroni della propria vita, vuol dire amare se stessi, amare le persone che si incontrano, amare il lavoro che si fa e soprattutto amare la propria solitudine, imparare a conoscerla, non averne paura, piacersi». Figlia di un vigile urbano e di una sarta, da giovanissima studiò pittura all'Accademia di Brera, disegnando manifesti e lavorando come vetrinista alla Rinascente per pagarsi i corsi di recitazione di Esperia Sperani.

L’incontro con Renzo Arbore

«Ironica, indipendente, sfuggiva alle regole dello spettacolo. In tanti anni non l'ho mai sentita cadere in piccinerie, invidie. Era curiosa di tutto e con una gran passione per l'arte e gli artisti. Non a caso era molto amata dai colleghi». Così l’ha descritta in occasione del decennale della morte Renzo Arbore, l’amore più grande di Mariangela Melato, «la più grande attrice del teatro italiano di sempre». La loro storia, iniziata negli anni Settanta, è andata avanti per più di quarant’anni. I due si incontrarono per la prima volta a una premiazione dei Nastri d'argento. «La invitai a una festa a casa di Agostina Belli, l'attrice - ha ricordato Arbore all'ANSA -. C'era anche Lucio Battisti che teneva a farci ascoltare una canzone che ancora non aveva inciso. Mariangela ed io, eravamo entrambi reduci da storie malamente finite e quando lui intonò 'io vorrei, non vorrei ma se vuoi…' ecco, lì scattò un'intesa e ci innamorammo. Un amore che è durato tutta la vita, anche se abbiamo avuto altre storie, perché non era solo amore, ma stima, amicizia».

Una storia d’amore sorridente e straordinaria

In seguito a quella serata magica sulle note di Lucio Battisti Renzo Arbore e Mariangela Melato iniziarono a frequentarsi: «Nacque un amore indimenticabile, fortissimo, rispettoso, molto sorridente - ha ricordato Arbore al Corriere -. Abbiamo riso tanto. Sì, una storia d’amore sorridente e straordinaria, senza mai una lite. Mai. Io rispettavo le sue opinioni e lei le mie. Non parlavamo per essere polemici. Io riconoscevo le sue ragioni, lei le mie, ma più spesso ero io a riconoscere le sue, perché le donne sono più mature in quella stagione della vita . Io non ero maschilista, ma mi portavo dietro un po’ di retaggio “l’uomo è sempre uomo”, ma con lei quell’aspetto era scomparso».

Sul set de «Il pap'occhio»

Grazie a Mariangela Melato Renzo Arbore iniziò anche ad avvicinarsi al cinema. Nel 1980 si cimentò con la sua prima regia cinematografica: il film era «Il pap'occhio» e Melato fece una piccola parte. Interpretò la provinanda che Arbore scarta, a suo dire, per la presenza sciatta e perché figlia di un certo Iorio e quindi «raccomandata» (in realtà l'attrice ha appena recitato un brano tratto da «La figlia di Iorio» di Gabriele D'Annunzio). Un cameo memorabile, anche per lo schiaffo - improvvisato ma vero - che l’attrice rifilò al regista.

Quel Capodanno da soli

Sono due in particolare i momenti scolpiti nella memoria di Arbore legati alla storia d’amore con Mariangela Melato: «La festa dei suoi 40 anni e un capodanno - ricordava lo scorso anno al Corriere -. Avevamo tantissimi inviti a tante feste. Abbiamo dato buca a tutti e abbiamo passato quel Capodanno a casa, a Roma, con cotechino e lenticchie, solo noi due. Eravamo troppo innamorati».

Perché si sono lasciati

Nella stessa intervista al Corriere Arbore ha poi spiegato perché il rapporto, negli anni Ottanta, si è interrotto: «Mariangela, nei primi anni Ottanta, è andata negli Usa a tentare la carta americana. Allora non c’erano i telefonini e ci siamo distratti. E ce l’eravamo anche detto: “Attenzione che ci distraiamo”... Lei ha avuto incontri americani, io da solo a Roma mi sono distratto e così quando dopo quasi due anni è tornata ci siamo accorti che non ci divertivamo più insieme. Tacitamente ci siamo lasciati andare, senza litigare. È stato un allontanamento dolce, senza rancori». Renzo e Mariangela però sono sempre rimasti legati: «Più adulti, si è riformata la coppia anche perché l’affetto era rimasto integro anche nel periodo di lontananza».

Di nuovo insieme

Una volta tornati insieme Mariangela Melato e Renzo Arbore non si sono lasciati più. E quando Mariangela si è ammalata, colpita da un tumore al pancreas, Renzo si è preso cura di lei. «Ha combattuto come una leonessa contro il male - ha raccontato Arbore il giorno successivo alla sua scomparsa -. Tre anni e mezzo con un coraggio titanico, senza un cedimento, come una virago, una guerrigliera che ogni mattina, al risveglio, ricominciava da capo e prendeva in mano la situazione con un'energica positività». Anche se sono passati diversi anni dall’addio definitivo, il ricordo del suo più grande amore è più vivo che mai: «Io adoro ricordare Mariangela, il suo talento straordinario, la sua grazia, la sua unicità. Certo gli anniversari portano con sè rimpianti e tante riflessioni. Sono felice però che venga ricordata, anzi bisognerebbe farlo di più».

Il docufilm. Chi era Enzo Jannacci, l’artista raccontato in “Vengo anch’io”. L’ironia e l’attenzione a chi è rimasto indietro nell’Italia del boom, lo sberleffo contro i prepotenti e lo sguardo limpido di chi cerca l’autenticità. Da Vasco a Paolo Conte, l’omaggio a un grande artista. Graziella Balestrieri su L'Unità il 12 Settembre 2023 

Iniziamo col dire che Enzo Jannacci manca, manca tantissimo e forse in alcuni casi nemmeno ce ne siamo accorti, di quanto sia mancato e manchi in questi anni il suo genio, la sua ironia, la sua eleganza e la sua umanità. Già, Enzo Jannacci; la genialità che si fa carico di chi fa fatica a stare al mondo, come lui stesso dice nel documentario realizzato dal giornalista e regista Giorgio Verdelli, Vengo Anch’io, presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia, (Indigo Film e Medusa) e che resterà nelle sale solo fino a domani. Vengo Anch’ io è un insieme di pezzi che mancano a questo paese e alla nostra storia, come Giorgio Gaber, fido collaboratore, compagno di giochi e amico: si fa fatica a vederlo e a non emozionarsi, così come accade per la stessa Milva.

E poi ci sono ricordi che sembrano sgretolarsi ma che in realtà sono fissi negli occhi e nel cuore di chi li racconta a partire dal figlio Paolo Jannacci. E ancora Dario Fo, Nino Frassica, Diego Abatantuono, Claudio Bisio, Massimo Boldi, Cochi e Renato, Paolo Rossi, Elio (Elio e le Storie Tese), Vasco Rossi, Paolo Conte, Roberto Vecchioni e Dori Ghezzi, Ranuccio Sodi, Enrico Ruggeri, le parole del fotografo Guido Harari, e anche personalità che sembrano lontane da lui, come un giovane Eros Ramazzotti, Francesco Gabbani, come Ligabue o J-Ax ma Jannacci era Jannacci perché nessuno era lontano da lui.

Il documentario di Giorgio Verdelli sembra raccontare un mondo che non c’è più, che abbiamo quasi nascosto sotto al tappeto, quel mondo fatto di artisti, di anima e sudore, di scarpe e marciapiedi, di cabaret e di viaggi con zero lire in tasca, di artisti che hanno pensato a raccontare non solo il loro malessere ma si sono fatti carico del malessere degli altri, cercando un’altra via per dare conforto, con una nota tanto divertente da sembrare stonata e con un ghigno che poi è divenuto risata. Vengo Anch’io è la storia di un medico chirurgo che poi a un certo punto guardandosi le mani, riflette sul fatto che con i suoi pazienti instaura un legame sempre fin troppo stretto, e che non solo gli interessa operare ma che vuole e cerca di curare quella parte delle persone che ai più sembra trascurabile “io ho a cuore le sorti di quelli che fanno fatica a stare al mondo”.

Quelli che fanno fatica a stare al mondo: chi ci pensa più oggi? Chi ne parla più oggi? E allora Vengo Anch’io serve non solo a ricordare un genio della musica italiana ma serve anche a riprendere un discorso vecchio che forse molti artisti e anche intellettuali hanno dimenticato lungo la via e serve a porsi molte domande che oramai si pone più. È il mondo che racconta Enzo Jannacci, quello della fabbrica, quello dei senzatetto, quel mondo della sua Milano che si è svenduta per qualche cartellone luminoso in più che svetta sui palazzi alti e che ha lasciato al buio uomini e donne, con i cartelli in mano a chiedere elemosine e pietà, per un pasto caldo, due lire e un po’ di considerazione.

Jannacci che nelle sue canzoni si fa portavoce di quelle persone che gli altri vedono ma fanno finta che non esistono: e tutto questo viene fuori in maniera crepuscolare in Vengo Anch’ io. Viene fuori l’occhio lucido e la narrazione carica di malinconia, che sfuma nella tristezza e che si aggrappa come meglio può all’ironia per stare in piedi e per non stare fermi davanti alla sofferenza. È un Jannacci di spalle alla finestra che guarda fuori dal terrazzo, e poi quell’inquadratura sulle mani che parlano “ho giudicato che la vita non fosse un modo di esistere fermi, mentre intorno succedono delle cose, delle situazioni comiche drammatiche, guerre, serpenti, nolenti, vigliacchi, prepotenti e tu stavi lì fermo. La vita non è questa”.

In questa frase, in questo concetto, c’è il compito che ognuno di noi dovrebbe avere, e che Jannacci ha avuto e ha come manifesto della sua arte: non si deve stare fermi. Non siamo niente senza pensare agli altri. C’è un carico emotivo e umano in Vengo Anch’io, difficile da misurare, difficile anche da descrivere, ogni parola, ogni ricordo, ogni silenzio e tutti quegli occhi lucidi e gli sguardi abbassati verso la commozione, sembrano produrre un buco al cuore per chi sta dall’altra parte a vedere. E poi l’essere un genio musicale, uno dei pochi in Italia, addirittura nelle parole di Vecchioni “Jannacci è l’unico genio musicale che abbiamo avuto in Italia “e lo dice in relazione ai fatti (senza sminuire nessuno, attenzione) nel senso che Guccini o De André, grandissimi nella nobiltà della parola, ma erano quelli, Jannacci invece iniziava in un modo e non sapevi come poteva finire, come era nel mezzo, passando da un momento tragico all’ironico cogliendo sempre di sorpresa.

Il jazz, il piano, le risate, gli amici, il cabaret, nessuno escluso e tutti dentro, il teatro, il successo e la discesa, la discesa e la salita ma mai restando fermo. E le canzoni fatte di parole messe su da un’equilibrista che si muove su quel filo che è la vita e che va dal tragico al comico guardando sempre in basso, senza mai avere paura di cadere perché anche se si cade ci si rialza: da Vengo Anch’io, Ho visto un Re, Ci vuole orecchio, Via del campo (insieme a De André), Vivere, El portav le scarp del tennis, Se me lo dicevi prima, Messico e Nuvole, Silvano, L’importante è esagerare, Vincenzina e la fabbrica…una fotografia in bianco e nero di un paese che ha conosciuto la guerra, la povertà, ha attraversato il boom ed è esploso senza accorgersi dei pezzi lasciati indietro da questa gigantesca crescita economica.

La carriera di Enzo Jannacci e la sua arte sono il racconto degli ultimi, dei dimenticati, di chi sopravvive male e di chi non vuole girarsi dall’altra parte, di un’umanità che non vuole stare ferma, perché stare fermi non è vivere. Non faremo spoiler, perché è importante andare al cinema e far conoscere alle nuove generazioni chi è stato e chi è Enzo Jannacci, un numero 10 della musica tutto genio e sregolatezza. Ma un particolare da sottolineare c’è: l’ammirazione di Vasco Rossi nei suoi confronti (non che negli altri sia minore, eh), la commozione e forse più di ogni altra cosa la gratitudine, la gratitudine verso un altro artista, la gratitudine che Vasco racconta con gli occhi di un bambino emozionato, Vasco incredulo quando riceve una lettera dal figlio Paolo, una lettera scritta per Vasco… e poi quella canzone, quel verso che canta al piano in Lettera da lontano “ …Lettera per il tempo che a vent’anni nessuno ti dice che vola via come un tipo particolare di vento… Lettera a Vasco Rossi mi piace sentirgli dire che oggi è spento”.

Tutta la lettera che Enzo Jannacci scrive a Vasco e che Vasco legge in Vengo Anch’io è un concentrato di umanità, ironia, bellezza e di chi ha voluto far sapere ad un altro artista di averlo riconosciuto, di aver visto la stessa verità. Vengo Anch’io racconta la storia di un 10 della musica italiana, fatta di dignità, struggente bellezza, riconoscenza, amicizia e di un uomo che non è mai stato fermo davanti al dolore degli altri, non solo come medico ma anche come artista. Graziella Balestrieri 12 Settembre 2023

Enzo Jannacci moriva dieci anni fa: il sodalizio con Gaber, la passione per il karate, 20 (+1) segreti su di lui. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2023.

Una raccolta di aneddoti e curiosità, dalla A alla Z, per ricordare il cantautore di «Vengo anch'io...» e «El purtava i scarp del tennis», scomparso a 77 anni il 29 marzo 2013

A di Attore

Ci lasciava esattamente dieci anni fa, il 29 marzo 2013, il cantore degli ultimi: Enzo Jannacci. Cantautore (e medico cardiologo) era nato a Milano il 3 giugno 1935 da Giuseppe Jannacci - Maresciallo dell'Aeronautica Militare Italiana che partecipò alla Resistenza durante la seconda guerra mondiale - e Maria Mussi, sarta comasca. Per omaggiarlo nel decennale della scomparsa ecco una serie di curiosità su di lui. Dalla A di «attore». Già perché Jannacci si è dedicato, nel corso della sua lunga carriera, anche alla recitazione. Ha partecipato, nel 1964, come comparsa a «La vita agra», pellicola firmata da Carlo Lizzani e nel 1970 è stato diretto da Mario Monicelli in un episodio del film «Le coppie». Due anni dopo ha interpretato il protagonista ne «L'udienza» di Marco Ferreri.

B di Band

La carriera artistica di Enzo Jannacci è iniziata negli anni Cinquanta. Nel 1956 entrò nei Rocky Mountains, alla cui voce c'era Tony Dallara. Con la band si esibì in numerosi locali come la Taverna Mexico, l'Aretusa e il club Santa Tecla, e alla fine dell’anno, grazie all'amico Pino Sacchetti, conobbe Adriano Celentano. Quest’ultimo gli propose di entrare come tastierista nel suo complesso, i Rock Boys. Nel 1957 la formazione suonò al primo Festival italiano di rock and roll, organizzato al Palazzo del Ghiaccio.

C di Colonne sonore

Tra gli anni Settanta e Ottanta Jannacci ha composto alcune colonne sonore per il cinema, per film come «Romanzo popolare» di Mario Monicelli, «Pasqualino Settebellezze» di Lina Wertmuller, «Saxofone» di Renato Pozzetto - di cui il cantautore ha scritto il soggetto - e «Piccoli equivoci» di Ricky Tognazzi.

D di Derby

Dal 1963 Enzo Jannacci ha iniziato ad esibirsi al Derby Club, storico locale milanese di cabaret. Qui ha conosciuto prima Dario Fo e quindi Cochi e Renato. Raccontava Renato Pozzetto in un’intervista al Corriere del 2022 che il cantautore è stato «il nostro più grande sostenitore, che diventò anche il mio medico di base. Nacque un’amicizia fortissima, nonostante lui fosse notoriamente Schizzo...Un tipo nervoso, imprevedibile. Grazie al Derby arrivò la Rai, con Canzonissima che faceva 20 milioni di ascolti e poi anche il cinema. Mi ritrovai a firmare tre contratti cinematografici e per festeggiare andai a mangiare l’aragosta. Ebbi una intossicazione e Enzo dopo avermi fatto una puntura se ne andò via ridendo con un matto nel corridoio. Non ho mai capito cosa volessero dire quelle risate».

E di El portava i scarp del tennis

Il disco d’esordio del cantautore, «La Milano di Enzo Jannacci» (1964), contiene uno dei suoi capolavori: «El portava i scarp del tennis», il racconto poetico della vita modesta di un senzatetto milanese. Per la sua attenzione nei confronti degli ultimi a Jannacci è stata dedicata la Casa dell'Accoglienza in Viale Ortles 69 a Milano, una struttura che si occupa dell’accoglienza di persone senza fissa dimora.

F di Faceva il palo

L’amatissima canzone «Faceva il palo» racconta la storia del «palo», la vedetta della banda dell’Ortica. Avendo perso quasi del tutto la vista non scorge le forze dell’ordine in arrivo durante una rapina e non dà l’allarme. Di conseguenza tutti i componenti della sua gang vengono arrestati. «Tutti, tutti, tutti, fuori che lui».

G di Gaber

Un sodalizio artistico durato più di quarant’anni quello tra Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci. Tutto iniziò nel 1958, con la formazione del duo I Due Corsari. Quando Gaber morì nel 2003 Jannacci disse: «Ho perso un fratello».

H di Ho visto un re

Interpretata da Enzo Jannacci «Ho visto un re» (testo composto da Dario Fo, musica di Paolo Ciarchi) fu pubblicata per la prima volta nel 1968. Canzone popolare «finta», scritta appositamente per lo spettacolo teatrale «Ci ragiono e canto», dà voce ad alcuni contadini che spiegano come tutti i potenti, non appena vengono toccati i loro interessi e le loro proprietà, piangono, mentre i villani, nelle stesse condizioni, devono ridere. Jannacci, in finale a Canzonissima, voleva portare questo brano, ma la commissione Rai si oppose. Il cantautore scelse così un’altra canzone, «Gli zingari». In quegli anni «Ho visto un re», insieme a «Vengo anch'io. No, tu no», divenne uno dei brani simbolo della contestazione studentesca.

I di Insegnante (di karate)

Appassionato di arti marziali Jannacci ha dedicato molti anni alla pratica del karate, sotto la guida del maestro giapponese Hiroshi Shirai. Raggiunse il grado di cintura nera terzo dan e diventò anche istruttore.

L di Laurea

«Mi iscrissi alla Facoltà di Medicina ma i miei non potevano mantenermi gli studi e così, siccome stavo studiando anche per il diploma di direttore d'orchestra, lavoravo fino all'alba come pianista nei night della città per pagarmi i libri e gli esami mentre di giorno andavo a lezione e studiavo». Nel 1969 Enzo Jannacci si è laureato in medicina all'Università di Milano. Ha lavorato in Sudafrica, nell'équipe di Christiaan Barnard (primo cardiochirurgo a realizzare un trapianto cardiaco) e ha studiato negli Stati Uniti, alla Columbia University di New York e al Queens College. Il cantautore ha sempre esercitato la professione medica, sia come cardiologo che come medico di famiglia, a lato dell'attività musicale. «La mia passione dominante è sempre stata la medicina, cantare è un divertimento che si è intrecciato alla mia vita. Per andare a cantare devo prendere ferie. Io le vacanze le passo così, mentre i miei colleghi vanno a divertirsi ai congressi e a parlare di trapianti, io, povero disgraziato, canto. Con questa testa un po' matta ho bisogno di usare le mani, e mi piace aiutare la gente».

M di Milan

Nel 1984 Enzo Jannacci ha scritto l'inno del Milan, sua squadra del cuore: «Mi-Mi-la-lan!» (inno ufficiale fino al 1988).

N di Novegro

Nel 2018 a Novegro, frazione di Segrate (Mi), è stata dedicata la prima via in Italia a Enzo Jannacci.

O di Orefice (Giuliana)

Il 23 novembre 1967 Enzo Jannacci ha sposato Giuliana Orefice. La coppia ha avuto un figlio nel 1972, Paolo, che ha seguito le orme paterne diventando musicista e compositore.

P di Pozzetto e Ponzoni

Nel corso della sua lunga collaborazione con Cochi e Renato il cantautore ha realizzato insieme al duo, nel 1974, la sigla di Canzonissima («E la vita, la vita») oltre a brani di genere comico-demenziale (come «La gallina» e «L'uselin della comare»).

Q di Quelli che

Recitativo con testo composto da Enzo Jannacci «Quelli che...», pubblicato nel 1975, fu inserito nella colonna sonora del film di Lina Wertmuller «Pasqualino Settebellezze». A distanza di anni diventò la sigla del programma televisivo Quelli che il calcio.

R di Rai

Nel 1961 Enzo Jannacci fece un provino in Rai, che però non andò bene: «Si presenta come cantautore - si legge nel giudizio -. Buon pianista e autore di motivi non spiacevoli; appare tuttavia insufficiente vocalmente per cui si ritiene che non sia idoneo a essere presentato come interprete di canzoni in un programma televisivo (il che non esclude che in una rassegna di cantautori possa essere presentato sullo stesso piano di molti altri suoi colleghi)».

S di Sanremo

Enzo Jannacci ha partecipato per la prima volta al Festival di Sanremo nel 1989 (17mo posto in classifica). È stato in gara anche nel 1991 (11mo posto, ha ricevuto il Premio della Critica), 1994 in coppia con Paolo Rossi (sesto posto) e 1998 (17mo posto, premio Volare per il miglior testo). Nel 1961 Giorgio Gaber partecipò al Festival della canzone italiana con un brano scritto insieme al cantautore, «Benzina e cerini», che non arrivò in finale.

T di Teatro

Molti i lavori teatrali di Enzo Jannacci, da «Milanin Milanon» (in scena al Teatro Gerolamo nel 1962) a «La Mascula» (2004, di cui ha firmato la regia e le musiche). Nel 1991, al teatro Carcano di Milano e al teatro Goldoni di Venezia, ha interpretato in modo molto personale - in compagnia di Giorgio Gaber, Felice Andreasi e Paolo Rossi - un classico del teatro dell'assurdo: «Aspettando Godot» di Samuel Beckett.

U di Ugo Tognazzi

Ugo Tognazzi ed Enzo Jannacci hanno lavorato insieme in «Romanzo popolare» di Mario Monicelli e ne «L'udienza» di Marco Ferreri. Il cantautore frequentava spesso la casa dell’attore. Un Natale, ha raccontato nel 2020 Gianmarco Tognazzi a Vieni da me, Jannacci gli salvò la vita: «Era un grandissimo medico e durante un Natale a Varese, dove noi passavamo le vacanze di Natale dai nostri nonni, io ebbi una strana crisi. Mi si gonfiò il collo, lui prese la borsa, mi fece un punturone e mi salvò».

V di Vengo anch'io. No, tu no

È forse il brano più popolare di Enzo Jannacci: «Vengo anch'io. No, tu no» (scritto con Dario Fo e Fiorenzo Fiorentini). Anche se sembra una canzocina per bambini, non lo è: fa riferimento alle persone che vivono ai margini della società e che vengono costantemente escluse. «Alla gente è piaciuto il “Vengo anch'io” perché è un luogo comune, una frase corrente - raccontava Jannacci nel 1968 a L'Europeo -. Però nella canzone è detta in un certo modo; in più da uno che fa la faccia da deficiente e strilla come un cane sgozzato. Quindi diverte».

Z di Zelig

Nel 2010 e 2011 Enzo Jannacci ha partecipato a Zelig su Canale 5. Anche suo figlio Paolo ha preso parte al programma negli stessi anni e nel 2012, con la sua band.

Renato Pozzetto, lettera a Jannacci: «Caro Enzo, tra poco sarò con te lassù. Fatti trovare con il pianoforte e la chitarra». Renato Pozzetto su Il Corriere della Sera il 28 Marzo 2023.

Il saluto dell'attore all'amico di una vita. «Ti ricordi quando mi portasti a fare un giro all’Idroscalo, sulla tua barca a vela? Era febbraio, faceva un freddo della madonna, eravamo vestiti come Amundsen ma senza tenda rossa»

Ciao Enzo, come va?

Sicuramente dove sei tu va tutto bene. Qui sulla Terra solito casino…

Quelli del Corriere mi chiedono di parlare della nostra amicizia, io però sono un po’ in crisi con la memoria, sai? Dovresti aiutarmi un po’. Quaggiù s’invecchia e la salute è un problema. Tra poco ci rincontreremo, e io sarò felice di stare con te. E tutto sarà come una volta, anzi meglio. Lì c’è tutto e si può fare tutto e bene, proprio come facevi tu…

Mi manchi tanto. Mi manca sentirti cantare, quando mi facevi ascoltare le tue novità. O quando ci confidavamo speranze, desideri e quelle cose che pensano tutti ma che non si possono dire. Ti ricordi quando mi portasti a fare un giro all’Idroscalo, sulla tua barca a vela? Era febbraio, faceva un freddo della madonna, e noi eravamo vestiti come Roald Amundsen, l’esploratore, ma almeno lui aveva una tenda rossa.

Quando io arriverò dove sei tu, se Lui me lo permetterà (io ci spero perché non è che abbia fatto tante cazzate), fatti trovare con il pianoforte e la chitarra. So che lì ci sono strumenti della Madonna. E io vorrei cantare, sai? Qui, con tutto quello che succede, mi mancano voglia e occasioni. Già so che faresti un’altra bella canzone, di quelle che fanno piangere come una fontana, anche perché quaggiù, adesso, manca pure l’acqua e un po’ di umidità farebbe bene.

In questi giorni andrò a teatro, Elio (degli Elio e le Storie Tese) parlerà di te e canterà le tue canzoni, lui è bravo e lo spettacolo sarà bello. Al teatro Lirico, dedicato al tuo amico Gaber, si sono dimenticati di te! Non prendertela, sono cose che succedono in questi tempi. Ora penso di averti rotto le balle e allora ti saluto.

Ciao Enzo, un abbraccio forte, e un bacino. 

Ci vediamo presto. Saluti. 

Renato

Enzo Jannacci, le sue migliori 5 canzoni a dieci anni dalla morte. Ha raccontato la milanesità (e non solo) con dei brani geniali che hanno segnato la storia della seconda metà del Novecento. Lorenzo Grossi il 29 Marzo 2023 su Il Giornale.

Enzo Jannacci, geniale cantastorie che ha rivoluzionato il concetto di canzone italiana dal dopoguerra al nuovo millennio, è scomparso dieci anni fa esatti. Le sue opere sono diventate parte della storia quotidiana di tutti: dei nostri linguaggi e dei nostri modi di capire e vedere le cose. Nato a Milano il 3 giugno 1935, il Dottore (soprannome non casuale, essendo stato lui anche cardiochirurgo) ha attraversato il proprio intero percorso musicale sulla mimica e sulla gestualità della parola, dando voce a tutto un mondo non rappresentato e fino a quel momento silente.

L'artista ha fotografato con la voce la sua città: dall'Idroscalo a Rogoredo, passando per Piazza Beccaria, via Canonica, le rive del Naviglio. Luoghi e paesaggi che fanno da colonna sonora delle sue più belle canzoni. In più di cinquant'anni di attività ha dato libero sfogo al suo lato ironico ed istrionico, scrivendo brani memorabili, a volte portati al successo da altri grandi personaggi. Nei suoi vari incontri artistici, ha collaborato con colleghi del calibro di Giorgio Gaber, Dario Fo, Cochi e Renato, Bruno Lauzi, Milva, Paolo Conte, Tullio De Piscopo, Pino Donaggio e molti altri ancora. A dieci esatti dalla sua scomparsa, celebriamo la sua figura con i suoi 5 canzoni da ascoltare almeno una volta nella vita.

El purtava i scarp del tennis (1964)

"El purtava i scarp del tennis" è una delle canzoni più belle di Jannacci. Fu scritta in collaborazione con Dario Fo nel 1964 ed è in dialetto milanese. Negli anni 60, gli anni del boom economico, le scarpe da tennis le portavano solo i poveri e vennero scelte appunto da Jannacci come simbolo di quella classe sociale di emarginati a cui lui, nelle sue canzoni, tentava di restituire la giusta dignità. Tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla loro classe sociale ed economica, quando sono onesti e corretti meritano di essere trattati con rispetto e dignità. Il filone sociale sul Jannacci aveva focalizzato la propria attività musicale resterà in voga anche negli anni successivi.

Vengo anch'io. No, tu no (1968)

Per molti si tratta di una canzoncina leggera per bambini, ma in realtà è uno dei pezzi più politici dell'Italia degli anni '60. Con "Vengo anch'io. No, tu no" Jannacci diede voce agli esclusi della società, che lo ricambiarono con un enorme successo. Era un'analisi cruda di una parte di umanità relegata ai margini della società, estranea agli avvenimenti che le si verificano intorno: sia che fossero personali sia che si estendessero alla sfera sociale e politica. L'arrangiamento fu senza dubbio azzeccato, peculiare di un genere di musica, che in quel periodo riuscì a veicolare la frustrazione di tutti coloro che si sentivano "esclusi".

Ho visto un re (1968)

Si diceva di Dario Fo. La sua "Ho visto un re", - scritta con Enzo Jannacci - ad un primo ascolto sembra quasi un nonsense, un susseguirsi di immagini ironiche (come quella del vescovo che "faceva un gran baccano, mordeva anche una mano"), ma in realtà è un intreccio di metafore che rivelano l'amara, graffiante, critica socio-politica dissimulata nei versi di satira. Così che anche il contadino al quale "il vescovo, il re, il ricco, l’imperatore, persino il cardinale…gli han portato via: la casa, il cascinale, la mucca, il violino… i dischi di Little Tony… la moglie!... e un figlio militare” (oltre ad avergli ammazzato il maiale), "lui non piangeva, anzi: ridacchiava". Ma non perché fosse matto, ma perché "sempre allegri bisogna stare che il nostro piangere fa male al re. Fa male al ricco e al cardinale". Fo s'ispirò al "bei-bei", canto polivocalico tipico della zona compresa tra Grosseto e il Monte Amiata, dove accompagnava canti d'osteria, romanze, serenate e "canzonacce" della tradizione popolare. Un brano che, apparso nel 1968, ne divenne subito uno dei simboli.

Ci vuole orecchio (1980)

C'è un brano che ha un vissuto particolarissimo. Gino e Michele conducevano su Radio Popolare "L'orecchio", una specie di magazine pieno di umanità varia e di rubriche. Buttarono giù la sigla e diedero a Jannacci il foglietto con le parole chiedendogli se la poteva musicare. Lui lo prese invitò la coppia a casa sua e si mise al pianoforte per farla ascoltare: "Però io questa per la radio non ve la do, con questa ci faccio un disco!", disse. Questa è la storia vera di "Ci vuole orecchio". Una canzone in rhythm'n'blues che sottolinea il duplice aspetto di un'orchestra nell'andare a tempo col cantante, e in metafora, nello stare al passo con la stessa vita che è come un'orchestra che assembla a piacimento i propri elementi.

Se me lo dicevi prima (1989)

Se ne potrebbero citare un’altra decina (Quelli che… L'Armando, Bobo merenda, Giovanni telegrafista, Soldato Nencini, Vincenzina e la fabbrica, Mario, Silvano, Veronica), ma la top 5 si chiude con "Se me lo dicevi prima". Siamo a Sanremo 1989. Il cantautore milanese si presenta con un brano intenso, affatto banale, capace di raccontare con irriverenza e sarcasmo le difficoltà, e a volte anche la vergogna, nel dovere chiedere aiuto dopo un momento difficile. Jannacci tocca tematiche di grande impatto sociale: dal precariato all'uso di droghe, dal sentirsi sempre inadeguati al non riuscire a risalire una volta toccato il fondo. "Se me lo dicevi prima" è un brano in cui, in fondo, si ironizza sull'incapacità delle persone di venirsi in contro, di aiutare chi ha bisogno d'aiuto quando davvero lo chiede.

"Mio papà Enzo non se n'è mai andato. Con musica e cabaret analizzava la vita". Il figlio parla dell'artista a dieci anni dalla morte, nel libro "Ecco tutto qui". Antonio Lodetti il 29 Marzo 2023 su Il Giornale.

Difficile essere figlio d'arte, ma c'è chi lo sa fare con la leggerezza e l'ironia che gli ha insegnato un genitore famoso, soprattutto se questo genitore si chiama Enzo Jannacci. Il grande Enzo è scomparso da 10 anni e il figlio Paolo continua a scrivere canzoni irriverenti, a suonare il pianoforte e a cantare con quella voce sghemba che era un marchio di fabbrica di papà. Ma a dieci anni dalla morte Paolo sente di dover celebrare Enzo, e lo fa con il libro Ecco tutto qui (scritto per Hoepli insieme al critico Enzo Gentile) e con una grande serata, programmata per il 3 giugno al Teatro Arcimboldi di Milano, dal programmatico titolo «Jannacciami», con decine di ospiti che vanno da J-Ax a Paolo Rossi tra canzoni e cabaret.

Chi era davvero Enzo Jannacci?

«Semplicemente un medico e un artista di grande sensibilità, con tutti i suoi errori e le sue problematiche che ogni tanto erano la molla delle sue intuizioni artistiche».

Le manca?

«Decisamente sì, ma posso dire che non se n'è mai andato. Mi confronto ogni giorno con la sua opera e con i suoi insegnamenti».

Quali?

«Dal punto di vista delle canzoni e del cabaret era inimitabile, ma nella vita mi ha insegnato molto. Facendo il medico ha conosciuto tutti i drammi dell'essere umano. Aveva una visione rinascimentale della vita e spesso la sua opera sviscerava i drammi sociali come avrebbe potuto fare un'analista sul suo lettino. Insomma sapeva sorridere, con intelligenza, dei guai suoi e altrui».

Com'era il vostro rapporto?

«Io ero un rompipalle, lui molto esigente, ma a un certo punto è scattato qualcosa che ci ha legato e abbiamo sempre lavorato insieme all'unisono».

Pochi sanno che Enzo era un ottimo pianista.

«Sì, sembrava che suonasse quasi a orecchio ma aveva imparato il piano jazz da giganti come Red Garland e Oscar Peterson, cui anch'io mi sono ispirato».

Era diplomato al Conservatorio.

«Sì, anche se non ho mai visto nessun diploma, un giorno andrò al Conservatorio a cercarlo».

Si può dire che suo papà sia nato con il rock?

«Era il suo pane, da ragazzo si divertiva come un pazzo a scatenarsi con Giorgio Gaber, sono stati anche al Primo Festival rock italiano, quello al Palazzo del Ghiaccio di Milano. Penso sia stato coraggioso ad abbandonare la strada più facile del rock per il cabaret, la canzone popolare con Dario Fo o addirittura il jazz quando collaborò con personaggi come Chet Baker e Gerry Mulligan».

Il suo pregio maggiore?

«Aveva degli enormi picchi emozionali che lo facevano cambiare di umore e scrivere le cose più diverse. Anche le canzoni più leggere avevano un fondo sociale, una sottile vena di sarcasmo che le pervadeva».

Il suo periodo migliore?

«Ne ha avuti parecchi. Per quello che mi riguarda la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta, quando uscì Ci vuole orecchio, l'album che avrebbe dovuto intitolarsi Musical ma a cui Gino & Michele cambiarono titolo all'ultimo momento».

Un momento difficile?

«Al Festivalbar, quando portò un brano lento come La fotografia e venne fischiato».

Dal libro come esce Jannacci?

«Vulcanico nella sua solitudine e nei rapporti con i grandi come Dario Fo o Cochi e Renato; insomma è il suo ritratto».

Lo celebrerete anche in musica.

«Il 3 giugno agli Arcimboldi di Milano. Lo spettacolo si chiama Jannacciami e ci saranno un sacco di ospiti musicali e cabarettisti: tra gli altri ELio, J-Ax, Ale & Franz, Paolo Rossi».

Estratto dell'articolo di Marinella Venegoni per “la Stampa” il 27 marzo 2023.

 Paolo Jannacci è un cuore d'oro, un musicista di razza senza tormenti del quale il padre Enzo andava fiero. Tanto che il figlio, negli ultimi anni, si trasformò un po' in padre. Rarità fra i figli di tanti nomi illustri, ancora oggi vive una doppia vita artistica, in proprio e per conto del papà, del quale ripercorre al pianoforte le gesta con sapienza ed allegria.

 A 10 anni dalla scomparsa di uno dei giganti del cantautorato italiano, risalgono le azioni di Enzo Jannacci: uno che di dischi ne ha venduti pochi, come dice il figlio, anche se la sua figura svetta per originalità e profondità, coprendo zone dell'arte inesplorate dai colleghi più blasonati, dal jazz al cabaret impastato con i personaggi bislacchi che inventava. È uscito da poco un libro, una biografia musicale necessaria e accurata, scritta da Paolo stesso e Enzo Gentile, titolo Ecco tutto qui. Paolo Conte dice sempre che Jannacci è il suo musicista preferito, insieme hanno fatto volare Messico&Nuvole nel 1970; altri ne stanno raccogliendo il testimone, dallo stesso erede a Elio di EeLST, in viaggio in Italia con un tour celebrativo di grande successo.

Caro Paolo, mercoledì 29 saranno 10 anni che Enzo Jannacci se n'è andato.

«Celebreremo tutte le ricorrenze il 3 giugno, quando compirebbe 88 anni, all'Arcimboldi in un evento unico. Ho inventato il titolo Jannacciami, è un abbraccio di musica a Milano. Ci saranno tutti i suoi musicisti e un bel po' di colleghi, come Elio, J-Ax, Ale e Franz, Massimo Boldi, Cochi e Renato, spero. Faremo le canzoni più celebri e anche pezzi poco conosciuti come Desolato (della quale c'è un delizioso video con tutta la crema del rap tradizionale italiano, ndr)».

 Era contento Enzo del fatto che lei mentre andava a scuola studiasse anche musica?

«Ho cominciato a 4-5 anni a scoprire la musica e la mia voce, quando papà ha visto che avevo orecchio mi ha instradato, prima lui e poi i maestri. A scuola non avevo grandi voti, son cresciuto di botto durante l'esame di maturità, mi son svegliato e da lì è stato più semplice lo studio degli strumenti. Non studiavo mai, mi avevano mandato a Como a imparare di più. Ho 50 anni, prima o poi prenderò il diploma al Conservatorio come mio papà».

Che ricordo ha di suo padre medico?

«Che abbia fatto solo il medico, non mi ricordo. Penso a quando visitava, ai pazienti che lo aspettavano, a com'era contento quando scopriva i mali della gente. Non si sbilanciava, non raccontava mai a casa, ma io ero fiero di lui. Due lauree ha preso, medicina e chirurgia. Ha fatto un master di 6 mesi, e ho trovato poi il diploma a casa, all'ospedale di Harlem a New York. Lì ha capito che erano bravi a trattare subito quelli che erano sotto choc, mentre da noi s'impegnavano prima a scrivere la scheda anagrafica. Avrei voluto fare medicina anch'io ma mi sconsigliò, diceva che c'era troppa burocrazia e tutto era complicato».

 Una personalità esuberante, eclettica, quella di Jannacci. Com'era nella vita privata?

«C'erano dei picchi che rispettavano il suo carattere. Bassi di tristezza o apprensione, oppure era galvanico. Paradiso o inferno, gli artisti sono così. Non ho mai faticato a seguirlo, lui alla band dava lo stimolo "per far la differenza", diceva.

Nel mio piccolo di quando provavamo, cercavo a mia volta qualcosa che stupisse anche noi. Poi nel periodo più adulto parlavamo molto dei nostri guai, e l'ironia era la risposta».

 Paolo Conte dice ancora che Enzo è il più grande.

«Lui adesso è il mio faro, canto spesso Parigi. Doveva sentire il papà quando mi raccontava di Paolo: "Prova a riascoltare i versi di Aguaplano", mi diceva, e rimetteva su la canzone del pianoforte che galleggia nell'oceano: "Ci va una bella forza per lanciare/ Un piano a coda lunga in alto mare". Era affascinato, lo citava nelle canzoni. In Parlare con i limoni dice: "Che bella quella canzone/ Che parla della pioggia, della Francia e non fa confusione/ E in mezzo a tutta ‘sta ignoranza è facile dire/ È proprio necessario poi?».

(...)

Un rimpianto?

«Mi sarebbe piaciuto in verità che mi avesse guardato quando sono andato in gara a Sanremo, e mi avesse poi preso in giro. Diceva sempre: "Se vede che non sei in grado, il pubblico ti mangia vivo"».

Francesco Persili per Dagospia il 31 marzo 2023.

Califano, hai sempre detto che hai avuto più donne ma non è vero…”; “No, confermo. Ho avuto più donne di tutti, di tutti…”. Era il 2007, ad "Apocalypse Show” sulla Rai, andava in scena uno strepitoso duello tra due maschi alfa, Gianfranco Funari e Franco Califano.

 A rivederlo oggi ha la potenza di una sonora pernacchia a tutte le restrizioni del politicamente corretto, alle ubbie del femminismo tossico, alle neo-convenzioni paludate del teatrino televisivo. Il conduttore-showman e il cantante, di cui ricorre il decennale della morte, in quell’occasione rievocarono brani di vita e l’infanzia romana in via Famagosta: “Tu al bar con quelli più grandicelli, io con quelli più belli. Me le facevo tutte io”, la sottolineatura del “Califfo” che nel suo libello “Calisutra” scrisse: “Le donne amano la posizione more ferarum” (al modo delle fiere) precisando poi in una intervista a Antonello Piroso su “La 7”: “Ma che more e more, je piace la pecorina”

Nonostante la fama di sciupafemmine, il "Prevert di Trastevere" ha magnificato la donna in parole e musica, ad iniziare dalla citatissima “Minuetto” interpretata da Mia Martini (“Troppo cara la felicità per la mia ingenuità/Continuo ad aspettarti nelle sere per elemosinare amore”). Tra l’altro fu sempre lui a sdoganare l’erotismo della buccia d’arancia (“Un’idea di cellulite mi fa anche un filo di libidine”) ché a una donna non servono regali, né complimenti, “a una donna devi sfondare il cuore coi sentimenti”.

Se rinascessi, vorrei rinascere ancora uomo. A essere donne si fatica troppo”, ammise Gianfranco Funari una volta ospite di Gigi Marzullo a "Sottovoce". “Mai stato donnaiolo, le donne che ho incontrato erano omaiole”. Nella stessa intervista “il giornalaio” della tv aggiunse una goccia di splendore: “Il successo è alcolico. Non va dato ai bimbi perché poi stanno male. Io l’ho incontrato a 52 anni. Ero troppo adulto per esserne sedotto. Di infantile in me c’è solo la gioia di vivere”. Un altro elemento in comune con il Califfo. Entrambi irregolari, poeti e teppisti, senza mezze misure. Il cantante nato su un aereo, che dopo aver multato il cuore “per qualunque eccesso” provò “il rischio di rinascere sotto le stelle” e l’ex croupier che ha giocato con politica e la televisione con il coraggio di chi sa che si può vivere, e bene, anche quando si spegne la lucetta rossa della telecamera: “Basta avere buona salute, una buona compagna e molti soldi”.

Massimo Cotto nel libro “Pleased to meet you-Spigolature pop” racconta di quando Funari, ai tempi in cui era direttore dell’Indipendente, lo convocò in bagno per dirgli: “Me devi intervistà Califano”. “Col Califfo uscivo spesso. Era divertente e folle – scrive Cotto - La sua umanità era assoluta. Fragile e dolce dietro il paravento della sbruffonaggine (...)

Funari gli chiese di farsi raccontare da Califano quando era stato in galera da cui era uscito pulito. Assolto con formula piena. “Arrivo a Fiumicino e lo vedo appoggiato alla sua Cadillac color panna. Mi chiede se mi va un caffè. In quel momento arriva un vigile che lo invita a spostare la macchina parcheggiata nello spazio riservato alla Polizia altrimenti gliela avrebbero portata via. E il Califfo: ‘Hai ragione, dagli un’occhiata tu, così sto tranquillo’. E gli gettò le chiavi della macchina….”

Graffiti di una Roma stradarola, ormai persa per sempre, che diventa struscio letterario nel programma tv il “Tornasole” di Andrea Pezzi quando, tra una citazione di Belli e una poesia di Trilussa, Funari lasciò scivolare alcuni versi di una canzone di Franco Califano: “Un vecchio pescatore nun po' più portà la barca a remi fin laggiù (…) 'Na vita dedicata tutta ar mare, ch'è stato er primo e l'urtimo suo amore. È la malinconia, è la malinconia...”

La vita, la musica, le donne, gli eccessi. I primi dieci anni senza il Califfo. Redazione su su L’Identità il 31 Marzo 2023

di MAURIZIO PIZZUTO

 Aveva una sola parola d’ordine nella vita, ed era “rispetta i tuoi amici come te stesso”, “ama i tuoi amici come te stesso”, “servi i tuoi amici come spereresti di essere servito dai tuoi genitori”. Indimenticabile Franco Califano, io che l’ho conosciuto frequentato e ammirato posso solo aggiungere che Franco era molto meglio di quanto non desse l’impressione di essere. Un genio della musica, uno straordinario paroliere, un cantante come poche e che il mondo aveva imparato ad amare, anche per le sue mille estrosità e le sue immancabili visioni. Milioni di copie di dischi venduti, 32 album pubblicati, migliaia tra opere varie, poesie, scritture e testi musicali. Sregolato, affascinante, avvolgente, conturbante, istrione, guascone, eternamente innamorato della vita. Una vita, la sua, piena di bellissime donne e di dame di corte, le amava tutte allo stesso modo, con passione immensa e poi le lasciava al loro destino.

Poeta maledetto e sublime insieme, attratto e avvinghiato ai piaceri del lusso, alle tentazioni più sfrenate, lo ricordo eternamente melanconico e fiero della sua solitudine, e anche quando la vita lo portò in carcere per vicende giudiziarie legate alla droga, anche lì in carcere, Franco lasciò il segno della sua presenza e della sua enorme bontà d’animo. Autore e interprete superbo e insuperabile oggi Franco Califano lascia il ricordo di musiche e di canzoni che hanno segnato la vita e la storia di intere generazioni come la mia e non solo. È morto povero, Franco. Ma perché tutto quello che aveva era anche degli altri, degli amici che frequentavano la sua casa, dei conoscenti che andavano a trovarlo per chiedergli aiuto, dei poveri che bussavano alla sua porta senza mai uscirne a mani vuote.

Meraviglioso protagonista del mondo dello spettacolo e straordinario bohemienne d’altri tempi, Franco era tutto e il contrario di tutto, rosso e nero nello stesso istante della sua vita, certezza e disperazione, solare e d’improvviso drammaticamente folle, felicità e dissapore insieme, sbruffone, spavaldo, fiero della sua onnipotenza, considerava il palcoscenico l’unica certezza della sua breve esistenza, dominava la scena come nessun altro sapeva farlo, e quando incominciava a cantare veniva fuori la sua anima vera, che era anche anima eletta e maledetta insieme, il suo cuore infiammato da mille passioni, la sua voglia di starti vicino come nessun altro avrebbe saputo fare. Mai un lamento, mai una protesta, mai un segno di rancore, mai un dubbio, mai una incertezza, mai una paura, mai un sospiro di noia, eppure passerà alla storia per essere stato il cantore della noia, “tutto il resto è noia…”. Franco era davvero padrone del mondo, padrone della sua intelligenza, bizzarra volitiva a volte schizofrenica, spesso maniacale ma eternamente brillante e sprizzante.

Dieci anni senza di te non sono stati più quelli di prima, e quelli che verranno saranno forse peggio.

Dagospia il 30 marzo 2023. “CALIFFO” PER SEMPRE – LA FOTO STRACULT DI FRANCO CALIFANO CON SILVIO BERLUSCONI: CHI AVRA’ SCOPATO DI PIU’? – NEL DECENNALE DELLA SCOMPARSA ALCUNE CHICCE DEL PREVERT DI TRASTEVERE: “LA SCOPATA È SEMPRE RICCA DI PARTICOLARI. PER QUESTO È MEGLIO NON FARLO A LETTO. L'UNICO CASO IN CUI PUÒ ANDAR BENE È LA MATTINA, DOPO CHE SI È DORMITO INSIEME. BISCOTTI INZUPPATI NELLA FICA BAGNATA!” – MITA MEDICI RACCONTA A "OGGI E' UN ALTRO GIORNO" COME LA CONQUISTÒ FRANCO CALIFANO – VIDEO DA GODERE

-La donna per me è essenziale. Madre, amica, compagna del giorno, compagna della notte - è soprattutto la mia ispiratrice. Io senza donna sarei un mezzo uomo.

 -Non si può fare l'amore in sette minuti, una volta trovato il punto debole bisogna cancellare le timidezze. Vanno godute pienamente tutte le espressioni, i movimenti e gli odori del sesso. La scopata è sempre ricca di particolari su cui fare molta attenzione. Tipo le parole. Tutto fa brodo. Proprio per questo è meglio non farlo a letto. Dovrebbe essere l'ultimo posto possibile. Prima ci sono troppi giochetti lunghi e fantasiosi per poter stare sdraiati come stoccafissi. L'unico caso in cui può andar bene è la mattina, dopo che si è dormito insieme, in modo da fare una gustosa colazione. Biscotti inzuppati nella fica bagnata!

 Il cuore nel sesso – Franco Califano

Sapete perché ho scritto un libro sul sesso? Perché me lo hanno chiesto. E hanno fatto bene.

Sono anni, infatti, che continuo a leggere e ad ascoltare una serie di cazzate proposte proprio da quelli che ne dovrebbero sapere di più: sessuologi, psicologi e intellettuali vari. Una delusione. La mia laurea è la pratica, migliorata da anni di guerra sul campo. Come se il nuoto fosse insegnato dai professori di fisica. Annegherebbero tutti. Perché ci vuole uno pratico. Manca il nuotatore…

Califano libero e scorrettissimo, tutto il resto oggi è noia. Emanuele Beluffi su Cultura Identita il 30 Marzo 2023

10 anni fa ci lasciava Franco Califano, il Califfo. E noi siamo ancora qui ad ascoltare le sue canzoni, quella sua voce roca che cantava quella vita agitata. Prima di andarsene disse: “Non escludo il ritorno”: era la canzone scritta insieme a Federico Zampaglione, il cui titolo sarebbe diventato, dopo la scomparsa, l’epitaffio sulla sua tomba. E in un certo senso non se n’è mai andato. Ma che effetto farebbe oggi, quando per non offendere minoranze e sensibilità varie vengono cambiati i titoli delle opere d’arte e sostituiti i nomi nei più celebri romanzi della letteratura mondiale? Lui, che frequentò Francis Turatello senza nasconderlo (sulla copertina dell’album Tutto il resto è noia c’è suo figlio piccolo, Eros Turatello; album che nella classifica dei 100 dischi italiani più belli di sempre Rolling Stone Italia colloca alla posizione numero 57), andava contromano ed era politicamente scorrettissimo già allora: libertario, anticonformista e (come Fred Buscaglione che aveva anticipato il rap) traghettatore in musica del mito della strada e dunque anticipatore della trap che piace tanto oggi (ma gli odiatori della trap, con i quali ci mettiamo risolutamente anche noi, non ce ne vogliano). Oggi chissà se le radio passerebbero le sue canzoni: Minuetto, La musica è finita, Una ragione di più, E la chiamano estate, La mia libertà e ovviamente Tutto il resto è noia. E ne abbiamo citate solo alcune. Erano anni d’oro quelli, fra concerti, sbronze, night e successo. Eppure dovette pagare (anche allora, epoca meno sciocca dell’attuale) un prezzo al suo essere maudit, un prezzo tradotto in meno palchi di quanti ne avesse potuti meritare: “Io sono liberale, anticomunista”, diceva. Per questo dovette pagare il fio delle sue colpe: in fin del conto siamo sempre lì, se non sei della parrocchia giusta nello spettacolo non tutte le porte si aprono. Al gabbio nel 1970 per questioni di bamba e poi ancora nell’83 insieme al povero Enzo Tortora (assolto con formula piena), una vicenda vergognosa sempre d’attualità (Gaia Tortora, la figlia del “re di Portobello”, ha appena pubblicato un libro intitolato Testa alta e avanti). Come e più di Gene Simmons dei Kiss, che si vanta di aver fatto all’amore con più di mille donne, disse di essere stato in tutto con 1500, stando almeno a quanto leggiamo in libri come Il cuore nel sesso e Il Calisutra. Fece incazzare le femministe nel 2009 quando il Comune di Roma lo inserì in una rassegna dedicata all’8 marzo: presero le distanze schifate perché evidentemente non sapevano che lui era lo stesso che cantava “L’amici intorno a me, me chiedono de te / tanto pe’ fa ‘na cosa / saluto e scappo via” e “Se mi dici che ti manco anch’io / ti raggiungo e addio passato mio”, in Ma che serata è e Primo di settembre. Era un latin lover e un galantuomo, non dava in pasto alla cronaca le donne con cui stava, anzi le proteggeva e lasciava che fossero solo quelle delle relazioni importanti ad essere accostate a lui: come Mita Medici, che gli fu presentata da un altro grande che ci ha lasciati proprio in questi giorni, Gianni Minà. Oggi sono 10 anni che Franco Califano ci ha lasciati e sentiamo che in giro ci sono sempre meno artisti e sempre più conformisti.

Franco Califano moriva 10 anni fa: tutto quello che non sapete di lui. Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 30 Marzo 2023

Una vita sregolata fra musica, arresti (ingiusti), eccessi e politica

La nascita in aereo

Sono passati 10 anni dalla morte di Franco Califano, avvenuta il 30 marzo 2013 per un infarto. Un cantautore sopra le righe fin dalle primissime ore della sua vita visto che venne al mondo su un aereo: i genitori vivevano in Libia, all’epoca territorio italiano, e la madre ebbe le doglie mentre stava viaggiando, costringendo il pilota a un atterraggio di emergenza. Dopo qualche tempo, quando scoppiò la seconda guerra mondiale, la famiglia tornò a vivere in Italia, prima a Nocera Inferiore e poi a Roma. Califano, conosciuto per brani come «Tutto il resto è noia», «Minuetto» o «La mia libertà», è ritenuto uno dei cantautori più originali del panorama musicale italiano: durante la sua carriera ha pubblicato 32 album e scritto, tra poesie e canzoni, più di mille opere e numerosi testi per altri artisti.

La vita sregolata

«Il Califfo», come veniva chiamato, è conosciuto per gli eccessi e le sregolatezze, per la «carriera» di playboy e la vocazione al divertimento sfrenato oltre che per la sua musica. Da ragazzino fu mandato a studiare dai genitori in severi collegi ecclesiastici, da cui subito cominciò a fuggire per gettarsi in numerose conquiste femminili. E poi si iscrisse a un corso serale di ragioneria, proprio perché la mattina, dopo le nottate brave, non riusciva ad alzarsi per andare a scuola. Cominciò a scrivere poesie che poi diventarono canzoni perché si rese conto che dai semplici versi non sarebbe riuscito a trarre un guadagno sufficiente a mantenersi. E per un periodo, trasferitosi da Roma a Milano, si lanciò anche nei fotoromanzi. A 19 anni si sposò con Rita Di Tommaso, da cui nacque la figlia Silvia. Ma il matrimonio, vista l’attitudine del Califfo, resistette poche settimane.

Gli arresti

Franco Califano è stato al centro di alcune vicissitudini giudiziarie: nel 1970 è stato arrestato per possesso di stupefacenti, caso in cui fu coinvolto anche Walter Chiari (assolto con formula piena) e poi è finito nuovamente in carcere nel 1984, insieme al conduttore televisivo Enzo Tortora, con le accuse di associazione a delinquere di stampo camorristico e traffico di stupefacenti. Nello specifico, gli veniva contestato di aver spacciato cocaina nel mondo dello spettacolo per conto della criminalità organizzata. In entrambi i processi Califano è stato assolto con formula piena «perché il fatto non sussiste», come ha ripetutamente ricordato nei suoi libri e nelle sue interviste

La prostituzione e le conquiste

A 29 anni, quando la sua carriera musicale stava iniziando a decollare, Franco Califano si ammalò di meningite e rimase in ospedale per un anno. Un periodo molto difficile, in seguito al quale si ritrovo in difficoltà economiche. Per farvi fronte, raccontò lui stesso, decise di prostituirsi, facendosi ospitare (e pagare) da donne belle e ricche. La sua vita fu piena di conquiste, raccontò sempre: il Califfo dichiarava di non aver mai ricevuto un no da una donna perché aspettava fossero loro a fare il primo passo. E sosteneva di averne avute oltre 1.500, incluse avventure con donne transessuali, come narrato anche in toni piuttosto espliciti nel brano «Avventura con un travestito»

«Mentore» dei Ricchi e poveri

«Siete ricchi di spirito e poveri di tasca»: negli anni 60, a dare fiducia a quattro cantanti ancora sconosciuti sono prima Fabrizio De André e poi Franco Califano che li descrive con questa frase, da cui prenderanno il nome. Califano, oltre a coniare il nome dei Ricchi e poveri, diventa anche il loro produttore, li aiuta a comporre la loro immagine e li spesa di vitto e alloggio, visto che loro, all’epoca, sono appunto senza soldi

La politica

Califano in politica si considerava un «liberale anticomunista». Quando fu arrestato chiese aiuto a Craxi e i due divennero amici. Nel 1992 si candidò alle elezioni con il Psdi, ma ottenne solo 198 voti e non fu eletto. Poi divenne sostenitore di Forza Italia e di Silvio Berlusconi, forte anche dell’amicizia con Antonio Martusciello. Nel 2008 festeggiò i 70 anni con un concerto a piazza Navona, «regalo» dell’allora sindaco di Roma Gianni Alemanno, suo amico. In quell’occasione disse di essere stato «bollato come uno di destra» e per questo sostenne che gli era stato impedito di suonare per cinque anni

Gli ultimi anni e la malattia

Nei primi anni Duemila, accanto alla musica il Califfo decise di partecipare a varie trasmissioni televisive: nel 2006 fu tra i protagonisti del reality Music Farm e l’anno successivo si presentò a «Ciao Darwin». Poi nel 2010 ebbe un brutto incidente domestico in cui si ruppe tre costole e fu costretto a rimanere lontano dalle scene per un lungo periodo. In seguito a questo stop, fece anche appello alla legge Bacchelli che prevede un sussidio per i personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo. Disse infatti che i suoi principali guadagni arrivavano dalle serate che era impossibilitato a fare. Tornato poi all’attività artistica, morì il 30 marzo 2013 a causa di un attacco cardiaco. L’ultimo concerto era stato il 18 marzo.

Franco Califano: le 5 curiosità sul grande artista scomparso 10 anni fa. Il grande cantautore romano se n'è andato il 30 marzo 2013, lasciandoci in eredità un patrimonio musicale che ha coinvolto anche decine di altri interpreti. Lorenzo Grossi il 30 Marzo 2023 su Il Giornale.

Il 30 marzo 2013, a meno di 24 ore di distanza dalla morte di Enzo Jannacci, ci lasciava anche Franco Califano, indimenticabile cantautore simbolo della romanità più verace. Spirito poetico, genio e sregolatezza, è stato probabilmente il più incompreso tra i grandi parolieri di brani musicali italiani. Un uomo che, prima e dopo essere stato cantante, è stato soprattutto scrittore: capace di una sintesi lirica profondissima (e molto rara) che non è mai scesa a patti con il business, ma è sempre andata diritta per la propria strada, anche quando impervia e drammatica. Ridare al "Califfo" lo spazio artistico che non ebbe quasi mai, riascoltando la sua vastissima produzione discografica, restituirebbe il suo vero valore professionale, astraendosi dall'esclusività del santino del macho italiano che - ancora troppo spesso - lo accompagna.

Per Franco Califano la musica è sempre stata una possibilità di dare sfogo a una vena poetica raramente straordinaria. All'inizio scrive "solo" poesie, ma siccome capisce che non può campare così, decide di proporre le sue liriche alle case discografiche per prestarle alla canzone dietro compenso. Non solo: Califano ha fatto più di 120 fotoromanzi, dove gli vengono spesso affidati ruoli da cattivo o comunque da maschio che ruba le mogli sotto il naso degli altri uomini. Nel cinema ha iniziato in "Appuntamento a Ischia" di Mario Mattoli nel 1962, per poi ritrovarsi in diverse pellicole come ad esempio "Notti nude", "Gardenia - Il giustiziere della mala", "Viola bacia tutti", "Questa notte è ancora nostra". Ha pubblicato sei libri. Questa è solo una delle tante curiosità sulla sua vita: andiamo a scoprirne altre cinque.

Non solo Roma: anche Tripoli e Salerno nella sua infanzia

Grande cantore di Roma, certo. Ma forse non tutti sanno che Franco Califano è nato a Tripoli, in Libia. Durante quel 14 settembre 1938 il padre Salvatore (di Pagani, Salerno) era in servizio nel Regio Esercito e risiedeva là da alcuni mesi insieme alla moglie Jolanda Ianniello, avendo già una figlia. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale la famiglia rientrò a Nocera Inferiore (Salerno) per alcuni anni. In seguito, a guerra conclusa, si trasferirono a Roma, dove nacque Guido, l'ultimo figlio, e dove poco tempo dopo il padre Salvatore morì prematuramente. Dopo le scuole dell'obbligo, passate prevalentemente in collegi ecclesiastici - tra i quali il Collegio Sant'Andrea ad Amalfi - Franco si iscrisse a un corso serale di ragioneria presso l'ITCG Ludovico Ariosto perché "rapito" dalla vita notturna non riusciva ad essere puntuale ai corsi mattutini.

I capolavori scritti per i "mostri sacri" della musica italiana

"Minuetto", interpretata dalla soave Mia Martini è sicuramente il più grande successo di Franco Califano: sia tra i brani scritti per sé che tra quelli scritti per altri. La musica di Dario Baldan Bembo riesce a trovare un testo che le è effettivamente adatto: il capolavoro resterà nella classifica italiana per ventidue settimane diventando il disco più venduto del 1973. Eppure, Califano ha scritto diverse altre canzoni famosissime: a partire dalla bellissima "Un grande amore e niente più", che, sempre nel '73, porterà Peppino Di Capri alla vittoria di Sanremo. Ben prima, però, già a partire dal 1965, il giovane Califfo aveva scritto brani di successo per cantanti già noti al grande pubblico: da "E la chiamano estate" per Bruno Martino, a "La musica è finita" per Ornella Vanoni su musica di Umberto Bindi. E poi "Un'estate fa", "Semo gente de borgata" per Edoardo Vianello e Wilma Goich e alcuni brani per Caterina Caselli e Loretta Goggi.

I Ricchi e Poveri e gli altri: il Califfo alla scoperta di nuovi talenti

Fabrizio De André un giorno decise di organizzare un provino per i Ricchi e Poveri a Milano in una nota casa discografica. Provino fallito e band in stand by fino a quando, poco dopo, a innamorarsi dei quattro è Franco Califano al grido di "siete ricchi di spirito e poveri di tasca", diventando anche il loro produttore e pensando a un nuovo look per ognuno di loro. Califano partecipa poi alla fondazione della casa discografica Lupus, che si occuperà di musica leggera e d’autore italiana. Tra i nomi che ne faranno parte ci sarà il cantautore Stefano Rosso, Donatella Rettore, Pippo Franco, e poi ancora i Collage, i Dik Dik, Francesco Nuti e gli imprevedibili Milly Carlucci e Luca Sardella. Per la Lupus incideranno anche Daniela Casa e naturalmente Califano stesso, che pubblicherà sotto questa etichetta i suoi album usciti tra il 1982 e il 1984.

Califano "politico" e il legame con i temi più sociali

Califano è stato un personaggio oltraggioso, ma nello stesso tempo visceralmente autentico. Nelle sue canzoni era attento anche ai problemi sociali reali, legati aagli strati più bassi delle borgate. A quelli che non gliela facevano a campare materialmente e psicologicamente. A coloro che per vivere conoscevano solo un modo: rubare, spacciare, anche assassinare. A quelli che, per smettere di drogarsi, occupavano le palestre a Primavalle e che lui esortava a ripulirsi senza paternalismi. Lui stesso venne coinvolto ingiustamente in accuse di associazione a delinquere di stampo camorristico, possesso e traffico di stupefacenti (sempre assolto con formula piena). Il suo stile di vita edonista e sregolato gli costò comunque critiche di essere un "fascista doc". Ma, a parte le frequentazioni da ragazzo negli ambienti dell'Msi giovanile, aveva amici a sinistra (Craxi, Berlinguer, Rutelli) e simpatie radicali. In seguito si definirà un "liberal che vota Berlusconi". Tuttavia non era politicamente etichettabile.

L'amore delle (e per le) donne, per comprendere tutti noi

L'unica etichetta che si può affibbiare al Califfo è quella dell'amante. Non solo per via delle tante liason che ebbe con tantissime donne (lui stesso disse di averne avute 1.700), ma perché l'amore che cantava era infatti quello per la vita: un amore a 360 gradi. Possedeva una grandissima dote: quella di capire i sentimenti femminili. Era come se Califano sapesse che l'amore parte principalmente dalla conoscenza del mondo interiore di chi hai di fronte; e non il contrario. Nel suo mondo non esistono "giganti buoni" e, se esistono, è solo per mettere in evidenza che c'è un grande problema, che è reale e che va affrontato prima che sia troppo tardi: la leggendaria "Avventura con un travestito" racconta appunto di un maschio alfa che viene umiliato nella sua presunzione di capire le donne e, smontato nel suo razzismo dal fatto che il trans in fondo gli piaceva eccome, non se ne fa una ragione. Insomma: Califano come capiva le donne, capiva anche gli uomini e, in generale, le creature imperfette che tutti noi siamo.

Estratto dell'articolo di Valeria Arnaldi per “il Messaggero” il 23 marzo 2023.

«Francamente, Franco, te lo meriti». Si apre così, con l'emozione di un attestato di amicizia e la profondità di un omaggio all'artista, il volume "Francamente Franco. Il vero volto di Califano" di Marino Collacciani, con prefazione di Edoardo Vianello, che Il Messaggero, sabato, porterà nelle edicole di Roma città, Ostia inclusa, a 6,90 euro, oltre al prezzo del quotidiano. Pubblicato con Castelvecchi, il libro è un tributo all'artista, in occasione del decennale della scomparsa, avvenuta il 30 marzo 2013.

IL RACCONTO E, soprattutto, è un intenso racconto e una articolata analisi della sua visione dell'arte e della vita. «Una narrazione a trecentosessanta gradi scrive Vianello, legato a Califano da 49 anni di amicizia - del poeta e del protagonista delle fragilità e della solitudine, ma anche della saggezza e di una filosofia di vita unica nel suo genere, capace di farsi sempre più strada tra i seguaci attraverso canzoni indimenticabili».

 L'UOMO E L'AUTORE In 128 pagine, Collacciani narra l'uomo e l'autore, ma anche la risposta della critica - «la tua arte è stata spesso maltrattata, altre volte ignorata», sottolinea - e quella del pubblico, invece, calorosa ed emozionata. 

 (...)

Senza dimenticare i fantasmi dell'isolamento, che però riesce a trasformare in compagni di viaggio per allontanarsi dalla depressione. Ecco allora il racconto dell'amico. «Di Franco mi colpì la sincerità e, di primo acchito, il fatto che fosse un uomo bellissimo. Un "fico", ma non qualunque.

 Tutto, meno che il "piacione" romano, sia pure acquisito: una faccia pregna di fascino, mai una parola fuori posto e la capacità di rendere interessanti le risposte a domande banali nel corso dell'incontro con i giornalisti», afferma l'autore che lo conobbe nel 1979. Poi, l'attenzione si sposta sull'uomo e sui momenti difficili della vita. «Grande sensibilità la sua, offuscata però in modalità subdole da nuvole di polvere bianca fattegli cadere addosso da una critica non artistica, ma semplicemente di parte».

(...)

Estratto dell'articolo di Carlo Moretti per “la Repubblica” il 23 marzo 2023.

Il 30 marzo saranno dieci anni dalla scomparsa di Franco Califano, per tutti un grande cantautore, una delle voci più importanti della canzone italiana. Pochi però conoscono la sua attività di talent scout. Tra le sue scoperte più importanti ci sono i Ricchi e Poveri, di cui il Califfo nel 1967 volle diventare il primo manager, come ricordano Angelo Sotgiu e Angela Brambati, appena rientrati da un tour in Australia.

 Quale fu il vostro primo incontro?

Angelo: «Lo incontrammo per un’audizione alla Carosello, dove arrivammo presentati da un nostro amico. Franco Califano era il direttore artistico, quel giorno ci ascolta e si entusiasma subito, chiama Giovanni D’Anzi, l’autore diO mia bela madunina , chiama Alfredo Cerruti, “sentite che bravi”, e noi come un juke box ripartivamo ogni volta da capo».

(...)

A un certo punto comincia a trasformarvi nel look.

Angela: «Noi non avevamo soldi,a Genova Franco aveva fatto il perito chimico alla Esso, Angelo l’operaio all’Italsider, io davo una mano a una pompa di benzina vicino casa mia: il Califfo cominciò a farci regali, ricordo per me un vestito lungo di velluto blu. Primadel Cantagiro del ‘68 aveva già creato nella sua testa i nostri personaggi: io avevo i capelli lunghi e ondulati, me li ha fatti tagliare corti: “Sei peperina, stai bene con il capello corto…”».

Angelo: «Io ero moro e mi ha fatto tingere i capelli biondi».

 Lei accettò subito?

Angelo: «Assolutamente: gli davo retta perché Califano aveva un istinto particolare per queste cose».

 Angela: «Allora ci si vergognava per un uomo con i capelli tinti, mi ricordo che la mamma di Angelo iniziò a ossigenarsi anche lei, diceva a tutti: “Vedete? Anch’io sono bionda, per questo mio figlio è biondo”».

Angelo: «Fu il Califfo a chiedere che Marina si schiarisse per diventare bionda, vedeva i due ricchi e i due poveri, i due biondi e i due mori, due vestiti da ricchi e due da poveri…».

 (…)

 Angelo: «Nel nostro primo Sanremo nel ‘70 con La prima cosa bella era più in ansia di noi, quando hanno annunciato il nostro secondo posto l’ho vista in platea, saltava di felicità e faceva il braccetto a tutti, tiè, tiè, tiè: aveva avuto ragione e vinto lui, dopo tante difficoltà per affermarci finalmente poteva esultare».

 L’avete ricantata nel 2020 all’Ariston nella reunion, 50 anni dopo.

«È stato emozionante, e giusto farlo con Franco e Marina. Ma ora i Ricchi e Poveri sono gli Angeli, stiamo volando in alto in due».

Da ilnapolista.it il 23 marzo 2023.

(…) Vi cambiò il look.

 Angela: «Portavo i capelli lunghi, ondulati. “Tagliali corti, cortissimi”. Non andavano nemmeno di moda, però gli ho dato retta, mi fidavo, sono una che si butta, non mi spaventa niente».

Angelo: «A me ordinò: “Fatti biondo”. A quei tempi, per un uomo, andare dal parrucchiere e chiedergli una tinta platino non era proprio facile… Mia madre si vergognava. “A casa siamo tutti bruni, cosa penserà la gente?”. Così è diventata bionda pure lei».

Tutto il resto del Califfo. Gianni Poglio Panorama 17 Marzo 2023

Un libro racconta chi è stato veramente Franco Califano, scomparso 10 anni fa (quanti sanno che ha venduto oltre 20 milioni di dischi?). Un racconto rende merito a lui e al suo genio e prova a cancellare quella etichetta da playboy coatto che si è sempre portato addosso. Raccoglieva frammenti di vita sulla strada e nelle notti romane e le trasformava in canzoni

Franco Califano. A modo suo, senza appartenere a niente e a nessuno. Un battitore libero che la critica non ha mai amato e forse nemmeno capito, etichettando i suoi dischi (ne ha venduti 20 milioni) e le sue canzoni come l’espressione folkloristica di un «guitto di Trastevere». Ma Califano era molto più dell’immagine del playboy coatto che gli è rimasta appiccicata addosso per tutta la vita. Una vita complicata, controversa, spesso solitaria, tra luci e ombre, 1.500 donne, cocaina, cadute rovinose e lampi di genio. Un’esistenza che adesso viene raccontata e svelata nei dettagli dal giornalista, nonché amico personale, Marino Collacciani, nel libro Francamente Franco (Castelvecchi). Non una biografia in senso classico, ma un puzzle composto da centinaia di frammenti di vita reale. «A cominciare da una telefonata ricevuta da Franco alle tre di una notte d’estate.

Un periodo durissimo, segnato dalla fine del mio matrimonio. Voleva capire che cosa era successo veramente. Mi fece parlare senza incalzarmi, ma con il tono fermo di chi vuole che gli racconti la verità, tutta la verità. Un “interrogatorio” senza la luce puntata in faccia… Lo avevo conosciuto vent’anni prima quando il direttore de Il Tempo, Gianni Letta, mi aveva chiesto di seguire un suo concerto a Ladispoli: “Marino, fammi un ritratto dell’uomo”». Già, l’uomo… Di ordinario nella vita di Califano non c’è stato nulla, nemmeno il primo vagito emesso in volo su un aereo in viaggio verso Johannesburg, come racconta Collacciani. Figlio di Jolanda e Salvatore, militare nell’esercito, Franco debutta come attore di fotoromanzi, recita in una manciata di film e scrive poesie. Ma c’è lo spartito nel suo destino: La musica è finita, interpretata da Ornella Vanoni e scritta da Califano con Nicola Salerno e Umberto Bindi, valica addirittura i confini nazionali e diventa un singolo di Robert Plant, nientedimeno che il cantante dei Led Zeppelin, che la incide ribattezzandola Our Song. «Franco sapeva comunicare con la gente delle borgate» prosegue Collacciani. «Viene spontaneo il paragone con l’approccio di Pier Paolo Pasolini. Un uomo di sinistra che per quest’anima popolare è stato attaccato dalla cultura di sinistra. Franco, che invece era di destra, un anticomunista, è stato attaccato dalla sinistra, ma mai difeso dalla destra. Detto questo, era un uomo di eccezionale generosità. Pagava sempre il conto. Al ristorante, al bar, come nella vita. Nel 1970 è indagato per possesso di stupefacenti in un’inchiesta che coinvolge anche Lelio Luttazzi e Walter Chiari. Si costituisce, finisce a Regina Coeli e dopo poco ottiene gli arresti domiciliari. Solo che la sua casa in quel periodo era una roulotte…». Cade e risorge Califano: nel 1973 insieme a Dario Baldan Bembo scrive per Mia Martini l’indimenticabile Minuetto, che diventa un classico della musica italiana. Tre anni più tardi arriva la sua canzonemanifesto, Tutto il resto è noia: sette settimane al primo posto in classifica e un milione di copie vendute. «Non mi considero un pentito della droga, perché amo il vissuto, ma non amo il vizio e sto cercando di convincere i viziosi a guarire dalla droga» è una delle dichiarazioni di Califano citata dal libro e riferito al suo incontro con Don Pierino Gelmini e la Comunità Incontro. Niente di ordinario, dicevamo, nella sua esistenza, men che meno il finale quando per l’ultima volta, nel marzo del 2013, sale sul palco del teatro Sistina di Roma, sfiancato da un tumore. «Era ridotto a uno straccio: piangeva perché era commosso dall’affetto della gente, nei camerini c’era la ressa per dargli una carezza Purtroppo le ombre che hanno popolato la sua vita

Purtroppo le ombre che hanno popolato la sua vita hanno condizionato il giudizio sull’arte» commenta Collacciani. «Era riuscito a esaudire il suo ultimo desiderio, quello di tornare in teatro dopo che negli ultimi anni aveva cantato principalmente nei ristoranti. Lo faceva con grande dignità, ma continuava a ripetere: “Basta, mi sono rotto le palle di suonare in questi posti, io nei ristoranti ci vado per mangiare”. Dodici giorni dopo lo spettacolo al Sistina se ne è andato». Con un ultimo guizzo, l’epitaffio voluto sulla tomba: «Non escludo il ritorno».

Matteo Marzotto: «Mamma Marta era una bomba. La moda, cinque figli, poi l’amore con Guttuso e le telefonate di Pertini». Storia di Andrea Ducci su Il Corriere della Sera il 28 settembre 2023.

Qual è il primo ricordo di? «Trasgrediva a tutte le buone regole e mi consentiva di dormire con lei. C’era molta fisicità, arrivava e mi baciava per interi minuti. Aggiungo — racconta Matteo Marzotto — il mio primo ricordo legato alla moda che ho di lei: una scarpa bicolore con un tacco alto di Chanel e un abito di Yves Saint Laurent ricamato a fiori su fondo nero».

Era severa con se stessa? «Non direi. Era molto anticonformista. Il fatto di avere vissuto in maniera totalmente pubblica l’ha talvolta penalizzata, la verità è che nell’arco di una vita ha fatto quello che certe signore paludate hanno combinato in pochi mesi. Detto questo a suo modo era rigorosa».

Molti la ricordano incredibilmente generosa, lo è stata anche come genitore? «Più che generosa. È stata addirittura prodiga. La sua generazione ha vissuto la durezza della guerra, in particolare lei andava a mondare il riso nei campi. Ammetteva di viziarci e non ne faceva mistero, spiegando che non aveva avuto niente e che aveva vissuto la guerra».

Non era una madre ferrea e inflessibile... «Io sono l’ultimo di cinque figli, sono stato viziato oltre ogni misura. Era una donna che arrivava con “cariolate” di attenzioni, regali e pensieri. Una profusione di amore talvolta disordinata, non era capace di educare nel senso convenzionale del termine. Ma ci ha trasferito il senso dell’etica, l’onestà intellettuale e l’essere solidali verso chi ha bisogno».

Aveva un nome da predestinata Marta Vacondio. Capitava di sentirle fare bilanci? «Ne faceva continuamente però guardava sempre avanti, negli ultimi tempi quando andavamo a trovarla in ospedale stava uscendo il suo ultimo libro, ma si diceva pronta a girare l’Italia per promuoverlo. Si aggiunga che non ha mai dimenticato le proprie origini, frequentando il paese di Mortara e la Lomellina, mantenendo i rapporti con tutti i cugini. È stata davvero figlia del popolo, questo è il più bel riconoscimento: avrebbe potuto montarsi la testa, in fondo aveva trovato il principe azzurro e sposato il figlio di uno degli uomini più ricchi dell’Italia dell’epoca. La vita poteva sembrare facile, ma in realtà per lei non lo è mai stata».

Marta Vacondio e Umberto Marzotto il giorno del loro matrimonio

La moda cosa ha rappresentato per lei? «All’inizio è stato il modo per lasciarsi alle spalle i campi di riso di Mortara e andare a Milano nella grande città. La moda l’ha vissuta negli atelier degli anni ‘50 con le sorelle Fontana e la Curiel. Poi si è formata, andava a Parigi a New York e si trovava a suo agio con artisti e intellettuali. È stata una mecenate del movimento artistico degli anni 70, a casa c’erano spesso Mario Schifano, Franco Angeli e Tano Festa che discutevano e sbevazzavano. La sua generosità ha contribuito al successo di Roberto Cavalli, Rocco Barocco e Enrico Coveri, amici che lei poi faceva decollare come un razzo».

Roberto Cavalli

Il suo primo esperimento commerciale fu una boutique all’interno di un barcone ormeggiato a Porto Ercole, il Turlututù... «Mia madre amava le case e convinse mio padre ad acquistarne una all’Argentario. Alla fine degli anni 60 iniziammo a vivere quella casa e io ricordo il Turlututù, una specie di ex peschereccio ormeggiato che diventa una boutique di vestiti e accessori eccentrici, dove lei insieme a Fabrizia Borghese e Vittoria Cappelli si diverte come una matta e ne fa un punto di ritrovo immancabile. Il Turlututù ha poi aperto anche a Cortina sotto l’Hotel Posta, aggiungendosi così al negozio di Roma».

Anni dopo le sue linee di moda vendute alla Standa ebbero grande successo. Aveva fiuto per gli affari? «Era destrutturata ma per niente ingenua. I fratelli Franchini, proprietari della Standa insieme a Berlusconi, avevano per lei un’adorazione e le proposero una licenza. Mia madre è partita per la Cina e tornata con un modello di maglione in cachemire che è riuscita a piazzare al prezzo di 127 mila lire, quando maglioni così ne costavano almeno 700 mila. Aveva ordinato 35 mila pezzi e la davano per pazza, sono durati un baleno. Poi si è inventata le linee “Marta da Legare”, “Marta Martissima” e una più a buon mercato “Martaccia tua”. Arrivavano le collezioni e la mamma si metteva in vetrina, era davvero una bomba a mano. Al culmine del successo aveva un contratto da più di 6 miliardi lire».

Per approfondire

Per anni ha vissuto un funambolico equilibrio amoroso tra il pittore , suo padre e , uno dei fondatori de Il Manifesto. Una stagione di affetti conclusa con la morte di Guttuso e la pubblicazione delle lettere di amore con il maestro. Un imprevisto che porta al divorzio con il marito e all’addio con Magri. Sua madre ne esce indurita? «Quella è stata un’enorme leggerezza di mia madre, avrebbe dovuto presidiare la famiglia prima di pensare a ciò che il mondo esterno diceva della relazione con Guttuso, che in realtà era una vicenda ormai trita e ritrita. Fu vittima dei colpi bassi di Fabio Carapezza, il segretario di studio che il maestro aveva deciso di adottare. Avrebbe dovuto, malgrado il grande clamore, tentare di trovare una soluzione con mio padre: erano in ballo 35 anni di matrimonio con cinque figli. Dopo, mia madre non ha più avuto un compagno».

Renato Guttuso, a destra, con Enzo Biagi

Era molto imprevedibile, qualcuno riusciva ad avere ascendente su di lei? «A suo modo era fragile e insicura, questa iperattività era una maniera per schernirsi. Qualche volta è stata mal consigliata da persone che avevano presa su di lei e che le hanno fatto compiere gravi errori. I figli maschi hanno avuto su di lei ascendente ma non sempre lo ha trasferito nella scelta giusta. Tendeva ad ammirare le persone di successo, pensando che avessero un qualcosa in più, un esempio è Silvio Berlusconi per cui aveva grande stima».

Chi sono stati gli amici del cuore? «Jean Paul Troili è stato l’amico di una vita, così come Fabrizia Borghese, Marina Cicogna, Etta Carignani di Novoli, Vittoria Cappelli, Pietro Barilla, Aldo e Mila Brachetti Peretti. Poi c’erano i cerchi allargati con innumerevoli amici, saltimbanchi, questuanti, mangiafuoco e umanità varia».

Jean Paul Troili

Cosa la rendeva intransigente? «La fedeltà degli amici la dava e la pretendeva».

Era capace di litigare o lasciava correre? «Lo era, ed era pronta ad andare all’attacco senza alcun timore o paura».

Cinque figli, c’è il prediletto o la prediletta? «Ma non c’è dubbio (dice ridendo, ndr), ero io. Mia madre mi ha avuto a 36 anni, per me è stato più facile perché ero il più piccolo e si aggiunga che sono un maschio».

Discutevate? «Sempre, anche bisticciando. Non sopportavo tutti questi eccessi di trasparenza, soprattutto nella parte conclusiva della sua vita. Gliel’ho detto, mi ha risposto: non puoi pretendere che cambi e io ho replicato “non puoi pretendere che approvi tutto ciò che fai”. La verità è che iniziava a fare confusione sulla qualità delle persone, però per lei era uno stimolo e si è certamente divertita così».

Parlava di politica? «In politica è stata fortissima nel periodo romano. Era la contessa rossa che frequentava l’intellighenzia di sinistra, da Alberto Moravia a Leonardo Sciascia. Aveva consuetudine con il presidente Pertini che telefonava a casa, tra i politici di quella stagione era in sintonia con Enrico Berlinguer e Antonello Trombadori».

Alberto Moravia

Un ricordo di quel periodo? «Avevo neanche dieci anni e Emilio Fede conduceva il Tg1, una sera a casa dalla mamma mi disse che l’indomani in video si sarebbe toccato la cravatta con un determinato gesto. Quel gesto sarebbe stato il modo di salutarmi in diretta televisiva. Il giorno dopo lo fece e fu una soddisfazione».

Avrebbe compiuto 60 anni. George Michael, l’anima soul che aveva la morte dentro. Ciuffo biondo e jeans stretti. Si affermò appena ventenne con i Wham. Ma era molto di più di quella leggerezza anni 80. Crocifisso dalla stampa perché gay, con “Older” ci lascia un capolavoro. Graziella Balestrieri su L'Unità il 2 Luglio 2023 

Avrebbe compiuto 60 anni oggi ma non ha avuto molta fortuna. E la sfortuna non è quella di non aver vissuto a lungo ma quella di non aver vissuto la propria vita come voleva. Georgios Kyriacos Panayaiotou, in arte George Michael, bello come un dio greco, la terra dalla quale provengono i genitori, la voce di un dio, che sembrava venire da quel paradiso che in terra gli è stato negato.

George Michael è una delle voci in assoluto più suadenti, seducenti e potenti che l’intero panorama musicale possa ricordare. Esplode appena ventenne con gli Wham, ve lo ricordate vero? Era quello con ciuffo biondo e con i jeans stretti a cui le ragazzine urlavano qualunque cosa. I Wham e quel loro pop facile che infastidiva le band di allora e che nella maggior parte considerava leggeri, facili, di quelli che ballano e si divertono e basta. Club Tropicana come fosse il simbolo di un cambiamento verso la leggerezza, del disimpegno e forse era anche così, erano gli anni 80 e tutto, tutto il mondo si sarebbe spostato verso quello che per noi in Italia sarebbe stato il tempo della Milano da bere e di Yuppies giovani di successo.

Ed è proprio all’apice del successo con i Wham che George decide che non è più il tempo per farsi divorare dal pubblico. C’è qualcosa in lui che sta crescendo, si sente soffocare e non ha più voglia di fare l’occhiolino a bordo piscina alle ragazzine ululanti. Scopre che la sua voce ha potenzialità che vanno curate e accudite e finalmente capisce che la sua anima soul e r’n’b ha bisogno di uscire fuori. È Faith nel 1987 a dare inizio alla sua straordinaria carriera da solista, straordinaria perché per quanto ci sia un certo tipo di pregiudizio proprio musicale nei confronti di George Michael, il suo era un pop di altissima qualità, di come in giro forse oggi solo Harry Styles riesce a fare ma con una differenza enorme, gigantesca: George aveva una voce che è difficile da manovrare, difficile per estensione, George era l’unico che avrebbe potuto sostituire Freddie Mercury nei Queen e non solo per la potenza ma per l’intensità.

Potete trovare un video su youtube, dove David Bowie assiste alle prove di George mentre lui canta Somebody to love insieme ai Queen: guardate il finale del video e l’espressione di Bowie mentre guarda ammirato George. La spiegazione del suo talento, della sua classe è tutta in quello sguardo. I want you sex, Freedom, vi sembrano tutti titoli per ballare, ma sono piccole rivoluzioni, anche di pensiero, scritte in un momento in cui l’Aids imperversava nel mondo omosessuale e i gay erano visti come untori.

La morte di Freddie Mercury è un durissimo colpo e quando molti artisti vengono invitati sul palco ad omaggiarlo e a raccogliere fondi, George è uno dei primi a salire su quel palco e come lui stesso dirà nel documentario George Michael – A different Story “quella è una delle sue migliori esibizioni, straordinaria dal punto di vista interpretativo e musicale. Ma c’era un motivo dietro – il mio compagno aveva l’aids, nessuno lo sapeva, nessuno sapeva che Anselmo fosse lì in mezzo al pubblico. Io ho dato il massimo perché avevo la morte dentro -“. Nessuno sa di George, lui non vuole che si sappia. Lui non voleva che sua madre lo sapesse. Sì, le persone avrebbero dovuto rispettare anche questa volontà e invece no. Tutti gli andavano addosso, tutti puntavano il dito, perché lui, che era una star avrebbe dovuto dirlo per forza.

George inizia a stare male, a soffrire e a soffocare. Anselmo, il suo compagno, l’unico amore della sua vita muore e per lui inizia il declino fra farmaci e alcool. Ma c’è la musica in grado di donargli ancora una volta la vita. E nel momento massimo del dolore, George che porta con sé dolore e bellezza, in un perfetto abito scuro di Armani, con indosso un capello rasato e un pizzetto a dargli quell’età e quella maturità ancora difficile da far credere agli altri, nel maggio del 1996 dava alla luce uno degli album più sofisticati, eleganti, drammatici e perfetti della scena Pop internazionale. Stiamo parlando di Older, album che è il vero marchio di quello che dovrebbe essere considerato uno degli autori più importanti nel mondo della musica. Older per conto suo ai tempi batte ogni tipo di record ma non sono i record che bisognerebbe tenere in considerazione.

Older è l’album dell’intensità che racconta del dolore portato allo stremo fino a farlo diventare bellezza totale. La scrittura profondissima alla ricerca della normalità più assoluta ribadisce l’enorme talento di George come cantautore, troppo spesso snobbato, troppo spesso patinato, considerato come una cornice da giornali da gossip. Eppure, l’enorme talento da autore di George è già palpabile nella struggente, nostalgica ma piena di speranza dopo un lutto enorme, ovvero la perdita del suo compagno per causa dell’Aids, un vuoto che ha circondato Michael come una gabbia dalla quale forse non è più riuscito ad uscire. Quel buio che lui aveva dentro e fuori trova in Jesus to a Child l’unica forma di speranza. Il dolore per quanto immenso, imperdonabile, nella scrittura di George diventa quasi un permesso a poter ricominciare, ad andare avanti, a far proseguire quell’amore in ogni modo.

Per un assurdo paradosso non si spezza la catena ma improvvisamente scompare del tutto causando in George Michael un dolore talmente profondo , un silenzio talmente dirompente che solo l’intero album è il dialogo di George con la morte, l’assenza, la richiesta di presenza a tutti i costi, i dialoghi, il bisogno di sentire la famiglia intorno a se e più di ogni altra cosa di trovare consolazione nell’innocenza, nello sguardo, nella dolcezza di Gesù da bambino, prima che tutto avvenisse, prima che il mondo crudele e gli uomini lo mettessero in croce, prima delle spine, del sangue, dell’ingiuria, prima di essere tutto questo. E non solo la perfezione quasi drammatica di Jesus to a Child e la volontà di caricarsi di vivere il peso di tutto quell’amore che la morte nonostante crei il vuoto non può portare via quando si ha amato davvero. È l’inafferrabile dolcezza di un brano come You have been loved che regala l’atmosfera fumosa dell’inconsolabile perdita e che solo la ricerca di voci familiari riescono a consolare.

È il jazz presente in The strangest thing che raccoglie e distribuisce tutta la classe e la profondità della voce di Michael o la ritmata Spinning the Wheel che ammalia per la ritmica, dei fiati suonati come se fossero suonati da lontano, distanti quasi. In un certo senso è George che guarda da lontano girare quella ruota e che non accetta quello che gli sta capitando. Older è un grido di dolore quasi perfetto, la ricerca di sé stessi dentro la perdita del grande amore della propria vita. La consapevolezza che è evidente nella scrittura di George Michael che tutto quello che è stato non sarà più come prima e che però se un uomo è in ginocchio lo è solo per chiedere salvezza un’altra volta. La fede, quella fede che George ha sempre avuto nelle sue liriche, mai sporcata con i pettegolezzi degli altri.

Older è un album segna l’arte di uno dei migliori artisti che la musica ha mai potuto avere ma che ha in un qualche modo mai riconosciuto a pieno. La voce di George Michael rimane uno degli strumenti in grado di raggiungere profondità dell’anima che in pochi ancora sono riusciti ad esplorare ed è in grado allo stesso tempo di riconciliarci con l’Alto. Eppure, abbiamo sempre in mente, come lo è stato anche quando lui era vivo, il ragazzo con il drink in mano che ammicca e si rotola nelle nevi cercando, vestito di bianco. E non è così, era anche così ma anche no. Poi succede che nel 1998 George è costretto a fare coming out. Sì, costretto. Viene arrestato per atti osceni in luogo pubblico da un poliziotto in borghese, poliziotto che ora – caso strano – è a capo della sicurezza della Sony, casa discografica con la quale George Michael ebbe un lungo ed estenuante processo. Buttato sulle prime pagine del Sun con la copertina che lo derideva “ZIP ME UP BEFORE YOU GO GO”.

Scandalo nell’America perbenista, dove il sesso in una toilette pubblica è un reato ma se hai con te una pistola e spari in pubblico uccidi persone innocenti, allora sì, sei un vero americano. Additato, cerchiato e braccato George Michael è costretto a fare coming out e quando questo avviene per lui inizia di nuovo una discesa, non musicale, perché anzi il brano Outside con cui prende in giro i poliziotti in borghese che l’hanno arrestato arriva in vetta alle classifiche e George nel bene e nel male rimane lì nell’Olimpo. Non è questo, George Michael esce a pezzi da questa vicenda, non ama più stare in mezzo alle folle, quello che vorrebbe sarebbe solo stare a casa, come lui stesso dice “stare a casa è l’unico modo per non far uscire fuori quella parte di ego che io ho strangolato , quella parte di ego che in alcuni momenti mi ha portato all’autodistruzione”.

È un caso strano George Michael nel mondo della musica, uno dei pochi talenti che avrebbero dovuto essere riconosciuti per la sua arte e non per quello a cui è stato costretto. La cosa assurda è che non gli è stato permesso di vivere come voleva. Era gay, non avrebbe voluto dirlo per sua madre. Andava rispettato, non buttato in prima pagina come fosse un criminale qualunque. Non c’è stato nessun rispetto per lui, per la sua vita, non c’è stato nessun rispetto per la sua arte. È quasi inutile ora averlo fatto entrare nella Rock ‘n Roll of Fame. Sarebbero 60 anni oggi, se solo avessimo guardato oltre quel ciuffo e a quel ragazzo – senza pregiudizio- , se solo avessimo stracciato quelle pagine del Sun, se solo avessimo guardato all’arte di uno dei più grandi interpreti della musica internazionale. Graziella Balestrieri 2 Luglio 2023

Barbara Costa per Dagospia sabato 18 novembre 2023.

“Scatta Mick! L’hai presa, ce l’hai?”. L’ha stabilito Jimmy Page, che la chitarra rock va portata giù, "bassa", a mo' di pistolero, di fuorilegge, e se sbatte "lì", è per un unico motivo: per farti venire la voglia. Di prenderla in bocca. Scatenamento dei sensi che solo il rock ti produce e rapisce, e chi è stato a prenderla in bocca per primo? È documentato: il 6 luglio 1972, a Londra, Oxford Town Hall, David Bowie possiede di bocca la chitarra di Mick Ronson, la bacia, lecca, succhia, la morde, gli fa servizio orale. Completo.

Ma il Mick a cui Bowie si rivolge un istante dopo, impaziente, a chiedere conferma d’averla "presa", non è Ronson ma Mick Rock, al tempo fotografo ufficiale di David Bowie. Mick Rock scatta a Bowie foto memorabili, tra cui questa, la "guitar fellatio", foto affronto e delizioso oltraggio, foto che s’erge di diritto nella storia del rock sessual-iconica, subito dopo la chitarra bruciata da Jimi Hendrix, e quella spaccata da Pete Townshend degli Who.

Scatto guitar fellatio che si stemma su "The Rise of David Bowie. 1972-1973", libro fotografico di Mick Rock da "Taschen" di nuovo ripubblicato, e fellatio che poi è stata una gara a rinnegare, che no, mica era una vera fellatio, e allora che è stato? E foto che ha dato la stura a più versioni sul rapporto tra David Bowie e Mick Rock, e a dicerie stupefacenti su quello tra David Bowie e il suo chitarrista a oral guitar omaggiato, Mick Ronson. Identico nome di battesimo per due dei tre Mick (il terzo è Mick Jagger…) che nei '70 entrano e escono dal letto e non solo di David Bowie.

E si è a lungo rumoreggiato di una love story tra il dichiaratamente bisessuale Bowie e l’ufficialmente etero "poeta fotografico" sotto acido Mick Rock: “Mick è i miei occhi”, tubava in pubblico Bowie, titillato da un Rock che mai l’ha nascosto, “ho conosciuto David a Birmingham, nel backstage di un suo concerto. Marzo 1972. Da lì abbiamo cominciato a uscire insieme tutte le sere. Iniziò così. David era luccicante come Londra. Rossetto e sigaretta perenne in bocca. Ci siamo "fatti" di tutto. La mia foto di David coi capelli rosso fuoco, giardino alla finestra, uno specchio sul tavolo. David mi fissa. Io calibro lo scatto. Fu quella foto ad unirci per sempre”.

Massima confusione regna nell’ambiguo legame tra David Bowie e Mick Ronson. Ronson prima di Bowie era a tutti gli effetti un chitarrista fallito ridotto a giardiniere che accetta di suonare con Bowie… per disperazione. È l’Inghilterra più timorata e posata e conformista, a disperarsi nella morale allorché in TV, sconvolta, vede Bowie e Ronson a "Top of the Pops", che si abbracciano, si toccano, si guardano languidamente come due amanti, sulle note di "Starman": “Non lo dire a tuo padre/ sennò ci fa rinchiudere”.

E truccati in "quel" modo, e vestiti in "quel" modo. La lingua in bocca non se la mettono: la lingua è percepita. È elettrizzante, è trasformativo: è il futuro finalmente arrivato. È il gennaio 1972, e il 1 luglio 1972 ci sarà il primo Gay Pride inglese. 700 a sfilare.

La guitar fellatio è di poco successiva, ed è indubitabile sia stata una performance tra i due concordata, e chissà se e quante volte provata, se e quante volte ripetuta. E David Bowie la chitarra di Ronson non l’ha solo fellata, l’ha amata in più posizioni, tra le gambe di lui, avvinghiato a lui, in pose in cui orgasma l’effetto che specie gli assoli di Ronson gli procurano. 

Bowie fa sesso con la chitarra di Ronson, sì, lo ha fatto pure con Ronson? Da tempo si alzano le storie le più contraddicenti, tra chi giura – in primis Mick Rock – sulla ferrea eterosessualità di Ronson – che quando suona con la band di Bowie è sposato e padre, sua moglie è una parrucchiera immessa nell’entourage di Bowie – e chi garantisce che Ronson era in verità pazzo di Bowie e di lui geloso matto, e lo dimostra il fatto che Ronson molla Bowie subito dopo che Bowie "uccide" Ziggy, all’Odeon, nello sconcerto mediatico generale.

Ronson non avrebbe lasciato Bowie per questo (e Ronson se ne vendica al veleno, va in tour con Bob Dylan, eterno "amore" non consumato di Bowie) ma perché Bowie (sempre sposato a Angela, eh!) l’ha tradito e mazziato per un altro, e chi? Lou Reed, e certo. La teoria la più assurda e però attirante pone la morte di Ziggy come massima prova d’amore posta da Lou a David, e da David eseguita: muore Ziggy, cioè muore il mio legame con Ronson, e inizia il mio con te, caro Lou. 

I più pettegoli la amplificano con l’irresistibile attrazione di Bowie per i pettorali villosi di Reed, e con un Bowie che guaiva a passività sado-preso da Reed. I due presto diventano tre, con in mezzo lui, Mick Jagger! Threesome in ogni fase succhiato e fotografato da Mick Rock. 

Quando David Bowie “era” Ziggy Stardust, il film sul concerto del ’73. Se un giorno si vuole essere una persona, bisogna tenere in onore anche la propria ombra, diceva Nietzsche. Un concetto che l’artista ha fatto proprio, facendo del suo alter ego una stella. Graziella Balestrieri su L'Unità il 5 Luglio 2023

È un’occasione unica e senza nessun dubbio anche rara, quella che viene offerta dalla Nexo Digital che ripropone in versione completamente restaurata, per le serate del 3, 4 e 5 Luglio al cinema Ziggy Stardust & The Spiders from Mars: il film, il concerto di David Bowie e la sua band (The Spiders from Mars) ripreso dal regista D.A. Pennebaker, passato ora sotto la supervisione del figlio Frazer.

Un’occasione rara perché raramente troverete nella musica di oggi e anche forse in quella che verrà per molti anni ancora, quello che vedrete in questo concerto tenutosi il 3 Luglio del 1973, ben 50 anni fa, dove Bowie indosserà per l’ultima volta i panni di Ziggy Stardust, l’alieno che aveva plasmato su se stesso, con un’estetica impensabile ai tempi, l’alieno che era sceso sulla terra presentandosi per sbalordire tutti con i suoi cambiamenti, per scioccare sé stesso e gli altri. È di un’importanza storico musicale e anche di costume senza precedenti questo filmato, perché riguarda l’artista che più di tutti ha saputo mutare pelle, l’artista che più di tutti ha cambiato, sperimentato e provato su se stesso quelli che poi sarebbero stati i cambiamenti e i tormenti dentro e fuori agli uomini, solo che Bowie ci è arrivato attraverso la sua arte, anni e anni prima di tutti, e questo filmato riguarda l’artista che ha saputo dire basta ad una propria creatura.

È l’estetica che riguarda il contenuto e il contenuto che si rivolge all’estetica e non c’è mai rappresentazione del vuoto in tutto quello che vedrete sul palco dell’Hammersmith Odeon di Londra. Bowie torna a casa per cambiare pelle, per spogliarsi, torna lì da dove tutto è iniziato ed è li che decide che Ziggy Stardust ha bisogno di ritornare sul suo pianeta e che la missione sulla terra è terminata, mentre David invece deve riprendere le sembianze umane per riuscire a capire ora chi è lui davvero: è David Bowie che deve trovare il suo posto, è l’umano che deve scendere tra gli umani. Trasformarsi, cambiarsi, cambiare pelle, ritornare quello che si era prima per andare ancora avanti. Mutare per non farsi inghiottire da ciò che aveva lui stesso inventato. David Bowie mutante, sempre, così anche nella musica si susseguono i cambiamenti, musica che segue di pari passo l’estetica e viceversa, una specie di cerchio, niente ha inizio e niente ha fine ma ci sono solo cose da rimettere al proprio posto.

È complicata l’arte di Bowie, più di quanto si possa immaginare, una gigantesca rappresentazione dell’arte del vivere e dell’essere umano portata su un palcoscenico, complicata poiché fatta di costruzione e decostruzione nel bel mezzo del percorso. Rinunciare al personaggio che lo aveva reso famoso, complicatissimo strapparsi la pelle di dosso senza lasciare segni, tracce e ferite, davanti a tutti: è come se Picasso avesse impiegato degli anni a dipingere uno dei suoi quadri migliori e poi nel non riconoscerlo quasi più, nel non capire dove è il confine tra l’artista e il prodotto, decide che quel quadro va staccato immediatamente dalla parete e va; non rimesso a nuovo o sistemato ma messo al posto suo, da dove proviene, per non creare più confusione o paragoni con le opere che saranno future. Così Ziggy viene messo da parte, alla fine, inaspettatamente per il pubblico presente, colorato di arancione nei capelli per imitare Ziggy, accorsi per vedere il loro mito e per una sera venir trasportati su quella navicella spaziale che porta alla salvezza.

Dall’inizio della ripresa del concerto si può vedere con quanta classe Bowie, nel camerino resta fermo al trucco, osservando i particolari della mano che per l’ultima volta dipinge Ziggy sul suo volto, osservando senza rimanere sorpreso da nulla facendo però attenzione a tutto quello che lo circonda. Le luci, la sigaretta bianca tenuta in mano come se fosse seduto in una sala da tè inglese, con la naturale grazia che appartiene solo a pochi prescelti, nei gesti anche e non solo nelle parole. E poi le luci ancora, i costumi, il sipario, il pubblico, lo show: impeccabile lo show, con un Bowie che non ha mai la volgarità addosso, che completa ogni pezzo eseguito con un sorriso, più umano che alieno quasi a sottolineare che il cambiamento è lì, avverrà da lì a poco. Elegantissimo nonostante gli abiti in lurex e tutto quell’attillato che non gli sottolinea la magrezza ma la sfuma. Talmente elegante che sembra uscito da un atelier di alta moda.

Ecco, è importante andare a vedere questo concerto perché si nota la differenza con quello che viene proposto oggi in malo modo in alcuni casi e che non c’è niente che già Bowie non abbia proposto, indossato, gettato e ri-trasformato o rimesso al proprio posto: Bowie, cinquanta anni fa che veste attillato, che porta orecchini abbinati ad ogni cambio di abito, che ha nel trucco la sua luce più grande, che porta zeppe come se fosse una donna e che come se fosse una donna ha la lacca in camerino come amica. Ziggy Stardust provoca ma non insulta, esalta la diversità ma non la impone, si può cambiare invece: questo è naturale, non si è mai diversi nel saper accettare il cambiamento. Ci si può sentire un giorno profondamente bene in un abito attillato e luccicante così come in uno smoking il giorno dopo. Non c’è volgarità nelle tutine di Bowie, non c’è niente che possa risultare offensivo, perché ogni particolare è curato nel minimo dettaglio proprio per non mortificare e offendere la propria musica.

L’estetica di Bowie esalta la sua arte, non la sovrasta e non la mortifica, la esalta: questa è la differenza con quello che forse i giovani conoscono oggi. È un Bowie che saluta il pubblico di Ziggy Stardust, è Bowie che sceglie di dire addio al suo alter ego (per semplificare), all’alieno creato per aiutarlo a diventare una star e che il 3 Luglio del 1973 però si rende conto che quell’alter ego, come canta in Rock’n roll suicide, che quel sole (Ziggy l’alieno) sta bruciando la sua ombra (David Bowie uomo) e che – come diceva Nietzsche – se un giorno si vuole essere una persona, bisogna tenere in onore anche la propria ombra: Ziggy Stardust torna su Marte e sulla terra rimane David Bowie, che riuscirà negli anni a trasformare quell’ombra in una delle stelle più luminose… e che ora ci osserva anche se non sappiamo da quale pianeta. Graziella Balestrieri 5 Luglio 2023

Dagospia il 4 marzo 2023. Stralci di "Essere ribelli", una raccolta di pensieri e confessioni di David Bowie, in libreria da venerdì col Saggiatore.

 Diventerò famosissimo, e questo in un certo senso mi spaventa.

Perché so che dopo aver raggiunto l'apice del successo dovrò scendere, e la discesa terminerà con un grosso tonfo.

 Penso che David Bowie non sia poi così importante. Penso che le immagini e le atmosfere evocate dalla mia musica siano più importanti di me.

Ci tengo moltissimo a essere riconosciuto come autore, ma vorrei che non si cercasse chissà cosa nelle mie canzoni... Lì raramente c'è spazio per i problemi di cuore: è perché le ragazze non me ne hanno mai dati.

 Nella mia vita ho sempre vissuto sul filo del rasoio.

Temo di esserlo, un pessimista... Ma non mi sono del tutto rassegnato alla situazione. Spero che si possa trovare un qualche conforto nella compassione - so che non è una parola solitamente associata al mio lavoro.

 Ho un brutto ricordo legato a Bob Dylan. Bruttissimo. Gli parlai per ore. Ero uscito un po' di testa, se ricordo bene, e non facevo altro che parlare, parlare Alla fine della conversazione si è voltato verso di me e - spero che scherzasse, ma ho l'impressione che dicesse sul serio - ha detto: "E aspetta di sentire il mio prossimo album".

Pensai: "Oh, no! Da te questo no! Per favore, tutto ma non questo!"... In seguito non mi ha mai più cercato. Quell'incontro avvenne a New York. In lui non ci trovai niente di speciale, ecco qual è il punto. D'altra parte, quando le persone incontrano me, di solito non mi trovano così speciale come pensavano che fossi.

 La musica la disegno. Metà della roba che scrivo non la capisco nemmeno io... Sono gli altri a dirmi di che parlano le mie canzoni.

Non sono un grande fan della disco. La detesto.

Mi imbarazza così tanto che i miei dischi vadano così bene nelle discoteche.

Ho una personalità che tende facilmente alla dipendenza.

 Diamond Dogs era molto più impegnativo di Ziggy. A ripensarci, non mettemmo mai proprio niente in scena con Ziggy: c'erano solo un paio di cambi di costume. Solo canzoni e tutine.

Ecco cosa vendeva Ziggy.

 Mi arrabbio molto quando le persone si concentrano esclusivamente sui testi, perché danno per scontato che nella musica non ci sia alcun messaggio, il che spazza via centinaia di anni di musica classica. Ridicolo.

 La coca. Be', anche lo speed, in realtà. Un mix delle due cose. E pare che dentro ci fosse anche un sacco di tranquillante per elefanti!

In quella droga avevo trovato l'anima gemella, perché mi aiutava a perpetuare il momento creativo.

Conosco una persona che era con Aldous Huxley quando morì ed è assolutamente vero che prese l'acido mentre stava morendo. Non è straordinario?

Se n'è andato completamente sballato. Quello è crederci fino in fondo!

Trovo le mie risposte negli scritti degli altri. Quando scrivo è come se mi sdraiassi sul lettino di uno psicanalista e parlassi.

 Il rock è sempre indietro di dieci anni rispetto alle altre arti, ne raccoglie le briciole.

Io posso leggere molto.

In una settimana di quelle buone finisco tre o quattro libri. Noi siamo una nazione letteraria per natura. Si può vedere da come insultiamo tutte le arti visive! E abbiamo ereditato questo grande amore per la letteratura: adoro che mi si racconti una storia, che mi si mostrino idee nuove.

 Ho bisogno di arte che possa veramente arricchire la mia vita in modo personale. Qualcosa che io possa usare, che sia funzionale. Leggo un assortimento piuttosto variegato di libri. Ho letto tutti i romanzi di Stephen King.

Lo adoro. Mi spaventa a morte. Ma mi piace anche Julian Barnes, che è tutta un'altra storia. Il primo vero scrittore, per me, è stato Jack Kerouac.

 Avevo troppi libri e il terrore di lasciarli a New York perché frequentavo gente non troppo affidabile e non volevo che me li fregassero. C'erano troppi spacciatori che andavano e venivano da casa miaUna vita alternativa rispetto a quella che ho vissuto? Penso che probabilmente ce ne sarebbero state due. In una sarei stato un pittore a tempo pieno, nell'altra avrei fatto non sono sicuro che la parola "bibliotecario" sia quella giusta. Ma qualcosa per cui avrei potuto stare a stretto contatto con i libri e lo studio.

All'interno di questa armatura indistruttibile potrebbe esserci un uomo invisibile. Non trovo la vita tanto interessante. Mi vedrei bene magari come spirito astrale.

 Di norma sono un tipo piuttosto felice e spensierato voglio solo che in Inghilterra scoppi una rivoluzione.

Sono nato per avere opinioni.

Italia al neon. 1999, l'incontro surreale tra Adriano Celentano e David Bowie. Adriano Celentano e David Bowie sono i protagonisti di uno dei siparietti più surreali nella storia della televisione italiana. Era il 1999. Tommaso Giacomelli il 4 Marzo 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Francamente me ne infischio

 La surreale pace tra Celentano e Bowie

 Bowie: "Celentano è un idiota"

Adriano Celentano non può essere inquadrato in una singola categoria. Il "ragazzo della via Gluck" è un'icona italiana capace di stregare più di una generazione, che lo ha amato tanto come cantautore, quanto come attore, showman e mattatore televisivo. Si è spesso incaricato di lanciare messaggi contro corrente, di portare avanti tematiche di sensibilizzazione civica e ogni volta che ha lavorato per il piccolo schermo ha inchiodato gli spettatori sul divano, mettendo a referto dei numeri di audience da capogiro. Il linguaggio di Celentano è spesso semplice, diretto, facilmente comprensibile da chiunque. D'altronde il "molleggiato" non ha aspirazione elitarie e, anzi, come da lui dichiarato è semplicemente "il re degli ignoranti". Indiscutibilmente, Celentano ha più di un talento da attingere dal proprio repertorio, ma quello che - forse - emerge più degli altri è il carisma. Durante il programma "Fantastico 8", su Rai 1, il mattatore chiede agli italiani, a favore di telecamera, di spegnere la tv per cinque minuti. In otto milioni eseguiranno la sua richiesta. Inutile evidenziare l'ascendente di Celentano sugli italiani, che per lui avrebbero fatto qualunque cosa.

Francamente me ne infischio

Nel 1999 è tempo di un nuovo show sulla rete ammiraglia della Rai. Celentano è bravissimo a centellinare le sue apparizioni sul piccolo schermo, così da creare spasmodica attesa e morbosa curiosità ogni volta che rimette piede di fronte alle telecamere. Il nuovo programma si chiama "Francamente me ne infischio", un titolo provocatorio e dissacrante, esattamente come il suo ideatore. Nelle varie puntate, oltre al canonico intrattenimento tipico della tivù, si toccano più volte materie spinose e che necessitano di un certo tatto, come la guerra e la fame nel mondo. Per questo vengono convocati vari artisti attivi anche nel campo umanitario, tra i quali spiccano Piero Pelù, Ligabue e Jovanotti autori di una canzone "Il mio nome è mai più", che ha l'obiettivo di raccogliere fondi utili per sostenere Emergency, impegnata in prima persona in alcune zone di guerra, quali la ex Jugoslavia, la Sierra Leone, la Cambogia e l'Afghanistan. L'ospite di punta della terza puntata, però, è una delle più grandi rockstar viventi: David Bowie.

La surreale pace tra Celentano e Bowie

L'intervista di Celentano a Bowie è una delle pagine più controverse della storia della televisione italiana. Ripensare a quel momento fa venire un po' di pelle d'oca, in primis per la massiccia occasione persa, in quanto due icone del genere, seppur agli antipodi, avrebbero potuto coinvolgere e responsabilizzare più persone con le loro parole e tramite un messaggio realmente incisivo, ma soprattutto per il tenore e la condotta dell'intervista che il molleggiato rifila all'inerme Bowie. La prima domanda di Celentano al Duca Bianco è talmente spiazzante, che l'artista britannico inizia a guardarsi intorno e a stampare un sorriso beffardo sul viso. "Secondo te c'è futuro?", chiede l'ex ragazzo della via Gluck. Di tutta risposta arriva una risata molto nervosa e isterica dall'interlocutore, che dopo qualche attimo di appannamento, proferisce una banale affermazione con controffensiva: "Per me sì, e per te?". Il padrone di casa raddoppia la dose, con un'altra questione al limite dell'assurdo: "Cosa bisogna fare contro la fame nel mondo?". A quel punto Bowie comincia a scavare nel cassetto delle ovvietà, per difendersi nel migliore dei modi possibile: "La politica deve agire, ma il cambiamento deve partire dalla gente".

Il momento della pace tra Bowie e Celentano

Il pressing di Celentano si fa ancora più audace, quasi a voler disarcionare il Duca Bianco dal sua apparente stato di calma placida, ma vagamente nervosa: "E perché la gente tarda a muoversi?", incalza il molleggiato. In quell'istante l'autore di "Heroes" inizia a spazientirsi, vorrebbe alzarsi dagli scomodi scalini su cui è seduto, ma ribatte: "Non sono la persona giusta a cui fare queste domande". Gli animi si surriscaldano e Celentano indossa con maggiore lucentezza i panni del provocatore: "Hai fretta di andartene, vuoi tagliare il discorso?". ll sipario si chiude con Bowie che cerca di recupare lo scettro del comando, prende la mano del molleggiato e sigla una tregua dal sapore universale, proferendo queste parole: "Qui, in questo programma e in questo posto, decidiamo che ci sarà una pace mondiale. Non ci sarà più nessuna guerra. Vediamo cosa riusciamo a fare. Due persone si sono impegnate". Giù le tende su un momento surreale.

Bowie: "Celentano è un idiota"

Pochi giorni dopo l'imbarazzante scena tenutasi al cospetto delle telecamere della Rai, David Bowie rilascia una dichiarazione al vetriolo verso Adriano Celentano: "Capivo perfettamente cosa mi stava dicendo. Credo che lui sia un idiota. Ero lì per suonare la mia canzone. In ogni caso, non credo che mi inviteranno ancora". A queste affermazioni, il molleggiato risponde per le rime: "Io forse sono un idiota, ma certamente essere quotato in Borsa ti rende confuso. Il tema dell’intervista nasceva da una dichiarazione che Bowie aveva fatto a Parigi e nella quale diceva che partecipava volentieri perché io ero ‘socialmente impegnato’. Illudendomi, cercai di coinvolgerlo sul piano sociale, constatando invece che lui era ‘socialmente impegnato’ solo a promuovere il suo disco". Un'occasione persa, per entrambi.

La vedova di Albertazzi: «Avevo 40 anni meno di lui e amò tante donne. Mi manca la sua intelligenza, la nostalgia non muore». Giuseppina Manin su Il Corriere della Sera domenica 20 agosto 2023

Pia Tolomei di Lippa è stata l’unica moglie del grande attore e lo racconta in occasione del centenario della nascita, per cui ha organizzato un recital con alcune delle sue muse

Ci sono compleanni che si celebrano anche quando gli anni non si compiono più. «È stato così fin dalla prima volta: 20 agosto 2017, la prima festa per Giorgio — racconta Pia Tolomei di Lippa, nobildonna toscana, che di Giorgio Albertazzi, scomparso nel 2016, è stata la prima e unica moglie —. Da allora sono passati sette anni. Sette estati senza di lui, sette feste in suo onore».

Questa si annuncia speciale…

«Stavolta Giorgio, nato a Fiesole il 20 agosto 1923, avrebbe compiuto 100 anni».

A battere il secolo gli mancava poco. Da grande mattatore qual era, Albertazzi se ne è andato in una mattina di maggio, a 92 anni. Ancora bello, fascinoso, pieno di energia.

«Mi manca tantissimo. La nostalgia non muore, tanto meno l’amore» confessa lei.

Cosa accadrà quindi oggi?

«Qui alla Pescaia di Sticciano, la tenuta della mia famiglia, dove abbiamo vissuto, ci siamo amati, dove lui è morto, andrà in scena “Un perdente di successo”, stralci della sua autobiografia ristampata da Rizzoli, ma anche letture di sue poesie, ricordi di chi l’ha amato, un modo per ridargli la parola attraverso le voci di tre grandi attrici che con lui hanno lavorato, tre donne importanti della sua vita, Laura Marinoni, Mariangela D’Abbraccio, Elisabetta Pozzi».

Qualcuna di loro è stata anche di più. Non è gelosa?

«Lo sono stata, e moltissimo. Giorgio s’innamorava continuamente. E in più era molto bugiardo. Quando sono entrata nella sua vita, la storia con Pozzi era finita, ma D’Abbraccio è arrivata dopo. Giorgio l’aveva scelta per uno spettacolo sulle pagine erotiche di D’Annunzio dove lei, bellissima, appariva nuda… Li rincorrevo sugli spalti delle arene d’Italia. Lui negava, io sapevo. L’ho odiata profondamente Mariangela. Adesso è la mia migliore amica».

È stato lui a rompere quel legame?

«Giorgio non ha mai lasciato nessuna. Si faceva lasciare. Era un vile, voleva fossi tu a dire basta».

Ci ha provato anche con lei?

«Certo. Ma io non ho mai mollato. Ero la sua zavorra, lo seguivo ovunque. Le altre si stufavano, io no. Mi ha fatto piangere, è stato difficile ma bello. Tutte le sue donne, da Bianca Toccafondi e Anna Proclemer, erano dive. La sola fuori dal mondo del teatro sono stata io. Ragazza di campagna, tosta e cocciuta».

Strano incontro...

«A casa di un amico, dopo averlo visto recitare nell’Enrico IV. Prima di quella sera Giorgio per me era il dottor Jekyll televisivo che mi faceva paura. È stato un colpo di fulmine. L’inizio di una storia bella e strana mai finita».

Lei aveva 21 anni lui quasi 60. Come l’hanno presa i suoi?

«All’inizio male. Un uomo di spettacolo, seduttore, sempre in giro, più vecchio di mio padre… Ma quando gliel’ho fatto conoscere li ha conquistati tutti. A me ha cambiato la vita, mi ha dato fiducia in me stessa».

Cosa aveva di speciale per conquistarlo?

«Forse il mio nome. Lui, grande interprete di Dante, trovarsi davanti a una Pia de’ Tolomei… O forse il fatto che ero una fanciulla “bene”, di quelle che da ragazzo, figlio di capomastro, spiava da una finestrella affacciata sulla villa di Bernard Berenson. Potrei aver riaperto quel sogno di adolescente. Mi chiamava “contessa”. Mi arrabbiavo, mi sono sempre sentita una campagnola».

Alla fine vi siete sposati, ma per decidersi…

«Ce n’ha messo un po’. Ti sposo a primavera, mi ripeteva. Ne sono passate 26, alla fine le nozze sono state d’inverno, 12 dicembre. Non sapendo come vestirmi, mi sono presentata come al solito: a cavallo, giacca di fustagno e stivali. Lui che m’aspettava davanti alla chiesa è rimasto senza fiato. Aveva 84 anni, io 48. Mi chiamava “la mia intrepida maremmana”. O anche “l’angelo della mia vita”».

Genio del teatro, unico Amleto italiano all’Old Vic, imperatore Adriano per mille recite, ma anche uomo controverso. Il suo esser stato repubblichino dette scandalo.

«Aveva 22 anni! Non l’ha mai rinnegato, ma non era un fascista. Amava D’Annunzio non Mussolini. Politicamente uno strano animale, socialista, radicale, alla fine renziano. Dario Fo, suo amico e anche lui in ragazzo di Salò, lo chiamava “l’anarchico”. Credo sia la definizione giusta».

E lei, come lo definirebbe?

«L’uomo che amava le donne. Non solo quelle con cui è stato, le donne in generale. Gli uomini lo annoiavano profondamente».

Cosa le manca di più?

«L’intelligenza. E il suo odore. Gli piaceva mescolare i profumi, crearne uno suo, inimitabile. Mi manca ma è qua. Le sue ceneri sono in camera mia. Per salvare dai cani il suo divano ho messo un cancelletto in sala. Nessuno può passare da lì, eppure spesso trovo tutti i cuscini sparsi. Mi aspetto davvero di vederlo entrare da un momento all’altro».

Mariangela D’Abbraccio e Giorgio Albertazzi: «Lui mi ripeteva che in teatro non ci si innamora». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera l’1 marzo 2023.

«Cosa diceva di mia sorella Milly pornostar? Non era un moralista, da trasgressivo qual era si sarà divertito all’idea»

Complice ruffiano fu D’Annunzio. Era il 1988 e, tra i versi erotici del Vate nello spettacolo Dannunziana, nacque la passione scenica e amorosa tra Giorgio Albertazzi (classe 1923) e Mariangela D’Abbraccio (1962). «Veramente iniziammo la nostra coppia teatrale con uno spettacolo, dove io interpretavo un transessuale», esordisce l’attrice, che lo racconta a cento anni dalla nascita. «Giorgio mi aveva scelto con un provino: per interpretare un ragazzo che si trasformava in ragazza, cercava un’attrice molto femmina, l’eccesso della femminilità: un tema difficile da trattare all’epoca. Poi, con la Dannunziana, prese il via il nostro vero percorso scenico...».

Uno spettacolo dove lei appariva nuda...

«Sì, in palcoscenico e sulla locandina. Non c’era nulla di pornografico nel mio corpo nudo, ma fu considerato scandaloso e venne vietato ai minori di 18 anni».

Albertazzi un provocatore?

«Direi di sì, ma perché sin da bambino si è sempre sentito uno fuori luogo, non all’altezza: Un perdente di successo è infatti il titolo della sua autobiografia. Mi raccontava di quando, dalla sua modesta casa a Fiesole, vedeva dalla finestra all’interno della Villa I Tatti, del celebre storico dell’arte Bernard Berenson: personaggi famosi ospitati per feste, ricevimenti... e lui guardava estasiato. Finché Berenson, che si era accorto dell’indesiderato intruso, fece murare la propria finestra attraverso cui veniva “spiato”. Era come dirgli: tu sei fuori dal nostro mondo importante. Da qui, secondo me, nasce la sua insicurezza e, di conseguenza, la voglia di piacere».

Anche i rapporti con le sue attrici sono sempre stati totali: da Anna Proclemer a Bianca Toccafondi, da Elisabetta Pozzi a lei, Mariangela...

«Lavorando insieme, nasceva un’affettività elettiva, che somigliava all’amore. Ma sottolineava che sulle tavole del palcoscenico non si può parlare di innamoramento».

Però si innamorò di lei...

«Per lui l’arte e la vita erano una cosa sola. Quando sentiva di aver trovato un talento, voleva condividere tutto: il palcoscenico era libertà e trasgressione assoluta».

E lei, Mariangela, si innamorò di lui?

«Io ho capito che il nostro era diventato qualcosa di diverso quando iniziò la tournée della Dannunziana. La sera, dopo teatro, ci intrattenevamo in albergo, parlavamo di quello che stavamo recitando, ci scambiavamo emozioni. Lo spettacolo non finiva con la chiusura del sipario».

Era un narciso?

«Sensibile alle lusinghe, non sopportava di passare inosservato. Fragile, vulnerabile, era facile ferirlo e odiava gli imprevisti. Tanto che gli risparmiai uno scherzo orchestrato da Scherzi a parte».

In che modo?

«Feci io uno scherzo a loro. In quel periodo recitavamo a Milano, Canale 5 mi aveva contattato come complice e io feci finta di accettare: a fine spettacolo, avremmo dovuto salire su un “finto” taxi, su cui all’improvviso doveva salire una “finta” donna incinta che stava per partorire e venivamo dirottati tutti insieme al pronto soccorso su una “finta” ambulanza, coinvolgendo Giorgio ignaro di tutto! Invece quella sera non siamo saliti sul “finto” taxi, ma siamo andati tranquillamente a piedi al ristorante lì vicino».

Come è andata a finire?

«Quelli di Canale 5, pronti a fare la sceneggiata, rimasero annichiliti e furiosi fuori dal ristorante, poi sconfitti si arresero e se ne andarono. A Giorgio quella sera non raccontai nulla, si sarebbe arrabbiato. Glielo dissi tempo dopo e sentenziò: hai fatto bene».

È stato il suo pigmalione?

«Mi ha insegnato a essere me stessa, lui non recitava mai e riusciva a sorprendere il pubblico. Ricordo un episodio divertente. Eravamo al Ravello Festival con uno spettacolo su Borges e Piazzolla: era avanti con gli anni, molto affaticato. Quella sera, inciampa in palcoscenico, cade ed esclama con la sua ironia da toscanaccio: “La caduta degli dèi!”. Venne sommerso dagli applausi».

Albertazzi era noto anche come tombeur de femmes, gli piacevano molto le donne: come commentò l’attività di sua sorella Milly, una bellissima donna che faceva la pornodiva?

«Non era un moralista, non giudicava, da trasgressivo qual era non si stupiva di nulla e sicuramente si era divertito all’idea... Così come si divertì a stupire il pubblico quando insieme alla Proclemer cantarono la versione italiana di Je t’aime moi non plus. Era un tipo giocoso, amava l’imprevisto e l’attività di mia sorella rientrava nell’imprevedibile».

Un Casanova o un Don Giovanni?

«Sicuramente Casanova. Un seduttore, certo, che però si innamorava sinceramente. Non a caso, portammo in scena Il ritorno di Casanova di Schnitzler: lui un Casanova maturo che tenta inutilmente di corteggiare e conquistare la giovane Marcolina, da me impersonata».

Durante il vostro rapporto sono nate gelosie?

«Nel gioco dell’amore, metteva in conto anche la gelosia, ma senza dargli tanta importanza. Per quanto mi riguarda ero troppo giovane e distratta per essere gelosa e poi Giorgio mi metteva al centro di tutto in maniera assoluta».

Essendo molto più grande di lei, era paterno?

«Lo è sempre stato anche con le altre compagne. Ti organizzava, ti seguiva in tutto, attento ai tuoi desideri: un compagno solido, su cui poter fare affidamento».

Perché è finita tra voi?

«Avendo età tanto diverse, non poteva durare tutta la vita. A un certo punto, io iniziai un’altra storia e glielo dissi: non credo gli abbia fatto piacere, ma se lo aspettava».

Come ha vissuto gli ultimi anni?

«Lo andavo spesso a trovare negli ultimi giorni in Toscana, me lo ricordo sulla sedia a rotelle mentre recita i versi dell’Amleto. Non era abbattuto ma il suo cuore era stanco, non si risparmiava mai. Mordeva la vita: la sua più bella foto, un suo primo piano dove faceva il verso di ruggire, sì era un leone».

Un mattatore fino alla fine?

«Un attore che ha avuto la fortuna-sfortuna di vivere troppo a lungo, sbattendosi in tournée sfiancanti. E l’ultima volta che l’ho visto, voleva parlare di teatro: mi chiedeva come stavo per affrontare il personaggio di Filumena Marturano che avrei fatto con Liliana Cavani. Ma io non me la sentivo di parlare di me, vedendolo molto provato. E lui mi ha rimproverato, dicendomi: sto qui ad ascoltarti e non mi parli di teatro? Mi prendi per un rimbambito? Poi si è quietato, era cosciente di ciò che gli stava accadendo».

Aveva paura della morte?

«Per lui era un avvenimento importante, l’assoluto, un mistero che osservava a occhi aperti. Scherzava ironico: siamo agli sgoccioli, stiamo lì, lì... sta per arrivare. Non gli faceva paura, temeva solo che fosse accompagnata dalla sofferenza».

Avrebbe voluto morire in palcoscenico come Molière che, quando morì mentre interpretava il «Malato immaginario», il pubblico non se era accorto e mormorò: stasera è morto male, invece era morto davvero.

«Sì, credo gli sarebbe proprio piaciuto, infatti ha recitato, sia pure reggendosi a un bastone, fino all’estremo traguardo».

Albertazzi: il fascista anarchico che amava Pavolini e odiava la destra, scrive Adriano Scianca il 29 Maggio 2016 su Il Primato Nazionale. «Lei è un uomo di destra?». «Non lo sono stato a vent’anni, figuriamoci se posso esserlo oggi». Giorgio Albertazzi non era fatto per compiacere le menti asfittiche e i cuori di latta. E quando diceva di non essere di destra (al Fatto quotidiano, nello scambio di cui sopra) era solo per posizionarsi in un altrove alieno da tutti i conformismi. Nietzsche vagheggiava di un «Nuovo Partito della Vita». È l’unico a cui Albertazzi sia mai stato iscritto. Ma nei suoi vent’anni, gli stessi in cui, appunto, «non era di destra», aveva intravisto la vita indossare una divisa con gli emblemi della morte. Classe 1923, Albertazzi era cresciuto da fascista, come tutti quelli della sua generazione. Con il mito di Mussolini, ma anche con il culto estetico della Germania hitleriana: «La croce uncinata era bellissima, come bandiera, e anche certe divise nere dei nazi», scriverà nella sua autobiografia. Era impazzito per la guerra di Spagna, «una guerra stupenda per ardimento scontro ideologico eroismi: i rossi che stuprano i conventi, Barbadiferro che combatte con la sciabola, eccetera (mi rendo conto di scrivere alcune cose irresponsabili, ma assicuro che le penso tutte irresponsabilmente)». Poi venne il 25 luglio e l’8 settembre. In mezzo, uno zio ammazzato di botte dagli antifascisti e un voltafaccia senza onore e senza decoro («Mi ricordo la faccia da caratterista americano di secondo rango di Badoglio, figura ambigua e meschina: non mi piaceva»). L’arruolamento nella Repubblica sociale venne da sé. Cosa spinse il giovane Albertazzi a schierarsi per il fascismo repubblicano? «Era la paura (dignitosa) di mio padre, gli occhi ansiosi (lo sguardo!) di mia madre e il silenzio (vile) dei fascisti (degli ex). Tutto ciò mi spinse a scegliere i perdenti, in una specie di sonnambulismo. Scelsi non coloro che si erano già arresi, che disprezzavo, bensì la causa perduta (alla fine del ’43 gli alleati e l’Urss avevano già vinto), contro il conformismo piccolo borghese, che già si preparava ad acquattarsi nelle pieghe della Resistenza». Ma non c’era solo l’onore perduto da riscattare. In qualche modo baluginava anche il sogno di una rivoluzione sociale contro tutti i potentati conservatori: «Scelsi la Repubblica, che voleva dire, per me, un altro fascismo, non orpelloso, non coi fregi d’oro, non quello del maresciallo dell’Impero, non quello monarchico, non quello della Chiesa – lo scelsi nell’illusione, forse, che fosse ancora quello che nasce dalla costola del socialismo libertario di mio nonno Nando». Venne la guerra civile, quindi. Nei ricordi dell’attore, una figura emerge in modo particolarmente limpido: Alessandro Pavolini. Albertazzi fa giustizia sullo stereotipo che ne ha fatto un visionario, un esaltato, un pazzo. «Secondo me – racconta – Pavolini aveva perfettamente il senso della realtà: non si fa una guerra come quella, già perduta, se non per affermare proprio una realtà: essere disposti a morire per un’azione da compiere, un’estetica della morta». Sulla recente polemica a proposito dei partigiani “veri” o “falsi”, Albertazzi avrebbe potuto raccontare la sua esperienza: «Forse non dovrei dirlo – non sta bene! – ma io i partigiani li ho sempre visti scappare, le poche volte che li ho visti». Alla fine li avrebbe visti, intenti ad appendere Mussolini e gli altri gerarchi all’insegna di una pompa di benzina: «Piazzale Loreto fu solo macelleria messicana. Niente altro. Fu uno schifo, per chi l’ha voluto e chi l’ha portato a termine», disse senza mezzi termini, ancora al Fatto. Nel dopoguerra, la sua unica “militanza” sarà per il teatro, anche se nelle elezioni del 1975 si presentò con i Radicali: Pannella, disse, era «il solo capace di intuizioni non legate all’apparato», anche se la sua «voglia di far spettacolo è talmente visibile da appannare qualche volta la lucidità politica». Sempre altrove, Albertazzi. Sempre odiato dai custodi delle ortodossie. Di Repubblica, che lo detestava, diceva: «È un giornale molto snob: i giornalisti di Repubblica si vestono in un certo modo, portano certi capelli, ironizzano in un certo modo, scrivono in un certo modo, le donne di Repubblica le riconosci lontano un miglio (sono fascinose e di bella gamba, in genere). Sono tutti imbarcati su un’arca, l’arca dell’impegno vissuto con discreto cinismo». Quando CasaPound decise di ribattezzarsi per un giorno CasaBene, in omaggio a Carmelo Bene, nei 10 anni dalla morte del grande artista, qualcuno chiese ad Albertazzi cosa ne pensasse, nella speranza che si intruppasse nell’esercito degli indignati speciali. Il maestro si fece trovare ancora una volta altrove rispetto al benpensare: «Provo un po’ di amarezza perché sono vivo… Sarebbe stata una felicità che l’avessero intitolata a me». Non è mai troppo tardi. Adriano Scianca

Giorgio Albertazzi: “Scelsi la parte dei perdenti, la Rsi. Piazzale Loreto? Fu macelleria messicana”. Nell'intervista al Fatto del 2015, l'attore parla della sua adesione alla Repubblica di Salò. "La fama di fascista non me la sono mai scrollata di dosso. Andai come tanti ragazzi, convinto che lì si combattesse per l’Italia, ma con altro spirito". E aggiunge: "Misi in salvo 19 ebrei", scrive Emiliano Liuzzi il 28 Maggio 2016 su Il Fatto Quotidiano. Riduttivo chiamarlo col suo nome e cognome, Giorgio Albertazzi, con tutto quello che comporta essere nati a Fiesole, sulle colline del Rinascimento. Meglio maestro, perché è quello che è sempre stato. E a 93 anni è più lucido di sempre, uno dei più grandi intellettuali che l’Italia ha avuto, anche se l’adesione alla Repubblica sociale certi ambienti della sinistra non gliel’ha mai perdonata. “Neanche io, se è per questo, me la sono mai perdonata. Ma scelsi la parte dei perdenti, quella della Rsi, e lo feci più che per un istinto anarchico che non per convinzione. Fu un mio dramma personale, ma senza rinnegarlo o cercare scorciatoie. Poi a me il pentitismo non piace”. Lui non l’ha mai ammesso, ma gli viene imputato di aver partecipato a fucilazioni, anche se nel 1989 venne assolto perché “costretto, ma non estraneo ai fatti”. Attore, regista, scrittore. Grande seduttore. È tutto Albertazzi. Seduce solo a sentirlo parlare, anche attraverso quella distanza che un telefono non può colmare. Seduce perché l’uomo è vero, senza fronzoli. Non ne ha tempo. È il teatro che, a differenza del cinema, fronzoli non ne permette. Seduce la voce, seduce tutte le sere che si apre il sipario. E l’età è un problema accessorio, per chi come lui sul palcoscenico è nato. Lo chiamiamo per sapere di piazzale Loreto. Del luogo come epilogo di una guerra civile che andava a finire un ventennio di fascismo. Albertazzi non era a piazzale Loreto, ma aderì alla Rsi, gli ultimi fascisti. Come lui Dario Fo, ma anche Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello, Marco Ferreri e molti altri.

Maestro, per lei cosa fu piazzale Loreto? Era l’epilogo naturale di una rivoluzione?

«Piazzale Loreto fu solo macelleria messicana. Niente altro. Fu uno schifo, per chi l’ha voluto e chi l’ha portato a termine quel disegno. Ma non poteva essere evitato, non nel senso politico del termine, ma perché l’uomo è quella cosa lì».

Un animale?

«Il peggiore degli animali. E quello che accadde a piazzale Loreto mi ripugna, mi angoscia e mi fa rabbrividire ancora il ricordo. Peserà come una macchia indelebile. E tutti gli altri piazzali Loreto che abbiamo dimenticato e che ci sono ancora oggi, in mondo apparentemente lontani come la Siria, la Libia, l’Iraq».

Lei aderì alla Repubblica sociale. Ma era a piazzale Loreto la notte che venne portato il cadavere di Mussolini?

«Non ero in Italia. Io ero a combattere. Paradossalmente contro i tedeschi che erano i nostri alleati. Ma nella confusione di quei giorni ci trovammo a sparare ai tedeschi, in Austria, tra le montagne innevate. Senza più niente».

E cosa dice a quelli che a Milano c’erano alle 3 di notte?

«Dovevano portare il peso della vergogna per quello che fecero, come lo fecero. Come io ho portato la vergogna di essermi schierato coi fascisti».

Abbiamo capito il concetto. Ma l’uomo è migliorato o è sempre quello?

«Siamo all’età del ferro. Siamo regrediti, peggiorati. L’uomo è barbaro. Ha ucciso nel nome di Dio, e continua a farlo. Quale aberrazione è ? Ma non credo ci sia profonda differenza tra le crociate dei cristiani e quelli che ammazzano nel nome di Allah. Tutte le guerre hanno sempre trovato una miccia religiosa. La pretesa di sostenere che il mio Dio è migliore del tuo».

Le sue parole, maestro, sono quelle di chi ha perso la speranza.

«No, io non ho perso nessuna speranza, sono sempre convinto che l’amore e la leggerezza ci salveranno, alla fine. Quando la discesa al degrado un giorno si fermerà. Perché dovrà fermarsi. Purtroppo abbiamo vissuto in tempi irrespirabili. Ma la bontà dell’amore quella non può togliercela nessuno, è come l’equazione di Einstein applicata alla leggerezza».

Lei è un uomo di destra?

«Non lo sono stato a vent’anni, figuriamoci se posso esserlo oggi».

Però aderì alla Repubblica di Salò, la domanda è lecita.

«La fama di fascista non me la sono mai scrollata di dosso. Andai a Salò come tanti ragazzi, convinto che lì si combattesse per l’Italia, ma con altro spirito, e soprattutto consapevole che in quel momento stavo dalla parte di chi già aveva perso. Come dissi in un’intervista all’Espresso nella sentenza del Tribunale militare che mi ha assolto in istruttoria dopo due anni di carcere preventivo, c’è scritto che ho messo in salvo 19 ebrei. Ma non l’ho mai raccontata questa cosa. Non mi andava. le mie responsabilità, seppur di ventenne, me le prendo tutte. Senza vittimismo o pentitismo. Ma ripeto che quello che avvenne a piazzale Loreto fu un teatro dell’orrore, inutile, anche per l’epilogo della rivoluzione civile».

Oggi cosa vede?

«Vedo quello che non vorrei, la violenza che come diceva Shakespeare, manda l’uomo fuori dai cardini. Gli toglie l’intelligenza, il ragionamento. È tutto molto violento, la vita quotidiana è violenta. Lo siamo noi, uomini, e tutto quello che poi creiamo, a eccezione della poesia, è di una violenza inaudita».

L’ultima battaglia politica è quella contro i rom.

«Questo siamo. Inaudito, per questo le dicevo in apertura che siamo all’età del ferro senza nessuna possibilità di svoltare. Fare tesoro degli errori senza farsi il segno della croce e così sia».

E la salvezza dove va cercata?

«Nella leggerezza, nel sorriso, come diceva Calvino».

E il maestro Albertazzi la salvezza dove l’ha trovata?

«Nella poesia. Invocherei la morte se non ci fosse la poesia, l’amore. Il teatro».

Dagospia il 19 febbraio 2023. ALFABETO POLI - A CURA DI LUCA SCARLINI

Estratto da "Alfabeto Poli" (ed. Einaudi) a cura di Luca Scarlini, pubblicato dal “Fatto quotidiano”

 Anniversari. Ho fatto sessant’anni di teatro, ma non sono stati anni di carriera. Sono stati anni di educazione sentimentale. Anni d’illusione e di gioco. È una storia alla Flaubert, non legata alla gioia.

 Attore. Questa è la grande forza italiana. Non abbiamo avuto Shakespeare, Molière, Calderón de la Barca. Ma abbiamo i comici: la nostra tradizione sono Petrolini, Mussolini, Fellini, sappiamo vendere il niente, siamo sempre andati in giro a raccontare Arlecchino e Pulcinella. Siamo come i preti, viviamo sulle chiacchiere. Ho conosciuto Carmelo Bene: anche quando era ubriaco entrava e ti strappava il cuore.

 Bellezza. Bello io? Non so. Certo ho venduto l’articolo più che ho potuto. Laura Betti. la conobbi in casa di Zeffirelli, aveva la bellezza dei quadri barocchi, del Seicento – aveva una vena verde in fronte, una carnagione bianchissima. Però malgrado la grazia barocca, si vestiva da Pierrot francese, con la calzamaglia nera.

Era una rompicogliona, anche perché quelle donne di allora erano delle virago. Io non ho mai sentito le differenze di sesso, ma solo quelle di intelligenza. Io e Laura eravamo tra le poche ossigenate, insieme a Corrado Pani: andava il biondo svedese. C’era un altro bellissimo attore con i capelli rossi, Ettore Manni, che è morto mentre faceva La città delle donne di Fellini. Con lui siamo andati anche a tingerci i peli degli occhi. (...)

 Quando facevamo la tivú io e Laura si mangiava un uovo sodo al giorno, lei ingrassava e io dimagrivo. Quando si pigliava la paga, si andava invece al ristorante ungherese, col violino tzigano e giù gulasch. Io non ingrassavo mai: il nervoso e gli ormoni femminili bruciano evidentemente in maniera diversa.

Marlon Brando. Gli anni Cinquanta erano un periodo in cui bisognava essere virili.

Marlon Brando, che poveretto però aveva una voce come Donald Duck, veniva doppiato con timbro stentoreo. Era un omino piccolo. L’ho conosciuto in casa Zeffirelli. Era carino: mascella volitiva e un repertorio di gesti appresi alla scuola di Strasberg. Se lo chiamavi, lentamente alzava lo sguardo e ti fissava tra il macho e il languido.

Canzonissima. Nel 1961 ero con Sandra Mondaini, che era autorevole. Tutti e due travestiti da bambini: io ero Filiberto, l’amichetto buono, e lei la pestifera Arabella. Che brava che era e che carina. Era già pronta però a sposare Vianello. (...) Suo marito, bravo attore, era un reazionario spaventoso. Veniva da una famiglia molto signorile, borghesuccia, e in più lo trovavo insopportabile, invidioso. Dovetti smettere di frequentarli.

 Cinecittà. Quando ero giovane piacevano gli uomini virili, quelli che i fascisti chiamavano con le palle che fumano: io ero effeminato e non andavo bene, mi facevano sempre fare l’amico del protagonista. Nel 1954 andai a Cinecittà per lavorare, e nel cinema non mancano le occasioni, e poi io, ossigenato completamente e vestito di celeste, ero una stranezza. Ero abituato agli amori furtivi, veloci, allora le case non eran chiuse, i portoni erano accostati e c’era sempre un angolo di buio dove facevo una roba alla cosacca, in piedi, veloce, arrivederci e grazie.

Funerali. Non mi piacciono, io non ci vado, sarò solo al mio. Bisogna trattar bene le persone finché sono vive. Poi, se li bruciano o se li scavano, poco m’importa. Una volta rimasi un po’ scandalizzato al vedere al Teatro San Ferdinando una lapide con dedica dei fratelli De Filippo: “A Ciccillo che lavorava umile chiodo su chiodo”. Facevano meglio a dargli la mancia quando era vivo piuttosto che la lapide dopo morto. So che i due erano piuttosto economi.

Barbara Boncompagni, figlia di Gianni: «Sento le sue fidanzate: Isabella Ferrari è una sorella». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 10 Maggio 2023.

La figlia di Gianni Boncompagni: «Non era autocelebrativo. Quando volevano intervistarlo diceva: che noia» 

Gianni Boncompagni, che da sei anni non c’è più, ha inventato Bandiera Gialla e Alto Gradimento, Non è la Rai e Ambra Angiolini, Quelli della notte e i fagioli di Raffaella Carrà, ha scritto il Tuca Tuca e ha scritto Ragazzo triste. Ma di sé diceva: «Aspetto ancora di fare qualcosa per cui essere ricordato».

Barbara, la minore delle tre figlie, autrice tv, è l’unica che ha seguito le sue orme. Alla fine, suo padre per quale invenzione avrebbe voluto passare alla storia?

«Papà era zero autocelebrativo. Quando volevano intervistarlo diceva: che noia. Una volta, nei suoi ultimi mesi, era a letto con la flebo e gli portai un gioco: una lavagna di luce su cui scrivere frasi. Gli dissi: scrivi qualcosa di importante. Lui scrisse: ricordati di dimenticare. Quindi, per cosa avrebbe voluto essere ricordato? Forse, per le fidanzate».

A 80 anni, ne aveva una di trenta e discettava di «panchina lunga» e di altre giovani pronte a sostituirla.

«Su questo, era un po’ vanitoso. Ha avuto storie con Isabella Ferrari, Claudia Gerini e altre giovanissime. Ma dopo, quando queste ex dovevano prendere decisioni importanti, tipo comprare casa, chiamavano lui: diventava come un padre per loro. Era paterno anche con quelle con cui ha solo lavorato. Negli anni, tante mi hanno raccontato che lui raccomandava sempre di studiare. A noi figlie, invece, ha detto sempre il contrario: io volevo fare l’università a Parigi e lui: ma no, vieni con me, facciamo un programma».

In che altro è stato un padre anticonvenzionale?

«Quando si è separato, io e le mie sorelle siamo rimaste con lui. Avevamo da tre a sei anni. Papà era stato un giovane beat ed era un trentenne che iniziava una carriera importante, ma ci ha tirato su con concentrazione. Avrebbe potuto metterci in collegio o mandarci dai nonni, invece, fece di tutto per tenerci: si fece prestare i soldi da Mario Marenco per dimostrare al tribunale che poteva mantenerci. Dopo, è stato un padre ansioso. La sua frase era: attenta, se inciampi, cadi, sbatti la testa e muori».

La mamma, in tutto ciò?

«Svedese, figlia di una delle famiglie più ricche di Stoccolma, con una vita in stile Downton Abbey, e diventata sindacalista, femminista, una vera intellettuale. Si era innamorata di questo toscano che la faceva ridere, ma non si è ritrovata nella dimensione di famiglia italiana. Dopo il divorzio, è rimasta a Roma, l’abbiamo sempre frequentata».

E voi figlie che rapporto avevate con le fidanzate di papà?

«La prima è stata Raffaella Carrà, io avevo cinque anni, sono stati insieme forse una dozzina d’anni. Si erano conosciuti per un’intervista, all’alba, in una Piazza di Spagna deserta, magica. Lei 25 anni, lui già tre figlie. Si sono innamorati artisticamente. Lei ha preso casa accanto a noi. Noi bimbe stavamo con la governante, loro facevano avanti e indietro tra i due appartamenti. Immagino questa donna così ordinata, precisa, razionale, alla prese col nostro caos. Io e lei ci siamo trovate subito bene, ero la piccolina, mi chiamava “la mia bambina”, mi diceva: non mi dire così che mi fai piangere».

Perché? Lei che le diceva?

«Sei stupenda. Che bello che sei nella mia vita!».

Chi altro veniva a casa?

«Renzo Arbore spessissimo, coi fratelli Bracardi, Marenco, lo scenografo Gaetano Castelli, il coreografo Gino Landi. E poi Mita Medici, Patty Pravo...».

Per Patty, suo papà scrisse Ragazzo triste, un successo.

«Io mi ricordo di quando componeva melodie al piano per Raffaella. Quando scrisse Tanti auguri, usò una frase che aveva detto a me quando un fidanzato mi aveva lasciato: e se ti lascia, lo sai che si fa, trovi un altro più bello che problemi non ha».

Negli studi tv lo accompagnava?

«Erano come un’altra stanza della casa. Da piccola, sono stata alle prove di Mille luci e in tutti gli show di Raffaella. Poi, papà alla regia e io alla conduzione, facemmo Drim. Prima, mi fece perfezionare canto e ballo per mesi, tutti i giorni, a tempo pieno. Mi trovai tra Franco e Ciccio, Roberto Benigni... E sono stata tanto a Non è la Rai: doppiavo le canzoni. Nella vita, canto il jazz e tanti mi chiedono: sei pazza, perché non fai la cantante? Ma io ho vissuto fra persone che facevano solo cose straordinarie e ho chiaro cos’è l’eccellenza».

Suo padre, però, si vantava di fare tutto al minimo. Raccontava che, durante Pronto Raffaella, dormiva.

«Una volta, si svegliò, vide Daniele Piombi e chiese: come mai da queste parti? Non s’era accorto che era appena stato loro ospite. E Piombi: sei il solito spiritoso. Papà si alzava alle due del pomeriggio, ma Pronto Raffaella iniziava a mezzogiorno, per cui, lui arrivava un secondo prima. Si sedeva e dava il via. Tanto, il programma non aveva contenuti. Però, inquadrature, riprese, luci erano perfette. Lui amava dire che confezionava il vuoto pneumatico».

Giurava che il suo slogan era «presto e male».

«Era il suo modo per dire che chi fa tv non salva vite. Ma in realtà i poveracci che lavoravano con lui li faceva sgobbare giorno e notte. A Chiambretti c’è, Piero arrivava alle dieci, lui alle tre, con gli zoccoli, e diceva: vado al bar».

Condivide la lettura per cui è stato suo padre ad abbassare la soglia di accesso alla tv aprendo le porte ai reality e ai senza talento?

«Ha avuto la sua responsabilità. Quando doppiavo le ragazze di Non è la Rai, lui guardava Ambra o Viviana e diceva: ah... come fa il playback lei! E io: che talento è cantare in playback? Però, con Macao, tornò al talento: scoprì Sabrina Impacciatore, Lucia Ocone, Biagio Izzo, Ubaldo Pantani, Fabio Canino».

Alla fine, Ambra Angiolini ripeteva le parole di suo padre nell’auricolare?

«Chiaro: aveva 15 anni. Ma era intelligentissima, si è visto poi dalle svolte di carriera che ha avuto. Mi ricordo quando, vessata dalla stampa, piangeva in camerino. Papà continuava a ripetere: Ambra piange, Ambra piange. Come se fosse una Barbie o il suo giocattolino telecomandato... E io: Ambra piange, sì, perché è un essere umano».

Lei è rimasta in contatto con le sue ex?

«Con Isabella, eravamo coetanee. Per un anno, abbiamo convissuto tutti e tre a Roma: studiavamo insieme, andavamo a danza insieme. Siamo ancora come sorelle. Sento ancora anche Claudia Gerini. E Valentina, l’ultima, che gli è stata vicino fino alla fine. Non stavano più insieme, ma papà diceva: forse la lascio. E io: che ti lasci, papà?».

Come è stata la malattia?

«Papà è diventato tenero. Giocava coi nipoti, scherzava con noi sorelle. Siccome era un accumulatore seriale e aveva comprato una casa solo perché stava vicino all’Ikea, e solo per arredarla, io gli dicevo: quando vuoi, la camera ardente te la faccio all’Ikea».

Sapeva di essere alla fine?

«Non sai mai quanto il paziente sa o non sa. Gli abbiamo messo vicino delle infermiere giovani e carine. Abbiamo fatto proprio i casting. La volta che arrivò una sostituta anziana, col rosario in mano, lui disse: state scherzando, vero? E giuro che dovemmo mandarla via».

Dagospia l'11 maggio 2023. Riceviamo e pubblichiamo 

Sul Corriere della Sera di ieri, il titolo dell’intervista a Barbara Boncompagni, «Era molto orgoglioso delle tante fidanzate Vedevo Ambra piangere in camerino», mediante accostamento senza soluzione di continuità di due pensieri

distinti dell’intervistata, all’interno del medesimo virgolettato, senza alcun segno di punteggiatura tra i due periodi, è stato costruito in modo tale da far ritenere che la mia assistita Ambra Angiolini sia stata una delle «tante fidanzate» di cui il compianto Gianni Boncompagni era «orgoglioso». 

Si tratta di affermazione palesemente falsa. Ambra Angiolini non ha mai avuto con il regista — cui pure è stata sempre affezionata — alcuna liaison amorosa e assumere — o indurre, con titoli ad hoc — il contrario costituisce palese violazione dei diritti della signora Angiolini. 

Graziella Lopedota Notoria LAB srl

La figlia di Paolo Villaggio: «Fuggì dal cinema alla prima di Fantozzi. I miei prof lo adoravano, io mi vergognavo». Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 31 ottobre 2023.

«Il Ragioniere all’inizio a noi familiari non faceva ridere più di tanto. Ha lasciato la bozza di un libro incompiuto che mia madre non ha mai permesso di leggerlo»

Elisabetta Villaggio, chi era sua papà Paolo?

«Una persona normale. Curioso, iperattivo, amava i viaggi, la compagnia degli amici».

Chi erano i suoi amici?

«Con Paolo Fresco, che sarebbe diventato amministratore delegato della Fiat, erano stati compagni di classe al liceo e da lì legati per sempre, per quanto diversissimi. Fabrizio De André era il figlio di una coppia di amici dei suoi genitori, avevano fatto delle vacanze in montagna da bambini, si erano persi per poi ritrovarsi da ragazzi, uniti da una stessa inquietudine: entrambi frequentavano l’università senza voglia, per compiacere la famiglia; entrambi non vedevano l’ora di lasciarla per vivere da artisti».

È vera la storia di suo padre che per scherzo portò De André a mangiare un topo?

«La raccontavano spesso, ogni volta con una sfumatura diversa. Forse un fondo di verità c’era ma non credo che De André avesse finito per mangiare un topo intero».

Altri amici?

«Di quelli conosciuti sul lavoro e frequentati anche fuori, senz’altro Ugo Tognazzi e Vittorio Gassmann».

Com’è stato essere, in senso letterale, la figlia di Fantozzi?

«Paolo Villaggio non è stato il papà che ti leggeva le favole prima di andare a dormire. Né uno di quelli che ti accompagnava a scuola o veniva ai colloqui con gli insegnanti».

Troppo impegnato?

«A scuola non lo volevo io, mi vergognavo del papà famoso».

Ai suoi compagni piaceva?

«Molto di più ai docenti. Tranne una prof delle medie, che lo considerava alla stregua di un pagliaccio».

Come arrivaste da Genova a Roma?

«Grazie a Maurizio Costanzo, che aveva chiamato papà a fare i suoi spettacoli in un piccolo teatro di Trastevere, il “7x8”. Lui e mia mamma arrivarono a Roma alle fine del 1967, io e mio fratello dopo le vacanze di Natale, nel 1968. Io avevo otto anni e mezzo».

Come divenne famoso?

«Un giorno viene convocato nella sede Rai di viale Mazzini da Giovanni Salvi, che era direttore di Rai1. L’aveva visto al “7x8” nei panni del Professor Kranz e voleva proporlo per un programma che stava per nascere e che sarebbe stato realizzato a Milano».

Quelli della domenica?

«Esatto. Il problema è che il resto dei dirigenti Rai non lo ritenevano all’altezza. Anzi, erano convinti che mio padre non avrebbe funzionato affatto in tv. Salvi si impose e fu un successo immediato».

Che cosa ricorda della genesi del Ragionier Fantozzi?

«Papà scriveva queste strisce che uscivano settimanalmente sull’Europeo. E la Rizzoli, a un certo punto, gli commissionò il libro. L’estate prima di girare il primo film, in vacanza al mare, ci leggeva gli sketch per verificare che facessero ridere».

In famiglia vi facevano ridere?

«Allora non così tanto. Oggi ho riletto il primo Fantozzi prima di iniziare a scrivere il mio libro e l’ho trovato irresistibile. Anche a mio padre il personaggio del Ragioniere piacque più a distanza di decenni che appena uscito».

Che ricordi ha degli esordi del film?

«27 marzo 1975, la prima del primo Fantozzi, al cinema di piazza Barberini, a Roma, con la sala gremita: invitati vip, amici e colleghi... Appena si spensero le luci e iniziò la proiezione, mio padre scappò dalla sala portandosi via anche mio fratello e corse a prendere la macchina».

Per andare dove?

«Lontano dal centro storico. Raggiunse due sale, una a Piazza San Giovanni e un’altra ancora più in periferia. Era convinto, e aveva ragione, che il successo del film passasse attraverso il gradimento del popolo e voleva fare la prova di persona. Solo quando in entrambe le sale più periferiche assistette alle risate del pubblico, ecco, soltanto allora si calmò, riprese la macchina e tornò felice al Barberini”.

Aveva scelto lui gli altri attori?

«Credo li avessero scelti la produzione e il regista Luciano Salce, anche se lui aveva senz’altro avuto modo di assistere ai provini e di dire la sua. Fu però papà a proporre Milena Vukotic per il ruolo di Pina Fantozzi a partire dal terzo film, quando Liù Bosisio aveva deciso di lasciare».

Come mai la Bosisio aveva lasciato?

«Dopo il successo dei primi due Fantozzi, a una rappresentazione delle tragedie greche di Siracusa, durante una recita dal pubblicò qualcuno le aveva urlato “Pina!”. Alla Bosisio, una grandissima attrice che teneva al teatro, a quel tipo di teatro, molto di più di quanto non tenesse al cinema, tanto bastò per dismettere per sempre i panni della signora Fantozzi».

Toccò alla Vukotic.

«Mio papà la adorava perché veniva dai film di Buñuel e di Fellini. C’era anche una sorta di timore reverenziale, infatti le disse: “Non ti offendere se ti chiedo di fare questo personaggio e se ti chiedo di farlo in un certo modo. Fai finta che sia una specie di cartone animato, perché così dev’essere la signora Pina!».

È vero che all’inizio anche Anna Mazzamauro era stata provinata come possibile Pina?

«Sì ma non era adatta. Poi fece dei provini talmente belli che la presero per la parte della Signorina Silvani».

Bosisio, Vukotic, Mazzamauro, il mitico Filini interpretato da Gigi Reder: erano amici anche nella vita reale?

«Lavoravano insieme ma fuori non si frequentavano mai. Credo che lontano dal set, in qualche rarissima cena, mio papà abbia incrociato solo la Vukotic».

Suo papà ha mai odiato Fantozzi?

«Non credo. Anzi, sono sicura di no. Certo, ha girato più Fantozzi di quanti avrebbe voluto e alcuni episodi, alla fine, sono un po’ tirati per i capelli. Però funzionava e aveva successo, per cui per fare le cose che piacevano a lui finiva per mettere la firma su contratti che prevedevano qualche Fantozzi in più».

La politica?

«Era di sinistra, interessato soprattutto ai temi legati alle libertà individuali. Da qui le due volte che decise di candidarsi, una con Democrazia proletaria di Mario Capanna, l’altra coi Radicali di Marco Pannella. I politici però non gli piacevano, non li considerava sinceri».

Il fatto che la sinistra lo snobbasse lo faceva soffrire?

«Non credo. Soffriva per il trattamento di molti critici, questo sì. Non lo diceva apertamente ma la cosa gli dava fastidio, ne sono certa. Ha però avuto tempo e modo di riabilitarsi ai loro occhi lavorando con Fellini, con Olmi e soprattutto vincendo il Leone d’Oro alla carriera nel 1992».

Aveva paura della morte?

«Non lo diceva ma da come ne parlava si capiva che questa faccenda di morire non gli piaceva affatto, anzi. Un giorno, mentre pranzavamo, disse: “Non voglio essere sepolto, non voglio essere cremato. Voglio una cosa diversa: essere bollito”».

È vero che invidiava a De Andrè il funerale?

«Verissimo. Quando morì Fabrizio, i suoi funerali gli erano rimasti impressi. Per l’affetto totale e incondizionato della gente presente a quell’ultimo saluto. Disse che anche lui avrebbe voluto dei funerali in quel modo».

Li avrebbe avuti.

«Sì, li avrebbe avuti. L’affetto della gente non l’ha abbandonato quand’era vivo. E da quello che vedo non l’ha abbandonato neanche ora che è morto da più di sei anni».

Le battute di Fantozzi sono ancora intergenerazionali, interclassiste, superano i confini regionali, le recitano ancora tutti. Immagino che anche voi figli...

«Noi no, mai. Soprattutto in pubblico. Io e mio fratello ascoltavamo gli altri dire “mi faccia l’accento svedese”, “Ragioniere batti lei!” ma noi, per una ragione di pudore, trattandosi di nostro padre, ci siamo sempre astenuti».

Che cosa le ha lasciato?

«Tra le tante cose, anche qualcuna che non ho visto. C’è la bozza di un libro incompiuto, qualche appunto, con un titolo: “Il segreto di Ghirlando”. Lo custodisce mia mam ma, non mi ha mai permesso di dargli un’occhiata».

Paolo Villaggio, la figlia Elisabetta: «Era un po’ impacciato, in privato gli dicevamo: papà, così sembri Fantozzi». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 2 ottobre 2021.

Il primo ricordo di suo padre? 

«Io e mio fratello eravamo piccolini e dovevamo aspettarlo fuori dai locali mentre faceva cabaret. Ricordo queste lunghe attese che non sopportavo. Di giorno faceva l’impiegato, un lavoro che gli aveva trovato il nonno quando mia madre era rimasta incinta di me. Però era un assenteista, la sera tirava tardi, gli piaceva stare in compagnia. Una volta avevo avuto la febbre e non ero andata a scuola e mi aveva colpito che anche lui fosse a casa e che dormisse fino a tardi».

L’ultimo ricordo? 

«Stava già male, era ricoverato e cercavo di trascorrere più tempo possibile con lui. A un certo punto mi disse: “Sai che ho sempre pensato di essere matto? Da quando sono nato”. Era davvero preoccupato e questa cosa mi colpì perché con la sua follia, invece, era riuscito a tirar fuori personaggi che hanno fatto ridere tutti».

Elisabetta Villaggio, regista e scrittrice, non ha mai amato essere considerata «la figlia di» (Paolo, Fracchia, Professor Kranz). Quando da piccola glielo chiedevano, lei ribatteva che il suo papà era un omonimo. E se proprio l’interlocutore non mollava la presa, lei contrattaccava: e a te che effetto fa essere figlio di tuo padre? Oggi non è più così. E lo dimostra con Fantozzi dietro le quinte. Oltre la maschera. La vita (vera) di Paolo Villaggio (Baldini+Castoldi, 164 pp., 16 euro), un libro affettuoso in cui racconta lavoro, amici, passioni e curiosità di quel padre fuori dagli schemi scomparso il 3 luglio del 2017 eppure così vivo nell’immaginario di tutti.

Che padre è stato? 

«Sui generis, molto speciale. Sono fiera di essere sua figlia. Non è mai stato banale».

Litigavate? 

«Ci siamo sempre scontrati! Su certe cose abbiamo un carattere molto simile. Lui era un grande organizzatore, e io pure, ma non volevo farmi dire da nessuno cosa fare in una giornata e men che meno nella vita. Era molto pretenzioso: per lui essere felici significava sposare il presidente degli Stati Uniti, essere bella come Cindy Crawford, essere ricchi come uno sceicco. Aveva aspettative troppo alte! Alla fine ho capito che questi erano modi per spronarmi a ottenere di più e a migliorare».

Com’è stato dover condividere il suo papà privato? 

«Non facile. Lo fermavano di continuo per chiedere autografi, baci, abbracci, e poi spuntava sempre una macchina fotografica. Quando abbiamo lasciato Genova e ci siamo trasferiti a Roma, agli inizi del ‘68, ha avuto questa botta di notorietà. Dopo è diventato normale anche per me, ma per un lungo periodo ho detestato i fotografi che ci invadevano casa, mi dicevamo fai così, mettiti là...».

Le vacanze com’erano? 

«Quelle, bellissime. Perché all’estero nessuno lo conosceva e ci lasciavano tranquilli. Siamo stati in tantissimi posti. Una volta a New York andammo a vedere un musical, la protagonista aveva avuto un malore e fu sostituita da Liza Minnelli: papà impazzì. A Parigi mi portò in un ristorante dove si mangiavano solo formaggi: io, come lui, ne ero ghiottissima; quella notte stetti male per quanti ne avevamo mangiati».

Quando scoprì il diabete non fece nulla per curarlo. Fino a ritrovarsi in sedia a rotelle. Non le faceva rabbia?

«Certo! Ma con il cibo era incontrollabile e poi non dava retta a nessuno. Quando fu costretto a muoversi in sedia a rotelle si prese un autista: andava in giro con lui, fin dal mattino, per il primo cappuccino con i cornetti...».

Nel libro scrive che suo padre era un cialtrone. 

«Lo definivano così gli amici, affettuosamente. Paolo Fresco, con cui aveva fatto il liceo, mi raccontò di quando gli diede appuntamento a Cortina senza farsi trovare».

Fabrizio De Andrè? 

«Era uno di famiglia. I genitori di De Andrè e i miei nonni erano amici: papà e Fabrizio si conoscevano da sempre.

Quando veniva a Roma stava a casa nostra. Ricordo le sere a cantare Carlo Martello e La canzone di Marinella».

Cos’aveva in comune con ? «Beh, mio padre era un uomo coltissimo. Mi fece leggere Marcuse quando ero adolescente, e non capii nulla. Anche mio figlio Andreas, che adorava, lo ha sempre trattato da adulto: a lui faceva leggere Kafka. Detto questo, non aveva alcuna manualità, non ha mai cambiato una ruota, non sapeva usare il computer, men che meno gli smartphone. Ogni tanto era un po’ impacciato, tant’è che in privato gli dicevamo: guarda papà che così sembri Fantozzi. Però con il suo personaggio più amato penso che avesse in comune soprattutto la tenacia».

Vi siete mai detti ti voglio bene? 

«Eh, su queste cose prevaleva il pudore... Però, forse, nell’ultimissimo periodo ce lo siamo detti».

Paolo Villaggio, genio comico, marito (infedele), amico (fedele), padre (difficile). Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 7 gennaio 2022.

L’attore il 30 dicembre avrebbe compiuto 89 anni. La sera del 31 va in onda «Le comiche» il film con Renato Pozzetto. I figli Elisabetta e Piero lo ricordano con tenerezza dimenticando vecchi dissapori

Comico e tragico

Paolo Villaggio - nato a Genova il 30 dicembre 1932 e scomparso a Roma il 3 luglio 2017 - è stato un attore, scrittore, comico, sceneggiatore e doppiatore italiano molto amato. E’ riuscito a far ridere e a far piangere, a creare una vera maschera come Fracchia ma soprattutto come Fantozzi. Nel settembre del 1992 ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia per la sua carriera dedita alla comicità. Stasera alle 21.25 su Rete4 va in onda «Io speriamo che me la cavo» in cui interpretava un maestro elementare.

La moglie amata (con qualche infedeltà)

Paolo Villaggio ha avuto un unico amore nella vita: Maura Albites che ha sposato nel 1958. I due si sono conosciuti al Lido Di Genova nel 1954, lei aveva 15 anni, lui 22. Non si sono mai lasciati fino alla morte dell’attore. Nel 1959 è nata la primogenita Elisabetta; poi è arrivato Pierfrancesco nel 1962. Durante un’intervista l’attore ha raccontato del suo matrimonio con Maura, tra cui anche qualche tradimento: «Io sono felice solo con mia moglie, dormo con lei, ho i figli, i nipoti, i cani con lei. È la sola donna che ho amato. Dopo il matrimonio sono stato fedele una quindicina d’anni, sempre però corteggiando le mogli degli amici, e cercando anche di farlo capire, per vanità, perché ero uno con la patente di sfigato. Anche lei ha fatto quello che ha voluto». Ha sempre dichiarato: «Non esistono uomini fedeli, ma neanche donne. Se potessi dare un consiglio a tutti gli adulteri: non cambiate mai moglie, fate una stronzata. Io ho avuto molti amici che lo hanno fatto: Tognazzi sei mogli, Gassman cinque. Non migliora la vita»

La figlia Elisabetta e le orme del padre

E’ stata Elisabetta Villaggio, nata a Genova il 5 giugno 1959, primogenita di Paolo ad annunciare la scomparsa del padre sui social: «Ciao papà, ora sei di nuovo libero di volare». Elisabetta ha seguito le orme del padre, entrando nel mondo del cinema e diventando una regista. Fra le sue opere più importanti un’intervista-documentario su Franca Valeri uscita nel 2005. Negli anni si è avvicinata anche al mondo della scrittura. In qualche intervista Elisabetta ha spiegato che il rapporto con il padre è stato spesso complicato. «Mi ha insegnato a guardare il mondo con quel senso di libertà e quella apertura mentale, senza schemi, che ha sempre avuto lui. Ma era una persona difficile».

Il figlio Piero e la lotta contro la droga

Pierfrancesco Villaggio detto Piero, il secondogenito dell’attore, ha avuto una vita complicata. Un rapporto difficilissimo con il padre e la tossicodipendenza. «Il confronto con un artista ingombrante come mio padre mi ha inevitabilmente condizionato - ha dichiarato Pierfrancesco nel 2016 in un’intervista a Vanity Fair - Relazionarsi con lui è molto difficile. È una persona molto invadente ed egocentrica, come quasi tutti quelli che fanno il suo mestiere». Certo Piero ha sofferto le lunghe assenze del padre e a 17 anni ha cominciato con l’eroina. «Soffrivo una situazione di disagio. Un mio amico mi ha detto se volevo provare quella polvere, lui era già tossico e io l’ho provata senza pensarci. Era il 1979». Ma «il paradiso nascondeva l’inferno» - ha aggiunto - «È durato fino al 1984 e sono stato anche arrestato con del metadone». Un vero dramma. Così la famiglia decise di tentare la carta della Comunità di recupero di San Patrignano . Racconta Piero: «Era l’84, io un tossico. Mi hanno messo davanti a quel gigante col vocione (Vincenzo Muccioli, ndr) e per stanchezza gli ho detto: facciamo come dici tu. In realtà pensavo che sarei scappato, per andare a drogarmi. E’ finita che sono rimasto fino all’87». Il figlio di Paolo Villaggio non nasconde di aver odiato Muccioli, ma anche di avergli voluto bene. Ora a distanza di anni Piero Villaggio - che vive a Perugia con la moglie - ricordando quegli anni terribili non ha alcun dubbio: «Se avessi un figlio disperato come lo ero io in quegli anni l’avrei mandato a San Patrignano senza alcun dubbio». Una volta uscito dal mondo della droga, Piero ha anche recuperato un rapporto con il padre che nel frattempo si era ammalato a causa del diabete. «E la rabbia è diventata tenerezza».

Il gemello Piero

Paolo Villaggio aveva un fratello, un gemello dizigote per la precisione. Si chiamava Piero ed era un matematico e ingegnere. Laureatosi in Ingegneria civile nel 1957 all’Università di Genova, Piero Villaggio è stato uno dei maggiori esperti a livello internazionale di teoria classica dell’elasticità. Piero Villaggio è morto il 4 gennaio 2014 ad 81 anni all’ospedale di Rapallo per una grave patologia polmonare. Paolo Villaggio di lui ha detto:«Da bambini non abbiamo mai litigato. Abbiamo dormito assieme per vent’anni. Ci completiamo».

L’amico fraterno Fabrizio De André

Nel ‘62, due giovanissimi, Paolo villaggio e Fabrizio De André insieme compongono un brano famosissimo: «Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers». Amici, quasi fratelli. Paolo e Fabrizio si erano conosciuti molti anni prima in montagna, a Cortina, nel 1948. Villaggio era «un ragazzino incazzato che parlava sporco», diceva De Andrè. Erano due ribelli nati in famiglie borghesi. Mollarono l’università e facevano serate nei locali dei vicoli di Genova e anche sulle navi da crociere. Fu Villaggio a dargli il soprannome di Faber, un omaggio a quei pastelli che il cantautore amava. I due vissero un’amicizia davvero totalizzante. Purtroppo nel 1999 Fabrizio si ammalò: negli ultimi due mesi, i due non ebbero mai più il coraggio di incontrarsi, né di vedersi, «perché questa volta non era un gioco, non era letteratura, era la terribile realtà», disse Villaggio. L’attore teneva molto all’amicizia ed ebbe modo di dire: «Solo con gli amici dell’infanzia e dell’adolescenza ci sono dei veri rapporti di affetto, solo per loro so che proverò dolore se dovessero morire. Per il resto ho avuto tanti amici, tutti falsi, nel momento del grande successo. Tutti scomparsi alla prima difficoltà»

Maurizio Porro per “la Lettura - Corriere della Sera” il 18 maggio 2020. A quasi tre anni dalla morte, Paolo Villaggio (Genova, 30 dicembre 1932-Roma, 3 luglio 2017) è, come tutti i grandi, un presente storico che continua a darci il suo contributo alla tragedia del vivere con quel sense of humour che secondo lui non tutti gli italiani hanno. Esce ora - inseguendo nel catalogo le parole coraggiose di Basaglia, Moro, Mattei, De Sica, Terzani, Jotti, Merlin, Matteotti e altri - un breve libretto-breviario di Villaggio con due interviste speculari: la prima, rilasciata nel '75 alla tv svizzera, pressoché nuova per noi, a ridosso del successo di Fantozzi, dove Villaggio fustiga a suo modo i costumi e ci conferma che il ragioniere Ugo è fra i grandi infelici dei tempi moderni; la seconda, a cura della figlia Elisabetta, è un testo inedito, una chiacchierata dell' ottobre 2006 a tu per tu con il nipote Andreas e quindi più vera, familiare, didascalica. Ecco qui L' uguaglianza con cui Paolo Villaggio ripropone la tragica storia del suo popolare personaggio di travet che riassume, in equilibrio delicato tra reale e surreale, Gogol', I burosauri e i cartoon: resterà nella storia del cinema come Charlot o lo schlemiel , sciocco sfortunato della cultura yiddish. La dimensione civile e il discorso sulla dignità forse non sono state le ragioni immediate del successo della saga di Fantozzi con 500 mila copie dei primi due libri, in cui pochi credevano, cui seguono i primi due film del grande Luciano Salce con tre miliardi di lire nel 1975 e 1976. Ma era ben presente, si vede bene in controluce nella scelta di gag, nevrosi, tic e vizi, quel famoso italiano impiegato schiavo delle mode e sfortunato più di Paperino e Willy il coyote. Villaggio si compiace del successo inaspettato quando trionfavano i western spaghetti e Malizia e ci tiene a quel tragico inserito nella seconda puntata (appunto: Il secondo tragico Fantozzi ), parola poco amata da editori e produttori: «Un successo è sempre corrispondenza felice tra un personaggio e un momento storico e spettatori e lettori si sono tutti identificati in Fantozzi in questo momento tragico: è la risposta italiana ai catastrofici hollywoodiani». Così negli anni di piombo il diario del ragioniere fa ridere gli italiani di ogni censo ed età, ai quali Villaggio insegna che il consumismo non rende felici: «L' uomo crede di esserlo con autostrade, macchine, code, mentre in realtà il mondo in cui è costretto a vivere è un inferno». Villaggio dice che con la crescita dei media i comici durano meno: si è partiti da quelli della miseria, della fame e poi è arrivata la commedia con Sordi «primo antagonista antipatico ma comicissimo del nostro cinema». Qui germoglia l' italiano medio con elettrodomestici, weekend, tennis, utilitaria: perderà sempre «non perché io voglia essere giudice negativo ma perché il nostro momento storico è nevrosi pura e Fantozzi sa che finirà in catastrofe». L' autore, anche paroliere per due pezzi del suo amico De André, parla di Fracchia, dell' autobiografismo latente, del senso dell' iperbole usata affinché l' italiano non potesse riconoscersi subito allo specchio. Villaggio racconta quanto si fosse divertito a fare il cabaret a Milano e la tv, mentre il cinema lo definisce un mestiere meno divertente. Infine va in biblioteca e confessa le sue letture iniziando dalla cotta giovanile per Hemingway, calandosi poi nel mondo di Francis e Zelda Fitzgerald, segue Borges che si porta dietro i sudamericani di successo come García Márquez, infine Bulgakov e «Kafka che sta al vertice della piramide nevrotica» fino alla scoperta di un altro «uomo senza qualità», quello di Musil, mentre non ha il coraggio di affrontare le tremila pagine di Marcel Proust. Al nipote, passati trent' anni da quel boom, confesserà cos' avesse voluto dire scegliere di fare l' attore, mestiere da devianti, «per quelli che non erano riusciti a seguire la strada maestra o a finire l' università. Trovo che fare questo lavoro che non oso neanche chiamare lavoro, sia dovuto a una malattia, a un timore, alla paura di non essere competitivo, di non apparire, di non venire fuori dalla mischia. L' attore si maschera perché non si piace, ma l' appagamento viene solo dalla finzione». Bergman ne sarebbe lieto. Torna fuori il Fantozzi che si nasconde in lui e la teoria romantica dell' attore che vuole entrare in altre vite, che diventa Amleto o Arlecchino, per dimenticare il suo presente. Villaggio teenager scelse come esempio e mito Gary Cooper, ma poi abbassò il tiro e preferì, in anticipo su Woody Allen, Humphrey Bogart: per uscire con le ragazze indossa trench, cappello e sigaretta pendula. «Il vero modello - confessa nonno Paolo - era mio fratello. Somigliava a Ho Chi Minh, era molto comico, ma insegnava matematica alla Normale di Pisa, evidentemente sbagliando mestiere: io ho copiato tutto da lui, che era un pagliaccio senza accorgersene. Una sera lui disse che aveva avuto la fortuna d' avere un gemello come me che guidava il tandem: entrambi abbiamo pensato di essere a rimorchio dell' altro». Il nonno fa davvero il nonno, con l' amarezza saggia che gli spetta, quando dice che i giovani oggi non hanno più fiducia nei valori della cultura e insegna a stare alla larga dalla globalizzazione, una pressione violentissima che provoca una omologazione pazzesca. Qui sorpassa a sinistra Pasolini: «Si diventa tutti uguali, è una specie di vera dittatura». Lo deprime la mancanza di allegria dei giovani, Ibiza gli pare un inferno. Ci sono anche le difficoltà del padre e poi del nonno, com' è ora: «Il nonno ha finito la sua corsa disperata e competitiva al successo, tende a ritirarsi, si guarda indietro, così ha la possibilità di occuparsi veramente di voler bene a quelli che lo circondano». Ma Paolo-Ugo vuole bene anche ai libri, alle città come Londra, ai film, vuole bene a Mark Twain, ai Sette samurai e alla Dolce vita di Fellini, ammira La corazzata Potëmkin che ha irriso, ama Truffaut, Ford, Monicelli, Il segreto del bosco vecchio che ha girato con Olmi, ma abiura García Márquez con i suoi Cent' anni di solitudine . Per il The end confessa che gli piacerebbe vivere in una città anche piccola della nostra meravigliosa provincia, ancora meglio Firenze o Venezia. Ma poi non s' è mai mosso da Roma.

Abruzzo, Fiat, Detroit: Marchionne e l'eredità di un manager visionario. La rivoluzione dell'automotive italiana ha visto, tra i protagonisti, lo storico amministratore delegato della Fiat: trasformata poi in FCA e poi in Stellantis: cinque anni fa esatti, l'addio. Lorenzo Grossi il 25 Luglio 2023 su Il Giornale.

Cinque anni esatti dopo la sua scomparsa, l'eredità manageriale di Sergio Marchionne si è rivelata più preziosa e luccicante che mai. La notizia riguardante lo storico amministratore delegato della Fiat che giunse da Zurigo il 25 luglio 2018 fece in pochissimo tempo il giro di quel mondo che, durante la sua esistenza, gli aveva tributato tanti successi professionali e di immagine. Il suo fil rouge della spinta all'internalizzazione dell'industria automobilistica partì da molto lontano.

Da Chieti a Torino, passando per il Canada

Nato a Chieti il 17 giugno 1952, il figlio di un maresciallo dei carabinieri e di una giovane istriana emigrò con la famiglia in Canada, precisamente in Ontario. Qua Marchionne ottenne la laurea in filosofia presso l'Università di Toronto, seguita da una laurea in legge alla Osgoode Hall Law School of York University e quindi un Master in Business Administration presso la University of Windsor. Esercitò la professione di procuratore legale ed entrò nel 1983 in Deloitte Touche come avvocato commercialista ed esperto nell'area fiscale: fu il primo passo di una carriera che nel 2000 lo portò in Svizzera alla carica di ad del Lonza Group, molto attivo nel settore dei prodotti per le industrie farmaceutica e sanitaria.

Il successo ottenuto nel risanamento di Sgs - che fra i suoi clienti aveva proprio Fiat - lo mise sotto i riflettori: per il colosso elvetico nei servizi di ispezione, verifica e certificazione divenne amministratore delegato nel 2002. I risultati ottenuti qua lo portarono all'attenzione del Lingotto, in quel periodo alle prese con la crisi aggravata dalla morte di Gianni Agnelli. Il suo ingresso nel cda dal 2003, su designazione di Umberto Agnelli, precedette la nomina come ad del gruppo torinese il 1° giugno 2004. Al suo fianco, il presidente Luca Cordero di Montezemolo e il vicepresidente John Elkann.

La visione di una Fiat oltre in confini

Emerse fin da subito la sua impronta "decisionista", con una serie di cambi ai vertici del gruppo che, soprattutto con il durissimo braccio di ferro con General Motors, portò a sciogliere l'accordo raggiunto nel 2000 da Paolo Fresco, obbligando gli americani a versare 2 miliardi di dollari affinché da Torino non venisse esercitato l'obbligo di acquisto di Fiat Auto. Nel 2007 venne presentata a Torino la nuova Fiat 500, rivelatasi il simbolo di rinascita dell'azienda e del made in Italy nel mondo. Due anni più tardi, la svolta epocale: ecco, infatti, il primo annuncio di un accordo preliminare e non vincolante per l'acquisizione del 35% della Chrysler, allora sotto procedura fallimentare. Il quinquennio successivo vide la quota di Fiat in Chrysler salire sempre più fino alla completa fusione.

Così nel 2014 nacque il gruppo industriale FCA. L'operazione manageriale che portò la firma di Sergio Marchionne - a cui si deve la rinascita del marchio Jeep - è forse una delle più grandi a livello globale. Nell'ottobre dello stesso anno il manager assunse la carica di presidente Ferrari per poi venire nominato ad del Cavallino rampante nel giugno 2016. È lui che decise di scorporare completamente Ferrari da FCA e di quotare il titolo su Borsa Italiana. Il 1° giugno 2018 è il giorno dell'ultima decisione del manager italo-canadese, che a Balocco presentò il Piano industriale Fiat Chrysler 2018-2022 in cui annuncio l'azzeramento debito pubblico entro giugno e il consolidamento nel settore auto facendo volare le azioni. Venticinque giorni dopo fu invece il momento dell'ultima apparizione in pubblico: a Roma, presenziando alla consegna di una Jeep Wrangler all'Arma dei Carabinieri e pronunciando un discorso sui dazi degli Stati Uniti di Donald Trump.

La malattia di Sergio Marchionne

A fine luglio dello stesso anno – una volta rese note le sue gravi condizioni cliniche - Marchionne venne definitivamente sostituito nel ruolo di amministratore delegato di FCA da Michael Manley e di Ferrari da Louis Carey Camilleri. Morì all'età di 66 anni per un arresto cardiaco dovuto a un sarcoma (un tumore maligno) dopo tre giorni di coma irreversibile. Il progetto di Stellantis, nato del 2021 con la fusione di Groupe PSA (Citroen, Open e Peugeot), si è rivelata la più importante eredità di Sergio Marchionne, il quale stava già pensando seriamente a questa un'unione tra i due colossi dell'automotive. Un cosmopolita visionario che, nel nostro Paese, non è stato compreso da tutti. A tal proposito, una volta disse: "Investiamo 20 miliardi di euro e prendiamo anche gli schiaffi. E invece stiamo cercando di trasformare una rete produttiva che oggi non può reggere, perché non è facile mantenere qui una fabbrica". Alla fine, aveva ragione lui.

"Marchionne uomo ruvido ma rivoluzionario, la sua eredità è preziosa". A cinque anni esatti dalla sua scomparsa, lo storico manager della Fiat viene ricordato dal direttore della redazione di Bloomberg News di Milano, Tommaso Ebhardt, che lo ha conosciuto molto da vicino. Lorenzo Grossi il 25 Luglio 2023 su Il Giornale.

"La sua scomparsa repentina è stata la molla non solo per raccontare la sua storia ma per pormi la seguente domanda: ma vale la pena sacrificare la vita in maniera totalizzante per il duro lavoro poi scomparire così di colpo?". Tommaso Ebhardt, direttore della redazione di Bloomberg News di Milano e autore della biografia di Sergio Marchionne - recentemente ristampata in una nuova versione aggiornata -, racconta con queste parole che cosa di più lo ha colpito della scomparsa del manager, avvenuta il 25 luglio 2018.

Lo storico amministratore delegato di FCA viene descritto come un "leader divisivo e visionario". A cinque anni esatti dalla morte, il ricordo di un uomo che ha saputo impartire una seria lezione sulla cultura del lavoro arriva proprio nei giorni in cui si sta discutendo animatamente di come tenere i dipendenti a casa per combattere il caldo di mezza estate. Ecco cosa è rimasto più impresso nella mente di Ebhardt, che ha conosciuto molto bene il dirigente d'azienda italiano naturalizzato canadese.

Partiamo da un aspetto meno conosciuto: come era in privato Sergio Marchionne?

Era una persona di una cultura e di un'intelligenza al di fuori del comune: averci a che fare nel privato era uno stimolo continuo a crescere. Lui era molto legato alle sue origini teatine, veniva dal basso e quindi trattava tutte le persone allo stesso modo con grandissima umanità. Incredibilmente simpatico nel privato, alternava ruvidezza ad estrema dolcezza e gentilezza.

Un esempio?

Una volta dovetti interrompere le vacanze di Natale sulla neve con mia figlia quando lui acquisì Chrysler: dovetti partire immediatamente per Detroit. Poco dopo lui invia una lettera scritta a mano in cui si scusava con mia figlia per avergli rovinato la settimana bianca con suo padre e le fece anche un regalino. Faceva queste sorprese perché ci credeva veramente. Era affezionato alle persone a prescindere dal loro ruolo.

A proposito di vacanze, una sua dichiarazione fece scalpore.

Quell’episodio fu il classico esempio in cui voleva mostrare come non tutto il mondo fosse come l’Italia. Successe che, con Fiat che perdeva 5 milioni di euro al giorno, lui si era presentato nel mese di agosto a Mirafiori e trovò la palazzina dei dirigenti vuota. Si fece spiegare il motivo: erano tutti in vacanza: ‘Ma in vacanza da cosa?’, reagì. Con quella frase stava cercando di fare capire che l’Italia è un piccolo Paese inserita però in un’economia globale che ha le sue regole: il nostro Paese non poteva fare finta che non esistessero.

Perché la figura di Marchionne è così importante?

È stato un manager rivoluzionario per il nostro Paese perché ha importato lo stile manageriale sul cambiamento in un Paese che è poco avvezzo al cambiamento. È arrivato da vero outsider a Torino, è riuscito a salvare la Fiat in un momento in cui era un’azienda decotta. Se non ci fosse stato lui, probabilmente avrebbe fatto la stessa fine di uno dei tanti carrozzoni statali italiani alla Alitalia.

Quale è stato il suo merito più importante?

Ha di fatto trasformato una piccola azienda europea, concentrata sul mercato italiano, portandola a competere nel mercato globale con l’acquisizione di Chrysler. Ha aumentato il valore con i suoi azionisti, ha fatto emergere il valore di Ferrari che ora vale in borsa 50 miliardi di euro: più della stessa Stellantis di adesso.

Un manager che però è stato anche odiato.

Marchionne era divisivo perché era un uomo che non le mandava a dire. Diceva le verità che lui riteneva anche scomode e questo è stato visto come un affronto da alcuni. Ma, nel complesso, è stato un anti-sistema. Soprattutto in Italia.

In quale ambito è stato rivoluzionario?

Ha cercato di portare il valore del merito e della competitività come unico principale motivo per la scelta degli investimenti. La sua battaglia è stata quella di trasformare la produzione in Italia, drogata da un mercato incentivato e dagli aiuti di stato, rendendo gli stabilimenti competitivi con quelli del resto del mondo.

Come quelli del Sud Italia?

Prendiamo il caso di Pomigliano d'Arco: c’erano dei livelli elevati di assenteismo e oltre il 90% delle automobili uscirono con dei problemi. Lui lo trasformò in uno stabilimento modello: venne data importanza non solo al lavoro, ma anche alla responsabilità. Per fare tutto questo aveva bisogno di un contratto di lavoro che garantisse maggiore flessibilità.

Da dirigente, ha pensato poco agli interessi dell'Italia?

Le battaglie le ha fatte per garantire un futuro all’auto italiana. Melfi è stato l’esempio più eclatante: ha salvato la produzione con la geniale idea di produrre della Jeep Renegade, un veicolo americano che veniva esportato poi negli Usa. Là ha salvato la produzione a sud di Napoli e questo non gli è mai stato riconosciuto.

In che cosa ha sbagliato?

Secondo me, lui ha perso la propria battaglia mediatica. Tutte queste trasformazioni sono state lette da una parte del Paese come un attacco ai diritti acquisiti dei lavoratori: non è mai riuscito a spiegare bene le sue vere ragioni. Ma Marchionne ci teneva veramente all’Italia e alla presenza della produzione nel nostro Paese.

Come ha vissuto la sua malattia?

Sulla vicenda clinica io non sono mai entrato perché lui è sempre stato una persona riservata. Quello che posso dire è che lui era perennemente online e, quando lui è scomparso improvvisamente dai radar, ho cominciato seriamente a preoccuparmi. Poi, arrivò quel tragico weekend in cui tutti noi capimmo che purtroppo non ce l’avrebbe mai fatta. Non aveva raccontato a nessuno del suo male: probabilmente era convinto che ce l'avrebbe fatta anche quella volta. Per me Sergio Marchionne è stato un uomo che è morto sul lavoro.

Cosa resta della sua eredità dopo cinque anni?

Secondo me l'elemento più importante è la sua eredità immateriale, ovvero un messaggio di forte ispirazione che lascia la possibilità di crederci a tutti quanti, anche l'Italia. Non importa da dove parti, ma se hai le capacità, puoi arrivare da qualsiasi parte. In sintesi: ha insegnato che anche in un Paese come il nostro, spesso restìo al cambiamento, si possono riuscire a fare delle cose che sembravano impossibili.

Dalla 500 alla Giulia: così sono rinati i miti. Una lista di iconici modelli realizzati sotto la guida di Sergio Marchionne capaci di lasciare il segno nella storia del settore automotive. Francesco Donnici il 25 Luglio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Fiat Grande Punto (2005)

 Fiat 500 (2007)

 Fiat Panda (2012)

 Alfa Romeo 4C (2013)

 Jeep Renegade (2014)

 Ferrari 488 GTB (2015)

 Alfa Romeo Giulia (2015)

 Maserati Levante (2016)

Esattamente 5 anni fa, il 25 luglio 2018, ci lasciava improvvisamente Sergio Marchionne, uno dei capitani d’industria del settore auto più celebri del mondo, stroncato da una malattia quando era ancora alla guida del Gruppo FCA (Fiat Chrysler Automobiles).

Manager caparbio e risoluto, Marchionne era sbarcato nel Gruppo Fiat nel 2014 per guidarlo fuori da acque non troppo limpide. Riuscì nell’impresa dopo aver scorporato la Ferrari nel 2016 e portato a termine la fusione tra la Fiat e il Gruppo Chrysler. Quest’ultima diede vita ad un colosso globale di diritto olandese con sede a Londra e quotata a Milano e New York.

Alcune scelte del manager italo-canadese sono state anche molto difficili e hanno raccolto più di una critica. Ad esempio, sono state aspramente discusse la decisione di mettere da parte un marchio storico del calibro di Lancia e la vendita di Magneti Marelli, con l’obiettivo di investire verso altri brand considerati più remunerativi e per lanciare una nuova e aggressiva strategia industriale dedicata alla mobilità elettrica.

L’era Marchionne però verrà ricordata soprattutto per il lancio di alcuni iconici modelli che hanno letteralmente scritto la storia del settore automotive moderno, lasciando un segno indelebile nei nostri ricordi e spesso nei nostri cuori. Per questo motivo ci sembra doveroso elencare una carrellata di vetture realizzate sotto la guida di questo manager tanto discusso, quanto illuminato.

Fiat Grande Punto (2005) 

Il primo modello importante realizzato sotto la guida di Sergio Marchionne è stata la Fiat Grande Punto lanciata nel 2015, erede della prima generazione della Punto e realizzata con l’obiettivo di fare grandi numeri. La citycar della Fiat poteva contare su un design moderno e piacevole abbinato ad una abitabilità generosa e a forme compatte che la rendevano ideale sia per single che per giovani famiglie. Il successo di questa vettura fu immediato e duraturo, merito anche della vasta gamma di motorizzazioni che comprendeva unità diesel e benzina, ma anche bi-fuel a metano o GPL.

Fiat 500 (2007) 

Nel 2007 arriva la nuova Fiat 500, citycar di segmento A che punta sulla nostalgia grazie ad un design retrò e a dir poco affascinante che richiamava quello dello storico cinquino. La 500 fu anche la prima Fiat dal carattere premium e modaiolo, n grado di conquistare un variegato pubblico sia maschile che femminile alla ricerca di un’auto compatta, ma ricercata. La vettura, declinata anche in versione cabrio con tetto in tela, poteva contare su un’ampia offerta di motorizzazioni e nel corso degli anni è stata declinata in tante serie speciale, decisamente raffinate e ricche di accessori.

Fiat Panda (2012) 

Nel 2012 è il turno della terza generazione della Panda, una vettura in grado di portare avanti il compito di “motorizzare l’Italia” grazie ai suoi prezzi competitivi e alla versatilità di un corpo vettura compatto, dotato di cinque portiere e caratterizzato da un’ottima abitabilità nonostante le piccole dimensioni. Il successo commerciale indiscusso di questa vettura dura ancora oggi e non accenna a diminuire, merito anche di motori efficienti e parchi nei consumi.

Alfa Romeo 4C (2013) 

Il rilancio dell'Alfa Romeo inizia dalla 4C, supercar compatta lanciata esattamente 10 anni fa, caratterizzata da un corredo tecnico di primo livello che punta tutto sull’handling e il rapporto peso-potenza, con l’obiettivo di insidiare marchi storici come la Lotus. Con la 4C, la Casa del Biscione torna alla mitica trazione posteriore e segna il grande ritorno sul mercato degli Stati Uniti. In poco tempo è diventata una “istant classic” e si distingue per le sue doti sportive offerte da un leggerissimo telaio monoscocca in carbonio abbinato ad un compatto ma potente motore 1.8 turbo da 245 CV (accelerazione da 0 a 100 km/h in soli 4,5 secondi).

Jeep Renegade (2014) 

Uno delle auto di maggiore successo commerciale dell’epoca Marchionne è la Jeep Renagade, realizzata insieme alla “cugina” Fiat 500X, anch’essa caratterizzata da record di vendita che durano tutt’oggi. La Renegade è la prima Jeep prodotta fuori dagli Usa, infatti, viene assemblata nello stabilimento italiano di Melfi. Inoltre, questa Jeep dalle forme compatte regala al marchio americano una nuova linfa e numeri di vendita che lo trascinano ai vertici del mercato.

Ferrari 488 GTB (2015) 

La prima Ferrari nata sotto l’Egidia di Marchionne è la 488 GTB, evoluzione della 458 Italia e supercar di razza in grado di surclassare la concorrenza più blasonata. Oltre le sue incredibili prestazioni, si apprezza anche il ritorno ad un nome che richiama la storica nomenclatura della Casa di Maranello.

Alfa Romeo Giulia (2015) 

Nello stesso anno del debutto della Ferrari 488 GTB assistiamo al lancio dell’attesissima Alfa Romeo Giulia, prima berlina a trazione posteriore della Casa del Biscione dopo tantissimi anni, questo ambizioso modello ha avuto l’arduo compito di traghettare la Casa di Arese verso numeri commerciali decisamente più importanti. Soprattutto nei primi tempi, la Giulia è stata molto apprezzata dalla clientela che finalmente poteva contare su una “vera Alfa Romeo” proposta ad un prezzo competitivo.

Maserati Levante (2016) 

Marchionne ha avuto anche il merito di regalare una nuova vita al nobile marchio Maserati. Nel 2016 arriva infatti la Levante, primo Suv della storia del marchio, capace di risollevare le vendite della Casa del Tridente. Parliamo di un’auto versatile, elegante e allo stesso tempo molto sportiva, con le carte in regole per competere con marchi di lusso ben più radicati nel segmento delle auto con il baricentro alto. Tra le altre cose, la produzione della Levante portò anche allo stop della cassa integrazione nello stabilimento di Mirafiori.

Sergio Marchionne, le auto simbolo della sua era al timone di FCA. Vediamo quali sono stati i modelli più significativi ed emblematici che hanno contraddistinto l'epopea di Sergio Marchionne in sella a FCA. Tommaso Giacomelli il 25 Luglio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Il rilancio di Jeep

 La famiglia 500

 Il Biscione sopra tutto

 Era Marchionne: la mortificazione di Lancia

Sergio Marchionne ci ha lasciati cinque anni fa, il 25 luglio del 2018. Il manager italo-canadese ha rappresentato per anni un totem, una figura salda alla quale aggrapparsi per dare un futuro roseo al comparto automobilistico italiano. Giunto al timone del Gruppo Fiat nel 2003, dopo la dipartita di Umberto Agnelli, Marchionne ha saputo nuotare in un mare di pescecani per quindici anni con fame e spirito battagliero. Con il suo inconfondibile pullover blu ha portato a termine l'acquisizione di Chrysler, dando vita a FCA (la sesta forza mondiale dell'industria delle quattro ruote), ha tentato una scalata ostile alla Opel (senza riuscirci) e ha governato con carisma Ferrari, succedendo a Luca Cordero di Montezemolo, dando un'impronta e una dignità rinnovate anche al reparto sportivo del Cavallino, F1 in primis. Ripercorriamo in queste righe, quelle che sono state le vetture più simboliche della sua epoca in sella al Lingotto.

Il rilancio di Jeep

Quasi stucchevole rammentare come, tramite la fusione con Fiat, il Brand Jeep abbia avuto un successo fragoroso, specialmente in Italia, come mai prima di allora. L'operazione condotta da Sergio Marchionne e che ha portato alla fondazione di FCA (Fiat Chrysler Automobiles), ha prodotto benefici non indifferenti soprattutto a questo Brand, che ha conservato la sua anima fuoristradistica pura e ha aggiunto una faccia che mancava, quella alla moda. Jeep è riuscito a iscriversi in una dimensione trasversale, capace di tenere in casa i clienti che già c'erano, abituati agli offroad duri e crudi, ma abbracciandone di nuovi grazie a modelli più pratici e versatili. I due prodotti più simobici, nati sotto l'egida Marchionne, sono senza dubbio il Grand Cherokee e il Renegade. Il primo è quel veicolo che ha sancito l'inizio del matrimonio (nel 2009) e che ha permesso la riapertura delle fabbriche di Jefferson (USA), dopo un lungo periodo di stop. In quell'occasione fu presente anche l'allora presidente statunitense Barack Obama, compiaciuto per l'obiettivo raggiunto dai nuovi vertici. Questo SUV, tanto abile tra la polvere e il fango, quanto gagliardo sulle strade di tutti i giorni, ha saputo interpretare al meglio il nuovo corso. Renegade, invece, è l'immagine più sbarazzina, giovanile ed europea di Jeep. Prodotta a Melfi, in Italia, condividendo il pianale con la Fiat 500X è divenuta un fenomeno di tendenza che prosegue ancora adesso, senza pausa di riflessione. Un bel mix tra i connotati classici del marchio e una ventata di aria fresca.

La famiglia 500 

La rivoluzione di Marchionne in casa Fiat ha toccato ogni segmento operativo, compreso quello del prodotto. Inutile girarci intorno, nei quindici anni trascorsi negli uffici di Torino da parte del manager italo-canadese, il modello più simbolico è indubbiamento la 500. La versione del nuovo millennio, ispirata all'iconica utilitaria degli anni Sessanta, ha dato una spinta propositiva non indifferente all'immagine sbiadita della Fiat degli inizi del Duemila. Inoltre, dalla piccola citycar è nata una famiglia di veicoli decisamente interessante, comprensiva della pratica e spaziosa 500L, passando per la fascinosa e modaiola 500X, primo crossover/SUV della storia del Lingotto. Anche il rilancio di Abarth, anima sportiva e corsaiola del Brand, ha avuto la sua determinante importanza. Marchionne conosceva il potenziale di Fiat, che ha fatto tornare anche negli Stati Uniti dopo tanti decenni di assenza. Il piano originale, tuttavia, non ha seguito un andamento regolare e le cose non sono andate come sperato.

Il Biscione sopra tutto 

Marchionne ha dimostrato di avere a cuore un Brand sopra tutti gli altri: Alfa Romeo. I piani aziendali che, nei vari anni, si sono susseguiti volgevano verso un'unica direzione, quella di restituire al Biscione la grandezza e i fasti di un tempo. Dopo tanti anni di prodotti che hanno immancabilmente indebolito il prestigio della Casa di Arese, Marchionne aveva varato un rilancio in pompa magna dell'Alfa. I simboli di questa avventura sono, prima di tutto, la 4C che ha permesso al costruttore italiano di rientrare a misurarsi negli States dopo vent'anni di assenza, facendolo con un'auto seducente e sportiva, ma soprattutto Giulia e Stelvio. La berlina è l'auto che tutti gli "alfisti" sognavano da oltre trent'anni, con il ritorno all'agognata trazione posteriore e le doti stradali fuori dal comune, al pari (se non meglio) delle vetture premium tedesche. Stelvio, costruito come Giulia sulla mirabile piattaforma Giorgio, è il primo SUV del marchio e doveva rappresentare il grimaldello per forzare la porta d'accesso al tavolo dei grandi. Infine, con Marchionne l'Alfa Romeo è tornata, seppur in modo marginale, in Formula 1. Anche in questo caso le premesse sono state disattese e il rilancio è rimasto sospeso a metà.

Era Marchionne: la mortificazione di Lancia 

Lancia è un marchio che all'estero non possiede appeal. Questo fu il sunto di un famoso discorso pronunciato da Marchionne, quando dai piani alti di FCA si decise di tagliare il ramo più secco di tutto l'albero. Una bugia, forse, detta a fin di bene, ma che ha segnato la recente storia di un marchio blasonato, in grado di scrivere alcune delle più grandi pagine dell'automobilismo. E non stiamo parlando solo di rally, che meriterebbero un capitolo a parte. Dopo l'oltraggio a costo zero di ricarrozzare le Chrysler con l'effige del Brand torinese (Flavia, Voyager e Thema su tutte), scelta che ha causato un danno di immagine notevole, la Lancia è stata relegata sotto a una campana di vetro, un singolo mercato (l'Italia) nel quale operare con un unico modello, la Ypsilon. La citycar "chic" è l'ultima superstite della grande dinastia Lancia, probabilmente il peggior modello al quale affidare questo ingrato compito. Tra le grandi operazioni di Marchionne, questa resta senza ombra di dubbio la peggiore, fatta - probabilmente - sull'altare di un bilancio instabile. Ai posteri l'ardua sentenza.

Dalle fusioni all'elettrico: l'eredità di Sergio Marchionne a cinque anni dalla morte. Cinque anni fa il mondo dell'industria automobilistica perdeva uno dei suoi leader più influenti e carismatici. Oggi la sua eredità vive in parte nelle sorti del gruppo nato a pochi mesi dalla sua scomparsa. Simone Facchetti il 25 Luglio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 “Un uomo di finanza e non di prodotto”

 L’apertura all’elettrico al momento giusto

 Vendere meno, guadagnare di più

Era il 25 luglio 2018 quando Sergio Marchionne si spense nella clinica Universitätsspital di Zurigo, lasciando ai suoi successori l’onere e l’onore di proseguire un percorso tracciato solamente poche settimane prima con la presentazione dell’ultimo piano industriale prima della propria dipartita programmata dall’azienda, prevista per il 2019. Oggi, a cinque anni dalla sua morte, è opportuno riflettere sull'impatto che le sue scelte (e le sue dichiarazioni) hanno avuto sulle sorti non solo del gruppo FCA ma anche dell’intera industria automobilistica.

“Un uomo di finanza e non di prodotto”

Una delle critiche più feroci mosse nei confronti del manager italo-canadese nel corso della sua carriera è stata quella di tutelare a ogni costo la salute finanziaria delle aziende che sono passate nelle sue mani, anche a costo di non avere nuovi modelli da lanciare sul mercato. Un modus operandi che si è dimostrato vincente quando si tratta di banche e fondi di investimento, ma che ha evidenziato alcuni limiti nel caso di un’industria che per sopravvivere deve contare (anche) sul prodotto. Nella ricerca della riduzione dei costi nell’ottica di un continuo incremento delle performance finanziarie del gruppo FCA, Sergio Marchionne ha portato avanti vere e proprie politiche di austerità industriale, rimandando il più possibile lo sviluppo di nuovi modelli e prendendo decisioni discutibili che in alcuni casi hanno portato al forte ridimensionamento di alcuni brand. È il caso di Chrysler, orfana di nuovi significativi modelli, e di Lancia, abbandonata fino a pochi mesi fa ad un lento declino che ha visto il marchio italiano relegato a tempo indeterminato al solo mercato italiano. 

Pochi, ma significativi, i modelli di auto che hanno ricevuto il disco verde dal manager col pullover, arrivato in Fiat nel 2004 con l’obiettivo di salvare un gruppo in grave difficoltà finanziaria. Marchionne ha dato la propria benedizione alla Fiat 500 del 2007, modello che vive ancora oggi di rendita con pochissime modifiche estetiche. Dopo di lei, si segnalano alcune Jeep (unico marchio dell’era FCA ad essere davvero cresciuto grazie agli investimenti di prodotto) e il duo Alfa Romeo Giulia e Stelvio, due modelli dalla tecnica eccellente (leggere le specifiche della Piattaforma Giorgio per credere) destinati a rimanere un unicum irripetibile. Una stretta di cinghia che da una parte ha scontentato gli appassionati che per anni si sono visti costretti a rivolgersi a brand della concorrenza, dall’altra ha fatto felici gli investitori. Sotto la guida di Marchionne, Fiat ha avuto la spinta propulsiva necessaria per spingersi al di là dell’atlantico e offrirsi come miglior offerente per salvare Chrysler, una delle Big Three dell’Automotive a stelle e strisce che avrebbe rischiato di soccombere in assenza di un piano di risanamento. Già alla metà dello scorso decennio il manager, da sempre convinto sostenitore delle alleanze nel settore automotive come unica soluzione per sopravvivere in vista dell’avanzata cinese, aveva in qualche modo previsto che nel corso degli anni le mutevoli condizioni del mercato avrebbero imposto anche a gruppi consolidati come FCA di unire le proprie forze per continuare ad essere competitivi. Un lustro dopo, la pandemia e la conseguente crisi dei chip, insieme all’incertezza geopolitica, confermarono che la visione a lungo termine di Marchionne, che proprio poche settimane prima della sua morte aveva posto le basi per permettere a FCA di cercare un alleato tra i colossi Renault e PSA, entrambi alla ricerca di un partner presente in modo capillare anche al di fuori dell’ormai sempre meno significativo mercato europeo. Alla fine, come sappiamo, fu proprio PSA ad avere le carte in regola per imbastire una fusione con il gruppo italoamericano, dando la vita a Stellantis.

L’apertura all’elettrico al momento giusto

Per lunga parte del suo operato come amministratore delegato di Fiat prima e di FCA poi, Marchionne non aveva mai nascosto il proprio scetticismo nei confronti delle auto elettriche e ibride. La prima Fiat 500 elettrica datata 2010, per esempio, venne prodotta dichiaratamente in perdita solo per soddisfare una delle condizioni sine qua non imposte dall’amministrazione Obama per accedere al controllo di Chrysler. Decisamente diverso fu il contesto che diede i natali alla Nuova Fiat 500 elettrica del 2020, arrivata sul mercato proprio quando in Europa si iniziava a ipotizzare lo stop alle vendite delle auto con motore termico. Con la 500e prima e con le Maserati Folgore poi (ricordiamo che la gamma elettrica del Tridente era prevista al debutto nel 2021, due anni abbondanti prima del suo effettivo arrivo su strada), Marchionne spalancò le porte del suo business all’elettrico, comprendendo l’importanza di adeguarsi alle nuove tecnologie e alle specifiche esigenze del mercato. 

Vendere meno, guadagnare di più

Con le sinergie derivanti dalla fusione tra FCA e PSA, il colosso Stellantis nato anche grazie alle ultime mosse strategiche di Sergio Marchionne (che non scelse un “erede” nonostante avesse già annunciato che il proprio addio all’azienda sarebbe avvenuto nel 2019, spianando inconsapevolmente la strada a Carlos Tavares di PSA) è ora in grado di abbattere i costi di ricerca, sviluppo e produzione, offrendo un maggior numero di nuovi modelli per i numerosi marchi della propria galassia. Brand mainstream come Fiat e Citroen possono ora guardare al futuro come Case automobilistiche pensate per motorizzare le masse mentre Jeep, insieme a RAM, rappresenta la gallina dalle uova d’oro nei business oltreoceano del gruppo grazie alle continue novità di prodotto nelle categorie più redditizie, ovvero quelle dei SUV e dei pickup. E se si parla di redditività non si possono non menzionare i marchi premium come Lancia e Alfa Romeo, che oggi godono di piani industriali solidi e finanziati a lungo termine per tornare ad essere rispettati in Europa (Lancia) e nel mondo (Alfa). Un discorso che vale ancora di più per Maserati, prosegue la propria espansione nel settore luxury assicurando un’elevata redditività. Infine, la scelta di puntare sul premium ha avvantaggiato non poco anche l’occupazione degli stabilimenti italiani, scelti per accogliere la produzione non solo dei nuovi modelli Maserati ma anche dei futuri veicoli di media e alta gamma a marchio Alfa Romeo, Lancia, DS e Opel, tutti prodotti nello stabilimento lucano di Melfi. Vendere meno auto ma con margini di profitto superiori: questo il mantra che ha spinto non solo Stellantis ma anche gran parte degli altri grandi costruttori automotive a porre un freno alla corsa al record di vendite a ogni costo. 

L'approccio di Marchionne, incentrato sulla salute finanziaria delle aziende, ha ottenuto risultati tangibili, permettendo a gruppi come FCA di superare periodi di difficoltà e di raggiungere una solidità economica. Marchionne ha dimostrato lungimiranza nel riconoscere l'importanza delle alleanze nel settore automobilistico come base di partenza per aumentare la competitività delle aziende.

Oggi, l'eredità di Sergio Marchionne si concretizza in un gruppo automobilistico con una visione a lungo termine, capace di vendere meno ma guadagnare di più grazie a una strategia di business ben studiata. Con nuovi modelli in arrivo per ogni segmento di mercato e la promettente espansione dei marchi premium, Stellantis si prospetta come un protagonista nell'industria automobilistica globale.

Irina Sanpiter, Magda in «Bianco, Rosso, Verdone»: il provino, gli amori, la malattia e l’altruismo e altre curiosità. Teresa Cioffi su Il Corriere della Sera il 4 giugno 2023.

Nel 2018 si è spenta all’età di 60 anni, dopo aver combattuto contro un linfoma per oltre 30 anni

In «Bianco Rosso e Verdone»

«Magda, tu mi adori?» «Sì» «E allora vedi che la cosa è reciproca?». Indimenticabili i dialoghi tra Magda e Furio nel film del 1981 diretto ed interpretato da Carlo Verdone (stasera su Cine 34 alle 21). Un road movie amatissimo i cui dialoghi e le battute si sono radicati nella cultura italiana tanto da diventare quasi dei modi di dire. A fianco del protagonista c’era Irina Sanpiter, nata a Mosca il 27 settembre del 1957. Prima di recitare nel film di Verdone prese parte a qualche corto e lungometraggio, per poi lavorare come comparsa in «Mani di Velluto» del 1979 e l’anno successivo in «La Terrazza», film di Ettore Scola. Poi il grande successo nei panni di Magda, personaggio che le regalò un grande successo. Durante lo stesso periodo recitò nel ruolo di Amalia in «Lacrime napulitane», pellicola di Ciro Ippolito. Tre anni dopo scoprì di avere un linfoma e la malattia la costrinse ad abbandonare la carriera cinematografica a 27 anni. Ha lottato contro il tumore per circa 30 anni. Se n’è andata nel 2018 all’età di 60 anni.

Il provino non superato

Magda, vittima della pignoleria e della parlantina del marito Furio. Sopporta e sopporta. Ma poi anche a lei scappa un «Non ce la faccio più!». L’accento era quello piemontese, non proprio quello originale di Irina Sanpiter, la quale non parlava nemmeno italiano mentre lavorava sul set di «Bianco, Rosso e Verdone». Così fu inevitabile il doppiaggio, assegnato a Solvejg D’Assunta. Un ruolo, quello di Magda, per la quale l’attrice diventò celebre. Ma, durante i provini, non fu scelta immediatamente. Al casting fu scartata. L’attrice, dopo la delusione, tornò nel luogo dei provini per riprendersi le fotografie che aveva presentato. Si trattava delle uniche due foto che aveva portato dall’Unione Sovietica. Fu quello il momento in cui venne notata da Sergio Leone e da Carlo Verdone . Fu così che Irina Sanpiter tornò a casa con i suoi ricordi in tasca e con una parte nel film.

Attrice e non solo

Prima del trasferimento in Italia, l’attrice si dedicò alla recitazione in Russia studiando presso l’Accademia Ščepkin di arte drammatica. Poi iniziò a lavorare sul set di corti e lungometraggi. Nel suo paese di origine però non si impegnò solo al teatro e al cinema, ma si concentrò anche sullo studio. Si laureò in scienze politiche e, come premio, il regista e sceneggiatore Giorgio Arlorio (nonché suo zio) le regalò un viaggio a Roma. Qui iniziò la sua carriera. Non sfruttò mai la laurea, dedicandosi alla recitazione fino ad un certo punto. Durante la malattia decise di accantonare la carriera nel mondo del cinema per dedicarsi ad altro. Iniziò ad organizzazione concerti ed eventi musicali. Nessun ritorno invece a quelle discipline studiate in università a Mosca.

Il rapporto con Verdone

Complici sul set, legati da un affetto sincero nella vita reale. Quando l’attrice si spense, il 4 febbraio del 2018, Carlo Verdone condivise un ricordo sulle sue pagine social: «L’ho scelta per via di quegli occhioni dolci e malinconici che dovevano essere una caratteristica della mia Magda. Ma anche perché era sempre allegra, spiritosa, ironica. Grazie Irina per aver condiviso con me una bella commedia rimasta nel cuore di tanti spettatori». Sposati nella finzione, colleghi e amici nella vita, nonostante non si vedessero spesso.

Il vero amore di Irina

L’attrice durante il periodo della malattia conobbe Tony Evangelisti, manager e producer. «Ho vissuto la malattia come un segno di Dio - aveva raccontato nel 2011 in un’intervista a Libero - Non tutte le cose vengono per nuocere. In quel momento, proprio in quel momento, conosco Tony Evangelisti che mi cambia la vita. Mi fa rinascere. Mi sopporta. Mi sostiene. Mi ama. Siamo inseparabili da 27 anni e lavoriamo insieme». Irina Sanpiter e Tony Evangelisti si sposarono, un’unione celebrata in grande riservatezza. «Matrimonio in tre. Io, lui e Dio in una chiesa, giurandoci amore mentre ci guardavamo negli occhi e ci tiravamo il riso. Il momento più emozionante della vita».

L’altruismo

«Ci sono stata vicina già due volte. Sono preparata» aveva raccontato a Libero parlando della sua malattia e della morte. E poi aveva spiegato che le difficoltà l’avevano spinta a dedicarsi a tutti coloro che condividevano con lei la stessa sofferenza. «La mia missione, quando sono in ospedale, è dare speranza agli altri - aveva dichiarato - un malato si fida solo di un altro malato. Mi presento truccatissima, con telefonino e computer come se andassi in ufficio. Mi cambio da sola le flebo e poi coinvolgo tutti. Parliamo, scherziamo, ci incoraggiamo. E quando vedo che a qualcuno si illuminano gli occhi sono felice. Fa bene anche a me stessa». Al cinema sarà sempre ricordata come Magda. Ma chi l’ha conosciuta in ospedale, la ricorderà come una donna forte sempre pronta a dare un supporto gentile.

Fabrizio Frizzi, i successi in tv, gli amori, la figlia Stella, la malattia e la prematura scomparsa. Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 4 Febbraio 2023.

Domenica 5 febbraio l’amato conduttore avrebbe compiuto 65 anni. Nel marzo di cinque anni fa se ne andò per una brutta malattia. Ora la vedova Carlotta e la loro piccola Stella vivono in Francia

Il ricordo della sua risata fragorosa

Domenica 5 febbraio, Fabrizio Frizzi avrebbe compiuto 65 anni. Purtroppo la malattia lo ha portato via, quasi cinque anni fa, a 60 anni appena compiuti, nel mezzo di una vita piena e felice, con la sua adorata bambina Stella che allora aveva solo 5 anni, e la sua giovane moglie Carlotta . Frizzi era infatti nato a Roma il 5 febbraio 1958 ed è scomparso sempre a Roma il 26 marzo 2018. Il suo ricordo è ancora vivo sia nei telespettatori che nel mondo della televisione. Impossibile non volere bene a un uomo come lui, garbato, professionale, positivo. E che aveva quella splendida risata contagiosa

La malattia

Era il 23 ottobre 2017 quando Frizzi fu colto da una ischemia durante la registrazione di una puntata dell’«Eredità». Venne ricoverato al Policlinico Umberto I di Roma e venne dimesso poco dopo, anche se purtroppo il suo stato di salute continuava a destare preoccupazioni. Nonostante ciò, già dopo poco tempo tornò in video. Parlando con il giornalista Vincenzo Mollica commentò così il suo ritorno nelle case degli italiani: «L’Eredità è una gioia, fa bene anche al fisico. Sento che l’adrenalina mi aiuta a stare meglio». Ma, in una successiva intervista al Corriere della Sera, Frizzi ammise di non aver ancora del tutto chiuso i conti con il male contro il quale stava lottando: «Non è ancora finita, lotto come un leone, e se guarirò racconterò tutto nei dettagli, perché diventerò testimone della ricerca scientifica, la stessa ricerca che ora mi sta aiutando». Purtroppo, quella prima ischemia fu un campanello d’allarme. In realtà, Frizzi scoprì presto di avere un tumore al cervello. Dopo mesi, infatti, giunse una emorragia cerebrale che purtroppo si portò via Fabrizio. Dopo la sua morte, Alfonso Signorini rivelò in una puntata di «Matrix»: «Aveva tumori diffusissimi e inoperabili. Sapeva che non aveva scampo. E questo è molto importante da sottolineare, perché quando ha avuto quella ischemia che l’ha portato al ricovero immediato all’ospedale, ad ottobre, dagli esami di questa ischemia è risultato che aveva appunto dei tumori diffusissimi che erano inoperabili». Tutto ciò non fa che aumentare la grandezza di Fabrizio che ha lottato come un leone fino alla fine, pur sapendo la gravità della situazione. Il suo unico sogno er poter crescere la sua bambina.

L’amore per Carlotta

Un colpo di fulmine, un grande amore, la nascita della loro bambina, le nozze il 4 ottobre 2014 . E il grande dolore. Il legame tra Fabrizio Frizzi e Carlotta Mantovan, di 24 anni più giovane di lui, è stata una bellissima storia d’amore .«Guarda che bel viso che ha quella ragazza», racconterà lui del primo incontro con Carlotta, a Miss Italia. «È stato un amore al primo sguardo, un amore travolgente» ha detto lei molti anni dopo e poche settimane prima della tragica scomparsa del conduttore. E poi: «Le ho fatto la proposta nel 2004 - aveva spiegato il conduttore, prima che lei dicesse «sì» - con tanto di anello a sorpresa, ma lei aveva appena iniziato a lavorare come giornalista». E sono passati anni, 12 di fidanzamento, la nascita nel 2013 della loro adorata Stella e poi nel 2014 il matrimonio. «Che è stata la giornata più bella della nostra vita - racconterà poi Carlotta - La nostra canzone del cuore era “You make me feel brand new”, perché da quando siamo stati insieme ci sentivamo nuovi stando l’uno accanto all’altro».

L’amata figlia Stella

L’arrivo della piccola Stella nel 2013, quando Fabrizio aveva quasi 60 anni, cambiò radicalmente la vita di Fabrizio. Adorava quella bambina che avrebbe voluto avere prima e la sua speranza fino all’ultimo fu quella di poterla vedere crescere. Ora mamma Carlotta si occupa della serenità di Stella Frizzi. Mamma e figlia si sono trasferite nel sud della Francia, e hanno tante passioni, tra cui il cavallo. Carlotta ha preferito preservare Stella e portarla via dall’Italia. «Non è stata una scelta facile e non l’ho presa in maniera improvvisa e radicale. Non ho detto “Ora vado via”, ci ho riflettuto a lungo» - ha spiegato la vedova di Fabrizio Frizzi - «Dovevo prendermi cura di Stella e di me stessa, avevo bisogno di fare una pausa dalla mia vita a Roma e immergermi nella natura. Oggi sto bene e sono pronta a tornare, questo cammino mi ha fortificata. Stella è una bambina fantastica, lei si trova bene tanto in Francia come in Italia». E ama disegnare la sua attuale famiglia con grande serenità (lei, la mamma, il cavallo e la gattina) . Dopo un lungo silenzio Carlotta Mantovan, ospite di Silvia Toffanin a «Verissimo», ha raccontato: «Cerco di vivere appieno, di andare avanti con positività. So che in questa trasmissione piangono tutti, ma io non voglio farlo. Ci tengo, per Stella. Voglio essere una mamma forte, un’ancora di salvezza e di protezione per mia figlia. Stella è il motore che accende la mia vita e le racconto sempre di suo papà. A volte ricevo dei segnali, mi sembra di sentirlo quando vedo un fiore giallo, una coccinella gialla, o qualsiasi altra cosa del suo colore preferito». Carlotta ha poi confidato: «Lui avrebbe voluto diventare papà prima dei 55 anni, ma io stessa inizialmente avevo rallentato. Volevo prima realizzarmi sul lavoro, ed è stato così».

L’amore tra Fabrizio e Rita

Innamorati e poi sposati: Rita Dalla Chiesa e Fabrizio Frizzi hanno tenuto banco sui rotocalchi. Un amore famoso, entrambi volti molto amati della tv, lui molto più giovane di lei. Una coppia che appariva spesso felice e sorridente. Il loro primo incontro risale al 1983: a quel tempo, Rita era già una nota ed apprezzata giornalista, mentre Fabrizio aveva appena iniziato a muovere i primi passi nel mondo della Rai. La scintilla scoccò nel programma tv per ragazzi, «Tandem». La Dalla Chiesa, raccontando la storia d’amore con Frizzi, ha più volte affermato che «fu lui a fare il primo passo. Io non ci pensavo, aveva 10 anni meno di me e all’epoca era uno scandalo. Ci furono critiche, ma me le sono fatte scivolare addosso». Fabrizio e Rita si sposarono nel 1992 e dieci anni dopo, nel 2002, arrivò il divorzio.Frizzi, all’epoca, dichiarò: «Purtroppo dopo tanti anni felici, da un po’ di tempo Rita e io non andiamo più d’accordo e per non farci del male abbiamo deciso di dividere momentaneamente le nostre strade». Tuttavia i due rimasero legati e in buoni rapporti. La separazione fu però particolarmente dura per lei e ci mise anni a riprendersi davvero. Rita in seguito dichiarò: «Certo, puoi avere altre storie che dicono altre cose, puoi avere tutte le storie della vita che vuoi, magari anche con persone molto valide, però l’amore nella vita è uno, e per me era lui».

Frizzi-Clerici-Conti

Il 15 dicembre 2017, ancora provato dal malore, Fabrizio Frizzi decise di fare una sorpresa alla sua cara amica Antonella Clerici nel giorno del suo compleanno (6 dicembre) e così Carlo Conti - altro suo grande amico - lo portò nello studio de «La prova del cuoco» per fare gli auguri di buon compleanno ad Antonellina. Un momento particolarmente emozionante per tutti, colleghi e telespettatori. Nonostante l’ischemia che lo aveva colpito, Fabrizio apparve sereno e sorridente e non disse nulla pubblicamente sulla sua malattia. Di lì a poco sarebbe tornato anche a condurre il quiz preserale «L’eredità», fino all’ultimo.

La «staffetta» con Flavio Insinna

Da lunedì 24 settembre alle 18.45 è tornato in onda su Rai1, «L’Eredità». Ed è toccato a Flavio Insinna, amico di Fabrizio, raccogliere l‘«eredità» dell’«Eredità» . Il fortunato game show, dopo il vuoto lasciato da Frizzi, è tornato sul piccolo schermo con la frase di Insinna: «Il mio primo obiettivo sarà non deludere lui. Fabrizio non è sostituibile, non posso fare questo tipo di miracolo, quindi se mi chiedi se riuscirò a non farlo rimpiangere rispondo certo che no. Posso però cercare di essere bravo».

Miss Italia e i successi tv

Fabrizio Frizzi è stato un conduttore molto versatile. Ha condotto tanti e diversi programmi:Miss Italia (per 17 edizioni, di cui 15 consecutive), Europa Europa, I fatti vostri, Scommettiamo che...?, Luna Park, Domenica in, Per tutta la vita...?, Cominciamo bene, Soliti ignoti, L’eredità; Telethon.

Epstein, giallo senza fine: trovata morta una vittima che aveva testimoniato. Storia di Mariangela Garofano su  Il Giornale venerdì 17 novembre 2023.

Nonostante sia deceduto 4 anni fa, il fantasma di Jeffrey Epstein, finanziere senza scrupoli accusato di traffico della prostituzione minorile, continua a far parlar di sé. La 36enne Carolyn Andriano, abusata dal magnate newyorchese quando aveva solo 14 anni, è stata trovata morta a Palm Beach, per overdose. Nonostante il decesso risalga a maggio 2023, la notizia è stata resa nota dagli inquirenti soltanto ad ottobre scorso, come riporta il Miami Herald.

Carolyn, madre di 5 figli, aveva testimoniato nel 2021 al processo contro Ghislaine Maxwell, la dama nera del jet set internazionale, complice di Epstein e aveva da poco ricevuto una grossa somma di denaro, come indennizzo per gli abusi subiti dal ricco finanziere. Secondo quanto riferito dal suo legale, Jack Scarola, la donna soffriva di problemi legati all’abuso di droga dall’epoca del suo incontro con il milionario, incontro avvenuto grazie ad un’altra nota vittima di Epstein, Virginia Giuffre. Carolyn, all’epoca 14enne, si recava nella lussuosa dimora di Epstein proprio a Palm Beach, dove, per ironia della sorte, ha perso la vita molti anni dopo, per chiedere soldi all'uomo, in cambio di favori sessuali, che, durante il processo, la donna ha definito veri e propri abusi. La ragazzina veniva condotta a casa del magnate dalla Maxwell, diverse volte a settimana, ed ogni volta “accadeva qualcosa di sessuale”, ha rivelato Carolyn durante il processo alla "socialite" britannica.

Ghislaine Maxwell è oggi rinchiusa nel carcere femminile di Tallahassee, Florida, dove dovrà scontare 20 anni per vari reati, tra cui adescamento di minore e traffico della prostituzione minorile. L’avvocato Scarola, intervistato sul decesso della sua assistita, ha così commentato: “Carolyn soffriva molto dal processo di New York. Era risaputo che la traumatica esperienza con Jeffrey Epstein aveva avuto un impatto enorme sulla sua vita”.

La Andriano non è l’unica vittima di Epstein ad aver perso la vita a causa della droga. Nel 2018, Leigh “Skye” Patrick, fu trovata morta per overdose in un motel, anche lei a Palm Beach, in Florida.

(ANSA il 27 giugno 2023) - Il suicidio di Jeffrey Epstein in carcere è stato il risultato di negligenza e comportamento scorretto da parte delle guardie della prigione federale dove era incarcerato. Lo afferma un rapporto dell'ispettorato del Dipartimento di Giustizia. 

"L'insieme di negligenza, comportamento scorretto e carenze nelle prestazioni lavorative ha contribuito" a creare le condizioni per cui all'ex finanziere "è stata concessa l'opportunità di togliersi la vita", si legge nel rapporto. Epstein è stato trovato morto nella sua cella nel carcere di Manhattan nell'agosto del 2019, circa un mese dopo era stato arrestato. 

Nel rapporto le autorità hanno identificato varie carenze da parte delle guardie carcerarie su Epstein. Fra queste i problemi alle telecamere di sorveglianza e il non avergli assegnato un nuovo compagno di cella quando il precedente era stato spostato.

Ma anche l'aver lasciato nella cella dell'ex finanziere pedofilo un numero eccessivo di lenzuola, usate poi per suicidarsi. Il rapporto dettagliato respinge indirettamente le teorie della cospirazione che danni circolano sul fatto che Epstein sarebbe stato ucciso e non si sarebbe suicidato. Epstein ha trascorso 36 giorni nel Metropolitan Correctional Center di New York e due settimane prima della sua morte era stato messo sotto osservazione per timore di suicidio per 31 ore dopo un fallito tentativo di togliersi la vita.

(ANSA il 27 giugno 2023) - Via libera preliminare al patteggiamento fra JPMorgan e le vittime di Jeffrey Epstein. Il giudice Jed Rakoff ha dato la sua approvazione all'intesa, simile a quella raggiunta nelle scorse settimane da Deutsche Bank. L'accordo riguarda la causa intentata lo scorso novembre da una donna alla corte federale di New York a nome anche di altre vittime del finanziere pedofilo morto suicida in carcere. 

L'ex finanziere è divenuto cliente di JPMorgan nel 1998 e la banca nel corso degli anni ha gestito decine di conti correnti legati a Epstein con milioni di dollari. Quando JPMorgan ha chiuso gli account di Epstein nel 2013, il finanziere si è rivolto a Deutsche Bank.

Jeffrey Epstein: l'ex First Lady delle Isole Vergini lo aiutò nel traffico di minori. Storia di Roberto Vivaldelli su Il Giornale il 16 giugno 2023. 

Prosegue la battaglia legale su Jeffrey Epstein. Le Isole Vergini americane hanno citato in giudizio JPMorgan Chase con l'accusa di aver favorito i crimini sessuali del finanziere. La causa sostiene che JPMorgan Chase ha "chiuso un occhio" sul traffico di esseri umani per oltre un decennio a causa degli affari che il magnate portava avanti. Ora la banca con sede a New York risponde con un documento clamoroso: un deposito federale che dimostrerebbe il rapporto stretto tra l'ex First Lady delle Isole Vergini, Cecile de Jongh, e lo stesso Epstein. La banca sostiene infatti che il governo delle Isole abbia aiutato il finanziere in più occasioni: in un documento, JPMorgan accusa Cecile de Jongh, che lavorava come capoufficio per Epstein, di aver agito come suo "principale tramite per diffondere denaro e influenza nelle Isole Vergini americane". In particolare, il finanziere-pedofilo avrebbe aiutato de Jongh a redigere una bozza di legge sui criminali sessuali. Sì, proprio lui, il finanziere condannato per traffico sessuale.

Così il finanziere aiutò l'ex First lady

Tre anni dopo che Epstein si era dichiarato colpevole di aver adescato una prostituta minorenne in Florida, de Jongh, moglie dell'allora governatore delle Isole Vergini John de Jongh Jr, avrebbe chiesto a Epstein se approvava modifiche specifiche alle leggi sul monitoraggio dei criminali sessuali. In risposta alla richiesta di de Jongh di dare un contributo circa la bozza di legge sui reati sessuali, Epstein rispose così: "Dovremmo aggiungere fuori dal Paese per più di 7 giorni, altrimenti non potrei fare una gita di un giorno a Tortola all'ultimo minuto". Sebbene Epstein abbia seguito da vicino il processo di scrittura della bozza, rimase poi deluso dal risultato finale. A quel punto l'ex First Lady si scusò per come erano andate le cose ma promise al finanziere-pedofilo che avrebbe trovato un modo per "aggirare questi ostacoli", si legge nel documento. Secondo il deposito, la donna avrebbe infatti escogitato un piano per aggirare la stessa legge e dare a Epstein ampia libertà di movimento dentro e fuori dal Paese. Non solo. Secondo un altro documento, Epstein avrebbe pagato le tasse scolastiche dei figli del governatore e della first lady delle Isole Vergini americane, allo Skidmore College di New York, per un totale di 25mila dollari.

L'accordo raggiunto da Jp Morgan con le vittime

È notizia di pochi giorni fa la chiusura di un patteggiamento da 290 milioni di dollari tra JPMorgan e le vittime di Epstein. L'accordo, secondo quanto riportato dal New York Times, riguardarebbe nello specifico la causa intentata lo scorso novembre da una donna alla corte federale di New York a nome anche di altre vittime del finanziere morto suicida in carcere. L'ex finanziere divenne cliente di JPMorgan nel 1998 e la banca nel corso degli anni ha gestito decine di conti correnti legati a Epstein con milioni di dollari, ed è accusata di aver "chiuso un occhio" rispetto alle sue attività illegali. Il magnate è stato arrestato il 6 luglio 2019 con l'accusa di abusi sessuali su minorenni: è morto per un presunto suicidio il 10 agosto 2019 presso la sua cella del Metropolitan Correctional Center di New York.

Epstein: Ap svela le sue ultime ore in carcere prima della morte.

(ANSA il 2 giugno 2023) - Agitato, incapace di dormire. Jeffrey Epstein la sera prima di togliersi la vita in carcere aveva tagliato corto una riunione con i suoi avvocati per fare una telefonata alla sua famiglia. A una delle guardie aveva detto che stava chiamando sua madre, morta però 15 anni prima. 

A ricostruire gli ultimi giorni del finanziere accusato di traffico sessuale di minorenni è l'Associated Press, che ha chiesto e ottenuto attraverso il Freedom of Information Act 4.000 pagine di documenti relative alla permanenza in carcere di Epstein. Carte che rivelano come il finanziere cercò di contattate un altro pedofilo di alto profilo: Larry Nassar, il medico delle ginnaste americane condannato per abusi sessuali su decine di atlete. La missiva è tornata al carcere dove Epstein si trovava quando il finanziere era già morto.

Estratto da corriere.it il 4 giugno 2023.

Quattromila pagine per descrivere le ultime ore di vita di un uomo. Le ha ottenute l’agenzia di stampa Associated Press e riguardano il suicidio in cella di Jeffrey Epstein, e i giorni che lo hanno preceduto. 

Quattromila pagine di perizie psicologiche, storia clinica del detenuto, email e memo interni del Bureau of Prisons, l’agenzia del Ministero della Giustizia che si occupa dell’universo carcerario degli Stati Uniti. E che emettono un verdetto: il suicidio dell’ex miliardario […] si deve non solo alla fragilità del detenuto. Ma anche a una serie di errori dell’istituzione, tra cui carenze gravi di personale e dipendenti negligenti.

Jeffrey Epstein si è tolto la vita in cella, impiccandosi, il 10 agosto 2019. Era stato arrestato appena un mese prima. Il carcere dove si trovava, il Metropolitan Correctional Center di New York, nel frattempo è stato chiuso. 

Due settimane prima di porre fine alla sua vita, Jeffrey Epstein sedeva in un angolo della sua cella della prigione di Manhattan con le mani sulle orecchie, nel tentativo di attutire il rumore di un gabinetto che non smetteva di scaricare. Epstein era agitato e insonne, osservavano i funzionari della prigione nei documenti. Si definiva un «codardo» e faticava ad adattarsi alla vita dietro le sbarre. Aveva già tentato il suicidio pochi giorni prima, e aveva il collo contuso.

Era, quindi, in «suicide watch»: quando i detenuti manifestano intenti suicidari o autolesivi deve venire prestata loro una sorveglianza più stretta. Eppure è riuscito a mentire allo psicologo della prigione che gli chiedeva «vuoi sempre suicidarti?». L’ex miliardario avrebbe risposto «figuriamoci, sarei un pazzo. Ho una vita meravigliosa». Lo psicologo non avrebbe indagato oltre. 

In una e-mail, un pubblico ministero coinvolto nel processo a Epstein protesta per la mancanza di informazioni da parte del Bureau of Prisons nelle ore critiche dopo la morte di Epstein, scrivendo che era «francamente incredibile» che l’agenzia stesse rilasciando comunicati stampa pubblici «prima di dirci informazioni di base in modo che possiamo trasmetterle ai suoi avvocati che possono trasmetterle alla sua famiglia».

[…]  Una nota interna, non datata ma inviata dopo la morte di Epstein, attribuiva problemi al carcere a «livelli di personale gravemente ridotti, formazione impropria o assente, nessun follow-up e supervisione». L ’avvocato di Epstein, Martin Weinberg, ha affermato che le persone detenute nella struttura hanno subito «condizioni di reclusione medievali a cui nessun imputato americano sarebbe dovuto essere sottoposto». 

Gli operai incaricati di sorvegliare Epstein la notte in cui si è suicidato, Tova Noel e Michael Thomas, sono stati accusati di aver mentito sui registri della prigione per far sembrare che avessero effettuato i controlli richiesti prima che Epstein fosse trovato senza vita. Il compagno di cella di Epstein non è tornato dopo un’udienza in tribunale il giorno prima e i funzionari della prigione non sono riusciti ad accoppiare un altro prigioniero con lui, lasciandolo solo.

I pubblici ministeri hanno affermato che erano seduti alle loro scrivanie a soli 4 metri dalla cella di Epstein, hanno fatto acquisti online per mobili e motociclette e hanno camminato nell’area comune dell’unità invece di fare i giri richiesti ogni 30 minuti. Durante un periodo di due ore, entrambi sembravano aver dormito, secondo l’ accusa. Noel e Thomas hanno ammesso di aver falsificato le voci del registro, ma hanno evitato il carcere grazie a un accordo con i pubblici ministeri federali. Copie di alcuni di quei registri sono state incluse tra i documenti rilasciati giovedì, con le firme delle guardie oscurate.

[…]  Durante uno screening sanitario iniziale, il 66enne ha affermato di aver avuto più di 10 partner sessuali femminili negli ultimi cinque anni. Le cartelle cliniche mostravano che soffriva di apnea notturna, costipazione, ipertensione, mal di schiena e prediabete ed era stato precedentemente trattato per la clamidia. Epstein ha fatto alcuni tentativi per adattarsi all’ambiente della sua prigione, mostrano i registri. Si è iscritto a un pasto kosher e ha detto ai funzionari della prigione, tramite il suo avvocato, che voleva il permesso di fare esercizio all’aperto.

Due giorni prima di essere trovato morto, Epstein ha acquistato oggetti per un valore di $ 73,85 dallo spaccio della prigione, tra cui una radio AM / FM e cuffie. Aveva $ 566 sul suo conto quando è morto. 

Le prospettive di Epstein sono peggiorate quando un giudice gli ha negato la libertà su cauzione il 18 luglio 2019, aumentando la prospettiva che sarebbe rimasto rinchiuso fino al processo e, forse più a lungo. Se condannato, rischiava fino a 45 anni di carcere. Quattro giorni dopo, Epstein è stato trovato sul pavimento della sua cella con una striscia di lenzuolo intorno al collo. Ma è sopravvissuto. 

Le sue ferite non hanno richiesto l’intervento in ospedale. È stato posto sotto sorveglianza del suicidio e, successivamente, osservazione psichiatrica. Gli agenti della prigione hanno annotato nei registri di averlo osservato, «seduto sul bordo del letto, perso nei suoi pensieri» e seduto «con la testa contro il muro». Epstein ha espresso frustrazione per il rumore della prigione e la sua mancanza di sonno.

Poi, il bagno nella sua cella ha iniziato a fare i capricci. «È stato ancora lasciato nella stessa cella con un gabinetto rotto», ha scritto il capo psicologo del carcere in una e-mail il giorno successivo. «Per favore, spostatelo nella cella accanto quando torna dal legale perché il gabinetto continua a non funzionare.» 

Il giorno prima che Epstein finisse la sua vita, un giudice federale ha aperto circa 2.000 pagine di documenti in una causa per abusi sessuali contro di lui. Questo sviluppo […] ha ulteriormente eroso il precedente status elevato di Epstein. Ciò, combinato con una mancanza di connessioni interpersonali significative e «l’idea di passare potenzialmente la sua vita in prigione, sono stati i probabili fattori che hanno contribuito al suicidio». Nessuno, però, sorvegliava.

"Era agitato...Poi la chiamata alla madre morta": svelate le ultime ore di Epstein. Mariangela Garofano il 5 Giugno 2023 su Il Giornale.

Associated Press ha ottenuto la documentazione riguardante le ultime ore in carcere del pedofilo Jeffrey Epstein, che rivela la disperazione dell'uomo, ma anche diverse incongruenze riguardo alla sua morte.

Nuovi, inquietanti retroscena sulla morte del magnate accusato di pedofilia, Jeffrey Epstein, stanno venendo alla luce. A darne notizia è Associated Press, la quale ha richiesto ed ottenuto la documentazione relativa ai giorni che l’uomo trascorse in carcere, prima di essere ritrovato morto, impiccato nella sua cella. Grazie al Freedom of Information Act, Ap ha svelato pubblicamente più di 4000 pagine, che ricostruiscono le ultime settimane e le ultime ore del finanziere.

Epstein, arrestato a luglio 2009 con diverse accuse, tra cui traffico della prostituzione minorile, era stato assegnato al Metropolitan Correctional Center di Manhattan, dove era stato posto in regime di sorveglianza psicologica, per un presunto tentativo di suicidio poco dopo essere stato arrestato. Dai documenti delle ultime due settimane di permanenza nel carcere, emerge il quadro di un uomo disperato, “accucciato in un angolo della sua cella, con le mani a coprirsi le orecchie, per non sentire il rumore delle gocce di un rubinetto rotto”.

Jeffrey Epstein domani rischierà grosso

Jeffrey Epstein, re del jet set internazionale, e mago della finanza, “non dormiva ed era agitato”, si legge nei documenti stilati dagli psicologi addetti alla sua sorveglianza. Ma nonostante egli si riferisse a se stesso come ad “un codardo”, afferma uno psicologo, il finanziere insisteva con l’affermare che aveva avuto “una vita meravigliosa” e che non si sarebbe mai suicidato. Ma, per ironia della sorte, il 10 agosto 2019, pochi giorni dopo quella conversazione con lo psicologo, Epstein fu trovato provo di vita all’interno della sua cella.

Quando arrivò al Metropolitan Correctional Center, Epstein rimase solo 22 ore nell’area carceraria comune con gli altri detenuti, per poi essere spostato in un’ala del carcere, sotto stretta sorveglianza. Gli altri detenuti raccontano che il noto milionario si vantava delle sue conquiste femminili, era di umore buono e che non aveva accettato di buon grado lo spostamento in isolamento. Ma le sue condizioni cambiarono, una volta trasferito in quello che nelle prigioni americane viene definito "suicide watch".

Secondo quanto documentato nelle 36 ore precedenti la sua morte, Epstein aveva contattato via email un altro noto pedofilo, Larry Nassar, un medico che abusò di decine di ginnaste americane. Dell'email in questione non si sa molto, solo che tornò indietro al mittente, ovvero ad Epstein. L’investigatore che trovò l'email dopo la morte del milionario, chiese ad un agente penitenziario se dovesse aprire la mail, ma del suo contenuto non si seppe più nulla.

Le stranezze sulla tragica dipartita di Epstein diventano sempre più bizzarre nel corso dei giorni, fino alla sera prima della sua morte. In quell'occasione, il magnate newyorkese si scusò e interruppe un incontro con i suoi legali, per effettuare una chiamata alla sua famiglia. Epstein disse ad un agente che doveva telefonare a sua madre, la quale però, era morta ben 15 anni prima. Chi chiamò l’uomo quella notte?

Due anni dopo la morte di Jeffrey Epstein, il Metropolitan Correctional Center chiuse i battenti per “una notevole riduzione del personale e lacune nell’addestramento degli agenti”. Il presunto suicidio di uno dei criminali più famosi d’America aveva scoperchiato un vaso di Pandora troppo grosso per essere richiuso. I due agenti responsabili della sorveglianza di Epstein, Tova Noel e Michael Thomas, vennero accusati per aver mentito sui fatti della notte del suicidio. L’accusa sostiene che i due agenti avevano consultato siti di shopping online, invece di controllare il detenuto ogni 30 minuti, come avrebbero dovuto fare. Ma la cosa più inquietante che si legge nei documenti in possesso di Ap, è che proprio quella notte, Noel e Michaels, si addormentarono per ben due ore. In quelle due ore Epstein, la cui cella si trovava a soli 4 metri di distanza dalla postazione degli agenti, fu trovato privo di vita.

Il ricatto di Epstein a Bill Gates: "Paga o rivelo la tua amante russa". Il finanziere chiese soldi al fondatore di Microsoft. La relazione con la giovane giocatrice di bridge Antonova. Valeria Robecco il 23 Maggio 2023 su Il Giornale.

Il fatto che nella lista di conoscenti di Jeffrey Epstein ci fosse anche Bill Gates è cosa nota, ma ora emerge che i rapporti tra i due erano decisamente più complessi di quanto si sapesse in precedenza. Il Wall Street Journal, nell'ultimo di una serie di articoli sulla rete di contatti del finanziere trovato morto il 10 agosto 2019 nella cella del carcere di New York dove era detenuto con le accuse di abusi, sfruttamento della prostituzione e traffico di minori, rivela che quest'ultimo avrebbe minacciato il co-fondatore di Microsoft ricattandolo per una relazione extraconiugale. Epstein - spiega il quotidiano - aveva scoperto la presunta liaison con la giocatrice di bridge russa Mila Antonova, che Gates aveva conosciuto nel 2010 ad un torneo di carte quando lei era una ventenne, e minacciò di rivelare tutto.

Il finanziere ha incontrato a sua volta Antonova nel 2013, e ha deciso di pagare per lei un corso di programmazione di software, ma nello stesso periodo, stando alle fonti del Wsj, avrebbe scoperto che tra Gates e la giovane non c'era solo una semplice amicizia (all'epoca era ancora sposato con l'ex moglie Melinda French). Così, dopo che Gates si era rifiutato di sostenere finanziariamente la fondazione di beneficenza che Epstein cercava di creare con Jp Morgan Chase per rifarsi una reputazione, danneggiata da una condanna per abuso sessuale di una minorenne, il rapporto tra i due si incrinò. Nel 2017, quindi, il finanziere avrebbe inviato un'email al fondatore di Microsoft chiedendo di essere rimborsato per il costo della scuola. «Bill Gates ha incontrato Epstein esclusivamente per scopi filantropici - fa sapere un suo portavoce - Avendo ripetutamente fallito nel trascinarlo oltre tali questioni, ha così tentato senza successo di sfruttare una relazione passata per minacciarlo». Già un paio di anni fa, a pochi giorni dall'ufficializzazione del divorzio da Melinda, Gates in un'intervista alla Cnn diede ragione all'ormai ex moglie facendo mea culpa per la frequentazione, che peraltro sarebbe stata uno dei motivi che hanno portato la moglie a chiedere il divorzio. Gates ha definito il rapporto con il finanziere un «enorme errore», pur ribadendo di averlo incontrato soltanto perché sperava di raccogliere più fondi per le sue cause filantropiche. Epstein è stato accusato nel 2006 di aver abusato sessualmente di ragazze di appena 14 anni e si è dichiarato colpevole nel 2008 per aver adescato una minore e averla fatta prostituire, finendo in carcere in Florida. Dopo che il Miami Herald ha riferito che decine di altre donne sostenevano di aver subito abusi, è stato arrestato nel 2019 con l'accusa di sfruttamento della prostituzione, e in agosto di quell'anno si è suicidato in circostanze misteriose mentre era in attesa del processo. Gates ha incontrato Epstein diverse volte a partire dal 2011: è stato a cena nella sua casa a New York, e ha volato sul suo aereo privato dal New Jersey alla Florida nel marzo 2013. Intanto Antonova ha rifiutato di commentare la presunta relazione con Gates, ma ha assicurato che non sapeva chi fosse Epstein quando si sono incontrati. «Non avevo idea che fosse un criminale o che avesse secondi fini - ha sottolineato - Pensavo solo che fosse un uomo d'affari di successo e mi volesse aiutare».

(ANSA il 12 giugno 2023) - Il patteggiamento di JPMorgan in una della azioni legali avanzate contro la banca per i suoi rapporti con Jeffrey Epstein vale 290 milioni di dollari. Lo riporta il New York Times citando alcune fonti. L'accordo è sulla causa intentata lo scorso novembre da una donna alla corte federale di New York a nome anche di altre vittime del finanziere pedofilo morto suicida in carcere.

L'accordo raggiunto da JPMorgan è uno dei maggiori di sempre in un caso civile di traffico sessuale. "Riteniamo questo accordo nel miglior interesse di tutte le parti", affermano in una nota i legali della banca e quelli delle vittime. "Non avremmo mai continuato a fare affari con lui se avessimo saputo che usava la nostra banca per aiutarsi nei suoi crimini", mette in evidenza un portavoce di JPMorgan con il Wall Street Journal. Un patteggiamento di queste dimensioni ammette l'ampiezza della sofferenza delle vittime di Epstein", mette in evidenza Brad Edwards, legale che rappresenta le accusatrici di Epstein.

L'ex finanziere è divenuto cliente di JPMorgan nel 1998 e la banca nel corso degli anni ha gestito decine di conti correnti legati a Epstein con milioni di dollari. Quando JPMorgan ha chiuso gli account di Epstein nel 2013, il finanziere si è rivolto a Deutsche Bank. Proprio Deutsche Bank di recente ha raggiunto un accordo per pagare 75 milioni di dollari alle vittime di Epstein in una causa simile a quella intentata contro JPMorgan.

75 milioni di dollari alle vittime di Epstein: perché a pagare è la Deutsche Bank. Storia di Mariangela Garofano su Il Giornale il 18 maggio 2023.

Dopo le accuse mosse al colosso JPMorgan, nell’ambito delle indagini su Jeffrey Epstein, ora è Deutsche Bank a essere finita nell'occhio del ciclone. Pare infatti che la banca tedesca pagherà 75 milioni di dollari alle vittime del finanziere accusato di pedofilia per aver continuato a tenerlo come cliente per cinque anni, pur sapendo che l’uomo era un abusatore seriale. Come riporta Reuters, l’accordo con la banca tedesca è il risultato di una class action avviata dai legali di alcune vittime di Epstein, depositata presso il tribunale di Manhattan da una vittima chiamata "Jane Doe 1".

Il milionario newyorkese nel 2008 era stato registrato come predatore sessuale e arrestato in Florida, con l’accusa di traffico della prostituzione. Le donne abusate da Epstein accusano Deutsche Bank di aver continuato a fare affari con il magnate dal 2013 al 2018 e di aver favorito, in questo modo, i suoi traffici illeciti. David Boies, uno dei legali delle vittime che hanno intentato la causa contro la banca tedesca, ha dichiarato a Reuters che le vittime di Epstein “hanno bisogno della collaborazione e del supporto di personalità ed istituzioni potenti. Apprezziamo la volontà di Deutsche Bank di assumersi le proprie responsabilità per il suo ruolo nella vicenda”.

A questo proposito, il portavoce della banca, Dylan Riddle, non ha commentato l’accordo, ma la banca avrebbe ammesso che avere Epstein come cliente sarebbe stato un errore. Errore che ora costerà caro alla banca, ma che renderà ricche le vittime del milionario. Secondo alcune fonti le donne avrebbero ricevuto tra i 75.000 e i 5 milioni di dollari ciascuno, da Deutsche Bank. Recentemente anche JPMorgan è finita sotto i riflettori, per aver facilitato i traffici illeciti dell'americano, dopo il suo arresto nel 2008. La causa contro JPMorgan è stata intentata da una delle sue vittime, una ballerina nota come "Jane Doe 2", e dal governo delle Isole Vergini, che hanno chiamato a fornire documenti sui rapporti con Epstein, il patron della Tesla e Twitter, Elon Musk.

"Lo incontravano dopo la condanna". L'agenda di Epstein fa tremare la sinistra Usa. Marco Leardi su Il Giornale il 30 Aprile 2023

Nei documenti in cui il finanziere-pedofilo annotava i propri incontri spuntano i nomi di alcuni funzionari e vip americani vicini all'area progressista

Le memorie di Jeffrey Epstein, l'ormai defunto finanziere condannato per pedofilia, fanno ancora tremare l'establishment americano. E ora, in particolare, la sinistra a stelle e strisce. In una serie di documenti inediti in cui il criminale "sex offender" annotava i propri appuntamenti, compaiono infatti i nomi di alcuni funzionari dell'apparato statunitense e di personaggi vicini all'area progressista. Lo si apprende dal Wall Street Journal, che ha visionato migliaia di pagine di email e di materiali dal 2013 al 2017, ovvero del periodo in cui l'imprenditore finanziario era già al centro di accuse, inchieste e condanne per reati sessuali.

In particolare, secondo quanto rivela il quotidiano statunitense, tra i vip americani presenti nelle carte di Epstein compaiono il capo della Cia William Burns, l'ex consigliera della Casa Bianca di Obama Kathryn Ruemmler, il presidente del Bard College, Leon Botstein, e il grande intellettuale della sinistra radicale americana, Noam Chomsky. Le rivelazioni apparse sulla stampa a stelle e strisce hanno riaperto il dibattito sulle frequentazioni e le eventuali coperture del finanziere, morto in carcere a New York nel 2019 in circostanze da molti ritenute sospette. Secondo i documenti, Burns, capo della Cia dal 2021 apprezzato da Joe Biden, aveva in programma tre incontri con Epstein nel 2014, quando era vicesegretario di Stato. I due - secondo le carte - si incontrarono per la prima volta a Washington, poi Burns visitò la residenza di Epstein a Manhattan.

L'esponente dei democrats Ruemmler avrebbe invece avuto dozzine di incontri con Epstein dopo aver lavorato come consigliere legale della Casa Bianca sotto il presidente Obama e prima di diventare uno dei principali avvocati di Goldman Sachs Group, nel 2020. I documenti riferiscono che Epstein aveva anche pianificato che nel 2015 lei si unisse a un viaggio a Parigi e a una visita nella sua isola privata ai Caraibi, nel 2017. Botstein invece invitò al campus del suo college d'ispirazione progressista (finanziato anche da Soros) proprio Epstein, che portò un gruppo di giovani donne. Chomsky, professore, scrittore e attivista della sinistra radicale, avrebbe dovuto volare con Epstein per cenare nella sua residenza a Manhattan nel 2015.

I documenti non rivelano lo scopo della maggior parte degli incontri e il Wall Street Journal non ha potuto verificare se tutte le riunioni programmate si sono poi svolte. Ma l'imbarazzo resta, anche perché la sinistra aveva sempre usato il nome di Epstein come clava contro Donald Trump (i due erano infatti amici). La maggior parte delle persone citate nelle carte ha spiegato al quotidiano di aver incontrato Epstein per motivi legati alla sua ricchezza e ai suoi contatti; molti hanno sostenuto che pensavano avesse già scontato la sua pena e fosse stato riabilitato. E così sono iniziate le precisazioni per arginare le possibili polemiche.

Burns ha incontrato Epstein circa un decennio fa mentre si preparava a lasciare il servizio governativo, ha riferito la portavoce della Cia Tammy Kupperman Thorp. "Il direttore non sapeva nulla di lui, a parte il fatto che è stato presentato come esperto nel settore dei servizi finanziari e ha offerto consigli generali per il passaggio al settore privato", ha aggiunto il funzionario, garantendo che "non avevano alcuna relazione". Da parte sua, Botstein ha sostenuto che stava cercando di convincere Epstein a fare donazioni al suo college, mentre Chomsky ha assicurato che lui ed Epstein hanno discusso solo di argomenti politici e accademici.

"Epstein non si è ucciso". La verità di Ghislaine Maxwell. Storia di Roberto Vivaldelli su Il Giornale il 19 febbraio 2023.

Ghislaine Maxwell non crede affatto che Jeffrey Epstein si sia suicidato in carcere, come sostiene la versione ufficiale. L'imprenditrice inglese condannata a 20 anni di carcere per adescamento di minori e altri reati commessi con o per conto del finanziere-pedofilo ed ex compagno, ha dichiarato nella sua prima intervista da dietro le sbarre che che Jeffrey Epstein è stato "assassinato". "Credo che sia stato assassinato. Sono rimasta scioccata", ha detto Maxwell, secondo The Guardian. "Poi mi sono chiesta come fosse successo perché, per quanto mi riguardava, ero sicura che avrebbe ricorso in appello". Ha poi raccontato che non avrebbe mai voluto incontrare il finanziere: "Onestamente vorrei non averlo mai incontrato", ha spiegato Maxwell. "Ripensandoci ora, probabilmente vorrei essere rimasta in Inghilterra. Ma a parte questo, sai, ho provato ad andarmene e iniziare un altro nuovo lavoro e andare avanti dalla fine del '98, '99". Perché sostiene che il finanziere americano sia stato ucciso in cella? Quali segreti nascondeva Epstein, era diventato scomodo? Una "boutade" dal carcere oppure ne è veramente sicura? Sono le domande che sorgono spontanee a seguuto di queste - clamorose - dichiarazioni.

La condanna

Maxwell è stata condannata a giugno a 20 anni di carcere per il suo ruolo nello sfruttamento e abuso sistematico di più ragazze minorenni con Epstein nel corso di un decennio. Il magnate è stato accusato dal tribunale federale di Manhattan nel luglio 2019 di traffico sessuale di minore. Successivamente fu trovato morto nell'agosto 2019 nella sua cella di New York City per un apparente suicidio, secondo il Dipartimento di Giustizia. Nelle scorse settimane Maxwelle ha difeso il Principe Andrew, nei guai per una foto risalente al 2001 che lo ritrae con l'allora adolescente Virginia Roberts Giuffre, una delle accusatrici della coppia e dello stesso Principe. La foto mostra un sorridente principe Andrew con il braccio avvolto intorno alla vita del diciassettenne Giuffre e una sorridente Maxwell sullo sfondo. L'imprenditrice inglese ha definito quello scatto un "falso" ma secondo un nuovo rapporto si tratterebbe invece di uno scatto autentico. Secondo quanto riferito, Re Carlo avrebbe sfrattato il fratello caduto in disgrazia da Buckingham Palace per il suo comportamento scandaloso, un anno dopo che la loro madre, la defunta regina Elisabetta, lo aveva privato degli onori reali e militari.

I misteri dietro la morte del finanziere

Quanti misteri dietro la morte del finanziere Jeffrey Epstein. Arrestato all’aeroporto Teterboro nel New Jersey il 6 luglio 2019 per abusi sessuali e traffico internazionale di minorenni, Epstein è morto in carcere presso il Metropolitan Correctional Center di New York il 10 agosto 2019. "Sabato 10 agosto 2019, alle 6.30 circa, il detenuto Jeffrey Edward Epstein è stato trovato non cosciente nella sua cella. Successivamente è stato dichiarato morto dal personale ospedaliero", si legge in una dichiarazione del Metropolitan Correctional Center. Il 23 luglio, esattamente tre settimane prima della sua morte, Epstein fu trovato privo di sensi nella sua cella con lesioni al collo. Il finanziere sostenne di essere stato aggredito da un suo compagno di cella, mentre il personale del carcere sostenne che si trattava di un apparente suicidio.

Come tutte le prigioni federali, scrive il New York Times, il Metropolitan Correctional Center di Lower Manhattan ha un programma di prevenzione dei suicidi pensato per i detenuti che rischiano di togliersi la vita. Dopo l’apparente tentativo di tre settimane prima, Epstein, 66 anni, è stato messo sotto stretta sorveglianza e riceveva valutazioni psichiatriche quotidiane. Ma solo sei giorni dopo, il 29 luglio, quella misura è stata tolta: non era più necessario, almeno secondo la direzione del carcere. Dodici giorni dopo, è stato trovato senza vita per un apparente suicidio. Le guardie che facevano il loro giro mattutino hanno trovato il suo corpo alle 6:30 del mattino. Il giorno successivo, l’11 agosto 2019, viene eseguita l’autopsia sul corpo del milionario. Per attendere i risultati bisogna però attendere il 16 agosto 2019: secondo Barbara Sampson, un’esaminatrice medica di New York, Jeffrey Epstein si è suicidato impiccandosi con il lenzuolo della sua brandina. Lenzuolo che avrebbe legato alla parte alta del letto a castello di cui era dotata la sua cella. Ricostruzione che, tuttavia, non ha mai convinto né gli avvocati di Epstein né tantomeno Maxwell, secondo i quali qualcuno avrebbe messo a tacere il finanziere-pedofilo. A mettere in discussione la versione ufficiale sulla morte per impiccagione di Epstein fu anche il celebre patologo forense Michael Baden, che intervistato da Fox & Friends, dichiarò che il milionario aveva subito una serie di lesioni – tra cui un osso del collo rotto – che "sono estremamente insoliti nel suicidio per impiccagione e potrebbero verificarsi molto più comunemente nello strangolamento".

DAGONEWS il 18 febbraio 2023.

Jeffrey Epstein “è stato suicidato”? Da quando il finanziere pedofilo è stato trovato morto nella sua cella in un carcere di New York, il 10 agosto 2019, le teorie del complotto si sono sprecate. Ufficialmente, il magnate 66enne si è suicidato. Ma, visto che era accusato di traffico di minorenni a scopo sessuale e visto soprattutto il numero di persone potenti e di alto profilo, dal principe Andrea a Bill Gates, con cui era in rapporti (di lavoro, di amicizia e non solo), in molti ritengono che si era fatto troppi nemici, che avrebbero preferito che morisse prima di testimoniare.

 Il mese scorso, la sua ex compagna e sodale Ghislaine Maxwell ha fatto un intervento dalla sua cella di prigione e ha detto che crede che Jeffrey “sia stato assassinato. In un’intervista ha raccontato la sua reazione alla morte dell’ex: “Sono rimasta scioccata. Poi mi sono chiesta come fosse successo perché... ero sicura che si sarebbe appellato".

 Utilizzando i documenti scritti che il Federal Bureau of Prisons ha rilasciato, il Daily Mail ha  ricostruito gli ultimi giorni e le ultime ore della vita di Epstein per scoprire cosa accadde davvero in quella fatidica notte in carcere...

Lunedì 8 luglio, ore 9.30

 Come da prassi, prima che la porta della cella venga aperta dal personale, Epstein offre le mani attraverso la fessura per il cibo per essere ammanettato.

 Viene sottoposto a valutazione psicologica. L'équipe esaminatrice teme che possa avere tendenze suicide: ha un'udienza in tribunale più tardi ed è improbabile che gli venga concessa la libertà provvisoria. Non sanno come potrà affrontarla.

 Ore 11.00 passate

 Epstein incontra il suo team legale. Durante la sua permanenza in carcere, pagherà loro le visite per tutto il giorno, tutti i giorni feriali, per consentirgli di uscire dalla cella e dalle manette.

 Dopo le 14:00

Con l'aria esausta e i capelli grigi in disordine, Epstein arriva in tribunale e a testa alta si dichiara non colpevole delle accuse di associazione a delinquere e traffico sessuale. Un giornalista dice che mantiene "un'aria stoica". La cauzione viene negata.

 Dopo le 19

A seguito di questa battuta d'arresto, Epstein viene messo sotto "osservazione psicologica". Detenuti appositamente incaricati registrano il suo comportamento ogni 15 minuti. Si tratta di un regime meno severo della "sorveglianza suicida" completa, che il team di psicologi del carcere ha deciso non essere necessaria.

 Le brevi note scritte a mano dai detenuti rivelano la riluttanza di Epstein a lasciar perdere la sua vita fuori dal carcere: "Il detenuto Epstein parla di affari e investimenti"; "Il detenuto Epstein e io parliamo del business delle escort"; "Il detenuto Epstein parla delle celebrità che conosce".

 Martedì 9 luglio, ore 1.52

 Un utente di Twitter chiamato "JJ Truth" pubblica una foto di Bill Clinton con una ragazza di nome Rachel Chandler, presumibilmente scattata sull'aereo privato di Epstein. Migliaia di persone rispondono chiedendo che i suoi amici famosi - primi fra tutti Clinton e Donald Trump - vengano incriminati.

Dopo le 9 del mattino

Epstein viene valutato per un potenziale rischio di suicidio. Lo psicologo che effettua la valutazione lo trova educato, collaborativo, spiritoso e "orientato al futuro". Sembra essere di buon umore: si definisce un banchiere con una "grande azienda" e dichiara che "essere vivi è divertente". Chiede una telefonata, un incontro con il suo avvocato, una doccia e di potersi lavare i denti.

 Mercoledì 10 luglio

 Epstein chiede di essere spostato in una cella singola. La richiesta viene respinta.

Giovedì 11 luglio, ore 9.00

 Epstein incontra nuovamente gli psicologi. Questa volta ha una lunga lista di lamentele: ha dormito male; fa freddo nella sua cella; non c'è abbastanza acqua nella stanza dove incontra i suoi avvocati.

 Nonostante questo, gli psicologi riferiscono che Epstein non è in difficoltà. Sembra essere ricettivo. Epstein assicura che non è assolutamente un suicida e che non lo sarebbe mai.

 Lunedì 15 luglio, ore 10

Un'altra apparizione in tribunale. Gli avvocati di Epstein presentano un'altra richiesta di cauzione. Chiedono gli arresti domiciliari, a sue spese, e offrono una cauzione sulla sua casa di New York, valutata 56 milioni di dollari.

Ma Alex Rossmiller, il procuratore, ha un annuncio drammatico. Quella stessa mattina, gli investigatori hanno fatto irruzione in una cassaforte nella proprietà di Epstein a New York e hanno trovato mucchi di contanti, "molte, molte" fotografie di ragazze dall'aspetto giovanile, dozzine di diamanti e "un passaporto che sembra essere stato emesso da un paese straniero con una foto dell'imputato e un nome sul passaporto che non è il nome dell'imputato". Rossmiller insiste che c’è il rischio di fuga. Epstein non mostra alcuna emozione mentre due dei suoi accusatori testimoniano.

 Courtney Wild, 31 anni, racconta alla corte che quando aveva 14 anni e cresceva in Florida in condizioni di povertà, un'amica le chiese se volesse 200 dollari per fare un massaggio a un uomo anziano. Lei non esitò. Il massaggio sfociò in una violenza sessuale.

 Annie Farmer, 42 anni, racconta in tribunale che aveva 16 anni quando Epstein la portò nel suo ranch in New Mexico, dove incontrò Ghislaine Maxwell. La coppia la riempì di regali, ma in questo ambiente isolato iniziarono le aggressioni sessuali da parte di entrambi. La donna non poteva scappare da nessuna parte.

 Giovedì 18 luglio, ore 9.30

 Il giudice Richard M. Berman respinge la richiesta di cauzione di Epstein, citando le potenti testimonianze delle donne. Non ritiene che "l'eccessiva attrazione di Epstein per la condotta sessuale con o in presenza di ragazze minorenni ... sia probabilmente controllabile".

 Messaggio delle 19:00

Epstein torna in cella. Nessuno valuta l'impatto psicologico del rifiuto della cauzione. È una strana omissione. Per i quattro giorni successivi, Epstein riceve un'attenzione minima da parte dei funzionari, per cui quello che accade dopo coglie apparentemente tutti di sorpresa.

Martedì 23 luglio, ore 1.27

Gli agenti penitenziari trovano Epstein semicosciente sul pavimento della sua cella, in posizione fetale e con una striscia di lenzuolo intorno al collo contuso. Lo portano nell'ala ospedaliera.

 I funzionari del carcere aprono un'indagine per stabilire se si tratta di un tentativo di suicidio, di una messinscena o di un'aggressione. Sui social media circola la voce che Epstein sia stato aggredito dal suo compagno di cella, il pluriomicida Nicholas Tartaglione.

Gli avvocati di Tartaglione negano che il loro cliente sia coinvolto e sostengono che abbia cercato di rianimare Epstein. Cercano di ottenere un video girato fuori dalla sua cella quel giorno, ma il nastro viene perso e poi apparentemente ritrovato. Si scopre che proviene dalla videocamera sbagliata.

 Alla fine i funzionari ammettono che il filmato di quella notte fuori dalla cella di Epstein è stato definitivamente cancellato e il mistero rimane irrisolto.

 Una fonte anonima suggerisce alla NBC news che Epstein abbia inscenato l'incidente nel tentativo di essere spostato in un'altra cella, perché spaventato dalla Tartaglione.

 Mercoledì 24 luglio, dopo le 9.30

Nonostante il suo calvario, Epstein appare sereno. Continua a negare di avere pensieri suicidi. Dice all'équipe di psicologi che ha una "vita meravigliosa... Non ho alcun interesse a uccidermi". Si definisce un "codardo", insistendo sul fatto che non ama il dolore: "Non mi farei questo". Ricorda che è ebreo e che il suicidio è contrario alla sua religione.

 Lunedì 29 luglio

Epstein è tornato in "osservazione psicologica" da parte dei compagni di detenzione. Sembra giù di morale. Un detenuto che lo osserva annota: "Il detenuto Epstein è seduto sul bordo del letto con la testa tra i palmi delle mani".

Martedì 30 luglio

Epstein torna in isolamento. Viene messo nella cella più vicina alla scrivania dell'ufficiale correzionale, con un nuovo compagno di cella, Efrain Reyes.

 Il bagno della cella perde. Epstein si siede con le mani sulle orecchie. Non sopporta il rumore dell'acqua che scorre. Con la psicologa ipotizza che la sua sensibilità al rumore possa essere un segno di autismo non diagnosticato. Si paragona al personaggio di Dustin Hoffman nel film Rain Man: un autistico savant molto sensibile.

Telefona alla sua fidanzata bielorussa, Karyna Shuliak, 30 anni. Stanno insieme da dieci anni, da quando lei si è trasferita in America, ed Epstein le ha pagato la formazione per diventare dentista. Secondo quanto riferito, era "follemente gelosa" di lui e nota come "l'ispettrice" perché indagava su tutti quelli con cui aveva contatti. Nessuno dei suoi amici di alto profilo va a trovarlo in prigione.

 Ghislaine Maxwell si è nascosta. Ci sono presunti avvistamenti di lei a Londra, nel sud della Francia e nel New Hampshire, ma nessuno è stato confermato.

Mercoledì 31 luglio, ore 11.30

Epstein torna in tribunale per una nuova udienza. Questa volta appare sconfortato, ma lo psicologo del carcere è convinto che l'osservazione del suicidio non sia necessaria: "Ha dichiarato di vivere per questo caso e di avere intenzione di finirlo e di tornare alla sua vita normale". Epstein si lamenta di essere stanco e di dormire male. Il suo nuovo compagno di cella, Reyes, lo tiene sveglio con le sue chiacchiere.

 Giovedì 8 agosto, ore 9

Epstein incontra due dei suoi avvocati, Gulnora Tali e Mariel Colón Miró, per firmare un nuovo testamento.

 Il testamento prevede la costituzione di un fondo fiduciario con un patrimonio di 577 milioni di dollari. La sua fidanzata Shuliak è una delle principali beneficiarie. La struttura del fondo fiduciario renderà più difficile per le presunte vittime avanzare richieste di risarcimento contro il suo patrimonio.

 Venerdì 9 agosto, ore 8

Il compagno di cella di Epstein, Efrain Reyes, viene rilasciato. Il personale comunica che Epstein dovrebbe aspettarsi un nuovo compagno di cella, ma nessuno viene trasferito per condividere la sua cella.

 Dalle 9 del mattino

Epstein trascorre la giornata con i suoi avvocati. (Uno dei suoi avvocati difensori, Reid Weingarten, metterà in seguito in discussione la sentenza sul suicidio, insistendo sul fatto che Epstein non sembrava avvilito, suicida o disperato).

In uno sviluppo della causa civile contro Maxwell ed Epstein intentata da Virginia Guiffre - che sostiene di essere stata vittima della coppia e costretta ad avere rapporti sessuali con il Principe Andrea nella casa di Maxwell a Belgravia, Londra - una corte d'appello federale rende pubbliche 2.000 pagine di documenti riservati. I documenti includono testimonianze grafiche delle vittime di Maxwell e di Epstein.

 Gli avvocati di Guiffre accusano Maxwell, che è ancora in fuga, di aver "agito come una maitresse" per Epstein, "reclutando, mantenendo, ospitando e trafficando ragazze".

 Ore 16:00

Nonostante si trovassero a soli 15 metri dalla cella di Epstein, Tova Noel, un'agente donna di 31 anni, e "l'agente 1" (il cui nome è stato cancellato dal verbale) non controllano Epstein come parte della "conta dei detenuti" delle 16:00, un controllo fisico cella per cella per confermare che tutti i prigionieri sono vivi e presenti.

 Le prove video lo confermano in seguito. I due firmano falsamente un foglio per affermare che il controllo è stato completato. Noel falsificherà 75 registri durante questo doppio turno di 16 ore.

19.49

Epstein torna dall'incontro con il suo team legale e viene accompagnato in cella da Noel. Chiede di poter chiamare sua madre. È morta nel 2004 e lui chiama davvero Shuliak.

 Ore 22:00

Noel e l'"Agente 2" falsificano la scheda per il conteggio delle 22.00, mentre le celle vengono chiuse per la notte.

 Ore 22.30

Il filmato mostra che Noel cammina brevemente verso e lontano dalla porta d'ingresso del piano dove si trova la cella di Epstein. Al magnate restano poche ore di vita.

Sabato 10 agosto, ore 12

Michael Thomas, un agente di 41 anni, inizia un turno di otto ore. Thomas e Noel falsificano la scheda per il conteggio di mezzanotte.

 Ore 3.00

Gli agenti Noel e Thomas falsificano la scheda per il conteggio delle 3 del mattino.

 Ore 4

Il supervisore notturno visita Noel e Thomas in isolamento e parla brevemente con gli agenti.

 Ore 5

Noel e Thomas falsificano la scheda per il conteggio dei detenuti delle 5 del mattino.

 Il detenuto nella cella accanto a quella di Epstein racconterà in seguito di averlo sentito strappare le lenzuola a un certo punto della notte.

 5.30

Il filmato mostra che un agente attraversa l'area comune dell'isolamento. Non entrano nel pavimento della cella di Epstein; in effetti, nessun altro entra nell'SHU per tutta la notte.

Noel e Thomas hanno falsificato le registrazioni per tutti i giri che dovrebbero effettuare ogni 30 minuti. Invece, hanno passato la notte al computer e dormendo. Noel ha sfogliato le vendite di mobili; Thomas ha guardato le vendite di moto e le notizie sportive.

 6.05

I carrelli della colazione arrivano in isolamento. Noel e Thomas iniziano a passare vassoi di latte e cereali attraverso le botole delle celle dell'ala.

 6.30

Gli agenti Noel e Thomas entrano nel piano di Epstein.

 6.33

Noel e Thomas scoprono Epstein senza reagire sul pavimento della sua cella. Un cappio fatto con le lenzuola arancioni è legato al suo collo. Suonano l'allarme del carcere.

 6.35

Un supervisore arriva in isolamento. Noel gli dice: 'Epstein si è impiccato'. Ammette subito che "non abbiamo completato i turni delle 3 e delle 5 del mattino". Thomas dice: "Abbiamo fatto un casino" e poi si corregge: "Io ho fatto un casino, non è colpa sua, non abbiamo fatto nessun giro".

 6.39

Epstein è chiaramente morto, ma viene portato d'urgenza al New York Downtown Hospital, la cui fretta sarebbe stata in seguito criticata, in quanto violava il protocollo della prigione. La cella in cui si trovava avrebbe dovuto essere trattata come una scena del crimine e il suo corpo fotografato prima di essere rimosso.

Il medico legale dell'ospedale dichiara la morte di Epstein e stabilisce che la causa è il suicidio per impiccagione con arresto cardiaco. È il primo suicidio al Metropolitan Correctional Center da 14 anni a questa parte.

 8.16

La notizia della morte di Epstein appare su 4chan, un noto sito di social media i cui utenti anonimi sono noti per le loro teorie cospirative.

 Poco prima delle 10.00

Il procuratore generale degli Stati Uniti, William P. Barr, rilascia una dichiarazione ufficiale in cui annuncia la morte di Epstein "per apparente suicidio".

 Ore 10.00

La notizia della sua morte viene diffusa dalla radio pubblica nazionale. Twitter esplode di incredulità. Un tweet di @RealMattCouch riceve 7.920 like. In esso scrive: "Alzi la mano chi non crede nemmeno per un secondo che Jeffrey Epstein sia morto per suicidio".

Tarda mattinata

Le accusatrici di Epstein iniziano a esprimere la loro delusione per il fatto che non le affronterà mai in tribunale.

 Jennifer Araoz, che accusa Epstein di averla violentata quando aveva 15 anni, riassume la frustrazione di molti: "Dobbiamo vivere con le cicatrici delle sue azioni per il resto della nostra vita, mentre lui non affronterà mai le conseguenze dei crimini che ha commesso, del dolore e del trauma che ha causato a tante persone".

Ci sono migliaia di appelli affinché i suoi amici e i suoi complici siano assicurati alla giustizia.

 Nel frattempo, nella sua cella, viene trovato un biglietto in cui Epstein accusa Noel di essersi bruciato un piede in un incidente non datato. Il biglietto lamenta anche che il suo letto pullula di insetti e che un'altra guardia lo ha lasciato intenzionalmente nudo nella doccia per un'ora.

 Domenica 11 agosto, mattina presto

 In Australia, il marito di Virginia Giuffre la sveglia per darle la notizia. Lei è scioccata, in lacrime, sollevata dal fatto che non farà del male a nessun altro, ma furiosa perché non risponderà mai a chi lo accusa.

 Lunedì 12 agosto

Il Procuratore generale fa riferimento a "gravi irregolarità" presso l'MCC. In seguito descrive gli eventi come "una tempesta perfetta di errori".

 Giovedì 15 agosto, ore 16.06

Il New York Post pubblica una foto di Ghislaine Maxwell seduta in una filiale di In-N-Out Burger a Los Angeles. È sola con il suo cane e sta leggendo The Book Of Honor: The Secret Lives And Deaths Of CIA Operatives. Guarda il fotografo negli occhi e sospira: "Beh, credo che questa sia l'ultima volta che mangio qui".

 Venerdì 16 agosto

La dottoressa Barbara Sampson, medico capo di New York, stabilisce che la morte di Epstein è stata un suicidio. Ma se le autorità speravano che ciò mettesse fine alle voci, le speculazioni di un patologo forense, il dottor Michael Baden, getteranno benzina sul fuoco. Ha assistito alle quattro ore di autopsia per conto del fratello di Epstein, Mark.

Baden dirà a CBS News: 'C'erano fratture della cartilagine tiroidea sinistra, della cartilagine tiroidea destra e dell'osso ioide sinistro... Non ho mai visto tre fratture del genere in un'impiccagione suicida. . . Esaminando un migliaio di impiccagioni e suicidi nelle carceri statali di New York negli ultimi 40-50 anni, nessuno ha avuto tre fratture".

Egli suggerisce che le lesioni sono più comunemente riscontrate nello strangolamento, anche se altri patologi sottolineano che queste fratture ossee si verificano nei suicidi di uomini più anziani.

 Le conseguenze

 Una febbre di sospetti continua a circondare la morte di Epstein, con alcuni convinti che un torbido gruppo di ricchi e potenti abbia in qualche modo causato la sua impiccagione per proteggere la propria reputazione. Nel gennaio 2020, un documentario della CBS, 60 Minutes, mostra le foto del corpo del magnate, della sua cella, del cappio e dei segni di legatura intorno al suo collo, il che non fa che alimentare le accuse di complotto.

 Il New York Metropolitan Correctional Center viene pesantemente criticato per il suo coinvolgimento e viene chiuso nell'ottobre 2021. Nel gennaio successivo, Tova Noel e Michael Thomas vengono prosciolti dall'accusa di aver falsificato i registri carcerari da un giudice di Manhattan, nell'ambito di un patteggiamento, dopo aver ammesso la loro colpevolezza e aver completato 100 ore di servizi sociali.

Rimangono ancora enormi domande: perché non hanno controllato Epstein durante la notte in cui è morto e perché non era sotto sorveglianza suicida, nonostante un precedente tentativo di togliersi la vita, di cui sono scomparse le prove video? Cattiva gestione o qualcosa di più torbido? Il mistero continua a vorticare su questa morte straordinaria.

Ivan Rota per Dagospia il 14 febbraio 2023.

È andato in onda il documentario “Franco Zeffirelli, conformista ribelle” di Anselma Dell’Olio sul grande regista. Si ricorda la rissa avvenuta tra Zeffirelli e il suo mentore Luchino Visconti, entrambi dichiaratamente gay, fuori dal Teatro alla Scala, a Milano. Una loro amica che assistette alla lite disse: “Ma sapete che si picchiavano proprio come du’omini?”

Dal “Fatto quotidiano” il 13 febbraio 2023.

"Guerra, nazionalismo, inquinamento e inutile consumo: mi pare il modo giusto per ricordare un mediocre razzista. #Zeffirelli", ha scritto l'altroieri su Twitter Tomaso Montanari, rettore dell'Università per stranieri di Siena e firma del Fatto, per contestare la commemorazione del regista a Firenze.

 Immediato l'attacco di Matteo Salvini, ministro per le Infrastrutture: "Se uno dà di razzista a Zeffirelli è un cretino, peggio ancora come responsabile di un'università che apre le porte d'Italia al mondo "Credo che" Montanari 'non possa fare il rettore per "questo disprezzo per la cultura. Se non tace, lo dirò al ministro dell'Università" perché lo "sanzionasse ha detto il sottosegretario alla Cultura, Vittorio Sgarbi. "Salvini torna a insultarmi e a violare l'autonomia dell'università garantita dalla Costituzione. Per me, una medaglia. Per il Paese, un ministro così è un problema", ha replicato a stretto giro Montanari

Estratto dell'articolo di Daniele Dell’orco per “Libero quotidiano” il 13 febbraio 2023.

(...)

L’altro giorno si è superato twittando: «Da mezz’ora su Firenze passano aerei da guerra. Sono le Frecce tricolori che provano per domani, quando onoreranno il centenario del maestro Scespirelli. Guerra, nazionalismo, inquinamento e inutile consumo: mi pare il modo giusto per ricordare un mediocre razzista. #Zeffirelli».

 Il riferimento è alle celebrazioni che ieri a Firenze hanno ricordato il grande regista scomparso pochi anni fa (il sindaco Dario Nardella, del Pd, gli ha intitolato il Belvedere). In poche righe Montanari è riuscito ad esprimere il suo folle anti-italianismo: prima ha vilipeso la Pattuglia Acrobatica Nazionale, che è composta da MB-339 che sono aerei “da guerra” solo sulla carta visto che in guerra non ci vanno ed esportano invece da decenni il tricolore sui cieli di tutto il mondo; poi ha insultato la memoria di Zeffirelli; infine ha degradato l’istituzione universitaria visto che non si sa per quale ragione ma Montanari è rettore dell’Università per stranieri di Siena e dovrebbe misurare le sue parole proprio perché rappresenta immeritatamente l’Italia agli occhi di chi viene dall’estero.

Matteo Salvini glielo ha ricordato: «Se uno non riesce a rispettare la storia di un grande uomo di cultura, di arte, di teatro, di cinema, di poesia, è un inetto. Chi rappresenta la Toscana e l’Università italiana nel mondo non può avere il cervello così piccolo». E critiche sono arrivate anche dal Terzo polo, in particolare dall’eurodeputato fiorentino di Italia Viva e Renew Europe, Nicola Danti («Ha detto una bestialità») e Vittorio Sgarbi, sottosegretario alla Cultura («Va sanzionato dal ministro dell’Università»). Sulla sua inadeguatezza, Montanari ha messo d'accordo tutti.

Sono sempre stato Franco Zeffirelli!!”. Di  Edoardo Sylos Labini su culturaidentità il 12 Febbraio 2023

Cento anni fa nasceva Franco Zeffirelli, grande Maestro dello spettacolo italiano, straordinario regista, intellettuale libero e mai conformista che ha lasciato con la sua grande arte alcuni capolavori al Cinema ed al Teatro di tutti i tempi. Orgoglio della cultura italiana nel mondo, Zeffirelli se n’è andato nel giugno del 2019, ma come tutti i grandi artisti resterà immortale. Vi riproponiamo un’intervista cult di qualche anno fa, poco prima della sua morte, fatta su ilgiornaleOFF da Francesco Sala.

La nostra testata si chiama OFF, che vuol dire essere ai margini, irriverenti. Un episodio OFF della sua vita?

Quando ho scoperto i miei zii che scopavano. Avrò avuto sei o sette anni.

Il sesso?        

Il sesso è un’arma potentissima.

Com’erano i suoi genitori?

Mio padre era un uomo affascinante. Non molto alto ma piazzato. Era molto stimato nel suo lavoro.

E lei che bambino era?

Molto curioso. Ero un osservatore. Spiavo dalle porte, osservavo dal buco della serratura, è lì che li ho sorpresi. Avevo una grande curiosità per le persone, per la gente. È da questa curiosità, è da questa libertà, che nasce la creatività di un artista.

È stato ostacolato dalla famiglia?

No, mai.

Da dove arriva il suo cognome Zeffirelli?

L’aveva scoperto mia madre da un’aria dell’Idomeneo: gli “zeffiretti gentili”. Per un errore di trascrizione, divenne Zeffirelli. Lo porto solo io al mondo sa?

Quando ha realizzato di essere Franco Zeffirelli?

Da sempre. Sono sempre stato Franco Zeffirelli!

Il suo nome è indissolubilmente legato a Shakespeare..

Devo molto a mia madre il fatto che mi ha fatto studiare subito l’inglese. E c’era una balia che mi faceva leggere Shakespeare. La sua scena preferita era quella del balcone di Romeo e Giulietta. Lei si chiamava Mary O’Neill. Adorava l’Italia e non perdeva occasione per ricordare a noi fiorentini quanto eravamo indegni di questa città meravigliosa.

Aveva ragione secondo lei?

E certo! Guardi, le faccio vedere una cosa (Il Maestro prende un quadro raffigurante la cupola del Brunelleschi). S’infervora: ”Fiorentini! Svegliatevi! Bisogna ripartire da questa bellezza! Bisogna poter far rinascere il nostro Rinascimento. Quando mi prende la tristezza, la malinconia torno a vedere quest’immagine. Penso alla cupola del Brunelleschi. Il genio umano può arrivare a tanto? Allora c’è speranza. Bisognerebbe fondare un partito, un movimento che abbia come simbolo un’immagine come questa”.

Torniamo alla sua carriera. Il mondo dello spettacolo per Franco Zeffirelli si spalanca dall’incontro con Luchino Visconti. Che tipo era?

Luchino era il più bello, il più ricco, il più elegante, il più colto. Aveva una grande cultura di stampo francese ereditata dalla mamma. Apparteneva a una delle famiglie più gloriose d’Italia: i Visconti di Modrone. Pensi che era addirittura discendente di Carlo Magno. Era il più bello di Milano. Aveva una grande forza e qualche debolezza.

Ad esempio?

(Gli occhi del maestro a questa domanda si accendono di malizia) Il sesso! Si faceva amare prima dalle mogli e poi dai mariti! (Ride) Aveva il complesso di essere aristocratico e comunista allo stesso tempo. Mi diceva: “per voi fiorentini è facile. Il Bello ce l’avete nel sangue”. E torniamo a Brunelleschi… (Il Maestro sfoglia con me un ricco catalogo dei suoi lavori. Scorgiamo una foto di gruppo della gloriosa Compagnia Italiana di Prosa: Giancarlo Giannini, Umberto Orsini, Paolo Stoppa e Rina Morelli, Sarah Ferrati).

 Lo sa che il glorioso Teatro Eliseo rischia lo sfratto e la chiusura?

Non mi faccia pensare a questa cosa. È il denaro. Gli interessi della finanza che corrompono qualsiasi cosa. Se penso a tutte le cose che ho fatto in quel teatro, da solo e con Luchino..

Qual è lo spettacolo più brutto che ha visto in vita sua?

Molti. Troppi. Mi faccia ricordare.. (Pausa) Un Falstaff fatto in Germania. I tedeschi che generalmente sono fedeli alla parte scritta, in Lirica reinventano, stravolgono, tradiscono l’Opera specialmente.

Come bisognerebbe fare?

Prendere per mano l’autore, camminare con lui e con quello che ha scritto. La musica! La musica è una meravigliosa prigione. Una volta mi sono sbizzarrito con un’opera come questa(sfoglia un enorme libro e fa riferimento a un’opera di Barber). C’era lo spettacolo, un grande successo, ma musica poca. Andare contro la musica è suicida. Questo fanno certi registi moderni. Io passo per conservatore, per antiquato, ma guardi cos’era questo Amleto del ’63 con Albertazzi!( Il Maestro mi mostra i suoi incantevoli bozzetti dell’Amleto. La scena è nuda, vorticosa, segnata da luci espressioniste con proiettori a vista. Un vero azzardo per l’epoca).

E la recitazione in Italia? Ne vogliamo parlare?

È successo che in Italia hanno cominciato a recitare sopra le righe. Molti registi hanno costretto gli attori a recitare male, inventando accenti, enfasi, sillabazioni, e qui mi fermo!

Il suo Gesù di Nazareth del ’77 è un capolavoro. Mia figlia, che ha sei anni, spesso mi chiede di rivederlo.

Sono contento. Anche se il successo di quel Gesù è dovuto al fatto che era una favola. Ma ha visto che cast stellare che c’era? Io ho in mente di fare un altro progetto su Gesù. Vorrei insistere sulla Palestina e sul ruolo fondamentale che ha giocato, sull’influenza che ha avuto su Gesù la predicazione di Giovanni Battista. Ho visitato tutti quei paesi. Amavo molto l’Egitto. Andavo sempre a vedere le piramidi. Poi sono stato molto in Tunisia per le riprese del film su Gesù. E mi sono trovato molto bene anche in Israele quando mi hanno chiamato per fare delle lezioni a Tel Aviv.

Della questione palestinese che mi dice?

Israele ha ragione, ma sono spietati! (Ecco che fanno irruzione dei deliziosi e simpatici cagnolini di razza Jack Russell. Ci annusano e si accoccolano in poltrona).

Cosa le danno i cani che non danno le persone?

Amo tanto i cani. Solo loro ti sanno dare l’amore totale senza interessi. Non ti fregano per denaro. Il cane ti difende da chi vuole farti del male.

Non leggono Machiavelli insomma…(risata) Certo.. Nessun cane però potrà rifare la cupola del Brunelleschi!

A proposito di Machiavelli…Lei è stato senatore per due o più legislature. Un artista in Politica! Non è un controsenso?

Certo che lo è! L’artista deve poter cambiare opinione. La sua mente è creativa, libera. Il politico non può. Io pensavo di poter mettere al primo posto la Cultura! Questo era il mio scopo. Tutti i partiti non parlano di cultura. C’è solo corruzione, anche morale. Se non si mette al primo posto la Cultura si commette un crimine! Si diceva “l’arte della Politica” invece niente!

Vede la televisione?

Solo telegiornali e programmi di approfondimento culturale.

Ha visto la Grande Bellezza di Paolo Sorrentino?

I napoletani un tempo erano capaci di ben altre cose. Scrivevano ad esempio delle bellissime canzoni..(Attacca a cantare O Sole mio..)

Progetti?

Si dovrebbe realizzare a Firenze, la sede, l’archivio delle mie opere. L’ubicazione del Centro mi hanno detto sarà Palazzo Carnielo in Piazza Savonarola. Secondo me è troppo piccolo per ospitare tutto quello che ho fatto. 

(Con il Maestro scorriamo le pagine del catalogo della sua lunga carriera di artista: La Carmen, l’Arena di Verona, i Pagliacci al Metropolitan di New York, Busseto, il Turco in Italia. Una furtiva lacrima scende sull’immagine della Callas:” Che donna! Che donna! Che attrice che era!” Il suo è un universo d’arte di fama mondiale. Mi regala il disegno della cupola di Brunelleschi: ” È la Madre di tutti noi.”)

Franco Zeffirelli, nasceva cento anni fa: il fiorentino in 7 curiosità. Eva Cabras su Il Corriere della Sera l’11 Febbraio 2023.

Dalla parentela con da Vinci alla carriera in politica, tutto quello che non sapevate

Un cognome inedito

Franco Zeffirelli è nato a Firenze il 12 febbraio 1943, figlio di Ottorino Corsi, un commerciante di Vinci, e Alaide Garosi Cipriani. All’epoca il bambino non poté essere registrato con nessuno dei cognomi dei genitori, poiché nato fuori dal vincolo matrimoniale, quindi la madre inventò per lui il cognome Zeffirelli, ispirandosi all’Idomeneo di Mozart.

Albero genealogico

Ottorino Corsi reclamò la paternità del figlio dopo quasi vent’anni, ma oltre al cognome aveva da offrire a Franco una lontana parentela dimenticata ed eccellente. Nel 2016, dopo una ricerca durata decenni, Alessandro Vezzosi e Agnese Sabato rivelarono infatti che Zeffirelli era uno dei discendenti diretti di Leonardo da Vinci! La famiglia Corsi e quella da Vinci si erano infatti imparentata attraverso un matrimonio nel 1794.

Un amore di città

Il regista e scenografo fu molto legato alla sua città d’origine, tanto da diventare un tifoso sfegatato della squadra calcistica locale, la Fiorentina, e da girare anche un documentario sulla disastrosa alluvione del 1966, con il titolo di “Per Firenze”.

Legami politici

Nel 1994 Zeffirelli debuttò in politica come senatore della repubblica nelle liste di Forza Italia, riconfermandosi nel ruolo anche due anni dopo. La candidatura alle elezioni europee del 1999 lo lasciò invece senza risultati e l’intera avventura parlamentare si concluse nel 2001.

L’amico Silvio

Non sorprende che il regista abbia aperto la sua parentesi politica nel ’94, l’anno della discesa in campo di Silvio Berlusconi. Lui e il fondatore di Forza Italia erano infatti ottimi amici, e lo rimasero a lungo. Nel 2001 Zeffirelli rischiò di vedersi pignorare la villa a Roma per problemi economici, ma Berlusconi la acquistò personalmente, lasciandogliela poi in comodato d’uso.

L’amore

Zeffirelli era dichiaratamente omosessuale, ma il suo orientamento non gli impedì mai di considerarsi un devoto cattolico praticante. Una delle sue più note e longeve relazioni fu con il regista Luchino Visconti, con cui convisse e al quale rimase legato fino alla sua morte nel 1976.

La morte

L’amatissimo e iconico regista morì il 15 giugno del 2019 a 96 anni, a pochi giorni dalla prima della sua ultima regia, quella di «La Traviata» di Giuseppe Verdi, trasmessa per l’occasione in diretta su Rai 1 il 21 giugno. Le ceneri di Zeffirelli sono poi state tumulate nel Cimitero delle Porte Sante a Firenze nella cappella di famiglia.

Zeffirelli fece un cenno e iniziò una scazzottata tra il figlio e Nureyev. Storia di Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 22 gennaio 2023.

Rudolf Nureyev aveva acquistato Li Galli, il piccolo arcipelago di fronte alla villa di Franzo Zeffirelli a Positano. Andava spesso a trovarlo, era una delle sue guest star, si fermava a dormire da lui. A Positano Nureyev aveva conosciuto un giovane del posto. Cenarono insieme, fecero le ore piccole. Ma la notte finì male. Il ragazzo si ritrasse. Nureyev non la prese bene. Quando il grande ballerino rientrò in villa, si trovò il cancello, attraverso cui si accedeva al mare, chiuso. Così mise in moto la vendetta. La rabbia aveva scombussolato il suo stomaco. Insomma disseminò di piccoli escrementi tutto il viale che portava al soggiorno. Non entrò: irruppe come una furia.

I pugni del figlio adottivo al grande danzatore

Gli ospiti di Zeffirelli erano ancora lì a conversare, mentre il regista, avvolto come al solito nella tunica sgargiante, si era ritirato in camera da letto. Nureyev cominciò a mandare in frantumi tutti gli oggetti a portata di mano. Luciano, uno dei due figli adottivi di Franco, quello che gli faceva da autista e bodyguard per il fisico prestante (l’altro è Pippo che manda avanti la Fondazione Zeffirelli a Firenze), bussò alla stanza del maestro: «Franco, guarda che a quel pazzo siberiano è andata storta la serata e sta distruggendo tutto». «È lo sfogo di un artista, lascia fare», fu la risposta. Nureyev proseguì nella sua opera di distruzione, ridusse in mille pezzi un vaso prezioso a cui Zeffirelli teneva molto. Luciano ribussò: «Franco, guarda che...». A quel punto, disteso sul letto a mo’ del triclinio di una domus romana, fece pollice verso come un antico imperatore. Nureyev e Luciano si resero protagonisti di una scazzottata memorabile, tra gli sguardi attoniti degli altri ospiti.

Umorale e imprevedibile

Ecco, questo episodio, certamente laterale nella vita di Zeffirelli, racconta molto di lui. Il 12 febbraio sono cent’anni dalla sua nascita. Era generoso, capriccioso, ribelle, umorale, imprevedibile. Zeffirelli era diverso da come viene descritto. Aiutava, da osservante cattolico, chi è in difficoltà, e non lo faceva sapere. La sua villa sull’Appia Antica ( oggi tornata in possesso del proprietario Silvio Berlusconi di cui era stato amico) era una sorta di corte dei miracoli. Gli habitué, che negli ultimi vent’anni erano Carla Fracci, le sorelle Kessler, la famiglia D’Amico, si mescolavano al direttore di scena dell’Opera di New York, il Met, rimasto senza lavoro. Franco lo ospitò per mesi e mesi, e così tanti altri. Risultava irritante, estremo, quando parlava di politica o di calcio. Parlava con disprezzo di comunismo quando ormai non esisteva più o si era mimetizzato, oppure della Juventus. Per uscire da quel vicolo cieco dicevo: e Scirea, cosa mi dici di Gaetano Scirea, era ladro anche lui? Lì si fermava: «Scirea no, Scirea era un galantuomo».

Quelle boccette di Penhaligon’s

Zeffirelli è stato il mio primo datore di lavoro. Gli scrivevo i programmi di sala delle regie d’opera che poi risultavano redatti da lui. Di recente ho visto un documentario su Luchino Visconti che era stato suo mentore. Franco diceva: «Sapete come mi ricompensava? Con una boccetta del profumo Penhaligon’s, e poche lire in una busta». Posso dire di avere avuto qualcosa in comune col mio amico Franco Zeffirelli: il mio compenso consisteva in una boccetta di Penhaligon’s e una busta con poche lire. È in contraddizione con la sua generosità? No, penso che avesse a che fare col rapporto contraddittorio, viscerale, passionale, fatto di luci e ombre, che lo legava a Visconti, in cui si specchiava.

Allievo di Visconti

Franco era stato suo scenografo, cominciò così la carriera. Quando stava per spiccare il volo, chiamato nel 1959 all’Old Vic di Londra, primo regista italiano in un tempio shakespeariano per fare nientemeno che Romeo e Giulietta, Visconti cercò di dissuaderlo, ma cosa vai a fare tu lì, che sei ignorante. Luchino insistette così tanto, mi disse Franco, da capire che era la scelta giusta. Il successo di quello spettacolo gli aprì le porte alla carriera internazionale. Era amico e lavorava con i grandi dell’epoca, Laurence Olivier, Richard Burton e Liz Taylor, Judi Dench... Ma non successe quello che succede in Italia, quando il successo arride prima all’estero e poi si riversa in patria. Zeffirelli in Italia è stato osteggiato dalla cultura egemone che dal dopoguerra fino a... ieri, è stata di sinistra. Ma nella prosa, e soprattutto nella lirica, Zeffirelli è stato un gigante.

Da De Filippo a Puccini

Due soli esempi: la Piccola Scala lo chiamò all’ultimo, in sostituzione di Eduardo De Filippo a cui era morta la figlia Isabella. Non c’era tempo, non c’erano soldi. Franco mise in scena, in dieci giorni, Lo frate ‘nnamurato di Pergolesi, utilizzando un materiale povero come la juta. E come non ricordare La bohème del 1963, con i due piani sovrapposti: all’epoca fu un’idea rivoluzionaria, a distanza di 60 anni è ancora in cartellone, la Staatsoper di Vienna l’ha appena riospitata.

Lo scontro sull’Arena di Verona

Era capriccioso, Franco, e poteva essere anche crudele. Un giorno mi arrivò una lettera, intestata Senato della Repubblica. Era lui che mi scriveva: per il bene che ancora ti porto, volevo informarti che il ti sta licenziando. Mi contestava di avere scritto un articolo «infame» sull’Arena di Verona, dove debuttò tardi, a 72 anni. Aveva compiuto un’operazione fuori misura, dando spazio ad allestimenti innovativi, mentre quello spazio, anch’esso fuori misura, dove si addensano accanto all’elegantissima platea migliaia di turisti che seguono l’opera bevendo birra e mangiando panini (almeno così usava), per vocazione non può che ospitare pochi titoli, sempre quelli, popolari, messi in scena in modo piuttosto convenzionale. Il Corriere diede voci a favorevoli e contrari a quel progetto. Per Zeffirelli, avrei dovuto far parlare soltanto le voci contrarie. Il bello è che in quell’edizione non figuravano suoi spettacoli. E soprattutto, lui non era più senatore (di Forza Italia) da un pezzo.

I ricordi di Positano

Per anni non ci rivolgemmo la parola. Fino a quando mi capitò di scrivere di una sua regia d’opera. Mi chiamò l’indomani: «Ma sai che non mi ricordo perché abbiamo litigato... Perché non vieni stasera a cena da me?». I ricordi più divertenti sono legati a Positano. Un’estate c’era Robert Powell, che era stato il suo Gesù al cinema. Era un uomo mesto e triste, si metteva in un angolo, nel patio dove si mangiava, solo, col suo borsello a tracolla. Uno sguardo da cane bastonato. «Lo vedi — mi punzecchiò Franco — se gli togli gli occhi, quello doveva fare il postino».

La composizione di Bernstein per lui

In un’altra estate, Leonard Bernstein si mise al piano, la canottiera bianca, il foulard, il bicchiere di whisky e la sigaretta penzolante. Compose all’impronta un musical, Caro Franco francamente, dove assegnò una parte a ciascun ospite: sarebbe stato il dono per il padrone di casa, che stava rientrando a Positano dove aveva lasciato i suoi ospiti.

L’alto e il basso presente alle sue feste

Il resto dell’anno nella villa a Roma, dove troneggiavano due saloni, la camera da pranzo dove pendeva il lampadario Tiffany che gli aveva donato il drammaturgo Edward Albee, il pianoforte su cui Nino Rota suonava, le foto con Maria Callas, il giardino con i pini secolari, le rose, il limoneto che costeggiava la piscina adornata di due statuette, dono di Luchino Visconti. Alle feste incontravi l’alto e il basso, Michael Jackson e Valeria Marini. Carla Fracci, pasionaria della sinistra ma questo non inficiò l’amicizia con Franco, trasparente come il vento, incrociò mia figlia Costanza e le disse: «Ma tu mangi tutte queste cose?». Erano piselli e carote.

Figura rinascimentale

Franco Zeffirelli preparava scene e bozzetti dipingendo nello studio quadri a olio. Veniva dall’Accademia delle Belle Arti. È stato un artista del ‘500, una figura rinascimentale, un gigante del secolo scorso non del tutto amato e soprattutto compreso.

Estratto dell'articolo di Tiziano Lo Porto per il Venerdì-la Repubblica il 26 giugno 2023.

«Little Richard did it first». Little Richard lo ha fatto per primo. Così Mick Jagger nel descrivere l'importanza per lui, per i Rolling Stones e per il resto del mondo, di Little Richard, all'anagrafe Richard Wayne Penniman, glorioso cantante, musicista e attore di Macon, Georgia, che dal suo irrompere nella scena del rock non ha fatto che cambiarne regole e fattezze, senza mai risparmiare se stesso. 

A lui è dedicato oggi il documentario Little Richard: I Am Everything della regista e produttrice afro-latina Lisa Cortés, in selezione ufficiale all'ultimo Sundance Film Festival e il prossimo 29 giugno in prima europea al Taormina Film Fest. Il film è un eccellente lavoro di archivio e attualità, che nonostante la vastità e complessità del personaggio, capace di abbracciare un'identità al tempo stesso queer e mistica e di creare nel frattempo hit leggendarie come Tutti Frutti, riesce a metterne a fuoco la natura di pioniere.

Come appunto diceva Jagger (intervistato nel documentario): lo ha fatto per primo. «Little Richard è stato il primo a indossare il mascara; il primo a togliersi la camicia; il primo a giocare con le norme di genere», spiega Cortés, che ha alle spalle una carriera musicale come dirigente della Def Jam Recordings e della Mercury. «Tutto quello che faceva, lo faceva senza imitare né seguire nessuno» continua la regista, evocando una lista potenzialmente interminabile di musicisti (dai Beatles a David Bowie a Lizzo) con un debito di gratitudine verso opere e vita di Richard.

(...) Essere queer nella Georgia degli anni 50 richiedeva un coraggio che oggi è difficile anche solo immaginare. Come abbandonare la carriera al suo apice per studiare la Bibbia e diventare un predicatore. Ed è incredibile vedere alle proiezioni l'impatto emotivo che ha su un pubblico che letteralmente spazia dai 18 agli 80 anni, e che a volte prima di vedere il film non sa assolutamente nulla di lui». 

Nei giorni scorsi Cortés, già co-regista con Liz Garbus dell'ottimo All-In: The Fight for Democracy (su Prime), ha presentato al Tribeca Film Festival il suo nuovo documentario, co-diretto da Diego Hurtado de Mendoza e prodotto da National Geographic, La corsa allo spazio. Il film è dedicato a Guion Bluford, Ed Dwight, Charles Bolden e ad altri eroici astronauti afroamericani, pionieri anche loro nel cercare di eliminare i pregiudizi all'interno della Nasa. E anche questo è un ennesimo tassello dell'opera di Cortés e altri validi registri che affidano al cinema il delicato compito di creare una memoria storica più vasta di quella fino a oggi tramandata. Dice Cortés: «Il passato è un preludio al momento in cui viviamo. Va raccontato».

Tre anni senza Maradona. Come sarebbe stata la sua vita se fosse andato a Marsiglia. MARCO CIRIELLO, scrittore, su Il Domani il 24 novembre 2023

Cosa sarebbe forse successo se la trattativa per il passaggio di Diego dal Napoli all’Olympique si fosse davvero concretizzata. L’argentino, morto il 25 novembre del 2020, si era accordato con i francesi dopo la Coppa Uefa del 1989 ma Ferlaino fece retromarcia sulla promessa di lasciarlo andar via

Les mains de Dieu sur Marseille. Diego, c’est une émotion! Tutti abbiamo ancora negli occhi il titolo de L’Équipe che annunciava il passaggio di Maradona all’Olympique Marsiglia. Tutti ricordiamo il sorriso da bambino di Bernard Tapie che fece finalmente suo e portò nella sua stanza il più ambito dei giocattoli, e tutti ricordiamo la brutta cravatta celeste di Michel Hidalgo, come l’evidente commozione di Raymond Goethals.

Sembrava una scena di Martin Scorsese, quella dove i dirigenti dell’OM aspettavano Maradona sotto la scaletta dell’aeroplano per portarlo al Vélodrome, e dietro di loro c’era tutta Marsiglia. E tutti ricordiamo le proteste dei tifosi del Napoli, gli incidenti, i pianti e l’odio che non si è ancora estinto. Luigi Necco ironizzò: «Marsiglia ruba Maradona, Napoli ha le mani legate».

Quello che ricorda solo Corrado Ferlaino sono i suoi anni di incubi, con le bombe e le aggressioni e le minacce, per aver ceduto il più grande calciatore della storia. Non fu facile per nessuno. Per Marsiglia accoglierlo, per Napoli vederlo andare via, per Tapie scoprire le difficoltà e per Ferlaino oscillare tra il senso di colpa e la liberazione; e per Maradona lasciare Napoli: il suo annuncio fu fatto con una intervista a Gianni Minà, quando ormai era già tutto deciso e nessuno poteva impedire la sua partenza, con il calciatore argentino in vacanza dopo i Mondiali di Italia ‘90.

Gianni Brera scrisse che la finale perduta in quel modo con la Germania – un rigore inventato – pesò tantissimo sulla scelta e chiuse con una metafora: «Come una pannocchia in una pozzanghera. La pannocchia si strugge miseramente, ma intorno a lei vivono infiniti esseri che del suo disfacimento si giovano».

Ma Diego voleva lasciare già l’anno prima, dopo la vittoria della Coppa Uefa e il conseguente scudetto apparso come l’ultimo dei miracoli, per un calciatore sfinito dall’amore. «I napoletani me amano come mia mamma, solo che a lei non posso chiedere di smettere, a loro sì».

Ma i napoletani non smisero, e quando l’OM a Monaco di Baviera, nel maggio del 1993, batté il Milan di Capello nella prima edizione della Champions League festeggiarono quella vittoria come se fosse la loro. Tapie disse che quella era «la plus belle soirée de ma vie». E Diego commentò: «Per ora». Promettendo altri titoli che non arrivarono.

LUI E TAPIE

I due, dopo quella sera, non si parlarono per anni, complice la festa per la Coppa e lo scontro per la cocaina, per poi reincontrarsi nel 2018 e recitare nel film di Claude Lelouch di fianco al protagonista Éric Cantona: La Vertu des impondérables (Grand prix du Festival de Cannes).

Ma gli anni di Diego in Francia meritano di essere rivissuti, a cominciare da quello che raccontò Jean-Louis Levreau, il vice presidente dell’OM. Il primo incontro, vero, tra Tapie e Maradona avvenne in una fattoria in Patagonia, lontano da tutti, scelta da Hidalgo e Signorini, il clamore delle trattative napoletane fallite l’anno prima per troppa leggerezza richiedeva misure accurate.

Diego, che aveva incrociato il presidente durante un’amichevole dell’Argentina a Parigi, voleva conoscere meglio l’uomo, e Tapie, che si faceva mandare le videocassette delle sue partite che poi vedeva come film di Charlie Chaplin, così disse a Le Monde, voleva conoscere meglio il calciatore. Il resto lo fece Michel Basilevitch, al quale Maradona aveva detto: «Je veux rencontrer Bernardo Tapie! C’est un fou! Comme moi!»

Levreau raccontò poi dello champagne portato da Tapie (Veuve Clicquot, una bottiglia del 1861 naufragata con la nave che la trasportava e poi ritrovata e comprata all’asta da Bernard) e di Maradona e della mela (Manzaneros) con la quale palleggiò – scalzo – per Tapie, non essendoci palloni in quel posto sperduto della Patagonia; e che poi Tapie mise sotto vuoto esponendola con la vecchia Coppa Campioni.

A chi domandava, rispondeva: «Quella mela è come il clavicembalo di Mozart o la feluca di Napoleone, è stata toccata dall’assoluto». Ma dopo anni che glielo chiediamo, Levreau ci ha detto come fece Tapie a convincere Ferlaino: «Simple, il s'est fait appeler par le président François Mitterrand». Gli telefonò Mitterrand. E il presidente del Napoli accettò. E che cosa gli diede? «Je ne sais pas. Bernard ne me l'a jamais dit. Il faut demander à Ferlaino».

L’abbiamo fatto, e il presidente ci ha raccontato che in principio aveva risposto a Tapie: «Maradona restera à Naples aussi longtemps qu'il vivra à Naples. Et ça s'est terminé comme ça», ma poi, davanti alla telefonata del presidente della Repubblica francese Mitterrand, e alla sua offerta, capitolò. Oltre ai soldi di Tapie, il presidente del Napoli ha avuto un buono della Repubblica francese per vivere cento anni, la verità su Ustica, e, dalla collezione privata di Mitterand: il numero di telefono di Carole Bouquet, il flipper di Serge Gainsbourg, il borsalino di Jean Gabin, il passaporto francese – mai accettato – di Lino Ventura, lo spazzolino da denti di Fanny Ardant, l’abbonamento di Catherine Deneuve alla Piscina de la Butte aux Cailles, la patente di Brigitte Bardot e un racconto inedito di Sophie Marceau.

E la sera di Monaco, quando Maradona giocò la sua partita migliore con l’OM e una delle migliori della sua carriera, a vederlo segnare c’erano Mitterrand, Tapie e Ferlaino. Maradona, che non aveva mai segnato nelle due finali mondiali, segnò in finale di Champions, su punizione, prese un incrocio dei pali tirando da fuori area e una traversa su calcio d’angolo. Franco Baresi disse: «Era imprendibile, voleva vincere».

UNA CANZONE PER TE

Marsiglia impazzì. E il rapper Soprano scrisse la canzone “Maradona dans le jardin”, immaginandolo come una statua al Vélodrome (oggi c’è davvero una enorme statua allo stadio): «Au Vélo il y a une statue / elle court contre la montre / faite de coca peinte par le vent / autour des garçons qui chantent l'amour / le cœur bat sous la main / quand Maradona tient le ballon / quelle émotion dit la chanson / douce et élastique / passe et la neige tombe / passe et personne l'attrape / arrive au but sans angoisse / marque pour nous / Diego Maradona / dribble encore et encore et encore / amène ton angoisse comme un ouragan / mets la main dedans / enlève la rouille / deviens léger / rejoue avec tes éperons va mon Dieu / la musique de l'immobilité».

Nel video della canzone Maradona appare, mostra il tatuaggio con lo stemma dell’OM, e dice la frase divenuta tormentone: «Oui, ça valait le coup». La pena come la coppa, la coppa come «le ballon». MARCO CIRIELLO, scrittore

Maradona è una religione. La simbiosi con Napoli, il genio, il whisky e la coca. L'epopea del Pibe de oro è più attuale che mai. Tra Italia e Argentina. Corrado De Rosa su L'Espresso il 20 novembre 2023

I tubetti col sugo di polipo, le canzoni di Massimo Ranieri. La notte prima della finale di Messico ’86, quando tutti erano in ansia e lui se ne andò a dormire. Il primo scudetto col Napoli. Capri. Quella volta che, a Buenos Aires, salì sul palco insieme a Freddy Mercury. Vico Pace, Forcella. Le sentinelle con i binocoli, i walkie talkie sopra i tetti, lui seduto insieme a Carmine Giuliano nella vasca da bagno a forma di ostrica. Il whisky e coca, la sua bevanda preferita. Claudia, le altre donne, il figlio non voluto. I settemila che arrivarono davanti allo studio del dentista quando si sparse la voce che era lì. Donna Tota, la matriarca.

Maradona compie il suo catasterismo e diventa una stella a Città del Messico, nel 1986. Tutto dura meno di 12 secondi. Ma se gli chiedono: «Qual è il tuo gol più incredibile?», non risponde: «Il secondo contro l’Inghilterra ai Mondiali». Dice: «Quello con l’Argentinos Juniors contro il Deportivo Pereria». Di lui, Manuel Vázquez Montalban dice: «Ha incarnato la mistica dell’emancipazione sotto-proletaria. Dissipativo e arrogante come gli anni Ottanta». Maradona è la sintesi degli anni Ottanta. È l’idea che tutto sia possibile, è 165 centimetri di edonismo e tormento. Perde e risorge come Rocky, seduce come Jessica Rabbit, combatte come Rambo, è avventuriero come Indiana Jones, è selvaggio come Conan il barbaro. 

Maradona è un genio. Il genio processa informazioni, apprende dall’esperienza, individua i contesti in cui applicare le conoscenze acquisite, intravede orizzonti prima degli altri. Maradona vede spazi che gli altri non vedono, sfida le leggi della fisica per dare un effetto alla palla che nessuno darebbe, quando fa gol colpendo la palla di testa a 10 centimetri da terra sta adottando una strategia che ad altri non sarebbe mai venuta in mente. La sua intelligenza spaziale gli consente di pensare in tre dimensioni, di muoversi in armonia con i compagni anche se è di un altro pianeta. La sua intelligenza cinestetica, quella di Nureyev o di Nadia Comaneci, gli permette di ottimizzare il rapporto con la palla, di comunicare con il corpo. Quando palleggia nello stadio di Monaco di Baviera sulle note di “Life Is Life”, esprime idee, incanta, attira l’attenzione, intimidisce gli avversari.

Nulla di tutto quello che riguarda il genio è definitivo. Maradona non è mai definitivo, come non lo sono i grandi personaggi letterari. C’è sempre qualcosa di lui che ci sfugge, come c’è qualcosa che ci sfugge di Raskol’nikov. Se in Argentina-Inghilterra è il mito di Orione che si trasforma da cacciatore a costellazione, in Italia-Argentina, la semifinale di Italia ’90, Maradona è il mito di Atteone. Il cacciatore tebano che vede Artemide nuda, viene trasformato in cervo ed è sbranato dalle sue cagne.

Italia-Argentina, il momento più tragico della sua epica, si gioca proprio a Napoli. Napoli che lo riconosce al primo sguardo perché ha le sue stesse spine, abbraccia le stesse crociate, ha i suoi stessi slanci. Come Napoli, Maradona è esagerato. A 16 anni, entra in campo per la prima volta nella serie A argentina con la maglia dell’Argentinos Juniors. L’allenatore dice: «Stai tranquillo, gioca come sai». E lui fa un tunnel a Patrizio Cabrera. Come Napoli, possiede l’arte di arrangiarsi. Quando riprende a giocare dopo lo scoppio della caviglia destra, si accorge che non riesce più a ruotarla bene e impara nuovi modi per sostenere il piede debole. Le sue stratificazioni originarie: discendenze galiziane, occhi da indio, padre Guaranì, madre dalmata e portoghese, corrispondono a quelle disordinate della città. Tutto si mischia in Maradona, come tutto si mischia dentro Napoli.

Come Napoli, Maradona ha slanci di solidarietà impossibili. È cocciuto, insolente, impulsivo, ambivalente, tortuoso. È orgoglioso, e il calcio, a Napoli, è questione di orgoglio. Come un napoletano fa di tutto per ricreare una parte di Napoli in qualsiasi posto del mondo si trovi, lui ricostruisce Villa Fiorito ovunque vada. È napoletano quando ruba la corrente elettrica al palazzo per avviare la palestra che si è costruito nel garage. Lo è quando sbuffa, ammicca, fa discutere, quando vede decine di ville, deve andare ad abitare a Villa Chieffi, che è stata residenza dei Savoia, e sceglie via Scipione Capece perché gli sta simpatico il portiere. Il tunnel è un colpo ironico, furbo, irriverente, spietato. Ogni volta che lo prova, Maradona attualizza il legame fra lui e la città. 

Non che, con lui, i dolori evaporino. Ma a Napoli la felicità, nella seconda metà degli anni Ottanta, è il 10 che esulta. È il trionfo dell’originalità sulla mediocrità vincente, dell’invenzione sulla tecnica. È la vita da maudit contro l’agiografia sempre in riga di Pelé, è un Dio al contrario che non dosa le forze come Cruijff, che non si rifugia nel comando della difesa come Beckenbauer. Eppure la sera di Italia-Argentina, il 3 luglio 1990, il trono di Maradona scricchiola. È stanco di dispensare speranze, sente di vivere in una prigione d’oro, è arrivato alle soglie della paranoia, vuole andarsene. Quella sera, Napoli, per Maradona, non è quello che Maradona è per Napoli.

A Italia ‘90, il suo nemico è Havelange, il presidente della Fifa. Gioca come un ossesso ma è stanco, nervoso, mangiato dalla cocaina. Lui che ha lucidato il calcio e ha creato il cortocircuito di un Napoli vincente, che ha dimostrato che Davide può sconfiggere Golia, non è più un innocuo perdente: va scaricato. L’Argentina è stata fischiata ovunque. Lo prendono in giro perfino Moana Pozzi e Cicciolina in un film porno e lui, prima della semifinale, dice quella cosa lì: «Mi disgusta che tutti chiedano ai napoletani di essere italiani. Napoli è stata sempre emarginata dal resto d’Italia». 

Convoca la città, le chiede il tifo senza accontentarsi del rispetto. Maradona è populista. Anche questa mossa è populista. Ma non scavalca i canoni razionali. Sfrutta una scorciatoia della mente che, per economia cognitiva, tende a trovare conferme di quello che già pensa. Tende a riconoscere, non a conoscere. Napoli, le cose che ha detto Maradona, le sa. E si trova nella più scomoda delle posizioni: applaude alla moglie (l’Italia) davanti all’amante. Maradona è Atteone perché elimina l’Italia dal suo Mondiale. E dopo aver messo a nudo i rapporti opachi fra politica, sport e potere, viene sbranato dalle cagne che ha nutrito: il calcio e la Fifa. Da allora in poi, la sua discesa agli inferi non ha più connivenze, rispetto, pietà.

Maradona muore trent’anni dopo Italia ’90, il 25 novembre del 2020. Muore solo, povero e pazzo. L’ultima cosa che chiede è mangiare una pizza. Maradona è una religione laica. Offre speranza, sconfigge la sfortuna, domina l’imprevedibile. Non è un modello da seguire. Ma, proprio per la sua congiuntura esistenziale maledetta, dovremmo tutti giudicarlo senza ferocia. Perché a differenza dei fuoriclasse di oggi, a differenza dei Messi e dei Cristiano Ronaldo, non ha mai perso la fanciullezza e la riconoscenza verso il calcio. Ha promesso gioia attraverso il pallone, l’ha regalata sempre. 

Le foto di questo servizio

LES CIUDADES DE D10S è un progetto fotografico che intende indagare un fenomeno antropologico molto profondo come quello del culto pagano per Diego Armando Maradona, vissuto nelle due città che ne hanno fatto un’icona religiosa: Buenos Aires e Napoli. L’eternità evocata da un giocatore di calcio geniale, folle e leggendario, vive in ogni angolo delle due città come qualcosa di mistico e immortale. L’epopea umana e calcistica di Diego rappresenta per per porteñi e partenopei quella possibilità di riscatto che la storia ha sempre negato loro. E così oggi nelle CIUDADES DE D10S, grazie al suo popolo, l’immagine del campione argentino sopravvive alla sua morte e lo rende un mito senza tempo. Lorenzo Foddai

Da ilnapolista.it il 23 luglio 2023.

Marino Bartoletti, il maestro di giornalismo, ha un legame forte con la Campania ed anche oggi che si è scoperto narratore bestseller di cose sportive vincendo due Bancarella non manca di visitare le nostre belle contrade: è stato ospite sabato scorso a Villa Fondi de Sangro a Piano di Sorrento dove ha presentato la sua trilogia di successi Gallucci: “La cena degli Dei”, “Il ritorno degli Dei” e l’ultimissimo “La discesa degli Dei”. 

Non c’è più il suo caro amico Sinisa Mihajlovic – che si curò al Sant’Orsola di Bologna; nel nosocomio felsineo invece i medici salvarono il nostro Marino – ma Bartoletti continua la sua attività libraria avendo ormai inventato un genere tutto suo: il romanzo dei sogni. 

Perché anche nell’ultimo testo – “La discesa degli Dei” – riesce con la sua maestria di cantastorie ad inventare un format celeste: quello orchestrato dal Grande Vecchio (Enzo Ferrari) che affiancato dal fido Fracangelo riesce con la complicità di Raffaella Carrà, Gilles Villeneuve, Mimmo Modugno, Pino Daniele, Massimo…., ad organizzare un “Carramba che sorpresa” al contrario.

Con degli inviati speciali che dal Paradiso – con il benestare del Grande Vecchio Universale – partono per la Terra con un salvacondotto che li porta a salvare: la bravissima cantautrice napoletana che sogna di essere finalmente capita e apprezzata; il pilota di talento e senza mezzi che aspira a guidare un giorno una Ferrari in Formula Uno; il campione affermato che vorrebbe recuperare la propria dignità dopo che la sua vita si è ribaltata per una maldicenza ingiusta; la piccola atleta che desidera con tutte le sue forze arrivare alle Olimpiadi; il famoso anchorman, ferito dall’inusitata cattiveria degli uomini, che vuole farla finita…

Insomma il solito talento di Bartoletti che riesce ad unire l’amicizia con i grandi campioni – fu tra i due giornalisti con i baffi invitati al matrimonio di Maradona; l’altro era Gianni Minà; n.d.r.- al rapporto con la gente comune e con il sociale. Il libro come al solito è pieno della sua erudizione che mischia calcio, Formula 1, Festival di Sanremo ed altro in aneddoti minimi ma preziosi. L’ultima volta che l’abbiamo incontrato – a Sorrento il 1 aprile dell’anno scorso al Museo Correale per “I colori di Lucio” – era stata tutto un susseguirsi di aneddoti inediti soprattutto su Maradona.

“Il matrimonio di Maradona? Tutti parlarono dello sfarzo, ma sa chi c’era invitato anche? Tutti i residenti del Barrio natale bonaerense di Diego – Villa Fiorito – ed uno di quelli era appena uscito da galera… Maradona aveva il senso morale e pratico dell’amicizia”.

Sulla scorta di questo rapporto amicale Bartoletti ci raccontò anche – lui era direttore di “Pressing”, l’anti Domenica Sportiva messa su dalle reti del Biscione – quando invitò, dopo Milan-Napoli del 1990-91, Maradona in trasmissione. “All’epoca davamo 5 milioni di lire in sterline d’oro per ogni comparsata – continua il direttore -, ma se Ruud Gullit pretese per mano della moglie l’intero cachet ad un cambio il più favorevole possibile, Diego mi disse che se gli avessi detto un’altra volta di prendere quei soldi mi avrebbe tolto l’amicizia. Anzi no, mi chiese una cosa: tutte le audiocassette di Cristina D’Avena che editavamo noi di Mediaset tramite la Jolly: quindi Maradona in trasmissione ci costò 2700 lire”. Ça va sans dire.

Morte di Maradona, otto rinviati a giudizio. Storia di Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 19 aprile 2023.

La Camera d’Appello e Garanzie di San Isidro ha confermato che il neurochirurgo , la psichiatra Agustina Cosachov e gli altri sei operatori sanitari accusati della morte di Diego Armando Maradona, andranno a processo, accusati di aver commesso un «omicidio semplice con eventuale dolo», come avevano disposto lo scorso anno i pm e il giudice, secondo quanto riferiscono fonti giudiziarie ai media argentini.

La decisione è stata adottata all’unanimità in una sentenza della Sezione III della suddetta Corte d’appello, composta da Carlos Fabián Blanco, Gustavo Adrián Herbel ed Ernesto García Maañón. In questo modo, in un futuro processo, gli otto imputati dovranno affrontare una possibile condanna tra gli 8 ei 25 anni di reclusione. Respingendo, tra l’altro, l’annullamento del requisito del rinvio a giudizio, le aule hanno evidenziato nella loro sentenza: «La pubblica accusa ha descritto compiutamente il fatto 1 (l’eventuale omicidio volontario di Maradona), elencando le azioni o le omissioni che hanno ritenuto gli imputati riprovevoli e che, a loro avviso, avrebbero influito sull’esito fatale».

L’autopsia ha stabilito che Maradona è morto a causa di «edema polmonare acuto secondario a insufficienza cardiaca cronica esacerbata», scoprendo una «cardiomiopatia dilatativa» nel suo cuore. La perizia chiesta dai pm aveva stabilito che «la morte poteva essere evitata».

Non c’è ancora una data per il processo, ma è certo che gli otto imputati attenderanno in libertà il completamento del processo giudiziario.

Quando Diego Maradona su un mare di fango iniziò lo show (con le scarpe slacciate). Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera il 17 Aprile 2023.

Il Dio di Napoli tra vizi e prodigi. Nel 2003 era grasso, irriconoscibile: ma fece un clamoroso palleggio con una pallina da golf

L’altra sera finisco a cena in una casa magnifica su al Gianicolo. Panorama strepitoso, Roma e le sue cupole illuminate come dentro una cartolina: il proprietario è un napoletano cresciuto al Vomero, un ultrà del Napoli travestito da avvocato civilista, elegante fino al sussiego.

Adesso: immaginate dieci persone intorno a una tavola dove arriva la prima portata (mezze maniche alla gricia, in purezza). Il tempo di poche forchettate, i complimenti per la mantecatura perfetta, poi gli argomenti diventano subito due: le signore affrontano (dividendosi) il caso della deputata di Fratelli d’Italia Rachele Silvestri, il gossip che diventa tema politico, con lei costretta — l’ha raccontato in una lettera al Corriere — a sottoporre suo figlio all’esame del Dna, provvedimento estremo che però non sopisce le perfidie e anzi le attizza, tra curiosità morbosa e sudicia ciancia, chi è il vero padre, chi non è, chi è — soprattutto — il pezzo grosso del partito sospettato d’essere l’amante (la sua identità spifferata, come in tutta la città, a bassa voce).

Noi maschi, invece, a parlare di calcio. O meglio: del Napoli e dei suoi nuovi eroi che si apprestano a vincere il terzo scudetto. Con memorabili, ripetute corna del padrone di casa. Ed esaltazione totale di Khvicha Kvaratskhelia, l’attaccante georgiano rivelazione del campionato.

Poi: più che attaccante, ala. Con le giocate proprio da vecchia ala sinistra. Di dribbling secco, sempre dentro l’incertezza su cosa stia per decidere: tira o mette il compagno solo davanti al portiere?

Gran calciatore.

Già adorato.

Tanto. Troppo.

E infatti paragonato.

Addirittura a lui. A Diego. Il Dio del calcio che si fece uomo e venne a giocare per noi, tra noi.

Mentre mangiamo un’arista di maiale alle mele, glielo dico: scusate, ma voi state bestemmiando. Va bene l’euforia battente, la felicità trattenuta, la scaramanzia ossessiva che annebbia. Forse, però, vi siete dimenticati di cos’era Maradona.

Torna utile il cassetto segreto dei ricordi di una giovinezza svanita. Ed ecco: siamo nell’inverno del 1990, il Napoli cerca il suo secondo scudetto (l’altro, l’ha vinto il 10 maggio di tre anni prima). I giornali ci facevano scendere sul golfo ogni settimana non tanto e non solo per seguire la squadra, ma quel fenomeno del suo capitano argentino: talento superdotato, fragile e commovente, che un’intera città voleva abbracciare e baciare nell’eccitazione dei capolavori calcistici, proteggendolo a suo modo da altre imprese private, consumate nella penombra di certi locali notturni, dentro una bolgia di amicizie sbagliate, e nella residenza di via Scipione Capece 3/1, luogo di efferati mischioni. Con mogli, fidanzate e amanti di passaggio: il circo dei suoi straripanti sentimenti, della sua vorace fame di sesso e di affetto.

Un giovedì pomeriggio, vigilia di non ricordo più quale partita casalinga, ci si ritrova a Soccavo, alle pendici della collina dei Camaldoli: campo d’allenamento primordiale in terra battuta con radi ciuffi d’erba, le pareti degli spogliatoi gonfie di umidità, l’acqua calda che viene e va, la tribunetta per noi cronisti senza vetri, senza sedie, senza tavoli. All’improvviso, il cielo basso e grigiastro esplode in una bufera di pioggia, con un vento a tormenta che sale dal mare: il terreno di gioco — nel volgere di pochi minuti — si trasforma in una rettangolo di fango. I calciatori chiedono allora di sospendere la seduta, ma Albertino Bigon, l’allenatore, è inflessibile: squadra titolare contro riserve, si gioca lo stesso.

Diego (che, se c’era il sole, spesso si divertiva a giocare tra i pali: e, anche tra i pali, un gatto meraviglioso) si avvia verso il cerchio di centrocampo, e lì resta. Non si muove più. Ma ogni volta che gli arriva il pallone — uno di quei palloni con cui si giocava all’epoca, zuppo e pesantissimo — lo accarezza con la punta, lo alza e inizia a fare giocate incredibili. Tacco, coscia, testa, e poi slang! lanci da quaranta metri per un compagno o proprio a cercare direttamente, laggiù, la porta avversaria.

Spettacolo assoluto.

Fantascienza.

Noi cronisti cominciamo però a notare anche un dettaglio: appena Diego colpisce il pallone (indifferentemente con il destro o con il sinistro), c’è qualcosa di nero che emerge dal fango, come un piccolo lampo. Cos’è?

Lo scopriamo mezz’ora dopo, al termine della partitella. Quando Diego, che chiamiamo a gran voce — «Diego! Ehi, Diego, siamo qua!» — viene a salutarci (la sua pazienza era infinita e piena di dolcezza). A passi lenti, fradicio, i ricci appiccicati sulla fronte, sorridente, si ferma sotto la tribunetta: e lì ci accorgiamo che ha giocato nel fango che arriva alle caviglie con gli scarpini — completamente — slacciati. Capito? Sla-ccia-ti.

Pazzesco.

Il 29 aprile di quell’anno, battendo in casa la Lazio per 1 a 0, il Napoli vinse poi il secondo titolo tricolore. Per una serie di circostanze rocambolesche, nella pancia del San Paolo, in quell’impazzimento diffuso, mi ritrovai — con Ciccio Esposito del Corsport e quell’altro campione di Gianni Minà — in uno stanzone laterale allo spogliatoio della squadra azzurra. Diego era ancora in tenuta da gioco. Parlò quasi solo Gianni, che era suo amico personale. Diego, esausto, disse poche parole. «Non ho vinto soltanto per i napoletani e gli argentini. Ho vinto anche per tutti quelli che, di solito, perdono».

Lo rividi tredici anni dopo.

A Fiuggi, nel locale circolo del golf.

Maradona mancava dall’Italia ormai da molto tempo, ma aveva finalmente deciso di incontrare suo figlio Diego Junior, nato dalla relazione con Cristiana Sinagra. Tutto era stato organizzato da Giuseppe Incocciati, ex compagno di squadra a Napoli, che viveva nella zona.

Diego era irriconoscibile.

Grasso, con le palpebre socchiuse, camminando storto si avviò giù per i campi, cercando un punto riparato dagli alberi dove poter parlare con Dieguito. Ma, mentre era lì che aspettava, vide una pallina da golf.

Le palline da golf sono piccole e tremendamente dure. Però sono tonde.

Un dettaglio che scatenò l’istinto di Diego: colpetto sotto e, subito, quella pallina cominciò a restare in aria, destro sinistro destro, in un palleggio clamoroso. La coca non gli era ancora arrivata ai piedi.

Con il figlio parlò un’ora. Si salutarono con un lungo abbraccio. Poi, accompagnato dal suo manager Guillermo Coppola, finì a pranzo in un ristorante a pochi chilometri, «da Gino». Coppola mi invitò al loro tavolo. Diego rimase muto. Divorò solo un enorme vassoio colmo di pesce fritto. E vuotò quattro lattine di Coca-cola. Si assopì per qualche minuto e stava sbadigliando, quando arrivarono tre brutte facce. Parlavano un dialetto napoletano ruvido, metropolitano, pericoloso. Quello che sembrava essere il capo disse qualcosa nell’orecchio di Diego. Che annuì. Poi ci salutò con una smorfia triste, e seguì il tipaccio verso il bagno.

Si era, da tempo, già consegnato al suo destino speciale e tragico. Ma sapeva di aver compiuto la missione per cui era sceso sulla terra: rendere felici gli ultimi e dimostrare che l’impossibile è possibile.

(A questo punto del racconto, il padrone di casa ha interrotto le chiacchiere degli altri commensali: e, alzandosi con gli occhi acquosi, ha proposto un brindisi, invocando la protezione di Diego sul Napoli, e su Napoli).

La contea di Los Angeles pagherà 28.8 milioni. Foto dell’incidente di Kobe Bryant, risarcimento milionario a moglie e figlia dopo le immagini diffuse da poliziotti e pompieri. Redazione su Il Riformista l’1 Marzo 2023

Ha combattuto per suo marito, per la sua famiglia e per tutte quelle comunità in cui le famiglie sono state vittime di mancanze di rispetto. Speriamo che la sua vittoria metta la parola fine a tutti questi casi” ha dichiarato Luis Li, l’avvocato difensore della vedova di Kobe, Vanessa Bryant, che ha raggiunto un accordo da 28,85 milioni di dollari (27 milioni di euro) con la contea di Los Angeles, come risarcimento per le foto scattate dalle forze dell’ordine e dai vigili del fuoco sul luogo dell’incidente in cui morì il marito.

Vanessa Bryant aveva fatto causa al dipartimento dello sceriffo e a quello dei vigili del fuoco della contea di Los Angeles nel settembre del 2020: l’accordo risolve la causa e include un risarcimento di 15 milioni di dollari che era già stato stabilito lo scorso agosto in suo favore. Preclude eventuali richieste di risarcimento future sia da parte di Bryant che delle sue tre figlie: Natalia, Bianka e Capri Bryant, rispettivamente di 20, 6 e 3 anni.

La giornata di oggi segna il culmine della coraggiosa battaglia della signora Vanessa Bryant per chiedere conto della loro responsabilità a coloro che sono coinvolti in questa condotta grottesca“, ha dichiarato l’avvocato Li in una nota.  L’incidente che ha portato alla morte di Kobe Bryant e di sua figlia Gianna (chiamata da tutti Gigi) avvenne il 26 gennaio 2020, quando l’elicottero privato dove si trovavano si schiantò sulle colline di Calabasas, in California. L’incidente ha provocato la morte di tutti i nove occupanti dell’elicottero, tra cui Kobe e sua figlia Gianna, che stavano andando verso una partita di basket.

Kobe Bryant, cinque volte campione NBA con i Los Angeles Lakers, morì a 41 anni assieme alla figlia tredicenne Gianna il 26 gennaio del 2020. Alcuni mesi dopo sua moglie fece causa alla contea sostenendo che le foto violassero il diritto costituzionale alla privacy. Ritraevano da vicino i resti di Bryant, della figlia e delle altre persone morte, e non erano circolate in pubblico, ma solo internamente tra gli agenti. Vanessa Bryant ha sempre dichiarato di essere stata turbata dall’idea che le foto venissero rese pubbliche.

L’accordo è stato raggiunto dopo che nell’agosto del 2022 un tribunale federale aveva giudicato il dipartimento dello sceriffo e dei vigili del fuoco colpevoli di aver violato i diritti costituzionali di Vanessa Bryant, condannando la contea di Los Angeles a risarcirla con 15 milioni di dollari. La contea risarcirà con 15 milioni di dollari anche Chris Chester, la cui moglie e figlia erano tra le persone morte nell’incidente; pagherà a Chester altri 4,95 milioni di dollari per evitare future dispute.

Valerio Cappelli per il Corriere della Sera - Estratti mercoledì 29 novembre 2023.

«Sono stata il bastone della sua vecchiaia e lei il bastone della mia giovinezza», dice Stefania Bonfadelli, cantante lirica e regista, tornata nella sua Verona col marito Robert e la figlia Lavinia. Stefania è stata la figlia adottiva di Franca Valeri. 

Vi siete conosciute nel...

«1986, quando vinsi il Concorso Battistini che Franca aveva fatto nascere col suo compagno, il direttore d’orchestra Maurizio Rinaldi. Avevo 18 anni. L’opera era la prima passione di Franca, andava alla Scala già a 8 anni, nel palco di un amico di famiglia, il poeta Paolo Buzzi.  

(...)

L’esperienza si concludeva con la recita al Teatro Flavio Vespasiano di Rieti.

«Negli anni facemmo anche varie tournée, ricordo in Iraq la foto di Saddam Hussein ovunque. Vennero degli ufficiali con pacchi di dollari, in uniforme verdastra e coi baffoni, sembravano tanti Saddam, ci dissero: da parte del nostro presidente. Il Festival si intitolava Da Nabucodonosor a Saddam Hussein». 

Franca ci confidò il cruccio di non aver mai fatto una regia alla Scala.

«In realtà non così tanto, l’unico cruccio è di non aver avuto un figlio». 

(...) 

Alla fine adottò lei.

«A 88 anni ebbe la polmonite, a forza la portai in ospedale. Volevano darle un farmaco a cui era allergica. Mi opposi. I medici mi dissero: lei è parente? No. Questa cosa la fece pensare. Mi disse: non ho nessuno, vorrei che tu mi accompagnassi nella vecchiaia. Ne parlammo con Zeffirelli e Patroni Griffi, nel loro caso i figli adottivi erano gli ex compagni. Non era la stessa situazione. Io poi ho la mia famiglia d’origine. Ma è stato semplice. Nel 2008 mi ha adottata. Franca ed io non abbiamo mai vissuto insieme, eravamo nello stesso palazzo, su due piani diversi». 

Il vostro rapporto ha avuto vari step. Avete amato lo stesso uomo.

«Come coppia, lei e Maurizio Rinaldi sono stati insieme dal 1963 al ’78. Ma il rapporto durò trent’anni. Poi lui ebbe altre relazioni e raccontava tutto a Franca. Era un uomo libero, infedele, affascinante. A lei non piacevano le cose semplici. Il loro rapporto si trasformò. Erano indispensabili l’uno all’altra. Li univa la musica. Quando Maurizio si ammalò gravemente di tumore al polmone, Franca perse l’equilibrio. Non era preparata. Entrai in azione. Non so neanch’io dove trovai la forza. Ho sostenuto anche Franca». 

Ma quando Maurizio si mise con lei...

«Franca all’inizio mi vide con sospetto. Ne soffrì. Ma capì la sincerità dei miei sentimenti, e che potevo essere non una nemica ma un’alleata. Diceva: non posso schiavizzare qualcuno solo perché lo amo, dobbiamo continuare la nostra pseudo famiglia, non voglio perderla. Ci ha unite l’amore per la stessa persona. Aver amato in tempi diversi la stessa persona, non sempre divide due donne, le può anche avvicinare. Non so perché è difficile a capire e apprezzare una situazione del genere».

Franca fu straordinaria nel passare dall’amarezza e dal dolore, all’amore per lei. Lei, la grande rivale, divenne sua figlia.

«È vero, ma come coppia non stavano più insieme. Maurizio morì nel 1995. Aveva 17 anni meno di Franca e 30 più di me. Io ero molto giovane, mi sembrava Dio». 

Rinaldi sul podio non fece una grande carriera.

«Non aveva il carattere per farla, quando alzava il gomito tranciava giudizi su alcuni grandi direttori. Maurizio veniva da una famiglia importante nella musica, il nonno compositore, la mamma violinista, il papà critico. Erano amici di Respighi. Ma nel privato non era guascone. Era dolce e depresso». 

Di cosa parlavate, lei e Franca?

«Di musica, dei nostri amati cani, la dinastia dei Rori. Mi spronava, era coraggiosa, dai, fai le regie... Poi prese a parlare della guerra, argomento che aveva sempre rimosso. Non l’ho mai vista arrabbiata, ma quando fu ucciso Mussolini lei andò a piazzale Loreto. Mi disse di non aver provato pietà. Comodo giudicare il passato quando non lo si è vissuto, diceva. Un giorno tornò con la carriola nella sua casa alla periferia di Milano per prendere il carbone, vide i tedeschi che portavano via alcuni condomini. Lei si salvò per un attimo. E tu cosa hai fatto, le chiesi? Niente, ho aspettato che se ne andassero e sono andata a prendere il carbone. Era così, tac tac tac». 

(...)

Certo.

«Mi sono battuta per farle intestare il Valle (amava il teatro, anche se diceva mi fanno fare la scavalcamontagne, ogni sera un paesino). Lì dal ’47 portò quasi tutte le sue 15 commedie. Franca è stata la prima attrice comica, e anche commediografa. Prima c’erano caratteriste.

Una targa la ricorda, ma non si dava pace che restasse chiuso, com’è ancora oggi. Dicevano che non poteva far cinema perché andavano le maggiorate. Lei si ricavò il ruolo di comico. I suoi personaggi sono maschere. Ogni giorno per strada incontro una sora Cecioni: cosa ascolterebbe di musica? L’Aida con gli elefanti a Caracalla. Mentre la Signorina Snob, Ravel, très chic». 

Temeva la vecchiaia?

«Diceva di aver stentato a entrarvi perché si era tenuta a lungo sulla mezza età; e di non riuscire a immaginare il mondo senza di lei. Era una battuta. Ma era ingorda di vita, fino all’ultimo momento. A 96 anni per portare fuori il cane cadde e si ruppe otto costole. Non ha più camminato. Stava sulla sedia a rotelle. Ci vedeva pochissimo. Chiamai Einaudi, mandarono una ragazza a cui Franca dettò i suoi due ultimi libri. Dall’ultima tournée tornò distrutta. Il teatro era la sua vita. Le consigliai di smettere e non mi parlò per quattro giorni. Poi disse: hai ragione, sto scrivendo una commedia dove sto sempre seduta».

Ha avuto attrici eredi?

«Direi di no, pensava che le attrici comiche oggi sono attaccate alla realtà e parlano di attualità e politica, diventa cabaret. Luciana Littizzetto? Sono comicità diverse. Forse l’unica che le somigliava era Anna Marchesini». 

Si rivedeva nei film?

«Alla tv guardava solo i suoi film e l’opera. Quando andò a trovarla Sophia Loren (avevano fatto insieme Il segno di Venere, Franca l’aveva anche scritto), preparai tè e biscottini. Dalla cucina sentivo i loro discorsi. “Hai visto Franca che carriera che abbiamo fatto” diceva Sophia. Sembravano due ragazze».

Tutto ciò che dobbiamo imparare da Franca Valeri, la signorina snob. Nicola Santini su L’Identità il 15 Febbraio 2023

Dopo aver omaggiato La Madre Di Tutte Le Cantanti con il volume Mina per neofiti. La vita, la voce, l’arte di una fuoriclasse, il giornalista e autore televisivo Aldo Dalla Vecchia dedica un saggio appassionato e minuzioso alla Numero Uno di sempre (e per sempre) del teatro e dello spettacolo italiani, l’immensa Franca Valeri, scomparsa il 10 agosto 2020 dieci giorni dopo aver compiuto 100 anni.

Il volume, pubblicato da Graphe.it edizioni (82 pagine, 8 euro) s’intitola Viva la Franca. Il secolo lieve della Signorina Snob, ed è un omaggio pieno d’amore alla lunga e straordinaria carriera di Franca Norsa (questo il suo vero nome) nei tanti ambiti che l’hanno vista protagonista assoluta e, ahinoi, senza eredi.

Come spiega l’autore nell’introduzione, “Franca Valeri è un tesoro nazionale, che in un secolo di vita e otto decenni di carriera ha spaziato in ogni forma d’arte e in tutti i mezzi di comunicazione: il teatro, la radio, il cinema, la televisione, la pubblicità, l’editoria. La Valeri è autrice, attrice, comica, drammaturga, regista. Alla base di tutto, come lei stessa ha spesso ricordato, c’è la scrittura: così esatta, così raffinata, così sottile, che le ha permesso di creare maschere immortali che ancora oggi ci accompagnano. Tutti conoscono la Santissima Trinità composta dalla Signorina Snob, Cesira la manicure, la Signora Cecioni. Ma l’arte della Valeri è tanto altro”.

Ogni capitolo di Viva la Franca (che in queste settimane è finalista al prestigioso Premio Nabokov nella sezione saggistica) approfondisce nel dettaglio, con titoli, date, aneddoti poco conosciuti e tante citazioni d’autore, un singolo aspetto del multiforme ingegno della Franca: primadonna a teatro (dall’avventura parigina del Teatro dei Gobbi ai grandi successi solisti dei decenni successivi); voce radiofonica per antonomasia (la celeberrima Signorina Snob nasce in un primo momento alla radio, divenendo immediatamente quel che oggi si chiamerebbe “tormentone”); irresistibile al cinema (un titolo per tutti: Parigi o cara); presenza luminosa e costante negli anni d’oro del piccolo schermo (chi vuole vada a rivedersi su YouTube i suoi tanti sketch e i duetti folgoranti con Mina); testimonial pubblicitaria ante litteram (era l’epoca del Carosello in onda subito dopo il telegiornale della sera, quando la tivù era in bianco e nero e aveva due soli canali); soprattutto, e prima di ogni altra cosa, scrittrice finissima e acuta come nessuno (il suo Diario della Signorina Snob a sette decenni di distanza rimane fresco e attuale, scritto straordinariamente bene e divertente come pochi altri testi di ieri e di oggi).

Mission, ecco perché Ennio Morricone si è "infuriato" agli Oscar. Ennio Morricone è stato un compositore e un Maestro che avrebbe dovuto ricevere molti più premi, nel corso della sua carriera. Ma nessun premio mancato lo ha deluso come quello che non ha ricevuto per Mission. Erika Pomella il 23 Luglio 2023 su Il Giornale.

Mission è il film che va in onda questa sera alle 23.05 su Iris. Si tratta di una pellicola sorretta da un cast stellare e arricchita dalla presenza di Ennio Morricone che, per il suo lavoro, avrebbe meritato più di quanto gli è stato concesso dall'Academy.

Mission, la trama

Mission racconta la storia di un prete (Jeremy Irons) che, nel Sud America, vinta l'iniziale ostilità degli indigeni, riesce a creare una missione volta a salvare le persone del luogo dal rischio di essere tramutati in schiavi e venduti agli occidentali. In questo suo lavoro, padre Gabriel viene aiutato da Mendoza (Robert De Niro), un ex mercante di schiavi che si è ravveduto e redento e che sta cercando un modo di fare pace con la sua coscienza e con i terribili errori del passato. Padre Gabriel, Mendoza e Padre Filding (Liam Neeson) cercano di mantenere la pace e l'equilibrio, mentre ognuno cerca di scendere a patti con i demoni del proprio passato. Tuttavia la politica, l'ambizione e la corsa al denaro di altre persone metteranno a rischio tutto ciò che gli uomini hanno costruito, costringendoli a passare all'azione.

La delusione di Ennio Morricone

Se c'è un artista, nell'ambito della settima arte, che davvero non ha bisogno di presentazioni, quello è il maestro Ennio Morricone. Il compositore e musicista ha lasciato la sua firma nella storia del cinema, componendo brani e colonne sonore per pellicole che, a loro volta, sono diventate pietre imprescindibili per chiunque sia interessato alla cinematografia. All'arte del Maestro morto a Roma nel 2020 si devono alcune delle colonne sonore più famose di sempre, come quella dei western Per un pugno di dollari e C'era una volta il west, o quelle presenti in film come Gli intoccabili, Nuovo Cinema Paradiso e C'era una volta in America. Nonostante questa carriera così lunga e così piena di capolavori indiscutibili, Ennio Morricone ha ricevuto il suo Premio Oscar solo nel 2007, quando è stato insignito del premio alla carriera. Un premio che Morricone sembrava aver previsto nel 2001, quando era in attesa di sapere se sarebbe stato nominato per Malèna. In un'intervista riportata da Il messaggero, infatti, Ennio Morricone ha detto: "Vuole la verità? Un Oscar non mi cambierebbe la vita e non aggiungerebbe troppo al mio lavoro. E poi sono in buona compagnia, insieme a tutti gli illustri ”nominati” mai premiati come Orson Welles e Stanley Kubrick. Magari la statutetta me la daranno quando non scriverò più, insomma un Oscar alla carriera." E fu nel corso della stessa intervista, mentre rifletteva se quella specifica colonna sonora fosse degna di una nomination o in grado di svegliare un certo torpore dell'Academy Awards, che Ennio Morricone lasciò risalire a galla il suo risentimento per il trattamento ottenuto dalla colonna sonora che aveva realizzato per Mission. Nello specifico, il compositore classe 1928, dichiarò: "Questa non mi sembra proprio la volta buona. Se non mi hanno dato l’Oscar per la colonna sonora di Mission..."

È indubbio che in Mission, al di là dei grandi interpreti e della storia quasi epica, la colonna sonora di Ennio Morricone sia una protagonista aggiunta, un altro peso sulla bilancia della qualità che ha cooperato a rendere il film quello che è. Per questo straordinario lavoro Ennio Morricone riuscì a ottenere una nomination agli Oscar - ne ottenne 6 in tutta la sua carriera, vincendo una volta sola con The Hateful Eight di Quentin Tarantino. Ma la nomination ottenuta nel 1987 rimase senza vittoria e, dunque, senza statuetta, che invece andò a Herbie Hancock per il film Round Midnight - A mezzanotte circa. A nutrire la delusione di Morricone non fu solo l'ennesima sconfitta con una partitura pressoché perfetta ma, come si legge sul sito dell'Internet Movie Data Base, aver perso contro una colonna sonora che non era composta solo da pezzi originali, come invece era la colonna sonora di Mission. La regola degli Academy Awards prevede che una colonna sonora sia composta almeno per il sessanta per cento della sua partitura da pezzi originali. Una percentuale che sale all'ottanta per cento quando si tratta di film che fanno parte di qualche serie cinematografica. Quindi Herbie Hancock non ha commesso nessun errore e non ha imbrogliato: ma questo non ha impedito a Morricone di sapere il sapore amaro della delusione nel rendersi conto che gli Academy Awards avevano voltato le spalle alla sua partitura originale e una colonna sonora che aveva ricevuto il plauso internazionale, in favore di una colonna sonora molto più ibrida, tra originalità e recupero, e che non è di certo passata alla storia come quella di Mission e di molte altre firmate dal Maestro italiano.

Da rainews.it venerdì 7 luglio 2023.

Musiche leggendarie, eredità eterna di Ennio Morricone. A tre anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 6 luglio del 2020 al Policlinico Campus Bio-Medico di Roma, proprio il Campus, la Fondazione e l'Università  hanno voluto ricordare il suo talento con un tributo speciale,  un concerto della Banda della Polizia di Stato, con la partecipazione di un ensemble vocale tutto al femminile. Occasione per ricordare, al di là del valore artistico, anche aspetti più inediti e riservati legati all'umanità del maestro, convinto sostenitore del valore della terza età.

Estratto dell’articolo di Alessandra Arachi per il “Corriere della Sera” venerdì 7 luglio 2023. 

«L’anima è molto più magnanima e profonda di quanto si pensi, bisogna aiutarla ad aprirsi completamente per farle esprimere tutto ciò di cui è capace», diceva Ennio Morricone e le sue erano parole che uscivano proprio dall’anima, rimbalzavano sul cuore e finivano sulle dita per comporre quella musica che è stata la colonna sonora di molti film entrati nella storia del cinema.

È morto esattamente tre anni fa il maestro, nel letto del Campus Biomedico che [ieri sera[ lo [ha ricordato] con un concerto fatto tutto dei suoi brani, a suonarli la banda della polizia. Ma […] Ennio Morricone ci ha lasciato in eredità anche i suoi insegnamenti, un vero e proprio decalogo custodito con cura da Giorgio Assumma, il suo amico e legale che li ha portati fino a noi. 

Leggiamone alcuni. Il suo primo «comandamento»? «Coltivare i dubbi e le incertezze che sono necessari perché sono utili per spingerci a correggere e a rifare, sino a ottenere il risultato che si ritiene essere il migliore».

Ha vinto l’Oscar Morricone, ma il suo lavoro non è mai stato mirato a ottenere un riconoscimento. «Il premio non conta, bisogna lavorare per il bisogno di dare attraverso il lavoro il senso alla propria vita», esortava, e la sua condotta artistica ha sempre parlato più delle sue frasi, prima fra tutti vivere con quell’umiltà che emergeva da ogni suo atteggiamento sia professionale sia umano.

Altri due comandamenti per capire: bandire la fretta e la banalità. «La creatività ha i suoi tempi che sono lunghi e vanno assolutamente rispettati», spiegava, e chi gli è stato vicino sapeva che il maestro non accettava mai un incarico professionale […] se aveva tempi troppo stretti […]. 

Per lui la musica […] era «un’autostrada che porta dritta al cielo» e ringraziava il Dio che stava in quel cielo di essere nato musicista. […] Bandiva la banalità («perché non fa parte della musica pura») e lo faceva per una forma di rispetto verso gli altri: «Non bisogna credere che il pubblico che ti ascolta sia ingenuo o impreparato, ha un senso critico molto spiccato e sviluppato e non può essere preso in giro».

Einstein diceva che il genio è fatto per l’1% di talento e per il 99% di lavoro e Morricone […] condivideva lo stesso concetto: «La creazione di una melodia non è mai il frutto di un’improvvisazione occasionale. Io lavoro come un impiegato, imponendomi la massima serietà e dedicando al lavoro il tempo lungo della creatività». […]

Alba Parietti e il suo legame con Ezio Bosso: «Poteva sedurre chiunque, non era un frate trappista. Con le note ti avviluppava». Francesca Angeleri su Il Corriere della Sera il 17 Maggio 2023

«In 40 anni che vedo Sanremo credo che Ezio all’Ariston resti forse la cosa più indimenticabile. Ti stravolgeva, ti portava in una bolla. Era bellissimo, affascinante, seduttivo, spiritosissimo»

Alba Parietti e Ezio Bosso

Ci ha pensato un po’ Alba Parietti prima di decidere di raccontarci un pochino di ciò che è stato Ezio Bosso per lei. Delicatezza e riaspetto, per il valore che ha per tutti la sua figura. Una persona e un musicista straordinario, Ezio Bosso se n’è andato tre anni fa. Proprio in occasione di questo triste anniversario Parietti l’ha ricordato con un post su Instagram: «Chi ha avuto il privilegio di conoscerti ti ricorderà per sempre», ha scritto sotto una foto che li ritrae insieme. Mentre ne parla, con in sottofondo gli uccellini del suo giardino, non riesce a non tradire la commozione che la coglie ancora. 

Chi era per lei Ezio Bosso? 

«Voglio raccontarlo come amico, come lo è stato anche per tanti altri. Averlo frequentato è stato un grande privilegio. Credo, senza dubbio, che sia stata la persona più affascinante che io abbia mai incontrato». 

Quando vi siete conosciuti? 

«Avevamo due versioni diverse, io e lui. Bosso si ricordava a Panarea, probabilmente io mi trovavo lì con un mio ex fidanzato. Era prima che scoppiasse la sua malattia». 

Invece il suo di ricordo? 

«Sanremo, La Pignese (il ristorante storico dove «ci si incontra» dopo il Festival). La sua esibizione aveva folgorato tutti. In 40 anni che vedo Sanremo credo che Ezio all’Ariston resti forse la cosa più indimenticabile. Un’apparizione quasi divina. Ero seduta con Cristina Parodi, quando lui entrò, scese il silenzio». 

Che uomo era Bosso? 

«Credo di fargli un vero e grande omaggio se lo descrivo oltre l’immaginario comune di persona sicuramente geniale ma anche bonaria e fragile come spesso viene tratteggiato chi è in difficoltà. Ezio era un pifferaio magico, con le note ti avviluppava. Ti stravolgeva, ti portava in una bolla. Era bellissimo, affascinante, seduttivo, spiritosissimo. Detestava parlare della sua malattia. “Come stai?” era la domanda da non fare».

Vi siete trovati, in qualche modo. 

«Forse perché eravamo entrambi torinesi, le radici vengono fuori sempre. Con quel tipo di riservatezza mista a discrezione, ma con il gusto del pettegolezzo. Un po’ inglese ma anche perfido». 

Era difficile stargli vicino? 

«Era un ragazzo con un’enorme forza d’animo e una grande capacità di non arrendersi. Combatteva ogni giorno con il tempo che gli rimaneva da vivere. Ogni istante era prezioso e lo doveva spendere al massimo, anche egoisticamente. Da un lato aveva questa bontà e generosità nel darsi al pubblico, dall’altro c’era la necessità di vivere la vita in pienezza, anche con una certa crudeltà per il suo essere altalenante nell’umore. Ezio poteva sedurre chiunque, non era un frate trappista, aveva mille sfaccettature e non era facile da gestire. Era impossibile competere con lui sul piano intellettuale, dovevi prenderlo per quello che era: un’esperienza unica e irripetibile». 

Ne viene fuori un ritratto diverso da quello cui siamo abituati a dipingerlo.

  «Aveva una personalità camaleontica, alla Picasso, alla Paganini. Quasi machiavellica. Ripeto che questo mio è un omaggio verso di lui, spero di non urtare la sensibilità di nessuno». 

Si è sentita mai esclusa? 

«La nostra è stata un’amicizia che lui volle fortemente. Una volta mi disse: “Voglio che tu di me non veda mai nulla di brutto”. E così è stato». 

Era bellissimo, Bosso. 

«Anche molto chic. E molto vanitoso. Il suo abbigliamento era sempre curatissimo, anche se all’apparenza non pareva così. Con le giacche fatte su misura. Era un dandy». 

Quando vi siete sentiti l’ultima volta? 

«Per telefono, qualche giorno prima che morisse. Ci sentivamo poco, ma ci scambiavamo dei messaggi affettuosi. Mi aveva detto che stava male. Mi ero convinta che ce l’avrebbe fatta. Non ci credevo che sarebbe morto, credevo che la sua vita sarebbe andata avanti ancora tanti anni. Ne ho un senso di colpa. Penso che sia stato deleterio il Covid». 

Perché ne peggiorò la situazione? 

«Era mozartiano. Ezio doveva uscire, vedere gli amici, andare in trattoria, alle feste nella sua Bologna. Aveva la necessità di riempire la sua vita di emozioni».

Carla Fracci, l'eterna fanciulla sulle punte. L’étoile che il mondo ha sempre celebrato. Ma anche la donna meno conosciuta. Che rivive attraverso i ricordi di artisti, amici, familiari. È “Codice Carla”, il film di Daniele Luchetti sulla grande ballerina. Francesca De Sanctis su L'Espresso il 9 Novembre 2023

Leggiadra, elegante, luminosa, unica Carla Fracci: un mito, un’icona, l’étoile che il mondo non ha mai smesso di celebrare. Se n’è andata poco più di paio di anni fa (era il 27 maggio del 2021 e aveva 84 anni), eppure sembra sia rimasta sempre tra noi. Basta fare zapping tra i canali televisivi ed eccola che danza in “Giselle” con un’altra leggenda della danza, Rudolf Nureyev, o in coppia con il ballerino danese Erik Bruhn in “Romeo e Giulietta”. 

Applaudita ovunque si esibiva, “l’eterna fanciulla danzante” (come la definì il suo amico Eugenio Montale) era molto amata anche da chi non era certo un esperto di balletto. Lei era semplicemente di tutti. La fermavano per strada, la baciavano, la veneravano come se avessero di fronte la Madonna. Ma per capire chi era davvero Carla Fracci e cosa l’ha resa un’icona vale la pena vedere “Codice Carla”, il film documentario scritto e diretto da Daniele Luchetti, in arrivo nelle sale il 13, 14, e 15 novembre, prodotto da Anele e Luce Cinecittà con Rai Cinema, con le musiche degli Atoms For Peace edite da Thom Yorke e Sam Petts-Davies, con Thom Yorke anche nel ruolo di Music Supervisor. 

Questo film racconta di un’altra Carla, di una donna, prima ancora di una ballerina, che prende vita attraverso le voci di artisti, amici, collaboratori, intervallate con vecchie interviste, filmati quasi dimenticati, spettacoli da rivedere o da scoprire. E così ascoltiamo le parole di Roberto Bolle, Jeremy Irons, Marina Abramovic, Carolyn Carlson, Eleonora Abbagnato, Alessandra Ferri, Enrico Rava, Chiara Bersani, Beppe e Francesco Menegatti, Luisa Graziadei, Vittoria Regina, Gaia Straccamore, Hanna Poikonen. Difficile definire cosa sia esattamente quel “codice” che sembra accomunare artisti tanto diversi. Prova a spiegarlo il figlio di Carla, Francesco Menegatti, architetto: «C’è un codice segreto fra gli artisti, è una sorta di materia oscura che lega tutte le galassie, qualcosa di inspiegabile, di totalizzante, di misterioso», dice. 

Figlia di un tranviere e di un’operaia, nei primi anni del dopoguerra Carla fu iscritta alla Scuola di ballo del Teatro della Scala perché alla mensa distribuivano un piatto di pasta. Realtà o leggenda?: «È quello che mi raccontava mia madre. I miei nonni pensarono di iscriverla lì per garantirle un pasto», spiega Francesco: «Mia madre mi raccontò anche che non fu scelta subito. Ad un certo punto l’insegnante disse: “La gà un bel faccin”, e così presero anche lei. Quindi un po’ per caso, un po’ perché qualcuno ha avuto la giusta intuizione è iniziato il suo percorso. Fatica e convivenza con il dolore sono sempre state le caratteristiche che poi ne hanno fatto l’artista che è stata, fino alla fine. Mia madre era un piccolo guerriero».

Ma nella vita privata «era una madre amorevole, sapiente, saggia, per quanto le è stato concesso. Era una donna di poche parole, ma quando venivano dette erano quelle e basta. Era molto autorevole». Con lei, da bambino, Francesco ha girato tutto il mondo. Ma ci sono stati anche anni in cui Carla si è esibita in provincia, nei luoghi di lavoro, nei piccoli centri e addirittura sotto i tendoni, pur di avvicinare il pubblico al balletto. «Nella sua identità di donna e di artista ha contato molto quel periodo. Ci ha lasciato una grande dote di umanità e di bellezza», ricorda il figlio. 

E a proposito di bellezza ecco cosa dice nel documentario Chiara Bersani, performer che trasforma il suo corpo disabile in “atto politico”: «Io credo che la bellezza sia una questione di abitudine, è più facile trovare la bellezza in un corpo e in una forma di danza concordata e raccontata per anni, piuttosto che trovarla in una forma nuova. Eppure esiste, si muove su altri canoni, ma è altrettanto dignitosa». 

È la bellezza, dunque, che cercano gli artisti? «Io credo di sì», risponde Chiara dal Regno Unito, dove è in tournée con “Sottobosco”. «Provocazione, disordine, nuovi canoni di bellezza, questo cerca l’essere umano». Poi racconta del suo rapporto con Carla Fracci: «Per me è una donna mastodontica... Non c’era mai stata una relazione diretta con lei, finché mi è stato chiesto di fare una mia versione della “La morte del cigno”. In quel momento sono stata chiamata ad affrontare la danza classica, a vedere da vicino  chi abitava quel mondo dal quale mi sentivo esclusa, e dal quale mi sento tutt’oggi esclusa, anche se vengo almeno riconosciuta come interlocutrice, che è già un passo avanti importante». 

Quando si danza, c’è sempre un cervello dietro, ricorda Carla Fracci nel film, che  intrecciando passi di danza, performance, schiene inarcate alle interviste tratteggia un ritratto inedito di lei. «Era una persona autentica», dice Carolyn Carlson. L’ultimo pensiero, prima di morire, è stato per i più giovani, come ricorda il figlio: «Diceva che la sua esperienza alla Masterclass della Scala su “Giselle” era stata una delle cose più belle che aveva fatto. Ai giovani credo abbia lasciato un’eredità densa e antica che arriva da lontano. Lei era soprattutto l’incarnazione di una sapienza che eternamente si tramanda di maestro in maestro».

"Mia madre Carla Fracci una donna concreta. Ricordo l'attesa magica dell'ingresso in scena". Il 13 novembre arriva al cinema il docufilm sulla regina della danza: "Una Fondazione a suo nome". Piera Anna Franini il 7 Novembre 2023 su Il Giornale.

Codice Carla - al cinema dal 13 al 15 novembre - è l'ultimo omaggio a Carla Fracci. Un film per la regia di Daniele Luchetti, con la Fracci regina della danza in un contrappunto di voci di colleghi (Bolle, Ferri, Abbagnato), attori (Irons), performer (Abramovic, Bersani). Ricordi di vita quotidiana sono affidati al marito Beppe e al figlio Francesco Menegatti. Si racconta un'icona della danza, ma anche la forza del corpo che si sacrifica e soffre sfidando le leggi della natura.

Francesco Menegatti, la vostra più che una casa-bottega era una casa-officina.

«Ricordo i massaggiatori, la serie di strumenti attorno al letto di mamma, la porta che si chiude perché iniziano le operazioni di manutenzione. Anche io ogni tanto ho usato le mie mani sulle gambe e la schiena di mia madre, forse era un espediente per appropriami di qualche suo spazio».

Un'esistenza anche di dolori fisici quella di Carla Fracci.

«Mai sentito, però, un lamento, neppure durante la malattia. Penso abbia inciso l'approccio alla sofferenza che viene inculcato alle ballerine».

Non ha mai esternato neppure il male che se l'è portata via. Questione di pudore?

«Mamma era estremamente riservata».

Era credente?

«Molto. In questi giorni sicuramente mi avrebbe chiesto di portarla alle celebrazioni per i defunti. Guai a perdere le funzioni di Pasqua o di Natale».

Che rapporto aveva col cibo?

«Pareva che mangiasse, poi al termine del pasto notavi sul suo piatto mollica, grasso del prosciutto...».

Era molto attenta.

«Era attentissima, ma non ossessiva».

Da alcune scene del film, si direbbe che la sua sia stata una famiglia allegra.

«Mah... Allegra non direi, semmai molto colorata, c'era un bel casino in casa, gente che andava e veniva».

Quando ha capito che sua madre era un mito, a che età?

«Quando è stata posta vicino a Alessandro Manzoni, nel Famedio del Cimitero di Milano».

Nel film esce poco la dimensione della docente.

«La docenza è stata il suo grande cruccio. Mamma potrà essere studiata guardando e riguardando i video, ma ci sono cose che vanno trasmesse con l'insegnamento, con il braccio che viene lì e ti corregge, con lo sguardo. Cose che a mia mamma sono state precluse. Peccato. Quanto era entusiasta di quel risarcimento finale: le masterclass alla Scala, non faceva che parlarne, le considerava la cosa più bella che le fosse capitata nell'ultima parte della vita».

Accennava allo sguardo. Che sguardo aveva per lei, figlio? Era facile all'abbraccio, fisica?

«Fisica sì, ma alla milanese, un po' distante e un po' vicina: un mix. Sguardo fatto di occhi neri al punto che non riuscivi a capire se la pupilla fosse dilatata».

Carla Fracci come viveva il giorno dello spettacolo? Era tesa, d'umore altalenante?

«Dipendeva molto dalla recita. Quando la stampa la dava per finita creando tanta pressione allora sì, era un po' tesa. Anche per certe serate epiche come quella con Nureyev alla Scala. Ho ancora nelle orecchie il conto alla rovescia prima di andare in scena, la voce dell'operatore che dice Carla 15'. Carla 10'. Carla 5'. Erano minuti di magia pura, di grande intensità, mistici».

«Pur stando sulle punte, ho i piedi ben per terra», soleva dire sua mamma. Concetto ribadito anche nel film. Quanto era concreta?

«All'ennesima potenza. Concreta in tutto».

Che rapporto aveva col denaro?

«Era molto parsimoniosa, attenta, si preoccupava se le cose non andavano come sperato. Forse lo si doveva al suo passato (papà tranviere, mamma operaia - ndr).

Cosa rappresentava per lei il 7 dicembre alla Scala? Non mancava una inaugurazione.

«Un ritorno a casa, un momento di ricongiunzione con l'ambiente che l'aveva vista crescere e al quale aveva dato tutto quello che aveva. Alla prima del 2014, con Fidelio di Beethoven in scena, l'accompagnai io anziché papà. Andammo anche alla cena del dopo-prima. Fuori c'erano i poliziotti antisommossa che nel vederla la salutavano, e lei ancora si stupiva che le persone la riconoscevano».

A quando un progetto a lunga scadenza alla memoria di Carla Fracci?

«Ci sto pensando. Vorrei fare qualcosa che resti, una Fondazione o un'accademia per talenti, o entrambe, qualcosa che attraverso il nome di mamma possa fare qualcosa per gli altri».

Estratto da “Posta e Risposta – la Repubblica” sabato 9 settembre 2023.

Caro Merlo, sono rimasta malissimo per un titolo e un testo: “ Dubbi sul testamento di Battiato” . Si parla di un foglietto scritto in stampatello e firmato Franco Battiato, ma Battiato si chiamava Francesco. Il testo è del 2018, lo stesso anno in cui il povero Battiato fu giudicato “disorientato” e fu nominato un amministratore di sostegno nel fratello Michele. Mi auguro che i magistrati si occupino di questo penoso caso.

Margherita Smeraldi - Venezia 

LA RISPOSTA DI FRANCESCO MERLO

Non ci sono contese sull’eredità di Franco Battiato. Il suo unico fratello, Michele, che fu nominato amministratore di sostegno quando la malattia rese l’artista “disorientato”, sarebbe, in assenza di un testamento, l’erede naturale. Michele Battiato è il padre di Maria Cristina, unica nipote ed erede designata nel foglietto che a lei appare sospetto. Non ci sono conflitti tra padre e figlia, entrambi titolari di una “legittima”, e non ci sono altri eredi naturali conosciuti. Dunque, ripeto: non ci sono contese sull’eredità che deve fare i conti, com’è ovvio, con l’agenzia delle entrate. Spero che questo la rassicuri, casa signora Smeraldi.

Parce sepulto? Visto che parliamo di eredità e dunque di memoria e di sepoltura, una piccola ma giusta contesa l’ha sollevata Morgan. È infatti faticoso il cammino di chi voglia avere un incontro con Battiato “all’ombra de’ cipressi e dentro l’urne”. Ho un’amica parigina professoressa di francese, che considera Battiato l’erede di Mallarmé e dei poeti simbolisti. Partita da Parigi, è finalmente arrivata al cimitero di Riposto per cercare l’autore di E ti vengo a cercare e… non l’ha trovato. Al guardiano, che alla fine glie l’ha indicato, ha obiettato che l’artista “si chiamava Franco Battiato”. E quello: “E su questa tomba cosa vede scritto?”.

“C’è scritto ‘Battiato Francesco’”. E il guardiano: “Appunto”. Forse gli eredi - fratello e nipote - potrebbero rimediare a questa plateale mancanza di rispetto verso un celebre nome che, ovviamente, nel Famedio di Milano è “Franco Battiato”. La mia amica francese non si perse d’animo e andò via canticchiando “ascriverò il mio nome / nell’albo d’oro dei pazzi / sul palcoscenico dell’errore”. È una canzone, che non conoscevo, di Battiato e Pippo Pollina, ispirata, nientemeno, a Joyce.

Estratto dell’articolo di Daniele Priori per “Libero quotidiano” giovedì 24 agosto 2023

«Nomino come mia unica erede la mia cara nipote Grazia Cristina Battiato. 11 maggio 2018. Franco Battiato». È attraverso questo documento autografo, redatto dal grande cantautore catanese tre anni esatti prima divenire a mancare, che lo scorso 14 luglio, poco più di un mese fa, il lascito del maestro, consistente nella villa di Milo, in provincia di Catania e nell’unica società L’Ottava srl di cui Franco Battiato era proprietario, è finito nelle mani dell’unica erede, nominata dallo zio con testamento olografo. […]

Un atto testamentario, quello di Battiato, registrato regolarmente e con tutti i crismi del caso sul quale, tuttavia, nel corso dei due anni trascorsi dalla morte del cantautore, venuto a mancare il 18 maggio del 2021 dopo una lunga malattia degenerativa che l’aveva reso incapace di intendere e di volere, erano sorti vari dubbi. 

Legati in particolar modo a una perizia psichiatrica, risalente al febbraio del 2018, quindi tre mesi prima rispetto alla stesura del documento, nella quale il dottor Giuseppe Zappalà, neurologo dell’ospedale Garibaldi di Catania aveva notato nel maestro e doverosamente annotato «un disorientamento temporo-spaziale, marcati disturbi cognitivi e di memoria a breve, peggiorati significativamente negli ultimi mesi». 

E proprio questo certificato ha guidato la decisione del tribunale di Catania che, ritenendo il maestro Battiato incapace di intendere e di volere, ha nominato l’unico fratello Michele, amministratore di sostegno, rimasto fino allo scorso 14 luglio anche gestore della società in testa al maestro, data in cui tutto è definitivamente passato nelle mani dell’erede prescelta. 

«La presenza di un amministratore di sostegno non vieta in ogni caso al testatore di nominare un erede unico», spiega a Libero Giulio Bino, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei Notai. Anche perché «nel caso del maestro Battiato non c’erano nemmeno eredi legittimi che possono essere un coniuge, i figlio i genitori se in vita» per cui Battiato aveva la piena licenza di destinare i suoi beni a chicchessia. 

I contorni del giallo, trattandosi di due sole persone coinvolte, che peraltro sono padre e figlia tra i quali - a quanto avrebbero riferito loro stessi - i rapporti pare siano assolutamente cordiali, si sfocano decisamente. Semmai a destare maggiore curiosità e un po’ di amarezza è la scelta (in teoria del tutto immotivata, in assenza di polemiche tra i due eredi) di dare in pasto ai giornali i contenuti sensibili della perizia psichiatrica, tenuti riservatissimi con l’artista in vita.

L’unica partita a restare aperta è ora quella tra l’erede Battiato e lo Stato, legata al vincolo sulla casa di Milo, prima annunciato dall’allora ministro Franceschini e divenuto operativo nel novembre dello scorso anno secondo il quale la «casa d’artista di interesse culturale» è sotto tutela della Sovrintendenza ai Beni Culturali. Atto contro il quale l’erede ha presentato ricorso.

Estratto dell’articolo di Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” sabato 5 agosto 2023.

[…] Ho rivisto il documentario «Il coraggio di essere Franco», scritto e diretto da Angelo Bozzolini (Rai3). Mi è parso più brutto della prima volta, pieno di luoghi comuni, privo di coraggio, incapace di distinguere la «ricerca spirituale» (che è una strada personale) dalla produzione discografica (che è mercato). Però la cultura pop funziona così, magari fra dieci anni questo documentario sarà salutato come un capolavoro […] 

Per quanto ci si industrii a creare una solida cornice, che va dal periodo «sperimentale» di Fetus alla collaborazione con il «paroliere» Manlio Sgalambro, nei cui libri si teorizza che l’indifferenza è il maggior sforzo che si possa fare per l’altro, dall’innamoramento per Gurdjieff alla direzione di film non proprio esaltanti, quello che resta veramente di Franco Battiato è il canto estivo di «Cuccurucucu paloma /Ahia-ia-ia-iai cantava/Cuccurucucu paloma /Ahia-ia-ia-iai cantava».

Il periodo di massimo splendore, ora descritto come atto di volontà, come desiderio determinato di avere successo (la cultura di massa non può prescindere dalla massa) va da L’era del cinghiale bianco (1979) a Come un cammello in una grondaia (1991), che si apre con l’inno antifa Povera patria , ed è quello che rimarrà.

Aggiungerei anche La cura (1996) che, nel frattempo, è diventata la colonna sonora dei matrimoni civili. Battiato è grande e insuperabile quando gioca con il «kitsch colto» […], quando mette insieme i «Gesuiti euclidei vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori della dinastia dei Ming», citando Matteo Ricci, con «il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire», citando Gurdjieff. 

È lui il maestro dell’estetica dei frammenti, armonizzati in una nuova lettura dalla musica, dalla melodia. Non casualmente, finito di giocare, le ultime sue interpretazioni sono omaggi ai grandi della musica leggera, da Sergio Endrigo a Jacques Brel.

Estratto dell'articolo di Franco Bechis per open.online lunedì 21 agosto 2023.

Tre righe scritte in stampatello, che non usava mai, l’11 maggio 2018. Sotto, alla quarta riga solo la sua firma per esteso: Franco Battiato (anche se il suo nome di battesimo era Francesco). È l’ultimo scritto noto del cantante, ed è apparso un mese e mezzo dopo la sua morte il 30 giugno 2021, a Milano, nello studio del notaio ed avvocato Alessandro De Cicco. 

A portarglielo chiedendone la pubblicazione è stata la nipote del cantautore, Grazia Cristina Battiato. Che è la beneficiaria di quelle ultime righe di un testamento olografo: «Nomino mia erede universale la mia cara nipote Grazia Cristina Battiato. 11 maggio 2018. Franco Battiato».

Il testamento olografo portato dal notaio aveva seguito di qualche mese il certificato medico del 21 febbraio 2018 firmato dal neurologo dell’ospedale Garibaldi di Catania, dr Giuseppe Zappalà, che sarebbe poi stato alla base della decisione della prima sezione civile del tribunale di Catania per la nomina definitiva di un amministratore di sostegno (il fratello Michele) perché Battiato non era ritenuto più in grado di prendere decisioni in piena coscienza.

Il cantautore lì veniva descritto dal neurologo con «disorientamento temporo-spaziale, marcati disturbi cognitivi e di memoria a breve, peggiorati significativamente negli ultimi mesi», e si descriveva una malattia grave in fasa avanzata, che lo costringeva in gran parte a stare a letto nutrito solo da un sondino. Interrogato a casa sua dal magistrato che si occupava del caso però Battiato aveva riferito correttamente il «proprio nome e cognome e l’anno di nascita, ma non il giorno e il mese. 

Ha dichiarato di non ricordare le ragioni della presenza del giudice; ha dichiarato di non soffrire di alcuna malattia. Domandato se intrattenesse rapporti bancari, ha risposto ‘Veramente non ho SIAE’, mentre in realtà risulta essere intestatario di diversi conti correnti e di fondi comuni e di altri strumenti di investimento; ha risposto con frasi senza senso apparente alle altre domande rivoltegli dal giudice, anche a quelle riguardanti i suoi redditi e le sue attuali occupazioni».

Nonostante la registrazione regolare del testamento olografo, i passaggi della successione in favore della nipote sono stati fermi per parecchio tempo. Solo il 14 luglio 2023 alle 12,30 in Giarre si è tenuta dopo tre anni l’assemblea ordinaria de “L’Ottava srl”, la piccola cassaforte societaria di Francesco Battiato detto Franco. L’amministratore unico- il fratello Michele- ha presentato e fatto approvare dai soci (la nipote erede del cantante) in un solo giorno i bilanci della società al 31 dicembre del 2020, del 2021 e del 2022. [...] 

Sempre alla nipote Grazia Cristina è finita la villa di Milo in cui il cantante ha abitato e trascorso anche gli ultimi anni di malattia. La proprietà è sua per successione ereditaria, ma sull’immobile e il terreno di 10 mila metri quadrati che la circonda è stato apposto il 2 novembre del 2022, su richiesta della soprintendenza ai Beni culturali, un vincolo legale a favore dell’assessorato ai Beni culturali e identità siciliana della Regione Sicilia in quanto «casa di artista di interesse culturale». [...] 

Franco Battiato, l'eredità alla nipote. Ma il testamento olografo non convince. La nota scritta dal cantautore nel 2018, che detta le sue ultime volontà, è stata pubblicata sul web e ha suscitato molti dubbi sulla veridicità del contenuto. Novella Toloni il 22 Agosto 2023 su Il Giornale.

A oltre due anni di distanza dalla sua morte si torna a parlare di Franco Battiato e non per la sua musica. Il cantautore è morto il 18 maggio 2021 dopo un lento deperimento causato dall'età e da una malattia neurologica, che lo aveva reso incapace di riconoscere ciò che gli stava attorno. Eppure, tre anni prima del decesso, in piena facoltà cognitiva, avrebbe scritto le sue ultime volontà su un foglio, che oggi è stato pubblicato sul web dal sito Open.

Nella breve nota, autenticata dal notaio come vero e proprio testamento, Franco Battiato ha lasciato tutto il suo patrimonio alla nipote. "Nomino mia erede universale la mia cara nipote Grazia Cristina Battiato. 11 maggio 2018. Franco Battiato", si legge nel biglietto. Ma le volontà del cantautore non sono state rese note fino al 30 giugno 2021, quando la nipote del cantautore, Grazia Cristina Battiato, ha portato il foglietto nello studio del notaio e avvocato Alessandro De Cicco a Milano, chiedendone la pubblicazione. Così i dubbi sull'autenticità della nota sono immediatamente sorti.

I dubbi sul testamento olografo di Battiato

"Tre righe scritte in stampatello, che non usava mai, l'11 maggio 2018. Sotto, alla quarta riga solo la sua firma per esteso: Franco Battiato (anche se il suo nome di battesimo era Francesco)", riferisce il sito Open, che ha pubblicato il testamento olografo dell'artista morto all'età di 76 anni. Nel maggio del 2018 il cantautore sarebbe stato in grado di scrivere le sue volontà, eppure, pochi mesi prima - era il 21 febbraio 2018 - un neurologo di Catania lo aveva sostanzialmente dichiarato incapace di intendere e volere.

Le onde gravitazionali che liberano Battiato

"Il certificato medico del 21 febbraio 2018 firmato dal neurologo dell’ospedale Garibaldi di Catania, dr Giuseppe Zappalà, sosteneva che Battiato non era ritenuto più in grado di prendere decisioni in piena coscienza", riferisce Open spiegando che, sulla base di quel certificato, il tribunale civile di Catania aveva nominato un amministratore di sostegno per Battiato, cioè suo fratello Michele. Il sito riferisce ancora: "Il neurologo descriveva il cantautore con 'disorientamento temporo-spaziale, marcati disturbi cognitivi e di memoria a breve, peggiorati significativamente negli ultimi mesi', e si descriveva una malattia grave in fasa avanzata, che lo costringeva in gran parte a stare a letto nutrito solo da un sondino". Come avesse potuto scrivere di suo pugno un testamento - seppur di poche righe - rimane dunque un mistero. Nonostante ciò, la nipote di Franco Battiato ha ottenuto la successione di parte dei beni del compositore (una società e la villa di Milo, dove l'artista ha vissuto fino al giorno della sua morte) lo scorso 14 luglio e ora la donna risulta residente a Dubai.

Estratto dell’articolo di Fabiana Giacomotti per ilfoglio.it l'1 ottobre 2023.

Il grande errore sarebbe considerare questo “Raffa in the sky” che […] ha debuttato al Teatro Donizetti di Bergamo come un musical, errore peraltro facilissimo da commettere volendo restringerne la narrazione al suo livello di base e cioè come la storia fantastica di un personaggio extraterrestre, modellato sulla “Barbarella” di Roger Vadim, che salva il mondo da una reazionaria estinzione socio-sessuale incarnandosi nel personaggio di Raffaella Carrà.

A quest’opera […] non manca alcuna delle grandi hit di Raffaella che tutt’oggi accompagnano feste, pride e memorie collettive; perfino il protagonista si chiama Luca come in un recente cartoon sui turbamenti di un ragazzino e come il titolo della celeberrima canzone che, dicono le leggende, fosse stata ispirata dal più famoso dei costumisti che guidarono la Carrà nel percorso di affermazione del suo personaggio mitologico, Luca Sabatelli […] 

Dunque, l’opera che non è un musical. Il direttore del Donizetti Opera Festival Francesco Micheli, da cui nasce l’idea, e il giovane Lamberto Curtoni, ottimo violoncellista alla sua prima prova compositiva, hanno lavorato nella piena libertà del post-moderno […], dunque senza dimenticare la tradizione operistica del sette-ottocento che riprendeva, scomponeva e ri-orchestrava le hit del momento, vedi Giuseppe Verdi […].

Da questo esercizio multiforme è nato un adorabile, godibilissimo spettacolo che, anche grazie al libretto di Renata Ciavarino e del “caro modenese” Alberto Mattioli, dramaturg di riferimento di Micheli oltre che brillante critico molto amato anche sul “Foglio”, mette in luce e pure in controluce quale e quanto sia stato l’apporto della Carrà, con quel cognome di battaglia scelto fra i grandi innovatori della pittura novecentesca, nell’evoluzione della società italiana e internazionale. 

Non è solo per via dell’ombelico scoperto, naturalmente, e che peraltro altre showgirl, prime fra tutte le Kessler, avevano sfoggiato. Carrà viveva proprio su un altro pianeta rispetto alla società dei tinelli del 1970, bene ha fatto Mattioli a farne una creatura del pianeta Arkadia. 

“Raffaella Carrà insegnò la gioia del sesso a tutta l’Europa”, scrisse una volta il Guardian, in realtà minimizzandone la figura, visto che la signora, scomparsa nel 2021, scriveva e cantava in cinque lingue ed è idolatrata tuttora anche in Sudamerica.

Deliziosa Chiara Dello Iacovo, la “Raffa in the sky” che sfida la delusione del re Apollo XI sacrificandosi per il bene della razza umana, già vista a Musicultura 2015 e soprattutto, lo scriviamo in onore al pop, nella sezione Nuove Proposte 2016 di Sanremo, e diremmo anche piuttosto coraggiosa la Fondazione Teatro Donizetti per Bergamo-Brescia capitale italiana della Cultura 2023: “E’ la prima volta che una città capitale inserisce nel proprio programma una nuova opera lirica, nella terra che ha inventato questo genere, nel mondo”, osservano, orgogliosi, dal Teatro. 

Su questo punto magari si potrebbe discutere. E’ però vero che in “Raffa in the Sky”, in programma fino all’8 ottobre ma siamo pronti a scommettere di prossima ripresa un po’ ovunque, affiorano così tante eco, riferimenti così numerosi all’”alto” e al presunto “basso” della musica che, forse, un genere nuovo è appena nato. “Per il postmoderno”, dice Boccadoro, “la storia non esiste. La storia anzi è un eterno presente dal quale si può prendere tutto quello che si vuole”.

Due anni senza Raffaella Carrà: 5 aneddoti della sua vita per ricordarla. Massimo Balsamo il 5 Luglio 2023 su Il Giornale.

Scomparsa il 5 luglio del 2021, la regina della televisione italiana è un'icona per diverse generazioni grazie alla sua capacità di scardinare le regole e anticipare i tempi

Tabella dei contenuti

 La libertà

 L’attenzione verso i più sfortunati

 Le hit e i programmi rivoluzionari

 Il successo internazionale

 La nemesi dei perbenisti

Cantante, ballerina, attrice, presentatrice, autrice, soubrette, conduttrice radiofonica: semplicemente Raffaellà Carra. Sono trascorsi esattamente due anni dalla scomparsa della diva della signora italiana, sconfitta dalla malattia, ma la sua eredità accompagna gli italiani pressoché quotidianamente. Le sue canzoni sono attuali più che mai e il suo esempio rappresenta la stella polare per tanti giovani.

La regina della televisione italiana ha scardinato le regole della musica, del piccolo schermo ma anche della società, portando una ventata di freschezza e perché no di trasgressione. Sempre nel segno della professionalità e del merito, ovviamente. A due anni dall'addio, cogliamo l’occasione per ricordare 5 cose che l’hanno resa unica.

La libertà

Popstar, sex symbol ma anche donna libera. Raffaella Carrà si è contraddistinta per la sua straordinaria indipendenza, per il suo rifiuto di diventare il simbolo di una sola categoria. Niente lobby, niente comunità predilette, niente bandierine o stemmi di partito. La stella di Bologna si è conquistata ogni traguardo con il sudore, con il talento, con la professionalità. E non sono mancate le polemiche snob, certo, ma lei non si è fatta intimidire. Fedele a se stessa, sempre.

L’attenzione verso i più sfortunati

Come tutti i veri grandi artisti, Raffaella Carrà ha preferito mantenere la privacy sulla sua vita privata. E molti aneddoti sono stati resi noti solo dopo la sua scomparsa, a testimonianza dei suoi valori. L’artista ha dedicato molto tempo ai più bisognosi, a poveri e dimenticati. Tante e generose donazioni di denaro, ma non solo. La Carrà andava a servire alle mense per gli indigenti nel più totale anonimato. "Voleva conoscerne le storie, guardarli negli occhi, donare sorrisi e speranze. Nessuno, mentre era in vita, lo ha mai saputo", ha recentemente raccontato Luciano Regolo su Famiglia Cristiana.

Le hit e i programmi rivoluzionari

Decine e decine di canzoni di Raffaella Carrà fanno ormai parte del nostro immaginario. Da “Tanti auguri” a “Pedro”, passando per “Ballo ballo” e “Rumore”: hit che hanno fatto cantare e ballare più generazioni. La regina della televisione italiana ha venduto oltre 60 milioni di dischi, vincendo ventidue dischi tra platino e oro, e bisogna aggiungere i tre dischi d’oro postumi. Ma la Carrà ha scritto anche pagine importanti del piccolo schermo con programmi che hanno lasciato il segno: da “Pronto Raffaella?” a “Carramba! Che sorpresa”, l’elenco anche qui è piuttosto lungo.

Il successo internazionale

Raffaella Carrà è stata una popstar internazionale nel vero senso della parola, non come oggi che le artiste pensano di poter sfondare con mezza canzone e qualche mise accattivante. L’artista bolognese ha riscosso grande successo in tutto il mondo, in particolare in Spagna e in America Latina. La versione spagnola di “Festa” ha avuto un boom inimmaginabile, per fare un esempio. Un amore travolgente testimoniato recentemente da Madrid, dove da quasi un anno è possibile visitare Plaza Raffaella Carrà, situata nel quartiere di Malasana, luogo storico della movida.

La nemesi dei perbenisti

Raffaella Carrà è stata un’artista umile e sensibile, il suo viso angelico è entrato nel cuore degli italiani, così come la sua musica e i suoi programmi. Ma la voce di “Forte forte forte” è stata anche la nemesi dei perbenisti. Incoronata sex symbol dal Guardian nel 2020, la Carrà è stata definita “icona culturale che ha insegnato all’Europa le gioie del sesso”. Dal malizioso “Tuca Tuca” a “Com’è bello far l’amore da Trieste in giù”, ha sfidato gli alfieri della correttezza e della iper-sensibilità, regalando qualcosa di nuovo agli italiani.

La ricorrenza. Raffaella Carrà oggi avrebbe 80 anni: auguri e iniziative in tutto il mondo. Oggi la cantante e iconica show girl avrebbe compiuto 80 anni. Tante le iniziative che la celebrano, in tutto il mondo: dall’omaggio delle Teche Rai, al film ed all’opera lirica in uscita, fino alla gigantografia che oggi impreziosisce Times Square. Redazione su Il Riformista il 18 Giugno 2023 

Bellissima, biondissima e amatissima in ogni luogo: Raffaella Maria Roberta Pelloni – in arte Raffaella Carrà – se fosse ancora con noi oggi compirebbe 80 anni, essendo nata il 18 giugno 1943, a Bologna.

Impossibile non ricordare questa artista straordinaria, icona musicale e non solo. Raffaella Carrà resta una delle figure più celebri del mondo dello spettacolo italiano ma non solo: è noto quanto fosse conosciuta e amata in Spagna e in tutto il Sud America.

Show girl completa, a lei si deve lo svecchiamento della tv italiana negli anni ’70: celebri le sue mise a ombelico scoperto, di Raffaella Carrà si può dire che abbia dettato la linea alle colleghe venute dopo di lei.

Se la malattia non l’avesse strappata da noi, due anni fa, oggi compirebbe questo traguardo: non è qui, ma fa ancora “Rumore”. E, difatti, stanno prendendo il via numerose iniziative per celebrarla. Ecco cosa accadrà in giro per il mondo per ricordarla.

Si parte dalla gigantografia in Times Square a New York: la Raffa nazionale è la prima artista scelta come ‘Ambassador per Spotify Equal’ per il suo impegni contro le discriminazioni di genere, sicché la sua iconica immagine appare lungo la fiancata di un grattacielo nella Grande Mela. Il caschetto biondo impreziosisce Times Square, poiché Raffaella Carrà è stata (ed è tuttora) notoriamente madrina e paladina dei diritti della comunità LGBTQ+, in quanto con la sua discografia ha spesso toccato temi di stretta attualità. Luca, ad esempio, è stata tra le prime canzoni italiane a raccontare apertamente il tema dell’amore omosessuale. Il brano è stato scelto da Spotify come titolo di testa della playlist ‘Spotify Equal Italia’ per tutto il mese di giugno.

Nello storico Teatro Capitol sulla Gran Via di Madrid il prossimo 2 novembre, inoltre, debutterà il musical a lei dedicato. Nel cast, star come Lydia Fairen, Natalia Millan, Thomas Naim, Dani Tatai, Pepa Lucas e Chez Gutzman. Il titolo sarà “Bailo bailo”.

In arrivo in anteprima nelle sale dal 6 al 12 luglio, il film, diretto da Daniele Lucchetti: si intitola solo “Raffa”, vede la collaborazione di Gianni Boncompagni, è un titolo originale Disney+ prodotto da Fremantle e darà l’opportunità esclusiva di ripercorrere sul grande schermo, attraverso le voci e il racconto di chi l’ha conosciuta, con preziose immagini di repertorio, la vita, il carattere e il percorso artistico della grande artista.

Il prossimo 24 giugno a Milano Raffaella Carrà sarà celebrata dal dj Protopapa alla console con uno show speciale pensato per il Milano Pride 202.

Tre gli album esclusivi in uscita oggi, per celebrarne il compleanno. Si tratta di  ‘Fiesta (Italian Edition)’, ‘Mi spendo tutto’, ‘Raffaella (1988)’. Ancora poche copie disponibili dell’esclusivo cofanetto ‘Raffaella Carrà – Gli anni Rca – I singoli 1970-1971’ (Sony Music), un box in tiratura limitata e numerata a 500 copie, con all’interno 5 vinili 7” 45 giri, per la prima volta colorati e con copertine fedelmente riprodotte.

‘Raffaella icona dell’arte‘ sarà, invece, il titolo della mostra che si terrà a Bari, fino al prossimo autunno: dal 23 giugno al 3 settembre, la Carrà sbarca al Museo Civico,con opere grafiche di artisti provenienti da tutto il mondo.

La Rai, con le sue Teche, omaggia Raffa: a luglio Flavio Insinna le dedicherà un’intera puntata del suo nuovo programma ‘Teche Show’, mixando interviste e spezzoni originali a filmati d’epoca.

“Raffa in the sky“, infine, è il titolo dell’opera lirica a lei dedicata: commissionata dal Teatro Donizetti (Bergamo) per il 2023, da oggi è possibile acquistarne i biglierri in prevendita.

C’è dunque, solo l’imbarazzo della scelta, per celebrare degnamente il compleanno della celebre show girl.

Estratto dell’articolo di Simona Marchetti per corriere.it il 15 Giugno 2023.

Il prossimo 18 giugno avrebbe spento 80 candeline, ma un tumore polmonare se l’è portata via il 5 luglio del 2021. A quasi due anni dalla morte - e a pochi giorni da quel compleanno-traguardo che non ha potuto festeggiare - «Famiglia Cristiana» ha tratteggiato un ritratto speciale di Raffaella Carrà, svelando alcuni dettagli inediti della sua vita. 

«C’era un altro amore che Raffaella coltivava in silenzio: poveri e dimenticati, verso i quali non si limitava agli aiuti in denaro. Andava, nel più totale anonimato, a servire alle mense per gli indigenti, voleva conoscerne le storie, guardarli negli occhi, donare sorrisi e speranze. Nessuno, mentre era in vita, lo ha mai saputo», racconta infatti Luciano Regolo, condirettore del settimanale.

Personaggio istrionico e trasformista (...) con un profondo legame spirituale con Padre Pio, di cui nel 2002 celebrò la canonizzazione con un programma su Rai Uno che ebbe un enorme successo: questa era la Raffa nazionale, nel ricordo di Fra Stefano Campanella, direttore di Tele Radio Padre Pio. 

«Dopo quella serata Raffaella ha continuato a frequentare, da semplice pellegrina, la città garganica», rivela il giornalista vaticanista sempre al settimanale paolino. Il male era però in agguato e un giorno a uno dei frati arrivò una drammatica telefonata di Sergio Japino. «Raffaella sta molto male, non ha neppure la forza di alzarsi dal letto - ricorda Fra Campanella - e chiede se puoi venire a celebrare la Messa a casa sua. La disponibilità fu immediata, ma l’evoluzione del tumore polmonare fu più veloce. Spegnendosi, però, la showgirl riuscì a esprimere il desiderio che le sue ceneri, prima della tumulazione, fossero portate a San Giovanni Rotondo». Come è poi avvenuto.

Raffaella Carrà avrebbe 80 anni: cosa significa «carrambata», perché è un’icona gay, 20 (+2) segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 18 Giugno 2023

Una raccolta di aneddoti e curiosità, dalla A alla Z, per ricordare la conduttrice e showgirl nata a Bologna il 18 giugno 1943

A di A far l'amore comincia tu

Ha incarnato (e cantato) la libertà sotto ogni punto di vista, compiendo una vera e propria rivoluzione nella televisione italiana. Parliamo della grande Raffaella Carrà, che ci ha lasciati il 5 luglio 2021. Nel giorno in cui avrebbe compiuto 80 anni (era nata a Bologna il 18 giugno 1943) la ricordiamo con una raccolta di aneddoti dalla A alla Z. Partendo da una delle sue canzoni più famose: «A far l'amore comincia tu». Pubblicata per la prima volta nel 1976 (testo di Daniele Pace, musica di Franco Bracardi) è stato tradotta in ben 10 lingue.

B di Boncompagni (Gianni)

Raffaella Carrà e Gianni Boncompagni hanno vissuto 11 anni d’amore. Si sono conosciuti nel 1968, in piazza di Spagna a Roma, grazie ad un’intervista decisamente fuori dal comune: «Lui disse: “Metteremo un divano a metà della scalinata di Trinità dei Monti - ha raccontato nel 2012 la showgirl al Corriere - ma bisogna girare all’alba, alle sei del mattino, verrà fortissima”. Mi misi a ridere, accettai». La storia tra loro iniziò un anno dopo, «con calma», anche se la madre di lei non vedeva di buon occhio la relazione: Boncompagni, oltre ad essere era più grande di nove anni, era separato e per di più aveva già tre figlie. «Mia madre voleva io sposassi un medico o un architetto, ma che gli raccontavo?».

C di Carrambata

Il suo programma di successo Carràmba! Che sorpresa (1995-97 e 2002) ha ispirato un neologismo: carrambata. Il termine, entrato nel linguaggio comune e registrato da tutti i maggiori dizionari, si usa per indicare un «incontro inatteso con una o più persone con le quali si erano persi i contatti» (cosa che succedeva in trasmissione).

D di Danza

Ha iniziato molto presto a danzare, aveva soltanto 3 anni. A 8 si trasferì a Roma per proseguire gli studi presso l'Accademia nazionale di Danza, fondata dalla ballerina russa Jia Ruskaja. Lasciò l’Accademia a 14 anni e fece il provino per essere ammessa al Centro sperimentale di cinematografia (si diplomò nel 1960).

E di Eurovision Song Contest

Il nome di Raffaella Carrà è strettamente legato ad Eurovision Song Contest. La conduttrice, che ha sempre creduto nella manifestazione, per riaccendere i riflettori sull’evento (e favorire il ritorno dell’Italia in gara) nel 2008 ha ospitato a Carramba! Che fortuna alcuni artisti partecipanti tra cui il vincitore dell’edizione di quell’anno, il cantante russo Dima Bilan. Quando finalmente l’Italia nel 2011 è stata nuovamente ammessa ad ESC è stata lei a fare da spokesperson per il nostro Paese.

F di Film

Dal 6 al 12 luglio arriverà in anteprima nelle sale «Raffa», il film Disney+ prodotto da Fremantle diretto da Daniele Luchetti e scritto da Cristiana Farina con Carlo Altinier, Barbara Boncompagni, Salvatore Coppolino, Salvo Guercio. Nella pellicola si ripercorrerà attraverso le voci e il racconto di chi l’ha conosciuta, con l’aggiunta di preziose immagini di repertorio, la vita, il carattere e il percorso artistico della conduttrice e showgirl, un personaggio straordinario che ha saputo entrare nell’immaginario collettivo con la sua energia dirompente.

G di Gambardella (Jep)

La scena simbolo di «La grande bellezza» (2013), film premio Oscar di Paolo Sorrentino, è la festa a cui partecipa Jep Gambardella (interpretato da Toni Servillo). Tutti i presenti ballano sulle note di «Far l'amore» di Bob Sinclar, remix del brano «A far l'amore comincia tu» portato al successo da Raffaella Carrà nel 1976.

H di Hepburn (Audrey)

«Mamma andava pazza per Raffaella Carrà»: in un’intervista a La vita in diretta di qualche anno fa (e nel suo libro «Audrey mia madre») Luca Dotti, figlio di Audrey Hepburn e del suo secondo marito Andrea Dotti, ha confermato la passione dell’attrice per la conduttrice italiana. «Le piaceva perché lei avrebbe voluto fare la ballerina. Sapeva il lavoro che c’era dietro ad ogni performance».

I di Infanzia

Ha trascorso l’infanzia a Bellaria. Quando i suoi genitori si sono separati Raffaella Carrà è stata cresciuta da sua mamma e da nonna Andreina. «Mi hanno cresciuto due donne. Tre, contando la nurse inglese: severissima. Mia mamma Angela Iris fu una delle prime a separarsi nel dopoguerra. Non si risposò più. Nonna Andreina era rimasta vedova di un poliziotto originario di Caltanissetta che si chiamava Dell’Utri. Per addormentarmi mi cantava le arie d’opera, piene di disgrazie. E io: “Nonna, cantami qualcosa di allegro, diobono...”».

J di Japino (Sergio)

Sul set del programma Millemilioni (1981) Raffaella incontrò per la prima volta l’allora assistente coreografo di Gino Landi, Sergio Japino. «Facevo con lei un romantico passo a due per insegnarlo a un altro. Accadde lì: ci siamo guardati negli occhi ed è scattata la scintilla», ha raccontato lui qualche anno fa in una (rara) intervista, concessa a TV Sorrisi e Canzoni. La storia d’amore con Sergio Japino è durata 17 anni. Nonostante la separazione negli anni successivi lui e Raffaella hanno continuato a lavorare insieme.

L di LGBTQ+

Raffaella Carrà era (ed è tuttora) un’icona per la comunità LGBTQ+ (è stata anche madrina del World Pride 2017). Perché? «L’ho chiesto a un amico gay, direttore di una rivista in lingua spagnola: “Que te gusta de mi persona?” - ha detto nel 2017 ad Aldo Cazzullo -. Lui mi ha guardato come se fossi una torta al cioccolato: “Todo”. La verità è che morirò senza saperlo. Sulla tomba lascerò scritto: “Perché sono piaciuta tanto ai gay?”».

M di Maradona

È stata molto amica di Diego Armando Maradona. Di lui Raffaella Carrà ha detto, poche settimane dopo la scomparsa del calciatore (il 25 novembre 2020): «Io che non amo fare i video per gli amici, avevo fatto un’eccezione e ho girato un breve filmato per i suoi sessant’anni. Gliel’hanno mandato e mi hanno detto che si è commosso nel vederlo. Eravamo davvero amici. Era un mascalzone, ma generosissimo, capace di slanci incredibili, nonostante la sua vita pericolosa, tra droga e alcol. Una sera del 2001 è venuto a cena a casa mia, a Roma, era con Minà. Io dovevo presentare Sanremo e Diego mi disse: “Voglio fare Sanremo con te”. Gli ho risposto: “Diego, tu in questo momento sei stato fermato all’aeroporto perché hai problemi con l’Agenzia delle Entrate in Italia, e vuoi fare Sanremo? Io sarei felice, per me sarebbe un colpaccio, ma lo dico per il tuo bene: non guadagni una lira, ti prenderà tutto lo Stato e la stampa ti massacrerà”. E lui come un bambino ha replicato: “Davvero? Ma non è stata colpa mia!”. È andato via come un cane bastonato. Io davvero lo feci per lui: sarebbe stato certo meglio avere Maradona che Ceccherini. Ora purtroppo partirà la telenovela dell’eredità. Ma dico io, benedetto uomo, non poteva usare il condom? Continuano a venire fuori figli illegittimi. Che cavallo pazzo Diego, ma di razza. Pura».

N di Nome

La showgirl - all’anagrafe Raffaella Maria Roberta Pelloni - ha adottato il suo nome d’arte nella prima metà degli anni Sessanta. Il nuovo cognome le fu suggerito dal regista Dante Guardamagna, appassionato d’arte (Raffaella come Raffaello Sanzio, Carrà come il pittore Carlo Carrà).

14 di 23

O di Ombelico

Nel 1969/70, quando apparve in tv al fianco di Corrado in Canzonissima con il suo ombelico scoperto, Raffaella Carrà provocò grande scandalo. «Il mio ombelico nudo - ha raccontato la conduttrice nel 2018 - veniva fuori da un completo studiato da un costumista della Rai. Ora non ne ricordo il nome. Ma le ragazze d'estate già giravano così, con la pancia scoperta e i pantaloni lunghi. Io non mi sono fatta problemi a farlo vedere in tv. Ero libera. Anche i “colpi di testa” erano il segno della libertà dalla lacca, dalle sovrastrutture, dalla rigidità. Io ero così, senza costrizioni».

P di Porto Santo Stefano

Raffaella Carrà era molto legata a Monte Argentario, in particolare al borgo di Porto Santo Stefano. Qui riposano le sue ceneri, nella chiesa del cimitero comunale, e qui nel 2022 è stato intitolato alla conduttrice un parco giochi per bambini.

Q di Quiz

Quanti erano i fagioli nel vaso di Pronto, Raffaella? (prima trasmissione Rai collocata nella fascia del mezzogiorno)? La risposta esatta: 10.944.

R di Rumore

Tra i successi più popolari di Raffaella Carrà c’è sicuramente «Rumore» (1974). La canzone, scritta da Andrea Lo Vecchio su musica di Guido Maria Ferilli e arrangiamenti di Shel Shapiro, ha venduto oltre dieci milioni di copie nel mondo nelle sue versioni in inglese, spagnolo e francese. È stata uno dei primi esempi di disco music all'italiana.

S di Sinatra (Frank)

Nel 2006, intervistata da Paolo Bonolis a Il senso della vita, ha rivelato un aneddoto risalente a quando aveva 22 anni ovvero il suo incontro con Frank Sinatra: «Ci siamo conosciuti alla stazione Tiburtina mente giravamo "Il colonnello Von Ryan". Aveva voglia di sposarsi: ha sposato la mia vicina di casa Mia Farrow. Aveva voglia d'innamorarsi, io no. Non volevo essere la fidanzata del capo».

T di Tuca Tuca

A proposito del Tuca Tuca, il suo ballo più famoso (proposto in televisione per la prima volta nel 1971 a Canzonissima sollevò un polverone), Raffaella Carrà ha raccontato a Sette: «Lo ballai la prima volta con Enzo Paolo Turchi, e l’Osservatore Romano fece pressioni in Rai per stopparlo. Riuscii a riportarlo in tv solo grazie ad Alberto Sordi, a cui nessuno diceva no. Io mi vestivo così, pantaloni e top corto, senza nessun secondo fine. Ma evidentemente, senza rendermene conto, stavo rompendo gli schemi. Forse perché ballavo in modo libero, forte, comunicavo energia, non una sensualità eccessiva. E dunque è stato più facile far passare un messaggio di libertà. Mentre ballavo non pensavo: guardate come sono brava. Pensavo: dai, venite a far casino con me».

U di Umiltà

Una professionista dello spettacolo sensibile, speciale e umile. Così Raffaella Carrà è stata ritratta a quasi due anni dalla morte da Famiglia Cristiana. «C’era un altro amore che Raffaella coltivava in silenzio: poveri e dimenticati, verso i quali non si limitava agli aiuti in denaro - ha raccontato Luciano Regolo, condirettore del settimanale -. Andava, nel più totale anonimato, a servire alle mense per gli indigenti, voleva conoscerne le storie, guardarli negli occhi, donare sorrisi e speranze. Nessuno, mentre era in vita, lo ha mai saputo».

V di Vergottini

Celeste Vergottini, il parrucchiere bergamasco ideatore dell’iconico caschetto. «Ero castana e riccia, i capelli erano un complesso. Poi arrivò Vergottini, me li tagliò e me li stirò», ha raccontato anni fa Raffaella in un’intervista.

Z di Zeppe

Per rendere meno evidente ai telespettatori la differenza di altezza tra Raffaella e Mina, conduttrici di «Milleluci» nel 1974, il costumista Corrado Colabucci escogitò uno stratagemma. Dato che entrambe volevano indossare scarpe con la zeppa, fece indossare a Mina un paio di scarpe più alto durante le prove e uno più basso durante la diretta (a sua insaputa). Funzionò.

Martina Corgnati, figlia di Milva: «Era forte e insicura, mi amava ma avrebbe preferito avere un maschio». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 30 agosto 2023

«Non mi parlò mai per più di 15 minuti. Bertinotti la attaccò e lei si sentì tradita». Il regista e i fan all’estero: «Strehler la trattava come una bimba e le cambiò il look. In Germania la aspettavano fuori dai concerti come se fosse Elton John»

Milva era la carnalità aggressiva di Milord , e l’ebbrezza della canzone popolare. La donna che (in scena) visse due volte: da Sanremo a Strehler. A sua figlia Martina Corgnati, affermata storica dell’Arte e docente a Brera, diciamo che la sua parabola ricorda quella di Silvana Mangano, da Riso Amaro a Visconti. «Sì — risponde — ma con una differenza. In Milva il cambiamento non avvenne poi, ma durante: La Filanda è del 1970, cantava Brecht già nel ’67; sei anni dopo fece L’Opera da tre soldi e contemporaneamente interpretava una prostituta in un musical con Gino Bramieri».

Chi era Milva?

«Una madre severa che mi ha insegnato che una donna deve badare a sé stessa, essere indipendente; una personalità forte ma insicura, con un disperato bisogno di conferme. Non è mai mancata l’unità e la solidarietà. E mi amava. Era intuitiva, empatica, però era subito altrove, non riusciva a parlarmi per più di 15 minuti consecutivi. La separazione tra lei e mio padre Maurizio, regista, fu dura. Lei aveva 29 anni, lui 51 e io 5 anni. Sono cresciuta con mia nonna materna, Noemi, in una villona orribile a Leinì, vicino a Torino. Milva veniva quando poteva. Era presa dalla sua vita professionale. Viveva a Milano con il compagno, l’attore Mario Piave, che amava i bambini. In cucina era negata, le piaceva mangiare bene ma una volta cimentandosi nella carbonara chiese: nell’acqua della pasta l’uovo va col guscio? Diciamo che era in grado di scaldare piatti pronti senza bruciarli».

La famiglia d’origine?

«Era umile, sua madre era sarta, suo padre vendeva il pesce al mercato generale, e quando anni dopo il camion si rovesciò il cruccio di Milva fu di ricomprargliene un altro. La famiglia di mio padre, che fu partigiano, uomo meraviglioso, era di avvocati e notai».

È vero che sua madre ebbe un aborto?

«Sì, prima di concepire me, a 22 anni. Lei voleva il figlio, mio padre riteneva che non fosse il caso. Si prestò a fare una cosa che non voleva e non sentiva. La cosa fu ancora peggiore perché sarebbe stato figlio dell’amore. L’ho scritto nel libro appena uscito, Milva. L’ultima diva, un’autobiografia che è uno psicodramma perché è in terza persona, come se io prendessi il suo posto. Non ho voluto fare pettegolezzi e aggiungere il piccante a certe cronache impietose e scandalistiche dell’epoca. Però la racconto in maniera autentica, anche in episodi delicati, per esempio è stata felice di avere una figlia ma forse avrebbe preferito un figlio maschio, come tutti negli Anni ‘60».

Capitolo Alexanderplatz. Con Franco Battiato ci fu un sodalizio speciale.

«Era un tipo di uomo mai conosciuto prima, colto, anticonformista, con una formazione tutta sua, orientale, e un grande equilibrio interiore. Mia madre, che era molto credente, trovò in Battiato uno più vicino di lei a Dio. Anch’io diventai amica di Franco, mi diede una particina nel suo film Perduto amor, andammo a Mosca e per poco non ci arrestarono, per entrare al Bolshoi ci rivolgemmo ai bagarini, che lì sono fuorilegge. I ricordi su Battiato mi portano ai successi in Germania».

La Germania amava Milva: Milva amava la Germania?

«Flirtava con l’idea di trasferirvisi, ma non ci andò mai in vacanza. Restava tutto il tempo necessario per i concerti. La chiamavano Die Grosse Dame. Riempiva palazzetti da 10 mila persone, si metteva il giubbotto nero di pelle, la aspettavano all’uscita come se fosse Elton John. In tanti erano convinti che fosse tedesca. In realtà imparava a memoria i testi delle canzoni ma non parlava la lingua. Milva la cultura se la costruì con la tenacia, aveva un complesso di inferiorità verso il mondo accademico».

L’amicizia con Piazzolla?

«Hanno lavorato tanto insieme, lui era caustico, Astor faceva scherzi pesanti, era proprio l’hombre vertical argentino, una volta usò il rossetto di Milva per scrivere sullo specchio del bagno che un suo musicista era gay. Una cosa impensabile oggi».

L’incontro con Strehler?

«Regista immenso, negato a recitare. Quando un attore era troppo protagonista, in prova, si metteva davanti perché voleva recitare lui. A Milva cambiò il look, capelli sciolti e d’un rosso vivo, la trattava come una bambina, la chiamava Milvina, era il rapporto tra il maestro e l’allieva. In punto di morte, dopo essere stato assolto dall’accusa di Mani Pulite per uso illecito dei finanziamenti al Piccolo, in una serata celebrativa lui le disse: ma perché noi due non abbiamo mai avuto una storia?».

Anche sua madre ebbe un guaio fiscale.

«Il polverone lo sollevò un funzionario svizzero, fu un’inezia chiarita in poco tempo, ma ai media la notizia arrivò prima dell’accertamento e spararono titoli cubitali. Fausto Bertinotti disse: con i soldi sottratti da Milva al fisco si potevano aprire degli asili nido; lei era con lui, comunista, ai cortei del 25 aprile, sfilavano insieme. Lo visse come un tradimento. Per tanti anni ebbe la tessera del Pd, fu come se i tuoi amici ti sputassero addosso. Non osò più uscire di casa fino a quando tutto si chiarì. Milva ha sempre guadagnato onestamente e pagato le tasse».

Era impegnata politicamente a sinistra e amava il lusso e le pellicce.

«È così, fa parte della sua discontinuità. Ha vissuto tante vite: ragazzina povera del Delta del Po, signora borghese a Torino, la rossa della libertà politica, la superstar internazionale come forse nessun’altra in Italia... Quando si comprò il suo primo diamante non stava nella pelle. Era ossessionata dal denaro, contava e ricontava ogni compenso, ogni pagamento avvenuto, scriveva quanto guadagnava».

La pantera di Goro era tormentata.

«Non riusciva a stare da sola, mio padre fu il suo mentore».

A Sanremo cantò Sono felice: lo fu mai?

«Fu molto amata. Era generosa. Ed era tutta alta e bassi, aveva degli aspetti depressivi ma rifiutò di andare in analisi, non era il tipo, diceva datemi il Prozac e finiva lì. Negli ultimi anni fu dilaniata dai sensi di colpa: sia verso mio padre, lasciato per Mario Piave (una passione che finì), sia per aver privato me di un’infanzia con i genitori».

Come artista, gli ultimi anni furono complicati.

«Fece un bel disco con Giorgio Faletti, che era popolarissimo come scrittore di gialli, ma non vendette, capì che non era più il suo tempo. Ebbe una malattia neurologica degenerativa, dal 2007 fino alla morte, nel ’21. Anni che non auguro a nessuno. Aveva perso il controllo ma fino all’ultimo mi riconobbe. L’ultima partecipazione pubblica fu a una kermesse per aiutare le vittime del terremoto in Emilia Romagna, nel 2010. Ho donato all’università di Bologna il suo archivio di spartiti, manoscritti, dischi, foto, premi e onorificenze. Ascolto sempre i suoi dischi».

A lei piace più quando era popolare o sofisticata?

«Mi piace Lili Marleen, non perché sia più colta, è il mio gusto».

Estratto dell'articolo di Roberta Scorranese per corriere.it il 23 aprile 2023.

Martina Corgnati, due anni fa a Milano, moriva Milva. Sua madre. Che mamma è stata per lei? 

«Mi ha insegnato il senso di responsabilità, specie sul lavoro e, soprattutto, che cosa vuol dire essere un capofamiglia. È la prima volta che lo dico: se nella vita ho sempre fatto scelte libere e in piena autonomia, lo devo a lei». 

A Maria Ilva Biolcati, che capofamiglia lo è stata di certo: nel suo libro «L’ultima diva - Autobiografia di mia madre» (La nave di Teseo), lei racconta che sin dall’inizio con il suo lavoro di interprete musicale ha letteralmente mantenuto la propria famiglia. 

«Pensiamo alle sue origini, non povere ma certamente popolari [...] La carriera di Milva decolla quando partecipa al concorso Voci Nuove, nel 1959. Ha sempre sentito il peso di una famiglia da aiutare. E, soprattutto, ha lavorato tanto». 

[…] nel libro, con schietta chiarezza, lei parla di interventi alle corde vocali, cortisone, in seguito psicofarmaci. 

«È vero. Ho voluto ricostruire fedelmente la storia di Milva, traumi compresi. Ma è una situazione che accomuna molti artisti: preservare la voce e anche un’integrità psicologica in una vita frenetica non è facile. Lei poi “grattava” le corde vocali, metteva a dura prova la voce. Era bravissima, però. Eseguiva brani molto difficili con naturalezza». 

Nel racconto di sua madre c’è anche un aborto. Forse suggerito dall’allora marito, dunque suo padre. Che trauma è stato per Milva? 

«Un dolore profondo, non solo perché si era in un’epoca in cui questa pratica era un reato, oltre che un peccato. […]».  

La sua popolarità. Tra gli estimatori di Milva troviamo reali e capi di Stato. «Andava a pranzo con i reali d’Olanda, con Pietro Nenni, con Helmut Kohl, con Willy Brandt, e poi con Pertini e Andreotti. La sua era una popolarità trasversale, che passava dagli appassionati di Brecht e Strehler ai patiti della tv di Bramieri fino a Garinei e Giovannini. […]». 

[…] La rivalità con Mina o con Ornella Vanoni, l’amore con Strehler: quante bugie sono state dette su sua madre? 

«Guardi, io la Vanoni non l’ho mai incontrata. E penso che nemmeno Milva l’abbia mai frequentata. Con Strehler non ci fu amore sensuale, ma un forte legame intellettuale. Però è vero che mia madre, a differenza di Mina e di Vanoni, non aveva una famiglia alle spalle che la sostenesse, lo ripeteva spesso». 

[…] Questo libro è l’occasione per fare chiarezza sugli ultimi anni di Milva, sulla malattia che, come dice lei, «l’ha sottratta a sé stessa». 

«La demenza vascolare, malattia neurovegetativa che è iniziata nel 2007, facendole perdere sé stessa e sottraendola a noi. Io mi sono sempre rifiutata di dirlo in pubblico per proteggerla. […]». 

Lei ha voluto una Fondazione di arte e ricerca, Insula Felix, anche per coltivare l’eredità intellettuale e culturale di sua madre. Che ancora oggi ha estimatori. 

«Le racconto questo: ancora oggi c’è un francese che le scrive lettere d’amore. L’ultima è arrivata la settimana scorsa: le dice “ti amo” come se non fosse mai scomparsa».

Il genio ruvido di Mino Raiola: jeans, camicie hawaiane e tanto oro (con il calcio). Maria Luisa Agnese su Il Corriere della Sera il 22 aprile 2023.

Mino (da Nocera Inferiore) imparò a trattare nel ristorante familiare (in Olanda). Da Ibra a Donnarumma, ricchi grazie a lui. Antipatico ai più, usò l’aspetto non conforme come atout nelle trattative. Sapeva che poteva diventare un vantaggio

All’incontro Zlatan Ibrahimovic arriva sulla sua Porsche con il suo metro e 90 di vestiti firmati, Mino Raiola è fuori dall’hotel che lo aspetta: piccolo, tozzo, in jeans strappati (ma non del genere glamour ), e maglietta: siamo agli inizi del 2000, Zlatan è all’Ajax da qualche tempo ed è inquieto perché non sta funzionando. Per questo si è rivolto a Raiola, consigliato da un amico che lo avvisa: non stupirti quando lo incontri, sembra il sosia di uno dei Soprano. Raiola non si perde in convenevoli e snocciola una serie di numeri, che Zlatan racconta così: Shevchenko 25 partite e 23 gol; Inzaghi 27 partite 25 gol; Vieri 24 partite 23 gol, tu 5 gol in 21 partite. «Siamo pratici: se vuoi cambiare, vendi gli orologi e le auto di lusso e comincia a fare gol, ad allenarti tre volte più duramente».

Zlatan farà così e da allora, spinto dal genio sbruffone di Mino, cambierà sei squadre diventando l’Ibra milionario. Ma anche per Raiola parte da quel leggendario incontro la scalata nel mercato del calcio che ha rivoluzionato nella concezione e nei modi, trattando e curando tutto personalmente (anche le grane dei tanti traslochi, a Bryan Roy trapiantato a Foggia ha dipinto le pareti di casa), suscitando odi e invidie. Ma con i suoi metodi spicci, facendo schizzare i suoi protetti da un club all’altro, ha reso ricchi oltre che sé stesso, gente come Nedved, Pogba, Haaland, Balotelli e un giovanissimo Donnarumma.

Ce l’ha fatta perché la sua scuola è stato il ristorante di famiglia ad Haarlem, due passi da Amsterdam, dove il padre meccanico si era trasferito con la moglie da Nocera Inferiore in cerca di fortuna. Lì, al ristorante Napoli, fa tutti i mestieri e impara sul campo 6 lingue più un po’ di portoghese ma soprattutto la comunicazione diretta. «Ho cominciato a lavorare come intermediatore perché venivano a mangiare clienti olandesi che non capivano il modo di fare degli italiani. Commercianti che avevano ordinato merce che non arrivava mai, per esempio. Mi dicevano: Mino, pensaci tu».

Antipatico ai più e guardato con sospetto e sufficienza, usò l’aspetto non conforme come atout nelle trattative: sapeva che jeans, camicie hawaiane e infradito potevano diventare un vantaggio. «Scusatemi ancora per come vado in giro conciato» biascicava sornione incontrando qualche sguardo sbalordito, come quello di Evelina Christillin che lo definì «un simpaticissimo incrocio fra Peter Clemenza, Mario Merola e il senatore De Gregorio». Per il resto non si trattava certo male: casa a Montecarlo, cene immense e pantagrueliche. E quando si era invaghito della villa di Al Capone in Florida se l’era subito comprata: 9 milioni di euro. Avanzava inesorabile, travolgente e feroce nelle trattative: «Mi alzo ogni mattina alle 7, viaggio 300 giorni all’anno, lavoro 18 ore al giorno come mio padre e non sono mai a casa», ha detto a Gaia Piccardi del Corriere.

Anche la morte ha tentato di prenderla di petto con quella grinta fatta di consapevolezza, arroganza, determinazione. Ma non ce l’ha fatta, è morto a Milano a 54 anni, il 30 aprile 2022: due giorni prima si era già diffusa la notizia e lui su Twitter smentiva a suo modo: «Stato di salute attuale per chi se lo chiede: incazzato».

Marco Giusti per Dagospia l’11 aprile 2023.

 Nell’estate del 2018, sul volo di ritorno Bologna – Palermo, dopo aver assistito alla proiezione di “Blow-Up” di Michelangelo Antonioni e del documentario “La mia Battaglia” di Franco Maresco dedicato a Letizia Battaglia, per una volta, esausti dopo il lungo parlare di mafia e mafiosi, Franco Maresco e Letizia Battaglia discutono di cinema. La loro è un’amicizia che dura da 50 anni.

 Il documentario che hanno presentato, esattamente come il libro appena pubblicato per Il saggiatore, intitolato appunto “La mia Battaglia – Conversazioni con Letizia Battaglia”, è per Franco Maresco “un atto dovuto”. Cioè “Un piccolo modo di ringraziare Letizia per il grande affetto che ha sempre mostrato nei miei confronti”. Ma non è che la loro amicizia si tramutasse magicamente in un voler andare d’accordo. Anzi. Lo scontro andava avanti da sempre.

 Anche perché partivano da premesse diverse. Siciliano triste e disperato da sempre, Franco, l’ideatore assieme a Daniel Ciprì della mitica Cinico Tv. Energetica e positiva da sempre, la grande fotografa, Letizia. “Io non voglio essere disfattista come te. Spero sempre che ce la faremo. Spero sennò muoio. Muoio se non questa speranza che qualcosa possa cambiare”. Uno feroce avversario e polemico su Orlando, l’altra agguerrita paladina del sindaco. “Fare una critica a Orlando, per Letizia, significa tradirlo. E tradire anche se stessa”.

Ma Franco non poteva fare a meno della carica emotiva dell’amica, della sua vitalità. Al punto da averla avuta a fianco nei suoi ultimi film come una sorta di occhio vitale e energetico. Qualcosa con cui era impossibile non confrontarsi. “Mi trasmetteva la sua energia, una forza incredibile per una ottantenne con tutto il peso dell’esperienza e del dolore che si portava dietro”. Ma, per una volta, non parlano tanto di Palermo, di siciliani, di mafia, di morti ammazzati. Su quel volo di ritorno dal Continente parlano di cinema. Anche se è spesso solo un pretesto per parlare d’altro.

Primo film visto? Biancaneve e i sette nani. “La prima volta che lo vidi fu al Cinema Olimpia. Era una sala deliziosa di Palermo che si trovava in Via Libertà. Debbo dirti che mi turbò molto. (..) C’era anche la paura della strega cattiva. Ma il vero turbamento me lo dava la Regina, il fatto che fosse bella ma anche malvagia. C’era qualcosa che mi eccitava in quel personaggio, intendo proprio in senso erotico. Anche la voce mi impressionava. (..) Dicevo di tifare per Biancaneve, ma nel mio inconscio – diciamo la mia parte oscura – parteggiavo per la Regina. Biancaneve e il Principe sono stucchevoli, melensi, la loro storia d’amore è di una noia letale. Già allora mi sentivo inquieta, insofferente verso le regole, la famiglia, le convenzioni della società…”.

Altri film importanti della giovinezza? “Via col vento visto d’estate in un’arena. Durante la proiezione, c’erano alcuni gechi che invadevano lo schermo. Scorrevano lungo le facce degli attori e, ogni dieci minuti, la maschera si precipitava per cacciarli utilizzando una canna lunghissima. Gli spettatori fischiavano infastiditi dalle continue interruzioni.” Quanto a Clark Gable, dice Letizia, “non mi è mai piaciuto. Aveva sempre quel ghigno spocchioso e arrogante… Mi faceva un’antipatia che non t’immagini!”.

  L’unico film che le è piaciuto di Clark Gable è l’ultimo, “Gli spostati”, diretto da John Huston con Marilyn Monroe e Montgomery Clift. “Mi fece un’impressione terribile. Era un film con un’atmosfera lugubre, mortuaria. Tutti erano infelici e disperati. Quello fu un periodo in cui cominciavo a sprofondare nella depressione e il mio matrimonio era diventato una prigione. Mi sentivo come i personaggi di quel film: non vedevo via d’uscita. Ecco, in quel film Clark Gable mi sembrò umano, fragile e solo, come forse era nella vita reale”.

E Marilyn Monroe? Cosa provò Letizia Battaglia quando seppe della sua morte? “Rimasi sconvolta dalla notizia della sua morte anche perché sapevo che cos’era la depressione. Sapevo quanto la depressione ti soffoca e ti trascina via, giorno dopo giorno, dalla vita e dalle persone che ami. Io soffrivo. Stavo male e mi sentivo in colpa perché stavo male. (..) Non voglio parlare da fotografa, ma da donna. Non ho mai associato a Marilyn il concetto di piacere sessuale nel senso, come posso dirti?, gioioso del termine.

Aveva lo sguardo di una tristezza senza fine. In lei percepivi l’infelicità e lo smarrimento, un vuoto che niente e nessuno poteva riempire. Mi spingo a usare la parola frigidità. Tutto l’opposto del desiderio sessuale, capisci quello che voglio dire? Mi ha sempre fatto pensare a un essere che ha bisogno di essere abbracciato, protetto e curato con amore, ma non al sesso inteso come atto ludico, gioioso”. Le piaceva moltissimo invece Kim Novak. “Lei sì che fu una bomba del sesso. Mi pareva un babà con la panna.

 Pastosa, soffice, soda, burrosa, E poi lasciamelo dire: aveva un culo da fine del mondo! Quando la si vedeva sullo schermo la si associava alle ‘cose porcone’, come si diceva ai miei tempi. Non solo gli uomini, anche le donne. Perché quello che lei rappresentava era un sesso allegro, pieno di vita, liberatorio, che volava, volava, volava…”. Ma più che alla Kim Novak di “La donna che visse due volte” di Alfred Hitchcock, Letizia torna con la memoria a quella di “Baciami stupido” di Billy Wilder con Dean Martin.

 “Te la ricordi la Standa di via Libertà?”, chiede a Franco, “Pensa che io ci andavo tutti i pomeriggi perché c’era una cassiera bellissima che era uguale a Kim Novak. Aveva gli stessi stupendi occhi di lei. Si chiamava Elena. Diventammo amiche e quando qualche anno dopo si sposò con un meccanico io le feci le foto del matrimonio. Sai come andò a finire? …che lei se ne scappò con il prete che aveva celebrato il matrimonio. Ci fu uno scandalo pazzesco che finì su tutti i giornali. Il marito li scoprì in un paese vicino a Palermo dove era andato armato di lupara.

Li sorprese, spara e il fucile si inceppa. Non contento, aggredisce il prete e con un morso gli stacca il naso. Sembrava tragedia, giusto? E invece non passa nemmeno un anno e Elena torna buona buona con il suo meccanico. Mentre il prete senza naso, una volta perdonato dal vescovo, diventa missionario e parte per l’Africa. Una storia degna del tuo Cinico tv altro che Billy Wilder!”. E la Kim Novak italiana, chi poteva essere. Sandra Milo? “…aveva una carnalità simile a quella della Novak. Emanava sesso da ogni poro, ma a mio avviso le mancava la sua innocenza, la dolcezza del suo volto. Nell’ocaggine dei personaggi di Sandra Milo non c’è leggerezza.

 C’è un che di pesante, invece. C’è insoddisfazione. E c’è il cinismo dell’Italia bacchettona e maschilista di allora”. Magari Stefania Sandrelli, che all’epoca dei due film di Pietro Germi, “Divorzio all’italiana” e “Sedotta e abbandonata” era addirittura minorenne. “AI tempi di Sedotta e abbandonata una diciassettenne era considerata una donna compiuta. Ricorda che io mi sono sposata all’età che aveva Stefania Sandrelli in Divorzio all’italiana, quindici anni, e non ero certo un’eccezione. Si cresceva prima.

Si doveva crescere per affrontare la vita e aiutare la famiglia. (..) Tu lo sai che ho sempre detestato Berlusconi, figurati se posso difenderlo. Ma te lo ricordi tutto il gran casino scoppiato per Ruby Rubacuore, la ‘nipotina di Mubarak’? Sarà stata minorenne, ma quella aveva il copro e la sensualità di Sofia Loren!”. Chi le piaceva davvero a Letizia Battaglia era Gary Cooper, “un dio calato in terra dall’Olimpo! Mi piaceva da morire quando avevo più o meno quindici anni”.

 In generale però, da un punto di vista estetico, Letizia ha sempre più interessanti le donne. Anche da fotografare. “Vuoi sapere se sono lesbica? Non lo sono. Però amo pazzamente la bellezza delle donne in tutte le sue manifestazioni. Amo il loro coraggio, la loro determinazione, il modo profondo in cui esprimono i sentimenti, il loro amore per la vita, la solidarietà che manifestano verso gli altri”. Da femminista militante ricorda quanto poco le piacque “La città delle donne” di Federico Fellini.

 “Trovai che delle donne, soprattutto delle donne di quegli anni, Fellini non aveva capito niente. Mi sembrò un film stanco, girato da un genio ormai incapace di cogliere i cambiamenti della società. Da uno che non sapeva niente della complessità delle donne, dei loro dolori, della loro esclusione sociale. In questo film, Fellini portò sullo schermo le tipiche ossessioni dei maschi della sua generazione: i bordelli, le tette, i culoni… Insomma, gli stereotipi. (..) Fammelo dire, Fellini era un misogino, ma nei suoi film più belli questa misoginia si trasfigurava, si sublimava nella potenza immaginifica e visionaria che il mondo intero conosce. Qui invece non vola più”.

Da un punto di vista artistico, fotografico, tra i suoi film preferiti Letizia Battaglia mette i grandi classici di Eisenstein, “Quarto potere” di Welles, “Giovanna d’Arco” di Dreyer. “Sono costretta a dire pure Il trionfo della volontà e Olynpia di quella regista nazista…[Leni Riefenstahl]. Mise il suo straordinario talento visionario al servizio dell’orrore, Adorava Hitler, ma i suoi film mi lasciavano senza respiro, tanto erano potenti, monumentali”. In pieno ’68, tra i compagni duri e puri, fischia a Milano la proiezione di “Ombre rosse” di John Ford.

A quei tempi c’era il Vietnam e noi vedevamo quei soldati americani come il simbolo dell’imperialismo capitalista. Invece gli indiani erano gli oppressi, i vietnamiti”, si giustifica Letizia. Invece il film italiano che porterebbe su un’isola deserta è “I pugni in tasca” di Marco Bellocchio. “La prima volta che lo vidi mi fece stare malissimo, sono uscita dalla sala letteralmente sconvolta. Tornai a rivederlo qualche giorno dopo e uscii euforica, Volevo rivoltarmi contro il mondo, lottare, fare casino, Per me fu un film liberatorio, l’equivalente di cento sedute psicanalitiche”.

Trova invece “Il gattopardo” di Luchino Visconti “visivamente magnifico, un capolavoro, ma non mi ha mai preso perché ho sempre rifiutato la morale di Tomasi di Lampedusa. Io volevo cambiare la mia vita, e anche per questo ho fatto politica in una terra come la Sicilia, in una città come Palermo. Volevo dare il mio piccolo contributo a migliorare la società… Come potevo accettare che ‘tutto deve cambiare perché tutto resti uguale’? Quella visione rassegnata della nostra storia, questo destino a cui noi siciliani dovremmo essere condannati secondo quanto dice il principe Fabrizio, l’ho combattuto e lo combatterò fino alla fine”.

Estratto dell'articolo di Michele Smargiassi per “la Repubblica” il 6 aprile 2023.

Palermo era una pazzia. Una pazzia folle e squilibrata: a volte troppa, a volte troppo poca. «Palermo mi sembra sia una città che soffre molto e che non è abbastanza pazza. Io vorrei che fosse più pazza, che reagisse di più e invece la sua è una pazzia silenziosa. Palermo pazza… No, non è abbastanza pazza, perché sennò sarebbe per le strade, a urlare, a recriminare, a piangere anche». Contro l’altra pazzia, quella criminale. «Che era una follia prepotente, era la mafia. E l’ho detta ’sta parola che non volevo dire…».

Una follia dolce e forte, invece, era quella di Letizia Battaglia, donna indomabile, fotografa addolorata stanca ma non vinta, che disse queste e molte altre cose, alcuni anni fa, a Franco Maresco, cineasta siciliano come lei, come lei spietatamente passionale verso la sua terra (Cinico Tv, suo e di Daniele Ciprì, è nella storia delle televisione italiana). Maresco la intervistò in una serie di occasioni, mentre realizzava i suoi film su di lei ( La mia battaglia , 2016), o con lei ( La mafia non è più quella di una volta , 2019) o semplicemente per il piacere di parlarle.

 Ora quelle registrazioni finiscono sulla carta di un libro, La mia Battaglia (il Saggiatore), con la B maiuscola; e della grande narratrice visiva di una Palermo «bella e malvagia», affascinante e terribile come la strega di Biancaneve, a un anno dalla scomparsa vengono alla luce i pensieri più nascosti, quelli che gli intervistatori ossessionati dal tremendo cliché di «fotografa della mafia» non sono quasi mai andati a cercarle dentro.

 (...)

«Io ero attratta moltissimo dai folli, volevo entrare lì dentro e volevo portare qualcosa.

Ricordo che fu molto difficile, perché erano diffidenti», ma ci riuscì, e per qualche tempo ospitò a casa una di loro, in un rapporto stracolmo di affetto e sofferenza.

 «Nessuno aveva mai interagito con loro. Pensa che non avevano neanche un nome. Quando chiedevo a uno di loro come ti chiami, lui mi diceva il cognome». Non pubblicò mai quelle fotografie, «le ho fatte, certo, ma non li ho mai ripresi mentre stavano male, buttati per terra con le gambe a pecora». Quelle giornate erano per lei, paradossalmente, un’oasi mentale. «Avevo visto tanto sangue. Per questo era un conforto per me andare allo psichiatrico, perché la città era pesante. La stessa cattiveria che subivano quelli dentro lo psichiatrico, la subiva Palermo. La subiva per colpa di mille cafoni…».

Ci andava in Vespa, al manicomio. Sul sellino assieme a Franco Zecchin, fotografo a L’Ora come lei, collega e compagno di vita per diciotto anni. E anche lui, Zecchin, oggi riapre un cassetto e condivide con noi la sua Battaglia, in un libro di ritratti (ma ritratti non è la parola: Battaglia non si metteva mai in posa passiva, doveva sempre fare qualcosa), intitolato semplicemente Letizia (Postcart editore), che è il complemento visuale perfetto dell’altro libro – andrebbero letti insieme, contemporaneamente.

 Dice Zecchin di Battaglia che «la sua relazione col mondo passava attraverso un rapporto fisico con la realtà», e qui lo vediamo benissimo: è il corpo di Letizia, sensibile e infrangibile, che satura le immagini di energia, in spiaggia coi bambini di Ballarò, in piazza con le femministe, in giro per i vicoli con il grande Koudelka, e appunto nell’ospedale psichiatrico, braccia alzate, bocca che grida, mentre lei, allieva di Grotowski, costruisce uno spettacolo teatrale coi degenti. Le piaceva il Nicholson del Nido del cuculo, racconta a Maresco. «Ma tu pensa al dramma che vivevamo! Un giorno correvi in mezzo al sangue, e poi, un altro giorno si correva perché c’era uno spettacolo in un teatrino, un concerto, un dibattito, un’occupazione». Palermo splendida e schizofrenica, «allora convivevano tutte le belle e drammatiche situazioni che sempre convivono nella vita. Per cui allora Palermo era… sublime».

(...) Contro la sua stessa città amata e detestata, contro l’ipocrisia dei film e telefilm sulla mafia dove i criminali «sono tutti simpatici come i Sopranos». Amareggiata, mai rassegnata. Guardando Maresco dritto «in quegli occhi verdi così», gli annunciò: «Voglio morire viva. Ho detto a tutti che quando morirò, voglio che la gente mangi, balli e canti». Il dolce, pazzo lutto che ce la tiene viva.

Dalla rubrica delle lettere di “Repubblica” l’11 marzo 2023

Caro Merlo, da lettore di Repubblica sin dalla fondazione, mi sono sentito offeso, disorientato e umiliato dalle parole dell’ingegner De Benedetti nei confronti di Repubblica , pronunciate a Piazza Pulita . Fanno seguito alle volgari parole che nel 2018 pronunciò dalla Gruber contro Eugenio Scalfari. A quelle volgarità seguì la replica del direttore Calabresi e la sua intervista a Scalfari. Perché questo rancore, questa mancanza di signorilità? Non dovrebbe prendersela con i suoi figli che gli vendettero, a sua insaputa, quel che lui gli aveva regalato?

Pasquale Regano - Andria

Risposta di Francesco Merlo

Ho ricevuto diverse lettere su Carlo De Benedetti e ho scelto la sua anche perché rievoca una mia intervista a Eugenio Scalfari che, sullo stesso argomento, fu un momento di rara allegria. Cominciava così: “Caro Eugenio, sei rimbambito?”. E lui: “Sono arrivato a un’età, tra i novanta e i cento, che non è più quella dei vecchi né dei molto vecchi, ma quella dei vegliardi. Spesso sono rimbambiti, ma talvolta sono ancora più lucidi degli altri perché vedono di più e meglio. A volte sono bambini, altre volte sono saggi e tra le cose che vedono meglio ci sono i rancori e le acidità. I vegliardi sanno riconoscerli e, se è il caso, anche aggirarli”.

 Non ho mai fatto rileggere a nessuno il testo di un’intervista ed Eugenio non me lo chiese. Fu pubblicata il 18 gennaio 2018. Finiva così: “De Benedetti parla di matrimonio monogamico. Spiega che quello con Repubblica è indissolubile, dice che ama ancora Repubblica e che l’amerà per sempre”. E Scalfari: “La ama, ma vuole liberarsene. La ama come quegli ex che provano a sfregiare la donna che hanno amato male e che non amano più”.

«Quando ero bambina mi riempiva di baci Ma per un’intervista mi cacciò fuori di casa». Aldo cazzullo su Il Corriere della Sera il 13 agosto 2023.

Bice e Ciccio, i labrador di Eugenio Scalfari, discendenti dell’amata Zoe, accolgono festanti i visitatori. Il rudere che lui ha riadattato in cima alla collina è sempre lì. Mancava l’acqua: fece scavare fino a 500 metri di profondità, la trovò.

Donata Scalfari, qual è il suo primo ricordo di papà?

«Ho tre anni. Mia sorella Enrica sta uscendo per andare a scuola, e io piango perché voglio andarci pure io. Papà ne è felice: “Benissimo, da domani va alla Montessori pure Donata”».

Portava già la barba?

«No. Se la fece crescere quando avevo sette anni. Quell’estate affittammo una casa sul mare di Ardea, al lido dei Pini, e papà decise di non radersi per un mese. Noi protestammo: così quando ci baci ci dai fastidio!».

Vi baciava? Era un padre affettuoso?

«Era molto fisico. Fino a novant’anni giocava per terra con mio figlio Simone. Quando eravamo piccole si era inventato la “baceria”, una raffica di baci, e il “settebaleno”, una pernacchia sul collo, cui seguiva il solletico... Era il modo in cui finivano le sue favole».

Vi raccontava le favole?

«Sì, ma non Cappuccetto Rosso e Biancaneve. Favole di sua invenzione. Quando ci imboccava parlava di Frolindo, che doveva mangiare una montagna di maccheroni; per anni Frolindo è stata la mia password. Ma la sua preferita era la storia di Fusariello».

Chi?

«Fusariello era un bambino alto meno di un filo d’erba. Un giorno una mucca lo mangiò, e la mamma lo cercava disperata, finché udì una vocina: sono nella mucca nera! Ma la mucca nera assicurò di non aver mangiato Fusariello. Di nuovo la vocina: sono nella mucca bianca! Anche la mucca bianca negò. Alla fine la vocina disse: sono nella mucca d’oro! Era vero, e per evitare di aprire la pancia della vacca bisognò darle una purga. Così Fusariello uscì tutto sporco, e noi qui cominciavamo a ridere, finché papà gridava: spazzola e striglia! Quello era il segnale d’inizio della baceria».

Suo padre è stato uno degli uomini più potenti d’Italia. Chi veniva a casa vostra?

«Molti artisti: Franco Angeli, Perilli, Giosetta Fioroni con Parise, Enzo Siciliano, Alberto Moravia, che era molto aperto, alla mano».

Politici?

«Una volta venne a pranzo Berlinguer, e io che ero iscritta alla Federazione giovanile comunista lo guardavo adorante. Ma il mio amore era Antonio Giolitti, un uomo bellissimo. Venivano anche Luciano Lama, Ciampi, Lombardi. E i democristiani: De Mita, Andreatta, Cossiga. Io scrivevo sui muri Kossiga con la kappa ed ero perplessa, ma papà mi disse: la democrazia significa confronto con l’altro, anche con chi non la pensa come te. Cossiga divenne una sorta di zio, lo vedevamo spesso, era un uomo molto spiritoso. Veniva con il suo braccio destro Luigi Zanda, che portava Grazia, la moglie. La misteriosa moglie di Cossiga invece non si vedeva mai».

Come avvenne la rottura tra lui e suo padre?

«Era stato papà nel 1985 a suggerire il suo nome a De Mita per il Quirinale, e a schierare Repubblica per Cossiga presidente. Ma non condivise la fase delle picconate».

Il vero grande nemico era Craxi.

«Sì. Però si sentivano regolarmente. Si studiavano, si parlavano. Mio padre lo metteva in guardia sulla corruzione che stava divorando il partito socialista; Craxi rispondeva sì sì, però non faceva nulla. Da qui nacque Ghino di Tacco, e la polemica durata sino all’ultimo. Mi ritrovai a intervistarlo al congresso di Rimini: ero imbarazzata, ma Craxi fu molto gentile».

Scalfari riconobbe che aveva avuto «la grandezza della fine».

«È vero. Per mio padre però il Craxi di Hammamet non era un esule, era un latitante».

L’altro grande nemico fu Berlusconi.

«Papà lo trovava molto simpatico, molto divertente. Prima della guerra di Segrate per il controllo di Mondadori e di Repubblica, si vedevano spesso ad Arcore: Confalonieri suonava al piano le canzoni che piacevano a mio padre, Berlusconi le cantava, gli mostrava l’alcova con il lettone tondo e la porticina segreta per le fughe d’emergenza, poi portava gli ospiti a passeggio nel parco fino al mausoleo, dove propose pure a Caracciolo di farsi seppellire al suo fianco. Con papà non osò».

Lei Donata come finì a lavorare a Mediaset?

«Per caso. Ero in Rai con Mino Damato, al tempo delle passeggiate sui carboni ardenti, e con due colleghe preparammo un progetto: un tg per i ragazzi delle medie. Siccome una di noi conosceva Marinella, la segretaria di Berlusconi, glielo mandammo, e lui ci chiamò. Mi fece qualche battuta sul mio cognome; e approvò il progetto. Che non si fece mai. Ma mi mandarono a lavorare al programma di Arrigo Levi».

Suo padre parlava del giornale in casa?

«Di continuo. Era come se Repubblica fosse un’altra figlia, oltre all’azienda di famiglia. Una volta mio marito Ettore lo vide chiedere la colla ai grafici e sdraiarsi a riattaccare un ciuffo di moquette. Ma se aveva uno scoop, lo teneva per sé. Lo leggevamo il giorno dopo sul giornale, ci arrabbiavamo, e lui rideva: “Ti pare che lo venivo a dire a te?”. Il massimo fu quando con Giuseppe D’Avanzo intervistò Tommaso Buscetta».

Il boss pentito.

«Venne a casa nostra. Il giorno prima arrivarono i carabinieri per la bonifica. Io seguivo la mafia e pregai mio padre di assistere al colloquio, ma lui fu irremovibile, mi cacciò di casa: “Al massimo può entrare in stanza la mamma a portare un caffè”».

E sua madre?

«Incuriosita ed emozionata, portò il caffè. Tutto quello che riuscì a dire a Buscetta fu: “Sono felice di conoscerla”. Non se lo perdonò mai: “Ho detto una frase così a un assassino!”».

Sua madre Simonetta era figlia di Giulio De Benedetti, il leggendario Ciuffettino, dal 1948 al ’68 direttore della Stampa. Com’erano i rapporti con suo padre?

«Non facili. Anche il nonno aveva la passione delle favole, ci raccontava di aver incontrato i folletti nelle sue celebri passeggiate nei boschi di Rivoli, che erano il pretesto per sfuggire alle telefonate di Valletta e, credo, incontrare qualche signora. Per il resto, nonno Giulio era un uomo severo, anche con mamma. Aiutò mio padre, gli presentò il gruppo di Pannunzio e Arrigo Benedetti con cui andava in vacanza alle Focette; ma non gli piaceva Repubblica. Troppo moderna, anche nella grafica; e lui aveva già 86 anni. Non capiva la vignetta di Forattini in prima pagina».

E Scalfari?

«Ci restava male: “Io stavolta a Rivoli non vengo, così vostro nonno non mi rompe le scatole!”».

Con Montanelli com’era il rapporto?

«Si stimavano, si parlavano. Prima della nascita del Giornale e di Repubblica, mio padre gli propose di fare un quotidiano insieme: Indro direttore e lui condirettore. In privato però a volte sbuffava: “Ma chi l’ha detto che Montanelli sia il più bravo di tutti?”».

E il rapporto con Bocca?

«Non strettissimo. Ricordo una telefonata drammatica quando papà vendette Repubblica a Carlo De Benedetti: urla, pianti, preghiere...».

La Repubblica di Scalfari arrivò a superare il Corriere. Nel 1996 se ne andò lui di sua volontà? O lo mandarono via?

«Disse che era meglio andarsene un minuto prima di essere cacciati. Propose la successione a Bernardo Valli, che rifiutò. C’era Paolo Mieli, che era un po’ il suo figlioccio, l’erede, il maschio che non aveva avuto. Ricordo che veniva qui a intervistarlo per la sua biografia, fino a quando mio padre disse: “Ma perché io devo farmi scrivere la biografia da Paolo Mieli?”. E scrisse “La sera andavamo a via Veneto”».

Però Mieli nel 1996 era direttore del Corriere.

«Appunto. E per mio padre era un po’ troppo terzista. Qualcuno propose Giulio Anselmi; ma con Repubblica non c’entrava nulla. Ezio Mauro invece era stato corrispondente da Mosca. Il connubio Scalfari-Mauro fu strettissimo, soprattutto i primi anni. Anche se mio padre considerava Veltroni più adatto di D’Alema a guidare un partito riformista moderno. Anni dopo, quando nacque il Pd, apprezzò molto il suo discorso del Lingotto. Da lì ora bisognerebbe ripartire».

Che padre era Eugenio Scalfari?

«Tenero, giocoso. E ansioso. Bastava che qualcuno prendesse un raffreddore per mettergli ansia. Per stare bene aveva bisogno che stessero bene tutte le persone cui teneva; inclusi i suoi giornalisti. Quando ne vedeva uno storto, lo chiamava, lo interrogava, si faceva spiegare i suoi problemi e cercava di risolverli; compresi quelli sentimentali».

Lei quando si accorse che aveva un’altra compagna oltre a sua madre, un’altra vita?

«Lo sapevano tutti, anche mamma, anche mia sorella, anche Ettore; tranne me. Certo, sapevo che per un periodo i miei si erano separati: avevo sette anni, papà era venuto a prendermi a scuola, cosa che non faceva mai, e mi aveva detto che lui e la mamma erano un po’ nervosi, e per qualche tempo si sarebbe stabilito a Milano. Però noi andavamo a trovarlo, lui ci presentò Raffaele Mattioli, il banchiere. Facevamo le vacanze insieme. E dopo un poco tornò da noi a Roma».

Ma nella sua vita era entrata Serena Rossetti. Lei come lo seppe?

«Avevo 27 anni, stavo venendo qui, in questa casa, con un’amica, Alessandra. Parlavamo di come fossero cambiati i rapporti tra le coppie, e Alessandra disse: “Be’, pensa alla storia di tuo padre e Serena...”. Serena chi? Accostai, fermai la macchina. La mia amica avrebbe voluto sprofondare: “Donata, ma lo sanno tutti...”. E in effetti lui un week-end su due spariva, ufficialmente per andare a Milano...».

Come la prese?

«Capii, accettai. Mia sorella ci soffrì moltissimo. Nostra madre ovviamente non era contenta. Papà cominciò a dire, anziché “vado a Milano”, “vado da Serena”, alla luce del sole. Alla fine mamma era quasi sollevata: quando lui non c’era si sentiva libera di vedere gli amici, andare al cinema, viaggiare: Yemen, Sudafrica, Caraibi. Era ai Caraibi quando ci fu un tifone: papà non sapeva nulla, i capiredattori di Repubblica scelsero di non dare la notizia per non allarmarlo, ma il Tg5 ci aprì, e lui si agitò moltissimo: la mamma, il tifone... Papà non era un grande viaggiatore».

Come mai?

«Andò una volta in America per una conferenza, ma il volo gli era pesato. Quando ci fu un terremoto nell’Urss di Gorbaciov ci portò a San Pietroburgo a consegnare il denaro raccolto dai lettori. Ma per lui i viaggi erano Parigi, Londra, Venezia. Morì senza essere mai stato, che so, a Gerusalemme».

Come nacque il rapporto con Papa Francesco?

«Gli aveva rivolto alcune domande su Repubblica, senza pensare che avrebbe risposto. Un giorno la signora di servizio nella nostra vecchia casa di via Nomentana, che era molto cattolica, trovò una lettera e riconobbe il sigillo vaticano. La aprì, era lunghissima, ed era firmata da Papa Francesco. Poi fece l’intervista, ripresa in tutto il mondo. Bergoglio gli telefonava a ogni compleanno. Quando mio padre stette male si preoccupò: “E adesso chi avverte il Papa?».

Scalfari è stato giornalista sino alla morte, a 98 anni. Quale fu il segreto della sua longevità?

«La testa. La curiosità, oltre ovviamente al Dna. Non aveva uno stile di vita particolarmente sano, non faceva sport se non un po’ di nuoto d’estate, era un grande mangiatore, fumatore, bevitore, ha avuto il diabete per quarant’anni. Dopo il primo attacco di pancreatite gli tolsero il vino, poi riprese a bere, ebbe il secondo attacco, dovette rinunciare ma ci soffrì. Ed era apprensivo, sempre in preda al senso di colpa, un giorno verso di noi, un altro giorno verso Serena...».

Che sposò dopo la morte di vostra madre. Come l’avete accompagnato?

«Ci siamo accompagnati a vicenda. Enrica e io andavamo a trovarlo a turno, ogni giorno. Mettevamo le sue canzoni: Amapola, Parlami d’amore Mariù, Armstrong. Gli leggevamo il suo D’Annunzio: le odi e “La beffa di Buccari”, di cui custodiva una copia che D’Annunzio aveva dedicato a suo padre Pietro, legionario a Fiume. Anche suo zio Antonino aveva fatto la Grande Guerra da volontario: ebbe una medaglia d’argento e la spina dorsale spezzata, divenne morfinomane, si suicidò».

Il ritratto che lei traccia di Scalfari non fa pensare a un uomo di sinistra, o comunque a un marxista.

«Marxista non fu mai, comunista men che meno. Era un liberale. Un radicale di prima di Pannella. Un keynesiano che voleva favorire l’evoluzione del Pci, perché si affrancasse dall’Unione Sovietica».

Del Duce cosa diceva?

«Raccontava di essere stato fascista, fino a quando lo cacciarono per aver denunciato le ruberie dei gerarchi che stavano costruendo l’Eur. Solo allora aveva scoperto i libri proibiti, la cultura internazionale. Suo padre non aveva mai accettato il passaggio dal dannunzianesimo al regime: un giorno papà lo sorprese mentre sputava allo specchio, addosso alla propria immagine».

È stato cosciente sino alla fine?

«Sin quasi agli ultimi giorni. Non era angosciato; era curioso anche di quell’ultimo pezzo della vita. Parlava solo con gli occhi. Avevo imparato per lui i canti di Dante che amava di più: Paolo e Francesca, Ulisse. E poi La pioggia nel pineto di D’Annunzio: quando gliela recitavo si commuoveva. Non ha sofferto. Si è addormentato».

Non credeva nell’aldilà, vero?

«No. Ma verso la fine cominciò a parlare di un’energia che si sprigiona... Il Papa gli diceva: prego per lei. Mio padre rispondeva: io no, però la penso. E il Papa: è la stessa cosa».

Il mistero del testamento di Pelè: spunta un'altra figlia segreta. Dopo il riconoscimento di due nipoti, arrivato in extremis poco prima della morte dell'ex calciatore, potrebbe esserci un'altra sorpresa. Federico Garau il 3 marzo 2023 su Il Giornale.

Il testamento di Pelè continua a rivelare sorprese: dopo l'inclusione, negli ultimi istanti della sua vita, di due nipoti, potrebbe esserci la novità relativa all'esistenza di un'ulteriore figlia segreta.

Il riconoscimento

Qualche giorno prima di morire Pelè aveva confermato, mettendolo nero su bianco sul proprio testamento, di essere padre di Sandra, figlia nata da una relazione con la sua ex collaboratrice domestica Anisia Machado.

Secondo quanto riportato dai media brasiliani, che già da gennaio avevano fatto circolare qualche indiscrezione a riguardo, O Rei avrebbe quindi deciso di aggiungere altri eredi al suo patrimonio, oltre i sei figli riconosciuti e l'ultima moglie. Pentitosi per il fatto di avere sempre rifiutato di incontrare la figlia Sandra, oramai deceduta nel 2006 a causa di un tumore, stando alla stampa locale, avrebbe conosciuto i figli della donna proprio poco prima del suo decesso, in data 28 dicembre 2022. A seguito di questo avvenimento, quindi, l'ex calciatore del Santos avrebbe deciso di inserire anche questi due suoi nipoti all'interno del testamento: un patrimonio, il suo, che secondo il quotidiano "Folha de Sao Paulo" si aggirerebbe intorno ai 15 milioni di dollari.

Patrimonio che, come anticipato, sarà spartito tra la terza moglie di Pelè Marcia Aoki e i sei figli già riconosciuti, vale a dire Kely, Edinho e Jennifer (nati dal primo matrimonio con Rosemeri dos Reis Cholbi), Joshua e Celeste (gemelli nati dall'unione con la seconda moglie Assiria Seixas Lemos) e Flavia (avuta con la giornalista Lenita Kurtz). A questi, come detto, sono stati aggiunti anche i figli di Sandra, vale a dire Octavio e Gabriel.

Sandra Machado aveva scoperto di essere figlia di O Rei all'età di 27 anni. Potendo fare affidamento sulla validità di un test del Dna, intentò causa di riconoscimento e vinse in tribunale. Nel 1996, infatti, ottenne il diritto a portare il cognome del padre, Edson Arantes do Nascimento. Ciò nonostante, malgrado i tentativi di ricongiungimento della donna, Pelè la tenna sempre al di fuori della sua vita. Sandra morì nel 2006 senza mai riuscire a parlare col padre.

Nuova erede?

Oltre la conferma dell'inserimento nel testamento dei due figli della donna, nipoti dell'ex campione carioca, arriva anche un'ulteriore novità, riguardante l'esistenza di un'altra figlia segreta. Tale Maria do Socorro Azevedo, infatti, avrebbe intentato causa di riconoscimento della paternità a Itaquera. Nel settembre del 2022 le autorità avrebbero concesso alla donna l'autorizzazione a eseguire un apposito test del Dna. Test che, a causa del decesso di Pelè, non sarebbe stato realizzato. Peraltro, informa la stampa brasiliana, gli stessi legali dell'ex calciatore avrebbero deciso di non presentare ricorso contro la citazione.

La vicenda non si sarebbe comunque ancora conclusa, dato che è probabile che il test del Dna richiesto dal tribunale possa essere effettuato sui figli avuti da O Rei.

L'ammissione di "O'Rey" poco prima di morire. Colpo di scena nel testamento di Pelé: “Era mia figlia, le spetta la sua parte dell’eredità”. Redazione su Il Riformista il 3 Marzo 2023

Pelé pochi giorni prima di morire avrebbe deciso, e messo per iscritto, di essere padre di una figlia non riconosciuta. Oggi la stampa brasiliana scrive che O’Rey, mito del calcio carioca e mondiale, ha autorizzato di destinare una parte della sua eredità a questa figlia. Il nome di questa è Maria do Socorro de Azevedo ed è spuntato nel testamento. È entrata insieme con gli altri sei figli riconosciuti, due nipoti e la sua vedova tra gli eredi del campione.

Edson Arantes do Nascimento è morto lo scorso 29 dicembre, in un ospedale di San Paolo. Era ricoverato da circa un mese. Da tempo curava un tumore al colon. Secondo il quotidiano Folha de Sao Paulo il suo patrimonio era stimato in 15 milioni di dollari. È stato il primo calciatore azienda, un’icona globale. Ha lasciato il Santos soltanto per gli Stati Uniti, per i New York Cosmos. Per vederlo in campo la sua squadra è stata portata in tour mondiali per anni. Era un ambasciatore e attore, uomo immagine di sponsorizzazioni e campagne pubblicitarie.

Quando è morto era stato scritto dal portale Celebrity Net Worth che il suo patrimonio superasse i 100 milioni di dollari. Cifre decisamente riviste dal quotidiano di Sao Paolo. “Non sono diventato ricco con il calcio come fanno i giocatori di oggi. Guadagnavo con la pubblicità, quando ho smesso di giocare, ma niente con il tabacco, l’alcool, la politica o la religione”, aveva dichiarato lui stesso in un’intervista qualche tempo prima di morire.

Pelé si era sposato tre volte. Dal primo matrimonio con Rosemeri dos Reis Cholbi, nel 1966, ebbe tre figli, Edinho, Kelly Cristina e Jennifer. Da una relazione extraconiugale era nata Flavia Kurtz. La seconda moglie fu la psicologa e cantante gospel Assiria Lemos Seixas, con la quale ebbe i due gemelli Joshua e Celeste. La terza fu Marcia Cibele Aoki. La relazione che fece più discutere fu però quella con la cantante e conduttrice Xuxa. Come ha ricostruito L’Equipe, prima del primo matrimonio Pelé aveva già avuto nel 1964 una figlia, Sandra Macedo, da una breve relazione con una domestica che l’atleta si rifiutò di riconoscere fino a quando la Giustizia non lo costrinse tramite un test di paternità. Non avrebbe mai incontrato la donna, morta nel 2006 di cancro al seno.

Lo scorso settembre la giustizia aveva autorizzato un’azione di Maria do Socorro de Azevedo per eseguire un test del Dna. Pelé è morto prima di sottoporsi al test del Dna, ma questo potrebbe essere eseguito sui suoi figli, secondo Folha.

Il malumore memorabile. La lezione di Barbara Walters per evitare le interviste mosce di oggi. La misura d’un intervistatore è il rancore con cui viene ricordato. E la misura dell’intelligenza dell’intervistato è capire che conviene farsi mettere in difficoltà. Guia Soncini su L’Inkiesta il 4 Gennaio 2023.

Ogni volta che una persona famosa pubblica sui propri social un’intervista che le è stata fatta, io so che è un’intervista nella quale quella persona non farà brutta figura, quindi noiosissima. Nessuna intervista con cui valga la pena perdere tempo è un’intervista di cui l’intervistato vada fiero. Ogni intervista che valga la pena leggere o guardare è un’intervista in cui l’intervistato inciampa, si rialza, si contraddice, si rende ridicolo, e di cui si vergognerà almeno un po’.

Poi, ovviamente, non esistono le regole: esistono solo le eccezioni. C’è l’intervistato che sa che nessuno legge mai niente – nessuno sui social, nessuno in questo secolo: nessuno – e che quindi condivide con fondata certezza di non lettura un’intervista della quale è previsto ammiriamo il titolo, lo spazio, le foto («guarda, è in copertina, dev’essere uno importante» è una reazione più diffusa di «sì ma leggi cosa risponde alla quindicesima domanda, è proprio un patacca») (se non capite «patacca» dovete frequentare di più la Romagna, o farvela spiegare da Marco Missiroli).

C’è l’intervistatore che l’intervistato lo pescinfaccia e tuttavia non ha mai penuria d’intervistati: chi ha successo ha ragione, da chi ha successo fanno la fila per farsi pescinfacciare. È il principio fondativo di Francesca Fagnani, che ha avuto la furbizia di chiamare il suo programma Belve, e da lì è tutto conseguente: se la tapina di turno prova a sottrarsi al gioco al massacro, la conduttrice può flautare «Beh, io l’ho chiamata qui perché è belva, mica mi farà Violetta-la-timida».

Qualche giorno fa è morta Barbara Walters, e io mi sono prodotta in preliminari finora perché Barbara Walters proprio non so come spiegarvela, in quest’epoca miserabile in cui non sappiamo produrre categorie critiche ma solo paragoni. L’Enzo Biagi d’America? Il Letterman delle signore in tailleur? La Oprah delle bianche? Ecco, quest’ultima decisamente no.

Oprah Winfrey – l’intervistatrice più famosa del mondo tra i due secoli – ha scritto che, senza Barbara Walters, lei non avrebbe mai avuto una carriera, nessuna donna della tv americana avrebbe avuto spazio e successo e senso. Ed è vero. Ma, se c’è una cosa che la più nota opera recente di Oprah – l’intervista a Meghan e Harry – ha reso chiara, è che Oprah non ha imparato niente da Barbara Walters, che sapeva fare l’amica delle celebrità quel tantissimo che era utile a ottenerne la fiducia, ma poi non risparmiava mai una domanda, un’accusa, un rinfaccio di quelli che facevano sospirare il pubblico a casa: ah, brava, gliel’avrei chiesto anch’io.

In questo la tv dà un vantaggio inestimabile: con una telecamera accesa nessuno si alza e se ne va se non gli piace quel che chiedi, nessuno dice «di questo non parlo il mio ufficio stampa l’aveva avvisata», nessuno chiede di rileggere per espungere i passaggi da cui esce peggio. È la ragione per cui i programmi da tv d’assalto, prerogativa della casereccia tv italiana con poco budget e molto sbaraglio, sono inutili: l’intervistato lo si può mettere in difficoltà anche se lo si accomoda in uno studio ben illuminato con trucco e parrucco fatti. Certo, bisogna saperlo fare.

Barbara Walters lo sapeva fare, e infatti non serve dire che era una Mara Venier col piglio di Lucia Annunziata: la conoscete anche se non la conoscete. Vedete suoi video sui social a ogni occasione di polemica. Sean Connery che dice che ci sono casi in cui è bene schiaffeggiare una donna. Donald Trump che dice che non è affatto in bancarotta, è male informata (e lei: ho parlato coi suoi creditori). Il dettaglio interessante è che è il Trump del 1990: senza velleità politiche, solo un ricco cafone, non il cattivo per excellence. Non glielo chiedeva per farsi acclamare dai social che vogliono liberare Barabba: faceva il suo lavoro.

L’incipit d’un romanzo che si portava molto quand’avevo vent’anni diceva che la misura dell’amore è la perdita; la misura d’un intervistatore è il rancore con cui viene ricordato. Alla morte di Barbara Walters, Monica Lewinsky ha raccontato – con parecchio garbo – di quando Barbara fu la sua prima intervista televisiva, in mezzo al casino armato da Kenneth Starr contro Bill Clinton (e contro la ventiquattrenne Monica). «Sottolineai che era la prima volta che mi trovavo nei guai, ero sempre stata una brava ragazza, avevo sempre preso buoni voti, non mi ero mai drogata, non avevo mai rubato ai grandi magazzini. Senza esitare Barbara disse: Monica, la prossima volta ruba ai grandi magazzini». Era un ricordo affettuoso, diceva che erano rimaste in contatto, ma non poteva che partire da lì: da quando la signora Walters aveva fatto il proprio lavoro, dicendo alla sua ospite quel che stavano pensando quelli davanti alla televisione (e quelli erano, solo contando chi la vide quella sera alla tv americana, 74 milioni. Settantaquattro. Sì, era il 1999 e non c’era la frammentazione e lo streaming e la rava e la fava, tuttavia: settantaquattro).

Courtney Love non ha scritto niente, forse rendendosi conto che non aveva voglia di rievocare affettuosamente la signora coi capelli cotonati che le chiese se si fosse mai fatta delle pere davanti alla figlia. O forse perché troppo impegnata col controllo dei danni relativo a un’altra intervista: un paio di settimane fa è stata ospite del podcast di Marc Maron, ed è riuscita a inimicarsi chiunque da Brad Pitt in giù. Marc Maron è un comico: forse gli ultimi rimasti a poter fare dire alle celebrità cose di cui poi le celebrità si pentiranno. La scusa che «ehi, è un comico, mica puoi prendertela» è perfetta, annulla ogni permalosità, se t’invito al programma d’un comico è come se t’invitassi a un programma che si chiama Belve: devi stare al gioco. (Il giochino non funziona sempre: l’intervista di Letterman a Zelensky è noiosissima).

La misura delle capacità dell’intervistatore è il malumore dell’intervistato, dunque. Ma la misura dell’intelligenza dell’intervistato è capire che farsi mettere di malumore gli conviene. Certo, chi te lo fa fare: puoi andare da Netflix a farti fare il documentario compiacente su misura. Ma tra vent’anni – o anche tra venti giorni – nessuno avrà voglia di rivedere Harry e Meghan che ci spiegano che loro sono i buoni, e tutti continueremo a guardare Barbara Walters che chiede a Mark David Chapman perché abbia ucciso John Lennon, e lui che risponde che sperava che così sarebbe diventato famoso quanto lui. Un po’ come prima di diventare un assassino, prima di scegliere a chi dare un’intervista bisogna quindi chiedersi: voglio fare bella figura o essere memorabile?

Barbara Costa per Dagospia il 10 giugno 2023

“Credi davvero che la storia della mia vita possa interessare a qualcuno?”. Come se fosse da tutti essere accolti da un boato di marea umana ogni volta che sali su un palco. Come se fosse da tutti essere tra i musicisti i più influenti esistenti, non schiattato giovane, e stare in pista e tutt’oggi da protagonista. Colui che si schermisce davanti all’intenzione di Luca Garrò, nostra firma del rock, volente scrivere su di lui, è Brian May. 

Il suono dei Queen. Non un chitarrista qualunque. Un signore. Del Rinascimento. E pure, a detta di celebri colleghi (Slash dei Guns, Lenny Kilmister dei Motörhead) il chitarrista rock più sottovalutato. D’altronde, la critica, i Queen, li ha amati poco e recensiti peggio. Brian May non se lo dimentica: “Non sapevano come definirci, decadenti e androgini, enfatici, ma non glam. Il nostro non era il rock come ci si aspettava che fosse. Sicché concludevano che facevamo schifo”. 

Luca Garrò l’ha scritta, "Brian May. Just One Life", la biografia promessa, (Tsunami ed.), e sa trattarsi bene: c’ha la prefazione di Tony Iommi! Biografia che di Brian May tanto dice e a tante domande risponde. Ad esempio: per che cosa litigavano i Queen? “Abbiamo sempre litigato per soldi”. Sono mai arrivati alle mani? “No, e comunque mai lavare i panni in pubblico”. Ok. Chi vuole sapere chi e con chi si sono menati, ecco qua: Freddie Mercury e Steven Tyler si sono menati “a Harrisburg, Farm Show Arena, e nel backstage”, per decidere chi doveva suonare per primo. Vince Tyler.

E chi vuole sapere per chi tifavano Brian May e Joe Perry, i loro sodali chitarristi, gli dico per nessuno perché, mentre quei due se le davano, Brian e Joe sono andati a “farci un whisky” per tornare 'mbriachi e riuscire chissà come a salirci, sul palco, che poi restarci in piedi è tutt’altra questione. Va da sé che Brian si ricorda poco e niente e a ogni buon conto precisa: “È stata la mia prima e ultima sbornia pre concerto”. Come no. Un altro a essere sbattuto al muro da Freddie è stato Sid Vicious dei Sex Pistols.

Vado al punto: volete sapere come Brian May e gli altri Queen hanno saputo di Freddie e l’Aids? È vero. Freddie a lungo gliel’ha tenuto nascosto. A loro, come a chiunque altro. Glielo ha rivelato solo a segni fisici evidenti. Cosa hanno fatto i Queen, appresa la verità? “Uscimmo dallo studio in silenzio e andammo a star male da qualche parte”. Brian May non lo nasconde: la vita dissoluta di Freddie è in "Don’t stop me now". È tutta lì. “Una minaccia”.

Lo stesso Freddie, dal canto suo, lo riconosceva: “Brian è un vero gentleman, io una vecchia baldracca!”. Se e quando e a che livelli Brian abbia diviso e condiviso stravizi da rockstar è nel dubbio. Questa biografia rivela Brian May che cornifica Chrissie, la sua fidanzata poi prima moglie, in tournée USA, tappa New Orleans, e nello specifico con la promessa sposa di un batterista. Brian sposa Chrissie, ci fa tre figli però il matrimonio naufraga con lui che si innamora di Anita Dobson.

Il problema è che si innamora di Anita ma mette incinta Chrissie per la terza volta. I tabloid non gli danno tregua. Ma come fanno a stare zitti se tu, Brian May, con moglie incinta, produci il disco della tua amante, e lo intitolate "Talking of love", e come primo singolo pubblicate "To know him is to love him" ??? Ma alla fine le corna si aggiustano, e Brian divorzia, e frega i paparazzi impalmando Anita lo stesso giorno delle nozze di Michael Douglas e Catherine Zeta-Jones.

Freddie Mercury muore il 24 novembre 1991. Fino al 22 maggio è in studio a incidere. Incide anche senza gli altri, benché “ormai debolissimo, aveva dolori insostenibili, senza più carne intorno alle ossa, non stava più in piedi senza poggiarsi a qualcosa”. Ma ha voce. E vodka. Fino alla fine. Brian gli passa bigliettini con le strofe da selezionare. E Freddie incide, per lasciare la sua parte finché ce la fa. Ci dice Brian: “Freddie non voleva solidarietà da nessuno”. E "Mother Love" è una delle ultime: “Non è più tornato in studio per la strofa finale”. La fa Brian May. Che confessa: “Nel 1991 io ho perso mio padre, il mio primo matrimonio, la mia band, e il mio migliore amico. Tutto nello stesso anno”.

È troppo. Con loro perde sé stesso. Brian soffre di depressione, e dopo la morte di Freddie, si fa ricoverare sotto falso nome in una clinica specializzata, in Arizona, per venirne fuori. È definitivo: “L’unica cosa che m’ha impedito di gettarmi con l’auto da un ponte furono i miei figli”.

La sua arte doveva morire col suo compagno? “Ma quando Freddie è morto avevamo 40 anni, e nella vita avevamo fatto solo quello”. Brian ci ha messo 10 anni a elaborare la morte di Freddie. 10 anni in cui mai si è fermato. Né musicalmente, né astronomicamente. Brian pre-Queen era un secchione, e ha vinto una borsa di studio per una università d’élite (May è di famiglia modesta) per laurearsi in fisica e in matematica, insegnare alle superiori, e arrivare a un passo dal dottorato in astronomia con tesi ultimata ma non discussa perché a essa ha preferito la sua Red Special, chitarra da lui (e dal padre) interamente costruita, pezzo per pezzo, e pezzo unico, con cui suonare i Queen e quei riff “che si insinuano nella mente fino a diventare ossessione” (la tesi infine l’ha presentata, conseguendo il dottorato, nel 2007). 

Arrivare allo stomaco della gente, per durare per sempre. Brian May, com’è vivere da rockstar? “Quando pensi che la giornata sia finita, qualcuno fa irruzione in camera tua carico di bottiglie e di altro, e ci si sballa di nuovo. Vai fuori di testa…”. 

E com’è vivere on the road? “Se hai nostalgia di casa, tornatene dove sei venuto. O disilluditi. Questo mondo non fa per te. Ma se sei un musicista non è possibile stare a lungo a casa, a guardare la tv. E io voglio suonare. E celebrare il fatto che sono vivo”. Ha ragione Maurizio Solieri: “Brian May è la sinfonia fatta chitarra”. Mi ci inchino, e però, la storia dei nani che ai selvaggi party dei Queen servivano cocaina sui vassoi, se non da una loro specifica parte del corpo, è vera, sì o no?

Brian May conferma le donne nude a lottare nel fango. Stop. Fonti non certe giurano che a Zucchero Fornaciari sia stato proposto un tour mondiale coi Queen post Mercury. E che lui abbia rifiutato. Per paura. Brian May ama Zucchero e ha i suoi dischi. Lo ha scoperto in radio, a Venezia, in luna di miele con Anita. E quando Zucchero ha cantato coi Queen, a Wembley, al concerto tributo a Freddie, gli è presa la dissenteria.

La "maledizione" dei Lynyrd Skynyrd: quel volo che decimò la band. Nel 1977 i Lynyrd Skynyrd furono vittime di un terribile incidente aereo: c'è chi pensa però a una terribile maledizione. L'ultimo membro della band, Gary Rossington, si è spento a marzo 2023. Angela Leucci il 12 Marzo 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 L’incidente

 La responsabilità

 Le leggende metropolitane

Se me ne vado domani, ti ricorderai ancora di me?”: è una delle frasi che ricorrono nel testo di Free Bird, brano arcinoto dei Lynyrd Skynyrd. Che recita ancora: “Non volerai alto, uccello libero”. Il volo, tema clou della canzone, è in realtà al centro di uno dei momenti più bui della band formatasi in Florida nel 1964. Due dei membri del gruppo morirono infatti in un incidente aereo nel 1977, mentre gli altri soffrirono a causa di ferite gravi per anni.

L’incidente

Un tuffo nel passato: era il 20 ottobre 1977, i Lynyrd Skynyrd, country rock band che cantava tra le altre la celeberrima Sweet Home Alabama, aveva noleggiato un volo charter per recarsi dalla tappa del tour a Greenville in South Carolina, alla volta di Baton Rouge in Louisiana. Il velivolo era un Convair CV-240, il cui utilizzo era stato preso in considerazione dagli Aerosmith, ma il tour manager di questi ultimi l’aveva scartato dopo aver visto il pilota Walter McCreary e il co-pilota William Gray passarsi una bottiglia di Jack Daniel’s.

L’incidente fu molto veloce. Quasi alla fine dell’itinerario, il velivolo si ritrovò con il carburante a termine e i piloti tentarono un atterraggio d’emergenza. Il Convair si schiantò però nelle paludi attorno a Gillsburg, in Mississippi. Il bilancio fu di sei morti su 24 persone a bordo tra passeggeri ed equipaggio: il cantante Ronnie Van Zant, il chitarrista Steve Gaines, la corista del gruppo di supporto e sorella del chitarrista Cassie Gaines, il road manager Dean Kilpatrick, oltre che pilota e co-pilota.

Tra i feriti il chitarrista Allen Collins, il bassista Leon Wilkenson, il chitarrista Gary Rossington, la corista Leslie Hawkins, il roadie Steve Lawler, il security manager Gene Odom. Il batterista Artimus Pyle non era ferito gravemente e cercò aiuto, cosa che ottenne da un agricoltore locale, ma non prima di essere colpito da un’arma da fuoco dopo essere stato scambiato per un evaso dalla locale prigione.

La responsabilità

Il National Transportation Safety Board stabilì che il volo, gestito dalla J & J Company, aveva portato alla strage a causa di errori umani. Da un lato l’equipaggio non avrebbe rifornito adeguatamente l’aereo, provocando un calo di potenza dei motori e la perdita di controllo del velivolo, ma dall’altro ci sarebbe stato un malfunzionamento che fece bruciare il combustibile molto più velocemente e in maniera insolita.

Le leggende metropolitane

Ronnie Van Zant aveva 29 anni quando avvenne l’incidente aereo in cui trovò la morte. L’artista aveva sempre affermato che sarebbe venuto a mancare prima di compiere i 30 anni, e la famiglia ha sempre creduto che l’uomo possedesse capacità di premonizione. La tragedia avvalorò nell’immaginario collettivo le convinzioni della famiglia.

La casa discografica dovette modificare la copertina dell'ultimo disco dei Lynyrd Skynyrd, uscito solo alcuni giorni prima: l’immagine conteneva infatti la band schierata e avvolta dalle fiamme, na circostanza che col senno di poi appariva macabra. Le foto dei membri del gruppo furono poste quindi su uno sfondo scuro per la nuova copertina.

Un’altra presunta premonizione riguardava invece JoJo Billingsley, una delle coriste del gruppo di supporto: non aveva partecipato alla precedente tappa del tour, poiché era ammalata, ma si sarebbe ricongiunta agli altri per la tappa di Little Rock il 23 ottobre. La corista affermò di aver sognato l’incidente e di aver contattato il chitarrista Allen Collins per evitare che tutti prendessero quell’aereo.

Per la verità i problemi sugli aerei dei tour musicali non erano una novità per le band del classic rock, tanto più che all’epoca non esistevano norme stringenti sulla sicurezza dell’aria come oggi. Resta negli annali la terribile turbolenza incontrata in volo dai Led Zeppelin nel 1973 su un volo privato: la band successivamente prese in leasing un Boeing 720 per i tour degli anni seguenti.

Inoltre su un volo privato trovarono la morte il 3 febbraio 1959 Buddy Holly, Ritchie Valens e J.P. Richardson: la vicenda viene ricordata con il nome di “the day that music died”, ovvero il giorno in cui la musica morì.

La "profezia", poi l'aereo cadde: il giorno in cui morì la musica

La “maledizione” dei Lynyrd Skynyrd però pare essere un altro paio di maniche. Un anno prima dell’incidente sul Convair, Rossington si schiantò con l’auto a Jacksonville: l’incidente stradale lo spinse a chiedere di scrivere la funerea That Smell a Van Zant e Collins.

Nel 1980, la moglie di Collins morì per un’emorragia a seguito di un aborto spontaneo: quel dolore spinse l’artista all’abuso di alcol e droghe, fino all’incidente stradale del 1986 in cui rimase paralizzato, mentre la nuova fidanzata morì. Nel 1990 Collins morì per i postumi di una polmonite contratta l’anno precedente.

Nel 2001 Wilkeson è scomparso a seguito di una malattia cronica a fegato e polmoni, mentre il tastierista Billy Powell, anche lui sul Convair, è morto per un attacco di cuore nel 2009. L’ultimo membro ancora in vita della band, Rossington, si è spento a marzo 2023. Negli ultimi anni aveva sofferto di problemi cardiaci e solo un mese prima aveva messo in scena la sua ultima performance musicale.

Barbara Costa per Dagospia il 7 marzo 2023

Ci sono donne che per loro erano pronte a uccidere. Se per folle gelosia arrivi “a infilare lamette nel sandwich” di chi rivale ha adocchiato colui che non è il tuo uomo, ma il tuo amante di una sera, in tournée nella tua città… dov’altro puoi arrivare!? Tenete chiuse la gambe voi che di questi bruti barbari non volete sapere. Tienitela stretta, s-e-r-r-a-t-a, pure tu che a quel sound che si fa tensione e forma, di sesso, animalesco, fisico, senza sentimento, ti bagni e ti goccioli negli slip. 

Scavalla le gambe, sospira, tu che non ne puoi fare a meno, non ci riesci, a nasconderlo, che ci sono uomini che ti piacciono perché ti inquietano. Ti giurano tutto il loro amore. All of My Love. Whole Lotta Love. Ma stai attenta. Vedi di capire bene. “Ogni centimetro del mio amore” cantano di “mettertelo dentro”, e “giù, in fondo”. Senza tregua. Lo vuoi? Sì, eh? Puoi averlo solo se ti inginocchi e “shake for me, girl”. Lemon song. Mamma non ti ha insegnato a far la brava, e a ingoiare?

Chissà quante tra le madri delle odierne femministe a modino e correttine e leziosine che mi stanno sulle p*lle, erano innamorate dei Led Zeppelin, maschi nati per salire su un palco, spaccarti i timpani, sconvolgere la musica rock svettandoci per un decennio marchiandola in eterno, e a te, donna, farti perdere il senno. È andata così, va così, e non c’è lezioncina politicamente corretta di rettitudine comportamentale, o valoriale, che non si frantumi di fronte alla potenza del suono del sesso e al pulsare di vita dei Led Zeppelin che batte indomito, e c’è. 

C’è, perché degli Zep mai si è smesso di parlare e men che mai in rete, né di campionarli, o di scriverne e questionarci e di nuovo scriverne libri come questo ultimo di Paolo Giovanazzi, "Led Zeppelin. Physical Graffiti. Le Storie Dietro Le Canzoni" (Giunti ed.), che appunto prende una per una le canzoni dei Led Zeppelin e le squarcia e le sbrindella e meticoloso le rimette intere perché ce la deve trovare e la trova, la gemma, il lato segreto, il mistero non carpito, ignorato, o mal capito e fuorviato e ingigantito.

I Led Zeppelin non si scollano d’un centimetro della loro fama di band feroce, maleducata, degenerata. Giovanazzi nulla copre né acquieta. Neppure il famigerato episodio dello squalo di Seattle. Finalmente lo dice, che non era uno squalo ma “un dentice rosso o un generico pesce”, che i Led Zeppelin hanno scelto a compagno di sesso “di una groupie consensualissima”.

E finalmente lo dice, che gli Zep forse non erano lì, avrebbero voluto assistere, sì, a tal coito ittico, ma l’autore della pesciata è stato Richard Cole, il loro road manager, e stop. E Giovanazzi finalmente lo dice che Robert Plant, il cantante degli Zep, per anni, seppur non consecutivi, ha frequentato la moglie Maureen e la sorella di lei Shirley, vale a dire sua cognata e frequentate a letto, e dove altro sennò. E che poi lascia Maureen e si mette con Shirley. 

E però non è vero, che John Paul Jones, bassista degli Zep, una volta si è portato a letto una trans non avendo capito che era una trans e che, al dunque, resosi conto della presenza di un altro pene, l’abbia cacciata via e nel trambusto dato fuoco al letto. Non c’è mai stata alcuna trans, ma l’incendio sì, “mi sono addormentato con un joint acceso”.

Ed è vero che lui, Jimmy Page, padre-padrone dei Led Zeppelin, lui che ve lo giuro, su quello che volete, ci sono chitarristi e famosi e virtuosi che è da una vita che stanno lì, a scervellarsi a capire Page che forza i limiti, come faccia, le metta le dita veloci, e come gli scivolino regalmente… dicevo che lui, Jimmy Page, non ce lo svelerà mai, non ce la attesterà mai, la sua devozione, e vizio, e ossessione per il fruscio di corde, lacci, velluto, fruste, celate e stipate nelle valigie, tour dopo tour.

Perché per Page il sesso o è (era?) in tal modo sadomaso orgasmo segnante carne… o non è. Jimmy Page satanista? I suoi Led Zeppelin demoniaci? Mica lo sapevo, e Giovanazzi me ne informa e nei dettagli, che Page è stato costretto a smentite pubbliche, in conferenze stampa atte a smontare allusioni ferenti i brani Zep, attribuendogli un potere malefico inesistente. A meno che non si voglia stringere al sesso una valenza mefistofelica in sé…

Che poi Jimmy Page in privato studi e sul serio pratichi saperi pagani, profani, empi, è tutto un altro discorso. Personalmente c’è da stravedere per un uomo – Page – che coi milioni guadagnati si compra dimore infestate, corrotte, luciferine, e ben di più per un uomo – Page – che spende milioni per aprire e rifornire una demoniaca libreria antiquaria. Fa’ ciò che vuoi. Ci sono saperi che non sono per tutti e che non tutti sono pronti a comprendere. Ma c’è una musica che ti entra in vena. Botta adrenalinica. A combustione spontanea. Killer. È tutta nervi. E energia. È il martello degli dei.

Ti lascia sfinita e soddisfatta come dopo una sc*pata ben fatta. I Led Zeppelin – e Jimmy Page – hanno riformulato il ne(g)ro linguaggio del blues ricomponendolo in chiave hard per l’era del rock. Schiacciasassi. Sigaretta alle erbe e Jack Daniel’s. E per ogni incaponito astioso detrattore dei Led Zeppelin, scatarrante ad accusarli di plagio, rimando alle pagine di Giovanazzi. Io non ho la sua sapienza e la sua pazienza a spiegarvi verso per verso e nota per nota dove è vero e dove no che gli Zep hanno preso a prestito e dove è vero e dove no che nel blues si copia e cosa sì e cosa no e se pratica abituale.

Io ancora devo conoscerlo un critico intelligentone ma coi c*glioni di dirlo e in faccia, a Jimmy Page, che è ladro. Gli Zep sì, e gli Stones no? E se gli Zep si sono masturbati col blues, gli Stones quanto? Dazed and Confused. Page rules. No quarter. Lui non fa prigionieri. “È un riff di Page: ci sono poche note”.

Addio ai Kiss: la band che ha suonato tutto e il suo contrario. Gianni Poglio su Panorama il 13 Marzo 2023

Dal rock and roll alla disco music, passando per l'hard rock in salsa pop, un concept album, le atmosfere grunge, l'heavy metal e i concerti con l'orchestra sinfonica. Dopo 50 anni si chiude l'epopea della band in maschera. Con due show al Madison Square Garden

Due concerti al Madison Square Garden di New York per salutare i fan. A conclusione di uno dei tour di commiato più lunghi della storia della musica, i Kiss (salvo sorprese clamorose) salutano a dicembre di quest'anno i fedelissimi fan della Kiss Army e chiudono i battenti. Oltre cento milioni di album venduti, migliaia di show in tutto il mondo, decine di dischi d'oro e di platino e l'inclusione per quanto tardiva nella Rock and Roll Hall Of Fame non sono sufficienti a raccontare la storia e le pirotecniche evoluzioni musicali della band in maschera (che in realtà dal 1983 al 1995 si è esibita senza il leggendario make up). Ed è proprio su questo aspetto che vogliamo soffermarci: poche band hanno attraversato i generi musicali con la disinvoltura dei Kiss. A differenza di quel che si potrebbe superficialmente immaginare, i Kiss non si sono risparmiati nulla. Nel bene e nel male. Certo, a inizio anni 70 erano un gruppo di rock and roll, puro, semplice seminale e a tratti grezzo. Sono stati più meno coerenti con se stessi per i primi tre album (di cui il secondo, Hotter Than Hell, registrato malissimo). Tre dischi classici con canzoni che ancora adesso sono il cuore della scaletta live: da Black Diamond a Rock and Roll all Nite passando per Cold Gin, Got To Choose, Deuce, Strutter e così via... Poi, con il capolavoro del 1976 e l'incontro con il geniale produttore Bob Ezrin, i Kiss cambiano pelle per la prima volta. Destroyer, diventa la loro magic box. I suoni si impreziosiscono, gli arrangiamenti diventano più complessi, la struttura delle canzoni pure, e gli effetti speciali (voci, cori, suoni, rumori di fondo) pervadono i brani (vedi Detroit Rock City). C'è spazio anche per Beth, l'hit single con pianoforte, archi ed il batterista Peter Criss alla voce. La costruzione di una nuova identità sonora che poi viene meno sia in Love Gun che in Rock and Roll Over, che invece, in particolare quest'ultimo, segnano un ritorno al rock viscerale degli inizi. Ma questa è solo la prima parte della storia. A un certo punto arrivano i quattro dischi solisti: Quelli di Ace Frehley e Paul Stanley sono coerenti con il sound della band e le rispettive attitudini. Quello di Gene Simmons è praticamente un album da musical con parecchie collaborazioni eccellenti (vedi Donna Summer, Bob Seger e Joe Perry degli Aerosmith) con qualche divagazione disneyana. Decisamente a tinte R&B il lavoro di Peter Criss. Nel 1979 i KIss sposano il trend disco music con I Was made for lovin' you e un 33 giri, Dynasty, che per quanto ricco di buone canzoni, di vero rock and roll ne ha poco. Ascoltare per credere l'incipit funk di Sure Know Something e l'anima black di Dirty Livin' cantata da Peter Criss. Non cambia il sound con Unmasked, che come primo singolo presenta Shandi una ballatona da fine anni Settanta con archi e coretti a volontà. E poi, ancora, due pezzi da dancefloor come Easy as it seems e What makes the world go round. All'universo "rock" appartengono Two sides of the coin e Torpedo Girl. Tomorrow avrebbe forse voluto essere la nuova I Was Made, ma non è andata proprio così...

Archiviata l'era disco, che cosa fanno i quattro nel frattempo rimasti orfani di Peter Criss sostituito da Eric Carr? Richiamano Bob Ezrin che aveva da poco prodotto The Wall dei Pink Floyd, per un concept album pomposo, con arrangiamenti orchestrali e qualche episodio di vero rock. Al puzzle album partecipa anche Lou Reed come coautore. Il risultato finale è talmente spiazzante ed inedito che non sembra nemmeno di ascoltare i Kiss. Detto questo, complice la follia inconsapevole che pervade i brani e gli arrangiamenti, The Elder è indubbiamente una delle perle della discografia del gruppo. Il disco non vende quasi nulla, ma resta per sempre nella memoria dei fan. Dopo la disco music e il concept album non rimaneva che ritornare al buon vecchio rock. In realtà Creatures Of The NIght, con il contributo decisivo di Vinnie Vincent (Ace Frehley è solo sulla cover), è il disco giusto nel momento più sbagliato. Un album hard and heavy con canzoni splendide (dalla title track a I Still Love You e Rock and roll Hell). Tutto perfetto a cominciare dal devasttnte suono della batteria di Eric Carr. Peccato che i Kiss siano ormai fuori moda. Il tour che segue Creatures è un fiasco assoluto. Non resta che togliere il make up (alla chitarra c'è Vinnie Vincent) e buttarsi a capofitto sull'heavy rock fast and furious degli anni Ottanta. Di dischi in questo stile i quattro ne incidono tre: Lick It Up, Animalize ed Asylum. Nell'insieme sono dischi che contengono pezzi di un certo spessore, spesso molto sottovalutati, come I've had enough, A million to one, King Of The mountain, Thrills in the night e And on the 8th day

Con Crazy Nights la band cambia ancora registro a cominciare dalla title track che entra nelle zone alte della classifica UK. il mood è quello dell'hard rock in salsa pop, un po' nello stile dei Bon Jovi. Suoni puliti, laccati, ritornelli, tastiere e una ballad, Reason to live che però resta piuttosto nell'ombra. Nuovi cambio di direzione con Hot in The Shade, un album nel segno del rock and roll essenziale (vedi Rise To It) con un paio di grandi canzoni come Hide Your Heart e Forever, la ballad che funziona e rimanda i Kiss nella Top Ten dei singoli in America. A inizio anni Novanta torna ancora Bob Ezrin e la musica dei Kiss diventa davvero heavy con Revenge. Un disco duro, potentissimo, lontano anni luce da Hot In The Shade, con un suono di chitarre che spacca e una manciata di pezzi notevoli come Unholy, Domino, Spit e I Just Wanna. Ad arricchire il tutto, la cover di God gave rock and roll to you e il "lento" Every Time I Look at You. Con l'unplugged di Mtv il suono dei Kiss si riveste di essenzialità acustica (alla performance partecipano anche Peter Criss ed Ace Frehley) È l'anticamera della reunion trionfale dei quattro membri della line up originale. Ma in mezzo a tutto questo i Kiss si erano reinventati ancora una volta incidendo (con Bruce Kulick alla chitarra) Carnival Of Souls il grande boh della loro carriera: un disco heavy grunge, cupo e pesantemente dark: l'esatto opposto dello stile della band che ha sempre celebrato la vita, il divertimento ed il rock and roll. Neanche un disco brutto, ma un album fuori contesto, che forse mirava ad uniformarsi al sound degli anni Novanta. Una piroetta evitabile... Rimesso il trucco, arriva Psycho Circus, un altro mistero targato Kiss. Peter Criss ed Ace Frehley ci mettono le voci in un paio di brani, per il resto l'album è un progetto di Simmons e Stanley con altri turnisti. Il risultato anche in questo caso è spiazzante. Un album puzzle senza una direzione musicale precisa, ma nel complesso venuto bene. Mistero nel mistero, la conclusiva Journey Of 1000 Years, una cavalcata progressive interpretata da Simmons e slegata da qualsiasi altro brano del disco. Bellissima.

Al magma sonoro della band nei decenni non poteva mancare l'esperienza con l'orchestra immortalata da Symphony, il live registrato in Australia dal vivo. Alla chitarra c'è Tommy Thayer a tutt'oggi titolare del ruolo. A chiudere il viaggio nelle mutazioni del gruppo ci sono poi Sonic Boom, essenziale e potente come un disco dei primi tempi e Monster, una scarica di adrenalina heavy che chiude la variegata discografia dei Kiss. Fine del lungo viaggio nelle mutazioni (anche di line up) di una band che non è mai rimasta uguale a se stessa. Tranne che dal vivo dove da decenni le variazioni della setlist sono minime e dosate con il contagocce...

Paul McCartney, caccia al basso sparito dal 1969: «Vale 11 milioni di euro». Storia di Giovanna Maria Fagnani su Corriere della Sera il 3 settembre 2023  

Nel 1961 Paul McCartney, allora bassista dei Beatles, lo comprò in un negozio di Amburgo, per 30 sterline. E presto quel basso violino, uno «Hofner 500/1» divenne «il suo preferito». Lo suonò in «Love me do» e in «She loves you» e nelle registrazioni di «Get back» e di «Let it be». Ma di quel basso, che oggi, secondo le stime, potrebbe valere 10 milioni di sterline, non c’è più traccia. Sparì nel 1969. Nessuno sa esattamente quando sia scomparso, dove fosse stato riposto, o chi l’abbia preso, ma si presume che il basso scomparve dopo la fine delle leggendarie sessioni di registrazione di «Get back» e «Let it be» nel gennaio di quell’anno. Ora una sorta di «caccia al tesoro», a livello globale, lanciata dall’esperto di strumenti musicali tedesco Nick Wass cercherà di ritrovarlo e «Risolvere il più grande mistero della storia del rock and roll».

Paul McCartney usò il basso violino per tutti gli anni ‘60: è uno strumento che fa parte dell’iconografia beatlesiana, come ricorda la Bbc. Wass, dirigente della stessa casa di produzione dello strumento, la Hofner, ha lanciato il «Lost bass project» (Il progetto del basso perduto) per ritrovare quello che lui descrive come «il più importante basso della storia musicale». Oltre a usarlo per incidere alcuni tra i più grandi successi dei Beatles, McCartney lo suonò negli show al Top Ten Club a Amburgo nel 1961 e al Cavern di Liverpool, continuando ad usarlo nelle registrazioni a Abbey Road. L’esperto tedesco conosce e ha collaborato con McCartney, arrivando a scrivere anche un libro sul basso svanito nel nulla. recentemente, parlando con l’ex Beatle, questi gli ha detto che vorrebbe ritrovare quell’Hofner. E così è nato il Lost bass project.

Barbara Costa per Dagospia sabato 8 luglio 2023.

Chi come me pensava che dentro i Beatles le rogne e le litigate scaturissero dagli ego ipertrofici di John e Paul, cambi idea: ma li sapete i casini che ha messo su Ringo??? È ora di parlarne, una volta per tutte. Ben lo fa Roberto Paravagna, autore di "Quattro Anelli tra le Dita. Vita di Ringo Starr" (Arcana ed., dal 14 luglio), libro sul batterista dei Fab Four, Ringo che io dentro i Beatles contavo scambista di coppia, con sua moglie Maureen, la quale si "scambia" con George (Harrison), mentre Ringo se la gode a letto con Pattie (Boyd), moglie di Harrison.

Se forse è vero che Pattie, al "dunque", si fa prendere da isteria, si chiude in bagno, manda Ringo in bianco, Maureen e George ci hanno dato dentro, e non una volta soltanto. A rivelarlo a Ringo è lo stesso George, in crisi di coscienza, in cucina con Ringo che fa colazione.

Ci credete che Ringo gli ha risposto: “Meglio te che uno che non si conosce” ?!?? Per par condicio do spazio alla versione di Maureen, secondo cui con George v’è stato essenzialmente “un rapporto emotivo”. E che vuol dire?! Che non hanno sc*pato?! Boh, fatto sta che Ringo non  ci crede, prende un aereo, e va in California, a consolarsi tra le braccia di Chris O’ Dell, la tuttofare dei Beatles. Qui li raggiunge Maureen, volente spiegazioni. Ringo non nega la consolazione. Si rimette con Maureen, ma si deprime, beve, e si alcolizza.

E questa è una porzione, dei guai di Ringo Starr, uno che sì, ha fatto la sua parte – e che parte! – nella Storia della musica, ma pure uno dalla vita travagliata fin dalla nascita: neonato sotto le bombe dei nazisti, mamma e papà divorziano che lui sgambetta, e il padre con lui si farà vivo poco e niente. Ringo è cresciuto dal patrigno (tanto che, quando Ringo diventa Beatle e più famoso di Gesù Cristo, il papà biologico dirà ai media di essere… suo zio!).

Seguono disgrazie: Ringo a sei anni è operato di peritonite, gravi complicazioni, va in coma, si fa un anno di ospedale. Ecco che sta per essere dimesso, cade dal letto, commozione cerebrale, e si fa altri mesi di degenza. Poi si prende la pleurite e sono due anni di sanatorio. Bocciato a scuola, non la conclude per lavorare come fattorino, e cameriere, poi falegname.

A nemmeno 20 anni, già si ritrova tra i capelli una ciocca grigia. Meno male che il patrigno gli regala una prima batteria, col tassativo di suonarla massimo mezz’ora al giorno, per la salvezza dei timpani dei genitori e dei vicini. Ringo campa col sussidio di disoccupazione mentre suona gratis con varie band prima d’entrare nei Beatles grazie a questo irrinunciabile invito di Lennon: “Puoi tenere le basette, se vuoi”.

La sfiga perseguita Ringo pure da Beatle: è operato alle tonsille, non è voluto per la registrazione di "Love me do" e di "P. S. I love you", gli preferiscono un turnista, e in "Yellow Submarine" gli tolgono il parlato. I brani che lui canta nei dischi dei Beatles o sono scarti (se scarto si può chiamare una composizione Lennon-McCartney…) comunque non hanno l’appeal di quelli che per sé stessi scrivono – e si tengono – John e Paul. Su tutti, "With a little help from my friends". Spicca in "Sgt. Pepper’s", sì, ma vuoi mettere il successo stratosferico che tocca nella versione di Joe Cocker? Ringo è contrarissimo che i Beatles smettano di suonare dal vivo, ma del suo parere George e Paul, e di più John, se ne imp*pano. Ringo soffre tantissimo dei malumori che serpeggiano dal "White Album".

Gli altri Beatle lo mettono sempre in mezzo. Ringo è colui che fa da paciere, finché è possibile. Signori, non è stato Paul a mollare per primo i Beatles, né è stato John come racconta McCartney, no, no, nooooo! Il primo ad andarsene dai Beatles è stato Ringo!!! E incaz*atissimo per questi due motivi: primo, perché pure lui aveva il suo disco solista, e che nessuno si filava, secondo perché arcistufo dei modi da boss di Paul che, in studio, si metteva lui, alla batteria, ad "insegnare" a Ringo come suonare! E in "Back in the USSR", la suona, di prepotenza, Paul.

Ringo se ne va, lascia i Beatles, e sta in panciolle sullo yacht di Peter Sellers, a ingozzarsi di calamari. Ma poi torna. Per poco. I Beatles si sciolgono definitivamente, e Ringo inizia a fare l’attore in film che oggi solo i beatlesiani, o meglio, i ringostarriani di stretta osservanza, citano. Sono film sperimentali, alternativi, dove, se la critica ma non tutta li affossa, i botteghini piangono. 

Tra un album solista e l’altro, Ringo divorzia da Maureen (che tenta il suicidio centrando un muro con la moto), si trasferisce a Montecarlo (in c*lo al fisco inglese), e diventa un habitué del jet set, "fatto" e finito. Si rade i capelli a zero perché “in testa sento caldo”, frequenta modelle, i casinò, e si azzuffa se male gli gira, e si sbornia coi suoi nuovi amici, Keith Moon e Harry Nilsson.

Nel 1981 Ringo sposa la modella Barbara Bach, alcolizzata pari a lui. Il gossip sguazza delle loro intemperanze in pubblico, fino al loro ricovero alla Betty Ford, dove entrambi capiscono un mai prima afferrato senso esistenziale. E diventano pure vegetariani. Ammette Ringo: “Io sono un tipo normale. Con me la vita è stata gentile”. In effetti, meglio batterista milionario più famoso sulla terra che anonimo squattrinato piastrellista e infatti, Ringo, alla stregua di gran parte dei ricconi, gira senza un soldo in tasca.

Chi è Paul McCartney: letterato, musicista, genio! Leggenda vivente, l’artista racconta più di 60 anni di carriera trascorsi tra i Fab Four e l’avventura solista. “Molti di voi pensano che il ‘63 o il ‘64 siano anni lontanissimi, ma vi posso assicurare che per me il ‘63 è ieri”. Graziella Balestrieri su L'Unità il 4 Luglio 2023

Un mucchio di foto, di negativi in realtà. Trovarli mentre si sta cercando altro. Sono foto del passato, foto che in un angolo della testa c’erano ma che negli angoli della casa erano andati forse dimenticati, scomparsi. Ritrovare un determinato ricordo, perché le foto sono il ricordo che cattura quell’istante, destinato a svanire l’istante dopo.

Le foto catturano le epoche, rappresentano i volti ancora più di una velocissima realtà. Le foto possono riportarti a quanto amore e odio c’era in quel tempo scattato in quella immagine…la foto accende il ricordo, lo riprende in mano e lo trasforma, lo rende vivo e attuale ma allo stesso modo la foto ferma il tempo. Che è poi frase comune, dire “una foto ferma il tempo”, ma se questa foto è nelle mani di Sir Paul McCartney, allora questo tempo che si ferma non è più qualcosa di privato, non un tempo che appartiene ad un solo individuo ma diventa tempo di tutti.

Ed è “Eyes of the storm” 1963/64 libro che raccoglie gli scatti inediti di un giovanissimo Paul McCartney fotografo, all’inizio degli anni del ciclone Beatles, insieme a Ringo, George e John, gli anni che li avrebbero consacrati poi come il gruppo più importante della storia della musica, quei quattro ragazzi che avrebbero influito sulla cultura, sulla società e ovviamente sulla musica come mai nessuno prima e ancora oggi, queste foto sono testimonianza della freschezza, della gioventù e sicuramente del passaggio di un’epoca, basti pensare che si va dal bianco e nero fino alle ultime foto a colori. Ma non ci sono solo i volti, ci sono le città, la scoperta di un mondo nuovo, l’America da un lato straordinariamente profumata di libertà, dall’altro negli scatti di Paul quell’America che vive la segregazione razziale.

Parigi, la bellezza, l’arte, l’atmosfera così di un tempo lontano, la gente, le persone e i volti, i fotografi che li inseguivano e che si lasciano fotografare entusiasti da Paul, tutti vogliono essere centrati da quell’obiettivo che sanno per certo li renderà parte di una storia. Ma non è solo un libro questo Eyes of the storm, uscito in Italia, per la Nave di Teseo, per chi ha la fortuna di andare a Londra alla National Portrait Gallery dal 28 giugno al 1° ottobre, la collezione è ancora più ricca. Mostra fotografica che è stata inaugurata il 28 giugno dallo stesso Paul, e che ha visto tra i presenti non solo i figli, dalla stilista Stella McCartney alla fotografa Mary ma anche un David Grohl (ex Nirvana, Foo Fighters) da sempre super fan del gruppo di Liverpool e poi Ronnie Wood de i Rolling Stones, una sfilata di star internazionali incuriosite nel vedere scatti inediti dei quattro ragazzi più famosi del mondo, come se ci si aspettasse sempre qualcosa di nuovo su di loro e da loro, ancora nel 2023. E non solo, ma anche per rendere omaggio a quello che si può considerare l’artista più influente, importante e assoluto nel mondo della musica.

Il 29 giugno Paul, che non si risparmia mai, è stato ospite dell’attore Stanley Tucci e per chi ne ha avuto la possibilità si poteva seguire in streaming tutta questa chiacchierata intessuta di ricordi accompagnata dallo sfilare di alcune delle foto presenti nella mostra. È un McCartney sempre generoso, non si risparmia mai, spiega nei dettagli molte cose: ci dice di come sono state ritrovate le foto, della sua passione per i volti e le città, di quanto sia minuziosamente in grado di parlare della tecnica di sviluppo di allora come di quella di oggi. Ed è lui a chiedere se in sala è presente qualcuno che studia fotografia, e quando un ragazzo presente alza la mano, Paul chiede incuriosito: “Studiate questa tecnica?”, riferendosi a quella usata da lui per queste foto: “Studiatela perché è importante, vi fa capire come nasceva una foto, non è tutto veloce come ora. C’era una sorta di disciplina da seguire anche qui nella fotografia”.

Poi racconta della foto di John Lennon con gli occhiali da vista, rivelando che era miope ma che in pubblico non indossava mai quegli occhiali, le facce di Ringo, apparentemente quello più disponibile di tutti a farsi fotografare ma in realtà quello meno naturale di tutti nelle foto, sempre scomposto, sempre alla ricerca di una faccia che non era la sua. Gli scatti raccontano ancora di più John e George, così già divo il primo, così abituato agli scatti, così già in un mondo tutto suo, mentre timido il secondo e poco incline al sorriso. Però ce ne è una che esce alle spalle di Paul che rappresenta George sorridente, forse l’unica foto ed è lì che nel guardarla McCartney si commuove, perché come dice lui – “si vede che era davvero felice”.

E ancora secondo Paul, George Harrison è quello che rappresenta la foto più significativa, più intensa e più segnante: in piscina, una foto a colori, segno dei tempi che cambiano, un drink in mano, una bella ragazza accanto, alla quale volutamente non è stato fotografato il volto. Una foto che rappresenta la gioventù, la voglia di divertirsi, dell’essere giovani che gli stava sfuggendo di mano per la troppa popolarità, i colori che cambiano la vista, la prospettiva e gli anni che diventano come le lancette dell’orologio, in un tic-tac continuo, talmente continuo che quel tic-tac si può interrompere, così come i colori possono sfumare, così la giovinezza. E poi le foto davanti agli specchi da parte di Paul, così già avanti, così già nel 1963 come se stesse postando scatti per Instagram.

E poi la cosa più impressionante della conversazione con Stanley Tucci è che Paul McCartney ad un certo punto dice. “Molti di voi non erano nemmeno nati, molti di voi pensano che questi anni qui, il 1963, il ‘64 siano anni lontanissimi, perché in effetti sono passati 60 anni, ma vi posso assicurare che per me il 1963 è ieri”. E lo dice con una naturalezza e la convinzione di chi stia vivendo questo tempo con gli occhi del 2023 ma con il cuore e l’anima di ieri. Uno ieri non lontanissimo, ieri 28 giugno 2023 come il 28 giugno del ‘63. E allora torniamo a ieri, ai Beatles, a quello che sono stati, a quello che più o meno anche un bambino di dieci anni sa, o pensa che siano eroi di un cartone animato o in malo modo se li ritrova su qualche libro di testo.

Questa mostra fotografica di Paul McCartney però è l’ennesima dimostrazione, perché pare che ce ne sia sempre bisogno, di come sir Paul possa essere definitivo senza nessuna remora (e me ne prendo la responsabilità) l’artista del secolo. Non c’è bisogno di essere fan di Paul McCartney, non bisogna essere esperti di musica o altro. Che lo vogliate o no, che siate esperti o meno, che siate sostenitori di un gruppo piuttosto che di un altro, che magari non riusciate a capire cosa possa significare avere un dono come il suo e allo stesso tempo essere capaci di disciplina per portar fuori quel dono o che il vostro stile musicale sia mille miglia lontano dal suo. Non importa. Paul McCartney non può entrare in futili discussioni, non rientra nei gusti musicali, Paul McCartney andrebbe già da tempo studiato nelle scuole, insieme a Mozart o a Beethoven. Sì, Ludwig Van Beethoven, Wolfgang Amadeus Mozart e Paul James McCartney.

E se non siete certi di questo, se non vi bastano composizioni musicali e testi come Let it be, I’ve just seen a face, The fool on the hill, Blackbird, Golden Slumbers, Carry that weight, The long and Winding Road, ripetiamo The Long and Winding Road, o Helter Skelter, che ricordatevelo sempre, ha cambiato la storia della musica rock, o le composizioni durante la carriera solista da Maybe I’m Amazed, Live and Let die, Nineteen Hundred and Eighty Five o per ultime Happy with you o Despite Repeated Warnings, provate a guardare il documentario Get Back e capirete la genialità assoluta di Paul McCartney, la prontezza nella composizione di un brano, stiamo parlando di un ragazzo che seduto al pianoforte compone lì all’istante Let it be.

E non solo questo, perché non è solo il genio o l’avere le note in testa da parte di Paul McCartney, ma forse una delle qualità maggiori è la sua disciplina, la dedizione al suo lavoro, il genio di Paul McCartney è come lavora, il come. Per cui non solo andrebbe seriamente studiato nelle scuole, ma con un capitolo a parte, riservato, insieme ai compositori come appunto Beethoven e Mozart, e ancora di più di fatto e nella realtà per quanto si possa stimare Bob Dylan, e non abbiamo dubbi su questo, ma siamo sicuri che Bob Dylan merita il premio Nobel per la letteratura con le motivazioni con le quali gli è stato assegnato ovvero “per aver creato una nuova espressione poetica nell’ambito della grande tradizione della canzone americana” e non lo merita Paul McCartney?

Voi direte “eh, ma Dylan ha scritto Blowing in the wind”. E allora? Paul McCartney ha scritto Let it be. Siete sicuri che la musica di Dylan e i suoi testi abbiano influito più di quelli dei Beatles o in questo caso di Paul McCartney sulla società e sul modo di comporre canzoni? Pensate a quanto sarebbe straordinario l’anno prossimo agli esami trovare una traccia così: “sottolineare le differenze tra la scrittura di Paul McCartney e Bob Dylan e le influenze culturali che queste due figure hanno avuto e hanno sulla società ancora oggi”. Eyes of the storm non è solo il libro e la mostra di Sir Paul McCartney ma sono i ricordi di ieri dell’artista del secolo, che non entra in nessuna classifica ma per diritto dovrebbe stare nei libri di storia.

Graziella Balestrieri 4 Luglio 2023

Estratto dell'articolo di Marinella Venegoni per la Stampa il 30 giugno 2023. 

«È stata una tempesta pazzesca, un turbine pazzesco, i Beatles erano nell'occhio del loro stesso ciclone, anzi negli "occhi", perchè le tempeste erano molte ed erano molti quelli che ci guardavano». La sorte ha voluto che a reggere il testimone dell’incredibile saga dei Beatles sia rimasto Paul McCartney. Il meno tormentato dei Quattro, quello a cui è sempre piaciuto raccontare storie e aneddoti di una vita straordinaria, colui che con il passare del tempo è apparso scevro da rancori e privo di complessi, come sempre è sembrato invece l’altro sopravvissuto Ringo Starr, chiuso in un proprio mondo difficilmente decifrabile.

[…]il libro fotografico di McCartney appena uscito in Italia per la Nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi con il titolo 1964 - Gli occhi del ciclone, finisce per chiudere (forse) il cerchio una volta per tutte, raccontando i Beatles dall’interno attraverso 275 fotografie inedite (da oggi anche in mostra alla National Portrait Gallery di Londra) scattate da Paul stesso in un anno cruciale in cui gli ancora abbastanza semplici ragazzi di Liverpool uscivano per la prima volta dai confini […] 

Quasi mille foto aveva scattato Paul, tutt’altro che professionali ma significative di un’atmosfera e dei suoi occhi che sorpresi e divertiti e orgogliosi guardavano il mondo. 

Foto conservate con cura, ritrovate durante il lockdown: e sembra impossibile che dietro tale cura non ci fosse l’indimenticabile moglie Linda Eastman, scomparsa nel ‘98 e appunto fotografa nonché compagna del marito nei Wings. […]

«È stato bellissimo, sono ripiombato in quei momenti e sulle mie relazioni di allora: il nostro manager Brian Epstein e altri tipi. Erano quasi istantanee di famiglia, e riguardandole mi è piaciuto che la qualità fosse buona. Avevo scelto bene l’argomento, la composizione e l’umore dei protagonisti. Ma il loro valore non è artistico, è storico. Non voglio spacciarmi per fotografo professionista, sono contento di esser pensato come uno che è stato nel posto giusto al momento giusto». 

[…] Il libro è corredato da un’analisi della storica Jill Lepore, ma soprattutto è straordinariamente vivace la testimonianza scritta dello stesso McCartney.  Appare come galvanizzato dai ricordi della gioventù, della famiglia di provenienza, dei costumi d’epoca. Mai dimenticare le proprie radici, è la lezione. Nella famiglia di Paul, poi, tutti erano appassionati di fotografia […]

Quando esplose il fenomeno Beatles, fu come un assalto che attraversò la cultura di massa come mai nulla prima di allora: «La cosa bella è che noi lo volevamo. Eravamo stati una piccola band di Liverpool con l’ambizione di diventare una cosa grande. Volevamo la fama, e il brivido della fama che sarebbe arrivato». Alla passione per la vostra musica, teneva dietro pure il modo di vestire, il taglio dei capelli: eravate consapevoli di essere anche icone visuali? «Sì certo, fin dagli inizi abbiamo pensato al lato visuale, John veniva da una scuola d’arte, io ne ero appassionato, era parte di noi: le giacche abbinate, sembrare tutti uguali. Il taglio di capelli fu ad Amburgo, lo aveva un nostro amico e lo facemmo pure noi. Realizzammo che disegnavamo un’immagine». 

[…]Mentre eravate a Parigi, arrivò la notizia che I Want to Hold Your Hands diventava numero uno della classifica Usa; che cosa ricorda?

«Avevo sempre detto a Epstein e ai ragazzi che in America si poteva andare solo con un primo posto in classifica. Eravamo all’hotel George V e arrivò il telegramma. Urlammo, ballammo. Era ora di partire: il numero 1 apriva un sacco di porte, potevamo andare all’Ed Sullivan Show in tv. L’America era un grande premio, la casa dei film che amavamo, la casa del blues, di Elvis, Buddy Holly, Chuck Berry, Jerry Lee Lewis, e anche di James Dean e Marlon Brando».[…] Da quel momento ci fu un sacco di pressione su di voi? «Sì, ma poiché eravamo idioti spiritosi, e scherzavamo fra di noi, tutto diventava più leggero, fu la nostra valvola di salvezza». […]».

Estratto dell'articolo di Chiara Bruschi per “il Messaggero” il 25 maggio 2023.

«Le persone non mi credono quando dico che non ho rimpianti. Ma davvero non ne ho. Ho goduto della mia vita immensamente». Chas Newby […] se ne è andato all'età di 81 anni, […] questo bassista sconosciuto, che ha vissuto lavorando per un'azienda che produceva parabrezza e quando è andato in pensione si è messo a insegnare matematica ai ragazzi delle superiori, avrebbe potuto diventare invece una rock star, negli anni Sessanta.

Lui, il quinto Beatle mancato, è stato il primo bassista mancino della band. E quando la storia gli ha dato la possibilità che in molti avrebbero fatto carte false per avere, ha semplicemente fatto i conti con se stesso, con le sue ambizioni più sincere, e ha detto «no, grazie». «La musica non sarebbe mai stata la mia fonte primaria di vita. Tutti noi in quel tempo pensavamo a quello che avremmo voluto fare da grandi. Alcuni volevano insegnare, altri lavorare nella scienza. Io volevo diventare chimico. John, Paul e George, volevano fare i musicisti», confiderà negli anni Novanta in una lunga intervista.

Per raccontare questa incredibile storia occorre tornare nel 1960, […] Durante le vacanze di Natale, l'allora batterista Pete Best - più avanti sostituito con Ringo Starr - fa il nome di Chas a John Lennon, Paul McCartney e George Harrison. Di ritorno da Amburgo, dove avevano suonato nei locali le cover di Buffy Holly e Chuck Berry, erano in cerca di un bassista che sostituisse il loro, Stuart Sutcliffe, rimasto nella città tedesca.

E così, per una sterlina a serata, Chas accetta di esibirsi con gli altri musicisti ma alla fine delle gig, ovvero delle serate concordate, decide di tornare al college. E quando Lennon gli chiede di seguirli in tour nella Germania dell'Ovest, dove stavano per tornare visto il successo delle settimane precedenti, Chas rifiuta. Il "no" di Chas ha cambiato per sempre la storia dei Beatles perché ha portato Paul McCartney a imbracciare lo strumento. […]

«Devi capire - aveva detto Chas a Birmingham Live che lo aveva intervistato alcuni anni fa - che le probabilità di farcela erano minuscole a quel tempo. Da quando io li ho lasciati al successo di Love me do sono passati due anni. A Liverpool non c'erano studi di registrazione, non c'era produzione musicale. Era tutto a Londra. Ce l'hanno fatta solo grazie al duro lavoro di Brian Epstein, il loro incredibile talento e il tempismo». […]

Nato a Liverpool nel 1941, Chas ha 19 anni quando rifiuta la richiesta di Lennon. Si laurea e ottiene un master in Ingegneria chimica alla Manchester University. Dieci anni dopo, con la moglie Margaret con cui avrà due figli e quattro nipoti - si trasferisce ad Alcester e comincia a lavorare per la Triplex, azienda che produce finestrini per treni e aerei, inclusi i jet della RAF o della flotta Concorde. Nel 1990 va in pensione e decide di studiare per insegnare matematica alla Warwick University. […]

Estratto dell'articolo di Andrea Silenzi per “la Repubblica” giovedì 7 dicembre 2023.  

[…] l’assassinio di John Lennon […] ha trafitto intere generazioni. […] Della follia dell’omicida, Mark David Chapman, all’epoca venticinquenne, e delle modalità di quell’assurdo assassinio si sapeva già molto. Ma non tutto. Murder without a trial è la nuova serie disponibile su Apple Tv+ che ricostruisce nel dettaglio la notte dell’omicidio e i giorni successivi, […] Con il materiale raccolto grazie al Freedom of Information Act, ovvero la legge sulla libertà di informazione che prevede la declassificazione di documenti dopo un certo numero di anni, la serie diretta da Nick Holt e Rob Coldstream mette insieme elementi inediti che offrono una ricostruzione dettagliata di quel tragico evento.

Parlano investigatori, medici, poliziotti ma i racconti più toccanti sono quelli degli addetti […] A cominciare da Jay Hastings, il portiere del Dakota che fino a oggi non aveva mai voluto raccontare quella drammatica esperienza: «Mi passa davanti. Fa: “Mi hanno sparato”. Il sangue gli usciva dalla bocca. È crollato a terra. L’ho fatto rotolare sulla schiena e gli ho tolto gli occhiali, mettendoli sulla scrivania. E Yoko urlava: “Chiamate un’ambulanza, chiamate un’ambulanza, chiamate un’ambulanza...” ».

La concitazione, lo stupore, il trasporto in ospedale dove Lennon arrivò in fin di vita e trovò il disperato supporto di una incredula infermiera che era una sua fan. […] un’epopea interrotta all’improvviso da cinque colpi di pistola sparati dopo un interminabile appostamento. Chapman si era già avvicinato a Lennon ore prima, confondendosi con i gruppi di fan che stazionavano regolarmente di fronte all’ingresso del Dakota.

Uno dei portieri lo aveva notato e gli aveva chiesto il motivo di quella sua permanenza: «Vorrei un autografo di John Lennon». Rimase lì fino al ritorno di John dallo studio di registrazione: era appena rientrato sulle scene con l’album Double Fantasy e, come spiegano i suoi collaboratori, era nuovamente felice. La serie offre le testimonianze, tra le tante, dell’avvocato della difesa, della psichiatra che per prima valutò Chapman, uno psicopatico che si era convinto che Lennon avesse tradito i suoi ideali, di un tassista che aveva accompagnato una coppia che doveva andare a una festa proprio al Dakota e che si trovò ad assistere casualmente all’omicidio. […] Chapman aveva in mano una copia di Double Fantasy . «Ehi, mister Lennon ». Cinque colpi. Erano le 22.51. Poi si è scusato con i poliziotti: «Vi ho rovinato la serata».

Anzi, da quello che so, non le beve. Proprio non le ha mai bevute quasi, anzi per lei sono acqua sporca, però qualcuno l'aveva detto. Che facciamo? Lo diciamo lo stesso da mettere nei dettagli?" Probabilmente nell’audio Filippo fa riferimento a un cartellone […] 'papiro di laurea', un grande foglio che raccoglie in forma scritta gli episodi più divertenti e le disavventure vissute dal laureato, le sue citazioni più celebri e una serie di ringraziamenti ironici. Al centro del cartellone troneggia una caricatura dello studente che viene rappresentato in modo goliardico.

DAGONEWS il 23 aprile 2023.

John Lennon e Yoko Ono si sono separati dal 1973 al 1975. In quegli anni lei acconsentì che il mebro dei Beatles avesse una relazione con una sua dipendente molto più giovane di lui. Lei era May Pang, 23enne segretaria personale di Lennon che ora ricorda nel documentario  “The Lost Weekend” come quella relazione, piena di bei momenti, sia iniziata tra le lacrime. «Ho pianto la prima volta che ho fatto sesso con lui perché non sapevo dove mi avrebbe portata». 

Nel documentario, la produttrice musicale descrive in dettaglio la loro storia d'amore che è durata in un modo o nell'altro fino alla tragica morte di Lennon nel 1980. Ono, che era sposata con Lennon da quattro anni, voleva del tempo per stare da sola e ha incaricato Pang di trascorrere del tempo con suo marito e di essere la sua ragazza. «Ho rifiutato - ha detto Pang a People - Ho rispettato il loro matrimonio. Ho detto: 'Non è quello che voglio fare’.»

Ma Lennon, che aveva 10 anni più di lei, alla fine la convinse a fare il “salto”.

La coppia, alla fine fu travolta dal sentimento, ma Ono era ancora molto presente nella vita di Lennon. Lo chiamava anche 15 volte fino al giorno in cui Lennon decise di tornare con lei, spezzando il cuore di Pang.

Nonostante tutto, Pang ha ricordato il suo ex amante come “una persona interessante”: «Amava davvero tutto e voleva esplorare. Gli piaceva alzarsi, prendere il caffè la mattina. Amava i pancake ai mirtilli, amava nuotare. Era solo una persona fantastica che voleva scoprire cose. George una volta ha detto: 'Sono così felice che tu stia con John', ed è stata una cosa carina da parte sua da dirmi"».

Ad un certo punto durante la loro separazione, Ono aveva chiesto a Lennon il divorzio e lui aveva accettato. La separazione legale, però, non è mai avvenuta perché Ono è stata colta alla sprovvista dalla disponibilità a separarsi definitivamente e la coppia si è riconciliata.   Fu quell’improvvisa disponibilità al divorzio di Lennon a convincere Ono a mettere fine alla liaison con Pang e a riprendersi il marito.

Nonostante Lennon e Ono si siano riuniti e lui abbia ufficialmente chiuso la relazione con Pang, i due hanno continuato a vedersi nei cinque anni successivi: «Veniva a trovarmi di nascosto e mi diceva: “Sai, ti amo ancora”. Mi diceva cose davvero molto intime, e potevi sentire che c'era ancora qualcosa. Non era una situazione finita. La nostra relazione è stata un dono e doveva esserlo. Ero felice di potergli dare qualcosa per cui si sentiva bene, che non aveva mai provato prima».

John Lennon e la storia con l’amante May Pang: «Fu Yoko Ono a volerlo. Che non gli passava le telefonate del figlio Julian». Viviana Mazza, corrispondente dagli Stati Uniti su Il Corriere della Sera il 12 Aprile 2023

L’ex segretaria della Apple racconta la relazione con il Beatle che durò 18 nesi

«Fu Yoko Ono a chiedermi di avere una relazione con John Lennon», racconta May Pang in The Lost Weekend: a Love Story, un documentario che arriva nei cinema americani il 13 aprile, cinquant’anni dopo. Quel periodo tra il 1973 e il 1975, che durò 18 mesi e coincise con una separazione tra Lennon e Ono, è stato soprannominato «il weekend perduto» (titolo di un film del 1945 di Billy Wilder su uno scrittore alcolista), perciò molti pensano che sia stata una fase di eccessi e rimpianti. May, allora ventiduenne, racconta una storia diversa. «In un certo senso Yoko si approfittò di me, perché ero ingenua. Ma mi fece anche un dono: John e io ci innamorammo».

Nata ad Harlem da genitori cinesi, rifiutata dal padre che non voleva una femmina, Pang aveva un’anima ribelle e una passione per il rock’n’ roll. Con spirito di iniziativa si fece assumere dalla Apple Records e poi fu scelta da Yoko come assistente personale della coppia (le toccò andare a caccia di mosche per il film «Fly» in cui volano sul corpo nudo di una donna eroinomane). Sa di non essere stata l’unico amore di Lennon. «Amava Cynthia, amava Yoko, ma ha amato anche me». La incontriamo nel quartiere di Chelsea, New York, alla presentazione di una mostra delle foto che gli scattò tra New York e Los Angeles: in una di esse, lui le aveva rubato gli abiti per indossarli. Oggi è una signora dai capelli tinti di lilla, che risponde pazientemente alle domande di tutti i curiosi e di tutti i fan dei Beatles, che — per oggi — qui a New York sono in fila per lei.

Che cosa le disse Yoko?

«Venne nel mio ufficio. Da tre anni lavoravo per loro. Ed esordì: “John e io non andiamo d’accordo”. Chiunque lavorasse con loro lo sapeva, ma non ne parlavamo, erano i nostri capi. “Comincerà a vedere altre persone”. E poi aggiunse: “Tu non hai un fidanzato, giusto?”. Io alzai lo sguardo e risposi: “Non è una cosa che mi interessa”. Ma lei: “Penso che saresti perfetta”. Dicevo di no, lei insisteva. Poi si è alzata e se n’è andata. E io sono rimasta là, in lacrime. Ma non cominciai a frequentarlo perché me l’aveva chiesto lei. Fu lui a corteggiarmi. Più avanti John mi disse che Yoko era andata anche da lui: “È tutto risolto. Puoi uscire con May”. Ma John era scioccato quanto me. All’inizio non voleva».

Lei sostiene che Yoko volesse avere una storia con un altro musicista. Alla fine cosa si aspettava?

«Ha detto una volta a qualcuno che era sorpresa che la nostra relazione sia durata così a lungo, pensava che sarebbe finita in due settimane».

Perché ha deciso di tornare su questa vicenda oggi?

«Negli anni la gente ha iniziato a riscrivere la mia storia, nonostante il mio libro, Loving John del 1983. La mia amica Eve Brandstein, una dei registi con Richard Kaufman e Stuart Samuels, mi aveva proposto di fare un documentario 25 anni fa, ma dissi di no. Sei anni fa ne abbiamo riparlato: ero pronta».

Lennon era un uomo complesso, problematico, abusava di droghe. Un paio di volte fu violento con lei.

«Non dico che non ne facesse uso, ma non costantemente. Tutti dicono: era sempre ubriaco e non è vero. Io bevevo solo Coca-Cola. E spesso si dimentica che quello fu il periodo più produttivo per John dopo i Beatles: era felice, si riunì con i suoi “fratelli”, collaborava con Elton John, Bowie, Harry Nilsson, scriveva continuamente (sono gli anni di Mind Games, Walls and Bridges con il single Whatever Gets You Through the Night, Rock’n’Roll, ndr).

Lei racconta che Yoko evitava di passare a John le telefonate di suo figlio Julian.

«Ero molto preoccupata per Julian. So cosa si prova, perché mio padre non mi aveva voluta. Aiutai anche la madre di Julian, Cynthia, a recuperare un dialogo con John».

Alla fine però lui tornò da Yoko . Il controllo e la sicurezza di una figura materna ebbero un peso?

«Forse. Lui non la vedeva così, ma gli altri potevano percepirlo. Lei aveva 17 anni più di me. John disse che la ragione era che aveva paura che gli rifiutassero la Carta verde per stare negli Stati Uniti: glielo aveva detto Yoko. Per me fu uno choc: stavamo per comprare casa insieme».

L’ultima volta che si parlarono, Pang disse a Yoko: «Congratulazioni, hai riavuto John, dovresti essere felice». Lei rispose: «Felice? Non credo che lo sarò mai». Pang sposò Tony Visconti, uno dei più importanti produttori di musica rock. «Un italiano — dice —. Avevamo una compagnia di produzione e due figli di cui sono orgogliosa».

Estratto dell'articolo di Ernesto Assante per “la Repubblica” il 22 marzo 2023.

I libri ancora non segnano questa come una data essenziale per la Storia del mondo, eppure il 22 marzo del 1963, sessant’anni fa, iniziava una nuova era, quella annunciata da un album, intitolato Please please me, pubblicato da quattro ragazzi di Liverpool che rispondevano al nome di Beatles. Che il mondo sia cambiato dopo l’avvento dei Beatles è indiscutibile, […]  Con Please please me inizia quello che ogni ragazzo nel dopoguerra aveva immaginato come “il futuro”: non è più lontano, ma è lì, davanti agli occhi di tutti, vestito con giacche attillate, stivaletti e capelli più lunghi del normale. […]

Il loro primo singolo, Love me do nell’ottobre del 1962 ha avuto un buon successo, ma il secondo, Please please me, a gennaio del 1963 ha immediatamente conquistato la vetta delle classifiche. Due canzoni sono bastate a rendere chiaro a tutti che quei quattro dicono, in maniera allegra, elettrica, che quello che loro vogliono non è quello che vogliono i loro genitori, che il mondo che immaginano è più colorato, divertente, sensuale e libero, che è suonata la campana dell’ultima ora e loro stanno per uscire da scuola e conquistare il mondo.

E lo fanno con un album registrato l’11 gennaio del 1963, quattordici brani, in un solo giorno, anzi per essere precisi in nove ore e quarantacinque minuti, in tre sessioni di poco più tre ore l’una, negli studi di Abbey Road, sotto la guida paterna e solidale di George Martin. […] Nell’album ci sono Twist and shout, I saw her standing there, P.S. I love you, oltre ai due singoli già usciti, e altre cover, e tutto suona luminoso, solare, e soprattutto nuovo.

Nei quindici giorni seguenti l’uscita dell’album la band vende oltre 250.000 copie, e il 13 aprile appare per la prima volta sugli schermi della BBC. L’album resta in classifica per tutto l’anno, sostenuto da un altro singolo (una vera bomba atomica), She Loves You che esce ad agosto, vende un milione e ottocentonovantamila copie e resta fino al 1977 il singolo più venduto della storia […]

A novembre esce un secondo album, With The Beatles e in un solo anno tutto quello che sapevamo della musica pop viene cancellato e riscritto.

The Beatles e "Please please me", un mito lungo 60 anni. Carlo Antini, Parole e musica come ascisse e ordinate, su Il Tempo il 03 febbraio 2023

Quindici ore di lavoro matto e disperatissimo per registrare il loro primo album. Fin dagli esordi la storia dei Beatles è da record. L’11 febbraio 1963, esattamente 60 anni fa, Paul McCartney, John Lennon, George Harrison e Ringo Starr (a cui si aggiunse Andy White) si chiusero negli studi di registrazione londinesi di Abbey Road per registrare «Please please me», 14 canzoni che segnarono il debutto assoluto nel mondo dei long playing. Il disco costituì una vera novità dal momento che, all’epoca, i cantanti raramente componevano i brani dei loro album e i 33 giri erano costruiti prevalentemente rilanciando un singolo di successo accompagnato da materiale riempitivo di mediocre fattura. «Please please me» fu prodotto da George Martin e pubblicato il 22 marzo 1963. Vendette subito 500mila copie raggiungendo il primo posto nella classifica britannica. Quanto alla copertina, dopo aver scartato altre ipotesi (alcune originali, altre «dozzinali» e «atroci») Martin si rivolse al fotografo Angus McBean che convocò i futuri Fab Four nella sede della Emi di Manchester Square e chiese loro di indossare il costume di scena e sporgersi dalla ringhiera della tromba delle scale.

La tracklist comprende «I saw her standing there», «Misery», «Anna (go to him)», «Chains», «Boys», «Ask me why», «Please please me», «Love me do», «P.S. I love you», «Baby it's you», «Do you want to know a secret», «A taste of honey», «There’s a place» e «Twist and shout». Oltre agli 8 brani firmati Lennon-McCartney erano presenti 6 cover: «Anna (go to him)» è una canzone scritta da Arthur Alexander e cantata nella versione originale dallo stesso autore, «Chains» è un brano scritto dal duo Goffin e King, «Boys», scritta da Luther Dixon e da Farrell, e «Baby it’s you», scritta da Burt Bacharach, sono due canzoni rese famose dalle Shirelles, un quartetto vocale molto amato da John Lennon, «A taste of honey» è stata scritta da Scott e Marlow e «Twist and shout» è una canzone di Medley e Russell portata al successo dagli Isley Brothers. Il disco uscì con tre etichette di colore diverso corrispondenti alle diverse ristampe: la prima in mono (oggi divenuta preziosissima) in rosso indaco, poi rossa, quindi nera. Nel 1970 l’album fu infine ristampato con la celebre etichetta Parlophone nera.

Prima del 22 marzo ’63, i Beatles avevano pubblicato solo due singoli «Love me do» nell’ottobre 1962 e «Please please me» pubblicato l’11 gennaio 1963. Il primo riscosse un discreto successo mentre il secondo fu la prima canzone dei Beatles a raggiungere la posizione di testa nelle classifiche di vendita del Regno Unito, come era stato previsto dallo stesso Martin. E proprio sessant’anni fa, il 7 febbraio ’63, «Please please me» fu il primo singolo a debuttare nel mercato Usa. A testimoniare il boom dei Fab Four fu l’andamento delle adesioni al Beatles Fan Club. All’inizio del 1963, i membri ammontavano solo a un migliaio. Alla fine dello stesso anno, invece, il numero degli iscritti era già salito vertiginosamente fino a toccare le 80mila unità. «I compositori inglesi più straordinari del 1963 sono, a tutti gli effetti, John Lennon e Paul McCartney - scrisse William Mann sul «Times» - Le settime maggiori e le none si integrano così bene da far pensare che armonia e melodia vengano partorite insieme». Il mito Fab Four era appena nato ma il loro primo record era già scritto.

Estratto dell’articolo di Seba Pezzani per “il Giornale” l’1 febbraio 2023.

Quello dei Beatles è stato un fenomeno di tal portata che anche chi non li ha mai amati particolarmente ha finito per conoscerne canzoni, storia e pettegolezzi. Per esempio, il fatto che sia esistito un quinto Beatle, indicato da alcuni nel loro mentore e manager Brian Epstein.

 Quel titolo onorifico […] è spesso stato attribuito a George Martin, il mitico produttore di tutti i loro dischi tranne Let it be. Chissà che, dopo aver letto Registrando i Beatles (Here, there and everywhere) (Coniglio Editore, traduzione di Luigi Abramo, pagg. 421, euro 28), vi sentiate di tributare tale onore allo stesso Martin in coabitazione con Geoff Emerick, il tecnico del suono che ha scritto (insieme a Howard Massey) questo interessante e, a tratti, scanzonato libro.

 La sua sarebbe la storia di un lavoratore come ce ne sono tante se non avesse incrociato il percorso dei Beatles. Emerick non fa mistero dell’ansia provata quando, ancora giovane, più o meno coetaneo dei quattro fenomeni di Liverpool, accettò su richiesta di George Martin di fare da tecnico del suono ai Beatles: «L’unica cosa che stavo pensando era: speriamo di non mandare tutto a puttane».

[…] Gli studi di Abbey Road che, come ci dice Emerick, iniziarono a portare quel nome solo nel 1970, erano enormi, pensati per ospitare intere orchestre sinfoniche. Spesso, il materiale fonoassorbente era talmente vetusto che, quando per la prima volta venne superata una certa soglia sonora, i pannelli del soffitto si sgretolarono, creando una sorta di nube tossica all’interno dello studio.

 […] È stato scritto praticamente tutto sulla vicenda umana e artistica dei Fab Four e molti degli aneddoti riportati da Emerick non sono certo inediti, ma colpisce il suo disincanto e pure la sua sincera ammirazione per quella musica a cui sente di aver dato un contributo importante.

Come quando John Lennon si presentò in studio con l’abbozzo di uno dei suoi pezzi più celebri, Tomorrow Never Knows, durante le session di Revolver. John disse che il pezzo era diverso da qualsiasi cosa avessero mai concepito prima: «Ha un solo accordo e... voglio che la mia voce suoni come il canto del Dalai Lama dalla cima di una montagna».

Emerick, rammentando che i brani monotonali erano sempre più di moda in quella fase embrionale della psichedelia, era convinto che fossero pensati per un ascolto da “fumati” o da trip. La sua perplessità iniziale è evidente, ma quelli erano i Beatles e non li si poteva deludere: con l’utilizzo di loop primordiali, ovvero pezzi di nastro incisi e giuntati, il fonico realizzò un trucco sonoro che finì per essere preso a modello da schiere di musicisti del periodo. Registrando i Beatles è un libro godibilissimo. Non solo per beatlesiani.

Barbara Costa per Dagospia il 6 gennaio 2023.

Ma… i Beatles facevano a scambio mogli??!? È vero, sì o no, che John Lennon e Linda McCartney sono andati a letto insieme??? È quanto si legge nelle biografie dei Fab Four le più uncensored, come "Lennon in America", di Goeffrey Giuliano, che ci segnala che è successo e solo una volta, e i due erano fumati, e ubriachi, e l’avrebbero fatto per consolarsi delle rispettive unioni ufficiali, in quel momento in crisi nera.

Sebbene Giuliano vanti materiale certo, ricavato anche dai diari di Lennon, tale episodio cornesco non trova credito: Paul non si è vendicato e neanche col pensiero c’ha mai provato con Yoko Ono (eeeehh, forse vederla nuda sulla copertina di "Two Virgins" l’ha frenato) nonostante dica a Barry Miles, in "Many Years From Now", che, quando John andò a Los Angeles per un long weekend di sesso e a stordirsi di droghe con May Pang, sua assistente ma in realtà amante scelta per lui da Yoko, fu la stessa Yoko Ono a presentarsi in lacrime e senza preavviso a casa McCartney, per elemosinare – a parole, eh! – corna consolazione da (l’ex) migliore amico di John, quel Paul con cui non è ci sia stata chissà quale confidenza e intimità…

Intimità che invece c’era tra Paul e Cynthia, la prima moglie di Lennon, e che Lennon sposa perché incinta. Nozze che Brian Epstein, il fu manager sado-tossico dei Beatles, impone di tenere segretissime: un Beatle accasato avrebbe ucciso l’immagine di maschio disponibile per le fans assatanate…

 Quando Cynthia in seguito scopre che John la tradisce con Yoko (e li scopre a casa sua, nel letto suo) è Paul che corre a consolarla e, se non ancora maritato a Linda – ma fidanzato e convivente con l’attrice Jane Asher – chiede a Cynthia di sposarlo, ma per quale motivo?!???? Ragioni di erba e di LSD, che poi John e Cynthia e tutti i Beatles erano appena tornati dall’India, dalla meditazione col (para)guru Maharishi.

Il soggiorno in India fu la prima prova dei Fab Four di una convivenza a 8, loro 4 con le rispettive mogli e/o fidanzate, e John si porta Cynthia ma Yoko gli scrive vogliosa e infatti John in India divide il letto con Cynthia soltanto 2 notti, poi se ne sta a sognare Yoko. L’idea di andare a cercare ispirazione in India è di Pattie Boyd, la moglie di George Harrison: coppia che tanto ci teneva ad apparire perfetta, coppia che tanto ci teneva a posare sui giornali, ma così tanto che… si porta i paparazzi in luna di miele alle Barbados.

La verità è che George tradisce Pattie pure con le "Apple scruffs", le fan fisse davanti alla Apple (sarà vero che Harrison mentre gli facevano un p*mpino doveva suonare la chitarra, per mantenere l’erezione?) e Pattie amoreggia con Ron Wood degli Stones, e con Eric Clapton (che poi sposerà per finire pure da lui cornuta) ma Clapton in un primo momento Pattie lo usa, per far ingelosire Harrison, col quale rimane per salvare un matrimonio che naufraga quando George vuole fare sesso a 4, e scambista, e con chi se non Maureen, la moglie di Ringo Starr!!!

 Succede una sera a casa Harrison e pure se Pattie si rifiuta e si chiude in bagno, isterica, va detto che Maureen aveva già messo le corna a Ringo, e proprio con George, e un giorno è George che lo rivela a Ringo, e stanno seduti nella cucina di Harrison, e lo testimonia e scrive nelle sue memorie Chris O'Dell, la factotum dei Beatles che a lungo ha vissuto a casa Harrison, respingendo le avances di George, ma andando a letto 3 mesi con Ringo. 

 Cari fan e no dei Beatles, ancora a credere i 4 di Liverpool come santi baronetti!!? Baronetti sì, ma santi manco per niente, e non pochi (qui in Italia lo riporta chiaro Barbara Tomasino nella sua bibbia "Groupie") concordano e confermano che “dietro le quinte, e nelle loro stanze d’albergo, i Beatles vivevano al centro di super attività sessuali che toccavano toni grotteschi”.

E a McCartney la memoria di quei tempi a sprazzi gli ritorna: ha detto a "GQ" che, se non ha mai fatto sesso con nessuno dei compagni di band, da Beatle ha fatto sesso a 3 con 2 groupie, e che coi Beatles si faceva masturbazione di gruppo e che, vabbè, erano ragazzi e ingenui e non sospettavano affatto che il loro manager Brian Epstein fosse omosessuale e dedito al sesso sadomaso il più cruento, anche se “Epstein, lui era più grande di noi, e ci faceva uscire con lui, e ci portava in locali dove però tutti erano uomini. Sempre”.

Ma se i Beatles avessero dato retta a Lennon quando si mise in testa di imitare Onassis e cioè di comprarsi un’isola, in 4, e per andarci a abitare in 8 (4 Beatles, più le mogli, e più prole…), e mettendo in comune tutto (tutto!? wifes and drugs!?) e fuggendo così dal fisco inglese (come sul serio faranno gli Stones scappati in Francia…), che sarebbe successo? Ovvio, si sarebbero litigati e sciolti prima.

Aldo Grasso per corriere.it il 5 gennaio 2023.

Prendetemi per matto, ma la canzone «Imagine» di John Lennon, la canzone più «coverizzata» della storia della musica leggera, non mi piace: non perché sia, come sostiene Giorgia Meloni, «l’inno dell’omologazione mondialista» («Se uno, diciamo, non capisse l’inglese e non sentisse il testo, la canzone è fantastica»), ma perché è troppo languorosa, cioè incline al sentimentalismo, alle smancerie utopistiche, alla leziosità.

 Per questo motivo ho seguito con attenzione il documentario «Imagine - John Lennon» , sul Nove. Con la produzione esecutiva di Yoko Ono, «Gimme Some Truth» (questo il titolo originale) è il tentativo di trasporre in immagine l’ispirazione artistica di Lennon, il legame profondamente simbiotico fra il cantante e la sua «musa giapponese». E la recensione potrebbe finire qui, perché è lei il sottotesto di tutto il programma. Non è la messa in scena di un processo creativo ma di un processo riabilitativo (non ho nulla contro Yoko Ono, ma i fan dei Beatles allora erano scatenati contro di lei, rea di aver sfasciato il quartetto).

Il doc è una sorta di diario visivo della lavorazione di «Gimme Some Truth»: nella cornice bucolica degli Ascot Sound Studios a Tittenhurst Park, la residenza in stile Tudor della coppia, è possibile seguire molte fasi del processo di registrazione: vediamo Lennon in sala d’incisione discutere con Yoko sulle prime strofe di «Imagine» e chiacchierare insieme a George Harrison, lo vediamo al piano comporre «Jealous Guy».

Non manca neppure una frecciatina a Paul McCartney, quando John ammette che «How Do You Sleep?» è una critica deliberatamente «cattiva» rivolta a lui. La scena più imbarazzante è quando Lennon indossa una t-shirt gialla per reclamizzare il libro della moglie «Grapefruit - Istruzioni per l’arte e per la vita», un manuale di ricette su come realizzare opere d’arte virtuali, qualunque cosa voglia dire. Adesso, però, vado a risentire «Imagine».

Un fenomeno generazionale con un solo album: la storia dei Lunapop. Ai Lunapop è bastato un solo album per entrare nella storia e lanciare la carriera di Cesare Cremonini, uno dei più quotati cantanti italiani. Tommaso Giacomelli l'11 Giugno 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Chi sono i Lunapop

 La scalata alle classifiche

 La fine dei Lunapop

"Ma quanto è bello andare in giro con le ali sotto ai piedi, se hai una Vespa Special che ti toglie i problemi...". Un motivetto che senti dovunque. Radio, televisioni, niente è escluso. Lo cantano i ragazzini a scuola, lo fischiettano le mamme e i papà in coda nel traffico, risuona nella filo diffusione dei centri commerciali, dei negozi e dei supermercati. Risuona nelle orecchie di tutti, con o senza cuffie da walkman poggiate sulla testa. È la primavera-estate del 1999, questo inno alla spensieratezza, questo canto di gioia è il primo singolo concepito della più importante boyband italiana della sua generazione: i Lunapop. Un gruppo di giovanissimi ragazzi di Bologna che vuole conquistare la scena musicale nostrana con degli ingredienti nuovi e frizzanti, buoni da masticare soprattutto per un pubblico acerbo. Contro ogni pronostico, irrompono nella storia con una forza disarmante.

Chi sono i Lunapop

La band è composta da Michele, chitarrista, Gabriele, seconda chitarra, Alessandro, batterista, Nicola detto Ballo, bassista, e il frontman, Cesare Cremonini. Ed è proprio quest'ultimo a catturare l'attenzione dei media, perché è esuberante, scansonato e ha un talento canoro bestiale. Ad accorgersi di loro ci pensa una piccola casa discrografica di Roma, che non ci pensa neppure per un istante nel non dare una possibilità a questo affiatato gruppetto di belle speranze. Il primo singolo si chiama "50 Special" ed è una hit che esce fuori dalla propria tana nella primavera del 1999, salvo deflagrare come una bomba altamente esplosiva durante l'estate dello stesso anno.

La boyband bolognese giunge così sulla bocca di tutti, diventando un fenomeno nazionale in uno spazio di tempo brevissimo e conquistando milioni di fans, su e giù per lo Stivale, con un brano leggero che è una medicina che stimola l'allegria. I Lunapop a fine anno producono il loro album, "Squérez?", una parola volgare dal dialetto bolognese. Il loro lavoro, invece, è uno scrigno di gemme della musica leggera italiana, un forziere di clamorosi successi che porta i cinque a raggiungere le vette delle classifiche tricolore.

La scalata alle classifiche

I Lunapop cantano per una generazione di giovani italiani che ha voglia di innamorarsi, di crescere e di sognare. In sequenza arrivano hit che sbancano le graduatorie e trionfano sui più importanti palcoscenici, da "Vorrei" a "Qualcosa di grande". Quest'ultima è la chiave di svolta per vincere il "Festivalbar" edizione 2000, la più importante rassegna canora dell'estate del Bel Paese, quella che tiene incollati milioni di spettatori alla tv e conduce migliaia di appassionati a riempire le più belle piazze della nazione con le sue tappe itineranti. 

La scia positiva perdura fino al 2001, quando l'album d'esordio resiste ancora stabilmente in cima alle classifiche. Quella ranocchia psichedelica che spunta fuori dalla copertina, diventa un simbolo universale che finisce in più di 1 milione e 600 mila case. Nel frattempo, la figura di Cremonini spicca il volo. I suoi capelli colorati, prima biondi ossigenati e poi rosso fuoco, dettano tendenza, la sua simpatia e il suo carisma lo fanno diventare un personaggio pubblico spendibile anche per altri palcoscenici, come la tv e il cinema, dove lavora con Martina Stella.

La fine dei Lunapop

La macchina perfetta si inceppa sul più bello, dopo un'esibizione al "Festivalbar" 2001 e la promessa di un secondo album, la band si scioglie per dissidi interni, mai pubblicamente chiariti. "Squérez" resta l'unico e iconico album realizzato dal gruppo bolognese, che li ha consacrati all'immortalità. Da quel momento la carriera di Cremonini spicca il volo, diventando uno dei cantanti di maggior successo d'Italia e non soltanto. Solamente uno degli ex membri storici dei Lunapop lo segue nella nuova avventura, abbeverandosi dei nuovi fragorosi trionfi: il bassista "Ballo", quello che un tempo brillava per una capigliatura dread. Il mondo fatato e morbido dei Lunapop resta un piacevole ricordo, che riaffiora ogni volta che parte: "Ma quanto è bello andare in giro...".

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI? (Ho scritto un saggio dedicato)

La Fiat.

Virginia von Fürstenberg.

Edoardo Agnelli.

Alain Elkann.

John Elkann.

Lapo Elkann.

Margherita Agnelli.

Gianni Agnelli.

La Fiat.

La parabola Fiat, soldi pubblici, utili privati. Il gruppo ha ricevuto 220 miliardi di contributi in 37 anni, ma posti e produzione sono in caduta libera. Lodovica Bulian il 25 Novembre 2023 su Il Giornale.

«Nella nostra storia non abbiamo mai avuto nessun bisogno di avere lo Stato nel nostro capitale», ha detto pochi mesi fa il presidente di Stellantis John Elkann, a proposito di un eventuale ingresso dello Stato italiano attraverso Cdp. «Gli Stati entrano nelle imprese quando vanno male e Stellantis va molto bene», ha aggiunto. Ma se lo Stato italiano è sempre rimasto fuori dal capitale, in compenso miliardi di soldi pubblici sono entrati nelle casse dell'azienda che oggi è il risultato della fusione tra Fca (ex Fiat) e la francese Psa. Decenni di incentivi, aiuti, linee di credito. Difficile fornire una cifra precisa. Nel 2012 Federcontribuenti ha fatto un calcolo complessivo: dal 1975 ad oggi la casa Torinese «ha ottenuto dallo Stato italiano l'incredibile somma di 220 miliardi di euro tra varie casse integrazioni, prepensionamenti, rottamazioni, nuovi stabilimenti in gran parte finanziati con risorse pubbliche e contributi statali sotto varia forma». Numeri mai smentiti dalla casa torinese. Del resto era stato il quotidiano Domani, di Carlo De Benedetti, a contestare le dichiarazioni di Elkann con un editoriale di Salvatore Bragantini: «Che non abbia mai dovuto far entrare lo stato in azienda è una mezza verità legale e, se non una reale balla, una sicura burla. Nella sua storia Fiat ha avuto più volte bisogno di una partecipazione statale ma, potendo scegliere, ha preferito incassare in modi meno vincolanti». E poi dentro Stellantis uno Stato c'è, ed è quello francese, che detiene il 6%. Una partecipazione attenzionata dal Copasir, che nel febbraio 2022 aveva avvertito del rischio di uno «spostamento del baricentro di controllo sul versante francese, con ricadute già evidenti nel settore dell'indotto connesso con le linee di produzione degli stabilimenti italiani», e aveva invitato il governo Draghi a valutare l'ipotesi di un ingresso di Cdp per «controbilanciare». Scenario respinto seccamente da Stellantis.

Ma torniamo ai supporti dello Stato. L'ultimo è stato la maxi linea di credito da 6,3 miliardi concessa dal secondo governo Conte tramite Intesa Sanpaolo con garanzia Sace a Fca Italy nel 2020, durante la pandemia, per «preservare e rafforzare la filiera automotive italiana». Il prestito è stato restituito in anticipo da Stellantis nel 2022, ma la produzione non è ancora tornata ai livelli pre-Covid, mentre dal 2021 il gruppo ha lasciato a casa quasi 8mila lavoratori. Una recente analisi del Sole 24 Ore rileva che dopo la fusione con i francesi, il nostro Paese è stato sempre meno centrale nei volumi di produzione. Secondo Milano Finanza «nel 2000 i dipendenti diretti del gruppo in Italia erano 112mila, nel 2017 solo 60mila». Eppure negli ultimi mesi l'ad di Stellantis, Carlos Tavares, non ha esitato a chiedere nuovi «sussidi diretti nelle tasche dei consumatori». Il ministro delle Imprese Adolfo Urso gli ha però ribattuto che gli incentivi stanziati finora «sono finiti in misura significativa alla grande azienda Stellantis in gran parte per auto realizzate dal gruppo automobilistico fuori dall'Italia».

Sia chiaro, che sostegni e incentivi pubblici vengano elargiti a realtà imprenditoriali che rappresentano posti di lavoro e producono Pil è più che ragionevole. Anzi doveroso in anni come questi, durante i quali l'aggressività della concorrenza estera è cresciuta in modo esponenziale soprattutto grazie agli aiuti di Stato elargiti da Paesi come Germania, Francia e Spagna. A maggior ragione se i contributi erano diretti a un gruppo come la Fiat che a un certo punto della sua storia dava lavoro a 190mila dipendenti (oltre a un indotto almeno doppio), produceva in 188 stabilimenti ed esportava made in Italy in almeno 50 paesi. Ma lo scopo non era certo arricchire l'azionista di controllo in un futuro che lo avrebbe visto rinunciatario di fronte alla sfida globale. Cosa che invece è avvenuto nel momento in cui si è trattato di stabilire la dinamica della fusione con la francese Psa. Per questo la richiesta di nuovi sostegni allo Stato italiano da parte di Stellantis suona come una beffa per molti contribuenti.

La distruzione silenziosa della Fiat. Mille giovani ingegneri hanno lasciato i reparti ricerca e sviluppo del gruppo. Stellantis invia quindicimila lettere di incentivo all'esodo. Nelle fabbriche si fa largo uso della cassa integrazione. Così il marchio automobilistico italiano va verso la dismissione. Gloria Riva su L'Espresso il 30 novembre 2023

Era il 30 gennaio 2013 e un sorridente John Elkann inaugurava il sito produttivo di Grugliasco, rimesso a punto per dare il via a un nuovo capitolo della Fabbrica Italiana di Automobili Torino, dedicato a lussuosi bolidi – la Maserati Quattroporte, la Ghibli – il tutto nel nome del nonno, Gianni Agnelli. Già, perché lo storico stabilimento di corso Alamanno, a pochi chilometri dalla Mole, nuovo di pacca e punta di diamante di quel che, nei piani, sarebbe dovuto essere il Polo del Lusso, è stato esplicitamente dedicato all’Avvocato. Dieci anni dopo è sempre l’erede di Gianni Agnelli, John Elkann, numero uno di Exor, società che racchiude la ricca cassaforte di famiglia, ad approvare la liquidazione dello stabilimento dedicato al nonno. E lo fa senza cura, con la deliberata intenzione di cancellare ogni dubbio nella testa di chi, ancora, pensa che fra la famiglia Agnelli e Torino ci sia un indissolubile legame affettivo: lo stabilimento ex Maserati è stato messo in vendita con un annuncio pubblicato sul portale Immobiliare.it, definendolo «Capannone da 115 mila metri quadrati». Quasi si trattasse di un sito industriale qualunque e come se John Elkann non potesse fare altrimenti: per inciso, da oltre un decennio il presidente dell’attuale Stellantis incassa 20 milioni di euro l’anno da Exor, la holding di famiglia, ma anche Fca, Stellantis e Ferrari. La vendita dell’ex Maserati ha il rumore di uno schiaffo (l’ennesimo) per la cortese Torino, e per quell’Italia che, ancora, pensa di avere, fra i propri asset strategici, una grande fabbrica di automobili.

Stellantis, lo ricordiamo, è frutto dell’accordo raggiunto nel ’19 fra l’italiana Fca, cioè l’ex Fiat, e i francesi di Psa, ovvero Peugeot, Citroën e Opel. Il socio di maggioranza è Exor, ma la presenza nell’azionariato dello Stato francese fa pendere le scelte del gruppo a favore di Parigi. 

A compensazione della vendita di Grugliasco, il 23 novembre Stellantis ha inaugurato a Mirafiori il primo Hub di Economia circolare a saldo zero per l’occupazione. Nei fatti si tratta di un moderno sfasciacarrozze per recuperare elementi ancora buoni dell’auto a fine vita o aggiustare e rimettere sul mercato il veicolo. Tutto il resto, il recupero dell’elettronica, dell’acciaio e dei componenti preziosi, finisce altrove. Dal Polo del Lusso al Polo dell’Usato Sicuro il passo è stato dannatamente brevissimo. E sono ormai mille i giovani ingegneri e i tecnici del centro ricerche, delle palazzine dedicate alla progettazione del prodotto, dei dettagli, della carrozzeria che hanno lasciato la grande e storica azienda, incentivati «solo dall’incerto futuro di questa azienda», puntualizza Gianni Mannori della Fiom di Torino. Mannori aggiunge una cifra per quantificare il più grande progetto messo a punto da Stellantis per l’Italia: «Sono i sette milioni che l’azienda è disposta a spendere per incentivare l’esodo di 15 mila dipendenti. Stellantis ha inviato le lettere a operai, colletti bianchi, dirigenti offrendo dai 90 ai 170 mila euro, pur di tagliare l’organico». Il titolo esplicito di questa iniziativa è “Costruisci il tuo futuro”. Il sottotitolo implicito è “lontano dall’ex Fiat”. Fabbrica che un tempo teneva in piedi l’economia piemontese: «Si lavorava e si produceva ricchezza. Una ricchezza solida, perché basata sulla manifattura, ben diversa da quella effimera e stagionale del turismo e degli eventi, verso cui si sta pericolosamente spingendo Torino. Una città rassegnata all’inconsistenza dell’automotive, che si sorregge grazie alla cassa integrazione», continua il sindacalista. A ottobre, a Mirafiori, la produzione della 500 elettrica si è fermata per due settimane, idem a novembre, con un calo drastico della produzione: da 225 vetture assemblate a turno, a 170 auto. Non va meglio per l’altra linea produttiva, la Maserati, passata da 55 mila a 7 mila bolidi prodotti l’anno. 

È questa la cornice che fa da sfondo a una trattativa in salita fra governo e Stellantis, alla quale fino a lunedì era stata invitata solo Anfia, ovvero la Confindustria della filiera automobilistica, mentre dal prossimo 6 dicembre sarà allargata al sindacato. Dovrebbe essere una buona notizia per i rappresentanti dei lavoratori, che da mesi chiedono spazio nel piano di rilancio di Stellantis e di un settore che, nonostante i chiari di luna, vale 250 miliardi di euro, di cui 90 della componentistica. Invece Fim, Fiom e Uilm temono che si tratti di un’apertura effimera. Da tempo la triade, assieme a Federmeccanica, ha predisposto un piano che implica missioni produttive per tutti gli stabilimenti, garanzia occupazionale, investimenti in ricerca e sviluppo e il raddoppio della produzione di autovetture: oggi Stellantis produce 567 mila auto in Italia, ma il livello minimo di sostenibilità economica è portare la produzione a un milione di vetture. 

A sostenere questi progetti, in un’ottica di transizione energetica, dovrà essere l’azienda, l’indotto, oltre alle risorse pubbliche. Obiettivi, questi, che il ministro del Made in Italy, Adolfo Urso, ha inizialmente fatto suoi, anche se, più di recente, ha smesso di citare il fatidico milione di auto “made in Italy”. «Non vorremmo che l’apertura al tavolo fosse fatta per scaricare sul sindacato un eventuale insuccesso dell’accordo o per illustrarci un’intesa già raggiunta, senza possibilità di intervenire», ipotizza Samuele Lodi della Fiom. «Vogliamo vedere risultati concreti, non solo dichiarazioni», dice Ferdinando Uliano della Fim, che fa notare come la trattativa al tavolo sarà lunga e complessa: «Per produrre un milione di veicoli servono almeno cinque nuovi modelli, ma serve anche un impegno del governo per sbloccare gli incentivi all’acquisto di auto elettrica (incagliati da tempo), servono punti di ricarica sulle strade. È anche necessario un ragionamento complessivo per l’indotto, che deve virare all’elettrico con il sostegno del governo e la certezza che Stellantis intenda puntare sull’Italia e velocizzare la messa in produzione di nuove auto».

La forza lavoro nazionale del gruppo conta 45 mila addetti, meno 11 mila unità nell’ultimo triennio, e il costante ricorso alla cassa integrazione, al contratto di solidarietà e alle uscite incentivate. Non va meglio se si esce dal perimetro Stellantis: volgendo lo sguardo all’indotto, la situazione emblematica è quella di 300 lavoratori rimasti senza un reddito perché l’azienda torinese Lear ha perso la commessa per i sedili della Maserati, battuta dal concorrente turco. Inoltre molti dei fornitori Stellantis hanno ricevuto un incoraggiante invito a spostare – o duplicare – la produzione in Algeria, dove il colosso dell’automotive, guidato dal portoghese amministratore delegato Carlos Tavares, ha deciso di investire in un nuovo stabilimento d’assemblaggio. E quali auto saranno prodotte nel Nord Africa? «Con Marchionne si discuteva animatamente, ma sulla base di piani completi. Con Tavares siamo all’oscuro di tutto, consapevoli solo che l’obiettivo è la contrazione dei costi, attraverso una spietata competizione fra stabilimenti», commenta Lodi. In Algeria attendono l’ex Fiat a braccia aperte, come pure in Serbia, laddove il governo sarebbe dispostissimo ad accogliere la produzione della futura 500L. Anche la Polonia, dove è nato uno stabilimento gemello della Sevel di Atessa per produrre furgoni, è pronta a ospitare i futuri modelli Fiat, Peugeot, Renault. Già oggi lo spostamento di una quota di furgoni nell’impianto polacco ha portato a un calo produttivo a Chieti e, per la prima volta, la forza lavoro è scesa sotto le 5 mila tute blu. Tremano i dipendenti degli stabilimenti del Sud Italia, dove il disimpegno di Stellantis è palpabile: «Abbiamo segnalato all’Asl la presenza di ratti nei reparti. È l’effetto dei tagli a servizi di pulizia e manutenzione», raccontano da Pomigliano, dove nel giro di tre anni in 1.200 hanno preferito l’esodo incentivato a uno stipendio da mille euro, calmierato dal decennale utilizzo della cassa integrazione. Qui si assemblano la Panda e la Tonale ed è qui che un dirigente si era fatto sfuggire un commento: produrre la Panda a Pomigliano costa 1.500 euro, in Turchia 500. Da allora i lavoratori vivono nell’ansia che la produzione termini nel 2026, quando l’assemblaggio del nuovo modello Panda potrebbe essere assegnato altrove. 

Paradossalmente, mentre la forza lavoro partenopea usa la cassa, Stellantis sfrutta 1.150 trasfertisti di Melfi per stare al passo con la produzione delle auto di Pomigliano. Decine di tute blu lucane ogni giorno salgono sui bus messi a disposizione dall’azienda, affrontano 156 chilometri di viaggio, entrano nella fabbrica alle porte di Napoli, attaccano il turno con ritmi serrati, escono, risalgono sull’autobus, affrontano altre due ore di viaggio verso la Basilicata, per poi fare ritorno a tarda notte nelle proprie abitazioni. Così fino al turno successivo e per i successivi tre mesi. Certo, lo stipendio è ottimo, ma la scelta è stata obbligata. «La cosa più preoccupante è che a fronte di un piano industriale sottoscritto a giugno 2021 per la transizione all’elettrico a Melfi, l’azienda sta snellendo l’impianto e specialmente chi è coinvolto nelle trasferte è tentato dall’incentivo all’esodo», racconta una lavoratrice. Melfi, che fino a poco tempo fa occupava 7.200 dipendenti, oggi ne ha meno di 5.800. 

È qui che Stellantis ha promesso di portare cinque vetture elettriche: due DS, la Jeep Compass, una Lancia e una Opel. In teoria Melfi potrebbe produrre 400 mila auto l’anno, a stento ne fa 200 mila e, anche qualora dovessero arrivare tutti i cinque nuovi modelli, la previsione è produrne 250 mila. «Il rischio non è solo per lo stabilimento, ma per l’indotto, che sta soffrendo molto», dice Uliano della Fim Cisl. La piattaforma per l’auto elettrica è stata fornita anche allo stabilimento di Cassino, dove per ora si produce l’Alfa Stelvio, la Giulia e Maserati Grecale, ma l’azienda continua a chiedere sacrifici. A Termoli, invece, un radioso futuro potrebbe esserci, perché qui Stellantis, in partnership con Total Energy e Mercedes-Daimpler, ha intenzione di creare una delle tre gigafactory di batterie elettriche europee Acc. Tuttavia Acc si è limitata a indicare il luogo in cui realizzerà l’impianto. A accedendo al patinato sito web della joint venture Acc, si scopre agevolmente che le schede riservate alle gigafactory di Billy-Berclau Douvrin e Kaiserslautern, la prima in Francia, la seconda in Germania, hanno un rendering e una specifica descrizione del progetto. Mentre cliccando sulla gigafactory di Termoli non succede nulla. È vero, Acc ha promesso di ultimare l’impianto nel 2029, ma le incognite sono ancora troppe per definirlo un impegno concreto. Mentre gli esuberi, quelli sì, sono concretissimi.


 

Virginia von Fürstenberg.

(ANSA il 10 maggio 2023) - E' morta, cadendo probabilmente da un piano alto dell'Hotel Palace di Merano, Virginia Maria Clara von Fuerstenberg. La salma della 48enne è stata trovata questa mattina sul terrazzo al primo piano dell'albergo. La notizia di Rai Alto Adige è stata confermata all'ANSA. L'artista e stilista, figlia di Elisabetta Guarnati e Sebastian Egon von Fuerstenberg e nipote di Gianni Agnelli, era scomparsa lo scorso febbraio ma poi aveva fatto rientro a casa.

Virginia von Fürstenberg, morta a Merano la nipote di Gianni Agnelli. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 10 Maggio 2023.

La donna, 48 anni, è caduta dalla finestra di un hotel. A febbraio era scomparsa per alcuni giorni ma aveva fatto rientro a casa 

È morta, cadendo probabilmente da un piano alto dell’Hotel Palace di Merano, Virginia Maria Clara von Fürstenberg. 

Il corpo della 48enne è stato trovato questa mattina sul terrazzo al primo piano dell’albergo. Gli inquirenti hanno subito escluso il coinvolgimento di altre persone nell’accaduto. 

La notizia è stata data dal Tg Rai Alto Adige. 

L’artista e stilista, figlia di Elisabetta Guarnati e Sebastian Egon von Fürstenberg e nipote di Gianni Agnelli, era scomparsa lo scorso febbraio ma poi aveva fatto rientro a casa. 

Il nonno di Virginia era il fondatore della banca If is; la nonna era invece Clara Agnelli, sorella dell’Avvocato. 

La donna, nata a Genova e residente a Milano, era improvvisamente scomparsa nel febbraio scorso e la sua sparizione era stata denunciata ai carabinieri di Marghera; due giorni dopo però la famiglia aveva comunicato che Virginia aveva fatto ritorno a casa con un secco comunicato: «La signora ha fatto rientro nella sua abitazione nella giornata di domenica». 

Virginia von Fürstenberg è stata sposata tre volte e dai tre mariti ha avuto cinque figli. È stata anche autrice di testi teatrali.

Tre matrimoni e cinque figli: chi era Virginia Von Fürstenberg, la stilista nipote di Gianni Agnelli morta a Merano. Alan Conti su Il Corriere della Sera il 10 Maggio 2023.

L'artista aveva 48 anni, è stata trovata nel terrazzo di un hotel a Merano. Il padre aveva fondato l'istituto di credito Banca Ifis

Virginia Maria Clara Von Fürstenberg, la nobildonna di 48 anni trovata morta su un terrazzo dell’hotel Palace di Merano, era un’artista e una stilista. Nata a Genova, figlia di Elisabetta Gurnati e di Sebastian Egon Von Fürstenberg, era una diretta discendente del casato nobiliare tedesco originario della regione del Baden-Wurrtemberg. Il padre Egon aveva fondato nel 1983 l'istituto di credito Banca Ifis di cui è ancora oggi presidente onorario. Aveva avuto come nonna Clara Agnelli, sorella dell’Avvocato Gianni. 

Matrimoni e figli

Virginia Maria Clara Von Fürstenberg era una stilista e aveva scritto opere teatrali di grande intensità emotiva. Nel 1992 aveva sposato il barone ungherese Alexandre Csillaghi de Pacser, con il quale aveva avuto  Miklos Tassilo Csillaghi e Ginevra Csillaghi. Quest'ultima aveva posato come modella per i vestiti disegnati dalla madre. Dopo la fine dell’amore con il barone ungherese nel 2002, aveva dato alla luce Clara Bacco Dondi Dall’Orologio, nata dalla relazione con Giovanni Bacco Dondi Dall’Orologio. Nel 2004 ebbe altri due figli con Paco Polenghi: Otto Leone Maria e Santiago. Dopo la rottura con il secondo marito, nel 2017 si sposò con Janusz Gawronski da cui divorziò tre anni dopo.

L'episodio di febbraio

Che qualcosa inquietasse la vita di Von Fürstenberg si era intuito lo scorso febbraio a Milano quando, mercoledì 15, si allontanò volontariamente dalla sua casa a due passi dal Parco Sempione. Un episodio che aveva fatto scattare l’allarme alimentando un piccolo giallo spento, però, da un comunicato della famiglia Agnelli. “La signora ha fatto rientro nella sua abitazione nella giornata di domenica”. Era stato il padre stesso a presentarsi alla stazione dei carabinieri di Marghera (Venezia) per denunciarne la scomparsa. Il giorno del ritorno a casa l'uomo aveva ritirato la denuncia. 

Estratto dell'articolo di Tony Damascelli per “il Giornale” l'11 maggio 2023.

Virginia von Furstenberg è morta.

Aveva quarantotto anni. Era nata a Genova il cinque di ottobre del Settantaquattro. Giaceva sul terrazzo al primo piano dell’Hotel Palace di Merano. 

Era la figlia di Sebastiano Furstenberg e di Elisabetta «Bettina» Guarnati e nipote del principe Tassilo e di Clara Agnelli, scomparsa nel duemilasedici, madre di Ira, Egon e per l’appunto di Sebastiano. 

Virginia, sposa di Paco Polenghi, lascia due figli Miklos e Ginevra nati dal matrimonio con Alessandro Csillaghy, di origini ungheresi. E una terza figlia, Clara, avuta dopo una relazione con Giovanni Bacco. Una vita esuberante, la sua, donna affascinante, di una bellezza diafana, stilista per diletto, erede, nello spirito, di suo padre Sebastiano che, in infanzia, ebbe l’hobby di allevare le formiche, raccolte in speciali contenitori di vetro riempiti di terriccio. 

Nonostante la parentela diretta con la «famiglia», Sebastiano non rientrava nei favori dello zio Gianni, mentre aveva legato con Susanna e Umberto; Virginia ne aveva conservato certe esuberanze, di comportamento e di eleganza.

Si pensa a una morte voluta, Virginia si sarebbe lanciata dalla sua stanza ai piani superiori dell’hotel, per poi giacere sul pavimento della terrazza. Un epilogo strano e già carico di misteri, una fine tragica che fa tornare alla mente analoghe morti di quella dinastia ricchissima e travolta dai suicidi, quello di Edoardo Agnelli, gettatosi dal ponte lungo la strada verso Fossano, il quindici di novembre del duemila e quello assai oscuro e mai veramente illustrato di Giorgio, un altro dei fratelli di Gianni, Umberto che concluse, l’undici di maggio del millenovecentosessantacinque la sua esistenza buia cadendo dalla finestra di una clinica del cantone di Vaud, a Rolle.

Il suicidio come svolta tragica di una famiglia al centro della luce ma, al tempo stesso, avvolta da molte zone fosche, tenute sotto traccia dal mondo torinese e che ieri, nell’albergo di Merano, ha visto scrivere un’altra pagina drammatica. Virginia von Furstenberg aveva creato apprensione già nello scorso febbraio quando era improvvisamente scomparsa, non dando più alcuna notizia di sé e si era subito ipotizzata una situazione angosciosa

(...)

Estratto dell'articolo di Andrea Priante per il “Corriere della Sera” l'11 maggio 2023. 

La principessa inquieta è morta ieri, dopo il volo da un piano alto dell’Hotel Palace di Merano. La nipote di Gianni Agnelli, Virginia Maria Clara von Fürstenberg, aveva 48 anni e la sua salma è stata trovata in mattinata sul terrazzo al primo piano dell’albergo.

(...) 

Una vita turbolenta quella della principessa Virginia, spesa inseguendo la sua passione per l’arte, che fosse la poesia, l’opera o la moda, settore nel quale aveva debuttato come stilista nel 2011 (con una sfilata al Teatro Filodrammatici, lanciando una collezione poi venduta nelle boutique di Milano, Firenze e Roma), lo stesso anno del suo esordio a teatro con «Dismorphophobia», sul tema dell’anoressia, malattia di cui la nobildonna aveva sofferto.

Che ultimamente qualcosa l’agitasse, era apparso evidente già il 15 febbraio, quando il padre si era presentato dai carabinieri di Marghera per denunciarne la scomparsa: Virginia, che abitava in centro a Milano, si era allontanata senza avvisare nessuno per poi far ritorno a casa una manciata di giorni dopo. E non era neppure la prima volta che faceva perdere le tracce per brevi periodi.

Ora questa donna dolce e inquieta lascia cinque figli.

Nel 1992 aveva sposato il barone ungherese Alexandre Csillaghy de Pacsér, e dalla loro unione sono nati Miklos Tassilo Csillaghy e Ginevra Csillaghy. I due avevano divorziato nel 2002 e, dopo la fine di quel primo matrimonio, dalla relazione con Giovanni Bacco Dondi Dall’Orologio, Fürstenberg aveva dato alla luce Clara, mentre dalle nozze, nel 2004, con Paco Polenghi sono nati Otto Leone Maria Polenghi e Santiago Polenghi. Il 28 ottobre 2017, infine, Virginia aveva sposato Janusz Gawronski, discendente da una nobile e antica famiglia polacca, dal quale divorziò nel 2020. Le ultime tracce sui social risalgono a diversi mesi fa. La spiaggia, gli amici: la 48enne nelle fotografie appariva magrissima ma sorridente accanto ai suoi familiari.

Edoardo Agnelli.

Edoardo, l’intruso tra gli Agnelli. «Ammirazione soffocante per l’Avvocato». Giorgia Mecca su Il Corriere della sera il 6 Maggio 2023

Un libro di Marco Bernardini  racconta Edoardo. Un'amicizia nata dopo un’intervista che fece  infuriare l'Avvocato,  ma che non fu mai smentita. «Era un uomo coraggioso Edoardo»

È una promessa mantenuta. «Se mai ti dovesse capitare, racconta qualcosa di me», gli aveva chiesto un giorno Edoardo Agnelli, con un mezzo sorriso. Il libro di Marco Bernardini (a sinistra) tiene fede alla parola data, e all’amicizia durata quindici anni con il figlio dell’Avvocato, l’erede diventato intruso, come si legge nel sottotitolo del romanzo edito dalla compagnia editoriale Aliberti. 15 novembre 2000. Edoardo Agnelli, 46 anni, viene trovato ai piedi di un viadotto sulla Torino-Savona, nei pressi di Fossano. Nel libro, a proposito del gesto dell’uomo scrive: «un urlo di protesta». «Mi ricordo quel mattino. L’Avvocato arrivò in elicottero insieme al fratello Umberto e a Franzo Grande Stevens. Appena lo vide disse soltanto: “Povero figlio mio”, parole di tenerezza spontanea, insolite per lui. Gianni Agnelli morirà nel 2003, io sono convinto che cominciò a morire quella mattina, quando forse capì di aver commesso degli errori». 

Come è nata l’amicizia con l’erede della famiglia più influente d’Italia? 

 «Lavoravo per Tuttosport, decise di concedermi un’intervista che fece scalpore. In quell’occasione Edoardo cominciò a definire i suoi progetti, partendo dalla Juve (c’era stata da poco la tragedia dell’Heysel) arrivando alla Fiat. Suo papà si arrabbiò molto, chiese al figlio di dire che avevo travisato le sue parole, lui fu onesto, disse: “Bernardini non ha cambiato una virgola”. Era un uomo coraggioso Edoardo».  

E poi?  

«E poi diventammo davvero amici, se amici significa ritrovarsi insieme alle due del mattino per mangiare spaghetti aglio, olio e peperoncino. Ogni Natale ci facevamo lo stesso regalo: io un cofanetto di libri della Sellerio, lui una scatola di cioccolatini di Peyrano. Nella vita credo di avere avuto due soli veri amici, uno è Darwin Pastorin, l’altro è stato Edoardo. Mi ricordo alla fine del nostro primo incontro, lui mi vide salire su una Honda, la mia macchina di allora, e sorridendo mi disse: “Dobbiamo vedere di procurarle una Fiat”». 

Lei pensa che Edoardo sia stato frainteso?  

«Totalmente. Con il libro vorrei sgomberare il campo dai luoghi comuni e dalle banalità che si ripetono su Edoardo e cioè che fosse un uomo sensibile, fragile, intelligente ma non adatto al ruolo». 

Come sarebbe stata la Fiat con Edoardo in vita? 

 «Credo che la vera domanda dovrebbe riguardare Giovanni Alberto, Giovannino, il figlio di Umberto morto nel 1997. Se lui non si fosse ammalato, credo che Edoardo sarebbe ancora vivo». 

I due cugini andavano d’accordo?  

«Molto. Quando l’Avvocato lo designò ufficialmente suo erede alla Fiat, Edoardo ci rimase molto male, ma poi capì che in realtà suo papà aveva preso la decisione giusta. Giovannino poi gli garantì che una volta diventato numero uno della Fiat gli avrebbe concesso il tempo e il modo di occuparsi di ciò che gli interessava, il sociale, gli ultimi». 

La Fiat come sarebbe oggi?  

«Credo sarebbe rimasta una fabbrica di automobili italiana. E si sarebbe rivolta alla Cina e al Giappone, non agli Stati Uniti come è successo». 

Nella prefazione Mimmo Calopresti parla della tragedia continua per Edoardo di essere stato figlio di suo padre. È d’accordo?  

«Tragedia continua? Sì». 

Ma secondo lei cosa provava Edoardo per suo padre?  

«Un’ammirazione soffocante nei confronti di un uomo che è stato grandissimo in tutto. Lapo Elkann dice spesso di provare una stima profondissima nei confronti di suo nonno. Ma che non avrebbe mai voluto avere un padre come lui. Credo che anche Edoardo gli avrebbe dato ragione». 

Estratto dell’articolo del ilfattoquotidiano.it il 27 aprile 2023.

Marco Bernardini, giornalista e scrittore […] è stato legato da un’amicizia fraterna con Edoardo Agnelli, il primogenito dell’Avvocato scomparso tragicamente il 15 novembre del 2000. Esce oggi in libreria “Edoardo. L’intruso tra gli Agnelli”, il suo ritratto dell’erede dell’impero Fiat che non si fece mai re, l’utopista, il sognatore […] 

Perché questo libro oggi? La figura di Edoardo non appartiene ormai al passato, alla storia privata degli Agnelli?

[…] la figura di Edoardo Agnelli è stata raccontata in modo non solo ambiguo ma anche sbagliato. Si è detto che era una persona gentile, un’anima sensibile, ma non si è mai voluti andare oltre. Io credo che sia doveroso, anche dopo vent’anni, fare emergere quella che è stata la figura reale di Edoardo […]

[…] Veniamo a quel giorno e a quel salto definitivo nel vuoto.

È difficile e ancora doloroso parlare di questa cosa. La mia reazione fu quella della disperazione, perché quando perdi un amico… C’è stato un rapporto di quindici anni di amicizia fra noi, ma di amicizia autentica. È stato come perdere una sorta di fratello. No, francamente non me l’aspettavo, e anch’io venni lì per lì assalito da quei dubbi che poi vennero sviluppati da una parte della stampa, fino ai complottismi e alle storie che erano completamente campate in aria.

Questo libro esce in un momento delicato per la “saga” della famiglia Agnelli, tra la vicenda dell’eredità contesa da Margherita e i guai giudiziari della Juventus. Non è casuale, immaginiamo.

Sì, è un momento di disfacimento totale. Prima di tutto della Fiat come industria che non esiste più; e poi della stessa famiglia Agnelli che si è polverizzata. Alla griffe Agnelli è subentrata la griffe Elkann. […] cosa accadrebbe se Edoardo fosse ancora vivo, ma soprattutto se fosse ancora vivo Giovannino Agnelli, il figlio di Umberto. Sono assolutamente convinto che, se Giovanni Agnelli non fosse stato ucciso dal cancro fulminante al fegato, la storia della Fiat […] sarebbe ancora una storia italiana. E soprattutto sono convinto che anche Edoardo sarebbe vivo.

Lo dico perché Giovannino aveva promesso al cugino che, quando lui avrebbe preso il comando come da volontà dell’Avvocato, avrebbe fatto di tutto perché lo stesso Edoardo potesse fare ciò che più desiderava della propria vita: occuparsi del sociale, della resilienza, di un concetto di impresa che tiene conto della solidarietà. Tutte quelle cose che Edoardo si portava dentro e che non era mai riuscito a realizzare per questa assoluta incomunicabilità che esisteva tra lui e il padre. Per l’Avvocato la morte del figlio Edoardo è stata certamente la sconfitta più grande.

Ecco la prefazione di Mimmo Calopresti in anteprima esclusiva:

L’essere stato il figlio dell’avvocato Gianni Agnelli non deve essere stato facile.

Deve essere stata una tragedia continua, deve essere stata una continua lotta a contrapporre se stessi a un uomo più grande, più importante di te. Un uomo che ti assomigliava, che sembrava come te nel suo modo di essere e nel suo fare, nel suo esprimersi. Che ti sembrava facile nell’imitare, nell’atteggiarsi a come era lui. 

Ma così non era. Era sempre prima e davanti a te. Era prima di te in qualunque cosa facesse, in qualunque cosa dicesse, in qualunque cosa addirittura pensasse. Sempre primo e tu dietro ad arrancare, a provare ad essergli vicino, se non uguale, ma non c’era niente da fare. Era sempre il primo, il migliore, il solo capace di dire e fare la cosa giusta. Almeno così ti era sembrato per molto tempo, quando eri stato un figlio devoto, quando eri stato un figlio incapace di ogni critica, silenzioso e attento a essere all’altezza della situazione.

Silenzioso anche quando ti sembrava che era arrivato il momento di dire la tua, ma ancora, ti accorgevi, non era necessario il tuo punto di vista, il tuo interloquire a tavola con il resto della famiglia o magari in una serata con i tuoi coetanei, di passaggio nella villa lassù in alto, nella Torino che domina il mondo, non solo la città che allora era la città della Fiat. 

La grande fabbrica delle automobili, la Fiat, ti era stata lontana, l’avevi guardata ma mai ti eri avvicinato, ti faceva paura tutto quel muoversi a realizzare, a costruire, a rendere tutto così facile, meccanico così poco creativo. Fare automobili per milioni di persone per essere uomini nuovi, per essere persone che correvano nella modernità, che attraversavano il Paese in tutte le direzioni, che si lasciavano indietro migliaia di chilometri su strade asfaltate da non molto tempo e che ti lasciavano un senso di nuovo e di eccezionale.

Ma questo momento di euforia era di tuo padre, della sua capacità di creare rapporti internazionali, di avere sempre a portata di mano i potenti del mondo, di essere insieme a chi contava davvero nel Paese, che era stato un Paese in guerra per molti anni e ora in pace prosperava e cominciava la sua vera rivoluzione industriale. Tuo padre che da piccolo ti abbandonava a casa per andare a vedere vincere la sua Juventus, la sua squadra di football costruita per vincere tutto quello che c’è da vincere. A te non restava che l’ammirazione per la grande fabbrica, per la grande squadra, per la grande storia che stava costruendo l’avvocato Agnelli: tuo padre.

E poi cominciò un’altra stagione. La stagione dello studio, dei viaggi, della conoscenza del mondo. La conoscenza del reale dopo la fiction che non finiva mai, e che sarebbe potuta durare tutta la vita. I tuoi viaggi alla scoperta dell’universo e alla tua scoperta, i viaggi nei luoghi lontani dalle colline torinesi a raggiungere i luoghi delle rivoluzioni, oppure i viaggi lisergici nati per conoscere se stessi e per condividere con gli altri i mondi senza confini, senza i limiti imposti dal nascere, dall’avere sempre e solo la propria famiglia come riferimento. 

E poi ancora molto altro: i sogni, i voli pindarici nello studio, il continuo riferimento ai cambiamenti del mondo. Tutto per dire che ci sono anch’io: Edoardo Agnelli. Non solo il figlio dell’Avvocato, ma proprio io, Edoardo, capace ormai di essere l’erede di questo padre grande e importante. Capace di dirigere la Fiat, capace di andare in panchina a guidare la Juventus, capace di smettere di essere un figlio e diventare adulto insieme agli altri adulti, insieme agli avvocati che progettavano come affrontare la crisi del settore automobilistico, come occuparsi della nuova Juventus, come occuparsi dell’Italia che cambiava. Come riuscire a essere un grande uomo tra i grandi e soprattutto essere pronto a sostituire il padre nel suo ruolo di chi doveva dirigere. Tutto sembrava naturale a quel giovane uomo: diventare l’erede e specificare a se stesso e agli altri che era arrivato il suo tempo. 

Ma così non successe mai, non divenne mai quel che doveva essere, mai sembrava arrivare il tempo del suo ingresso nel mondo degli adulti di chi doveva cominciare ad avere responsabilità importanti, di chi doveva essere il nuovo capo e il nuovo leader di un mondo che gli sembrava ormai suo. Allora un giorno decise di fare un volo importante: partire dall’alto e arrivare in basso. 

Volare dall’alto e scendere in basso, laggiù in fondo a un canalone, dove l’aspettava la gloria. Il suo podio era sotto un ponte da cui si buttavano quelli che la vita l’avevano lasciata, in un giorno qualsiasi, a quelli che rimanevano a raccontare agli altri i loro trionfi e i loro addii, le loro giornate particolari e i giorni senza fine, senza niente e nient’altro che il vivere a casaccio.

E il giorno che vivere a casaccio non andava più bene a quel ragazzo lungo, bello e senza nessun fine preciso, il giorno che si lasciò volare giù e costrinse suo padre a scendere in basso e inginocchiarsi davanti a lui e sentirsi bene perché era diventato quello che doveva essere, un uomo che aveva preso una decisione importante, che aveva obbligato suo padre a essere un padre che piangeva un figlio senza nessuna altra possibilità che lasciare scorrere le sue lacrime senza fine e senza possibilità di confonderle con nient’altro. E il rapporto padre figlio cominciò veramente, un padre davanti a un figlio morto che cominciava a morire anche lui. L’avvocato Agnelli moriva ed Edoardo Agnelli cominciava a vivere.

(ANSA il 6 aprile 2023) È in discussione oggi in tribunale a Torino un passaggio dell'azione legale promossa da Margherita Agnelli in relazione all'accordo che stipulò a Ginevra nel 2004 con la madre, Marella Agnelli, moglie dell'avvocato Gianni Agnelli, deceduto l'anno precedente. Per effetto dell'intesa - una transazione sull'eredità paterna - le furono conferiti beni per l'equivalente di circa 1,2 miliardi. In seguito Margherita riaprì la questione ereditaria. La parte resistente, nella causa odierna, sono John, Lapo e Ginevra Elkann, figli di Margherita. La discussione deve chiarire se i giudici torinesi hanno la possibilità di intervenire sull'accordo del 2004, che fu regolato dalle leggi elvetiche, e se, in ogni caso, non debbano attendere l'esito di altre cause avviate nella Confederazione.

Estratto dell’articolo di Ettore Boffano per il “Fatto quotidiano” il 7 aprile 2023.

Alain Elkann.

Estratto dell’articolo di Massimo Arcangeli per “Libero quotidiano” domenica 30 luglio 2023.

Il «breve racconto d’estate» di Alain Elkann […] se fosse apparso in un’altra sezione di Repubblica, avrebbe forse suscitato ugualmente le rimostranze dei giornalisti della testata, […] ma non avrebbe prodotto il vespaio di polemiche di questi giorni. 

Soprattutto indigesta la “nobilitazione” del pezzo, uscito sulle pagine culturali (24 luglio) del giornale diretto da Maurizio Molinari e spacciato per esercizio letterario. Fingiamo […] che lo sia […] e valutiamo la sua cronachetta ferroviaria, con lo specillo del critico di lingua e di stile, come un testo narrativo prodotto da uno studente di 16 o 17 anni, più o meno l’età dei lanzichenecchi compagni dello “scrittore” nel tragitto da Roma a Foggia.

«Intanto il treno, era arrivato a Caserta». Un uso “creativo” della punteggiatura. «Alcuni avevano in testa il classico cappello di tela con visiera da giocatore di baseball di colori diversi, prevalentemente neri». Un costrutto malmesso: i colori sono quelli dei berretti dei giovani barbari discesi dal Norditalia, ma legano piuttosto con giocatori e visiere. 

«Ho estratto anche un quaderno su cui scrivo il diario con la mia penna stilografica. Mentre facevo quello, i ragazzi parlavano ad alta voce come fossero i padroni del vagone». Il diario. Come se ne avesse parlato prima, e spunta invece dal nulla. Mentre facevo quello. Volevi forse dire questo? E nel mentre? Non ti piaceva?

«Pensavano ai fatti loro, parlavano forte, dicevano parolacce». Al lettore gliel’hai già detto delle parolacce («Parlavano di calcio, di giocatori, di partite, di squadre, usando parolacce e un linguaggio privo di inibizioni»), non potevi giocartele solo una volta? 

Anche perché sono parte del «linguaggio privo di inibizioni» che finiamo per preferire al tuo superiore silenzio, durato per tutto il tempo del viaggio, e ci rende perfino simpatici gli incivili e sguaiati caciaroni seriali. Tu che prima ti senti come fossi «un altro mondo» e poche righe più avanti, sprovvisto di qualunque coscienza retorica dell’uso della ripetizione, dici di venire «da un altro mondo». 

Potrei proseguire, sebbene sia difficile dire, del “caso Elkann”, se sia stato più imbarazzante: 1) l’attestato di letterarietà a uno dei più brutti, sciatti e sgangherati “racconti” brevi che abbia letto nell’ultimo anno; 2) il rifiuto di Molinari di pubblicare la nota con cui il Comitato di redazione del giornale […] ha preso le distanze dal contenuto “classista” del pezzo, e il maldestro tentativo del direttore di reagire ad accuse e sberleffi con due pagine (26 luglio) affidate a tre articoli inutili o improbabili; 3) il panegirico della noterella di Elkann da parte di uno degli autori dei tre pezzi, Fabio Finotti, professore emerito all’università della Pennsylvania e direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di New York.

Ha inanellato perle come queste: Elkann ha scritto un «bel racconto»; il protagonista «non è e non potrà mai essere il vero Alain Elkann»; […] Ma ecco il top di un lussureggiante strabismo interpretativo a trazione direttoriale: «Se nessuno porta l’orologio non è perché siano dei poveracci, ma perché il loro tempo è ormai segnato dal telefono. Sembrano appagati di quel che sono, tanto da non vedere il mondo attorno che li circonda. Di fronte a loro c’è lo scrittore che li descrive. Il vero poveraccio sembra lui. Il suo vestito è “molto stazzonato di lino blu”».

Un “poveraccio” che dopo aver sottolineato come, a dispetto del caldo, non abbia rinunciato a indossare […] il suo abito di lino e la sua «camicia leggera», tira fuori il «Financial Times del weekend», il New York Times, il «supplemento culturale di Repubblica» e infine, immerso pure nella lettura in francese della Recherche di Proust, la sua stilografica. Finotti, il cui pezzo va ben oltre il valore d’accatto, di per sé già irritante, di una difesa d’ufficio, si chiede a un certo punto se la letteratura può ancora «dare scandalo» e «muovere le coscienze».

La letteratura […] deve continuare a scuoterci e a scandalizzarci. Su questo tasto gli scrittori e i critici veri, e non i dilettanti alla Elkann o gli acquiescenti alla Finotti, devono battere fino all’estenuazione se vogliono sottrarre il senso stesso del loro lavoro a un destino che per qualcuno sarebbe già segnato, se vogliono provare a impedire all’arte letteraria di consegnarsi al suo boia – l’inarrestabile ondata di una devastante ipocrisia moralizzatrice – o di tagliarsi direttamente le vene.

DAGOREPORT il 24 luglio 2023.

Sarà colpa di Caronte in calore. Sarà un contraccolpo alla vita di un figlio “danneggiato” come Lapo. Sarà che l’altro rampollo, John, i giornali li compra ma non li legge. 

O forse è solo un fenomeno di insensatezza cerebrale. Fatto sta che dopo che avrete letto il pezzo di Alain Elkann su "La Repubblica", pagine culturali (sic!) apparirà verosimile la leggendaria frase attribuita dal chiacchiericcio all’Avvocato Agnelli in merito al matrimonio della figlia Margherita: “Com’è possibile che con tutti gli ebrei brillanti in giro, abbia scelto questo idiota?”.

Ma nemmeno col naso in overdose l’Aristocratico delle quattro ruote di Torino sarebbe riuscito a immaginare un “breve racconto” così rotondamente insulso, inutilmente offensivo, così traboccante di spocchiosa vanità, tracotante di prosopopea, in modalità ‘compact-chic’. 

E quando la sinistra elegante, informata, inserita, quella sinistra snob che gode dei privilegi di libertà e di ricchezza culturale e sociale abbondanti, militante di una "minoranza spirituale", si trova davanti agli "atteggiamenti della gente comune", tradisce la sua natura originaria (coglione) per un generico accreditamento intellettuale (da rincoglionito). 

Il conformismo delle élite, si sa, è peggiore di quello delle masse, perché è saccente per l'estrema boria e sprezzante per intransigente paranoia, ma soprattutto è la Quintessenza dell’irresponsabilità politica. Come un Nanni Moretti inviperito, letto il “racconto breve” di Alain Elkann, ci sta perfetto: “Ve li meritate Meloni, La Russa, Santanchè, Donzelli!”. 

Il sovranismo alla cacio e pepe di questi quattro peracottari giunti a Palazzo Chigi è frutto solo degli errori e della boria di una sinistra finita sul Caviale del Tramonto, impegnata a concionare sull'utero in affitto e zuppe di nozze in salsa "Oggi queer, domani Allah" delle povere Murgia. 

Eccolo, senza museruola e guinzaglio, un Elkann in viaggio per Foggia che si contorce in pieno disprezzo umorale per un gruppo di giovani “lanzichenecchi” perché indossano pantaloni corti, esibiscono tatuaggi e smanettano l’Iphone. 

E spalancano le fauci parlando di ragazze, spiagge e “night” (ma quando mai un adolescente di oggi usa “night” per discoteca?).

Mentre l’Infelice Benestante di casa Agnelli si dipinge così: “Io indossavo, malgrado il caldo, un vestito molto stazzonato di lino blu e una camicia leggera. 

Avevo una cartella di cuoio marrone dalla quale ho estratto i giornali: il Financial Times del weekend, New York Times e Robinson, il supplemento culturale di Repubblica. Stavo anche finendo di leggere il secondo volume della Recherche du temps perdu di Proust e in particolare il capitolo “Sodoma e Gomorra”. Ho estratto anche un quaderno su cui scrivo il diario con la mia penna stilografica...”.  

Dopo queste righe, per comicità, sfigurano gli straordinari libri di Paolo Villaggio su Fantozzi. Però Scalfari così lo fanno uscire dalla tomba. 

Alain Elkann per la Repubblica il 24 luglio 2023. 

Non pensavo che si potesse ancora adoperare la parola “lanzichenecchi” eppure mi sbagliavo. Qualche giorno fa, dovendo andare da Roma a Foggia, sono salito su una carrozza di prima classe di un treno Italo. Il mio posto assegnato era accanto al finestrino e vicino a me sedeva un ragazzo che avrà avuto 16 o 17 anni. T-shirt bianca con una scritta colorata, pantaloncini corti neri, scarpe da ginnastica di marca Nike, capelli biondi tagliati corti, uno zainetto verde.  

E l’iPhone con cuffia per ascoltare musica. Intorno a noi, nelle file dietro e in quelle davanti, sedevano altri ragazzi della stessa età, vestiti più o meno allo stesso modo: tutti con un iPhone in mano. Alcuni avevano in testa il classico cappello di tela con visiera da giocatore di baseball di colori diversi, prevalentemente neri, e avevano tutti o le braccia o le gambe o il collo con tatuaggi piuttosto grandi. Nessuno portava l’orologio.

Io indossavo, malgrado il caldo, un vestito molto stazzonato di lino blu e una camicia leggera. Avevo una cartella di cuoio marrone dalla quale ho estratto i giornali: il Financial Times del weekend, New York Times e Robinson, il supplemento culturale di Repubblica. Stavo anche finendo di leggere il secondo volume della Recherche du temps perdu di Proust e in particolare il capitolo “Sodoma e Gomorra”. Ho estratto anche un quaderno su cui scrivo il diario con la mia penna stilografica. 

Mentre facevo quello, i ragazzi parlavano ad alta voce come fossero i padroni del vagone, assolutamente incuranti di chi stava attorno. Parlavano di calcio, di giocatori, di partite, di squadre, usando parolacce e un linguaggio privo di inibizioni.

Intanto il treno, era arrivato a Caserta. 

Non sapevo che per andare da Roma a Foggia si dovesse passare da Caserta e poi da Benevento. Pensavo di aver sbagliato treno, ma invece è così. Non ho mai rivolto la parola al mio vicino che o taceva ascoltando musica o si intrometteva con il medesimo linguaggio nella conversazione degli altri ragazzi. 

A un certo punto, poco dopo Benevento, mentre erano sempre seduti o quasi sdraiati ai loro posti, ammassando nei vari cestini per la carta straccia lattine di Coca Cola o tè freddo, uno di loro ha detto: «Non è che dobbiamo stare soli di sera: andiamo a cercare ragazze nei night». 

Un altro ragazzo più piccolo di statura e con il viso leggermente coperto di acne giovanile ha detto: «Macché night! Credetemi, ho esperienza. Bisogna beccare le ragazze in spiaggia e poi la sera portarle fuori e provarci. La spiaggia è il posto più figo e sicuro per beccare».

Quella conversazione sulle donne da trovare era andata avanti mentre io avevo finito di scrivere sul mio quaderno ed ero immerso nella lettura di Proust.

Loro erano totalmente indifferenti a me, alla mia persona, come se fossi un’entità trasparente, un altro mondo.

Io mi sono domandato se era il caso di iniziare a parlare col mio vicino, ma non l’ho fatto. Lui era la maggioranza, uno nessuno centomila, io ero inesistente: qualcuno che usava carta e penna, che leggeva giornali in inglese e poi un libro in francese con la giacca e i pantaloni lunghi. 

Per loro chi era costui?

Un signore con i capelli bianchi, una sorta di marziano che veniva da un altro mondo e che non li interessava. Pensavano ai fatti loro, parlavano forte, dicevano parolacce, si muovevano in continuazione, ma nessuno degli altri passeggeri diceva nulla.

Avevano paura di quei ragazzi tatuati che venivano dal nord, lo si capiva dall’accento, o erano abituati a quel genere di comportamento? 

Arrivando a Foggia, mi sono alzato, ho preso la mia cartella. Nessuno mi ha salutato, forse perché non mi vedevano e io non li ho salutati perché mi avevano dato fastidio quei giovani “lanzichenecchi” senza nome.

Estratto dell’articolo di Alberto Marzocchi per ilfattoquotidiano.it il 24 luglio 2023.

Sul treno per Foggia con i giovani “lanzichenecchi”. Si intitola così l’articolo firmato da Alain Elkann, uscito stamattina sulle pagine culturali de la Repubblica. Un racconto, in prima persona, sul treno Roma-Foggia, che vede il giornalista “vittima” di quelli che lui stesso definisce “lanzichenecchi”, cioè giovani un po’ chiassosi che, evidentemente, infastidiscono per qualche ora il padre dell’editore di Repubblica e presidente del gruppo Gedi. Il reportage (?), pubblicato a pagina 29, ha fatto saltare sulla sedia diversi giornalisti della testata, tanto che nel primo pomeriggio il cdr (comitato di redazione) ha inviato una mail, a colleghe e colleghi, per prendere le distanze dai contenuti dello scritto.

“Questa mattina la redazione ha letto con grande perplessità un racconto pubblicato sulle pagine della Cultura del nostro giornale, a firma del padre dell’editore. Considerata la missione storica che si è data Repubblica sin dal primo editoriale di Eugenio Scalfari, missione confermata anche ultimamente nel nuovo piano editoriale dove si parla di un giornale ‘identitario’ vicino ai diritti dei più deboli, e forti anche delle reazioni raccolte e ricevute dalle colleghe e dai colleghi, ci dissociamo dai contenuti classisti contenuti nello scritto. Per i quali peraltro – concludono nella nota – siamo oggetto di una valanga di commenti critici sui social che dequalificano il lavoro di tutte e tutti noi, imperniato su passione, impegno e uno sforzo di umiltà”. […]

Onore al coraggio di Alain Elkann. Il miglior compagno di viaggio possibile. STEFANO RAPONE su Il Domani il 26 luglio 2023

Tutto il popolo del web si è scagliato contro di lui giudicandolo classista, vegliardo, stronzo. Ebbene io a queste persone voglio dire solamente una cosa: siete ipocriti

In questi giorni è esplosa una polemica nei confronti del personaggio di Alain Elkann che ha espresso il suo disagio per una serie di situazioni poco piacevoli accadutegli durante un viaggio in treno. Tutto il popolo del web si è scagliato contro di lui giudicandolo classista, vegliardo, stronzo. Ebbene io a queste persone voglio dire solamente una cosa: ipocriti.

Alain Elkann è il miglior compagno di viaggio che chiunque di noi possa mai desiderare di incontrare in treno. Ma andiamo per ordine: tutti noi abbiamo preso un treno almeno una volta nella vita. Chi occasionalmente per raggiungere luoghi di villeggiatura, chi per lunghi viaggi di lavoro, i più sfortunati di noi lo prendono quotidianamente facendo i pendolari.

Da persona che viaggia regolarmente e quindi costretta a stare in luoghi chiusi con altri esseri umani, sento di poter fare senza timore di smentita questa affermazione: viaggiare in treno non è mai piacevole. C’è spesso calca, i sedili sono scomodi e le pagine più orribili della storia del Novecento sono legate all’essere fatti salire su un treno o alla sua puntualità. Eppure Alain Elkann ha preso un treno. Poteva prendere un jet privato (i soldi non gli mancano) o fare una videochiamata con i potenti mezzi che il suo denaro gli permette (videofonini, fax) e invece lui ha coraggiosamente scelto di utilizzare l’alta velocità.

Per andare dove poi? A Foggia. Nessuno va volentieri a Foggia, mai. Nemmeno i foggiani. E non lo dico io, ma i foggiani stessi: Pio e Amedeo sono di Foggia eppure ne sono scappati, come raccontano nella canzone popolare Fuggi da Foggia.

Renzo Arbore è di Foggia, eppure da sempre si spaccia per napoletano. Padre Pio era stato mandato a Foggia, ma scrisse al padre provinciale di essere mandato a San Giovanni Rotondo perché, a suo dire, Gesù gli avrebbe assicurato che là sarebbe stato meglio (Epistolario, 4 voll. Corrispondenza con i direttori spirituali, 1910-1922, pag. 798).

Eppure dove andava Alain Elkann? A Foggia. Questo ricco signore anziano ha deciso di mettere a repentaglio la propria vita recandosi in prima persona verso quella che le cronache recenti ci dipingono come una delle principali destinazioni dimenticate da Dio. E non è neanche stato incauto, ma lo ha fatto con tutte le precauzioni del caso: andando in business class. 

LA BUSINESS CLASS

Certo, potrebbe essere considerato classista. Ma dove dovrebbe andare un businessman se non in business class, sentiamo? A spalare carbone su una locomotiva scagliata a bomba contro l’ingiustizia? Ma non scherziamo.

La business class non è il male. La business class è quel timido miraggio di oasi felice per cui le persone che viaggiano per lavoro pagano una cifra maggiorata rispetto al biglietto regolare (comunque meno del prezzo di un tatuaggio del proprio figlio neonato sul polpaccio) per avere un ambiente il più possibile sereno, dove poter lavorare senza che capitino quelle spiacevolezze che di solito accadono quando si è a contatto con altre persone in luoghi chiusi (di solito: cani che abbaiano, bambini che piangono, partorienti che espellono bambini che piangono mentre uomini di mezza età ascoltano a tutto volume video di coreani che spremono eczemi su TikTok).

Per cui, ricapitolando: da un lato abbiamo il buon Elkann, che umilmente prende un treno di linea, col suo biglietto stampato con cura su un foglio A4 da mostrare prontamente al controllore, intento a farsi i fatti suoi senza voler dare il benché minimo fastidio al prossimo e anzi, magari pure ben disposto a darti un buongiorno e un buonasera di cortesia. Il passeggero perfetto, che tutti vorremmo avere accanto in un lungo viaggio verso Foggia.

Dall’altro un manipolo di maranza tatuati venuti dal nord pronti a concupire coi loro membri padani delle giovani donne pugliesi. Il peggior tipo di persona da trovarsi davanti non solo in uno scompartimento, ma nella vita.

E chi abbiamo deciso di mettere alla gogna? Il primo, colpevole solo di aver dipinto i secondi come un esploratore avrebbe descritto dei bonobo intenti a lanciarsi delle feci. Tutte considerazioni che sfido qualunque lettore di Repubblica nelle stesse condizioni a non fare. Alain Elkann ha solo avuto il coraggio di metterlo per iscritto e consegnarlo alle stampe, con quell’incoscienza e quel candore che solo i folli e i visionari hanno.

E invece gli è stato dato del classista e del figlio di papà, assolvendo implicitamente un manipolo di debosciati anch’essi ricchi, anch’essi figli di papà (chi gliel’ha pagata la business class? Dove hanno preso i soldi dei tatuaggi?) che ben pensavano di fare di uno scompartimento carne di porco, incuranti degli altri passeggeri dai capelli canuti. A meno che non fossero rapper o trapper, in quel caso ci sta che facciano casino.

Stefano Rapone comico

Estratto dell’articolo di Fabio Finotti* per “la Repubblica” mercoledì 26 luglio 2023.

*L’autore è direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di New York e professore emerito all’Università della Pennsylvania.

Caro Direttore, ho letto su Repubblica il bel racconto di Alain Elkann sui “nuovi lanzichenecchi”. Poi ho visto le critiche, e mi sono sorpreso e rallegrato. Ma dunque la letteratura può ancora scandalizzare, muovere le coscienze, dare scandalo? […] Chi dice “io” in un racconto non è lo stesso che dice “io” nella realtà, lo sappiamo tutti. 

Il protagonista del nostro racconto non è e non potrà mai essere il vero Alain Elkann. L’autore di un racconto si incarna nel personaggio che dice “io” ma ugualmente nei suoi antagonisti (qui i lanzichenecchi). Bakhtin la chiama polifonia. Fatta chiarezza (ma siamo all’ABC dell’analisi letteraria), vediamo come si presentano quei “lanzichenecchi” in difesa dei quali si sono alzate tante spade.

Se nessuno porta l’orologio non è perché siano dei poveracci, ma perché il loro tempo è ormai segnato dal telefono. Sembrano appagati di quel che sono, tanto da non vedere il mondo attorno che li circonda. Di fronte a loro c’è lo scrittore che li descrive. Il vero poveraccio sembra lui. Il suo vestito è «molto stazzonato di lino blu».

L’impressione è di disordine, sciatteria. C’è malinconia nel modo in cui lo scrittore si affida […] a vecchi materiali, usa non lo zaino ma una cartella «di cuoio marrone», e da lì tira fuori un armamentario di oggetti tutt’altro che virtuali: giornali, libri, un quaderno, una penna... a guardarlo con gli occhi dei giovani sembra un campionario da rigattiere. 

Ma il punto è questo: i giovani non vedono. Non si rendono conto che tra quelle cianfrusaglie c’è qualche gemma, per esempio un Proust. Non sono i vecchi lanzichenecchi, sono quelli “giovani”. Non usano la lancia ma dissolvono egualmente tutto quello che sfiorano, perché non lo riconoscono, non lo guardano, non ammettono la sua esistenza. Il protagonista è uno di quegli scrittori crepuscolari […] Uomini che nascono e muoiono senza che il mondo si accorga di loro[…]

Ma i lanzichenecchi, questi giovani barbari che viaggiano in prima classe, meritano una difesa a spada tratta? Il vocabolario, l’ostentazione di potere, l’idea della donna davvero sono l’ideale che vogliamo difendere? Qui siamo di fronte a due mondi diversi, e chi ha deciso di schierarsi col secondo, quello più giovane, ha fatto una scelta tra due classi non sociali ma intellettuali. 

La rivoluzione per i lanzichenecchi “esterni” al treno, che colpiscono lo scrittore dai social, è la cieca prepotenza del gruppo, mentre la cultura è un vezzo da snob. Lo scrittore esce dal treno silenzioso e non visto. Può considerarsi fortunato. La prossima volta il nuovo fascismo invece di ignorarlo potrebbe aggredirlo perché ha osato essere diverso dagli altri. Magari solo scrivendo con la stilografica un diario. Oppure creando un racconto. È meglio che non ci provi più. 

Estratto dell’articolo di Paolo Di Paolo per “la Repubblica” mercoledì 26 luglio 2023. 

Non c’è da raccontare niente. Quindi si può raccontare tutto. Non esiste déjà vu su un treno che da Roma parte per Foggia, se – come è accaduto ad Alain Elkann ( Repubblica del 24 luglio) – si può scoprire che fa tappa a Caserta e a Benevento, o che […] è possibile incontrare adolescenti rumorosi e poco deferenti. […] A Elkann sarebbe forse bastato un minimo slancio in più e un filo di insofferenza in meno; e, da esperto intervistatore (da Moravia a Montanelli a una ragazzina di undici anni), avrebbe trovato materiale interessante.

Scavare col pensiero in quel muro apparentemente invalicabile tra il suo abito «stazzonato» di lino blu e i loro cappelli con visiera: chi sono? Che cosa stanno pensando? Che cosa desiderano? Oltre quello che stanno dicendo a voce alta. «Tutte le persone sono simpatiche quando si riescono a capire»: non è Proust, l’autore che Elkann tentava di leggere fra gli schiamazzi. È Harper Lee.

Per quanto mi riguarda, rifacendo la tratta (all’andata su un Frecciargento Trenitalia, al ritorno su un Italo), non ho portato libri: solo una pagina di Tondelli, che con Elkann e altri fondò una rivista. […] lo scrittore intendeva farsi tramite delle «storie di gente comune»: «Gente che fa, gente che produce, gente sottoccupata, gente incantata, gente improduttiva, gente selvatica», «gente che costituirebbe a prima vista una massa anonima ma che, se indagata con solo un poco di attenzione, riserverà molte sorprese».

Confermo: nella prima mescolatissima classe del Frecciargento del mattino per Foggia, trovo la turista con cappello a falda larga e trovo la ragazza che cerca di resistere all’aria condizionata sfilando dalla grossa valigia un accappatoio. Non c’è un medico presente a bordo – un messaggio accorato lo invita a presentarsi nella carrozza 6. Penso: nessuno che chieda mai di uno scrittore! E sì che potrebbe, volendo, trovare le parole per descrivere il curioso rapporto tra un ragazzino saputello e sua nonna. Lui quasi la ossessiona non con le domande, ma con le sue competenze […] 

[…] C’è il maniaco dell’igiene – disinfetta con l’Amuchina spray i tavolinetti – e c’è un drappello di “lanzichenecche” belle e loquaci, le unghie finte, la voce un pelo alta, le risate un po’ esagerate. D’altra parte, qualche sopracciglio si alza, qualcuno sbuffa: la verità è che tutti possiamo essere il lanzichenecco vicino di posto di qualcun altro. A questo proposito, urge segnalare che fra noti critici e critiche del racconto di Elkann – rilanciato, rimaneggiato, reso virale – vi è chi sbraiterebbe al primo segnale di disturbo.

In modo così sgradevole e scomposto e incapace di compromesso che la mansueta insofferenza di Elkann, al confronto, è balsamica. Percorro le carrozze in cerca di qualche abito di lino, lo trovo. Trovo piedi piazzati sui sedili, accese partite a carte, in cosiddetta seconda classe, e trovo copie di libri, che non avevo trovato in prima. E non c’era Proust, ma c’era un Roth e un Bret Easton Ellis […] 

[…] Eccolo il meraviglioso condominio ferroviario in cui le distanze di classe si sfarinano; talvolta perfino i pregiudizi. L’elzevirista accigliato può incontrare il suo opposto, faticando ad accettarlo (su questo giornale, molti anni fa, a un Citati che inaspettatamente elogiava i “borgatari” che mangiano il gelato in centro, rispondeva un infastidito Malerba). L’incontro non è facile ma la curiosità è vitale; e ogni viaggio, ogni viaggetto è un’occasione per polverizzare l’abitudine. E, come invita a fare una scrittrice nell’ultimo numero di Robinson – quello che Elkann ha sfoderato accanto ai giovani passeggeri – per diventare «estranei a sé stessi». Provando a varcare, con le frontiere geografiche, quelle mentali. Le più spesse. In un verso o nell’altro, le più difficili.

Estratto dell'articolo di Alberto Marzocchi per ilfattoquotidiano.it mercoledì 26 luglio 2023.

Alla fine è arrivato il no: il direttore de la Repubblica, Maurizio Molinari, si è rifiutato di pubblicare sul giornale [...] la nota con cui i giornalisti prendevano le distanze dall’articolo firmato da Alain Elkann (padre dell’editore, John) uscito sulle pagine culturali lunedì 24 luglio. Il racconto di Elkann (Sul treno per Foggia con i giovani “lanzichenecchi”) ha creato molti malumori sia nella redazione romana di largo Fochetti sia in quelle locali (oltre ad essersi attirato le critiche sui social, ieri, e su alcuni quotidiani, oggi). 

Tanto che il comitato di redazione, nel pomeriggio, ha diffuso una nota ai colleghi e alle colleghe per dissociarsi dall’articolo, definito “classista”. In serata, però, è arrivata la “censura” di Molinari. Il cdr gli ha chiesto di poter pubblicare la propria comunicazione sul giornale, in edicola oggi. Ma il direttore si è rifiutato, dicendosi tuttavia d’accordo nel merito.

Così ai giornalisti e alle giornaliste del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari è arrivata una nuova mail, di cui riportiamo il contenuto: “Questo pomeriggio abbiamo chiesto alla direzione la pubblicazione della nota interna che vi avevamo inviato, visto che ormai e purtroppo era diventata di dominio pubblico. 

Era giusto che i lettori leggessero quelle parole direttamente sul nostro sito e sul nostro giornale e non altrove. Il direttore ha deciso di non pubblicarla, ritenendola una ingerenza del Cdr sulle scelte editoriali. Posizione che non condividiamo. Dopodiché il direttore ha detto di comprendere e condividere ciò che avevamo scritto e nei prossimi giorni questa consapevolezza ‘verrà resa chiara sulle nostre pagine’. Questo per il dovere di trasparenza che vi dobbiamo”. [...]

DAGOREPORT mercoledì 26 luglio 2023.

A Roma, a un certo punto degli anni Settanta, sbocciò una moda intellettuale che, ancor oggi, attizza la scena dei salotti: il ”rimorchio culturale”. 

Si tratta di una pratica che ”consiste nel puntare la preda e trafiggerla attraverso lunghi ragionamenti alti’” oppure ”tramite citazioni librarie” ma anche pose da sapientone, insensatezze profonde e concettose, pause studiate che diano al seduttore culturale la possibilità di spingere la preda a cadere più velocemente nella trappola.

Come maestri del ”rimorchio culturale”, nel corso del tempo, hanno fatto scintille  Umberto Eco, Valentino Zeichen, l’ex direttore di Rai3 Angelo Guglielmi, il ”pensatore’’ Stefano Bonaga, il filosofo Massimo Cacciari. 

Ma nessuno, della conventicola dei dongiovanni colti, snob e chic ha riscosso più successo di Alain Elkann, colui che sposò la figlia dell’Avvocato Agnelli, padre di John, Lapo e Ginevra. 

Anche se la fine del matrimonio con Casa Agnelli non fu un episodio tra i più piacevoli per il bel tenebroso. Margherita, dopo aver prodotto cotanta figliolanza, perse la testa per la carismatica bacchetta del fascinosissimo Claudio Abbado. 

Ma Alain, di chiudere il rapporto con la rampolla dell’Avvocato, non riusciva a ficcarselo in testa. Fino a che, un bel giorno, di ritorno da un viaggio, l’irriducibile marito entrò in casa, aprì la porta della camera e al posto del letto coniugale si ritrovò davanti un pianoforte… Vero, falso, verosimile? Ah, saperlo… 

Il cuore farfallone di Alain Elkann ha sempre funzionato come una caldaia, specializzato però nella conquista di signore ben stagionate, immancabilmente sedotte e abbandonate, dopo aver ricevuto in dono la collezione completa dei suoi libri con uscita trimestrale e un vezzoso barboncino (da Elkann al cane, di solito è tutto quello che resta alle ex fiamme).

Alcune Alain-victim: dalla marchesa Sandra Verusio a Benedetta Fumi ex principessa Lanza di Scalea, dall’ex moglie di Philippe Leroy, Emma Bini all’antiquaria Alessandra Di Castro, dalla zarina di “Vogue” Franca Sozzani a Rosi Greco, che riuscì nell’impresa di portarlo all’altare. L'unica a sfancularlo fu Irene Ghergo, la Madonnina dei Parioli, che un bel giorno lo mise alla porta con un definitivo  "Quanto sei noioso…". 

Dotato di lingua sciolta, l’aria ispirata e un’eleganza su misura Caraceni, magari un po’ stropicciato dagli anni, sempre con l’ascella ripiena di libri. Tutto il contrario di un pappagallo da strada. 

Ma per il ”rimorchio culturale”, la “maschera” conta poco. Anzi, a volte rischia l’effetto contrario. Il vero grimaldello per l’incanto è cerebrale: contano più le sinapsi dell’appariscenza. Lo capii bene tanti anni fa durante una festa in casa tampinando, come uno 007, il bel tenebroso Alain alle prese con una fascinosa signora. 

Approfittando della calca, mi attaccai alle spalle di Alain e captai la prima regola: parlare con un filo di voce, un volume bassissimo che costringe il volto di lei ad avvicinarsi agli occhi del conquistador. Peggio di una bestemmia qualsiasi apprezzamento fisico, Alain accende il fuoco sospirando frasi del tipo: ‘’Volevo dirti che hai un talento naturale… un’emotività lontana… devi trasformare la tua fragilità…’’. 

E qui sussurra la prima citazione assassina. ‘’Secondo Holderlin, "l’uomo è un dio quando sogna e un pezzente quando riflette…". Ecco l’affondo: hai una Moleskine sul comodino? al mattino trascrivi i tuoi sogni, le fantasticherie del dormiveglia, gli incubi che attanagliano la tua anima… e poi mi scrivi una lettera. Io ti risponderò. Perché sento che possiedi un talento letterario… la tua anima è forte…”.

Nessun prosaico appuntamento carnale da arrapato, al massimo un "Sembri uscita da un quadro del Boldini....", ma installare in lei l’idea di essere una Virginia Woolf ancora da scoprire, fino al colpo finale: l’impegno a intrecciare una corrispondenza di amorosi sensi, alla maniera del Laclos di “Relazioni pericolose”. Dalle lettere al letto, il passo è breve. 

Ecco: per le donne abituate a sentirsi dire “quando se magna?... che stai a fa’, lo yoga?... sabato, scopiamo?’’, il rimorchio culturale, soprattutto il più fasullo, è il più irresistibile afrodisiaco. E nella dura tenzone della seduzione, gli alainelkann vinceranno sempre perché sanno che il punto “G” è nella testa. Chi lo cerca più in basso non è un Alain…

Estratto dell’articolo di Daniele Luttazzi per il Fatto Quotidiano mercoledì 26 luglio 2023.

Tutt’Italia sta ridendo di Alain Elkann: in un articolo per Repubblica s’è lamentato di un gruppo di adolescenti tatuati e muniti di iPhone che su un Italo diretto a Foggia lo hanno disturbato parlando ad alta voce di calcio e di fighe mentre lui voleva leggere in santa pace Proust nell’originale francese. C’è chi s’è stupito del suo essere fuori dal mondo. Io no. Nel 2005 mi intervistò in tv sulle mie traduzioni di Woody Allen per la Bompiani, e a un certo punto mi chiese: “Ma lei perché non fa più televisione?”. La troupe scoppiò a ridere. Elkann: “Perché ridete?”.

Gli raccontai dell’editto bulgaro. E lui, celestiale: “Ah, ma davvero?”. Scrittore, giornalista, nonché consigliere del ministro Urbani, Elkann non sapeva nulla dell’editto bulgaro. (Non è colpa sua: Proust non ne parla). Comunque, per rimediare alla figura barbina da principessa sul pisello, l’ufficio stampa di famiglia (la stessa che organizzò le copertine de L’uomo Vogue e di Vanity Fair per celebrare Lapo campione di stile dopo la notte brava con droghe e transessuali) ha diramato agli organi di stampa una velina con aneddoti che rendano più alla mano, quindi meno odioso, lo spocchioso Alain Elkann.....

 Estratto da mowmag.com mercoledì 26 luglio 2023. 

(...) Ci siamo affidati, infatti, alla grande scrittrice Barbara Alberti che ha invitato Elknann padre) per il futuro, a non salire più su un treno per non restarne nuovamente, traumatizzato. 

Lo trovo esilarante, lui si compiace di essere l'ultimo che legge Proust. Se lei prende un signore di qualsiasi generazione che vede i giovani naturalmente non si riconosce. Per esempio mio padre era abituato che già a vent'anni si vestiva da uomo. Ma credo che Elkann sarebbe stato estraneo anche alla sua generazione, in cui si portavano i capelli lunghi, ricci, probabilmente sarebbe stato un alieno anche allora.

Quello che mi commuove e che mi intenerisce è questo suo auto compiacimento di essere l'ultimo signore sulla terra e l'ultimo che legge Proust, ma vorrei dire che c'è tanta altra gente che lo legge, io ne conosco di giovani che hanno letto più di me nella vita. È una bellissima cartolina di un signore che potrebbe essere di qualsiasi tempo che vede la nuova generazione e si compiace perché lui comunque è elegante. 

Non si può salvare proprio nulla, neanche la critica a una certa volgarità?

Non lo so, io sto alle sue dichiarazioni ed Elkann mi sembra deliziosamente ingenuo. La sua mi pare una vanteria simpatica, tenera, ma sembra che cada dal pero dato che i problemi sono ben altri. 

Quali?

Il fatto che questa è una generazione che abbiamo educato nel consumo. Quello che leggo nelle parole di Elkann mi sembra un banalissimo stupore e il compiacimento di essere un signore e un intellettuale, ma si compiaccia di questo prendendo atto però del fatto che il mondo va in un'altra direzione e c'è sempre andato. 

(...) Io vorrei scusarmi con i giovani d'oggi perché li abbiamo tirati su in un mondo spaventosamente consumista e superficiale, dove l'unico problema è diventare famosi. Non dimentichiamoci che oggi i giovani uccidono per riprendersi con il telefonino e mandare in rete ciò che succede, si vantano anche delle loro azioni più turpi. L'apparire in sé ha sconvolto tutti. Ormai si vuole esistere attraverso l'immagine. È per questo che trovo deliziosa la nota di Elkann che lo colloca in un mondo lontanissimo rispetto a quello che è oggi, è un alieno che non ha un'effettiva visione del mondo di oggi.

A lei piace come vestono i giovani di oggi?

(...) Conosco ragazzi e ragazze infinitamente intelligenti, anche se la maggioranza è sempre stata cafona, come la definirebbe lui, perché in sintesi è così che la trova. Quel genio di Roberto D’Agostino ha inventato la parola “cafonal” che è il segno del nostro tempo. 

Non le è mai capitato di avere a che fare con giovani maleducati?

Sì, ma anche con vecchi, perché la maleducazione è la gloria del nostro tempo. Proprio perché questa è la sopraffazione dell'altro ed è un mondo che si è abituato e che ha glorificato la sopraffazione. Pensiamo comunque alle cose gravi, siamo nel pieno di una guerra che sta finendo di distruggere il pianeta e vorremmo che i ragazzi fossero vestiti bene come Elkann? Ma per carità! Questo è il mondo che noi abbiamo costruito e preparato e mi sembra il minimo vedere in giro tutti questi tatuaggi, pensiamo al fatto che i bambini di cinque o sei anni hanno come babysitter il cellulare…e lui si stupisce di quello che vede in treno? 

Cosa consiglierebbe ad Alain Elkann?

Che non vada in treno, ma che vada in macchina con l'autista così non avrà traumi. Il gesto democratico di andare in treno, che noi apprezziamo, mi sembra un gesto avventato, non lo faccia, altrimenti in treno c'è il pericolo di vedere la gente com'è realmente.

Che cosa vuol dire ‘lanzichenecchi’, il termine usato da Alain Elkann per definire i ragazzi sul treno per Foggia. Lo scrittore e giornalista è finito nella bufera per un articolo pubblicato su La Repubblica, giornale edito dal figlio John. Le sue parole sono finite sui vari social diventando anche dei meme. Andrea Aversa su L'Unità il 24 Luglio 2023 

È finito al centro della gogna social Alain Elkann. Il papà di John, proprietario del gruppo Gedi che edita La Repubblica, ha scritto e pubblicato un articolo sul giornale di famiglia. Il tema è stato il racconto del suo viaggio, in prima classe sul treno ad alta velocità Italo, da Roma fino a Foggia, passando per la Campania. Elkann, scrittore, filosofo e intellettuale, ha utilizzato una prosa d’altri tempi, descrivendo se stesso quasi come un uomo dell’800. Peccato che il suo idillio sia stato ‘rovinato’ da un gruppo di adolescenti che in quanto tali non avevano atteggiamenti appartenenti ai secoli passati e soprattutto parlavano di cose delle quali parlano tutti gli adolescenti.

Che cosa vuol dire ‘lanzichenecchi’, il termine usato da Alain Elkann

Elkann ha scritto di sentirsi disturbato dal loro modo di vestirsi, dal loro linguaggio e dai loro discorsi. Ha definito quei ragazzi dei “lanzichenecchi“. Ma che cosa vuol dire ‘lanzichenecchi’, il termine usato da Alain Elkann? Questi ultimi sono stati soldati di ventura, mercenari, distruttori, responsabili del Sacco di Roma. Dei lanzichenecchi ne ha parlato anche Alessandro Manzoni nella sua opera ‘I promessi sposi‘. Insomma parlare di ragazze, di conquiste amorose, di appuntamenti al night, così come essere vestiti con cappelli da baseball, pantaloncini e maglietta, per Elkann sono stati dei ‘peccati’. Ma il più grande, forse, quei ragazzi l’hanno commesso nel non riconoscere lo scrittore.

I meme e la ‘gogna’ social

C’è da dire che l’articolo scritto da Elkann ha generato la classica ‘gogna’ social. Certo, molto ironica in questo caso ma comunque volta a marcare una sorta di ‘classismo’ espresso dallo scrittore. Non sono mancati anche dei richiami, legati sia all’appartenenza famigliare dell’autore, che a suoi errori di scrittura relativi a pubblicazioni passate. Sulla vicenda il Comitato di redazione (Cdr) di La Repubblica ha diramato un comunicato dissociandosi da quanto pubblicato sul quotidiano: “Care colleghe e cari colleghi, questa mattina la redazione ha letto con grande perplessità un racconto pubblicato sulle pagine della Cultura del nostro giornale, a firma del padre dell’editore. Considerata la missione storica che si è data Repubblica sin dal primo editoriale di Eugenio Scalfari, missione confermata anche ultimamente nel nuovo piano editoriale dove si parla di un giornale ‘identitario’ vicino ai diritti dei più deboli, e forti anche delle reazioni raccolte e ricevute dalle colleghe e dai colleghi, ci dissociamo dai contenuti classisti contenuti nello scritto. Per i quali peraltro siamo oggetto di una valanga di commenti critici sui social che dequalificano il lavoro di tutte e tutti noi, imperniato su passione, impegno e uno sforzo di umiltà. Buon lavoro“. Andrea Aversa 24 Luglio 2023

Dagospia il 25 luglio 2023. Riceviamo e pubblichiamo:

Caro Dagospia,

a me l’articolo di Alain Elkann non ha minimamente stupito perché avevo avuto a che fare con lui da “giovane” quando lavoravo come hostess congressuale al Centro Congressi dell’Unione Industriale di Torino.

Devi sapere che il Centro Congressi dell’Unione Industriale di Torino organizzava, il lunedì pomeriggio, i “Caffe Letterari”, eventi aperti gratuitamente a tutti, ai quali venivano invitati gli scrittori per presentare il loro ultimo libro. Il pubblico, visto anche l’orario in cui erano programmati, le 15.00, era composto per lo più da anziani che, dietro il compenso di un caffè offerto (se no che caffè letterario era) e un Ferrero Roche (anch’esso offerto) si accomodavano in sala e seguivano la presentazione.

A uno di questi eventi fu invitato anche Alain Elkann che aveva pubblicato da poco un libro (credo fosse “I soldi devono restare in famiglia”) e tutta l’Unione era in fermento - anche perché era da poco mancato Giovannino Agnelli e quindi si trattava del padre dell’erede della famiglia Agnelli - e quindi della FIAT, che in quegli anni per Torino significava ancora tanto – prevedendo l’arrivo dei membri della famiglia Agnelli ma in realtà l’unico che si presentò fu proprio John Elkann. 

Alain Elkann, entrando in sala non nascose una certa delusione per il pubblico presente, come già detto soprattutto anziani, lamentandosene con la responsabile e, obtorto collo, si sedette al tavolo di presidenza per rispondere alle domande dell’intervistatore.

Alla fine dell’intervista, mentre si attendeva che la gente acquistasse al banchetto allestito fuori dalla sala da una libreria il libro per farselo autografare, Elkann inizio a lamentarsi con i responsabili del centro congressi che aveva perso una giornata per niente, perché non era previsto alcun compenso e il pubblico non era alla sua “altezza”. 

A quel punto il personale del centro congressi entrò in fibrillazione (amministratore delegato in testa che si precipitò giù dagli uffici) e spiegò che il guadagno era nelle copie acquistate dal pubblico ma lui storse il naso con aria di sufficienza e quindi dovettero escogitare un piano b che consistette nel mandarmi ad acquistare le copie rimaste invendute (praticamente quasi tutte) e a ricercare, con la responsabile delle pubbliche relazioni, una stampa (di quelle molto costose che fanno fine e non impegnano) per sedare il malumore di Alain Elkann  che me la consegnò dicendomi “tieni, portala a quel gran signore, io torno in ufficio che non lo voglio più vedere”. 

Negli anni seguenti lo invitarono altre volte, io non ci lavoravo più, ma credo che poi abbiamo preparato un buon gettone di presenza se non dubito che ci sarebbe tornato. 

Vi assicuro che la storia è vera 

Dagospia il 25 luglio 2023. Riceviamo e pubblichiamo:

Caro Dago, 

mi sembra terribilmente ingiusto l'accanimento mediatico contro Alain Elkann, dalla redazione di Repubblica dove ha pubblicato un breve racconto estivo, ai noti giornalisti di destra e sinistra 

E' una colpa essere figlio di un banchiere francese e padre del proprietario del giornale ? 

avere 73 anni e leggere Financial times e Proust ?  non conoscere bene la geografia italiana ? prendere appunti con una stilografica ? osservare il comportamento dei ragazzi molto giovani e sentirsi estraneo al loro mondo ?  

Alain forse è stato ingenuo, snob ? non più di altri

Non merita questa forma di linciaggio.  

Avrei capito una critica letteraria allo stile ma non alla persona

Anche questa sembra una forma di razzismo, spero di sbagliarmi

Carmen Llera Moravia 

Gian Paolo Serino per mowmag.com il 25 luglio 2023.  

[…] Nessun errore. Il racconto di Alain Elkann è perfetto così: troppo facile abbaiare allo scandalo, cercare nel suo racconto parole di razzismo, di snobismo, di superiorità. Anzi, Elkann in punta di penna ci ha ricordato che esiste un problema: oggi i Franti sono usciti dal libro “Cuore” per invadere i treni delle nostre coscienze.

Al posto che cercare un punto di “crep de chine” nel vestito di Elkann ricordiamoci di Occam analizzando la struttura essenziale del testo narrativo: 

il piacere;

il viaggio itinerante a lunga percorrenza;

la scoperta dei luoghi non conosciuti;

la solitudine peggiore (siamo soli in tanti);

la nostalgia della madeleine del tempo perduto;

la morte così lontana dai pensieri ma così vicina da esserci di fronte, incarnata in una gioventù che non è neanche più bruciata ma semplicemente “non pervenuta”. 

Se non fosse che questa è la prima generazione che impone una linea ferroviaria di pensiero anche non muovendosi: perché anche se il treno è in un tunnel quello che conta è la condivisione social sempre in movimento perpetuo. 

I ragazzi viaggiano oramai solo in una instagrammatica della vita che diventa la loro vita stessa. Se i lanzichenecchi sguainavano le lame delle loro Katzbalger, i lanzichenecchi di oggi ci accecano con dialoghi surreali, da rapper che non hanno mai visto una periferia e che infatti viaggiano in prima classe, confondono il chiasso con il dialogo, la dittatura dei loghi e dei catenoni dorati con la propria personalità.

Questa è l’unica domanda che ci saremmo dovuti porre davanti al racconto interrogativo di Elkann: perché i nostri figli, nipoti, fratelli, si sono ridotti così? Basta guardarci intorno […] per comprendere che abbiamo accecato i nostri figli avvolgendoli in un bozzolo di solitudine folle: li abbiamo resi schiavi e complici di una dittatura del vuoto che li ha trasformati in turisti della vita. E la colpa è soltanto nostra: siamo cresciuti da “bravi” manzoniani e abbiamo generato dei lanzichenecchi Usa&getta.

DAGONEWS il 25 luglio 2023.  

A - La nostra gioventù ama il lusso, è maleducata, si burla dell'autorità e non ha alcun rispetto degli anziani. I bambini di oggi sono dei tiranni, non si alzano quando un vecchio entra in una stanza, rispondono male ai genitori, in una parola; sono cattivi.

B - Non c'è più alcuna speranza per l'avvenire del nostro paese se la gioventù di oggi prenderà il potere domani, poiché questa gioventù è insopportabile, senza ritegno, terribile. 

C - Il nostro mondo ha raggiunto uno stadio critico, i ragazzi non ascoltano più i loro genitori: la fine del mondo non può essere lontana. 

D – I ragazzi parlavano ad alta voce come fossero i padroni del vagone, assolutamente incuranti di chi stava attorno. Nessuno mi ha salutato, forse perché non mi vedevano e io non li ho salutati perché mi avevano dato fastidio quei giovani “lanzichenecchi” senza nome. 

SOLUZIONI: A - Socrate, 470 a.C.; B – Esiodo, 720 a.C.; C – Sacerdote dell’antico Egitto, 2000 a.C.; D - Alain Elkann, ieri. 

Dagospia il 25 luglio 2023. Riceviamo e pubblichiamo:

 Dago Lux, gli occhiuti agenti del politicamente corretto, ormai sul modello Lubjanka, segnalano i kulaki del Terzo Millennio, esponendoli al pubblico ludibrio come nemici del popolo. Così, Alain Elkann, appena conclama a mezzo stampa il suo essere snob, viene immediatamente subissato di pernacchie.  Alain ha diritto ad essere e connotarsi snob, come tanti altri ad essere e dimostrarsi stronzi, alla faccia degli odierni cekisti iscritti all'Ordine.

Giancarlo Lehner 

Estratto dell’articolo Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 25 luglio 2023.

Unico caso in cui è il padre a essere raccomandato dal figlio, Alain Elkann, padre di John Elkann-figlio, editore-padrone di Repubblica, ieri ha firmato sulle pagine culturali del quotidiano di famiglia un elzeviro estivo alla Wodehouse, di altissima raffinatezza.

[…] Titolo: Sul treno per Foggia con i giovani lanzichenecchi. Occhiello - per cercare di sviare il lettore «Breve racconto d’estate». 

Ma non è fiction. Per quanto surreale, è la pura cronaca di un viaggio da Roma alle Puglie su una carrozza di prima classe di un treno Italo […] È la prova documentaria che la sinistra ha ragione in tutto e per tutto nel momento in cui Elkann incarna perfettamente l’esprit di quel mondo che inizia sulle pagine dei giornali del gruppo Gedi, passa per i comizi di Elly Schlein e finisce al matrimonio creepy di Murgia&the Coconuts.

Comunque il pezzo è un reportage in partibus infidelium dello scrittore-viaggiatore Alain Elkann, il quale scopre, nell’ordine, che: il mondo reale gli fa schifo; i ragazzi vestono t-shirt e scarpe da ginnastica Nike; ascoltano musica sull’IPhone; non portano l’orologio (incredibile); parlano a voce alta; per andare a Foggia da Roma si passa da Caserta e poi da Benevento. Strano non abbiano spianato un pezzo di Sud Italia.

[…] ci chiediamo come possano poi infastidirsi gli intellettuali di sinistra se, da destra, li chiamano «radical chic». […] E non sappiamo neppure quale dei seguenti fatti sia più curioso: 1) che i Landsknechte italici, come si deduce dall’articolo, gettino comunque le lattine di Coca-cola nei cestini; 2) che alla fine non abbiano sodomizzato nei bagni Alain Elkann; 3) che il comitato di redazione di Repubblica abbia diffuso un comunicato in cui prende le distanze dal pezzo classista del padre del padrone. 

[…] a Elkann consigliamo, la prossima volta, giusto per variare tratta e tribù, il Milano Porta Garibaldi – Domodossola (via Busto Arsizio). D’agosto, senza aria condizionata, né prima classe: verrebbe fuori un altro bel pezzo. E alla sinistra di ripartire da Alain Elkann. Ha davanti praterie di possibili elettori.

Estratto dell’articolo di Mario Giordano per “la Verità” il 25 luglio 2023.  

Per prima cosa questo fatto incredibile: per andare da Roma a Foggia bisogna passare per Caserta e Benevento. Ma vi pare? Possibile che nessuno abbia avvertito Alain Elkann, padre di Jaki, e dunque padre dell’editore di Repubblica e Stampa? Già per lui deve essere un trauma andare a Foggia, che inevitabilmente non è Saint Tropez. Ma poi: perché fare questo giro? Caserta? Benevento? Magari anche Grottaminarda? Non lo sanno che il treno che trasporta un Elkann, come minimo, per andare da Roma a Foggia deve passare per Sainkt Moritz? O in alternativa per Montecarlo? […]

Per di più, come se non bastasse, questi sciagurati che organizzano i viaggi di Alan Elkann, scrittore di corte e di cortigiani, figlio di banchieri e padre di editori, sempre a suo agio nei salotti chic e nelle terrazze alla moda, oltre a fargli sfiorare Benevento e Caserta a sua insaputa, anziché prenotargli una limousine con chaffeur o, meglio ancora, un elicottero personale, l’hanno messo su un treno. Un treno capite? Certo prima classe, ci mancherebbe. Ma non un treno tutto per lui, come pure richiederebbero blasone e lignaggio. Macché: un treno con altre persone. E alcuni di queste persone, figuratevi un po’, persino ragazzi di 16-17 anni […]

Tutto ciò, chiaramente, appare difficilmente sopportabile: come si può tollerare di stare nei pressi di qualcuno che ha i capelli corti, lo zainetto verde e persino un iPhone per sentire musica? Questo atteggiamento si configura come una rivolta, una lotta di classe, insomma, seppur sempre in prima classe. Si aggiunga un ultimo dettaglio, che ha reso davvero drammatico il viaggio tra Roma e Foggia del principe agnellino, un particolare devastante che non poteva sfuggire alla sua sensibilità: tra quei ragazzi del treno, infatti, «nessuno portava l’orologio». Nessuno. Nemmeno un Patek Philippe da 80.000 euro, nemmeno un Rolex in oro massiccio. Niente di niente. Come poteva Elkann rimanere inerte di fronte a tanta ribalda cafonaggine?

Per questo […] il papà dell’editore ha pensato bene di scrivere sul giornale del figlio, nelle pagine della cultura, un bell’articolo di denuncia contro questi mentecatti con i berretti da baseball […] definendoli come meritano: «lanzichenecchi». «Non pensavo si potesse ancora adoperare la parola, ma mi sbagliavo», ha scritto vibrante di indignazione. […] 

Tutti ostinavano invece a parlare di come andare a «beccare» le ragazze sulla spiaggia.

Signora mia, dove andremo a finire con questa gioventù che, oltre a vivere a Caserta e perfino a Benevento a insaputa di Elkann, oltre a indossare t-shirt bianche anziché vestiti di lino blu, pensa perfino ad andare a cuccare al mare anziché arrovellarsi su Proust, dopo aver commentato l’elzeviro del Financial Times? Il povero Elkann, ovviamente, si è sentito un marziano. Così ci ha tenuto a far sapere per iscritto che, finito il viaggio, si è alzato e non ha salutato nessuno di quei «lanzichenecchi» perché «gli avevano dato fastidio».

Bisogna capirlo. Già il trauma di scoprire che esiste la Campania non è stato facile da superare, Poi pure il trauma di scoprire che i giovani non portano il Patek Philippe e bevono Coca Cola anziché champagne: insomma, che cosa si pretende da quest’uomo? Perciò riteniamo che siano stati perfidi i giornalisti della Repubblica che attraverso il loro Cdr hanno espresso «grande perplessità» per l’articolo del papà del loro editore, ricordando «la missione storica che si è data Repubblica di un giornale vicino ai diritti dei più deboli».

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 25 luglio 2023.

Non ci sono parole per denunciare il vile agguato subìto da Alain Elkann sul treno Italo Roma-Foggia. È lui stesso a narrarne le drammatiche sequenze in un “breve racconto d’estate” che […] Repubblica ha collocato in Cultura sotto lo straziante titolo “Sul treno per Foggia con i giovani ‘lanzichenecchi’”. 

L’orda barbarica che ha proditoriamente funestato il suo viaggio in prima classe era composta dal vicino, “un ragazzo di 16-17 anni, T-shirt bianca con scritta colorata, pantaloncini corti, zainetto verde e iPhone con cuffia per ascoltare musica”; e, nelle altre file, da “altri ragazzi della stessa età, vestiti più o meno allo stesso modo... Alcuni avevano in testa (anziché su un ginocchio o su un gomito, ndr) il classico cappello di tela con visiera da giocatore di baseball […]”.

Un dress code premeditato con cura dai manigoldi per molestare l’Elkann, che indossava, “malgrado il caldo, un vestito stazzonato di lino blu e una camicia leggera”. E portava una curiosa “cartella di cuoio marrone” (il cuoio di solito è viola a pois fucsia) “dalla quale ho estratto il Financial Times, New York Times e Robinson, l’inserto culturale di Repubblica” (La Stampa no: ci scrive da trent’anni, ma non la legge). 

Ma pure “il secondo volume della Recherche du temps perdu di Proust”, che “stavo finendo di leggere in francese” (anziché nella comoda traduzione in foggiano). Ma le estrazioni non sono finite: “Ho estratto anche un quaderno su cui scrivo il diario con la mia penna stilografica” (non con quella di un altro, o con un più pratico stiletto acuminato per tavolette cerate sumere).

Che faceva intanto l’orda lanzichenecca al cospetto di cotanto intellettuale in lino blu? Si raccoglieva in religioso silenzio sbirciando di straforo il Financial Times o la Recherche? Magari: “Erano totalmente indifferenti alla mia persona, come se fossi un’entità trasparente” (strano, un tipo così alla mano). 

E “parlavano ad alta voce”: non dei listini di Borsa o de l’amour de Swann, ma “di calcio” e “ragazze” da “cercare in spiaggia” o “nei night” (ma noi giureremmo che abbian detto “tabarin” e “café chantant”). Dicevano financo “parolacce” e “nessun passeggero diceva nulla”, forse per “paura di quei ragazzi tatuati”, ergo capaci di tutto. Lui, riavutosi dalla scoperta scioccante che “per andare a Foggia bisogna passare per Caserta e Benevento”, anziché da Chamonix, è sceso a Foggia. E “nessuno mi ha salutato”. Ma lui, furbo, “non li ho salutati perché mi avevano dato fastidio quei giovani ‘lanzichenecchi’ senza nome”. Tiè: così imparano.

Dall’account facebook di Giuseppe Conte il 25 luglio 2023.  

Oggi Alain Elkann ci racconta il “dramma” personale che è stato costretto ad affrontare, viaggiando sulla tratta ferroviaria Roma-Foggia. Questa sofferta testimonianza è ospitata nelle pagine di Repubblica, che un tempo avrebbe dedicato quello stesso spazio al disagio vissuto dai comuni pendolari o anche dai nostri giovani che rischiano di perdere la speranza di un futuro migliore.

Il Nostro voleva solo sfogliare in pace, senza molesti chiacchiericci, il suo Financial Times, il suo New York Times. Voleva semplicemente rimanere concentrato nella rilettura del secondo volume della "Recherche du temps perdu" (rigorosamente nell'originale francese). Era solo intento a scrivere alcune annotazioni con la sua "penna stilografica" su un quaderno estratto da una "cartella di cuoio marrone". E invece no. 

Nel suo stesso vagone viaggiavano un gruppo di ragazzi che, lungi dall'esibire - come lui un "vestito stazzonato di lino blu" e un orologio al polso - indossavano t-shirts, pantaloni corti, erano alle prese con cellulari e parlavano di cose assurde per la loro età: sport, calcio, ragazze.

Una domanda per Elkann: ma lei in che mondo vive? Ce lo chiediamo seriamente.

La vulgata corrente è che certa sinistra si sia ormai chiusa nel fortino della ztl. Ma qui siamo davvero molto oltre... Un consiglio non richiesto: la prossima volta, gentile dott. Elkann, non guardi questi ragazzi dall’alto in basso. 

Abbia la pazienza di poggiare la sua cartellina, le sue letture in lingua originale, provi ad ascoltare questi ragazzi, a scambiare con loro qualche parola. Metta da parte i suoi pregiudizi, il suo stizzito sussiego e si fermi a parlare con loro. Forse, chissà, potrà aiutarci a raccontare meglio il loro mondo, le loro paure, i loro sogni.

E mi permetta, i giovani da lei descritti non mi sembrano affatto “lanzichenecchi”. Perché loro non hanno nulla a che vedere con i mercenari al servizio di potenti e prevaricatori.

Franchement. Il grande successo dell’articolo di Elkann e un suggerimento sentimentale per l’estate. Guia Soncini su L'Inkiesta il 26 Luglio 2023

Divertente per i motivi non colti dagli spiritosoni dell’Internet, il racconto del padre dell’editore di Repubblica ha fatto indignare molti, ma è stato letto da tanti (finanche dai sindacalisti interni che non hanno mai letto, sul loro giornale, Citati)

Ossigenarsi a Vieste è stato il primo errore, si potrebbe dire, se i lettori di questo secolo non considerassero troppo raffinato persino un riferimento a Proust, figuriamoci la parafrasi d’una canzone scritta da Alberto Arbasino per Laura Betti (vi ho dato abbastanza elementi per andare su Google: siatemi pure grati con comodo).

A Vieste, sabato scorso, Alain Elkann in lino blu incontra Maurizio Molinari (direttore di Repubblica rispetto al dress code del quale la mia cronaca è imperdonabilmente manchevole). Elkann racconta il viaggio della speranza con cui è arrivato fin lì. Pare sia un racconto divertente: Alain Elkann è un uomo di mondo, il suo mestiere è stare in società, come conversatore è inevitabilmente più accattivante che come scrittore – ma sulle specifiche qualità di Elkann poi torniamo.

Fatto sta che Molinari fa quel che fanno i direttori di giornale in queste circostanze; dire: ma è una storia stupenda, ma scrivimi un pezzo. Intendo: quel che fanno persino quando chi racconta non è il padre dell’editore del tuo giornale. Quel che fanno d’estate, quando il costume e la società si affacciano persino su Repubblica, un giornale che di norma se non ti ammazza di noia pensa di non aver fatto il suo dovere.

Questa eccezione estiva la conoscevano, prima di lunedì, anche quelli di Repubblica, che infatti non hanno fatto un plissé quando la cronaca di viaggio di Alain Elkann è stata impaginata, e si sono indignati solo allorché Twitter li ha sfiancati di prese per il culo per un’intera giornata. Comprereste un giornale usato da gente che si spaventa per le battute di Brocco81, Brocco che comunque non saprebbe distinguere un pezzo estivo da uno solo brutto, un pezzo ironico da uno goffo, e che comunque non ti compra, e che comunque s’indigna?

Comprereste un giornale che oggi pubblicasse due pagine di controviaggio scritte dall’unico scrittore italiano disposto a prendere una seconda classe in un giorno d’estate per sedare i «Barabba, Barabba» del Twitter? Quale sarà la seconda classe più letta dell’estate 2023: quella di Alain Elkann, o quella di Paolo Di Paolo? 

D’estate Pietro Citati – uno dal quale il cdr di Repubblica non ha mai sentito di dover prendere le distanze – compilava amabili cronache stigmatizzando l’orrore dei turisti sudati che al Louvre s’illudevano di acculturarsi guardando quadri per due ore; ma il cdr di Repubblica dice che quello classista è Alain Elkann con la stilografica, e il cdr è un cdr d’onore (è una semicitazione di Shakespeare, lo specifico perché ho grandissima fiducia nel cdr d’un giornale le cui pagine culturali non sanno sistemare un errore su Proust contenuto in un loro articolo).

Non vorrei che ci fosse, tra voi, qualcuno che lunedì ha contribuito al prodotto interno lordo invece che allo spirito di patata dell’internet, e che quindi non sa di cos’io stia parlando. Procedo quindi a riassumere i fatti.

Lo scorso weekend, Alain Elkann prende un treno per Foggia. Va, appunto, a un festival a Vieste, e come tutti i festival questi derelitti gli avranno fatto un biglietto di business, che agli italiani piace illudersi sia una prima classe. Agli italiani che non si sono mai pagati (o cui nessuno ha mai offerto) un biglietto in executive, dove ci sono otto poltrone e non senti quel che dice il vicino. Le cose non sono conseguenza dei nomi, e la business pure se la chiami così è una seconda classe, ma già per farti fare quella devi discutere, ché i festival fosse per loro ti farebbero viaggiare in terza.

Quindi Alain, che non si capisce cosa sia il padre degli eredi Agnelli a fare se non ha neppure uno straccio di aereo privato che lo porti a Foggia, prende questa seconda classe ripetendo a sé stesso che è la prima (perché così gli ha scritto l’organizzazione del festival nella mail di prenotazione), e si chiede che prime classi siano mai queste in cui ti tocca avere a che fare con esseri umani ravvicinati («lanzichenecchi», li chiama, nell’unico passaggio immaginifico della sua cronaca, seppur derivativo dei «barbari» di Baricco).

Arriva a Vieste, racconta questa storia; Molinari gli commissiona un pezzo, e lui scrive un raccontino pieno di errori che il desk della cultura non gli sistema (è più rassicurante pensare che il desk della cultura di Repubblica non sappia a che punto della “Recherche” si colloca “Sodoma e Gomorra”, e non sia quindi in grado di correggerlo, o che scelga di non correggerlo per boicottare schienadritticamente il raccontino brutto del papà dell’editore?).

Tra lunedì e martedì, mentre chiunque disponesse di un accesso a internet faceva la sua brava battuta su Alain Elkann e i lanzichenecchi, io pensavo a due cose. A un articolo del 2014 e a un libro del 2018 (articoli, libri, e altri riferimenti imperdonabilmente tromboni che hanno quelli della generazione mia e di quella di Elkann).

L’articolo lo scrisse, nel luglio del 2014, Concita De Gregorio. Era un articolo sulla semifinale dei mondiali, e – forse perché luglio è il mese in cui gli scrittori sanno di dover fornire foraggio allo spirito di patata dell’internet – Concita aveva trattato la sconfitta del Brasile con lo stesso pathos con cui aveva affrontato il G8 di Genova.

Per me quell’articolo era un oggetto misterioso – parlava d’una partita di pallone, se mi assegnassero un articolo su una partita di pallone io scriverei «hanno vinto quelli, hanno perso quegli altri», e lascerei le altre novantotto righe vuote – ma una cosa era chiarissima da subito.

Alla terza ora – figuriamoci alla terza settimana – in cui il passatempo preferito dell’internet era prendere per il culo come Concita avesse descritto la vittoria della Germania, in quel modo lirico che è la sua cifra e il suo successo, la sinistra che dev’essere un campo coltivato a maggese e il dramma dei calciatori brasiliani umiliati, alla terza ora di ossessività parodistica era evidente che Concita aveva vinto. Che cos’altro mai sancisce il successo d’un articolo se non il suo essere il talk of the town?

Quello di Elkann è forse l’articolo di maggior successo della storia di Repubblica. E, prima che lo spirito di patate dell’internet ce ne fornisse un milione di parodie, la lettera di rimostranze travestita da raccontino estivo faceva autenticamente ridere, anche se non per le ragioni individuate dai comici dilettanti che affliggono questo nostro secolo (e che come forma di welfare abbiamo in parte fatto diventare professionisti: siamo un secolo che ti permette di trasformare l’essere un battutista scarso in reddito, forse i saggi sulla fine del lavoro dovrebbero partire da qui).

Non faceva ridere perché Elkann precisava d’essersi portato Proust in francese: Elkann è figlio d’un banchiere parigino, quanto bisogna essere complessati per pensare che legga in francese per ostentazione?

Non faceva ridere perché Elkann sbagliava la collocazione di “Sodoma e Gomorra” all’interno della “Recherche”: perché un errore faccia ridere l’informazione giusta dev’essere nota al pubblico, e Proust in Italia non l’hanno letto neanche quelli che fanno le pagine culturali di Repubblica. Non c’è, mi gioco tutti gli organi sani che non ho su questa certezza, un battutista che abbia precisato che quello che Elkann definiva «secondo capitolo» era in realtà il quarto volume che non sia prima andato a controllare la voce Wikipedia di Proust. Le battute su Elkann e Proust sono come le battute sui quiz di cultura generale ai politici fatte da gente che sa le risposte solo perché sono in sovrimpressione.

Non faceva ridere perché Elkann diceva che i giovani parlavano d’andare al night (un errore di registro lessicale non favorisce mai il comico, anzi), mentre faceva abbastanza ridere quando trasecolava alla scoperta che, per andare da Roma alla Puglia, il treno passasse da Benevento, dove gente anche assai meno ricca di Elkann non s’è mai ossigenata.

Soprattutto, faceva ridere perché, per quanto mal scritto e bisognoso di editing e d’un qualche crescendo, esso faceva sperare che Repubblica avesse finalmente capito cosa fare delle proprie pagine culturali e inaugurasse una serie (avevo sperato nel titolo Radical Cheap) che durasse tutto agosto: Elkann sul vaporetto dalla stazione di Venezia al Lido; Elkann sulla spiaggia libera in riviera romagnola; Elkann su un Ryanair per Sharm (Ryanair ha avuto la mia stessa idea, e ieri ha fatto un post con foto d’un suo infernale aereo con bambini che lanciavano giocattoli e patatine: «Alain Elkann ti aspettiamo a bordo»).

Non vi sarete già dimenticati del libro del 2018. È una biografia di LouLou de La Falaise scritta attraverso le voci di chi l’ha conosciuta. LouLou de La Falaise è stata una donna bellissima, un personaggio pazzesco, una musa di Yves Saint-Laurent e molte altre cose che ora non posso mettermi a spiegarvi io compensando in tre righe un’intera vita in cui non avete studiato.

Tra coloro che parlano nel libro c’è gente della moda che pure appartiene alle vostre lacune, tra cui André Leon Talley e Katell le Bourhis. Non importa che sappiate chi sono, importa solo che sappiate che a un certo punto della ricostruzione della vita di LouLou si arriva al punto in cui si sposa.

Dice Talley che, dopo il matrimonio, non era stata molto infedele, tranne che per la tresca con Alain, quella era una cosa seria, e una volta lui gliene aveva parlato, e lei si era sentita giudicata e l’aveva accusato d’essere piccoloborghese.

E a quel punto c’è un rigo di virgolettato della le Bourhis, per avere un’idea del cui registro dovete sapere che il libro è stato scritto in inglese, e quindi io vi tradurrò dall’inglese in italiano tutto tranne l’ultima parola, che il libro tiene in francese e che anch’io lascerò nell’indispensabile francese: «Ma chi è che non è andata a letto con Alain Elkann? Franchement».

Ecco, se proprio non possiamo avere Radical Cheap, l’estate di Alain in giro per seconde classi che gli sono state spacciate per prime, non potremmo almeno avere, come rubrica fissa sulle pagine culturali, “Franchement”, l’autobiografia sentimentale di Alain? Magari è la volta che vendete qualche copia.

"Viva Elkann, abbasso la Murgia! Vi spiego il perché". Il post di Fulvio Abbate. Lo scrittore siciliano prende le difese del giornalista che aveva parlato di "lanzichenecchi" a proposito di alcuni ragazzi incontrati sul treno. Lorenzo Grossi il 25 Luglio 2023 su Il Giornale.

Ha fatto particolarmente discutere l’articolo pubblicato nella giornata di ieri su Repubblica a firma di Alain Elkann. Il giornalista e scrittore, padre di John, ha voluto descrivere un suo viaggio in treno da Roma a Foggia in compagnia di giovani ragazzi, definiti lanzichenecchi dall'ex conduttore televisivo, che erano intenti a parlare di vacanze, donne e calcio mentre lui era concentrato a leggere La Recherche di Marcel Proust. Il comitato di redazione del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari aveva immediatamente preso le distanze dal racconto del reportage in quanto distante da un giornale che s’identifica "vicino ai diritti dei più deboli", e che quindi si dissocia "dai contenuti classisti contenuti nello scritto".

Il tweet di Abbate su Elkann

Inevitabili sono state le reazioni sui social network, che non hanno mancato di sbizzarrirsi davanti all'articolo vergato da Elkann padre, nonché di criticare profondamente il senso del suo messaggio messo nero su bianco nelle pagine di Repubblica. Tuttavia, nel panorama vasto di Twitter, esiste una mosca bianca che ha voluto prendere strenuamente le difese dell'autore dell'articolo: Fulvio Abbate. Lo scrittore siciliano ha pubblicato sul proprio profilo un vecchio selfie fatto con lo stesso Alain Elkann, a cui ha voluto dedicare il seguente post: "Lo struggente spaesamento esistenziale di Alain Elkann scambiato per classismo, il convento pervasivo catto-femminista della Murgia invece osannato. Viva Proust! Viva Elkann. Viva il lusso. Contro ogni retorica".

Il confronto con Michela Murgia

Abbate ha così voluto contrapporre il racconto di Michela Murgia del suo matrimonio queer: "Un contratto in articulo mortis” (in punto di morte) che era stato definito dalla stessa scrittrice come un atto politico. Una celebrazione andata in scena lo scorso 22 luglio che si era manifestata anche nella scelta degli abiti che ha disegnato Maria Grazia Chiuri, direttrice creativa di Dior, per festeggiare il "non-matrimonio". Con quel suo tweet Fulvio Abbate ha quindi, da un lato, voluto difendere un suo amico di vecchia data, confutando l'accusa di classismo mossa al genero dell'avvocato Giovanni Agnelli e puntando tutto invece più sulla difficoltà espressa da uomo con uno stile ancora "all'antica" a vivere nel mondo contemporaneo. Dall'altro, ha desiderato svelare l'ipocrisia e il doppiopesismo di una certa sinistra di magnificare un rito che riguarda una cerchia ristrettissima di persone e che pochissime altre avrebbero la possibilità di organizzarlo per loro stessi. Il tutto consumando appena trenta parole scarse sui suoi social.

Dagospia giovedì 27 luglio 2023. Da rockol.it - articolo del 10 marzo 1999 

Scrive "La Repubblica": «Un invito alla riconciliazione tra Al Bano e Romina Power arriva da "Famiglia cristiana". La rivista si augura che avvenga un ripensamento: "Al Bano e Romina si sono, per ora, dichiarati vinti. Speriamo non per sempre. Dalle crisi l'amore può uscire più forte".

E sul sito "Italy global nation" (adnkronos.com) un servizio con foto, illustrerebbe come alla Power sarebbe vicino Alain Elkann, ex marito di Margherita Agnelli e padre di Jaki». Intervistato dal "Messaggero", Elkann nega tutto e parla di una grande amicizia, prima di dichiarare che «Quanto accade nella mia vita privata sono solo fatti miei».

Dagospia giovedì 27 luglio 2023. Riceviamo e pubblichiamo: 

Caro Dago,

scrivo per fatto personale, perché mi è capitato in sorte di valutare scritto e orale di Alain Elkann all'esame di stato da giornalista professionista, nei lontani anni Novanta. A sentire l'assalto e il dileggio di queste ore contro di lui mi sono chiesto se porto una qualche responsabilità per tale sua carriera presunta indegna, come pensatore e come prosatore, peraltro affermata ben prima delle fortune dei suoi figli. 

La commissione lo promosse, e facemmo bene. Scrivere significa compromettersi e Alain Elkann sul treno per Foggia ha scritto ciò che hanno visto i suoi occhi e ciò che ha sentito il suo animo. Non da cronista ma da scrittore, dove anche il candore del periodare è chiave stilistica, strumento di ironia.

La rivolta verbale contro il suo racconto estivo breve è quanto di più classista al contrario possa produrre il dibattito pubblico nell'era dei social e della comunicazione orizzontale dove tutti sono maestri vendicatori della propria psiche deficitaria, anche chi "non lo conosco, l'ho incontrato un giorno in farmacia...", e dove tutti sono custodi della morale, in testa il sindacato del giornale-che-sta-con-i-bisognosi (sic).

Più che la critica letteraria, o Kant, o la lotta di classe, o i poteri del direttore, l'ermeneutica necessaria a sgonfiare questo dibattito sul nulla in viaggio canicolare per Foggia, credo sia l'approccio casalinga di Voghera: dica il candidato quante volte ha represso (o anche no) un moto di ribellione per la maleducazione in carrozza. Poi ciascuno lo testimonia a modo suo, con buona pace della cancel culture, quella specie di candelotto lacrimogeno che va bene per tutto ciò che non condividiamo. Marco Giudici

Estratto dell’articolo di Nanni Delbecchi per il “Fatto quotidiano” venerdì 28 luglio 2023. 

Probabilmente Alain Elkann si considera uno scrittore, e chi siamo noi per mettere in dubbio tale convinzione? Ma proprio perciò, letto su Repubblica il suo pezzo “Sul treno per Foggia con i giovani lanzichenecchi”, la memoria è corsa al rapporto intercorso tra gli scrittori e la stampa nel secolo scorso; alla loro capacità di provocare il potere, leggere la società, interpretare le generazioni. L’esempio obbligato è “la mutazione antropologica” di Pasolini, ma si potrebbero citare in proposito Moravia, Morante (la fulminante attualità della raccolta Pro e contro la bomba atomica), Ginzburg, Calvino (consiglio di lettura per il centenario: Calvino fa la conchiglia di Andrea Scarpa)...

[…] del celebre pezzo non colpisce tanto l’inconsapevole autoparodia dell’intellettuale radical-chic che legge La Recherche in francese, la compulsa con la stilografica e abbina lino blu, camicia bianca e borsa di cuoio, armocromista di se stesso. […] fa specie che non sia stato lui a incuriosirsi, a capire chi fossero quei ragazzi, a capire perché gli sembravano provenire da un altro pianeta. 

Invece, l’unico interrogativo riguarda Caserta: “Non credevo che per andare a Foggia si dovesse passare da Caserta”. Ma pensa te. Una volta chiesero a Elsa Morante una definizione di scrittore: “Un uomo a cui sta a cuore tutto quanto accade, meno la letteratura”. Ne deduciamo che Le Elkann la pensi esattamente al contrario, e dunque anche lui e il suo giornale siano il frutto di una mutazione, di questi tristi tempi lanzichenecchi.

Vittorio Feltri: "L'errore di Alain Elkann? Confrontarsi coi buzzurri". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 28 luglio 2023

Anche io come tanti ho trovato inopportuno il pezzo pubblicato da la Repubblica firmato da Alain Elkann nel quale lo scrittore descriveva con disgusto la sua esperienza: un viaggio in treno verso Foggia in un vagone dove un gruppo di giovinastri vestiti come zingari si è esibito con un eloquio da buzzurri in discorsi volgari. Infatti l’articolo dava l’impressione di sottolineare l’eleganza dell’autore al confronto con la sciatteria dei suoi compagni di trasferta. Gente volgare priva della più elementare educazione. Debbo sottolineare un particolare: un signore che sia veramente tale per dimostrare la sua superiorità anche estetica non dovrebbe mai misurarsi con i plebei che gli siedono accanto. Sottolineare la propria raffinatezza e superiorità culturale per dimostrare la cafoneria altrui è una volgarità che non si addice a una persona chic. La mia critica ad Alain segnala solo una mancanza di stile che un uomo raffinato non dovrebbe mai rivelare. Tutto qui.

Però, nella sostanza, le critiche che lui ha rivolto al gruppo di cafoni con cui è stato costretto a convivere per un tratto di ferrovia non fanno una grinza. Le condivido tutte in pieno, eppure non c’è bisogno di recarsi a Foggia in treno per constatare che l’umanità in genere fa schifo, in particolare i giovani sono villani insopportabili e incapaci di esprimere un concetto qualsiasi se non usando un linguaggio pecoreccio (con tutto il rispetto dovuto alle greggi). 

Io da anni vivo a Milano e mi capita spesso la sera di prendere l’aperitivo al Bar Brera, zona centrale molto affollata di gente di ogni colore. Ebbene, seduto al mio tavolino non posso non osservare gli avventori del locale e i passanti. Lo spettacolo che si offre ai miei occhi è deprimente. La maggioranza degli uomini, non solo giovani, deambula sfoggiando pantaloni corti disgustosi, molti hanno ai piedi delle ciabatte che sfoggiano con piacere. Raramente vedo sfilare un signore in giacca e cravatta, i più eleganti, direi passabili, sono gli anziani d’ambo i sessi.

Le persone più sfacciate di norma sono le ragazze smaniose di esibire il culo come fosse un trofeo. Non ho niente contro i glutei femminili, per carità, però non sarebbe il caso di sbattermeli in faccia.

Mi capita sovente di ascoltare i discorsi che si levano dai tavolini del locale accanto al mio, e c’è solo da rabbrividire. Il lessico più diffuso è infarcito di frasi oscene pronunciate con una disinvoltura sorprendente. Ovviamente non oso commentare ad alta voce, mi devo mordere la lingua. Qualcuno osserverà che i tempi sono cambiati, ma temo che a non cambiare mai sia la maleducazione diffusa. In parte quindi solidarizzo con Alain. 

COMUNICATO SINDACALE Da “la Repubblica” venerdì 28 luglio 2023. 

L'assemblea delle giornaliste e dei giornalisti di Repubblica prende distanze dai contenuti inopportuni nei toni e nel merito - e che gravi danni di reputazione hanno causato alla nostra testata - pubblicati nell'edizione di lunedì a firma di Alain Elkann, padre del nostro editore. 

Già questo particolare rappresenta di per sé una commistione editoriale, ma anche le argomentazioni riportate non rispecchiano in alcun modo la sensibilità di chi questo giornale lo fa uscire tutti i giorni. Lunedì con nostra sorpresa la direzione aveva rifiutato la pubblicazione di una nota del Cdr al riguardo sul quotidiano, seppur dicendo di condividere il nostro stato d'animo.

Ma insistiamo nel voler mettere nero su bianco, questa volta ai sensi dell'articolo 34 del contratto nazionale di lavoro, la nostra piena dissociazione rivolgendoci direttamente alle lettrici e ai lettori di Repubblica, come noi siamo rimasti in grandissima parte esterrefatti da quanto hanno letto. 

Anche perché il nuovo piano editoriale votato da questa assemblea nei mesi scorsi, frutto del lavoro congiunto tra Cdr e direzione, contempla una linea coerente con i valori fondativi di Repubblica, che qui ricordiamo: «un massimo d'impegno civile» e «un massimo di professionalità e di indipendenza».

L'assemblea pretende inoltre un pieno ripristino delle relazioni sindacali con la direzione del quotidiano né è disposta a tollerare nuove mancanze di rispetto nei confronti della propria rappresentanza democraticamente eletta. 

Chiediamo che la direzione di Repubblica, e di sfondo l'azienda, percorrano una strada che rispecchi il comune sentire della gran parte delle giornaliste e dei giornalisti. E delle lettrici e dei lettori. Ribadiamo quindi che un prodotto collettivo qual è un giornale, per di più con la storia e l'identità di Repubblica, non ha alcun futuro senza l'apporto anche critico di tutta la redazione, e questo non solo per quanto riguarda gli argomenti di natura strettamente sindacale. 

L'articolo dello scrittore. Alain Elkann, i ‘lanzichenecchi’ e il merito di aver riaperto la discussione letteraria. Con la testimonianza del viaggio verso Foggia, ha imposto a tutti una domanda romanzesca: possiamo raccontare il mondo in tutta sincerità? Fulvio Abbate su L'Unità il 28 Luglio 2023 

Allo scrittore Alain Elkann dobbiamo uno “scandaloso” articolo apparso nei giorni scorsi su “la Repubblica”. Il racconto del proprio smarrimento durante un viaggio in treno verso Foggia, addirittura il fastidio risentito davanti a un ordinario genere umano ferroviario ai suoi occhi insignificante, se non decisamente volgare; “lanzichenecchi”, li ha definiti con lessico da sussidiario di storia delle elementari.

Così scrivendo Elkann è tuttavia altrettanto riuscito, forse inconsapevolmente (raccogliendo anche un cesto di insulti) a realizzare un’occasione dialettica unica: riaprire il dibattito letterario da tempi immemorabili assente, almeno nel nostro Paese. Imponendo a tutti, scrittori e semplici lettori, una domanda capitale propria della professione romanzesca: possiamo raccontare il mondo in tutta sincerità? Irrilevante che ad alcuni, me compreso, la scrittura sia apparsa, sempre letterariamente, stentata, mentre altri hanno ravvisato invece una cifra inaccettabilmente “classista”, ancor di più se ospitata da un giornale storicamente prossimo a un pubblico “progressista”.

Il racconto, personale testimonianza, espressione della propria individualità, ha avuto così il merito quasi magico di rendere insignificanti decenni di elzeviri, corsivi, note, discussioni, simposi, incontri letterari e perfino rassegne radiofoniche (si pensi a “Fahrenheit”, su Radiotre) sul tema romanzesco, surclassando ogni indicazione probante che possa giungere dai critici e conversatori del mestiere. Anche il fantasma del Salone del Libro di Torino, l’indistinto della folla che sciama tra gli stand, la cultura come gadget di consumo, il Lingotto trasfigurato nel set di “Play Time” di Jacques Tati, è stato incredibilmente obliterato dalle sue parole, sebbene occasionali.

Comprensibile che a molti siano apparse sgradevoli, caricate da ostentato snobismo. Ai miei occhi segnate semmai da smarrimento, se non candore, perfino umana ingenuità. Elkann, insomma, con un racconto veloce ha reso possibile ciò che nel mondo della letteratura non accadeva forse da esattamente sessant’anni fa, quando a Palermo un nucleo di allora giovani scrittori e critici della neoavanguardia dette vita al Gruppo 63, mettendo in discussione la sostanza stessa della narrazione. Un dibattito letterario imprevisto, e solo per suo merito, poco importa se involontario.

Cui nulla ha aggiunto l’articolo “riparatorio” dello scrittore Paolo Di Paolo, apparso giorni dopo sulle stesse pagine, ambientato sul medesimo treno già frequentato dall’imperdonabile Alain, che addirittura citava Proust come amuleto, segno distintivo della propria classe ed eleganza, seppure “di lino stazzonato”. Bene, di fronte a una querelle andata assai oltre i confini ristretti della discussione letteraria (si è addirittura aggiunto il malumore, sempre rispetto al lessico di Elkann, manifestato dal comitato di redazione de “la Repubblica”) ho sentito personalmente la necessità di chiamare l’amico Enrico Vanzina per suggerirgli di realizzare un film, assolutamente vanziniano, che abbia come titolo “Vacanze a Combray”, il luogo, si sappia, dove il giovane Proust trascorreva le vacanze, dominio ideale della sua “Recherche”.

Spero di averlo convinto a impegnarsi presto a stendere un abbozzo di soggetto, cui conto di partecipare in prima persona, in attesa della decisiva sceneggiatura. Detto questo, auspico, che dalla prossima domenica il giornale fondato da Eugenio Scalfari ci faccia dono puntualmente di nuovi racconti sempre di Elkann; che mostrino ancora il mondo senza sconti, con la sincerità perfino oscena che la letteratura necessita, anzi, pretende per restituire la verità delle cose, posto che, come si è detto, nessuno era riuscito in egual modo a ravvivare il dibattito negli ultimi lustri; lo scrittore risponde sempre e comunque a se stesso, alla propria voce, tutto il resto è conformismo, è il nulla che si presume profondo o edificante. Avanti Alain!

Fulvio Abbate 28 Luglio 2023

Estratto dell'articolo di Marcello Veneziani per la Verità venerdì 28 luglio 2023. 

(...)

Davanti agli attacchi che subiva da giorni ho avuto l'impulso a prendere un comitato di solidarietà e sostegno al povero Alain Elkann trattato come un alieno, un radical-chic, un intellettuale con la puzza sotto il naso. Posso assicurarvi che non è niente di tutto questo, avrà pure la puzza sotto il naso, il povero Alain, ma intellettuale non è, non lo mortificate con questi appellativi ingiuriosi e impropri, sarà chic ma non è nemmeno radicale. Alain è stato un bel giovane, attraente ed elegante e ora è un bell'anziano di 73 anni, un po' insofferente verso i giovani, che compie missioni impossibili, come quella di andare addirittura in treno, nientemeno che a Foggia, con un gesto eroico di sfida nei giorni in cui c'erano 43 gradi in terra di Capitanata. 

(...)Lo considero uno sfortunato, con una vita difficile. Alain è figlio del banchiere e rabbino Jean-Paul Elkann e nipote del banchiere Ettore Ovazza (un tempo fascista, poi vittima dei nazisti). Poi diventò il marito di Margherita Agnelli. Infine è diventato il padre di John Elkann, oltre che del leggendario Lapo.

Insomma, il povero Alain non è mai stato se stesso, è sempre stato il figlio, il nipote, il cognato, il marito, il genero, il padre di qualcuno. Più che una persona è una sinapsi, una cerniera, un crocevia parentale, un favoloso inseminatore che ha dato un futuro alla sfortunata dinastia degli Agnelli e alla Fiat, che oggi viaggia sotto falso nome e altra bandiera. 

Anche nella vita letteraria, Alain ha fatto da «spalla» ad Alberto Moravia e poi in tv a Indro Montanelli. Portatore sano di cultura e letteratura, Alain è stato un elegante indossatore di opere e talenti altrui. È stato pure il sottosegretario alla Cultura, ma il suo principale era Vittorio Sgarbi, non so se mi spiego. Un martire. Cosa gli rinfacciate, che male ha fatto in vita sua?

Innocente, innocuo, lieve e discreto, con una sua altera gentilezza. Non è mai stato egocentrico ma centrifugo. Sì, gli hanno dato presidenze e incarichi, soprattutto non operativi, però lui ha sempre tenuto un profilo non alto né basso, ma evanescente. Ha scritto decine di libri, romanzi, interviste e altro, ma non ha mai fatto nulla per lasciare una traccia o lanciare un'idea. Che discrezione. Ha vissuto all'ombra del suo bel nome, della sua bella figura, dei suoi bei vestiti, del suo bel parentado, senza mai prendersi la scena.

Ora lo avete linciato perché ha osato dire che in treno qualcuno gli ha dato fastidio, parlando ad alta voce (nei vagoni c'è pure l'area silenzio; la prossima volta, se mai volessi sottoporti a un'altra tortura ferroviaria, prenota quei posti). 

Alain si è lamentato perché non lo hanno riconosciuto, ma forse è stato meglio per lui.

Resta un mistero il suo viaggio a Foggia, è come se - che così - avvistassero Bill Gates da Padre Pio o Chiara Ferragni a Medjugorje. Così come non capisco perché definire lanzichenecchi quei giovanotti che viaggiavano in prima classe (ma non si chiama più così, col nuovo lessico ipocrita). I lanzichenecchi erano soldati tedeschi, calati dal nord Europa a Roma per fare il famoso sacco. 

Questi invece erano italiani, forse settentrionali e andavano a sud, dove i guaglioni sgarbati venivano chiamati vastasi o bastasi (in Sicilia), ribusciati e nel napoletano guappi; se viaggiano in prima classe sono sgalliffi o chiavici. Ma poi cos'hanno fatto di male? Non l'hanno insultato, non l'hanno menato, niente rutti, abusi o sconcezze. 

Per andare da Roma a Foggia, e qui capisco lo sgomento di Alain, non si passa dalla Costa Azzurra ma addirittura da Caserta e Benevento. Ma non sono cannibali, anche se non leggono il Financial Times. 

Immagino con quale sgomento abbia letto l'articolo di Elkann il massimo esperto e utente della linea Roma-Foggia. È il mio amico Francesco Martucci, devoto a Padre Pio, e purtroppo un po' anche a Mario Merola; lui è nato nientemeno a Caserta, lavora tra Foggia e Napoli, ha famiglia nella Puglia più profonda, e dunque batte tutto il Sud. Non c'è volta che mi chiami al telefono e non si sente in sottofondo: «È in arrivo sul secondo binario locale per Foggia». Martucci ha cittadinanza ferroviaria, vive e risiede sul treno, da pendolare, recita a memoria l'orario ferroviario, è sommelier di carrozze; e appena ha un giorno libero, si mette sul treno per i suoi pellegrinaggi.

Francesco avrebbe difeso il povero Alain dalla masnada dei «lanzichenecchi», perché è sudista, è buono di cuore, e ama leggere più di lui, anche se viaggia in terza classe; pure quella non c'è più, ma lui mentalmente è ancora lì, è un classista a rovescio di Alain, salta sul treno più disagiato per gustare la lentezza bollente di quei vagoni scassati. Insomma, non disturbate il povero Elkann, lasciategli leggere l'opera di Proust che probabilmente avrà cominciato in adolescenza e non ha ancora finito.

Elogio del lanzichenecco, l'ultimo degli umani felici. Jean Giono in "Il disastro di Pavia" racconta un'epoca feroce ma vibrante di emozioni. Matteo Sacchi il 29 Luglio 2023 su Il Giornale.

Finì come doveva finire. Con tanti, che si sognavano Lancillotto, impallinati senza speranza dagli archibugi a forcella. A Pavia, il 24 febbraio 1525, i più bei nomi della nobiltà di Francia, personaggi di un coraggio squisito e raro, adusi a uccidere da signori, finirono per diventare concime. Ecco, elenchiamone alcuni, perché non si entra a una grande festa, quale per loro era la battaglia, senza essere annunciati, men che meno se ne esce (da eroi morti): Francesco di Lorena, Jacques de La Palice, Louis de la Trémoille, Guillaume Gouffier de Bonnivet, Renato di Savoia-Villars, Pietro II di Rohan Gié, Thomas de Foix-Lescun morto qualche giorno dopo per le ferite... E potremmo andare avanti a lungo nell'elencare tutti quelli che è stato necessario ammazzare per consentire a Carlo V, imperatore borghese che andava per campi di battaglia in portantina, di farsi consegnare un Francesco I, pestato a dovere e salvo a stento dal campo di battaglia. Un re galante e frivolo, cavalleresco sino alle midolla, prigioniero di un imperatore aduso a fare bene i conti quasi come un mercante. Ma se ci sono un vincitore e un vinto, tra i grandi impresari dello spettacolo cruento di Pavia, va detto che entrambe le compagnie di giro, quella francese e quella spagnola, sono state organizzate allo stesso modo. Raccattando la più bizzarra mescolanza di nobili e di mercenari, di cavalieri in armatura e di straccioni con le picche, di fanti svizzeri e di colorati lanzichenecchi. Alla fine Francesco I ha scelto solo la prima donna sbagliata, quel Guillame Gouffier de Bonnivet a cui non si potrà rimproverare niente. Pessimo comandante, bravissimo a morire sul campo con stile.

Sin qui la Storia, quella arrivata a posteriori, a mettere ordine nella grande gazzarra nota come guerre d'Italia, al cui centro campeggia, per enormità di risultati e di strage, la Battaglia di Pavia. Poi c'è Jean Giono, che nel 1963 pubblica per l'editore Gallimard Il disastro di Pavia ora nelle librerie italiane per i tipi di Edizioni Settecolori (pagg. 382, euro 25, con una prefazione di Giuseppe Scaraffia e una postfazione di Franco Cardini). Giono (1895 - 1970) riesce in questo saggio, letterario come un romanzo e enciclopedicamente colto, a guardare il caos della battaglia per catturare qualcosa che, raramente, si fa incatenare sulla carta: lo spirito dei tempi e i desideri degli uomini. Lo fa inseguendo fili sottili, microstorie, che gli storici professionisti hanno iniziato a guardare in questo modo molto dopo, e non sempre con la genialità del grande letterato.

Giono, che era così pacifista da essere stato scambiato per filotedesco, prima e dopo la Seconda guerra mondiale, che aveva provato tutto l'orrore delle tempeste d'acciaio della Grande guerra, riesce a fare, e a far fare al lettore, un salto nella mente dei convenuti, volontari, alla grande strage attorno a Pavia. Coglie il lato folle, spontaneo e ludico di molti dei nobili e dei mercenari che decisero di giocarsi la vita con la stessa tranquillità con cui, oggi, si decide di guidare un'automobile. C'è calcolo in Carlo V? Sì, ma con senso di colpa. C'è calcolo in Francesco I, sì ma rallentato dal desiderio di essere sempre e comunque «il più bello». Nel XVI secolo la patria non esiste, ma di sicuro esiste l'onore ed esiste lo sport: «È qualcosa di romanzesco: è la caccia, il torneo, la guerra; l'Orlando furioso è un manuale di sport». Così arriva sul campo la nobiltà francese. Così ci arriva la nobiltà spagnola, del resto tra i comandanti di Carlo V c'è anche un potente feudatario francese, Carlo di Borbone-Montpensier. Vincerà a Pavia non sentendosi affatto francese ma soltanto un uomo che è stato trattato male da Francesco I e, quindi, in pieno diritto di dare una sistemata alle cose. Morirà all'assedio di Roma, dove poi i lanzichenecchi metteranno al sacco la città, nel 1527. Ma questo è solo uno delle decine di esempi di come nobili e villani si gettino nel crogiolo della guerra come una questione privata. Spiega Giono: «E se tutti vanno a battersi in Italia... noi non possiamo immaginare che tutti siano dei frivoli o degli stupidi, soprattutto stupidi fino a questo punto. Il fatto è che nel momento in cui fanno quello che fanno è più importante per loro di quello che a noi sembra importante per i quattrocento anni a seguire». Lo Stato non esiste ancora: esistono, ma spariranno presto, gli uomini. Magari con un senso dell'esistere completamente belluino ma per certi versi ancora profondamente umano: «Non sacrificano mai la vita per delle idee; per loro non è difficile morire perché muoiono per dei motivi che non riguardano che loro stessi».

Vale anche per i piani bassi della strage, per il lanzichenecco vestito a vivaci colori che ha sostituito la fame con la guerra? Questa ideologia del coraggio, alla fine, contagia tutti. I mercenari cambiano continuamente campo, mugugnano, chiedono più soldi, mercanteggiano. Dicono che se non succede questo o quello non combatteranno un giorno di più. Ma è un modo di contare, di essere sé stessi, fossero rimasti nei campi non se lo sarebbero potuti permettere. «Non hanno problemi di coscienza: già da tempo la miseria gli ha trasmesso la certezza della loro esistenza». E per ribadirla, questa esistenza, vanno dritti verso la fucileria nemica e muoiono. Ma vivi e spacconi. Si può essere spacconi alla borgognona, alla spagnola, alla tedesca, ma poco cambia. «Tutti sembrano far parte di un club più che di un esercito». E infatti questi eserciti si comandavano molto poco. Passando attraverso la galleria di ritratti del libro, dal nobile al mercenario straccione - i nobili son di più ma solo per questione di fonti - si ha l'impressione di passare davanti ad una galleria di mostri. Mostri per cui il pacifista Giono non ha alcuna fascinazione malata, sia chiaro, e di cui non nasconde alcuna bassezza gratuita o fragilità.

E però Giono usa i fantasmi di questi uomini, per costruire uno specchio. In cui guardare la follia delle nostre distrazioni, non necessariamente più innocenti delle loro.

«Il cinema (e intendo come cinema ogni fabbrica di illusioni) ci consente di compiere i nostri crimini senza fatica, senza pericolo, in poltrona. Il grande affare dei tempi moderni finisce per essere la poltrona nella quale si può fare di tutto: arrivare in una poltrona, essere un cowboy in una poltrona, essere il più forte in una poltrona... Ne consegue un incremento di divertimento immobile e una paura che diventa man mano panico».

La gente di Pavia avrebbe detestato la poltrona, financo quella mobile di un treno di prima classe. «Preferivano essere di persona sulla scena, sullo schermo. Questa voglia di morte era un'arte di vivere: prendevano la vita nera e senza zucchero, come il caffè quando se ne ama molto il sapore».

Giono, il pacifista, guardando attraverso il fumo della battaglia ci regala degli esseri umani che pian piano smettono di sembrare folli. I principi e i lanzichenecchi, pur nella grande distanza tra di loro, ci appaiono fratelli nel tentativo di essere, per un attimo e a caro prezzo, se stessi, a rischio di un gioco mortale. Oggi forse ci viene meno bene: ben vestiti o mal vestiti siamo seduti su un treno che ci porta dove vuole. Su questo treno nessun lanzichenecco salirebbe mai.

Tina A. Commotrix per Dagospia lunedì 31 luglio 2023.

Caro Dago,

infastidito dai giovani lanzichenecchi che occupavano la carrozza nel “suo” treno in viaggio verso Foggia, Alain Elkann si è sorpreso che facesse tappa a Benevento. Città a lui forse ignota, ma non al mondo delle lettere a cui lui ambisce concorrere. 

Infatti, è il luogo d'origine - grazie al liquore lì prodotto -, dell’ambito Premio letterario “Strega”. Da non confondere con l’estratto di anice che porta il nome anche del suo “nuovo” direttore, Molinari, che da questa storiaccia ne esce con le ossa rotte in redazione (e fuori i suoi recinti). 

Eppure il suo journal di viaggio pubblicato a sorpresa sulle pagine culturali di “Repubblica” - e chissà? forse rifiutato dalla “Stampa” di cui Elkann è collaboratore storico e il figlio primogenito John proprietario di entrambe le testate -, forse era una occasione unica per lui di generare della “vera” letteratura. 

Non il raccontino snobbish (e ridicolo) che abbiamo letto sui giovani selvaggi in carrozza che, tapini, ignorano il passeggero con la puzza sotto il naso. All’intellettuale (dei miei stivali) però, - forse assorbito dalla lettura soporifera di Proust – nemmeno è sorto il dubbio (ahimè atroce) che tra quei “nouveaux lansquenets” avrebbe ben figurato in passato anche il suo secondogenito, Lapo, i cui comportamenti in gioventù (bruciata) non erano certo degni (o consoni) della casata torinese.

Ecco, allora, il peccato originale della sua articolessa sbeffeggiata sui social (e risparmiata dai media tradizionali pavidi). Se Elkann avesse prestato orecchio alle parole del filosofo Tzvetan Todorov - invece di ostentare il “New York Times” (Umberto Eco viaggiava con la “Settimana Enigmistica” sotto il braccio) - forse poteva salvarsi l’anima e la reputazione. 

Per Todorov, infatti: “L’intellettuale non deve limitarsi a creare opere d'arte e allo sviluppo del bello” - ma non è il caso di Alain Elkann -, “deve essere bensì toccato dai valori della società in cui vive e che partecipa quindi al dibattito”. 

Il nostro Bel Ami avrebbe dovuto attingere anche alla “concupiscenza” del saggista e critico, Giorgio Manganelli: “La letteratura non si fa, viene trovata e scoperta in uno dei tanti viottoli del mondo, bisogna distruggere il verosimile”. Per dirla con il Socrate napoletano, Luciano De Crescenzo: “Quello che dà un po' fastidio agli intellettuali è la realtà. 

Manierismo, il “verosimile”, in cui non era scampato Alberto Moravia, lo scrittore che ha accompagnato (e protetto) l’ascesa del genero di Agnelli nella patria (o mafia) delle lettere italiche. Camarille oggi ridotte ad autoincensamenti su Instagram (o nei lupanari televisivi) vantando capolavori inesistenti. “I libri verosimili di Moravia sono tutti bruttissimi”, sentenziò il Granda Manga.

E nella sua stagione parigina, inoltre, Elkann avrebbe dovuto far tesoro dei lunghi silenzi di Italo Calvino che incontrava nei caffè della Rive Gauche nel tentativo (vano) di strappargli un’intervista o apprezzamenti lusinghieri sul suo nuovo romanzo “Piazza Carignano”. 

Alain avrebbe fatto cosa giusta a leggere i suoi racconti e i suoi saggi. A cominciare dall’“Autobiografia di uno spettatore” pubblicato per la prima volta nel 1974 a prefazione di “Fellini, quattro film” (Einaudi). 

È nelle sale cinematografiche del dopoguerra (e in avanti), i famosi “pidocchietti” romani, che Italo incontra i suoi “lanzichenecchi”. Ma senza scandalizzarsi o gridare ai barbari che assistevano agli spettacoli fumando e lanciando cartacce dalle gallerie. L’autore di ‘’Palomar’’ invece di turarsi il naso schifato come Elkann sulla tratta maledetta di Foggia, ascolta e registra gli umori di una platea “nuova e sconosciuta che – osserva – implica anche un modello diverso di comunicazione estetica”.

Per aggiungere: “occorre tener conto di questo pubblico incommensurabilmente più vasto ed eterogeneo di quello della letteratura: un pubblico di milioni in cui le benemerite migliaia di lettori di libri esistenti in Italia annegano come gocce d’acqua in mare”. 

Poi Calvino, rileva: “Cinema vuol dire sedersi in mezzo a una platea di gente che sbuffa, ansima, sghignazza, succhia caramelle, ti disturba, entra, esce, magari legge le didascalie forte come al tempo del muto; il cinema è questa gente, più una storia che succede sullo schermo”.

Forse nel mondo delle lettere (maggiori) un estimatore l’avrebbe incontrato Elkann, Ennio Flaiano. Per lo scrittore satirico e sceneggiatore di Fellini non esisteva nulla di più bello e intrigante della stupidità. I cretini andavano coltivati. E poteva perdonare anche la loro prosa zoppicante. La stupidità l’appagava.

Dagospia mercoledì 2 agosto 2023. Dal profilo Instagram di Piero Chiambretti

Sono in prima classe verso Foggia ma non so perché. Il treno viaggia veloce. Italo è guidato da Proust in persona che spinge il locomotore a manetta per recuperare il tempo perduto nella stazione di Caserta e pure quella di Benevento. 

Nella carrozza di prima classe nessuno mi nota, sono invisibile nonostante sia vestito di piume. Sono nervoso, il treno si muove, leggo la Gazzetta al contrario. Intorno a me una decina di eleganti ragazzi con forte accento anglosassone laureandi in ingegneria parlano sottovoce.

Hanno abiti sartoriali, uno di loro è un fervente Luterano e crede come Martin Lutero nella salvezza dell'anima. Gli altri lo ascoltano, bevono il te, giocano a scacchi. Il più piccolo della compagnia in tight cita Oscar Wilde sussurrando nelle orecchie degli amici: "La bigamia è avere una moglie di troppo. 

La monogamia anche. Stanco del mio immobilismo scrivo con la mia penna stilografica sulla mia giacca : "Ma in che classe siamo? Prima, Executive? Smart?" la risposta in coro è immediata: "L'uomo che pratica una sola classe (sociale) è come lo studioso che non legge altro che un libro" (1886 Edmondo De Amicis. Cuore). Scendo dal treno, i giovani ingegneri per ricordo mi regalano un Rolex d'oro.

John Elkann.

Estratto dell’articolo di Gigi Moncalvo per “Panorama”, pubblicati da “La Verità” mercoledì 4 ottobre 2023.  

Si è persino rivolto al Tar, il Tribunale amministrativo regionale, che gli ha dato ragione. John Elkann si è opposto al fatto che venga reso pubblico l’elenco delle opere d’arte di cui è in possesso. Perché? Motivi di sicurezza? No di certo dato che le sue residenze, a Torino e a St. Moritz, sono inaccessibili e sorvegliate dalla security che fa capo all’ex impero Fiat. 

John teme forse che si scopra una cosa poco commendevole, e cioè che non si è messo in regola con le leggi italiane secondo cui le opere di particolare pregio devono essere «notificate» dal proprietario e denunciate alle Belle arti, vincolandole qualora siano ritenute di «interesse nazionale»? Chissà.

Certo che sull’osservanza delle leggi Elkann ha già dato una precedente clamorosa dimostrazione tenendo celati per più di vent’anni, fino al luglio 2022, i documenti della società Dicembre […]. 

Altra ipotesi, la più probabile: Jaky ha paura che grazie a questo elenco ufficiale sua madre scopra ciò che già sa. E cioè che molti dipinti che il figlio ha appeso alle pareti delle sue case o alle fredde lastre in metallo dei cupi caveau di Ginevra, Zurigo, Chiasso, non appartengono a lui, che le ha ricevute dalla nonna Marella, ma a Margherita in virtù del suo titolo di unica erede di Gianni Agnelli (la mamma le aveva in usufrutto fino alla propria morte).

Il fatto è che Margherita rischia di fare del male anche a se stessa: se l’elenco dei quadri nelle mani di suo figlio venisse reso pubblico, il ministero della Cultura potrebbe attivare i carabinieri del nucleo per la tutela artistica 

[…] l’elenco delle opere della Collezione Agnelli venne stilato alla fine del 2003 in sede di «spartizione» tra le due eredi. Solo che il duca di Beaufort, aristocratico mercante d’arte di Gianni e Marella, ha redatto un elenco di 309 opere attribuendo loro un valore molto basso. In realtà i capolavori erano circa 150 in più, i più pregevoli di tutti.

Solo a Villa Frescot a Torino ce ne sono 75 «sfuggiti all’attenzione di Somerset», a Villar Perosa altri nove, per non parlare di quelli racchiusi nei caveau in Svizzera, non inclusi nel primo inventario con la scusa che i luoghi in cui si trovavano non erano più tra le pertinenze di Donna Marella (in primis la penthouse di Park Lane a New York e lo chalet di Chesa Alcyona a St. Moritz «regalato» a John). 

Tra l’altro, il confronto tra questi quadri mancanti dal primo inventario e quelli emersi dall’elenco che Margherita ha potuto stilare dopo la morte della madre […] ha una conseguenza ulteriore.

Le consente cioè di avere una prova che questo «occultamento» dimostra come fosse stata «ingannata» e che l’accordo che le hanno sottoposto è annullabile. Se tale «agreement» non è valido ecco che anche tutto ciò che John ha ricevuto dalla nonna, a partire dalla Dicembre, potrebbe portare alla cancellazione dell’assetto di controllo dell’impero [...]. 

L’erede di Gianni Agnelli si è rivolta ai pm di Milano segnalando che nel box numero 253, una delle «cabine extraterritoriali dei Magazzini generali con Punto Franco Sa di Chiasso», erano custodite almeno otto opere che le appartengono [...]. Ma le telecamere interne hanno dimostrato che tre giorni prima il contenuto del caveau era stato trasferito in un’altra camera blindata.

Estratto da ilnapolista.it domenica 30 luglio 2023. 

Libero intervista Leo Turrini opinionista di Sky e colonna di Quotidiano Nazionale, è la memoria storica della Formula 1. «La SF-23 è chiaramente un progetto non azzeccato. Dovrebbe cavarsela meglio, o meno peggio, su circuiti senza curve veloci. Invece a Budapest lo spettacolo è stato tra i più deprimenti». 

Al momento Vasseur è l’unico ad avere degli alibi.

«Eredita una vettura totalmente progettata da Binotto. Potremo giudicarlo tra un anno. Ciò che possiamo chiedergli adesso è: “Stai cambiando delle cose? Hai la percezione che gli sviluppi possano funzionare?”. In Ferrari sono rimasti indietro sulle competenze, sul fronte delle conoscenze tecnologiche. Tant’è che il curato di campagna, come lo chiamo io, ha chiarito da subito che bisognava investire sulle risorse umane, andandole a cercarle anche altrove. Ora più che mai, credo sia la via più logica ed auspicabile».

Elkann e Vigna che dicono di questa situazione?

«Non ne ho idea. Però so che quando era vicepresidente della Fiat, John Elkann venne ad una presentazione della Ferrari, era il periodo di Räikkönen e Massa. In diretta tv, molto candidamente disse: “I tecnici mi hanno appena spiegato cos’è un alettone”. Non è dileggio. È per dire che non ha empatia con la materia. Credo valga lo stesso per Benedetto Vigna. Anche Gianni Agnelli

 non amava le corse, eppure ci teneva. E ripeteva che non bisognava smettere di lottare. Mi auguro che anche il nipote possa acquisire questa consapevolezza. Per farsi ricordare come il presidente che ha vinto il Mondiale con la Rossa. Il rischio da scongiurare è che la Ferrari diventi una nota a margine, come la Williams». [...]

Da Stellantis alle stalle Report Rai PUNTATA DEL 12/06/2023 di Manuele Bonaccorsi

Collaborazione di Madi Ferrucci

Alla fine degli anni ‘80 l’Italia era la prima potenza europea del settore auto e Torino rappresentava la sua capitale industriale.

Oggi abbiamo perso le menti e i tecnici che l’avevano resa grande, migliaia di posti di lavoro sono scomparsi e in termini produttivi ci hanno ormai superato anche Romania, Slovacchia e Repubblica Ceca. Dopo la fusione con l’americana Chrysler del 2014, nel 2021 arrivano le nozze con i francesi di PSA da cui nasce Stellantis. Per John Elkann è “un matrimonio tra pari”, ma il vero centro del gruppo sembra ormai Parigi, anche per la presenza dello Stato francese nel capitale azionario. In Italia decine di migliaia di lavoratori sono in cassa integrazione e le aziende dell’indotto sono a rischio chiusura, mentre l’azienda progetta nuovi stabilimenti produttivi in Africa e apre una fabbrica di batterie nel nord della Francia. Con una intervista esclusiva a Nicolas Dufourcq, rappresentante dello Stato francese nel cda di Stellantis, e documenti interni inediti, Report spiega lo spostamento oltralpe della catena del valore dell’industria automobilistica, nonostante l’ingente quantità di aiuti di Stato ricevuti negli ultimi 30 anni.

DA STELLANTIS ALLE STALLE di Manuele Bonaccorsi Collaborazione Madi Ferrucci Immagini di Davide Fonda, Carlos Dias, Marco Ronca e Paolo Palermo Ricerca Immagini di Eva Georganopoulou e Paola Gottardi Montaggio di Marcelo Lippi e Raffaella Paris Grafiche di Michele Ventrone

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO In questo capannone nella periferia di Torino ci sono 60 anni di storia dell'industria dell’auto italiana, dalle vetture del boom economico fino alle supercar elettriche. Il padrone di casa è Giorgetto Giugiaro, il re dei designer di auto.

GIORGETTO GIUGIARO - DESIGNER Questa è la prima presentata nel ‘60.

MANUELE BONACCORSI E questa è la famosa Giulia dell'Alfa Romeo, cioè un'auto celeberrima.

GIORGETTO GIUGIARO - DESIGNER Sì, poi dopo di questa è venuta la 850 spider, la Maserati Ghibli, l'Alfa Sud, la Ferrari.

MANUELE BONACCORSI Ah, l'Alfa Sud.

GIORGETTO GIUGIARO - DESIGNER L’Alfa Sud, sì. È laggiù. Lo sportello che si apre, pesa troppo, quindi lo voglio fisso e mettiamo uno sportellino.

MANUELE BONACCORSI Cioè il lunotto qui non si apre.

GIORGETTO GIUGIARO - DESIGNER No, è fermo. Per i pesi e i costi. Ci stanno quattro valigie che lei non ha idea. Vede, ne mette 4 di queste.

MANUELE BONACCORSI È vero.

GIORGETTO GIUGIARO - DESIGNER Metta l'altra.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Negli anni ’80-’90 Giugiaro disegna i modelli più venduti di Fiat. La Panda, la Uno, e la Punto.

GIORGETTO GIUGIARO - DESIGNER La Punto forse è stato il modello che gli ha reso di più.

MANUELE BONACCORSI Economicamente dice.

GIORGETTO GIUGIARO - DESIGNER Beh, sì. Perché quando facciamo un progetto dobbiamo sapere quanti punti di saldatura, quanti pesi, che stampi, quanti colpi dello stampo, per determinare i costi.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Il successo delle auto italiane è tale che i tedeschi ci prendono ad esempio. Giugiaro viene convocato dalla concorrenza e vola in Germania, dove disegnerà la Golf, una tra le auto tedesche più vendute di sempre. A Wolfsburg il design italiano piace così tanto che nel 2010 la società di progettazione di Giugiaro, la Italdesign, viene acquisita proprio dalla Volkswagen

GIORGETTO GIUGIARO - DESIGNER Andando alla Volkswagen ho trovato nella sala riunioni la 128 Fiat, smontata pezzo per pezzo. Loro mi dissero che non sarebbero mai riusciti a fare un prodotto come la Fiat con quel peso, con quell'estetica, con quelle misure di abitabilità e bagagliaio e con quel costo. Questo cosa significa?

MANUELE BONACCORSI Significa che sapevamo fare le autovetture in questo in questo Paese.

GIORGETTO GIUGIARO - DESIGNER Eh, sì. MANUELE BONACCORSI John Elkann continua a dire che non si tratta di acquisizione di Psa nei confronti di Fiat, di Fca, ma si tratta di un matrimonio tra pari.

GIORGETTO GIUGIARO - DESIGNER Adesso il gruppo Peugeot è quello che detiene il potere creativo, lei vada a vedere chi sono i responsabili dei brand italiani. Non c’è un italiano. Come mai?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Perché se la direzione è francese col cavolo che danno la responsabilità di un prodotto a un italiano. Ora, se il Ceo è Carlos Tavares, portoghese, ma uomo di fiducia del gruppo francese PSA, francesi sono i responsabili dei marchi italiani: Olivier Francois per la Fiat, Jean-Philippe Imparato per Alfa Romeo. Ma come abbiamo fatto ad arrivare a questo punto noi che negli anni ‘80 eravamo i numeri uno in Europa, sopra anche alle case automobilistiche tedesche. Vendevamo le Ferrari, le Alfa Romeo, soprattutto le utilitarie, poi si è rotto qualcosa. Se nel 1999 producevamo un milione e 400mila autovetture, nel 2022 siamo scesi a 473mila, cioè fanalino di coda dopo la Slovacchia e la Romania. Ecco negli anni è stata erosa l’anima dell’industria automobilistica italiana, ma anche il marchio: Fiat si è fusa prima con gli americani di Chrysler, dando vita a FCA, e poi con il gruppo francese Peugeot-Citroen, dando vita a Stellantis. Ma che qualcosa si fosse rotto nell’industria automobilistica italiana dovevamo capirlo intercettando un segnale: la fuga di cervelli, di quei progettisti, designer, tecnici, ingegneri, che hanno reso unica l’automobile italiana nel mondo. Il nostro Manuele Bonaccorsi.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO La Punto è l’ultima auto di grande successo della Fiat, venduta tra il 1993 e il 2018 in 9 milioni di esemplari. A coordinare la progettazione della Grande Punto, un’operazione molto complessa che coinvolge centinaia di progettisti, tecnici e designer, fu l’ingegnera Cristina Siletto, che nel 2017 ha abbandonato la Fiat.

MANUELE BONACCORSI Cosa non la convinceva?

CRISTINA SILETTO - INGEGNERA FIAT (1990-2017) In quegli anni era un po' il momento di rinnovare tutta una serie di modelli, a partire dal segmento della Panda, poi il segmento della Grande Punto quindi il B. Noi vivevamo quotidianamente la posticipazione o la cancellazione della decisione di rinnovare questi segmenti, quelli su cui noi ritenevamo di aver avuto i risultati migliori.

MANUELE BONACCORSI Non vi davano nulla da progettare.

CRISTINA SILETTO - INGEGNERA FIAT (1990-2017) Se non si investe al momento giusto per rinnovare la gamma, non si ha proprio più prodotto da offrire.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Poi, quando inizia la rivoluzione dell’elettrico, Marchionne decide di girarsi dall’altra parte, e punta tutto sul metano.

SERGIO MARCHIONNE – AMMINISTRATORE DELEGATO FIAT CHRYSLER AUTOMOBILES (2004-2018) LECTIO MAGISTRALIS UNIVERSITA' DI TRENTO 2/10/2017 Non voglio suonare apocalittico, ma la produzione di veicoli elettrici su larga scala non farebbe che esacerbare, esagerare la situazione. Dobbiamo essere realisti, si tratta di un’arma a doppio taglio.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Il risultato è che oggi l’unica vettura elettrica prodotta da Fiat è questa, la 500e.

MANUELE BONACCORSI Cioè la Fiat non ha altre elettriche oltre questa, questa è la prima, quella che apre il mercato.

ESPOSITORE FIERA AUTO Che apre un po’ la strada verso queste nuove vie. Marchionne fosse ancora qui sarebbe a martellarla forse.

MANUELE BONACCORSI A martellate la prendeva.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Tra il 1999 il 2022 la produzione italiana di autovetture passa da 1,4 milioni a 470mila. Quasi un milione di auto prodotte in meno. Il taglio colpisce tutti gli stabilimenti italiani, dove molti operai finiscono per lunghi periodi in cassa integrazione. Il colpo più duro, però, lo subisce Torino, che ospita la fabbrica di Mirafiori, la più grande d’Europa, che nell’epoca d’oro dava lavoro a 65mila operai.

EDI LAZZI - SEGRETARIO FIOM TORINO Dal 2018 al 2022 gli addetti sono passati da 15.500 a 11.300, una cura di dimagrimento continuo con gente che va o in pensione, oppure è incentivata dalla stessa azienda ad andare via.

MANUELE BONACCORSI Qual è l'età media dei dipendenti?

EDI LAZZI - SEGRETARIO FIOM TORINO Intorno ai 55-56 anni. Fra sette anni, il 70% di quegli addetti non c'è più perché vanno in pensione.

MANUELE BONACCORSI Senza nuove assunzioni la fabbrica fra dieci anni nei fatti sarà vuota?

EDI LAZZI - SEGRETARIO FIOM TORINO Sì, assolutamente sì.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Il 20 settembre 2022 il capo di Stellantis Tavares si è recato a Torino, dove ha incontrato il sindaco Lo Russo e il presidente della Regione Cirio. Con loro ha firmato un accordo che prevede una nuova missione produttiva: lo smontaggio dei veicoli usati.

STEFANO LO RUSSO - SINDACO DI TORINO Il piano assunzionale legato a questa strategia, se non sbaglio, è di circa 800 nuove unità di personale assunto.

MANUELE BONACCORSI Quello che io sapevo sono 550 occupati sulla rigenerazione.

STEFANO LO RUSSO - SINDACO DI TORINO Quello, quel dato lì.

MANUELE BONACCORSI Ma non sono nuovi assunti.

STEFANO LO RUSSO - SINDACO DI TORINO Se non sbaglio era 550 o 600 nuovi assunti, però ricordo male io. Il numero era più o meno quello. Stellantis Torino, 550 assunzioni 2025, polo riciclo auto.

MANUELE BONACCORSI Quello è il titolo fatto da Repubblica. Ma questo c’è scritto nel protocollo segreto?

STEFANO LO RUSSO - SINDACO DI TORINO No.

MANUELE BONACCORSI Sindaco, però la sua fonte non può essere Repubblica, che poi è del gruppo Gedi.

STEFANO LO RUSSO - SINDACO DI TORINO Arriviamo al dunque. Cosa c’è scritto in quel protocollo, in quel protocollo molto francamente c'è scritto: “La città si impegna ad accompagnare il processo di riconversione di Mirafiori attraverso eventuali operazioni di carattere urbanistico”.

EDI LAZZI - SEGRETARIO FIOM TORINO Non ci saranno 550 assunzioni. Quello che ha dichiarato Stellantis è che prenderanno 550 persone che già lavorano all'interno di Mirafiori e che saranno spostate a fare questa attività.

MANUELE BONACCORSI Qui a Torino si progettavano le auto, non siamo passati al ruolo di sfasciacarrozze?

STEFANO LO RUSSO - SINDACO DI TORINO Questo è un modo, secondo me, sbagliato di vedere le cose. Non è affatto vero che a Torino non si producano più auto, non si progettino.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Cosa ci sia scritto realmente nell’accordo, però, è impossibile saperlo. Stellantis ha chiesto che il testo non sia divulgato.

GIORGIO AIRAUDO - SEGRETARIO CGIL PIEMONTE Non siamo stati invitati a quel tavolo.

MANUELE BONACCORSI Sarà filtrata una copia di questo…

GIORGIO AIRAUDO - SEGRETARIO CGIL PIEMONTE No, io non ho nessuna copia, l'ho chiesta più volte, non ho nessuna copia.

MANUELE BONACCORSI E che le hanno detto?

GIORGIO AIRAUDO - SEGRETARIO CGIL PIEMONTE Che è riservata, che non è ancora disponibile…

MANUELE BONACCORSI Ci può spiegare cosa prevede questo accordo?

ANDREA TRONZANO - ASSESSORE ATTIVITÀ PRODUTTIVE REGIONE PIEMONTE Ma l'accordo è coperto da riservatezza perché, come succede in ogni impresa che vuole insediarsi sul territorio ed essere concorrenziale sul territorio, chiaramente chiede riservatezza.

MANUELE BONACCORSI Io non credo che lei possa tenere riservato un accordo firmato da un ente pubblico.

ANDREA TRONZANO - ASSESSORE ATTIVITÀ PRODUTTIVE REGIONE PIEMONTE Ma secondo noi sì.

MANUELE BONACCORSI Qualsiasi firma lei mette che riguardi la sua funzione, deve essere accessibile, se no?

STEFANO LO RUSSO - SINDACO DI TORINO Le rispondo in punta di diritto. Ovviamente tutti sono consapevoli del fatto che qualunque atto che ha validità amministrativa è per sua definizione pubblico.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Secondo i rumors l’investimento promesso da Tavares non è stato gratuito. La regione Piemonte in particolare, avrebbe garantito a Stellantis importanti sconti sul prezzo dell’energia.

ANDREA TRONZANO - ASSESSORE ATTIVITÀ PRODUTTIVE REGIONE PIEMONTE Non è un costo. Dobbiamo fare in modo che il nostro territorio sia conveniente stare qua ed essere qua.

MANUELE BONACCORSI C'è il rischio che questa operazione finisca tra gli aiuti di Stato e sia bloccata dall'Unione europea?

ANDREA TRONZANO - ASSESSORE ATTIVITÀ PRODUTTIVE REGIONE PIEMONTE C'è il rischio, ma noi abbiamo una classe dirigente dal punto di vista tecnocratico, burocratico, molto valida.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Il comune invece a quanto pare si impegna a favorire con strumenti urbanistici l’uso delle aree di Mirafiori. Tavares, a margine della firma, parla chiaramente di valorizzazione di quel territorio. Si tratta di 3 milioni di metri quadri, un’immensa area in gran parte inutilizzata, che potrebbe avere un altissimo valore economico.

MANUELE BONACCORSI Anche Tavares diceva se ne può fare un uso di tipo ricreativo, culturale, commerciale?

STEFANO LORUSSO - SINDACO DI TORINO Non è oggetto della discussione fino ad adesso sviluppata con Stellantis.

MANUELE BONACCORSI C'è da parte di Stellantis un interesse quindi a valorizzare quell'area, a metterle sul mercato?

STEFANO LORUSSO - SINDACO DI TORINO Non abbiamo parlato di valorizzazione in senso di vendita delle aree.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO In effetti c’è un precedente del genere. Nel 2005 Regione Piemonte, Comune e Provincia di Torino acquistano per 70 milioni di euro da Fiat auto 300mila metri quadri di aree dismesse, circa un decimo della superficie totale dello stabilimento.

GIORGIO AIRAUDO - SEGRETARIO CGIL PIEMONTE In cambio di questa acquisizione da parte degli enti pubblici di aree si ottenne l'arrivo dell'ultimo modello nuovo arrivato a Mirafiori, che era l'Alfa MiTo, è il primo modello dell'era Marchionne arrivato a Torino e anche l'ultimo.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Per la riqualificazione dell’area degradata acquistata da FCA gli enti pubblici danno vita a Tne, Torino Nuova Economia, una società che ha il compito di vendere le aree. Oggi, però, a 20 anni dall’operazione gran parte della zona resta deserta.

MANUELE BONACCORSI Questo è il capannone. Abbandonato. È immenso.

GUIDO MONTANARI - ARCHITETTO VICESINDACO DI TORINO 2016 – 2019 È immenso, è anche bello, come dire, da un punto di vista strutturale e architettonico. Invece se noi guardiamo in là, tutta quell’area lì è quella che ha acquisito Novacoop. Il progetto di Novacoop prevede un grande centro commerciale e poi una struttura per gli studenti. Novacoop però su questo progetto adesso è ferma.

MANUELE BONACCORSI Ma secondo lei il prezzo di acquisto era un prezzo corretto o era sovrastimato?

GUIDO MONTANARI - ARCHITETTO VICESINDACO DI TORINO 2016 - 2019 Credo davvero che si possa parlare di un valore che si è quasi dimezzato.

MANUELE BONACCORSI Insomma, alla fine è stato un altro metodo di finanziamento pubblico dell'allora Fiat?

BERNARDINO CHIAIA - AMMINISTRATORE UNICO TORINO NUOVA ECONOMIA SPA 2018-2022 Potremmo intenderlo così. L'operazione complessivamente non è stata a saldo positivo. Questo è, credo, abbastanza evidente.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO E infatti gli enti locali sono costretti a svalutare in bilancio le aree. Negli anni TNE accumula perdite per 32 milioni di euro. L’azienda finisce in amministrazione controllata e la Regione è costretta a versarle 8,9 milioni di euro in più, per evitare il fallimento.

MANUELE BONACCORSI Ma come si fa a fare una cosa del genere?

ANDREA TRONZANO - ASSESSORE ATTIVITÀ PRODUTTIVE REGIONE PIEMONTE Non posso rispondere perché non c'ero. Adesso Tne è sotto amministrazione controllata, e quindi c’è il concordato, credo che le aree Tne saranno vendute in maniera giusta.

MANUELE BONACCORSI Fiat ha incassato ma il buco poi è rimasto al pubblico.

STEFANO LO RUSSO - SINDACO DI TORINO Col senno del poi son capaci tutti a esprimere giudizi. Quella fu un'operazione che ha poi permesso a Fiat di non venire acquisita da altri soggetti o di fallire.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non è la prima volta. Nel 2005 la Fiat in crisi propone uno scambio alla politica, dice: io porto una nuova produzione nello stabilimento Mirafiori, una produzione dell’alfa MiTo, però voi in cambio mi acquistate dei terreni inutilizzati. E la politica paga, il pubblico paga 70 milioni di euro, Fca incassa. Solo che poi quando si tratta di rivendere questi terreni, insomma, Comune e Regione intuiscono che forse quei terreni li hanno pagati un po’ troppo rispetto al loro valore e oggi c’è un buco di circa 30 milioni di euro. Insomma, si è trattato sostanzialmente di un finanziamento mascherato, non è la prima volta, ora pagheranno i cittadini piemontesi. Però da quello che abbiamo ricostruito lo stabilimento di Melfi, per esempio, nato nel 1991, ha ricevuto oltre 3,3 miliardi di euro di contributi pubblici. Poi con Matteo Gaddi della Fondazione Sabattini abbiamo calcolato le ore di cassa integrazione, pagata per i lavoratori del gruppo Fiat e quelli dell’indotto Fiat. Solo negli ultimi 14 anni, sono state autorizzate 4,7 miliardi di euro di ore di cassa integrazione. Soldi pagati dall’Inps attraverso la trattenute sulle buste paga dei lavoratori italiani. Poi FCA poco prima della fusione con PSA e di diventare Stellantis ha ricevuto un prestito di 6,3 miliardi garantiti dallo Stato. Pochi mesi dopo poi grazie proprio alla fusione ha pagato un dividendo agli azionisti straordinario di 2,9 miliardi di euro. Poi ci sarebbero stati vari aiuti di Stato, dal 2017 a oggi 46,8 milioni. Infine ci sono i 370 milioni per il futuro stabilimento di batterie previsto a Termoli. Qual è il futuro di questo stabilimento e qual è il futuro dell’auto italiana e del suo indotto, lo vedremo tra 30/40 secondi dopo il golden minute.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora parlavamo del futuro dell'automobile in Italia. La logica è un po’ questa: insomma chi la produce dice se tu Stato vuoi che io investa qui sul tuo territorio, contribuisci. E’ nata una competizione tra Stati e regioni, in cui sostanzialmente chi ne esce sconfitta è un po’ Torino: non è più il quartier generale dell’automobile italiana. Ora, però, questo impoverimento ha risucchiato anche l’indotto. Per ogni operaio interno al gruppo ce ne sono 6 dell’indotto che contribuiscono alla produzione dell’automobile. Ecco e in questo tema la fusione di Stellantis potrebbe avere delle ricadute drammatiche. Tutto ruota intorno ad una parola magica: piattaforma.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO L’indotto di Mirafiori occupava decine di migliaia di operai. Secondo i dati della Fiom, tra il 2008 e il 2020 il solo settore metalmeccanico ha perso, in provincia di Torino, 32mila posti di lavoro. La cintura intorno alla città, un tempo sede di un’industria ricca e fiorente, oggi è piena di capannoni vuoti.

CARLO BAVA - EX IMPRENDITORE Io vengo ogni due tre mesi per far fare manutenzione al giardinetto lì fuori. E poi, insomma, per non dimenticarlo.

MANUELE BONACCORSI È rimasto legato a questo luogo?

CARLO BAVA - EX IMPRENDITORE Eh beh, ma siamo tutti in famiglia legati a questi luoghi. Noi eravamo leader nella costruzione delle armature dei volanti delle auto. Qui c'erano tre linee di presse, potevano viaggiare a 1600 colpi al minuto, ed erano spettacolari, incapsulate, silenziate, senza vibrazioni. Qui si arrivava a farne 8000 al giorno di tutti i tipi per Fiat.

MANUELE BONACCORSI Come mai ha deciso di abbandonare?

CARLO BAVA - EX IMPRENDITORE Siamo rimasti in mano con dei crediti inesigibili nel momento in cui anche Fiat aveva dei problemi.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Nel 2007 l’azienda viene rilevata dal gruppo Sila Holding. Ma appena 3 anni dopo si ferma la produzione. Oggi il gruppo Sila ha stabilimenti a Melfi, a Chieti, in Polonia. Non più a Torino.

CARLO BAVA- EX IMPRENDITORE È saltato tutto dopo, è saltato tutto.

MANUELE BONACCORSI Quanti dei suoi colleghi imprenditori sono stati costretti a chiudere in questi anni?

CARLO BAVA- EX IMPRENDITORE Parecchi perché effettivamente chi lavorava solo per Fiat è stato tra i primi.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO La GKN, importante stabilimento fiorentino che produceva semiassi, il 9 luglio 2021 ha licenziato con una semplice mail i suoi 422 operai. I quali, in risposta, hanno occupato la fabbrica e da due anni hanno aperto una vertenza per preservare i posti di lavoro.

DARIO SALVETTI - COLLETTIVO DI FABBRICA GKN Questa era l'ex Fiat di Firenze e che aveva la sua importanza strategica geografica per il fatto che era in grado di servire e serviva quasi tutti gli stabilimenti in Italia.

OPERAIO GKN Questo è stato prodotto il 9 luglio a mezzanotte, quindi vuol dire che l'ultimo turno di lavoro che abbiamo fatto noi la mattina successiva eravamo chiusi.

MANUELE BONACCORSI Da dove potrebbero venire i semiassi che monta oggi FCA?

OPERAIO GKN Polonia, Vigo, Slovenia. OPERAIO GKN Il lavoro viene portato fuori e non c'è una politica industriale che possa salvaguardare le professionalità che prima c'erano e ora sostanzialmente stanno andando via.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Qui siamo a Grugliasco, nella periferia di Torino. Questo è lo stabilimento della Lear, importante azienda dell’indotto. La dirigenza ha annunciato nuovi esuberi, 260 persone rischiano il posto.

ANTONIO GULLO - RSU FIOM CGIL LEAR Più o meno due su tre. Noi produciamo i sedili per le Maserati che ad oggi le linee Maserati a Mirafiori in maniera strutturale il lunedì e il venerdì sono ferme. E molto spesso si fermano anche il martedì, il giovedì.

MANUELE BONACCORSI Scusate, ma a Mirafiori in questo momento c'è una forte produzione di 500 elettrica. Voi non lavorate sulla 500 elettrica?

ANTONIO GULLO - OPERAIO LEAR DELEGATO RSU FIOM CGIL No, purtroppo no.

ROBERTO BARONE - DELEGATO RSU FIM CISL LEAR Non siamo riusciti a prenderla. C'è stata una gara d'appalto con i turchi e hanno vinto loro, appena arrivati sul mercato.

ANTONIO GULLO - OPERAIO LEAR DELEGATO RSU FIOM CGIL La linea di assemblaggio è qui a poco meno di un chilometro da noi. Però i semilavorati vengono prodotti in Turchia. Quindi è una delocalizzazione un po’ nascosta.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO A Torino incontriamo un funzionario che lavora agli enti centrali di Mirafiori. Ci consegna alcuni documenti interni sulle commesse assegnate da Stellantis alle aziende dell’indotto. Si deduce che molti pezzi della 500 elettrica, l’auto principale prodotta a Mirafiori, vengono realizzati all’estero: le batterie, le frecce, le ruote, lo stop, le guarnizioni, il quadro di bordo. Perfino il logo della Fiat, è prodotto in Spagna.

FUNZIONARIO ENTI CENTRALI - STELLANTIS MIRAFIORI Vengono in gran parte dalla fornitura che alimenta la produzione della 500 endotermica che viene fatta in Polonia a Tychy.

MANUELE BONACCORSI Non vengono quindi dal territorio?

FUNZIONARIO ENTI CENTRALI - STELLANTIS MIRAFIORI No, solamente una piccola parte viene dal territorio italiano MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Cosa accadrà all’indotto auto coi nuovi modelli progettati dopo la fusione? Il piano finanziario che ha portato alla nascita di Stellantis prevedeva 5 miliardi di risparmi. Dove saranno realizzati? Uno dei primi annunci dell’ad di Stellantis Tavares è stato la razionalizzazione delle piattaforme.

TOMMASO PARDI - DIRETTORE GERPISA - RICERCA INTERNAZIONALE AUTOMOTIVE Cos'è una piattaforma? Quando noi vediamo la grande varietà commerciale dei veicoli in vendita, abbiamo l'impressione di vedere dei veicoli molto diversi. Se le svestiamo queste macchine, vedremo che in realtà hanno tutte un sacco di pezzi in comune. Quindi quando uno compra non 100.000 cruscotti, ma 600.000 perché li condivide su tanti mercati su tanti modelli, il costo unitario di questi componenti diventa molto più interessante.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Tavares ha annunciato che in Stellantis saranno usate solo le piattaforme di origine PSA, cioè francese. La conseguenza per l’indotto potrebbe essere molto dura. A Melfi, il principale stabilimento italiano, capace di realizzare da solo circa la metà dell’intera produzione nazionale di autovetture, sono stati annunciati quattro nuovi modelli elettrici.

MICHELE DE PALMA - SEGRETARIO GENERALE FIOM CGIL Avevamo fatto un accordo sullo stabilimento di Melfi, noi, il governo e l'azienda. Ad oggi non c'è traccia di nessuno di quei quattro modelli.

MANUELE BONACCORSI Quando sarebbero dovuti arrivare i modelli elettrici a Melfi?

MICHELE DE PALMA - SEGRETARIO GENERALE FIOM CGIL Allora il primo più di un anno fa, e ad oggi non ci sono ancora neanche le commesse per le aziende della componentistica.

VITTORIO DE NICOLA – DIRETTORE STABILIMENTO MUBEA ITALIA - MELFI Non ci è stato ancora richiesto di fare prototipi per queste vetture che si dovrebbero assemblare domani.

MANUELE BONACCORSI E voi pensate che ci sia questa volontà da parte di Stellantis?

VITTORIO DE NICOLA – DIRETTORE STABILIMENTO MUBEA ITALIA - MELFI Non abbiamo evidenza nè del sì nè del no. Quindi se qui arriva un prodotto fatto da PSA quindi una piattaforma già conosciuta in PSA, questa ha nel suo pacchetto anche dei fornitori che attualmente forniscono la stessa piattaforma in stabilimenti in altri siti europei. Ci sarà un cambio di assegnazione? Non dipende solo da noi.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO La preoccupazione è grande. E la documentazione interna che ci fornisce il funzionario di Stellantis che ha deciso di parlare con Report non fa che evidenziarlo. Questo documento rappresenta la componentistica del primo modello di marchio FCA post fusione, la Jeep Avenger, in produzione a Tychy, in Polonia.

FUNZIONARIO ENTI CENTRALI - STELLANTIS MIRAFIORI Se tu guardi queste immagini, tutto ciò che tu vedi in verde è un contenuto che i prossimi modelli FCA hanno adottato integralmente da PSA.

MANUELE BONACCORSI Ne deriva che l'acquisto di questi pezzi…

FUNZIONARIO ENTI CENTRALI STELLANTIS - MIRAFIORI Non la fai tu, non la fai tu come FCA.

MANUELE BONACCORSI Non la fa Torino. La fa Parigi?

FUNZIONARIO ENTI CENTRALI STELLANTIS - MIRAFIORI Non fai l'acquisto, non fai lo sviluppo. Una volta si progettava da zero il veicolo a Torino. Adesso, se va bene svilupperai il solo topet.

MANUELE BONACCORSI È immaginabile che nulla proverrà dalla subfornitura italiana.

FUNZIONARIO ENTI CENTRALI STELLANTIS - MIRAFIORI Certo, si può ipotizzare che sia così

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Il problema è che l’indotto rappresenta gran parte del valore - e quindi dei posti di lavoro - di un’autovettura. Fatto 100 il valore di un’auto, una quota tra il 70 e il 75% viene dall’indotto. In Italia nel settore lavorano 250mila persone.

FRANCESCO ZIRPOLI - DIRETTORE CENTRO AUTOMOTIVE AND MOBILITY INNOVATION - UNIVERSITÀ CA’ FOSCARI Pensi che il 50% in media del fatturato dei fornitori italiani è realizzato con Stellantis, quindi, capisce bene che il peso industriale di Stellantis in Italia è determinante.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Un impatto durissimo lo sta subendo già Marelli, la più importante azienda italiana dell’automotive, con ben 43mila dipendenti nel mondo e produzioni che spaziano dagli ammortizzatori ai cambi fino a batterie e sistemi elettrici. Magneti Marelli era parte del gruppo FCA, ma nel 2018, poco prima della fusione, l’azienda viene venduta ai giapponesi di CK Holdings per 5,8 miliardi di euro. Gli azionisti, a partire dalla famiglia Agnelli, incassano dopo la vendita 2 miliardi di euro.

MANUELE BONACCORSI Psa aveva un'azienda molto simile come mercato a Magneti Marelli, Faurecia, che è entrata invece nel perimetro del gruppo.

FRANCESCO ZIRPOLI - DIRETTORE CENTRO AUTOMOTIVE AND MOBILITY INNOVATION - UNIVERSITÀ CA’ FOSCARI Certo.

MANUELE BONACCORSI Come legge queste differenza?

FRANCESCO ZIRPOLI - DIRETTORE CENTRO AUTOMOTIVE AND MOBILITY INNOVATION - UNIVERSITÀ CA’ FOSCARI Le aziende possono essere gestite avendo una logica industriale in mente o avendo una logica finanziaria. È evidente che se l'azienda avesse voluto mantenere una sua autonomia industriale, Magneti Marelli aveva al suo interno delle competenze che erano rilevanti.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Faurecia e Stellantis hanno da poco annunciato un investimento sulla produzione di celle a idrogeno, che creerà 1000 posti di lavoro, in Francia naturalmente. Invece in Italia, al momento della vendita, Marelli aveva 10mila dipendenti. Oggi ne ha poco più di 7mila. E poche settimane fa l’azienda ha sottoscritto coi sindacati una nuova procedura per 1400 uscite incentivate.

CIRO D’ALESSIO - SEGRETARIO FIOM CGIL BARI Magneti Marelli a Bari aveva previsto un importantissimo investimento da parte di Stellantis, un motore ibrido Chrysler. L'investimento fu annunciato nel 2018 doveva partire nel 2018, fu fermato allora e nel 2023 ci hanno comunicato che Stellantis non intende più produrre questo motore sullo stabilimento di Bari.

MANUELE BONACCORSI Questa decisione mette a rischio dei posti di lavoro a Magneti Marelli Bari?

CIRO D’ALESSIO - SEGRETARIO FIOM BARI Ha generato un esubero di circa 150 persone.

MASSIMO MAZZEO - SEGRETARIO FIM CISL BOLOGNA Marelli ha fatto pressioni su Stellantis affinché le produzioni vadano poi agli stabilimenti Marelli perché c'è un accordo del 2018 che prevede appunto che l’ex FCA, oggi Stellantis, si impegnava a garantire le produzioni e quindi la sostenibilità degli stabilimenti italiani.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO L’accordo con ogni evidenza, non è stato rispettato. E i manager di Marelli preferiscono non parlarne.

MADI FERRUCCI L’accordo promesso da Fca per le forniture è stato mantenuto o disatteso?

DARIO LAURI - RESPONSABILE RELAZIONI INDUSTRIALI MARELLI SPA Non posso rispondere.

MADI FERRUCCI Era un piano quinquennale che manteneva i posti di lavoro.

DARIO LAURI - RESPONSABILE RELAZIONI INDUSTRIALI MARELLI SPA Non posso rispondere a domande dei giornalisti, non ho l’autorizzazione, sono il responsabile relazioni industriali non comunicazione.

MADI FERRUCCI Vi aspettavate un supporto maggiore da Stellantis oppure no?

DARIO LAURI - RESPONSABILE RELAZIONI INDUSTRIALI MARELLI SPA Non posso rispondere.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Marelli era sicuramente, è anzi un orgoglio dell’industria italiana, faceva parte del gruppo Fiat già a partire dalla fine degli anni ‘60. Tuttavia FCA se ne sbarazza prima della fusione con PSA, la vende ai giapponesi per 5,8 miliardi di euro, incassa e stacca anche dei ricchi dividendi, di 2 miliardi. E gira sostanzialmente le commesse alla società Faurecia, che è la gemella, ma francese. Mentre Faurecia sta costruendo l’auto a idrogeno del futuro e quindi assume, Magneti Marelli invece licenzia. Ecco di questo rischio ne aveva parlato anche il Copasir, il Comitato di controllo parlamentare sui servizi segreti, all’epoca c’era proprio Urso come presidente, attuale ministro del Made in Italy, ed era stato anche proposta un’entrata dello Stato dentro Fca, con Cassa Depositi e Prestiti, perché il Copasir aveva proprio paventato lo spostamento del baricentro da una testa da un governo da una governance italiana a quella francese. Ora, Urso, invece, è stato costretto ad andare in Francia a inaugurare la fabbrica di batterie. E anche Confindustria ha paventato il rischio di perdita di posti di lavoro dell’indotto. Urso ha invitato Stellantis a investire in Italia, Stellantis aveva promesso di investire su due fabbriche di batterie, una in Germania, una a Termoli, che è stata anche finanziata dallo Stato italiano con fondi europei per 370 milioni di euro. Tuttavia tracce di questa fabbrica di batterie a Termoli non ce ne sono. MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Il primo giugno un gruppo di oltre 100 operai degli stabilimenti italiani di Stellantis si incontra davanti al Comune di Torino. Partono per Poissy, in Francia, sede dello stabilimento principale di Stellantis.

ANDREA DI TRAGLIA - OPERAIO STELLANTIS CASSINO Io in 16 anni che lavoro nello stabilimento di Cassino 14 li faccio sotto il segno della cassa integrazione. A Cassino produciamo tre modelli, che sono: la Giulia, lo Stelvio e il Maserati Grecale.

MANUELE BONACCORSI Voi facevate la Giulietta prima, un’auto molto venduta?

ANDREA DI TRAGLIA - OPERAIO STELLANTIS CASSINO Esatto, che è un’auto molto venduta che hanno deciso di dismettere.

MANUELE BONACCORSI Quanto costano le auto sul mercato che producete oggi?

ANDREA DI TRAGLIA - OPERAIO STELLANTIS CASSINO Da un minimo di 50mila euro, possiamo arrivare anche a 150mila euro.

MANUELE BONACCORSI Quindi se ne producono molto di meno?

ANDREA DI TRAGLIA - OPERAIO STELLANTIS CASSINO Ma assolutamente sì.

MANUELE BONACCORSI Intanto cosa vi faranno produrre ora che c'è Stellantis, si sa?

ANDREA DI TRAGLIA - OPERAIO STELLANTIS CASSINO Eh questa è la domanda delle domande, anche perché noi stiamo andando a Parigi per ottenere questo tipo di risposte.

MARIO DI COSTANZO - SEGRETERIA FIOM CGIL POMIGLIANO Produco le stesse macchine in tre settimane e alla quarta settimana la metto a carico, magari dell'Inps, con una riduzione dei costi notevole. Ogni 50 secondi esce una Panda. Allora magari chi ascolta dice ma che vuol dire ogni 50 secondi esce una Panda? Significa che ogni secondo che passa, il lavoratore ha un'operazione da fare.

MANUELE BONACCORSI Ma tra una Panda e l'altra quanto tempo avete libero?

MARIO DI COSTANZO - SEGRETERIA FIOM CGIL POMIGLIANO Di riposo? Zero. La saturazione è al 100 per cento. Ti faccio un esempio banale, io soffro di allergie, di riniti, quando mi dovevo pigliare il fazzolettino di carta per soffiarmi il naso a me mi dovevano sostituire, perché altrimenti la macchina andava avanti e non riuscivo a produrre. Per soffiarti il naso ci vogliono 35/40 secondi, per prendere un fazzolettino dalla tasca, metterlo al naso soffiare e metterlo in tasca, in quei 40 secondi si produce una Panda.

MANUELE BONACCORSI Cosa è cambiato con l'arrivo dei francesi?

DOMENICO LOFFREDO - OPERAIO STELLANTIS POMIGLIANO C'è il tentativo di tagliare sui costi, che sono la pulizia dei bagni, la sicurezza all'interno dei reparti.

MARIO DI COSTANZO - SEGRETERIA FIOM CGIL POMIGLIANO Prima della pandemia i bagni si pulivano con un ciclo di tre volte a turno, oggi il ciclo di pulizia è una volta al giorno e stiamo parlando di bagni che vanno 1000 lavoratori. Trovi i bagni sporchi, che puzzano.

MEGAFONO Benvenuti agli operai italiani!

MANUELE BONACCORSI Ma fate cassa integrazione qui?

SAID ABOUHADDAOUI - OPERAIO STELLANTIS POISSY Cassa integrazione? No no. A volte si fermano le linee se mancano i pezzi, ma c'è il lavoro, c'è la produzione. Si sa che preferiscono tagliare posti in Italia piuttosto che in Francia. Ma arriveranno a tagliare anche qui, è matematico.

JONATHAN DOS SANTOS - SEGRETARIO CGT STELLANTIS POISSY Si lavora a una velocità infernale, infernale. Tutti gli stabilimenti sono messi in competizione per ridurre i costi e ottenere nuove missioni produttive

JEAN PIERRE MERCIER - DELEGATO SINDACALE SUD STELLANTIS POISSY Noi siamo quelli che hanno fabbricato il record 17 miliardi di utili di Stellantis 2022. Noi non facciamo auto, facciamo oro.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO A poca distanza dalla manifestazione, sulle rive della Senna, Stellantis sta costruendo il suo nuovo centro direzionale.

DIEGO PETROLO - RSA ENTI CENTRALI MIRAFIORI Questo qua è lo stabilimento di ricerca, Sviluppo e Tecnical Center.

MANUELE BONACCORSI Che è un po’ una funzione che hanno levato a Torino

DIEGO PETROLO - RSA ENTI CENTRALI MIRAFIORI È evidente che si va verso la concentrazione delle attività. Come entri centrali Siamo passati nel giro di un anno e mezzo da 7200 addetti a 6200 e nel piano di riduzione di quest'anno ce n’è altri 800 in uscita

TOMMASO PARDI – DIRETTORE GERPISA - RICERCA INTERNAZIONALE AUTOMOTIVE Tavares si è descritto come uno psicopatico della performance. È così che si descrive.

MANUELE BONACCORSI Parla di se stesso?

TOMMASO PARDI – DIRETTORE GERPISA - RICERCA INTERNAZIONALE AUTOMOTIVE Lui, di stesso, sono uno psicopatico della performance e ha fatto arrivare da Renault la metà della squadra di direzione che c'è adesso. E questo gruppo si chiamano tra di loro gli ayatollah della riduzione dei costi. Lui mette in concorrenza tutte le unità di ingegneria, tutte le unità di produzione, tutte le marche tra di loro, in un contesto in cui le risorse sono molto limitate. Come le ho detto, è spietato, spietato.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Il presidente Emmanuel Macron nel 2021 ha lanciato un piano da 8 miliardi per l’automotive, con lo slogan della reindustrializzazione della Francia. Un ruolo importante lo gioca la Banca d’investimento pubblica, la BPI, colosso capace di investire nell'economia 27 miliardi di euro nel solo 2023. La BPI è presente all’interno dell’azionariato del gruppo Stellantis con una quota del 6%. Nicolas Dufourcq è il direttore e siede nel cda dell’azienda automobilistica.

NICOLAS DUFOURCQ – AMMINISTRATORE DELEGATO BPI FRANCE - CDA STELLANTIS Il 30% del nostro giro d’affari è nell’automobile. Finanziamo le batterie elettriche e la ricerca sull’idrogeno. È per questo che lo Stato francese ha dato importanti sovvenzioni per l’apertura di una grande fabbrica di batterie, che nascerà a Douvrin, nel nord.

MANUELE BONACCORSI A quanto ammonta il contributo pubblico per la nascita di questo stabilimento?

NICOLAS DUFOURCQ – AMMINISTRATORE DELEGATO BPI FRANCE - CDA STELLANTIS 700 milioni di euro.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO A Duvrin è in costruzione la prima gigafactory prevista da Stellantis. A inaugurarla è stato anche il nostro ministro del Made in Italy, Adolfo Urso. Una fabbrica simile dovrebbe nascere a Termoli, in Molise, anche in questo caso col sostegno dello Stato.

MICHELE DE PALMA - SEGRETARIO GENERALE FIOM CGIL Sono stati investiti 300 milioni dallo Stato italiano per fare la transizione dello stabilimento da endotermico a produzione di batterie. E ad oggi di certo sui tempi non c'è nulla. Noi abbiamo una grande preoccupazione: se in Italia non si fanno più di un milione di veicoli, il rischio è che noi produciamo batterie, ma le batterie si producono dove si fanno le auto.

MANUELE BONACCORSI Però la Francia ne ha messi 700 per la Gigafactory francese a Duvrin.

MICHELE DE PALMA - SEGRETARIO GENERALE FIOM CGIL Sicuramente c'è una dinamica competitiva tra i Paesi europei.

MANUELE BONACCORSI Vista dall'Italia, si ha l’impressione che nel momento in cui ci saranno dei posti di lavoro da tagliare, la vostra presenza impedirà che questi tagli avvengano in Francia.

NICOLAS DUFOURCQ – AMMINISTRATORE DELEGATO BPI FRANCE - CDA STELLANTIS Bisogna distinguere. La BPI è un fondo sovrano, un investitore professionale. Altra cosa è il dialogo tra l’azienda e il governo francese. Non è perché noi siamo nel capitale di Stellantis che sarà favorita la Francia.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO In effetti la francese Psa, già prima della fusione, era uno dei gruppi che più di altri aveva spostato la produzione in Est Europa e in Marocco. È di quest’anno l’annuncio dell’apertura di un nuovo stabilimento a Orano, in Algeria, dedicato alla produzione di veicoli con marchio Fiat, ufficialmente per il mercato interno africano.

NICOLAS DUFOURCQ – AMMINISTRATORE DELEGATO BPI FRANCE - CDA STELLANTIS È interesse comune tra Francia e Italia essere presenti in quel mercato.

MANUELE BONACCORSI Lei sa se la produzione che sarà fatta a Orano sarà destinata anche al mercato europeo o solo al mercato africano?

NICOLAS DUFOURCQ – AMMINISTRATORE DELEGATO BPI FRANCE - CDA STELLANTIS Non è stato ancora deciso. Oggi il Maghreb è alimentato dalle esportazioni europee. Magari domani magari gli stabilimenti magrebini potranno rifornire il mercato interno.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Mentre in italia decine di migliaia di operai finiscono in cassa integrazione o finiscono con lo smontare pezzi di auto usate, in Algeria viene costruito un nuovo stabilimento che produrrà macchine a marchio Fiat. Sono destinate al mercato africano, ma non si esclude che possano entrare poi in quello europeo, almeno non lo esclude, il membro del cda di Stellantis, rappresentante della Banca francese Dufourcq. Però alla luce di questa situazione il governo italiano continua a stare zitto dopo gli investimenti pesanti che ha fatto nel gruppo? Anche perché, insomma, il gruppo Stellantis sta accumulando dei profitti incredibili, 16 miliardi di profitti netti, e continua a staccare dividendi favolosi, 4,2 miliardi. Il paradosso è che li ha realizzati a fronte di una produzione di auto molto bassa, tra le più basse degli ultimi 40 anni della sua storia. Ma questo perché? Perché intanto è favorita da un contesto: ci sono poche offerte di auto, c’è tanta richiesta, quindi quelle auto, poche auto che produce può metterle a prezzi alti. E poi ci sono i costi che vengono spalmati sulla collettività, come per esempio le ore di cassa integrazione dei suoi operai, e poi godono di tantissimi incentivi pubblici, come abbiamo visto. In un contesto come questo aggiungi poi un maniaco della performance come lui stesso si definisce Carlos Tavares, che è sostanzialmente il manager abile anche a stimolare la competizione tra reparti che sono stati impoveriti di risorse umane. Ecco l’idea di Henry Ford, che era sostanzialmente il padre dell’automobile mondiale americano, aveva l'idea che ogni operaio dovesse essere in grado di comprare l’auto che produceva e questo era un beneficio anche per l’industria perché poteva vendere più auto anche agli operai. Oggi, invece, quelli di Stellantis non sono in grado in un anno di comprarsi l’automobile che producono. Mentre dall’altra parte c’è il Ceo Tavares che ha accumulato emolumenti e premi di produzione per la bellezza di 23,4 milioni. È Il manager più pagato dell’ industria automobilistica europea. Quello Tavares guadagna in mezza giornata, un operaio lo guadagna in un anno. 

Estratto dell’articolo di Carlo Terzano per startmag.it il 5 giugno 2023.

Che Carlo De Benedetti, patron del quotidiano Domani, non ami troppo i nuovi proprietari della sua vecchia Repubblica non è certo un mistero. Difficile dimenticare le parole con cui l’ingegnere salutò la decisione di John Elkann di affidare la direzione del giornale fondato da Eugenio Scalfari a Maurizio Molinari, arrivato dal quotidiano torinese La Stampa. 

Non deve quindi sorprendere se l’attuale testata finanziata dall’imprenditore nato a Torino (ma ben poco sabaudo nei modi) dia volentieri ospitalità ad articoli contro Stellantis come quello in pagina oggi: “Le amnesie di Elkann sugli aiuti di stato al gruppo Fiat”.

“Per il clan Agnelli l’Italia è da sempre un parente povero; se ne vergogna, non trovandolo alla sua altezza”, è l’incipit sferzante dell’editoriale firmato dall’economista Salvatore Bragantini. “Al Festival Internazionale dell’Economia John Elkann ha detto: «Gli stati entrano nelle imprese quando vanno male e Stellantis va molto bene…nella nostra storia che nasce come Fiat tre secoli fa che poi è evoluta con Fca e oggi è Stellantis, non abbiamo mai avuto nessun bisogno di avere lo stato nel nostro capitale». Tali parole – chiosa l’editorialista – non avrebbero sorpreso, nella loro fintamente candida spudoratezza, il defunto salvatore della Fiat, il ruvido Sergio Marchionne”.

“Che Fiat sia nata tre secoli fa è lo svarione, ridicolo e irrilevante, d’un affannato copywriter; che però non abbia mai dovuto far entrare lo stato in azienda è una mezza verità legale e, se non una reale balla, una sicura burla”, si legge sul quotidiano di De Benedetti. 

Quindi l’economista ricorda: “Nella sua storia Fiat ha avuto più volte bisogno d’una partecipazione statale ma, potendo scegliere, ha preferito incassare in modi meno vincolanti.  Dal tradizionale freno al trasporto su ferro, ad Alfa Romeo, che Fiat comprò dallo Stato non per svilupparla, ma per ridurla in soggezione, levare di mezzo un concorrente e tener fuori Ford dalla riserva di caccia italiana, agli eco-incentivi ecc. Per Massimo Mucchetti (Corriere, 6 febbraio 2010) «…la storia della Fiat gronda di aiuti pubblici, com’è stato ampiamente documentato anche dall’indagine parlamentare del 2002».”

“Vera è l’affermazione di Elkann – sentenzia Bragantini – per il Codice, falsa invece per le finanze pubbliche, donde nell’ultimo mezzo secolo sono sgorgati 200 miliardi di euro. Del tutto errata è infine la prima affermazione; gli stati non entrano nelle imprese solo perché vanno male, mossa sbagliata e frequentissima, ma anche per altre ragioni, legate all’idea – per molti sfuggente come un noùmeno – dell’interesse dello stato.

Per difenderlo – chiosa l’economista – sarebbe desiderabile che Cdp, o altra entità pubblica nostra, assumesse una partecipazione in Stellantis, analoga al 6 per cento lì detenuta dalla Francia tramite Bpi France.” 

Del resto, quanto riportato sul Domani corrisponde al vero. Anzi, a voler mettere qualche numero di contorno, si può ricordare un vecchio articolo di Start che elencava nel dettaglio gli aiuti di Stato incassati da Fca in un solo lustro, 2005 – 2010, grazie all’elaborazione del giornalista e saggista Marco Cobianchi: 

28 luglio 2005: 81 milioni per investimenti in Campania, Molise e Piemonte 

2005: 40,5 milioni per investimenti ad Atessa (Chieti) 

26 giugno 2009: 300 milioni di euro dal Cipe per investimenti a Pomigliano

19 gennaio 2010: 1,8 milioni a Fiat Powertrain 

29 aprile 2009: 37,3 milioni per la Lancia Ypsilon 

2011: 22,5 milioni alla Powertrain; 18,7 all’Iveco di Foggia; 11,2 alla Sevel di Chieti 

Una delle società maggiormente finanziate dallo Stato è stato il Crf, il Centro Ricerche Fiat. Ecco una parte (infinitesimale rispetto al totale) dei soldi incassati: 

2008: 1,1 milioni di contributo e 5,9 di credito agevolato 

2008: 10,3 milioni 

2009: 5 milioni di contributo alla spesa

2009: 9,3 milioni di contributo alla spesa 

2010 1,9 milioni 

2010: 5 milioni (dalla Regione Piemonte) […]

Questioncine d’Agnelli. Giovanni Vasso su L'Identità il 3 Giugno 2023

Con il ditino alzato, John Elkann striglia la politica e chiede ai governi e alle istituzioni Ue regole certe per garantire un futuro all’automotive. Le parole di Elkann sono nette: “Il mondo dell’automobile e della mobilità sta vivendo tantissime sfide in termini di innovazione e di tecnologia. Queste sono imposte da regole, il mercato in cui operiamo è un mercato regolato. Chi fa le regole, cioè i governi hanno la grossissima responsabilità di definire quali sono le regole del gioco”. Elkann pretende certezze: “Per un’industria come la nostra è importante la stabilità di queste regole, perché gli investimenti che noi facciamo hanno portate lunghe. I nostri progetti hanno una vita di decenni. La cosa più importante è avere un quadro di regole chiaro e stabile. Questa è la parte più importante di cui abbiamo bisogno per poter operare e poter investire”.

Del resto, John Elkann rivendica, davanti alla platea del festival dell’Economia, che “dai risultati che abbiamo avuto nel 2022 siamo in valore assoluto la società nel settore dell’automobile che ha avuto i risultati operativi più alti e nella nostra storia che nasce come Fiat tre secoli fa che poi è evoluta con Fca e oggi è Stellantis non abbiamo mai avuto nessun bisogno di avere lo Stato nel nostro capitale”. Ed è proprio così. Dentro il capitale mai, ma come generoso finanziatore esterno spesso e volentieri. La storia del nostro Paese è piena di “salvataggi” Fiat. Ma John Elkann crede, evidentemente, alla cancel culture: “Penso che gli Stati entrano quando le imprese vanno male e Stellantis va molto bene”. Adesso. Anche grazie ai fondi delle tasse pagate dagli italiani. Basterebbe solo scorrere la sfilza di finanziamenti piovuti a Fiat da Regioni e Stato dal 2000 in poi per farsene un’idea. Ma Elkann ha ragione quando dice che la politica non riesce a fissare, rigidamente, alcune regolette base. E perciò s’è ritrovata a sovvenzionare, per anni, imprese (come quella di famiglia) che alla prima occasione utile delocalizzano, fissando la propria sede legale addirittura fuori dall’Italia. Così come è accaduto per Fiat che, oggi, è un marchio (centrale) di Stellantis, il gigante dell’automotive che ha sede legale ad Amsterdam e prima sede operativa nel “vialone” di Taurusavenue a Hoofdoorp, città olandese di 80mila abitanti. John Elkann ostenta il “laboratorio Italia” che è diventato quello del mondo, con la produzione per gli Usa fatta tra Campania, Basilicata e Piemonte. Stabilimenti “blindati” dalla mano pubblica, Stato e Regioni, nell’era Marchionne, quella dei referendum in fabbrica. Ma certe cose è meglio dimenticarle. Cancel culture o, più semplicemente, questioncine d’Agnelli.

Estratto da ilmigliorista.eu il 24 gennaio 2023.

Nella fluviale intervista che si è fatto fare dai giornali di casa, “la Repubblica” e “La Stampa”, nel ventennale della scomparsa di Giovanni Agnelli, John Elkann ha concluso con un attacco alle banche la rievocazione dell’illustre nonno che l’aveva incoronato. Riferendosi alla gravissima crisi del 2003, l’erede del senatore a vita Agnelli, ha detto: “Il sistema bancario e finanziario italiano, che da sempre aveva beneficiato della Fiat, in quel momento non ci ha sostenuto. Una vera e propria violenza, aumentata con la scomparsa di mio zio Umberto nel 2004. Ma quello è stato anche il momento in cui la mia famiglia si è unita per fare fronte comune, rafforzando il nostro legame con la Fiat ed esercitando le responsabilità che ne derivavano”. Da non credere.

Nel 2003, la Fiat era ormai prossima al fallimento. È storia patria. Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, aveva addirittura fatto analizzare la possibilità di salvare la Fiat Auto attraverso la nazionalizzazione. […]

 Ebbene, nel 2003, proprio quando il dramma stava per finire in tragedia, furono le banche, allertate e organizzate dalla Banca d’Italia, a fornire tre miliardi di euro alla Fiat attraverso un prestito obbligazionario convertendo che così si chiamava perché nel 2005, in mancanza di rimborso, sarebbe stato automaticamente convertito in azioni.

Le banche procurarono quell’ossigeno anche per proteggere i propri crediti verso la Fiat e l’indotto? Certo, è un buon argomento. E l’intervento del governatore Antonio Fazio ne è un’indiretta conferma. Ma Elkann dovrebbe ugualmente ringraziare le banche per quel convertendo. O no?

 E poi il nipote dovrebbe ringraziare le banche una seconda volta perché queste stesse banche vendettero subito e alla cieca le azioni Fiat che erano finite nei loro portafogli alla conversione del convertendo. Avrebbero potuto tenersele, quelle azioni, e formare un fronte con una partecipazione aggregata analoga a quella delle holding degli Agnelli ma infinitamente più robusta sul piano finanziario.

Forti di quella posizione, le banche avrebbero potuto scommettere sul rilancio della Fiat, al quale stava lavorando Sergio Marchionne. E vendere più avanti, guadagnando. Avrebbero con ciò fatto ombra agli Agnelli? Ne avevano tutto il diritto. Anzi, visto il successivo apprezzamento del titolo, ne avrebbero avuto il dovere di fronte ai propri soci.

 Ma del senno di poi sono piene le fosse. E tuttavia, se non avevano capito subito il valore di Marchionne e dunque se volevano uscire al più presto dal rischio Fiat, le banche avrebbero anche potuto cedere le loro azioni Fiat alla cordata guidata da Roberto Colaninno e dalla Lehman, che avevano in mente piani analoghi a quelli di Marchionne. Sarebbe stata l’occasione per lucrare un sovrapprezzo e/o un earn out. E invece le banche hanno venduto sul mercato. Subito e in perdita, perché la cura Marchionne era ancora agli inizi. Imprevidenza? Sudditanza psicologica alla famiglia Agnelli? Resta il fatto che, in tal modo, le banche hanno lasciato il pieno controllo a Elkann. Che adesso mette loro le dita negli occhi. Mah. Ma non è finita.

A nome del nonno, Elkann avrebbe dovuto ringraziare il “sistema bancario e finanziario”, guidato ante 2003 da Mediobanca, anche per altre ragioni. L’erede del senatore a vita potrebbe chiedere ai suoi uffici il rendiconto di quanto la Fiat ha investito in Mediobanca e di quanto ha ricevuto. Scoprirà che, sul piano storico, è debitore.

Non solo sul piano degli investimenti, ma anche sul piano del potere. Fu infatti Mediobanca a sostenere il risanamento della Fiat operato da Cesare Romiti negli anni di ferro del terrorismo tagliando l’erba sotto i piedi a Carlo De Benedetti che vi si era introdotto con ambizioni dominio. E fu ancora Mediobanca a orchestrare e garantire l’aumento di capitale del 1993, che salvò la Fiat da un’altra, grave crisi. Un aumento di capitale al quale, in forza delle piramidi societarie del tempo, la famiglia Agnelli poté partecipare con un esborso risibile. […]

Estratto dell’articolo di Massimo Giannini per “La Stampa” il 24 gennaio 2023.

 Il 24 gennaio del 2003 se ne andava Gianni Agnelli. […] John Elkann […] racconta il passato e soprattutto il futuro della più importante famiglia del capitalismo italiano. […] «Proprio da mio nonno […] ho imparato che ciò che conta è andare avanti, non fermarsi. Il suo ottimismo nasceva dalla fiducia nell’individuo e nella sua libertà. […]».

[…]

L’EUROPA, L’AMERICA E UN DESTINO COMUNE

L’orizzonte della famiglia e del gruppo è il mondo globale, ma prima ancora è l’Occidente, i suoi valori, il suo comune destino. «Il nonno è sempre stato convinto che più l’Italia si integrava nell’Unione Europea, più si sarebbe rafforzata. […] L’altra sua convinzione profonda era l’atlantismo, il rapporto con gli Stati Uniti […] Quello che Agnelli non poteva prevedere è Donald Trump, l’assalto a Capitol Hill e alla democrazia americana. «Lui era convinto che le istituzioni americane fossero comunque più forti degli individui. […]».

LA “NUOVA ITALIA” DI GIORGIA MELONI

[…] Giorgia Meloni: «È il primo premier donna e ha una grande opportunità: costruire un Pese più forte. […] le decisioni essenziali prese in passato, come l’adesione al sistema europeo, alla Nato, ai valori dell’Occidente, siano una grande opportunità per l’Italia. Certo, va salvaguardata e valorizzata la democrazia, […]».

IL LEGAME CON TORINO

Per l’Avvocato le cose che contavano di più erano la Fiat, l’Italia e Torino. Ma la città-fabbrica non c’è più. Cos’è diventata? «Torino ha investito su sé stessa, a partire dai giochi olimpici del 2006. […] A Torino è nata Newcleo, mini-reattori per la fissione nucleare di quarta generazione. La missione, in fondo, è sempre la stessa: credere nel futuro».

MIRAFIORI, STELLANTIS E LA MISSIONE CHE CONTINUA

Mirafiori sta diventando il laboratorio di un cambiamento non solo produttivo, ma anche urbano e socio-culturale. […] Eppure c’è chi continua a sostenere che la famiglia stia abbandonando Torino. «Parlano i fatti. Il piano di investimenti di 5 miliardi per l’Italia è il più grande di tutta la nostra storia e ha permesso a Mirafiori di essere uno stabilimento d’avanguardia mondiale. […]».

FCA E LA “SVOLTA FRANCESE”

Guardando al futuro, resta un dubbio ricorrente: a Torino resterà la memoria, mentre il cuore sarà ad Amsterdam e il cervello finirà a Parigi? «Lascio rispondere i numeri. Dal 2003 ad oggi i ricavi dell’auto passano da 22 a 130 miliardi (dato che riguarda solo i primi nove mesi del 2022). I modelli crescono da 22 a più di 100, i marchi da 4 a 14. Le persone che ci lavorano erano 49 mila e ora sono 280 mila. Con Stellantis abbiamo valorizzato il marchio Fiat: la 500 elettrica dal prossimo anno sbarcherà negli Usa. Abbiamo rilanciato Maserati e Alfa, e stiamo rivalorizzando Lancia. E oggi produciamo in Italia e vendiamo in tutto il mondo […]». La ricerca continua di un partner internazionale era già chiara ai tempi dell’Avvocato: «L’Avvocato ha sempre avuto la preoccupazione delle dimensioni della Fiat. Diceva che fare automobili è un mestiere per giganti. Grazie prima all’accordo Chrysler che ha portato alla nascita di FCA e poi all’accordo con Peugeot, abbiamo dato vita a Stellantis, seguendo la strada che mio nonno ha indicato nei trent’anni della sua presidenza».

CON STELLANTIS, NESSUNA VENDITA

Ma anche in questo caso c’è chi obietta che Stellantis non è una fusione alla pari, ma una vendita di Fiat ai francesi. «Non abbiamo venduto proprio niente: abbiamo anzi comprato Chrysler per creare FCA. E poi ci siamo fusi con PSA dando vita a un gruppo con una governance molto chiara: in Stellantis io sono il presidente esecutivo e al nostro fianco c’è la famiglia Peugeot a cui siamo legati da un accordo di consultazione. Insieme sosteniamo il piano di sviluppo a lungo termine Dare Forward, presentato dall’AD Carlos Tavares e dalla sua squadra. Come si fa a parlare di vendita?». […]

L’ECONOMIA E IL CAPITALISMO CHE CAMBIA

[…] per Elkann […] l’economia italiana […] sta meglio di come viene raccontata: «[…] Eravamo un’economia di fornitori di beni industriali e strumentali, mentre oggi l’Italia sta emergendo anche a livello di prodotto finito. […] mio nonno […] ha sempre difeso la capacità italiana di fare una sintesi del bello e dell’utile, facendo leva su di un patrimonio storico e artistico che non ha eguali. […]».

LA JUVENTUS, CROCE E DELIZIA

Da sempre il gioiello di famiglia, la Juventus di oggi farebbe soffrire molto l’Avvocato. Le inchieste societarie, e ora anche la stangata della giustizia sportiva, con la penalizzazione di 15 punti. Come vive John Elkann questi tormenti calcistici ed extra-calcistici? «[…] L’ingiustizia di questa sentenza è evidente: in molti l’hanno rilevato, anche non di fede bianconera, e noi ci difenderemo con fermezza per tutelare l’interesse dei tifosi della Juve e di tutti quelli che amano il calcio. Spero che insieme alle altre squadre e al Governo possiamo cambiare il calcio nel nostro Paese, per costruire un futuro sostenibile e ambizioso. La Juventus non è il problema, ma è, e sarà sempre, parte della soluzione. Qui è in gioco il futuro della serie A, che sta diventando marginale e irrilevante».

LA FERRARI, LA VELA DI SOLDINI

A parte il calcio, tra le grandi passioni dell’Avvocato ci sono la Ferrari e la vela. Sul “Cavallino Rampante”, il ventennio è in chiaroscuro. «[…] abbiamo molto da fare per tornare a quei primati». […]

 L’EDITORIA, GEDI E IL RUOLO DEI GIORNALI

Gianni Agnelli amava i giornali. La Stampa era in ogni senso il “suo” giornale. […] «Prima di tutto a mio nonno farebbe piacere vedere che la sua famiglia è primo azionista dell’Economist (che lui leggeva ogni settimana), consolidando il suo ruolo di punto di riferimento per il mondo libero. La stessa cosa vale per La Stampa, che ha mantenuto e manterrà quella tradizione laica, liberale e progressista in cui lui ha sempre creduto. […]».

Alle partecipazioni editoriali, da tre anni, si è aggiunta definitivamente Repubblica, ora al centro di voci su una possibile vendita. Cosa risponde Elkann? «Sono voci che mirano a generare instabilità. Repubblica è parte integrante di Gedi, una bellissima organizzazione editoriale […]».

 L’EREDITÀ E I CONFLITTI IN FAMIGLIA

[…] Parliamo del conflitto sulla successione aperto dalla mamma, Margherita Agnelli. «È una vicenda molto triste. Mia madre ha riaperto la questione ereditaria subito dopo la morte del nonno, in modo inatteso e in un momento particolarmente difficile, perché tutto ciò che lui aveva realizzato sembrava vacillare. Per lui questa scelta sarebbe stata inaccettabile, perché contraria a tutto ciò in cui credeva».

Il dubbio è se non ci sia stata anche una qualche leggerezza dell’Avvocato nella gestione dell’eredità. «Per nulla, anzi – risponde Elkann - lui nelle sue disposizioni ha seguito lo schema tracciato da suo nonno. La sua indicazione è stata molto chiara: meno chiara è stata mia madre, che ha manifestato le sue contrarietà solo quando lui non c’era più. La verità è che in quel 2003 molti hanno pensato che per la Fiat i giochi erano finiti […]».

 […] «[…] come famiglia ci siamo sentiti attaccati molto duramente, sia dall’interno che dall’esterno. E in modo inaccettabile, devo dire, perché il sistema bancario e finanziario italiano che da sempre aveva tratto benefici dalla Fiat, in quel momento non ci ha sostenuto. Abbiamo fronteggiato una vera e propria violenza, che è aumentata a seguito della morte di mio zio Umberto. […]». […]

Il discorso (a giornali unificati) di John Elkann alla nazione. Giovanni Capuano su Panorama il 24 Gennaio 2023

Intervistato dai suoi direttori, il numero uno di Exor ha scelto il ventennale della morte dell'Avvocato per togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Nel mirino la madre Margherita, il sistema bancario e chi lo accusa di aver chiuso l'era Fiat

Due pagine su Repubblica e due su La Stampa. Intervistato da Ezio Mauro e Massimo Giannini, i suoi direttori. John Elkann ha scelto di giocare in casa per raccontare la sua visione di Italia, dietro il paravento della celebrazione del ventennale della morte dell'Avvocato Gianni Agnelli. L'uomo da cui - circostanza messa in bella evidenza per evitare interpretazioni differenti - ha raccolto l'investitura a guida della Famiglia in mezzo alle turbolenze di un periodo storico complesso sia per il contesto economico che per le vicende aziendali e famigliari. Una comfort zone in cui John Elkann si è preso, da padrone di casa, spazio e tempo necessari per recapitare al mondo fuori la sua visione di Italia e per togliersi non pochi sassolini dalla scarpa.

In un caso, quello della contesa per l'eredità con la lite ormai ventennale che contrappone Margherita al resto della famiglia, per tracciare un giudizio netto e inappellabile: è lei che ha sbagliato e sbaglia, "che ha riaperto la questione subito dopo la morte del nonno in maniera inaspettata" e che è stata "meno chiara" rispetto alle indicazioni date dall'Avvocato. Il motivo? "In quel 2003 molti hanno pensato che per la Fiat i giochi erano finiti e la storia che durava da un secolo si stava disfacendo" la risposta di Elkann. Tra quei molti, evidentemente, anche la madre Margherita. E poi punture di spillo e schiaffi (metaforici) a chi lo ha accusato di aver venduto l'azienda nel portarla nelle braccia dell'alleanza con Peugeot da cui è nata Stellantis, di aver abbandonato Torino al suo destino (elencando la mole di investimenti fatti negli anni Duemila sulla città, scommessa olimpica compresa), di aver smesso di fare auto per inseguire altro. Di avere, in estrema sintesi, chiuso davvero la storia secolare della Fiat cambiandole pelle e missione per sempre, portandola fuori dall'Italia, recidendo il legame che nel Dopoguerra e per lunghi decenni ha reso la Famiglia Agnelli la vera famiglia reale italiana. Capace di indirizzare scelte politiche ed economiche, di incidere sul costume, di dettare i tempi dei cambiamenti sociali. Macigni quelli tolti dalle scarpe e indirizzati al sistema finanziario e bancario italiano: "Ci siamo sentiti attaccati molto duramente dall'interno e dall'esterno - ha puntualizzato Elkann riferendosi al biennio della morte di Gianni e Umberto Agnelli -. E il sistema bancario e finanziario italiano che da sempre aveva beneficiato della Fiat, in quel momento non ci ha sostenuto". Non un semplice passaggio turbolento ma "una vera e propria violenza". Parole scelte con cura e misura. Anche sugli asset di maggior esposizione pubblica, John Elkann ha voluto puntualizzare dal salotto di casa. A partire dalla Juventus travolta dagli scandali e fresca di stangata da parte della giustizia sportiva. "L'ingiustizia di questa sentenza è evidente" è la posizione del numero di uno di Exor, l'azionista di maggioranza, l'uomo cui guardano milioni di tifosi bianconeri consapevoli di avere davanti mesi di sofferenza e rischi, ma anche di essere sorretti alle spalle da una proprietà solida e munifica. Che in tre anni ha già messo 700 milioni di euro a fondo perduto nel club, che ha guidato un violento ricambio manageriale che ha coinvolto anche il cugino Andrea del quale, però, nel discorso a giornali unificati non si pronuncia il nome. La sensazione: guai a toccare la Juventus oltre il consentito dalla necessità di chiudere le partite con il passato. E guai a immaginare un futuro senza centralità: "Spero che insieme alle altre squadre e al Governo possiamo cambiare il calcio nel nostro Paese. La Juventus non è il problema, ma è e sarà sempre parte della soluzione". Nessuna domanda sulla Superlega e sulla scalata al fortino del calcio europeo. L'ultima sfida (per ora persa) del cugino caduto in disgrazia. Se è vero che la Fiat, così come il sistema industriale italiano, da sempre è stato ed è filo governativo, il colloquio di John Elkann con i suoi direttori conferma che la linea non è cambiata. Carezze per Giorgia Meloni ("E' il primo premier donna, ha la possibilità di costruire un Paese più forte"), il Quirinale ("In un momento difficile per l'Italia le istituzioni hanno tenuto") e per chi governa il Piemonte e Torino. Nessuna sorpresa, insomma. Ma anche meno guizzi di quelli cui per decenni ha abituato l'Avvocato oggi celebrato.

Lapo Elkann.

Il rampollo di casa Agnelli. Lapo Elkann e il condono: storia un perdono da 16,7 milioni e di un Cristiano (CR7) generoso. Un’avventura nel mondo degli occhiali di lusso che finisce con un maxi accordo: i creditori reclamavano quasi 24 milioni di euro. Redazione su Il Riformista il 14 Novembre 2023

Lapo Elkann è stato perdonato come raramente accade dai suoi principali creditori, e potrà ricordare a lungo il 2023 come l’anno della misericordia. La sua principale creatura- Italia Independent- era a un passo dal fallimento, ma è riuscita a restare in piedi grazie a un accordo transattivo che ha cancellato in un colpo 23.980.000 euro di debiti. Al grosso hanno rinunciato le grandi banche, ma ha pesato pure Cristiano Ronaldo che non ha perdonato la Juventus, condonando invece all’amico Lapo 2,8 milioni di euro.

La storia non proprio di successo degli occhiali di Lapo ha creato un problema non proprio marginale ad alcune banche italiane, perché il loro perdono le costringe a classificare come perdita secca il rapporto con quel gruppo. La banca che ci ha rimesso di più è stata Unicredit, perdendo fra capogruppo e società operativa 8,5 milioni di euro. Guaio anche per Banca Ifis che alla fine ha rinunciato a 4,8 milioni di euro di crediti vantati. Terzo posto in classifica per Bnl con 4,1 milioni di euro persi. Seguono poi Intesa San Paolo (2,8 milioni), Banco Bpm spa (2,3 milioni) e Banca del Piemonte che ha dovuto cancellare 1,1 milioni di euro di crediti.

Per Lapo Elkann una voragine finanziaria

Se tutti sono stati generosi con Lapo (gli accordi hanno riguardato 23 creditori della capogruppo e 71 creditori della società operativa), per il diretto interessato quell’avventura è stata una vera voragine finanziaria. Oggi risulta pure lui fra i creditori costretti al perdono per ricavare qualcosa, e alla fine ha condonato a se stesso 232.895,763 euro. Ma è una cifra piccolissima rispetto ai veri soldi sborsati e finiti nella voragine dei conti: 25 milioni di euro fra il 2016 e il 2022 a titolo di aumento di capitale o in prestiti al cui rimborso ha dovuto poi rinunciare. E oggi 12,8 milioni di euro di prestito socio necessari a non fare fallire nessuna delle sue società e a pagare almeno quelle minime percentuali ai creditori. Un finanziamento che difficilmente sarà mai restituito: in tutto fanno quasi 38 milioni di euro buttati nell’avventura.

Gli accordi transattivi hanno riguardato la capogruppo Italia Independent Group (IIG) con banche e fornitori che hanno rinunciato al 90% dei loro crediti e con la società operativa quotata in borsa Italia Independent (II) dove l’accordo è stato un pizzico meno generoso, cancellando solo l’80% dei crediti vantati. È in questo elenco che figura Cristiano Ronaldo, che incassava per un contratto valido fino al 31 dicembre 2024 un minimo garantito di royalties per cui vantava un credito di 3,5 milioni di euro nei confronti di Lapo. Con l’accordo firmato CR7 incassa 718.863 euro e rinuncia per sempre ai restanti 2.875.453,8 euro. Davvero un atto di amicizia.

Colpa di Enea Bastianini e delle sue performance scadenti

Alla fine del 2022 per la capogruppo il patrimonio netto era negativo di 6,4 milioni di euro e le perdite complessivamente portate a nuovo negli anni ammontavano a 65,2 milioni di euro. Per la società operativa invece il patrimonio netto era negativo per 28,7 milioni di euro e le perdite 2022 ammontavano a 11,7 milioni di euro. In entrambe le società la società di revisione Revi.Tor non ha certificato i bilanci per «impossibilità di esprimere un giudizio». Cosa non ha funzionato per Lapo Elkann? Nella lettera inviata al tribunale di Ivrea per l’omologa dell’accodo con i creditori si spiega che la prima e la seconda ondata Covid hanno messo ko il business proprio quando avrebbe dovuto ripartire e funzionare.

Nella stessa missiva però un pizzico di colpa viene scaricata su un campione di motociclismo, Enea Bastianini, che in realtà è stato uno delle sorprese del Moto GP a cui inizia a partecipare nel 2021 con ottimi risultati. Questo per tutti, ma non per i collaboratori di Elkann che scrivono: «Nel tentativo di rilancio che stava perseguendo la Società, nel 2021 è stato sottoscritto un accordo di sponsorizzazione con Enea Bastianini che prevedeva il lancio di una linea di occhiali a marchio Italia Independent al cui design hanno lavorato direttamente Lapo Elkann ed Enea Bastianini. Tuttavia, le performances sportive del pilota al primo anno di Moto GP non sono state tali da creare la notorietà necessaria a diffondere sufficientemente la linea di occhiali lanciata con il suo brand 23 Bestia». Redazione

Margherita Agnelli.

Maria, da cameriera degli Agnelli ad albergatrice: «Uscita da casa loro non avevo più paura di niente». Chiara Marsilli su Il Corriere della Sera martedì 28 novembre 2023.

Maria Varesco, 93 anni, è ancora la guida dell'hotel Torretta di Bellamonte a Predazzo. Per un anno ha lavorato da Susanna e Margherita Agnelli. «Stavo per mandare via Balotelli dall'hotel»

All’inizio fu nonno Basilio: un’osteria a fine Ottocento. Poi il papà Gustavo, prima una locanda con la sosta per i cavalli, e dopo un paio di appartamenti per ospitare i lavoratori della Diga di Forte Buso. Quella di Maria Varesco è una storia scritta nel sangue: e così oggi, a 93 anni, continua a gestire la sua creatura, l’hotel Torretta di Bellamonte a Predazzo, con la stessa verve pratica ed energica. Per tutti è la “Mariota da Mont”, ma al di là dei soprannomi la sua è una storia di buona imprenditoria, tenacia e azienda famigliare: da cameriera in casa Agnelli, Maria oggi lavora affiancata dalle due figlie Rita e Donatella e da pochi mesi è entrata nella squadra anche la nipote Sara. 

Tutte donne?

«Certamente. Se manca la mano di una donna in un albergo si vede subito. In Austria e in Germania quando si entra in un albergo si chiede subito della Köchin (cuoca). È questo che caratterizza la nostra azienda: quel tocco di familiarità». 

E lei come ha iniziato?

«Questo era un territorio in cui si lavorava molto con il fieno, ma d’inverno c’era poco da fare. Io e le mie sorelle ci siamo iscritte alla scuola alberghiera di Predazzo. Un giorno arrivano a chiedere se c’era qualcuno disposto ad andare a servizio per un mese da una ricca famiglia a Milano. Nessuna delle mie compagne voleva andare: in quegli anni non avevamo visto nemmeno Cavalese, andare a Milano era come andare in America!»

Ma lei è andata?

«Ho pensato “Non voglio mica morire avendo visto solo queste quattro montagne, per un mese non sarà così male”, e mi sono iscritta, senza sapere dove ero diretta. Sono finita in casa di Susanna e Margherita Agnelli. Doveva essere la sostituzione per una piccola operazione di appendicite del maggiordomo che era lì da 27 anni. Disgraziatamente morì di peritonite e io sono rimasta  a servizio più di un anno».

Che esperienza è stata?

«Ho imparato tante cose. Ho servito tante autorità ecclesiastiche, tanti politici. Non ho mai servito il Papa, ma poco ci mancava! Quando sono venuta via da quella casa non avevo più paura di niente».

Quindi il ritorno tra le montagne della Val di Fiemme e l’inizio della sua carriera come albergatrice.

«Mi sono sposata, avevo già una figlia e ne aspettavo un’altra. Ma mio marito non mi aiutava molto e dovevo lavorare per mantenermi. Avevo già gestito la casa di mio padre che era diventato un albergo, la Stella Alpina, e vidi che era in vendita una pensioncina per 20 milioni. Ho preso coraggio, sono andata in banca a chiedere il prestito solo con la mia firma: me l’hanno dato».

È l’inizio della storia della Torretta, dove lavora ancora adesso. È stato difficile?

«Bisognava lavorare per ripagare il debito, essere puntuali con le scadenze. Il territorio ha avuto fiducia in me e io ho lavorato per ricambiare questa fiducia e questa stima. La mia più grande soddisfazione è aver tirato su due figlie che sono brave albergatrici». 

Chissà quante storie ha vissuto in tutti questi anni di lavoro.

«(Risponde la figlia Rita) La zona di Bellamente ha sempre avuto una clientela medio-alta che qui cercava un posto dove staccare e rigenerarsi. Qualche anno fa è stato nostro ospite Balotelli e la mamma, non essendo molto sportiva e non avendolo riconosciuto, lo stava per mandare via.

(Riprende la parola Maria) E poi vicino al nostro albergo abbiamo la casa dei De Gasperi, con i quali c’era un’amicizia favolosa. Ho anche avuto la fortuna di conoscere l’Onorevole Moro, che era diventato amico di mio padre: aveva fatto entrambe le guerre e a Moro piaceva farsele raccontare».

Qual è il segreto del bravo albergatore e della brava albergatrice?

«Avere passione per questo lavoro, che non è sempre facile ma dà molte soddisfazioni. Non c’è orario, non c’è festa: quando è aperto bisogna lavorare. Quando ho iniziato io c’era tanta voglia di riscatto delle valli, erano anni diversi. Il cliente era meno esigente nei confronti di chi aveva appena iniziato a lavorare. Oggi se si prende un ragazzo o una ragazza a lavorare bisogna farlo crescere in breve tempo, fargli da scuola e stando al suo fianco. E non aver paura di trasmettere il nostro carisma: siamo orgogliosi di essere trentini e di essere fiamazzi»

Agnelli, i quattro trust in Svizzera della sorella dell’Avvocato e il 5% dell’impero Exor. Storia di Mario Gerevini su Il Corriere della Sera il 9 dicembre 2023.

C’è un pezzo dell’ in quattro sconosciuti trust svizzeri? Una transazione finanziaria conclusa a novembre con al centro il Gmg Trust di Ginevra — e di cui il Corriere ha ricostruito i passaggi — fa emergere le quattro casseforti svizzere riconducibili alla sorella di Gianni Agnelli, Cristiana, 96 anni, e ai suoi familiari. Il patrimonio

Nei trust dovrebbe esserci una parte del patrimonio di famiglia (370 milioni di asset, secondo i documenti contabili) e anche la quota della olandese Giovanni Agnelli bv, la ex accomandita che raggruppa circa 100 azionisti dei vari rami familiari e controllata al 38% da John Elkann tramite la società Dicembre. La partecipazione attribuita alla famiglia di Cristiana Agnelli (quattro figli con il nobile Brandolino Brandolini d’Adda sposato nel 1947) è tra le più rilevanti, circa il 5%. Fino a tempi recenti era in capo alla Pons Finance, una finanziaria lussemburghese di cui però non erano noti ufficialmente i soci. Quattro figli quattro trust

Torniamo dunque ai trust e andiamo indietro nel tempo al 18-20 dicembre 2018 per poi risalire al 15 novembre scorso. Il 18 Leonello Brandolini, uno dei figli, cede quote di una società di famiglia, la PF Holding, ai quattro trust che si chiamano Gmg, The Nuno Family, Calvin e Ion II. Il 20 i trust trasferiscono il 100% della Pons alla PF che a fronte del conferimento aumenta il capitale di 55 milioni. Quattro trust come i quattro figli di Cristiana e Brandolino (scomparso nel 2005): Tiberto Ruy, Leonello, Nuno e Brandino. Il manager Tiberto, 75 anni, il primogenito, negli anni ha avuto ruoli manageriali di vertice nel gruppo torinese e recentemente è stato (ri)nominato nel board della capogruppo Exor (Ferrari, Stellantis, Cnh, , Philips ecc). I trust hanno la funzione di proteggere patrimoni e sono gestiti dal trustee nell’interesse dei beneficiari. È probabile che nei quattro di Ginevra siano confluiti pro quota anche i beni ereditari di Brandolino.

L’operazione Gmg

Fino al 2022 Calvin e Ion erano gestiti da un trustee del Liechtenstein (Equilex). Oggi sono tutti in mano a fiduciarie svizzere tranne Gmg. Ed è intorno a questo trust che il 15 novembre scorso si sono mossi i capitali di Cristiana Agnelli. Un’operazione simultanea di vendita (da Gmg ad Agnelli) e di rivendita (da Agnelli a Gmg) di un pacchetto di azioni pari al 25% della holding di famiglia PF, quindi indirettamente della Giovanni Agnelli bv.

Fiduciaria milanese

Contestualmente è stato «licenziato» il trustee di Guernsey e «assunta» la milanese Cfn Generale Fiduciaria di Andrea Tavecchio. In sostanza, quindi, i quattro trust Agnelli-Brandolini che emergono dalle carte svizzere, custodiscono un patrimonio di cui la quota in Giovanni Agnelli bv è solo una parte secondaria, stando ai valori di bilancio. Su 370 milioni di immobilizzazioni finanziarie della holding PF (partecipata dai trust al 25% ciascuno) solo una cinquantina sono riferibili alla cassaforte olandese. Il resto è ben protetto dai trustee e da due avvocati dello studio ginevrino Lenz&Staehelin: Shelby Pasquier e Frederic Neukonn. Cristiana Agnelli è sorella di Gianni (morto nel 2003), Umberto (2004), Susanna (2009), Clara (2016) e Maria Sole e nipote del fondatore della Fiat Giovanni Agnelli.

Gli affari in Russia di Margherita Agnelli con l'eredità del padre Gianni: tra offshore e prestiti della banca di Putin. Le carte svelano gli interessi a Mosca della primogenita dello storico patron del gruppo Fiat. Attuati proprio mentre scoppiava la guerra in Ucraina. Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisti su L'Espresso il 21 novembre 2023

Un grande polo commerciale in un sobborgo residenziale molto esclusivo, alle porte di Mosca. Un prestigioso palazzo d’epoca, trasformato in una moderna sede per uffici, nel centro storico della capitale russa. Appartengono a compagnie anonime di Cipro, finanziate da società offshore collocate nei più riservati paradisi fiscali, da Panama alle British Virgin Islands. L’inchiesta giornalistica Cyprus Confidential ora rivela, per la prima volta, a chi fanno capo quei misteriosi investimenti per decine di milioni di euro nel cuore della Russia di Putin: la signora Margherita Agnelli e suo figlio Peter, che porta il cognome del padre, il nobile franco-elvetico Serge de Pahlen. 

L’Italia è collegata a queste operazioni immobiliari dall’origine dei soldi utilizzati per comprare quelle proprietà a Mosca: i fondi, come hanno dichiarato i diretti interessati, provengono dall’eredità del padre di Margherita, Gianni Agnelli, lo storico patron del gruppo Fiat e della Juventus, deceduto nel 2003. Gli affari in Russia di sua figlia Margherita sono continuati, come mostrano le carte di Cipro, anche dopo l’inizio della guerra in Ucraina, almeno fino alla primavera dell’anno scorso, quando si fermano i documenti disponibili. Tra febbraio e aprile 2022, in particolare, mentre la nazione europea veniva bombardata e invasa dalle truppe di Mosca, i fiduciari esteri della famiglia Agnelli de Pahlen trattavano un prestito da due miliardi di rubli (che oggi corrispondono a circa 20 milioni di euro) con Sberbank, la prima banca russa, che è di proprietà statale. 

Interpellata da L’Espresso, Margherita Agnelli ha chiarito, tramite il suo avvocato, che si tratta di «legittime attività di investimento», del tutto regolari «anche sotto un profilo fiscale».

Cyprus Confidential è il nome di un’inchiesta, coordinata dal consorzio Icij e da Paper Trail Media, che ha unito oltre 250 giornalisti di 55 nazioni, tra cui L’Espresso. I cronisti hanno esaminato 3,6 milioni di documenti riservati, provenienti da sei studi di Cipro che gestiscono società anonime per ricchi clienti di tutto il mondo, tra cui spiccano decine di oligarchi russi. L’inchiesta svela le manovre utilizzate per sfuggire alle sanzioni di guerra spostando miliardi attraverso reti di trust e offshore gestite dai consulenti di Cipro. In queste carte, mai pubblicate prima d’ora, compaiono anche diversi cittadini italiani molto in vista. Tra tutti, spicca il nome di Margherita Agnelli, che vive da anni in Svizzera e ha acquisito anche la cittadinanza elvetica: nel passaporto inviato a Cipro è  registrata come Margaret. 

Il suo investimento in Russia è intestato a una piramide di società offshore. Sul gradino più alto c’è una compagnia anonima costituita a Panama, con un nome marino, Seashell Holding Corporation. Questa capogruppo controlla, a cascata, una cordata di offshore intermedie, collocate in diversi paradisi fiscali, dalle Isole Vergini alle Bahamas, dove è lecito non pagare le tasse, né sui redditi né sui patrimoni. Al piano terra c’è la società chiave, Sandonia Limited, che ha la sede legale a Cipro e la filiale operativa in Russia.

Questa compagnia russo-cipriota ha ottenuto i permessi per costruire «centri per lo shopping» e «complessi di intrattenimento», cioè negozi, bar, ristoranti e altri locali, su circa otto ettari di terreni di sua proprietà a Yudovo, nel distretto di Odinstovo, alla periferia di Mosca. Un sobborgo descritto dai moscoviti come «zona residenziale di alto livello», con diverse «ville da nababbi». La catena di controllo di queste proprietà russe è cambiata poco prima dello scoppio della guerra in Ucraina. Fino al 2021 la capogruppo aveva sede a Panama e faceva capo a due azionisti: «Margaret» Agnelli con l’82,64 per cento, il figlio Peter de Pahlen con il restante 17,36. 

L’investimento in Russia attraverso la Sandonia Limited era già previsto nei documenti di qualche anno fa, trasmessi ai fiduciari a partire dal 2019. Nel 2022, però, la capogruppo cambia nome e giurisdizione: viene trasferita da Panama a Cipro, dove è ribattezzata Seashell Holding Ltd. Da quel momento l’unico azionista diventa Margherita Agnelli. La delibera che decide queste modifiche viene registrata in una data particolare: 14 febbraio 2022, dieci giorni prima dell’attacco russo all’Ucraina. Nello stesso periodo, nella società operativa entrano tre partner stranieri, che partecipano all’affare di Mosca con una quota di minoranza, intestata a una loro offshore esentasse delle Isole Vergini. 

Margherita Agnelli è da molti anni in lite feroce con tutti i suoi familiari italiani, compresi i figli del suo primo matrimonio, tra cui John Elkann, l’attuale numero uno del gruppo Exor e della multinazionale Stellantis che controlla la Fiat. La signora reclama una quota «legittima» di eredità molto maggiore di quella che le avevano assegnato il padre e poi di riflesso la madre. Dopo aver perso il processo civile più importante, con un verdetto confermato dalla Cassazione nel 2015, ora accusa i suoi figli italiani di averle nascosto una ricchissima collezione di opere d’arte, di cui si sarebbero perse le tracce.

Si è a lungo ignorato quanto le avesse lasciato, esattamente, Gianni Agnelli: le stime diffuse dalla stampa durante la causa ereditaria variavano da «oltre 200 milioni» a «circa un miliardo». Nel 2018 L’Espresso ha scoperto, con la seconda inchiesta sui Panama Papers, una dichiarazione riservata del suo fiduciario svizzero, che quantificava per la prima volta, a nome di lei stessa, il valore «dell’eredità che ha ricevuto dal padre Giovanni Agnelli»: «un miliardo e mezzo di dollari». Un patrimonio che risultava custodito dalla stessa società-capofila, Seashell Holding, usata per finanziare gli investimenti in Russia. Le carte di Cipro non chiariscono se, dopo l’acquisto dei terreni e il rilascio dei permessi, il progetto edilizio sia stato ultimato o invece sia ancora «in fase avanzata di realizzazione», come veniva annotato nel 2022. Di certo l’affare immobiliare è proseguito anche dopo la guerra, nonostante le sanzioni contro la Russia: tra le carte di Cipro c’è un grafico con la catena societaria aggiornata al 12 aprile 2022. 

Sempre con i fondi ereditati dal padre, Margherita Agnelli ha finanziato anche un cospicuo investimento nel centro di Mosca che fa capo a suo figlio Peter de Pahlen, nato nel 1986, anche lui con doppia cittadinanza, italiana e francese. L’affare parte nel gennaio 2021, quando viene costituita una società di Cipro, Abidore Ltd, chiamata ad «acquistare proprietà immobiliari in Russia, da conservare per accrescere il capitale investito», come si legge nei documenti. Questa finanziaria, che appartiene interamente a Peter de Pahlen, ha acquisito il 90 per cento di un’altra compagnia di Cipro, che ne controlla una terza: quest’ultima possiede l’intero capitale di una società russa, chiamata Gogolevsky 11 (in sigla G11), che è «proprietaria di un palazzo adibito a business center» nel centro di Mosca. 

La denominazione corrisponde all’indirizzo dell’immobile, Gogolevsky Boulevard 11. Il sito della società russa mostra le foto di un grande palazzo d’epoca, «vicino al Cremlino e alla Cattedrale di Cristo Salvatore», con otto piani di «uffici moderni» affittati a «grandi compagnie locali e internazionali», con soli due spazi «ancora disponibili», che ne fanno «una location speciale nel centro di Mosca, grazie alla sua fusione unica tra storia e contemporaneità». Nel sito non ci sono notizie sulla proprietà del palazzo. 

Le carte di Cipro identificano anche un altro investitore: nell’affare di Mosca, con il restante 10 per cento, è entrato anche un grande gruppo immobiliare statunitense. I Cyprus Confidential, in questo caso, si fermano però al dicembre 2021, quindi prima della guerra: dal 2022 i nomi dei titolari effettivi delle società cipriote (e della controllata russa), dunque, tornano a essere un segreto professionale dei fiduciari. L’unico dato certo è che oggi, sul sito del gruppo americano, compaiono altre proprietà in Russia, ma non c’è alcun accenno al palazzo di Mosca. 

Margherita Agnelli, il suo secondo marito Serge de Pahlen e il loro figlio Peter sono tutti registrati da anni come clienti dello studio cipriota Cypcodirect e della filiale locale della Pwc, un colosso internazionale delle consulenze, che hanno gestito per ciascuno di loro diverse offshore. I professionisti hanno raccolto informazioni dettagliate per ogni società. Nel «profilo del cliente» intestato alla Abidore Ltd, in particolare, si legge che «Peter de Pahlen è figlio di Margaret Agnelli, titolare della società offshore Ventry Group, che ha conti bancari alla Hellenic Bank». 

I documenti aggiungono che, per il palazzo di Mosca, la famiglia ha stanziato «43 milioni di dollari»: 13 a carico di Peter, come capitale azionario della Abidore, gli altri 30 «con un prestito da una banca estera», non precisata. A questi si aggiunge «il contributo del 10 per cento dell’altro partner». Nella «dichiarazione sull’origine delle ricchezze», però, Peter precisa che i fondi da lui versati alla società di Cipro, «per un totale di 15 milioni di dollari», sono il frutto di «una donazione in linea diretta da sua madre Margherita Agnelli de Pahlen», che a sua volta «aveva ottenuto quei soldi nel 2003 come parte dell’eredità da suo padre Gianni Agnelli». 

A coltivare da decenni i rapporti con Mosca è soprattutto il marito, Serge de Pahlen, che discende da una famiglia aristocratica della cosiddetta Russia Bianca, trasferitasi in Francia dopo la rivoluzione bolscevica. L’Espresso ha inviato a Margherita Agnelli, tramite il suo avvocato di fiducia, una serie di domande molto dettagliate, anche a nome del consorzio Icij, per offrire a lei e ai suoi familiari la possibilità di fornire precisazioni, correzioni e  chiarimenti su tutte le notizie contenute in questo articolo. Le è stato anche chiesto cosa ne pensa della guerra in Ucraina e delle sanzioni contro la Russia. Margherita Agnelli, Serge de Pahlen e il loro figlio Peter hanno risposto che «non intendono rilasciare alcuna dichiarazione in relazione alle proprie legittime attività di investimento, regolarmente poste in essere nel pieno rispetto di ogni disciplina nazionale ed internazionale, anche sotto un profilo fiscale».

Estratto dell'articolo di Christian Benna per corriere.it mercoledì 18 ottobre 2023.

[...] Villa Frescot, la villa ottocentesca sulla collina torinese circondata dalla quiete dei castagni, la casa più amata dall’Avvocato Gianni Agnelli, per più di mezzo secolo simbolo e quartier generale del capitalismo italiano, ora è sul mercato. In vendita, come uno dei tanti immobili di prestigio non più abitati dalla Torino che conta. 

La notizia della vendita, intercettata da Report, circola a Torino da prima dell’estate. Margherita Agnelli, già alle prese con una dura battaglia legale con i figli sulla ripartizione dell’eredità della madre Marella che si è aggravata con la scomparsa di alcuni dipinti da Villa Frescot, avrebbe deciso di liquidare un bene patrimoniale non più utilizzato, dando mandato ad alcuni professionisti torinesi di cercare un compratore. 

I primi ad essere contattati sono stati i familiari e la cerchia più stretta della dinasty Agnelli. John Elkann, che ha abitato a lungo a Villa Frescot con la moglie Lavinia Borromeo e i figli pagando l’affitto alla madre, avrebbe declinato l’invito ad acquistare la villa del nonno. Del resto il presidente di Stellantis e ceo di Exor non vive più lì da anni pur continuando a risiedere in città. Ha fatto lavori importanti, tanto da modificare le curve della collina per costruire la sua nuova casa, poco distante ma più in alto di Villa Frescot.

Hanno detto «no, grazie» anche tutti gli altri familiari contattati. Alcuni vivono all’estero, in Portogallo, è il caso di Lapo Elkann, o in Olanda, ad Amsterdam, come l’ex presidente della Juventus Andrea Agnelli. E anche chi vive a Torino preferisce tenersi fuori da un’operazione costosa e complicata. [...] 

I potenziali compratori non sono molti. E non è solo questione di portafogli. Anche se, si parla di cifre importanti, più di 10 milioni di euro, ovviamente trattabili. C’è soprattutto il timore, diffuso e mai sopito, anche nella Torino post Fiat, di infilarsi in una diatriba familiare Agnelli-Elkann dai contorni ancora tutti da chiarire. E poi sono da mettere in conto i costi di manutenzione e di gestione.

Inoltre Villa Frescot necessita di altri lavori e cospicui investimenti per tornare al suo antico splendore. [...] Nello stesso perimetro di Villa Frescot ci sono anche Villa Bona, la residenza di Edoardo Agnelli, il figlio dell’avvocato, e la terza villetta, una sorta di seconda casa dell’Avvocato. Quindi non è escluso un frazionamento o una vendita a più soggetti. I tempi per la conclusione della transazione si annunciano lunghi. [...]

Compra l'arte e mettila da parte. Report Rai PUNTATA DEL 15/10/2023 di Manuele Bonaccorsi e Federico Marconi

La collezione di opere d'arte, di straordinario valore, dell'avvocato Gianni Agnelli rimasta fino ad oggi nascosta.

Una lista di oltre 600 capolavori dell'arte moderna e contemporanea, da Monet a Picasso, da Bacon a Balthus, fino a Canova e Balla. È l'immenso patrimonio della collezione di Gianni Agnelli, finita al centro della disputa sull'eredità tra la figlia Margherita e i nipoti John, Lapo e Ginevra Elkann. Attraverso l'incrocio di decine di documenti inediti, raccolti tra l'Italia e la Svizzera, Report è riuscita a compilare per la prima volta l'elenco completo della ricchissima collezione d'arte della famiglia. Cosa ne sapeva il ministero dei Beni Culturali, che avrebbe il compito di sottoporre a tutela le opere d'arte più importanti? Secondo le informazioni raccolte da Report, molto poco. Alcune opere importantissime negli anni sono sparite nel nulla, sotto il naso delle soprintendenze. E potrebbero essere finite all'estero, negli appartamenti svizzeri o americani degli eredi, battute in aste internazionali o nascoste nei porti franchi svizzeri. Sulla loro scomparsa indaga oggi la Procura di Milano.

Compra l’arte e mettila da parte Di Manuele Bonaccorsi – Federico Marconi Collaborazione Madi Ferrucci Immagini Carlos Dias – Davide Fonda Montaggio Sonia Zarfati – Giorgio Vallati Grafica Giorgio Vallati

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E ora parliamo di una collezione di quadri di inestimabile valore. Erano quelli che appartenevano a Gianni Agnelli, 636 opere del valore stimato di oltre un miliardo di euro. La lista di queste opere è rimasta a lungo segreta, Report è riuscito a entrarne in esclusiva in possesso e ve ne parleremo. Ecco, è entrata in un contenzioso ereditario senza esclusione di colpi tra la madre Margherita e i figli Elkann. Su questa lista ci sono molti segreti, tra i quali opere sparite, pagine di un catalogo strappate, opere che sono finite all’estero. Ecco, di questo ci parlerà l’avvocato Gamma che è l’ex legale di Margherita e che quei quadri li ha visti.

EMANUELE GAMNA - AVVOCATO Si trovavano a Torino, nella residenza di Saint Moritz, nell'appartamento che sta davanti al Quirinale. E poi dovevano esserci dei caveau, o a Londra o a Ginevra. L'avvocato aveva, mi pare, due o tre Klimt che oggi varrebbero solo quelli più di 100 milioni di euro l'uno.

MANUELE BONACCORSI Qui di Klimt, in realtà, ne risultano cinque. Questa è la lista che noi abbiamo ottenuto.

EMANUELE GAMNA - AVVOCATO Posso chiedere come l’ha avuta? Perché era totalmente... No, non credo sia mai circolata la lista delle opere d'arte.

EMANUELE GAMNA - AVVOCATO Qui il valore complessivo di queste opere viene segnato in 213 milioni di dollari. EMANUELE GAMNA - AVVOCATO Era un valore ridicolo già all'epoca. Sapevamo che il valore era probabilmente intorno ai 5-600 milioni.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO A Ginevra, in Svizzera, vive l’altro legale che nel 2004 gestì le trattative sull’eredità dell’avvocato tra la figlia Margherita e la moglie Marella. Si chiama Jean Patry e davanti a noi apre la cassaforte che contiene l’elenco dei beni contenuti nelle case di Gianni Agnelli, finora segreto.

JEAN PATRY - AVVOCATO Questa è la lista delle opere d’arte in proprietà di Margherita Agnelli. E queste sono le opere in usufrutto. Questa invece è la lista di Parigi.

MANUELE BONACCORSI Possiamo vederlo?

JEAN PATRY - AVVOCATO Certo. Questa è la lista della Corsica. Elenca tutti i beni contenuti delle case.

MANUELE BONACCORSI Qui c’è anche la firma, sono firmati! Marella e Margherita.

JEAN PATRY - AVVOCATO Tutto firmato.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Tutte queste opere sarebbero finite nelle mani di Margherita Agnelli ma da Jean Patry scopriamo che esiste anche un’ulteriore lista, non firmata, con opere che sarebbero rimaste nella proprietà di Marella Caracciolo e, dopo la sua morte, nel 2019, sarebbero state ereditate dagli Elkann. Per trovarne conferma ci rechiamo sulle Alpi Svizzere, dove aveva stabilito la sua residenza Marella, la moglie di Agnelli. Qui incontriamo una sua ex dipendente, che ci mostra un’ulteriore lista di opere.

EX DIPENDENTE DI MARELLA CARACCIOLO AGNELLI Quando andavo in vacanza li mettevo nel deposito. Erano troppo preziosi per rimanere attaccati alle pareti. E facevo le foto dei quadri per ricordarmi dov’erano.

MANUELE BONACCORSI Possiamo scattare una foto di queste liste?

EX DIPENDENTE DI MARELLA CARACCIOLO AGNELLI Basta che non tiriate fuori il mio nome, sì.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Di Paul Klee in questa nuova lista ereditata dagli Elkann ce ne sono tre. Ma non solo: c’è uno Schiele e un Picasso. Con questi nuovi documenti le opere della nostra lista diventano oltre 600. La veridicità di questo elenco ci viene confermata anche da uno degli uomini che lo ha fisicamente redatto. Si chiama Stuart Thornton ed è lo storico maggiordomo dell’avvocato Agnelli.

FEDERICO MARCONI Questo è l’elenco opere d’arte.

STUART THORNTON - EX MAGGIORDOMO DI GIANNI AGNELLI Da dov’è uscito questo?

FEDERICO MARCONI Le ha fatte lei queste liste, sono i suoi inventari

STUART THORNTON - EX MAGGIORDOMO DI GIANNI AGNELLI Io le ho scritte ma non è che le porto in giro in tasca. FEDERICO MARCONI Lei, quindi, sapeva tutti gli averi di casa Agnelli. Li inventariava?

STUART THORNTON - EX MAGGIORDOMO DI GIANNI AGNELLI Grossomodo quel che c'era e che era visibile cioè non, non lo sapevo cosa aveva in banca, non sapeva niente.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Alla nostra lista aggiungiamo infine le opere contenute in questo libro che racconta la vita di Marella Caracciolo. Si intitola “Ho coltivato il mio giardino” ed è pieno di immagini delle residenze di Gianni Agnelli. Dalle fotografie spuntano un preziosissimo Bacon, probabilmente il Pope III del 1961, e probabilmente l’Ettore e Andromaca di De Chirico, entrambi non riportati nelle nostre liste. Oltre a delle immagini del pezzo forte di tutta la collezione, il preziosissimo Arlecchino di Picasso. Valore di mercato, almeno cento milioni di euro.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È stata una lunghissima ricerca però poi, alla fine, ne è valsa la pena. I nostri Manuele Bonaccorsi e Federico Marconi sono riusciti ad entrare in possesso della lista completa dei capolavori che appartenevano a Gianni Agnelli: 636 quadri, valore stimato oltre un miliardo di euro. Ora, è un bene su cui vale la pena investire visto che col tempo aumenta il loro valore e non ci paghi le tasse. Tuttavia, sono dei capolavori che devono sottostare a determinate regole, anche se sono una collezione privata vanno tutelati dal ministero dei Beni culturali che, se ne è a conoscenza, deve notificarli. Poi, chi è invece in possesso, deve concedere l’accesso agli studiosi, non deve rovinarli e, se li dovesse vendere all’estero, deve farlo con un’autorizzazione del ministero competente. Qual è lo spirito della legge? Che se tu possiedi un Canova, un De Chirico, un Balla, insomma, anche se è una collezione privata, è un patrimonio nazionale, addirittura dell’umanità e quindi vanno tutelati. Allora, la domanda che noi ci siamo posti: il ministero dei Beni culturali che cosa sapeva di questi quadri? Quanti sono stati notificati? Quanti sono andati a finire all’estero?

MANUELE BONACCORSI Siamo riusciti a procurarci la lista integrale delle opere di Gianni Agnelli. La abbiamo solo noi.

VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA Ah sì?!

MANUELE BONACCORSI sono 637. Io penso che lei dovrebbe dare un’occhiata per dirci cosa c’è di notificato, se queste opere ci sono ancora, perché potrebbero essere ovunque, in tutti i passaggi testamentari e renderle accessibili.

VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA C’è anche il Bellini?

MANUELE BONACCORSI Ce ne sono due, uno a Torino e uno a Roma.

VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA Bravo

MANUELE BONACCORSI Ci dobbiamo lavorare su questa cosa, sottosegretario

VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA Bisognerebbe fare una ricerca negli archivi della soprintendenza, sì sì

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Dopo la presentazione del suo libro il sottosegretario Sgarbi va a visitare la Pinacoteca Agnelli, un museo realizzato all'ultimo piano del Lingotto di Torino, che contiene 25 opere donate dall’avvocato a una fondazione privata oggi presieduta dalla nipote Ginevra Elkann. Sono le uniche opere della collezione Agnelli visitabili dal pubblico.

MANUELE BONACCORSI Che dice onorevole, straordinario vero? Questo è il 5% delle opere di Gianni Agnelli? Se lei ci recupera l’altro 95...

VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA Ma io non faccio il carabiniere.

MANUELE BONACCORSI Ma se il ministero non sa cosa c’è.

VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA Ma come non sa? Il ministero sa tutto. Dovrebbe, allora, secondo me…

MANUELE BONACCORSI Lei dice? Noi abbiamo fatto un accesso, una richiesta di accesso agli atti al suo ministero, vediamo cosa ci risponde e poi ne parliamo.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Al termine della giornata il sottosegretario tiene una lezione a un gruppo di giovani studiosi e appassionati. Ma almeno un quarto d’ora lo dedica ad attaccare Report.

VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA Una trasmissione televisiva che da questa mattina insegue il sottosegretario che vi parla per sapere cosa pensi della collezione di 600 titoli circa che non è tutta visibile, presume che lo Stato debba, come fosse un organo di polizia, intervenire, individuando tutto e vincolando tutto. Ora, i proprietari delle opere d’arte possono fare quello che vogliono, anche distruggerle.

TOMASO MONTANARI - COMITATO TECNICO SCIENTIFICO PER LE BELLE ARTI – MINISTERO DELLA CULTURA Chi distrugge un’opera d’arte, propria o altrui, secondo la legge italiana è punito con la detenzione da due a cinque anni. Io ho un quadro di Caravaggio e non lo posso distruggere è mia la tela, sono miei i colori, ma quell’essere Caravaggio, quell’essere un bene culturale, è una parte del patrimonio appartiene a tutta la collettività nazionale e quindi su quello c’è la tutela dell’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica tutela il patrimonio storico e artistico della nazione”.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Ma dopo avergli consegnato la lista della collezione degli Agnelli il sottosegretario ci richiama.

VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA Nessuna opera degli Agnelli è stata mai notificata, noi non vogliamo proteggere un patrimonio che appartiene a un collezionista internazionale. Non abbiamo alcuna intenzione di farlo.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Molte di queste opere sono rilevanti è bene che il ministero ne sia a conoscenza e che possa valutare se è il caso che siano notificate

VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA Le sto dicendo che nulla di questo elenco che lei mi ha già mostrato interessa veramente allo Stato italiano. I pochi quadri come il De Chirico e le sculture di Canova possono essere soggetti a un'attenzione.

TOMASO MONTANARI - COMITATO TECNICO SCIENTIFICO PER LE BELLE ARTI – MINISTERO DELLA CULTURA Le opere d’arte collezionate dalla famiglia Agnelli sono a tutti gli effetti una parte importantissima della storia del collezionismo italiano del Novecento.

MANUELE BONACCORSI Quindi si potrebbe tutelare l’intera collezione così com’è?

TOMASO MONTANARI - COMITATO TECNICO SCIENTIFICO PER LE BELLE ARTI – MINISTERO DELLA CULTURA Certo, il codice dei Beni culturali prevede il fatto che si possano tutelare insiemi collezionistici di straordinaria rilevanza

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Secondo il codice dei Beni culturali, quando il ministero viene a conoscenza dell’esistenza in una collezione privata di un’opera particolarmente importante, può sottoporla a vincolo, emettendo una “notifica”. E la notifica impedisce al proprietario di vendere all’estero l’opera.

FRANCESCO SALAMONE - DOCENTE DI DIRITTO DEI BENI CULTURALI – SAPIENZA UNIVERSITA’ DI ROMA Sicuramente la notifica rappresenta una limitazione del profitto legato alla vendita di quell'opera d'arte.

MANUELE BONACCORSI Di quanto si può ridurre il valore di un'opera d'arte quando viene notificata?

FRANCESCO SALAMONE - DOCENTE DI DIRITTO DEI BENI CULTURALI – SAPIENZA UNIVERSITA’ DI ROMA Anche allora anche del 50%

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Si capisce allora perché Gianni Agnelli, e poi i suoi discendenti, abbiano sempre evitato di far notificare le proprie opere d’arte. Secondo informazioni provenienti dai legali che hanno lavorato con la famiglia Agnelli, al momento della spartizione dell’eredità le opere sottoposte a tutela a Torino sarebbero state appena quattro, dei bassorilievi di gesso di Canova, che gli Agnelli tenevano in un sottoscala della residenza di Villa Frescot. Non è un caso, come ci spiega in anonimo un funzionario del ministero.

FUNZIONARIO SOVRINTENDENZA TORINO Da quando avete fatto l’accesso agli atti la Soprintendenza è entrata nel panico. C’è una confusione totale negli archivi anche perché la collezione Agnelli è sempre stata per noi una no fly zone.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Per molti anni l’incarico di sovrintendente a Torino è stato occupato dall’architetta Luisa Papotti. Andata in pensione nel 2022, è subito passata a dirigere la fondazione bancaria arte CRT. LUISA PAPOTTI - SOPRINTENDENTE AI BENI CULTURALI DI TORINO 2015 - 2022 Non ho memoria di nulla che riguardi la collezione Agnelli

MANUELE BONACCORSI Quindi lei non sapeva del Monet, non sapeva dei Bellini, dei Canova…

LUISA PAPOTTI - SOPRINTENDENTE AI BENI CULTURALI DI TORINO 2015 - 2022 Ma non mi faccia dire cose… Non ho memoria, mi dispiace

MANUELE BONACCORSI quello che si dice poi negli ambienti in sovrintendenza è che sulla collezione Agnelli c’era un non possumus, anche per l’importanza dei personaggi.

LUISA PAPOTTI - SOPRINTENDENTE AI BENI CULTURALI DI TORINO 2015 - 2022 Assolutamente, quello che dice è una cazzata, ma ci mancherebbe, non so chi è che dica una simile stupidaggine, ma ci mancherebbe.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Se la Sovrintendenza sapeva poco o niente, nessuna delle tante persone amanti dell’arte che frequentavano casa Agnelli aveva mai spifferato nulla al ministero. Evelina Christillin, presidente del museo Egizio di Torino, era una assidua frequentatrice di casa Agnelli.

MANUELE BONACCORSI Lei il codice dei Beni culturali lo conoscerà benissimo.

EVELINA CHRISTILLIN – PRESIDENTE FONDAZIONE MUSEO EGIZIO DI TORINO Eh, direi di sì.

MANUELE BONACCORSI I quadri vanno, se sono beni culturali, notificati.

EVELINA CHRISTILLIN – PRESIDENTE FONDAZIONE MUSEO EGIZIO DI TORINO Lo so, ma perché lo chiede a me?

MANUELE BONACCORSI Così, perché lei li ha visti. Io non ho mai avuto il piacere di entrare in quelle case.

EVELINA CHRISTILLIN – PRESIDENTE FONDAZIONE MUSEO EGIZIO DI TORINO Io li ho visti, certo che li ho visti.

MANUELE BONACCORSI Certo si sarebbe potuto far sapere al ministero dei Beni culturali che c'erano quei quadri là dentro. Non crede?

EVELINA CHRISTILLIN – PRESIDENTE FONDAZIONE MUSEO EGIZIO DI TORINO Ma che uno fa il delatore?

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Questo è palazzo Mengarini, a due passi dal Quirinale. Qui c’era l’appartamento romano di Gianni Agnelli, pieno di opere d’arte straordinarie. Questa è villa Frescot, la casa principale dell’avvocato, sulle colline di Torino. Dopo la morte di Gianni Agnelli e della moglie Marella le due residenze sono finite nelle mani di Margherita. Report può rivelare che sono state messe in vendita. I quadri sono finiti in un caveau, in una località sconosciuta. Report può rivelare anche che molte opere di proprietà di Marella Agnelli erano in una cassaforte, racchiusa dentro la sede torinese di Fiat, oggi Stellantis. Lo riporta il notaio svizzero Von Grunigen, che ha gestito l’eredità miliardaria della signora Caracciolo. Nulla è accessibile al pubblico.

TOMASO MONTANARI - COMITATO TECNICO SCIENTIFICO PER LE BELLE ARTI – MINISTERO DELLA CULTURA Il ministero della Cultura avrebbe il diritto e direi anche il dovere di ispezionare queste opere per varie ragioni, innanzitutto per constatarne le condizioni di conservazione, per esempio, e poi per averne contezza.

MANUELE BONACCORSI Anche se sono opere non tutelate potrebbe intervenire?

TOMASO MONTANARI - COMITATO TECNICO SCIENTIFICO PER LE BELLE ARTI – MINISTERO DELLA CULTURA Proprio per capire se è il caso di tutelarle o no. Cioè, io credo che la questione della collezione Agnelli, anche da quello che vedo emergere dalla vostra inchiesta, assume la caratteristica di un grande caso nazionale nella vicenda del patrimonio, nella storia del patrimonio italiano del nostro tempo.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Molte opere di Gianni Agnelli sono state acquistate all’estero. Alcune sono rimaste per anni nelle residenze di New York, Saint Moritz o Parigi. E in questo caso è impossibile per l’Italia imporre una tutela. Altre sono poi entrate in Italia. Per evitare la notifica, la famiglia Agnelli ha però utilizzato lo stratagemma della temporanea importazione, previsto dalla legge, un titolo che vale cinque anni, rinnovabili a discrezione da parte del ministero della Cultura.

TOMASO MONTANARI - COMITATO TECNICO SCIENTIFICO PER LE BELLE ARTI – MINISTERO DELLA CULTURA E’ una norma pensata soprattutto per chi, diciamo, si trova qua senza essere parte di questa comunità. Il problema è quando questa norma viene usata strumentalmente da famiglie che sono invece saldissimamente parte della comunità nazionale MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Secondo le informazioni in nostro possesso, ad esempio, John Elkann ha ereditato dalla nonna Marella una preziosa opera cubista, la Tour Eiffel Rouge di Delaunay. L’opera è stata acquistata all’estero, ma il permesso temporaneo viene rinnovato sistematicamente da vent'anni, dal 2004. Lo stesso vale per alcuni Klee, Picasso, per una veduta settecentesca di Vanvitelli.

TOMASO MONTANARI - COMITATO TECNICO SCIENTIFICO PER LE BELLE ARTI – MINISTERO DELLA CULTURA Io credo che dal senatore a vita Gianni Agnelli, da una famiglia che così tanto ha avuto dallo Stato italiano, ci si sarebbe potuto aspettare un atteggiamento più generoso, più consapevole del bene comune. MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Le opere, per uscire legalmente dal territorio nazionale, necessitano di un permesso da parte dell’ufficio esportazione del ministero della Cultura. Per quanto di nostra conoscenza, John Elkann, ad esempio, ha ricevuto l’autorizzazione a portare all’estero un’opera su carta di Paul Klee datata 1914. Margherita Agnelli nel 2019 ha provato a portare in Svizzera, dove abita, un Rothko, di nome Golden Composition. Chiede correttamente un permesso di esportazione, che le viene prima concesso, poi negato. Sempre Margherita è invece riuscita a farsi autorizzare nel 2021 l’esportazione a New York di un prezioso Francis Bacon, uno dei più quotati autori del Novecento: questo, si chiama “Studio per un ritratto x”, e ha un valore dichiarato 18 milioni di euro.

TOMASO MONTANARI - COMITATO TECNICO SCIENTIFICO PER LE BELLE ARTI – MINISTERO DELLA CULTURA Bisognerebbe chiedersi chi quel giorno ha concesso l’esportazione. Gli uffici esportazione della Repubblica sono stati devastati dalla scarsità di personale che, come dire, fa molto comodo al mercato dei grandi collezionisti. MANUELE BONACCORSI Ecco, se le fosse capitato questo Bacon…

TOMASO MONTANARI - COMITATO TECNICO SCIENTIFICO PER LE BELLE ARTI – MINISTERO DELLA CULTURA Credo che un quadro di un autore di quella rilevanza dovrebbe rimanere in Italia. Bisognerebbe chiedersi chi quel giorno ha concesso quell’autorizzazione. Gli uffici esportazione della Repubblica sono stati devastati dalla scarsezza di personale che fa molto comodo al mercato e ai grandi collezionisti.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Scorrendo la nostra lista scopriamo che nella villa degli Agnelli in Corsica si trovavano alcune opere provenienti da Roma o dalla residenza torinese di Villa Frescot, tra cui un David, un’opera ottocentesca. Con quale permesso hanno lasciato il territorio nazionale? E poi, il Picasso, “L’arlecchino”, il vero pezzo forte di tutta la collazione. Nel 1966 il grande fotografo di moda Henry Clarke lo ritrae insieme a Marella Caracciolo nella casa torinese di Corso Matteotti, come Report ha scoperto, verificando direttamente nell’archivio del fotografo. Poi la stessa opera ricompare a New York. Come ha fatto L’arlecchino a uscire dall’Italia?

MANUELE BONACCORSI Se io esporto un'opera senza il permesso dell'ufficio esportazione, che cosa faccio?

FRANCESCO SALAMONE - DOCENTE DI DIRITTO DEI BENI CULTURALI – SAPIENZA UNIVERSITA’ DI ROMA Commette un reato punito con una sanzione fino agli otto anni di reclusione ed inoltre la normativa prevede la confisca dell'opera d'arte illecitamente esportata

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO L’opera oggi risulta di proprietà di Margherita Agnelli. Nessuno sa dove sia. Nella lista delle opere troviamo anche un Monet, il “Glacon effet blanc”, una delle opere più importanti della collezione Agnelli: chi frequentava la casa torinese dell’avvocato ne rimaneva incantato.

EVELINA CHRISTILLIN – PRESIDENTE FONDAZIONE MUSEO EGIZIO DI TORINO Ti trovavi un Monet, bellissimo, con la neve, in sala da pranzo. Quello l'ho visto 10.000 volte.

MANUELE BONACCORSI Può essere “Il Glacon effet blanc”?

EVELINA CHRISTILLIN – PRESIDENTE FONDAZIONE MUSEO EGIZIO DI TORINO Può darsi…

MANUELE BONACCORSI Era bianco, diciamo, come colore?

EVELINA CHRISTILLIN – PRESIDENTE FONDAZIONE MUSEO EGIZIO DI TORINO Bianchissimo.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Fino al 2004 il Monet si trovava a Torino. Poi, però, l’opera risulta venduta all’asta a New York nel 2013, per la bellezza di 16 milioni di dollari. Ma nelle liste del ministero non risulta per quanto di nostra conoscenza alcun permesso di esportazione. Il quadro viene esposto per l’ultima volta sempre nel 2013, alla Pinacoteque de Paris, un museo privato poi fallito lasciando una montagna di debiti. A gestirlo era Marc Restellini.

MARC RESTELLINI - MERCANTE D’ARTE Conoscevo Agnelli molto bene. Una volta mi portò dei quadri per un’esibizione, attendeva il permesso di esportazione, ma non arrivava. Allora disse: “Vaffanculo, ci penso io”. Li mise su un aereo e me li portò in un’ora. Era un re Agnelli, lui non seguiva le regole. Ma il quadro che ho esposto io, posso assicurarvi, non era suo. Probabilmente era un altro Glacon di Monet.

MANUELE BONACCORSI E chi era il proprietario?

MARC RESTELLINI - MERCANTE D’ARTE Un collezionista privato, francese.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Eppure, il Monet venduto da Sotheby's ha un numero che lo rende riconoscibile, il 1337. Viene riportato all’interno del cosiddetto catalogo ragionato, un testo scientifico che riporta l’elenco completo delle opere dell’autore.

MANUELE BONACCORSI Con quel titolo e con quella data, 1893, c'è solo un glacon?

CLAUDIO ZAMBIANCHI - PROFESSORE DI STORIA DELL’ARTE – SAPIENZA UNIVERSITA’ DI ROMA Ce n'è solo uno, naturalmente. Cioè, i cataloghi ragionati sono fatti in modo tale per cui a ciascun dipinto univocamente è assegnato un numero

MANUELE BONACCORSI Questo quadro si trovava, secondo le informazioni in nostro possesso, in Italia. Secondo lei, questo quadro potrebbe uscire dall’Italia senza un permesso del ministero dei Beni culturali?

CLAUDIO ZAMBIANCHI - PROFESSORE ORDINARIO DI STORIA DELL’ARTE - UNIVERSITÀ LA SAPIENZA Se è in Italia no, non dovrebbe poter uscire dall’Italia. Tra l’altro di Monet non ce ne sono molti in Italia quindi quei pochi sarebbe meglio tenerseli.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Premesso che il Monet, “Il glacon effet blanc”, del 1894 è una copia unica, e premesso anche che, quando è stato visto, è stato visto a casa, a villa Frescot, a casa di Marella, dopo la morte di Gianni Agnelli, com’è finito alla casa d’aste Sotheby’s più famosa al mondo e ha potuto batterla per 16 milioni di dollari? Ecco, noi l’abbiamo chiesto e Sotheby’s ci ha scritto che ha investigato profondamente la materia ed è sicuro che tutte le procedure corrette siano state eseguite. Fino a prova contraria gli crediamo, anche perché ricordiamo che l’esportazione illegale di opere d’arte avvenuta senza l’autorizzazione del ministero della Cultura è punibile fino a otto anni di carcere e 80mila euro di multa e anche la confisca del bene. C’è da chiedersi, però, è mai possibile che di 636 capolavori fino al momento del testamento il ministero della Cultura ne avesse notificati solo quattro? Anche alla luce del fatto che Marella aveva pubblicato un catalogo con tutte, con gran parte di queste opere e quindi era cosa pubblica come hanno visitato in tanti le case di Agnelli e tra cui imprenditori e politici importanti, magari anche qualche ministro: è mai possibile che nessuno ha pensato di far rispettare il codice sulla tutela del patrimonio artistico?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora. Report è venuto in possesso della lista di 636 capolavori appartenenti a Gianni Agnelli; valore stimato: circa un miliardo di euro. Anche se è una importantissima collezione privata, la legge sulla tutela dei beni artistici prevederebbe che il ministero dei Beni Culturali, una volta venuto a conoscenza, li notificasse questi quadri. Ora, non sappiamo se in passato l’ha fatto; risulterebbero, fino al testamento solo quattro notifiche su seicentotrentasei quadri. Quello che è certo è che adesso questa lista Report l’ha data nelle mani del sottosegretario Sgarbi. Quindi non possono dire di non sapere; dovrebbero notificare tutte le opere. A prescindere dalle notifiche, però nessun capolavoro può essere esportato o venduto all’estero senza un’autorizzazione del ministero dei Beni Culturali. Quante autorizzazioni ci sono state per i quadri che sono finite all’estero? Perché alcuni probabilmente sono in Svizzera negli impenetrabili caveau e nell’impenetrabile Porto Franco. Un paese che vive del commercio e dello scambio delle opere d’arte: la Svizzera.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Lugano, Canton Ticino, Svizzera Italiana. Probabilmente la città Europea con la più grande concentrazione di gallerie d’arte. Gallerie piccole, ma ben piazzate nel mercato internazionale. Come questa. Mette in vendita preziosissime opere di Giorgio De Chirico, Schifano, Ghirri.

MANUELE BONACCORSI Queste sono tutte opere di collezioni private?

MERCANTE D’ARTE - LUGANO Nostre e di collezioni private. In vendita

MANUELE BONACCORSI In vendita. De Chirico?!

MERCANTE D’ARTE - LUGANO Sì. Eh, se no? Bisogna vendere, mica…

MANUELE BONACCORSI Caspita e che prezzi hanno?

MERCANTE D’ARTE - LUGANO Da 50 mila fino a un milione.

MANUELE BONACCORSI Ma come escono questi quadri dall’Italia?

MERCANTE D’ARTE - LUGANO Nessuno è notificato. A parte quello che è un capolavoro assoluto, che era già all’estero.

MANUELE BONACCORSI Questo era in Svizzera?

MERCANTE D’ARTE - LUGANO Era in svizzera.

MANUELE BONACCORSI Questo l’avrebbero notificato.

MERCANTE D’ARTE - LUGANO Non lo so.

MANUELE BONACCORSI Beh, degli anni 20, ha più di 70 anni, De Chirico…

 MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO La Svizzera è la seconda patria della famiglia Agnelli. Gianni aveva costruito qui la casa di St. Moritz, ora passata ai tre nipoti Elkann. Qui, sulle Alpi, aveva la residenza ufficiale la moglie Marella Caracciolo. E sul lago di Ginevra, ad Allman, vive in un castello principesco la figlia Margherita Agnelli. Secondo la nostra lista alcune opere, tra cui una grande scultura di Pomodoro, un Bacon e un Moreau, nel 2004 si trovavano al freeport di Ginevra, un grande deposito in cui non si pagano tasse doganali. A gestire il freeport è il cantone di Ginevra.

FEDERICO MARCONI Qui avete il più grande museo d’arte del mondo solo che nessuno l’ha mai visto, il porto franco.

MAURO POGGIA - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEL CANTONE DI GINEVRA 2022-2023 Beh, nessuno l’ha visto, neppure io.

FEDERICO MARCONI Nemmeno il presidente del cantone?

MAURO POGGIA - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEL CANTONE DI GINEVRA 2022-2023 No, no, non mi aprono le porte. Meglio così direi.

FEDERICO MARCONI Sappiamo che ci sono un porto franco, con certezza, dei quadri della famiglia Agnelli.

MAURO POGGIA - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEL CANTONE DI GINEVRA 2022-2023 Non potrei dirlo perché io non ho l’inventario e non lo controllo.

[FUORI ONDA] Capisco che l'Italia cerchi di fare la luce su queste opere d'arte.

FEDERICO MARCONI Rendete pubblico l'inventario, in qualche modo, del porto franco.

MAURO POGGIA - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEL CANTONE DI GINEVRA 2022-2023 Ma se si comincia a fare ad agire così non sono sicuro che la gente che utilizza questo porto franco continueranno a farlo.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Quando devono dividersi le opere d’arte di Gianni Agnelli, la moglie Marella e la figlia Margherita utilizzano due fondazioni, basate probabilmente in Liechtenstein: la New Art Foundation, e la World Art Foundation.

MARIO GEREVINI - GIORNALISTA CORRIERE DELLA SERA Sono state il veicolo per il trasferimento delle opere d'arte da Marella a Margherita. Tant'è che la stessa Margherita aveva creato società alle Isole Vergini, che avevano proprio lo scopo di acquisire l'eredità del padre. Una di queste società è stata trovata negli uffici di Mossack & Fonseca, i famosi Panama Papers.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Neppure Thornton, il maggiordomo dell’avvocato, che ha redatto fisicamente le liste, ha mai visto le opere del freeport.

STUART THORNTON - EX MAGGIORDOMO DI GIANNI AGNELLI No, non ho mai messo piede in nessun free port.

FEDERICO MARCONI Però di questa lista che ha fatto lei scrive free port. Quindi c’è stato lei nel freeport… Vuole che glielo trovo?

STUART THORNTON - EX MAGGIORDOMO DI GIANNI AGNELLI Ma se c’è scritto freeport, è un’informazione che è stata data. Non vuol dire che io l’ho visto.

FEDERICO MARCONI Quindi Gianni Agnelli potrebbe aver nascosto qualcosa anche a lei?

STUART THORNTON - EX MAGGIORDOMO DI GIANNI AGNELLI Queste fesserie che stai dicendo.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Vuole vederci più chiaro invece la procura di Milano, che ha aperto un’indagine a partire da una denuncia di Margherita Agnelli che accusa i suoi 3 figli di aver fatto sparire alcune opere le quali, dopo la morte di Marella Caracciolo, sarebbero state per diritto ereditario di sua proprietà. Per indagare sulla sparizione delle opere Margherita ha assoldato un investigatore privato svizzero: Andrea Galli.

ANDREA GALLI - INVESTIGATORE PRIVATO Varie dozzine di opere d'arte sono sparite. Dalle ville, dai palazzi.

MANUELE BONACCORSI Di Torino?

ANDREA GALLI - INVESTIGATORE PRIVATO Sì. Anche Roma.

MANUELE BONACCORSI Dozzine di opere d'arte.

ANDREA GALLI - INVESTIGATORE PRIVATO È tutto quello che posso dire.

MANUELE BONACCORSI Che erano opere d’arte di proprietà di Margherita Agnelli?

ANDREA GALLI - INVESTIGATORE PRIVATO Esatto.

MANUELE BONACCORSI Il Monet quello bianco?

ANDREA GALLI - INVESTIGATORE PRIVATO Le indagini sono tutte in corso.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Report è in possesso di un elenco parziale delle opere finite nell’indagine milanese. C’è proprio il Glacon di Monet e poi Jerome, De Chirico, Balla, Balthus, un Indiana, un Matieu, un Bacon, un Sargent. Di queste opere non c’è traccia negli allegati dell’accordo transattivo che ha definito le opere passate alla figlia di Gianni, Margherita. Alcune si trovavano probabilmente nell’appartamento romano dell’avvocato.

MARIO GEREVINI - GIORNALISTA CORRIERE DELLA SERA I legali di John Elkann fanno notare che dall'elenco di opere era stata volutamente tolta una pagina. ”Occorre rilevare che l'inventario dei beni contenuti nell'immobile di Roma non contiene volutamente la pagina 75 nella quale erano stati indicati tali quadri”.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Report è in possesso di quel documento. E in effetti è vero, si passa da pagina 74 a pagina 76.

MARIO GEREVINI - GIORNALISTA CORRIERE DELLA SERA Ed è un piccolo giallo perché non è non è chiaro come possa essere stata tolta una pagina dall'inventario, tra l'altro quella con le opere di Balla, De Chirico e Jerome, che sono quelle particolarmente preziose.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Tra le opere contenute in quella pagina 75 probabilmente c’erano anche due importanti Balthus. Uno è il Nu de Profil, che nelle liste in possesso di Report risulta segnata a matina con la sigla DM, cioè proprietà di Donna Marella Caracciolo e, da lei, potrebbe essere passata ai tre nipoti Elkann. Il secondo è La Chambre. Si trovava a Roma come dimostra questa foto, contenuta nel libro della moglie dell’Avvocato. Nel 2015 è stato esposto alle Scuderie del Quirinale, senza che nessuno in Sovrintendenza se ne rendesse conto: al museo non risulta che il dipinto fosse sottoposto a vincolo. Per Margherita i quadri risultano scomparsi. Ma il vero problema non è di chi siano, ma dove siano finiti.

DARIO JUCKER - AVVOCATO LUGANO La Svizzera ha stipulato degli accordi bilaterali con diversi Paesi, tra i quali l'Italia, per la restituzione delle opere che sono state illecitamente esportate. Però l’accordo bilaterale vale solo per i beni archeologici. Dunque non vale ad esempio per i quadri. Nel caso in cui non vi sia alla fonte anche furto o ricettazione o altri reati le opere non vengono restituite.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Questo è il Punto Franco di Chiasso, Svizzera, proprio al confine con l’Italia. Il 22 maggio 2022 il pm di Milano Eugenio Fusco ha chiesto e ottenuto una rogatoria internazionale. La polizia del Canton Ticino entra in un caveau di questi magazzini, alla ricerca delle opere d’arte scomparse di Gianni Agnelli. Ma non ne trova traccia. Dai verbali emerge che alcune opere erano state spostate pochi giorni prima proprio da quel caveau. Ma non quelle cercate da Margherita, afferma la polizia svizzera. A gestire il caveau era Giovanni Gabriele Martino, tramite la società M.Ars, con sede a Coldrusio, Canton Ticino. Suo padre Giovanni Massimo Martino era un mercante d’arte molto vicino a Gianni Agnelli. Nel 1993 è proprio lui a vendere all’Avvocato quattro preziosi bassorilievi di Canova, raffiguranti gli ultimi momenti di vita di Socrate. Solo che quei gessi erano vincolati. Nel 2004, poco dopo la scomparsa dell’avvocato, la guardia di finanza li sequestra a villa Frescot. TG3 DEL 13/03/2004 “Nessuno però ha mai informato l’avvocato che quei pezzi avevano un vincolo. Non avrebbero potuto essere spostati da villa Franchetti Preganziol nel trevigiano. E così gli uomini della Guardia di Finanza, su mandato del pm Juri De Biasi si sono presentati a Villa Frescot per riprendersi le opere e riportarle a Treviso”

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Le opere a Treviso non sono mai tornate. La sovrintendenza di Torino si dimentica di disporre il trasferimento. E la polizia scorda di notificare la proroga del sequestro.

MANUELE BONACCORSI Lei lo sa dove sono ora queste opere? Lei, tra l’altro, è anche il presidente della Fondazione Canova, no?

VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA Sì. Sono sicuramente in Italia, ma immagino che siano in una delle case di Agnelli.

MANUELE BONACCORSI Le case di Agnelli sono state messe in vendita e svuotate di tutti...

VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA Non è che uno siccome vende le case, non ha un deposito dove mettere le opere.

MANUELE BONACCORSI Il Ministero dovrebbe saperlo.

VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA Ma il problema riguarda il sovrintendente, vada dalla sovrintendente che le dirà dove stanno.

 MANUELE BONACCORSI Sto parlando al Ministero perché è il capo della Sovrintendenza.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Tra i quadri finiti nel fascicolo della Procura c’è anche un De Chirico: la Melanconia di una Strada, del 1914. Difficile stimare il valore, ma per gli esperti non siamo sotto i 30 milioni di euro.

LORENZO CANOVA - FONDAZIONE GIORGIO E ISA DE CHIRICO Io so questo: nel 2000 ero il giovane collaboratore alla cura scientidica della mostra “Novecento. Arte e storia in Italia”, che si organizzò alle Scuderie del Quirinale. E il mio maestro con cui lavoravo, Maurizio Calvesi, un grande storico dell'arte e uno dei massimi esperti in assoluto dell'opera di De Chirico, era il curatore della mostra. Agnelli lo invitò nella sua casa a Roma. Calvesi in quell’occasione vide Mistero e Malinconia di una Strada proprio in casa nella collezione personale di Gianni Agnelli e disse giustamente perché era un quadro talmente importante che avrebbe fatto la gloria della mostra, disse: “Avvocato, lo presterebbe?”. “Guardi, io lo presterei con molto piacere, ma non voglio che venga notificato perché i quadri a volte ho voglia di scambiarli”...

MANUELE BONACCORSI Questo quadro, secondo lei è un quadro che andrebbe tutelato?

LORENZO CANOVA - FONDAZIONE GIORGIO E ISA DE CHIRICO Beh, sì, secondo me sì, perché è un quadro talmente importante. Diciamo come si sottopone a tutela un quadro di Caravaggio.

MANUELE BONACCORSI Né lei né Calvesi avete fatto una telefonata in Soprintendenza per informarli che un'opera di questa importanza si trovava lì? LORENZO CANOVA - FONDAZIONE GIORGIO E ISA DE CHIRICO Beh, guardi, diciamo... Non… questo, fuori delle cose. Già era stato così gentile, poi negava gli altri prestiti. Non era una cosa da… secondo me non so. Forse è una domanda che se tu la puoi eliminare, forse ti sarei obbligato.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Poi, a latere dell’intervista, il professor Canova ci svela un dettaglio molto rilevante.

LORENZO CANOVA - FONDAZIONE GIORGIO E ISA DE CHIRICO Io so da un'altra persona, però questa cosa non la posso riportare integralmente, che lavorava a casa Agnelli, qui a via IV Novembre, che il quadro probabilmente è stato portato via nel 2018.

MANUELE BONACCORSI Ma via dove?

LORENZO CANOVA - FONDAZIONE GIORGIO E ISA DE CHIRICO Probabilmente in Svizzera. Lì dove hanno altri quadri della collezione.

MANUELE BONACCORSI Può essere questo quadro che mi dicono essere rilevantissimo nella storia del pittore il Ministero non sappia dove si trovi?

VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA Beh, rilevante come molte opere. Ma dovunque sia non abbiamo interesse di sapere dove si trovi un De Chirico. De Chirico è nato in Grecia. Lei pensa che sia italiano perché è ignorante come una capra.

MANUELE BONACCORSI No. Perché viveva a Roma, in Piazza di Spagna. Era un pittore romano, che ha vissuto gran parte della sua vita in Italia e aveva la cittadinanza italiana. Professore, non mi faccia i trucchi.

VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA La smetta di dire fesserie, certo, ma oggi che ce l'ha e il quadro sarà in una casa straniera.

MANUELE BONACCORSI Se questo quadro è uscito dall'Italia si chiama esportazione illecita di opere d'arte.

VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA Ma come fa a dire che è uscito dall’Italia?

MANUELE BONACCORSI Reato, professore che lei conosce molto bene, perché è anche indagato su questo reato. Risulta che un'opera che si trovava a casa sua è stata ritrovata a Monaco. Un Valentin de Bologne, Concerto per Bevitore.

VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA Era una replica fatta da un pittore italiano nel 1980.

MANUELE BONACCORSI Su questa questione lei è indagato per esportazione illegale. Che è un po’ un paradosso che un sottosegretario alla Cultura indagato per esportazione illegale. Oh, lei è sicuramente innocente, però è il caso che ci spieghi perché è innocente.

VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA Ma il dipinto non era mio. Il dipinto era di un signore che mi ha chiesto la perizia. Gli avevo detto che il dipinto era stato fatto nel 1980.

MANUELE BONACCORSI E poi da casa sua parte e si ritrova a Monaco.

VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA Non da casa mia. L'operazione, come ho spiegato al magistrato, è del tutto al di là della mia precisa volontà.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO È sparito pure un Giacomo Balla, il più importante autore del futurismo italiano. Si chiama la Scala degli addii, datato 1908. Acquistato all’asta a New York nel 1990 per 4 milioni di dollari da Gianni Agnelli, viene esposto poi nella casa romana, in camera da letto. Per quanto ne sa Report non esiste alcun permesso di importazione dell’opera. Elena Gigli è la più nota studiosa di Balla, autore di cui sta redigendo il catalogo completo.

MANUELE BONACCORSI Dottoressa lei l’ha mai visto questo quadro?

ELENA GIGLI - STORICA DELL’ARTE – REDATTRICE CATALOGO GIACOMO BALLA Magari lo avessi visto. É un quadro che Giacomo Balla ha ritenuto sempre molto importante. Quando viene proprio esposto nel 1910, la regina Margherita lo fa mettere per terra. Nel senso che l'opera bisognava guardarla dall'alto verso il basso perché rappresenta già la prefigurazione di quello che poi sarà il vortice nell'opera pittorica di Giacomo Balla del 1913.

MANUELE BONACCORSI Secondo le informazioni ricevute da Report, nella lista c’è anche un altro quadro di Balla, molto importante. Si chiama Vecchio Falegname, un olio su tela.

ELENA GIGLI - STORICA DELL’ARTE – REDATTRICE CATALOGO GIACOMO BALLA Questa è una bella scoperta da parte vostra. E mi fate questa domanda perché io il quadro l’ho schedato però senza le misure e non ne conoscevo per niente.

MANUELE BONACCORSI Le misure gliele possiamo dare noi. 100x75. Quanto è stato esposto l'ultima volta?

ELENA GIGLI - STORICA DELL’ARTE – REDATTRICE CATALOGO GIACOMO BALLA Credo solo agli Amatori e Cultori del 1904.

MANUELE BONACCORSI Quindi sono 120 anni che quest'opera non la vede nessuno.

ELENA GIGLI - STORICA DELL’ARTE – REDATTRICE CATALOGO GIACOMO BALLA No.

MANUELE BONACCORSI Quest'opera, secondo le nostre informazioni, si trova a Saint Moritz, in Svizzera. Quantomeno si trovava nel 2004 a Saint Moritz.

ELENA GIGLI - STORICA DELL’ARTE – REDATTRICE CATALOGO GIACOMO BALLA Può darsi, come dico io, le opere hanno le ali.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La Procura di Milano indaga per ricettazione, non per esportazione illegale di opere d’arte. Il PM Fusco ha chiesto l’archiviazione dopo non aver trovato i quadri che cercava di Margherita nel caveau di Chiasso. Il legale di Margherita però si è opposto. Vedremo come andrà a finire. Perché la questione non è tanto il contenzioso ereditario tra la madre Margherita e i figli Elkann corredato anche dal giallo della pagina 75 del catalogo sparita, quanto il destino dell’intera collezione che apparteneva a Gianni Agnelli, 636 capolavori. Ora. Il Ministero cosa sa di questa collezione? Abbiamo chiesto un accesso agli atti. Il Ministero ci ha dato l’ok, gli Elkann invece si sono opposti al tar. Vedremo come andrà a finire. Nel frattempo John, Lapo e Ginevra ci hanno scritto che “che la nostra richiesta non riveste alcun interesse pubblico” e che loro “hanno operato nel rispetto delle norme applicabili e che non commentano oltre perché è una vicenda di natura privata”. Ci ha scritto anche Margherita attraverso i suoi legali e ci ha detto che “non commentano per ragioni di riservatezza e sicurezza”, ma sottolineano che lei non si è opposta all’accesso agli atti. Vedremo cosa decideranno i giudici. Però, insomma, gli Elkann che hanno dislocato i loro interessi industriali ormai all’estero, la bellezza, la grande bellezza, potrebbero continuare a condividerla con gli italiani, cioè con quel popolo che tanto ha contribuito alla loro ricchezza?

Estratto dell’articolo di Mario Gerevini per “Il Corriere della Sera” sabato 14 ottobre 2023.

Davvero quadri d’autore di grande valore sono stati sottratti al patrimonio ereditario che spettava a Margherita Agnelli? È una partita che la madre di John, Lapo e Ginevra Elkann sta giocando, contro i figli, all’interno dell’annosa, tortuosa e «sanguinosa» disputa sull’eredità Agnelli, che lei vorrebbe azzerare. 

Ma c’è l’altra «campana» da sentire, i figli appunto: una replica dura e puntigliosa, agli atti del procedimento di Torino, ora «congelato» in attesa dei giudici svizzeri. E poi c’è il giallo di una pagina rimossa dall’inventario dei beni contenuti in tre case che furono di Gianni Agnelli (morto nel 2003) e che dopo la scomparsa della moglie Marella Caracciolo (2019), usufruttuaria, sono passate alla figlia Margherita.

Siccome la materia del contendere non è la friggitrice mancante o un set di posate, ma opere d’arte da centinaia di milioni, di artisti come, tra l’altro, Giacomo Balla, Giorgio De Chirico, Jean-Léon Gérôme, Claude Monet, Francis Bacon, cioè un patrimonio culturale anche di interesse pubblico, la questione esce dai confini familiari. 

Ed è su questo che Report di Sigfrido Ranucci, in onda domenica 15 ottobre alle 20,55 su Rai Tre, indirizza la sua inchiesta tra Italia e Svizzera per capire, appunto, dove sono finite le opere e se sono uscite dall’Italia (questione, per altro, oggetto di indagine della Procura di Milano). 

Noi rimaniamo in Patria e andiamo all’aprile 1999, quando l’Avvocato scrive il terzo testamento stabilendo che alla sua morte gli immobili di Torino (Villa Frescot), Villar Perosa e Roma (un grande attico a due passi dal Quirinale) sarebbero andati «per l’usufrutto vitalizio a mia moglie Marella e per la nuda proprietà ai miei due figli Margherita e Edoardo», poi morto suicida nel 2000 a 46 anni.

Margherita nel 2004 firma a Ginevra l’accordo transattivo sull’eredità del padre e un patto successorio con la madre rinunciando alla sua futura eredità. Tutto compreso porta a casa, in Svizzera, circa 1,4 miliardi. E quando muore anche la madre entra in possesso dei tre immobili, nel frattempo concessi in comodato d’uso o locazione a John Elkann. 

Dagli immobili, però, «risultavano ammanchi di beni di ingentissimo valore di proprietà del padre», denuncia al tribunale di Torino Dario Trevisan, legale di Margherita. Nell’elenco di «Opere non rinvenute» ci sono quadri di Balla, De Chirico e Gérôme a Roma; Monet e due Bacon a Villar Perosa e Villa Frescot. 

I fratelli Elkann replicano quadro per quadro. I Balla, de Chirico e Gérôme? «L’inventario dei “beni contenuti nell’immobile di Roma”, firmato da Marella e da Margherita, e confluito dell’allegato 2A dell’Accordo Transattivo, non contiene volutamente la pagina 75, espunta, nella quale erano stati indicati tali quadri».

Perché è stata «espunta» pagina 75 dell’inventario? «Perché — secondo i tre figli di Margherita — i dipinti di Balla, de Chirico e Gérôme erano di proprietà di Marella». Dunque fuori dalla rotta ereditaria di Margherita e passati ai tre nipoti. Sul Gérôme in particolare ci sarebbe un’inattaccabile fattura d’acquisto di Marella del 13 novembre ‘91. 

Sul Monet la prova che non appartenesse a Gianni è che «non risultava in alcuna lista specificamente dedicata a tutte le opere d’arte appartenutegli». E i due Bacon? «Venduti da Gianni negli anni ‘90».

È alquanto intrigante la circostanza dell’eliminazione di pagina 75 dell’inventario, dove erano elencati alcuni dei quadri più preziosi. In effetti, mettendo insieme le carte in mano al Corriere con quelle che Report mostrerà in esclusiva domenica sera, c’è un «buco» nell’allegato del 2004. Secondo fonti vicine agli Elkann la pagina è stata tolta proprio al momento della firma dell’accordo. Però era un atto di grande importanza, sostanziale e formale: possibile che sia stata tolta una pagina come si fa con i quaderni di scuola? 

E perché una volta eliminata pagina 75, il documento non è stato ristampato con la sequenza corretta di pagine? Non risulta — dalle fonti interpellate di entrambe le parti — che sia stato aggiunta una postilla o un verbale controfirmati che dessero conto del taglio. Secondo fonti legali vicino a Margherita è falso che ci fosse l’accordo per eliminare quella pagina in cui, tra l’altro, comparivano proprio i quadri che più interessavano a Marella; se fossero stati davvero suoi — è la tesi — dovevano essere indicati nella lista ad hoc dei beni di Marella, anch’essa allegata all’accordo del 2004. […]

Estratto da affaritaliani.it giovedì 28 settembre 2023.

Dietro alla sparizione di 400 opere d'arte appartenute all'Avvocato Gianni Agnelli ci sarebbe la solita questione dell'eredità, lo scontro che dura da decenni tra Margherita e i suoi figli e nipoti. 

[…] dove sono finiti i quadri che erano custoditi in caveau in Svizzera? Chi si è impossessato di quelle 400 opere che valgono un tesoro? Domande ancora senza una risposta e a queste se ne potrebbero aggiungere altre. Non si spiega ad esempio - si legge nell'anticipazione dell'inchiesta su Panorama - come mai il ministero della Cultura e i carabinieri non intervengano nella vicenda per proteggere un bene artistico di interesse nazionale. 

[…]

Stando a quanto ricostruito - prosegue Panorama - il valore delle opere sarebbe stato sottostimato dagli esperti valutatori chiamati dagli eredi. Il patrimonio in opere d'arte sarebbe stato infatti quantificato in 213 milioni ma il reale valore sarebbe di dieci volte superiore e supererebbe secondo alcune stime addirittura i 2 miliardi. 

In quella collezione ci sono infatti quadri di Klimt, Monet e Picasso. Solo un'opera di quest'ultimo da sola ne varrebbe 80 milioni. Potrebbe quindi esserci la non attendibilità di questa valutazione dietro alla "sparizione". Qualcuno deve aver fiutato l'affare, sta di fatto che questo patrimonio artistico è scomparso nel nulla. […]

Estratto dell'articolo di Luigi Ferrarella per corriere.it giovedì 31 agosto 2023.

Picasso, Bacon, Monet, De Chirico, Balthus, Balla: una perquisizione a colpo sicuro per ritrovare una parte del tesoro d’arte degli Agnelli. Questa avrebbe dovuto essere l’azione concertata dalla Procura di Milano e dai magistrati svizzeri nel «box n. 253 delle cabine extraterritoriali presso i Magazzini Generali con Punto Franco Sa di Chiasso» preso in affitto da una società elvetica di consulenza e compravendita nel campo dell’arte, visto che in quel posto Margherita Agnelli con i suoi 007 privati assicurava sarebbero stati trovati i quadri di straordinario valore che lamenta le siano stati sottratti nella suddivisione dell’eredità prima di suo padre Gianni Agnelli e poi nel 2019 della madre Marella Caracciolo. 

Ma quando gli inquirenti milanesi ed elvetici sono piombati nella cabina doganale, vi hanno trovato un bel nulla. Non solo non c’erano i quadri, ma da tutte le indagini collegate (esame delle telecamere, studio dei registri informatici, badge di accesso) non è emersa nemmeno una briciola di traccia dei dipinti, e nemmeno di un qualche ruolo del titolare della società affittuaria della cabina e dei suoi trasportatori. Al punto che ora la Procura di Milano chiede l’archiviazione dell’ipotesi di reato di furto per la quale il gallerista e un suo dipendente erano stati inquisiti sulla scorta della denuncia di Margherita Agnelli nel maggio 2022.

A suo dire, infatti, opere come «Glacons, effet blanc» di Claude Monet, «Study for a Pope III e IV» di Francis Bacon, «Torse de femme» e «Series of Minitaur 4 engravings signed» di Pablo Picasso, «Mistery and Melancholy of a Street» di Giorgio De Chirico, «Nudo di profilo» di Balthus, «The Stairway of Farewells» di Giacomo Balla, «Pho Xai» di Jean Leon Gerome erano sparite da una casa dell’Avvocato a Roma e da Villa Frescot a Torino: e a riprova indica fotografie delle case con alcuni di quei quadri alle pareti, dichiarazioni di domestici, un post-it (su un paio di quei quadri) appiccicato a un inventario. Del resto questo argomento dei quadri scomparsi era stato già abbozzato all’interno della principale causa civile che da tempo si sta combattendo in seno alla famiglia Agnelli davanti al Tribunale civile di Torino.

 […] 

La Procura di Milano chiede allora una rogatoria alla Svizzera, che il 7 luglio 2022 esegue le perquisizioni e gli interrogatori indicati dal procuratore aggiunto Eugenio Fusco e dal pm Cristian Barilli: ma «all’esito di tutte le verifiche non veniva riscontrata alcuna anomalia, né elementi di interesse investigativo».  […] Dunque, conclude ora la Procura milanese, «non è ragionevolmente possibile attribuire agli indagati alcuna condotta di acquisto, ricezione o occultamento delle opere d’arte di Margherita Agnelli». La quale però non demorde, e con l’avvocato Dario Trevisan già ha depositato all’Ufficio Gip del Tribunale di Milano opposizione all’archiviazione. 

EREDITÀ AGNELLI, MARGHERITA VS JOHN ELKANN/ FIGARO: FIGLIA AVVOCATO CONTESTA “BENI NASCOSTI”. Estratto dell’articolo di Josephine Carinci per ilsussidiario.net lunedì 7 agosto 2023.

John Elkann per il mondo intero è “l’erede al trono” della sua famiglia. Tutti lo riconoscono come tale dopo la morte del nonno Gianni Agnelli e del prozio Umberto, tranne la madre, Margherita Agnelli, che combatte in tribunale per l’eredità. 

Nella famiglia Agnelli, “il potere” è passato di padre in figlio, escludendo dalla dinastia le donne. Edoardo, figlio del fondatore della Fiat Giovanni Agnelli, perse la vita in un incidente di idrovolante nel 1935. Il figlio Gianni subentrò alla guida dell’impero nel 1945. Edoardo, il figlio, si suicidò nel 2000 mentre Giovannino, il suo amato nipote, fu colpito da un cancro all’età di 33 anni. Da lì, John Elkann è diventato “il capo” dell’impero.

John aveva solo 21 anni quando Gianni lo inserì nel consiglio di amministrazione della Fiat. Per evitare la dispersione del capitale nelle generazioni, l’avvocato aveva inserito le proprie azioni in una holding. Elkann è il presidente di Stellantis, di Ferrari e amministratore delegato della holding di partecipazioni della famiglia Agnelli, Exor. Questa controlla Ferrari, Gedi, CNH e altre società, come sottolinea Le Figaro. 

[…] Alla morte di Gianni Agnelli nel 2003, la vedova Marella e la figlia Margherita conclusero un affare: a Margherita andò il patrimonio immobiliare […] e la monumentale collezione d’arte dove si possono trovare opere di Klimt, Picasso, Bacon o Warhol. Il tutto, per un valore di oltre un miliardo di euro, che oggi vale molto di più. 

In cambio, la figlia lasciò alla madre le sue quote (37% del capitale, valutate 106 milioni di euro). Marella, invece, decise di cedere il potere a John, la maggioranza, a  Lapo e Ginevra Elkann, i tre figli che Margherita ebbe dal suo primo matrimonio con lo scrittore francese Alain Elkann. 

Margherita, però, il 30 maggio 2007 affermò di essere stata ingannata e che i beni del patrimonio di suo padre le erano stati nascosti. Diede la colpa agli avvocati che a suo dire le avrebbero fatto firmare i documenti in fretta e furia.

Da lì si diffuse la voce di un patrimonio nascosto degli Agnelli, tanto che la stessa figlia dell’Avvocato chiese un rendiconto sul patrimonio del padre che però le fu negato dai giudici, come ricorda Le Figaro. Nel 2016 ha aperto un procedimento contro la madre […]  morta nel 2019. Da quel momento, però, non ha sotterrato l’ascia di guerra: secondo lei  […] la transazione e il contratto del 2004 non sono validi. I rapporti con John Elkann sono inesistenti, così come con gli altri figli. A giugno […], il tribunale di Torino ha “congelato” il procedimento […] in attesa che si definiscano le analoghe cause pendenti in Svizzera.

Réservé aux abonnés. Chez les Agnelli, la guerre ravageuse de la fille de «l’Avvocato». Par Bertille Bayart. Publié le 04/08/2023 su lefigaro.fr.

Margherita remet en cause les modalités de la succession de son père, Gianni Agnelli, puis de sa mère, Marella. Un combat qui la met aux prises avec ses propres enfants, dont John Elkann, devenu le patron de la dynastie.

Le capitalisme familial a bâti certaines des plus belles entreprises et des plus grandes fortunes du monde. Mais chaque passage de témoin d’une génération à une autre est un moment périlleux. Quand une entreprise est en héritage, des frères et sœurs, cousins et cousines, fils et filles, enfants et parents se déchirent parfois pour le patrimoine et le pouvoir. Le Figaro fait le récit de certaines de ces batailles, à la fois intimes et publiques.

Dans la presse internationale, pour tous les investisseurs, il est «l’héritier Agnelli». À Turin, il est le chef de la dynastie la plus puissante d’Italie. Vingt ans après son accession au trône après les décès de son grand-père Gianni Agnelli en 2003 et de son grand-oncle Umberto en 2004, le monde entier reconnaît John Elkann comme tel. Le monde entier, sauf peut-être sa propre mère. Margherita Agnelli de Pahlen, la fille de «l’Avvocato» Gianni, bataille devant les tribunaux pour son héritage. Et cela fait près de vingt ans que cela dure. On n’est…

Estratto dell’articolo di Ettore Boffano per il Fatto Quotidiano il 5 febbraio 2023.

 Una volta tanto, bisogna partire dal finale, infrangendo il tabù di ogni buon lettore: mai cercare di sapere prima quale sarà l’epilogo.

Quello che gli inglesi chiamano spoiler. Soprattutto, cominciando dall’ultima frase di un reportage del Die Zeit, il settimanale tedesco diretto da Giovanni di Lorenzo, pubblicato il 24 novembre scorso. Una sola parola, “Lebensgefährlich” (“pericolo di morte”), allarmante e, ancora di più, sconcertante, soprattutto se accostata al titolo dell’articolo - “Fino al sangue” - e al suo argomento: la nuova battaglia legale che, nel Tribunale Civile di Torino, contrappone Margherita Agnelli de Pahlen ai suoi figli di primo letto, John, Lapo e Ginevra Elkann, per l’eredità della madre Marella Caracciolo, e - di fatto - per il controllo del patrimonio che fu di suo padre, Gianni Agnelli, morto 20 anni fa, il 24 gennaio 2003.

(...)

 La sequenza, ricostruita nelle dichiarazioni della vittima alla Polizia Regionale dell’Oberland Bernese, ha i contorni di un pestaggio e di una minaccia di morte: con dovizia di particolari su abiti, fisionomie e armi degli aggressori. Ecco in breve i fatti raccontati da Die Zeit, ma soprattutto nella deposizione (lunga 16 pagine) della vittima: rilasciata l’11 maggio 2021, a Thun, a due funzionarie della Kantonspolizei e che il Fatto Quotidiano ha potuto consultare.

L’altro avvertimento 6 mesi prima Dalle auto scendono tre persone: “Due erano sicuramente italiane, il terzo forse un polacco o uno slavo”. Il primo, all’apparenza il capo, è vestito di scuro.

(...)

 Dopo il secondo agguato, l’uomo abbandona il caso e smette di comunicare con i suoi committenti. Lo rifarà solo settimane dopo e, infine, accetta di rivolgersi alla polizia. Quando, però, i segni delle violenze erano già scomparsi: “Ero sconvolto, come mia moglie: volevo solo cancellare la paura dalla mente”. Spiegherà così la scelta di rinunciare all’incarico: “Già prima della minaccia nel parcheggio, avevo intuito di essere ‘bruciato’ nelle indagini. Dopo la seconda, ho capito in che situazione ero finito: in pericolo di vita. Non ne ho certezza, ma penso fossero mandati da chi sapeva”.

Che incarico stava svolgendo? Il solo che potrebbe giustificare quegli episodi è la collaborazione con gli investigatori ingaggiati dalla figlia dell’Avvocato per indagare su alcuni profili legati alla disputa legale per l’eredità della madre, morta il 23 febbraio 2019 all’età di 91 anni a Torino. In particolare, abitando in quella zona, doveva accertare se fosse vero che Marella Agnelli, pur essendo cittadina italiana, manteneva la sua residenza effettiva in Svizzera, in uno chalet vicino a Gstaad.

 Una circostanza decisiva per determinare l’esito della causa apertasi nel novembre scorso a Torino, la città della dinastia Fiat. 

(...)

Secondo la sua tesi, Marella Agnelli non avrebbe mai abitato stabilmente in Svizzera.

 Ma dove viveva davvero Marella Caracciolo Agnelli? A Lauenen, un villaggio di montagna vicino a Gstaad, nello Chalet Icy passato in eredità alla nipote Ginevra? A Torino, nella Villa Frescot che era la dimora di Gianni Agnelli? O in Marocco, a Marrakech, nella villa Ain Kassimou, già di un discendente di Lev Tolstoj? Sono stati passati al vaglio i piani di volo, i decolli e gli atterraggi degli aerei e degli elicotteri a disposizione della famiglia, tra cui un Jet Dessault Falcon e un Bombardier Global 6000, a Torino e a Gstaad tra il 2001 e il 2017; le spese farmaceutiche riferibili a Marella in territorio svizzero (per esempio 20 mila franchi tra luglio e agosto 2017): i documenti delle autorità marocchine per l’immigrazione, i dati dei voli verso il Marocco, le fatture dei fornitori e gli impegni di lavoro dei dipendenti nella villa Ain Kassimou.

Un’analisi nella quale si sostiene che la vedova dell’Avvocato “faceva la pendolare” tra Torino e il Marocco dove, spesso, si sarebbe fermata tutto l’inverno. Mentre non avrebbe passato quasi mai, al contrario, del tempo in Svizzera: se non tra luglio e agosto.

 Affermazioni che i legali dei fratelli Elkann definiscono senza alcun fondamento.

Nella denuncia, l’investigatore minacciato ha raccontato anche le difficoltà nel ricercare testimonianze. Scrive Ingo Malcher: “Ha detto di aver contattato diverse persone per scoprire quanto spesso Marella Agnelli avesse soggiornato a Gstaad. Nessuno voleva parlare”.

Dopo il primo avvertimento nel parcheggio multipiano, si legge ancora nel verbale, l’uomo sarebbe riuscito invece a trovare un confidente, “ma tre giorni dopo, non ne ho più saputo nulla”. Poi l’agguato del Natale 2020. Il procuratore cantonale di Berna, Sandro Thomann, ha indagato contro ignoti e poi, il 24 gennaio 2022, ha “sospeso” l’inchiesta, ma senza archiviarla: “Sono sconosciuti gli autori e la loro provenienza”. La parte lesa invece ha chiesto, invano, di acquisire immagini delle telecamere di sorveglianza, eventuali tracce nelle celle telefoniche e di controllare i registri d’ingresso alla frontiera di auto con targhe straniere.

 E così come il legale di Margherita non ha mai citato quell’episodio nelle sue memorie legali, con altrettanta fermezza le fonti vicine ai fratelli Elkann hanno ribadito al settimanale tedesco di “non aver mai sentito parlare di quella vicenda”. Restano ora solo il verbale della vittima e il racconto di alcuni minuti di terrore per il collaboratore degli investigatori di Margherita. A fermarlo fu la sensazione di un pericolo. Lebensgefährlich, un “pericolo di morte”.

(ANSA l’1 febbraio 2023) Una querela per diffamazione è stata presentata dall'avvocato milanese Luigi Emanuele Gamna contro Margherita Agnelli, figlia di Gianni Agnelli, e lo scrittore Gigi Moncalvo. L'iniziativa si riferisce al libro 'Agnelli Coltelli', pubblicato da Moncalvo con l'editore Vallecchi. Gamna, che ha depositato la querela a Firenze affermando che 'alcuni passi del volume hanno contenuto diffamatorio', si occupò con un collega, per conto di Margherita Agnelli, della successione aperta dopo la morte dell'Avvocato. In seguito Margherita fece causa alla madre e, più di recente, a John Elkann.

Libro «Agnelli Coltelli», querelati Margherita Agnelli e Gigi Moncalvo. Il Corriere della Sera l’1 febbraio 2023. La denuncia dell'avvocato Emanuele Gamna nei confronti dell'autore del volume e della figlia dell'Avvocato per «alcuni passi dal contenuto diffamatorio»

Una querela per diffamazione è stata presentata dall'avvocato milanese Luigi Emanuele Gamna contro Margherita Agnelli, figlia di Gianni Agnelli, e lo scrittore Gigi Moncalvo. L'iniziativa si riferisce al libro «Agnelli Coltelli», pubblicato da Moncalvo con l'editore Vallecchi. 

Gamna, che ha depositato la querela a Firenze affermando che «alcuni passi del volume hanno contenuto diffamatorio», si occupò con un collega, per conto di Margherita Agnelli, della successione aperta dopo la morte dell'Avvocato. In seguito Margherita fece causa alla madre e, più di recente, a John Elkann.

Gamna afferma che nel libro compare una «tesi di fondo» secondo cui, insieme al collega, nel corso della trattativa si comportò con «mancanza di trasparenza» e di «arrendevolezza», se non addirittura di «sostegno intenzionale», verso la controparte, «lavorando per due padroni». 

Sul suo operato sarebbero stati quindi lanciati dei sospetti di patrocinio infedele e di truffa. Nella querela, dopo avere illustrato gli argomenti che confutano la «tesi di fondo», ribadisce che «i magistrati non mi hanno né condannato né incriminato» per questi presunti «delitti».

Dagospia il 23 gennaio 2023. Riceviamo e pubblichiamo:

Gentile Dago,

Come forse Lei ricorda, ho assistito Margherita Agnelli nella successione ereditaria di suo padre negli anni 2003-2004 per la parte legale. Ho letto il suo commento di oggi all’articolo apparso sul Sole-24 Ore a firma di Marigia Mangano e debbo fare alcune precisazioni.

 Dopo che Umberto Agnelli a fine 2003 ci comunicò che non era stata accettata la nostra proposta di commutare il 37,5% ereditato da Margherita nella società semplice Dicembre con azioni dell’Accomandita di famiglia, così da porre la figlia dell’Avvocato sullo stesso piano delle zie e dei cugini, Margherita - che è donna intelligente, scaltra e assai determinata - decise, in piena autonomia di uscire dalla Dicembre e cedere la sua quota alla madre Marella per due motivi: nella Dicembre, con una quota di minoranza, non avrebbe mai contato nulla e poi essa non aveva alcuna fiducia nelle doti manageriali del figlio John e del team che gestiva all’epoca il Gruppo Fiat (che al tempo era notoriamente sull’orlo del fallimento).

Insomma Margherita non fu mai obbligata a vendere quella quota ne’ ricordo insistenze in tal senso, anzi.

 E’ poi vero che durante l’anno successivo alla vendita io suggerii caldamente a Margherita di investire una parte soltanto dell’importante liquidità di cui essa disponeva nel Gruppo Fiat acquistando in borsa (con l’aiuto di alcune banche specializzate) una quota azionaria del 10%, ciò che era pienamente alla sua portata e le avrebbe consentito di diventare il secondo azionista del Gruppo.

Si trattava di scommettere nel bene e nel male sul nuovo management, ma Margherita si dichiarò non d’accordo perché la sfiducia soprattutto nel figlio John era rimasta intatta e, inoltre, sia il marito che i suoi consulenti economici del tempo erano fortemente contrari a una tale iniziativa e avevano caldeggiato la radicale separazione del patrimonio da quello famigliare.

 Se Margherita avesse seguito il mio suggerimento, ora il suo patrimonio complessivo avrebbe un valore non inferiore a 12 miliardi di Euro.

E d’altronde la famiglia che rimase nell’azionariato del Gruppo ha beneficiato dei forti incrementi di valore conseguiti nell’era Marchionne, come spiega il Sole-24 Ore. Quanto sopra è bene che si sappia, dato che Margherita si dipinge da anni come un’ingenua sprovveduta vittima di un sistema corrotto e sopraffattore. Ciò che non è.

Grazie fin d'ora dell’attenzione.

Emanuele Gamna

Agnelli, i miliardi dell’eredità contesa: da 16 anni Margherita contro i figli. Mario Gerevini su Il Corriere della Sera il 25 gennaio 2023.

Quando alle 8,48 del 24 gennaio 2003 un flash dell’Ansa annuncia la morte di Gianni Agnelli, la Ferrari di Schumacher è campione del mondo in carica, la Juventus di Lippi ha lo scudetto sulla maglia dopo quattro anni di astinenza, la Fiat è in una crisi nerissima (ne uscirà imperiosamente affidando la gestione a Sergio Marchionne) e il nipote John Elkann ha già da tempo lo scettro dell’erede designato, ovvero le azioni della Dicembre, la cassaforte torinese al vertice di tutto il gruppo con asset per quasi 30 miliardi (oggi Exor, Stellantis, Ferrari, Juventus ecc). Ecco, diciamolo subito: qui risiede da sempre il vero potere che, se ben utilizzato, genera continua ricchezza. La Dicembre è il sacro graal. Il resto è “solo” qualche statico miliardo in immobili, opere d’arte, quote di fondi di investimento. Ma in quel momento, con la Fiat a rischio default, la cassaforte è una scommessa.

Il primo strappo in famiglia

Oltre alle luci dello sport e alle ombre dell’industria, l’inverno del 2003 si porta dietro il primo strappo in famiglia, apparentemente “ricucito” in fretta e senza eco esterna. Poi a distanza di 4 anni dubbi, sospetti e risentimenti sfoceranno in una lunga, sanguinosa guerra legale. Margherita Agnelli de Pahlen, 67 anni, unica figlia dopo il suicidio di Edoardo, andrà prima (2007) all’attacco dei professionisti più vicini al padre chiedendo conto del reale perimetro del patrimonio; e dopo (2020) chiamerà in causa i figli John, Lapo e Ginevra Elkann e gli atti della madre Marella Caracciolo per annullare, di fatto, tutti gli accordi sull’eredità.

La prima offensiva (contro Gianluigi Gabetti, Grande Stevens e Siegfried Maron) si è definitivamente chiusa col rigetto di tutte le richieste di Margherita ma ha fatto venire alla luce il mondo grigio e sotterraneo del patrimonio offshore dell’Avvocato. La seconda (contro figli e madre) è tuttora viva in diversi tribunali, italiani e svizzeri, a 20 anni dalla morte di Gianni Agnelli. Vediamo, in sintesi, le tre tappe fondamentali della saga familiare.

Gli accordi del 2004

Un mese dopo la scomparsa di Agnelli, il 24 febbraio 2003 «ci siamo trovati - ha raccontato anni fa Margherita ai giudici milanesi - davanti al notaio Ettore Morone e a due suoi collaboratori che fungevano da testimoni, io, mia madre, mio figlio John, Gabetti e Grande Stevens, che era esecutore testamentario». La successione non si chiuse in quell’occasione. Ci furono diversi momenti di tensione, anche sulla distribuzione delle quote della Dicembre. «Ma le sorprese non erano finite. Perché … mia madre disse di voler donare a John la sua quota. Con il che, John diventa azionista di maggioranza nella Dicembre. Io ricordo di aver detto a mia madre: ‘Ma che fai!’. Ma alla fine ho capito che era stato tutto già concertato». Del resto erano le precise volontà di Gianni Agnelli: uno solo della famiglia deve comandare. Quel 24 febbraio 2003 la Dicembre è già divisa in tre parti (e generazioni) uguali: 33% Marella, 33% Margherita e 33% John. Ma contemporaneamente la nonna dona al nipote gran parte della sua quota e così si compie matematicamente il passaggio di controllo: il giovane Elkann (allora aveva 27 anni) prende la maggioranza della cassaforte che attraverso l’accomandita governa l’impero. Intanto parte un negoziato per chiudere la successione con Margherita. Si schierano gli avvocati e un anno dopo si arriva a quelli che passeranno alla storia della famiglia come gli accordi di Ginevra. Sono due fondamentali contratti. Il primo è l’accordo transattivo sull’eredità di Gianni in base al quale Margherita riceve immobili, opere d’arte, liquidità, rinuncia alla Dicembre e vende la sua quota (la Fiat in crisi toglieva appeal e valore alla partecipazione). Quindi, in teoria, nulla più a pretendere dalla successione del padre. Il secondo è un patto successorio con il quale viene già stabilito il quantum della successione di Marella e dunque la figlia rinuncia a rivendicare ulteriori beni. Perciò, sempre in teoria, nulla più a pretendere dalla successione della madre. Il tutto in cambio di circa 1,3 miliardi.

L’impugnazione

Però tre anni dopo, nel maggio 2007, Margherita dissotterra l’ascia di guerra. Che cosa era successo? Per un errore nel bonifico di un funzionario della Morgan Stanley di Zurigo, aveva scoperto l’esistenza di conti esteri intestati a società offshore di cui, a suo dire, non aveva mai saputo nulla. Dunque esisteva un patrimonio di Gianni Agnelli che è rimasto nascosto? Parte la causa contro la madre e i consulenti stretti dell’Avvocato (Gabetti, Grande Stevens, Maron) per ottenere un rendiconto. Ed è solo a questo punto che il conflitto si alza di livello, diventa pubblico, popolare, esce dai tribunali ed entra dai parrucchieri. Ne parlano tutti. È la guerra degli Agnelli, è l’Avvocato con i conti esteri che scopriamo un po’ meno mito e un po’ più finanziere, è l’irresistibile paradosso dei ricchissimi che si fanno la guerra per un tozzo di miliardi. La lunga causa di Margherita si chiude con una sconfitta su tutta la linea e il conto finale glielo presenta la Cassazione nel 2015.

L’ultimo affondo di Margherita

Nel 2019, sedici anni dopo il marito, muore a 92 anni Marella Caracciolo che con tre testamenti aveva lasciato tutto ai tre nipoti Elkann. Ma del resto abbiamo visto che Margherita con il patto successorio del 2004 aveva già rinunciato all’eredità materna. In teoria. In pratica l’agguerrita signora torna alla carica, pretendendo di azzerare gli atti ereditari e introdurre nella successione anche i suoi 5 figli de Pahlen, avuti nel matrimonio con Serge de Pahlen dopo i tre, poco più che ventenne, delle prime nozze con Alain Elkann. La partita in corso comincia nel febbraio 2020 quando Margherita e quattro dei cinque figli de Pahlen chiamano in causa presso il tribunale civile di Torino i tre Elkann ritenendo illegittima la successione a loro vantaggio dei nonni, cioè sia quella di Gianni Agnelli che quella successiva di Marella. I legali di John & C mantengono, in estrema sintesi, la stessa linea: Margherita ha negoziato e firmato gli accordi del 2004 in piena libertà anche di scelta dei migliori avvocati ed è stata liquidata, quando la Fiat era in difficoltà, con 1,3 miliardi; «perseguendo il vano obiettivo di screditare nell’ordine: madre, consulenti del padre e ora persino i propri figli primogeniti, Margherita in realtà scredita — tristemente — solo se stessa».

La causa per l’eredità di Gianni Agnelli

A che punto siamo con questo ultimo procedimento? La partita è sospesa perché gli avvocati degli Elkann hanno sollevato una questione pregiudiziale, ovvero la competenza di Torino a giudicare dal momento che in Svizzera sono in corso altri procedimenti sulle stesse materie. E ora il tribunale dovrà esprimersi sul difetto di giurisdizione. Italia o Svizzera? È anche una delle questioni chiave contestate da Margherita alla successione della madre: si è radicata infatti in terra elvetica, compreso il testamento a favore dei tre Elkann, ma Marella - in questa prospettiva legale - non aveva residenza abituale in Svizzera dunque l’ordinamento è quello italiano che però vieta i patti successori. Se passasse questa tesi potrebbe vacillare uno dei vecchi capisaldi (il patto successorio) dell’intero impianto dell’eredità Agnelli e Margherita potrebbe aspirare alla quota del 50% del patrimonio materno con possibili impatti sugli assetti della cassaforte Dicembre. Sempre in teoria. Ma per i legali degli Elkann gli assetti della Dicembre non possono essere messi in discussione e nemmeno gli accordi ereditari originari.

Estratto dell’articolo di Gigi Moncalvo per “la Verità” il 24 gennaio 2023.

In questi vent’anni Gianni Agnelli avrebbe avuto mille buone ragioni per rivoltarsi nella tomba per quello che molti dei suoi discendenti hanno combinato. […] In questo anniversario della morte di Gianni Agnelli i suoi rivoltamenti nella tomba sono resi ancor più difficili dalla immensa colata di saliva che sta avvolgendo l’augusto sepolcro esondando da giornali e tv per la maggior parte disinteressati all’informazione e alla verità, ma preoccupati solo di non infastidire il nipote John Elkann […]

Oltre a non volersi inimicare il «nuovo padrone», coloro che hanno contribuito per anni a creare «il mito» […] come possono oggi fare autocritica ammettendo di avere in gran parte sbagliato […]? […] l’Avvocato […] è stato anche il primatista e il protagonista indiscusso della più grande evasione fiscale che si sia mai registrata in Italia. […] per anni ha intascato cifre immense di denaro pubblico sotto varie forme (leggi ad hoc, privilegi e contribuzioni a fondo perduto, detassazioni, incentivi, agevolazioni, politiche industriali di favore, l’Alfa Romeo in regalo da Prodi, gli ostacoli alla concorrenza italiana e straniera, sfruttamento dell’indotto, e quant’altro), mentre dall’altra parte portava tutto questo denaro all’estero senza nemmeno pagare, almeno in minima parte, le tasse e senza reinvestirlo nel nostro Paese creando occupazione. In sintesi: gli italiani hanno pagato i debiti, mentre Agnelli si è imbertato i profitti. […]

Questa «punizione» […] è stata messa in atto nientemeno che dalla figlia dell’Avvocato, Margherita, che ha voluto ribellarsi […] a una delle regole più crudeli della famiglia: «A comandare deve essere uno solo alla volta. E non deve mai trattarsi di una donna. Esse non devono avere alcun potere, le loro quote vanno liquidate in denaro».

 Gianni non avrebbe mai potuto immaginare che proprio sua figlia, considerata - dal punto di vista delle conoscenze finanziarie - alla stregua di «una povera casalinga svizzera», avrebbe impugnato il piccone per distruggere metaforicamente la sua figura e offuscare il suo ricordo. E, da quel momento, sono emersi gli scheletri dall’armadio. […] […]

Il defunto aveva una grande ed eccelsa qualità a livello mondiale: il potere di condizionamento che la sua sola figura determinava in ogni campo, dalla finanza alla politica, dallo sport alla comunicazione. Il solo venire meno della sua presenza ha determinato pesanti sconquassi. Per di più aggravati e moltiplicati dall’insipienza, dalla presunzione, dalla certezza di impunità che i discendenti credevano di avere […] se Gianni fosse rimasto in vita i Moratti o i Carraro quando mai avrebbero avuto il coraggio di far scoppiare «Calciopoli»?

D’accordo, poi fu John, con Grande Stevens, a mandare la Juventus in serie B ma chi avrebbe osato toccarla prima della morte di Gianni e Umberto?

In questi vent’anni l’Avvocato […] avrebbe preferito davvero chiudere gli occhi. La Ferrari che non vince più. La Fiat che non esiste più. L’Accomandita Giovanni Agnelli che non c’è più e ha sede ad Amsterdam. Torino che è stata cancellata. Le auto vendute prima agli americani e poi ai francesi (nonostante i suoi desideri contrari e nonostante gli ordini tassativi del nonno Giovanni senior, il Senatore). Lo stabilimento di Mirafiori non più glorioso ma inoperoso e polveroso che riapre per poco e solo per produrre mascherine fallate ordinate dal governo Conte.

Il Corriere della Sera venduto (con Urbano Cairo padrone del vapore). La Stampa venduta da John addirittura al nemico numero uno, cioè Carlo De Benedetti (e poi ricomprata). La glorificazione di Sergio Marchionne. Il «tradimento» di Gabetti, che lo ha ignorato nel suo libro autobiografico NeverGive In, e si è pubblicamente lamentato: «Ho dato tutto per lui e gli ho fatto guadagnare miliardi. Pensava di sdebitarsi regalandomi un Turner ogni Natale… Li ho buttati tutti in un angolo. Nella mia collezione c’è ben altro…».

[…] E poi, quanti dolori e ingratitudini a causa della famiglia. John che consente agli americani della Hbo di fare un docufilm di due ore da cui emerge la figura di un nonno dedito soprattutto alla coca e alle belle donne.

 Mentre invece Gianni deve essersi divertito quando Ginevra Elkann, nel suo film Magari ha fatto interpretare nientemeno che da Riccardo Scamarcio il ruolo di Alain Elkann («Gli ebrei sono tutti intelligenti. Non capisco come abbia fatto mia figlia a sposare l’unico c…», raccontava Giuliano Soria al Premio Grinzane Cavour attribuendo la frase all’Avvocato).

Qualche risata è arrivata lassù leggendo come sono stati scoperti i figli segreti di Carlo Caracciolo, come Jacaranda Falck si stia pappando tutto e come L’Espresso sia finito. Mentre Montezemolo continua a non fare nulla per smentire la barzelletta di essere figlio di Gianni. Uno dei pochi che si è comportato bene è Lupo Rattazzi, il figlio di Suni. […]

 E poi Lupo ha sempre detto la cosa più importante: Edoardo non fu affatto «estromesso» dalla Dicembre. Un giorno chiamò Lupo al telefono e gli disse «Mi sono rifiutato di firmare l’atto di donazione della mia quota di Dicembre perché non ci vedo chiaro». Lupo gli rispose : «Sei pazzo, hai fatto malissimo». Andò proprio così, nessuna «estromissione».

Lupo ha detto recentemente un’altra verità: «Se la Fiat fosse fallita oppure, rectius, fosse passata di mano a due lire, Margherita non avrebbe intentato alcuna causa e ci avrebbe guardato compiaciuta dal suo lago soddisfatta di essersi salvata dall’ultimo caso di disastro di famiglia imprenditoriale arrivata a fine corsa per manifesta incapacità. Mi confessò che era certa che Fiat avrebbe fatto la fine della Parmalat. Poi arrivò il Messia e grazie a lui Margherita scopre qualche anno dopo che, avendo venduto il suo 37,5% della Dicembre a 105 milioni nel 2003 (che era quello che valeva, si badi bene), aveva lasciato sul tavolo qualcosa come 700 milioni. Sette volte tanto. Sta tutta lì la nuova causa e il disconoscimento dell’accordo svizzero».

Lupo ha ragione, specie quando sostiene che «l’educazione, se così la vogliamo chiamare, impartita dai loro genitori abbia influito su comportamenti così “dysfunctional” come quelli di Edoardo e Margherita». […]

Margherita Agnelli, con un’istanza […], ha presentato nelle settimane scorse al Tribunale di Torino una querela civile “di falso” riguardo al testamento svizzero di sua madre, Marella Caracciolo Agnelli. La notizia è emersa ieri mattina a Torino durante un’udienza pubblica della causa che la secondogenita di Gianni Agnelli ha avviato contro i tre figli nati dal suo primo matrimonio con lo scrittore Alain Elkann: John (l’attuale presidente di Exor e dunque al vertice di tutte le partecipazioni della ex galassia Fiat), Lapo e Ginevra.

Lo scopo di Margherita è esplicito: far dichiarare dal Tribunale che l’eredità della madre non poteva essere regolata dal diritto svizzero, poiché Marella Agnelli, scomparsa il 23 febbraio 2019, non sarebbe stata una cittadina italiana residente in territorio elvetico (per almeno sei mesi all’anno), ma avrebbe trascorso la maggior parte della sua vita a Torino e nel riad “Ain Kassimou” di Marrakech. Un pool di investigatori di Zurigo, secondo quanto sostenuto nelle memorie del legale della figlia dell’Avvocato, lo avrebbe accertato a partire dal 2003.

 Se così fosse, si applicherebbe il Codice civile italiano e decadrebbero sia il patto successorio firmato nel 2004 a Ginevra, nel quale Margherita rinunciava al patrimonio della madre, in cambio di 1,2 miliardi di euro come quota dell’eredità del padre, e le successive disposizioni testamentarie di Marella Caracciolo a favore dei tre nipoti Elkann. Si rimetterebbe dunque in discussione il controllo della società semplice Dicembre da parte di John Elkann (che oggi ne detiene il 60%, mentre il 40% è diviso in parti uguali tra Lapo e Ginevra) e, a cascata, della Giovanni Agnelli Bv (la società di tutti gli eredi della dinastia) e infine di Exor.

 Un primato garantito dalle donazioni in vita della nonna e poi dalla sua successione secondo il diritto elvetico che escludeva la figlia dell’Avvocato. […] il legale di Margherita ha contestato anche la validità del testamento della vedova dell’Avvocato (12 agosto 2011) e delle sue due aggiunte (14 agosto 2012 e 22 agosto 2014) redatti dal notaio elvetico Urs von Grünigen. […] sarebbe dubbia “la veridicità delle firme”.

Il doppio esame grafologico […] è univoco. La prima firma del testamento è definita “autografa, ma con margini d'incertezza”. La seconda è giudicata: “apocrifa, con grado di probabilità”. La terza (una sigla con le iniziali “M.C.A.”, all’età di 87 anni) è indicata come “apocrifa, con elevata probabilità”. […]

 Infine, la mossa più clamorosa di cui si è saputo solo ieri e che chiede di accertare, ex art. 313 del Codice di Procedura civile, l’eventuale “falsità di un atto pubblico o di una scrittura privata riconosciuta, autenticata o verificata”. Un accertamento che dovrà essere compiuto […] da un collegio del Tribunale civile con la partecipazione però di un pubblico ministero: in un incrocio tra procedura civile e penale. Acquisendo se necessario ulteriore documentazione e decidendo soprattutto se sentire il notaio e anche i cinque testimoni che si sono alternati tra il 2011 e il 2014 per certificare le volontà testamentarie di Marella Caracciolo.

Estratto dell’articolo di Ettore Boffano e Federico Marconi per il “Fatto quotidiano” il 17 aprile 2023.

Nella guerra tra Margherita Agnelli e i tre figli, Ginevra, Lapo e John Elkann, è finita anche la Dicembre, la società semplice creata dall’Avvocato nel 1984 per custodire il tesoro di famiglia e gestire, a cascata, i 25,5 miliardi di patrimonio della holding Exor. 

Oggi la Dicembre è nelle mani dei fratelli Elkann, ma la madre chiede di rimettere tutto in discussione, provando ribaltare la “galassia Agnelli”. Una vicenda che questa sera sarà raccontata da Report su RaiTre, nella puntata dedicata all’eredità Agnelli. Su Dicembre emergono molti dubbi: cessioni di quote senza firme certificate, incertezza sul luogo in cui sono state stipulate, pagamenti senza ricevuta bancaria, dichiarazioni alla Camera di Commercio tardive e parziali, iscrizioni e cancellazioni per vizi di forma, incongruenze nelle dichiarazioni all’Agenzia delle Entrate.

[…] Oggi il capitale sociale è diviso tra i fratelli Elkann: John possiede il 60%, il restante 40% è ripartito in parti uguali tra Lapo e Ginevra: hanno la piena proprietà delle quote dal 23 febbraio 2019, giorno della morte della nonna Marella Caracciolo, vedova dell’Avvocato. 

In realtà, già nel 2004, la signora aveva venduto ai nipoti la nuda proprietà del 41,29%, mantenendo l’usufrutto. […] Nei documenti che stabiliscono la cessione, però, non è indicato il luogo in cui fu firmato l’atto e, soprattutto, non c’è l’autentica delle firme. Gli atti consegnati alla Camera di Commercio sono certificati dal notaio torinese Remo Morone il 12 giugno 2021, 17 anni dopo la stipula, con la formula: “Il presente documento è copia conforme al documento a me esibito”. Non scrive però, come sarebbe necessario, che è “copia conforme all’originale”. Report ha chiesto a Morone se abbia mai visto gli originali degli atti, ma il notaio ha preferito non rispondere. 

Il ricorso. Dopo il deposito degli atti, nell’estate 2021, il 7 gennaio 2022 il legale di Margherita Agnelli, l’avvocato Dario Trevisan, ha contestato la correttezza dell’iscrizione. I giudici del Tribunale di Torino gli hanno dato ragione: il 7 luglio successivo, con una sentenza (sino ad oggi inedita) è stata cancellata l’iscrizione della cessione delle quote, assieme ad altri atti non autenticati, perché “risultano privi dei requisiti formali” necessari. 

La Camera di Commercio ha dato subito efficacia alla decisione e la scrittura è scomparsa dalle banche dati. Una settimana dopo però, il 15 luglio, gli Elkann hanno depositato di nuovo gli atti: la Camera di Commercio, a sua volta, li ha iscritti e Margherita Agnelli ha ripresentato. 

Il documento svizzero. I giornalisti di Report, però, sono entrati in possesso di un secondo documento inedito che attesta la cessione, mai depositato alla Camera di Commercio.

È redatto presso il notaio di Ginevra Etienne Jeandin che questa volta, però, certifica le firme. 

Non è chiaro invece se la sottoscrizione sia avvenuta davanti a lui. Alle domande di Report, Jeandin ha risposto “Non voglio esprimermi sull’argomento”. Sul documento è presente anche un’apostille: l’autenticazione che permette la legalizzazione di documenti redatti all’estero. Ma il timbro è datato 17 febbraio 2022, successivo al ricorso del legale di Margherita Agnelli. La “versione svizzera” dell’atto è stata depositata dagli avvocati degli Elkann nella causa principale del tribunale di Torino sull’eredità Agnelli, ma non è chiaro, però, perché l’atto non sia stato prima inviato alla Camera di Commercio.

L’ubiquità di Marella. Ma il 19 maggio 2004 dove si trovavano Marella Caracciolo e i 3 fratelli Elkann? Potevano essere davvero a Ginevra, per firmare la cessione? Secondo Andrea Galli, l’investigatore incaricato da Margherita di indagare sulla residenza svizzera della madre, l’anziana donna “non poteva che trovarsi a Torino. La signora, il 21 maggio, partirà poi da lì per Marrakech». 

I patti sociali. Report ha rintracciato un ulteriore documento, sempre datato 19 maggio 2004, che riguarda la modifica dell’oggetto sociale della Dicembre. Anche questo è privo dell’indicazione sul luogo in cui è stato redatto. Ma in calce, oltre alle firme di Marella Caracciolo e dei tre Elkann, ci sono quelle di Gianluigi Gabetti, consigliere di Gianni Agnelli, dell’avvocato Franzo Grande Stevens e della figlia Cristina oltre che di Cesare Ferrero, commercialista della famiglia.

È possibile che si siano spostati tutti a Ginevra per redigere la modifica? O erano tutti a Torino? O gli Elkann e la nonna hanno viaggiato lo stesso giorno tra Torino e a Ginevra?

Il pagamento. C’è un altro documento, questo sicuramente firmato a Torino, che genera dubbi sulla cessione del 19 maggio 2004: il pagamento delle quote. Report è riuscito a scovare le ricevute delle tre operazioni che valgono in totale 80,9 milioni di euro.

Il versamento avviene tramite la Gabriel Fiduciaria di Torino, allora guidata da Franzo Grande Stevens. Nonna e nipoti hanno tutti una posizione aperta con la fiduciaria che, a sua volta, si appoggia alla banca Pictet di Ginevra. Il movimento finanziario, dunque, avviene in Svizzera. Dal documento non si evince alcuna evidenza contabile del passaggio del denaro. Marella Caracciolo poi, una volta ricevuti i soldi, incarica la fiduciaria di “investire in un deposito a 48 ore, in attesa di ulteriori istruzioni”.

La questione fiscale. Qualche informazione in più sulla Dicembre - ha scoperto Report - la possedeva l’Agenzia delle Entrate: durante un accertamento del 2009, Marella rispose a un questionario sulla sua residenza fiscale fino al 2008. Dall’istruttoria dell’Agenzia emerge che avrebbe posseduto la nuda proprietà e non l’usufrutto del 41,29% di Dicembre. 

L’esatto opposto di quanto disposto nel 2004. L’Agenzia ne ricavò che “il centro degli interessi” della signora “non fosse in Italia”, ma in Svizzera, dove era ufficialmente residente e pagava gran parte delle tasse su redditi e patrimoni. Un’interpretazione che ora Margherita vuole cancellare: in tribunale. Anche se un portavoce della controparte, sentito da Report, dichiara che “comunque finisca il contenzioso, non cambierà la governance di Dicembre”. 

Agnelli, i conti sull’eredità contesa di Marella: 160 milioni ai nipoti (compresa una Panda 4x4). Mario Gerevini su Il Corriere della Sera il 17 Aprile 2023  

Nei conti bancari aveva contanti per 6,6 milioni, possedeva terreni e ville per un valore di mercato di 67 milioni e nelle sue case custodiva opere d’arte e gioielli per 54 milioni. Marella Caracciolo, morta nel febbraio 2019, sedici anni dopo il marito Gianni Agnelli, ha lasciato tutto ai nipoti John, Lapo e Ginevra Elkann. Compresa una Panda 4x4 del 2013. In totale un patrimonio da circa 160 milioni.

L’inventario

L’inventario dell’eredità, solo in parte noto, è uno dei documenti con cui Report, nella puntata di stasera su Rai 3 dalle 21,20, prova a ricostruire il patrimonio della moglie dell’Avvocato, ipotizzando anche quale potrebbe essere il possibile recupero fiscale nel caso in cui fosse accertata la residenza italiana della nonna di John Elkann. Ma proprio il tema della giurisdizione (Italia o Svizzera) è oggetto della causa civile a Torino che vede Margherita Agnelli contrapposta ai suoi tre figli Elkann (altri cinque hanno il cognome del secondo marito, Serge de Pahlen). Se il tribunale stabilisse la propria competenza sarebbe un punto importante a favore di Margherita che punta a rimettere in discussione alla radice l’impianto dell’eredità Agnelli. Ma altre cause analoghe sono in corso in Svizzera.

Il notaio Von Grünigen

Urs Von Grünigen è il notaio a cui Marella si è affidata per i testamenti a favore dei nipoti (contestati radicalmente da Margherita). Ed è il professionista, anch’egli chiamato in causa a Torino da Margherita, che ha redatto l’inventario dell’eredità e ora amministra i beni fino all’esito della controversia. Che cosa si legge nel documento di cui Report è entrata in possesso?

Marella Caracciolo aveva 8 conti bancari con un saldo attivo complessivo di 6,6 milioni di franchi svizzeri (il cambio con l’euro attualmente è alla pari) ma il 95% della liquidità era in soli due conti al Credit Suisse. Gli immobili svizzeri sono quelli noti ma non si conosceva il valore di mercato indicato invece nell’inventario: la villa Chesa Alkyone destinata a John Elkann (39,3 milioni), Cheza Medzi per Lapo (16,8 milioni) e la casa di Lauenen per Ginevra (11 milioni). Il totale degli immobili, terreni compresi, fa 67,1 milioni.

Quadri e gioielli

La categoria «opere d’arte-quadri-gioielli» è una componente rilevante della massa ereditaria perché si raggiunge la cifra di 54 milioni. Scrive il notaio von Grünigen che nella villa Chesa Alcyon ci sono «quadri e altri beni di valore» per 24 milioni, a Marrakech per 2,8 milioni a Villar Perosa per 1,5 mentre alla voce «Gioielli di Donna Marella Caracciolo» si legge la cifra di 1,3 milioni, per un totale alla data del decesso di 54 milioni. Il mobilio delle case è tutto sommato di valore modesto, solo 1,5 milioni.

Nei conti del professionista vengono inseriti anche 33 milioni di crediti verso la figlia ma, all’opposto, risultano iscritti - su richiesta formale dei legali di Margherita - “come voce pro memoria” 98 milioni nelle passività, cioè pagamenti effettuati negli anni dalla stessa Margherita a favore della madre sulla base degli accordi ereditari del 2004. Quegli stessi accordi che Margherita considera nulli. Dunque il patrimonio lasciato da Marella Caracciolo ai tre nipoti, secondo l’inventario firmato von Grünigen, ammonta a circa 160 milioni, Panda compresa.

La Signora degli Agnelli. Reporti Rai PUNTATA DEL 17/04/2023 di Manuele Bonaccorsi

di Manuele Bonaccorsi e Federico Marconi

Collaborazione di Madi Ferrucci

A Torino è in corso il processo che potrebbe cambiare le sorti di una delle famiglie più importanti del capitalismo europeo: gli Agnelli.

A Torino è in corso il processo che potrebbe cambiare le sorti di una delle famiglie più importanti del capitalismo europeo: gli Agnelli. La contesa è sul testamento della principessa Marella Caracciolo, moglie dell'Avvocato Gianni Agnelli. Davanti ai giudici sono contrapposti la figlia di Gianni e Marella, Margherita, contro i figli Ginevra, Lapo e John Elkann. Margherita Agnelli sostiene che i testamenti svizzeri siano falsi e che il patto successorio da lei firmato a Ginevra nel 2004, con cui accettava 1,2 miliardi di euro di patrimonio paterno rinunciando all'eredità della madre, sia da invalidare. Il motivo: la residenza in Svizzera della madre era fittizia. Non è solo una questione di soldi. In ballo ci sono le quote della Dicembre, la holding della Famiglia Agnelli, che controlla Exor, Stellantis, Ferrari, Iveco, Cnh, la Juventus, i quotidiani Repubblica e La Stampa: un patrimonio di 25,5 miliardi di euro e i destini di migliaia di lavoratori. Quella davanti ai giudici di Torino non è però solo una vicenda privata: nelle casse dello Stato potrebbero rientrare decine di milioni di euro di imposte non pagate. Attraverso interviste esclusive e documenti inediti, Report è in grado di ricostruire la storia del patrimonio, della residenza e del testamento svizzero della principessa Caracciolo. 

La precisazione di un rappresentante della società Dicembre

Un rappresentante della società Dicembre precisa Dopo circa un anno dalla scomparsa dell’Avvocato Agnelli, nei primi mesi del 2004, sua figlia Margherita De Pahlen - assistita da primari professionisti svizzeri e italiani – concluse due accordi, ideati dai suoi stessi consulenti, per regolare non solo l’eredità del padre, ma anche quella della madre, così da prevenire ogni contestazione ereditaria. Non avendo fiducia nella Fiat, che all'epoca in molti davano per fallita, Margherita De Pahlen scelse di vendere le azioni legate al Gruppo uscendo dalla Dicembre. Nella speranza (poi purtroppo tradita) di porre fine ad ogni conflitto familiare, la madre Marella Caracciolo accettò tutte le condizioni poste dalla figlia e Margherita De Pahlen ottenne così la gran parte dell'asse ereditario paterno composto da denaro, immobili, arredi ed opere d'arte e, soprattutto, monetizzò immediatamente le quote della Dicembre. Ma quando, dopo pochi anni dalla stipula di questi accordi, la Fiat si risollevò e le sue azioni ripresero valore, Margherita De Pahlen diede inizio ad una lunga e penosa serie di cause legali per invalidare quegli accordi, con l’ obbiettivo di ottenere un indebito supplemento di eredità. Così facendo, Margherita De Pahlen, noncurante del dolore inflitto aisuoi familiari, ha deciso di calpestare le volontà dei genitori e di rinnegare gli accordi da lei stessa fortemente voluti. Ogni volta che i giudici italiani si sono espressi, in ben tre gradi di giudizio, con riguardo alla prima iniziativa di Margherita De Pahlen, essi l'hanno respinta poiché del tutto infondata. Altrettanto infondata è anche la nuova serie di cause, avviate in Svizzera e in Italia, contro i suoi tre figli Elkann, che sono sempre determinati a rispettare le volontà dei nonni e ancora una volta attendono con serenità e fiducia la decisione dei giudici. Decisione che in ogni caso non muterà gli assetti di governance della Dicembre.

LA SIGNORA DEGLI AGNELLI di Manuele Bonaccorsi e Federico Marconi collaborazione Madi Ferrucci immagini Davide Fonda - Giovanni De Faveri - Carlos Dias - Fabio Martinelli ricerca immagini Eva Georganopoulou - Paola Gottardi - Alessia Pelagaggi montaggio Marcelo Lippi - Raffaella Paris grafiche Giorgio Vallati

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Villar Perosa è un comune di 4mila abitanti alle pendici delle Alpi. In cima al paese c’è la villa dove hanno vissuto Gianni Agnelli e la moglie Marella. Ancora oggi, a vent’anni dalla morte, la comunità vive nella memoria dell’avvocato e lo venera come un’istituzione.

MARCO VENTRE - SINDACO VILLAR PEROSA (TO) Questa qua, a sinistra, è la sala consiliare dedicata proprio all’avvocato Giovanni Agnelli

MANUELE BONACCORSI sala consiliare avvocato Giovanni Agnelli

MARCO VENTRE - SINDACO VILLAR PEROSA (TO) visto che lui ha coperto la carica di sindaco per tanti anni. Prego.

MANUELE BONACCORSI Grazie. Quello è il nonno, quello è il senatore. Al posto del presidente della Repubblica,

MARCO VENTRE - SINDACO VILLAR PEROSA (TO) Non c’è. Abbiamo fatto il restaurato da poco quindi bisogna ancora metterlo. La famiglia Agnelli per Villar Perosa è stata un punto di riferimento, ma anche delle personalità che hanno portato ricchezza.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Qui, nella valle di Pinerolo, risiedeva il capostipite della dinastia Agnelli, il senatore Giovanni, colui che nel 1900 fondò la Fabbrica Italiana Automobili Torino, la Fiat. A Villar Perosa aveva costruito un grosso stabilimento che produceva cuscinetti a sfera.

MARCO VENTRE - SINDACO VILLAR PEROSA (TO) Vent’anni fa c’erano 20 mila persone, operai, adesso ce sono mille. Questa è la chiesa di San Pietro, è un gioiello barocco, dentro ci sono degli affreschi fantastici.

MANUELE BONACCORSI ed è la chiesa esattamente davanti proprio alla residenza degli Agnelli

MARCO VENTRE - SINDACO VILLAR PEROSA (TO) davanti alla residenza e dietro c’è il cimitero storico. I funerali di donna Marella li hanno fatti qua

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Marella Caracciolo, vedova dell’Avvocato Gianni Agnelli, nel momento della sua morte lascia l’intero patrimonio in eredità ai nipoti Elkann, e nulla alla figlia Margherita, che poi degli Elkann è la madre. Ne nasce un contenzioso giudiziario davanti ai magistrati del Tribunale civile di Torino: Margherita vuole vederci chiaro. È una storia fatta un po’ di misteri, con delle tinte di giallo, dove vengono coinvolti anche degli ex servizi segreti svizzeri. Margherita nel 2004 aveva ereditato dal padre, rimasta unica erede per la morte prematura di Edoardo, 1 miliardo e 200 milioni di euro. Questo in seguito di un accordo transattivo, dopo aver accettato un accordo successorio. E scrive nell’atto: “Accetto per amore di pace”, rinunciando a qualsiasi pretesa futura sull’eredità della madre Marella. Solo che però subito dopo aver firmato scopre che forse c’erano dei beni riferibili al padre di cui lei non era a conoscenza. E così nascono le prime questioni legali: la prima nel 2008 e poi dopo la morte della madre Marella nel 2019. In ballo c’è un patrimonio presunto di circa 3 miliardi di euro. È una stima, fatta anche in base a delle carte inedite che Report ha acquisito, di cui è venuto a conoscenza proprio in questi giorni, e che vi mostreremo in esclusiva. Insieme c’è anche nel contenzioso la proprietà della società Dicembre, che è la cassaforte della famiglia di Gianni Agnelli, che controlla a cascata la BV Giovanni Agnelli, che controlla a cascata la Exor, che possiede a cascata Stellantis, Iveco, Ferrari, Gruppo Gedi con Repubblica e La Stampa, The Economist, e anche la Juventus. Ora, Margherita dopo aver ceduto le sue quote nel 2004 alla madre le rivuole indietro. Tutto ruota intorno a un testamento, che è stato scritto in Svizzera, e intorno a una scrittura privata che riguarda proprio la proprietà della società Dicembre. I nostri Manuele Bonaccorsi e Federico Marconi hanno raccolto testimonianze e documenti inediti, girando in Italia, ma facendo anche una capatina in Svizzera.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO In questa cappella, nel punto più alto del paese, ci sono le sepolture di tutti i membri della famiglia che per molti anni è stata la più importante d’Italia. L’ultima a lasciare questo mondo, nel 2019, a 91 anni, è stata Marella Caracciolo, dal 1953 moglie dell’avvocato Gianni Agnelli. Era di origini nobili: poteva fregiarsi del titolo di principessa e la sua villa era una residenza da re

MARCO VENTRE - SINDACO VILLAR PEROSA (TO) qui è l’entrata principale della villa. Donna Marella aveva questa grande passione per le piante, qui trovi piante di tutti i tipi. La villa è gigantesca, è bellissima

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Marella Caracciolo ha lasciato in testamento tutti i suoi averi a 3 dei suoi 8 nipoti. John, Lapo e Ginevra Elkann. Saltando non solo la sua unica figlia in vita, Margherita, ma anche gli altri 5 nipoti, figli del suo secondo matrimonio col nobile di origine russa Serge de Pahlen. Margherita, invece, si era accontenta solo del patrimonio del padre Gianni. Nel 2004 aveva incassato 1,2 miliardi e in cambio aveva rinunciato a qualsiasi pretesa sull’eredità della madre firmando un patto successorio regolato secondo le leggi svizzere. GIGI MONCALVO - GIORNALISTA Questo è l'inizio della guerra, perché Margherita si pente subito dopo. Adisce il Tribunale civile di Torino per chiedere l'annullamento e la nullità di quegli accordi.

MANUELE BONACCORSI Il problema è che l'accordo è stato firmato in Svizzera, non è compatibile con le leggi italiane.

GIGI MONCALVO - GIORNALISTA Per quanto riguarda il testamento di sua madre chiede che venga aperto secondo le regole della legge italiana e non secondo il diritto successorio svizzero, poiché, secondo la tesi di Margherita, sua madre aveva una residenza fasulla in Svizzera.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO E in Italia, a differenza della Svizzera, i patti successori sono vietati. Ma Marella era ufficialmente residente in Svizzera, e in questi casi si applica la legge del paese di residenza.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO IN RICICLAGGIO Per risiedere all'estero bisogna soggiornare all'estero più di 183 giorni all'anno perché altrimenti si è residenti in Italia, anche se uno dichiara di essere residente all'estero.

MANUELE BONACCORSI E quindi valgono le leggi italiane.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO IN RICICLAGGIO Certo.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Ma quanto tempo passava davvero in Italia donna Marella? La splendida magione di Villar Perosa era stata ufficialmente affittata dalla signora Caracciolo al nipote John Elkann. Ma a viverci era sempre la vedova dell’avvocato.

MANUELE BONACCORSI quanti mesi l’anno secondo lei stava qui stava qui donna Marella?

MARCO VENTRE - SINDACO VILLAR PEROSA (TO) Ma, quando stava bene Donna Marella poteva stare 3-4 mesi l’anno

MANUELE BONACCORSI John Elkann si vedeva invece?

MARCO VENTRE - SINDACO VILLAR PEROSA (TO) Qualche volta. Lei è una villarese doc, se volete chiedere qualcosa.

MANUELE BONACCORSI Praticamente vicina di casa della famiglia Agnelli?

VICINA DI CASA assolutamente, di casa Agnelli, certo.

MANUELE BONACCORSI E lei la vedeva?

VICINA DI CASA noi appunto avevamo un rapporto diverso, mia mamma era sorella di latte dell’avvocato, ma questo non c’entra nulla, perché una volta le signore non allattavano i figli

MANUELE BONACCORSI Gianni sappiamo che amava questa villa, ma dopo Gianni chi la viveva?

VICINA DI CASA Marella, assolutamente, si facevano sempre da ferragosto arrivavano e stavano qua tutto settembre. Ma veniva anche a messa regolarmente la Donna Marella, salutava tutti i borghigiani

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Oltre che a Villar Perosa Marella era spesso a Villa Frescot, la casa principale di Gianni, che dall’alto domina tutta Torino, proprio di fronte alla ex fabbrica del Lingotto. Qui Marella riceveva la Torino che conta. Evelina Christillin è stata a capo del comitato olimpico di Torino 2006 ed è attualmente presidente del Museo Egizio e componente del consiglio della FIFA. Era una delle persone più vicine a donna Marella.

EVELINA CHRISTILLIN - PRESIDENTE FONDAZIONE MUSEO EGIZIO DI TORINO MI ha insegnato molto a stare al mondo. Imparare a comportarsi, imparare quando stare zitta, quando parlare, eccetera. Gli ultimi anni, lei non si muoveva quasi più da Frescot, per cui la vedevo proprio tanto, tanto tanto e cercavo di farle un po' compagnia. Torino, era la base che lei amava molto.

MANUELE BONACCORSI Era la città in cui stava più spesso?

EVELINA CHRISTILLIN - PRESIDENTE FONDAZIONE MUSEO EGIZIO DI TORINO Ah, beh, assolutamente sì.

MANUELE BONACCORSI Nella casa nuova, in Svizzera, c’è mai stata?

EVELINA CHRISTILLIN - PRESIDENTE FONDAZIONE MUSEO EGIZIO DI TORINO Quella no. Non son mai andata a Gstaad, no

MANUELE BONACCORSI Ma ci andava spesso?

EVELINA CHRISTILLIN - PRESIDENTE FONDAZIONE MUSEO EGIZIO DI TORINO Ma non aveva neanche tanta voglia.

MANUELE BONACCORSI Al processo di Torino, Margherita ha presentato documenti e testimonianze che metterebbero in dubbio la residenza svizzera della madre. Tramite un investigatore privato ha ricostruito gli ultimi anni di vita della signora Caracciolo. A svolgere le indagini è stato Andrea Galli, un ex agente dei servizi segreti svizzeri.

MANUELE BONACCORSI Quali informazioni ha trovato?

ANDREA GALLI - INVESTIGATORE PRIVATO Allora, siamo riusciti ad analizzare gli spostamenti degli aerei e degli elicotteri privati che erano usati dalla signora Caracciolo dal 2003 al giorno della sua morte nel 2019.

MANUELE BONACCORSI Quindi voi sapreste dirci in qualsiasi giorno degli ultimi anni dove si trovava donna Marella?

ANDREA GALLI - INVESTIGATORE PRIVATO Esatto.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Secondo questo documento, agli atti del processo di Torino, tra il 2004 e il 2018, l’ereditiera passa in media 185 giorni in Italia e appena 69 giorni in Svizzera. Nel 2014, ad esempio, Marella trascorre 208 giorni in Italia, 114 nella sua straordinaria villa di Marrakesh, in Marocco e appena 43 giorni a Lauenen, nella casa in cui era ufficialmente residente. Ci andava in genere in aereo, atterrando nel vicino aeroporto di Gstaad. Galli ha provato a raccogliere testimonianze proprio a Lauenen.

MANUELE BONACCORSI È riuscito a trovare persone che testimoniassero?

ANDREA GALLI - INVESTIGATORE PRIVATO All'inizio sì, e volevano testimoniare, poi si sono ritirate tutte.

MANUELE BONACCORSI Come se lo spiega?

ANDREA GALLI - INVESTIGATORE PRIVATO Noi pensiamo che sono state intimidite.

MANUELE BONACCORSI Ne ha le prove o lo presume?

ANDREA GALLI - INVESTIGATORE PRIVATO Abbiamo alcuni messaggi di alcuni degli inservienti che ci dicono che gli hanno proibito di parlare. Per questo abbiamo incaricato un detective locale

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Chiameremo questo collaboratore dell’investigatore Galli Signor B, per tutelare la sua sicurezza. Perché nella incredibile vicenda della successione Agnelli, ciò che è accaduto a quest'uomo alla fine del 2020 mentre indagava sull’eredità supera ogni fantasia.

ETTORE BOFFANO - GIORNALISTA Mentre sta parcheggiando l'auto in un parcheggio multipiano viene avvicinato da tre persone, che gli dicono: tu e il tuo cliente dovete smetterla. Gli fanno vedere che sono armati, che hanno delle pistole in una fondina, sotto sotto la giacca, sotto il cappotto.

MANUELE BONACCORSI Il signor B. Aveva contattato qualcuno in particolare?

ANDREA GALLI - INVESTIGATORE PRIVATO Aveva contattato una persona che descriveva molto bene informata sui soggiorni della signora Caracciolo. So che aveva un appuntamento per parlare con lui, un paio di giorni dopo gli eventi. Era una persona benestante italiana che viveva, che vive a Gtsaad.

ANDREA GALLI - INVESTIGATORE PRIVATO Il signor B dopo le prime minacce non si dà per vinto e fissa un appuntamento con la sua fonte. E a quel punto i tre energumeni si palesano di nuovo

ETTORE BOFFANO - GIORNALISTA Poco prima del Natale del 2020, mentre sta parcheggiando vicino a casa, sempre nella zona di Gstaad, arrivano due auto, una Lancia Thema e una 500 Abarth metallizzata grigia. Scendono di nuovo quelle stesse tre persone. Dice che due sono sicuramente italiani, uno parla un po’ di tedesco e un italiano - e usa l’espressione strana - dice usa un italiano con un accento che non sembra dell’Italia del Nord. E questi qui questa volta vanno giù pesante.

MANUELE BONACCORSI Questo è il verbale dell’interrogatorio rilasciato dal signor B alla polizia svizzera, in seguito alla denuncia presentata proprio dall’investigatore Galli.

SIGNOR B – INVESTIGATORE PRIVATO Ero in piedi sul lato del conducente della mia auto quando le portiere dei due veicoli si sono aperte e sono scese tre persone e sono corse verso di me, uno mi ha afferrato per il colletto e ha iniziato a colpirmi alla bocca dello stomaco e alla testa. Poi sono stato premuto contro la portiera della Fiat. Dai vetri si poteva vedere, sul sedile del passeggero, un'arma automatica corta. Poi uno dei tre mi ha puntato la pistola contro la tempia.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Dopo la testimonianza del signor B la polizia svizzera apre un’inchiesta per minaccia e coercizione rivolta ad ignoti. Ma le indagini si fermano subito

ANDREA GALLI - INVESTIGATORE PRIVATO Non hanno analizzato le cellule telefoniche o le telecamere o le permanenze negli alberghi per tentare di individuare le tre persone descritte nei fatti.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Anche noi siamo stati a Lauenen. È un paesino fatto di chalet di legno incastonato tra boschi, cime innevate, ruscelli e laghi alpini. Questa è la casa in cui era residente Marella Caraccio. Ma qui non la conosce nessuno.

FEDERICO MARCONI Madame Marella Agnelli veniva in questa chiesa?

PRETE LAUENEN Non la conosco

FEDERICO MARCONI E lei da quanti anni fa la messa in questa chiesa?

PRETE LAUENEN Dieci anni

FEDERICO MARCONI Signora, mi hanno detto che qui c’è lo chalet di Madame Marella Agnelli.

NEGOZIANTE LAUENEN 1 Chi?

FEDERICO MARCONI Agnelli

NEGOZIANTE LAUENEN 1 Conosci agnelli tu?

NEGOZIANTE LAUENEN 2 mai sentita!

RISTORATRICE LAUENEN Se anche lo sapessi… (bocca cucita)

FEDERICO MARCONI Qualcuno è venuto a chiederle qualcosa prima?

RISTORATRICE LAUENEN Sì, ma io dico a tutti: “Non lo so, non lo so, non lo so”. Non dico niente a nessuno.

FEDERICO MARCONI lei lavorava per la signora Agnelli?

EX DIPENDENTE MARELLA CARACCIOLO 1 Sì

FEDERICO MARCONI quanto tempo passava qui a Lauenen?

EX DIPENDENTE MARELLA CARACCIOLO 1 Quanto tempo? Non ne ho idea

FEDERICO MARCONI Ma lavorava per lei, come fa a non saperlo?

EX DIPENDENTE MARELLA CARACCIOLO 1 Sì, ma andava e veniva, veniva e andava

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Solo una dipendente accetta di parlarci.

FEDERICO MARCONI Quanto tempo passava a Lauenen la signora Agnelli?

EX DIPENDENTE DI MARELLA CARACCIOLO 2 Non posso dirglielo. Questo è molto confidenziale.

FEDERICO MARCONI Ha firmato un accordo di riservatezza?

EX DIPENDENTE DI MARELLA CARACCIOLO 2 Certamente, vale solo per il periodo del contratto, ma io starò zitta per tutta la vita. L’unica cosa che posso dirvi è che queste ricche famiglie italiane venivano qui solo per godersi le vacanze. Direi dalla metà di dicembre, per passare il Natale, e poi di nuovo tornavano in estate.

FEDERICO MARCONI Possiamo dire quindi che la signora Caracciolo passava qui circa un mese?

EX DIPENDENTE DI MARELLA CARACCIOLO 2 No, perché lei era malata e non poteva più spostarsi ogni volta che ne aveva voglia.

FEDERICO MARCONI Ma la signora Caracciolo la pagava solo per il periodo in cui era qui o per tutto l’anno?

EX DIPENDENTE DI MARELLA CARACCIOLO 2 Mi aveva proposto un part time, ma io le ho risposto: o un contratto al 100 per cento del tempo, o non firmo.

FEDERICO MARCONI Cos’è successo quando è morta la signora Caracciolo?

EX DIPENDENTE DI MARELLA CARACCIOLO 2 Problemi

FEDERICO MARCONI Perché?

EX DIPENDENTE DI MARELLA CARACCIOLO 2 Sa quando c’è un’eredità di mezzo… Anche io sono stata chiamata a rilasciare una dichiarazione… Ma non ho detto nulla. Mi hanno mandato moltissime e-mail, con le loro domande, e io le ho inoltrate tutte all’amministrazione…

FEDERICO MARCONI All’amministrazione di John Elkann, e loro che hanno fatto?

EX DIPENDENTE DI MARELLA CARACCIOLO 2 Mi hanno detto che ho fatto molto bene.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Questo documento, che Report può mostrarvi in esclusiva, è l’inventario del patrimonio di Marella Caracciolo Agnelli, alla base del contenzioso. E’ redatto dal notaio svizzero Von Grünigen. Al momento della sua morte Marella aveva 6,6 milioni di franchi in contanti, case in Svizzera per 67 milioni, 54 milioni di franchi in opere d’arte e gioielli. Riceveva dalla figlia Margherita, in seguito agli accordi del 2004, una rendita mensile di 583 mila euro, 7 milioni l’anno. L’inventario non contiene però molti beni, la cui stima è finita agli atti del processo. I soldi nei paradisi fiscali. In totale si stimano 500 milioni di dollari di liquidità per una rendita annua di 30 milioni di dollari. E infine, ci sono le quote della Dicembre, la cassaforte di famiglia, a capo di tutte le partecipazioni industriali e finanziarie. Marella ne controllava il 41,29%. Le quote valgono circa 1,9 miliardi di euro. In totale il patrimonio dell’ereditiera potrebbe raggiungere i 3 miliardi di euro.

MANUELE BONACCORSI Nel momento in cui si scopre che la signora Marella Caracciolo Agnelli, non passava 183 giorni almeno in Svizzera

FEDERICO SOLIMENA - NOTAIO La residenza di fatto è italiana e a quel punto è applicabile sulla successione la legge italiana. Diventa erede la figlia e deve fare la denuncia di successione del valore della partecipazione.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Oltre alla tassa di successione il fisco italiano potrebbe recuperare anche le imposte sul reddito di Marella Caracciolo, 7 milioni l’anno, su cui si applicherebbe l’aliquota massima del 48%. Anche gli immobili esteri e i conti offshore verrebbero tassati.

GABRIELE ESCALAR - AVVOCATO FISCALISTA Potremmo ipotizzare un recupero in termini di imposta di 170 milioni di euro, con una sanzione di importo corrispondente, applicando la misura minima di queste sanzioni.

MANUELE BONACCORSI E se la misura fosse la massima?

GABRIELE ESCALAR - AVVOCATO FISCALISTA Andremmo su cifre molto elevate, fino a 650 milioni di euro di sanzioni. Naturalmente, diciamo, non avendo pagato all'epoca sarebbero poi gli eredi e ovviamente si dovrebbero far carico di questo pagamento.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Secondo il rendiconto la vedova Agnelli pagava appena 90 mila euro di imposte in Italia. In Svizzera nel 2018 ha invece pagato oltre 252 mila franchi. Perché nel cantone poteva godere di una tassazione forfettaria. Per Marella l’iscrizione all’Aire, il registro degli italiani all’estero, faceva parte di una precisa strategia fiscale.

GRAZIA TREDANARI – PATRONATO UIL GINEVRA Una volta che l'Agenzia delle Entrate ha verificato che Tizio e Caio è iscritto quindi all'Aire, cancella dal proprio registro fiscale italiano e quindi non ha più motivo di andare ad indagare. La sottoscritta che sta qui da 26 anni, non ho mai avuto un controllo successivo, ma come tutti i 600.000 italiani che sono registrati, come dire, qui in Svizzera.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Non è un caso quindi che la signora Caracciolo avesse redatto il suo testamento in Svizzera. Report è in grado di mostrarvi il documento redatto in tre diversi momenti, 2011, 2012, 2014. Nell’ultimo atto Marella specifica: la Svizzera è il centro delle mie attività. Confermo che la mia successione sia sottoposta al diritto svizzero. Ma la dichiarazione viene redatta in italiano. E davanti a lei sia il notaio che i testimoni sono svizzeri, tutti di lingua madre tedesca.

MANUELE BONACCORSI Un testamento in cui i testimoni non parlino la lingua della persona che fa il testamento è valido?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO IN RICICLAGGIO Sicuramente no. I testimoni altrimenti cosa testimoniano? MANUELE BONACCORSI E in Svizzera?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO IN RICICLAGGIO Ma in Svizzera il principio è più o meno il medesimo. Il testatore comunica la volontà al notaio, il quale redige la scrittura. Dopo di che i testimoni intervengono e dichiarano che il testatore l'ha letta ed è in condizione di intendere e di volere.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Il testamento riporta la data di nascita sbagliata di Marella Caracciolo: 5 maggio e non 4 maggio. Ed è scritto con un italiano molto stentato: questo testamento sera stentato in uno solo esempio. Il originale rimane con il notaio. Il testamento e, senza accento, redigato per il notaio. Immediato dopo sono convocati come testimoni. Questa è la dichiarazione dei testimoni, allegata al testamento, redatta anch'essa in Italiano. Ma almeno loro la lingua di Dante la conoscono?

MANUELE BONACCORSI Hello, madame Brand

MEIELI BRAND - TESTIMONE TESTAMENTO CARACCIOLO 2014 Oui

MANUELE BONACCORSI Buongiorno, lei parla italiano?

MEIELI BRAND - TESTIMONE TESTAMENTO CARACCIOLO 2014 no, english

MANUELE BONACCORSI perché lei è stata testimone del testamento Caracciolo, come faceva a far da testimone se non parla italiano?

MEIELI BRAND - TESTIMONE TESTAMENTO CARACCIOLO 2014 …

MANUELE BONACCORSI Non capisce l’italiano?

MEIELI BRAND - TESTIMONE TESTAMENTO CARACCIOLO 2014 ah?!…

MANUELE BONACCORSI Good Morning, mister Hafter?

PETER HAFTER - AVVOCATO Ya

MANUELE BONACCORSI Lei parla italiano?

PETER HAFTER - AVVOCATO un po’

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Lui è Peter Hafter. E non è una persona qualsiasi. È uno dei fondatori di Lenz & Staehelin, il più importante studio di avvocati d’affari svizzero. È un mago dei paradisi fiscali: il suo nome risulta nei panama papers in ben 23 società offshore. Eppure Hafter il 22 agosto 2014 parte da Zurigo, viaggia per 200 km e raggiunge Gstaad per fare da semplice testimone al testamento di Mariella Caracciolo.

PETER HAFTER - AVVOCATO Dove trovato questo, dove?

MANUELE BONACCORSI Eh, sono un giornalista, siamo della tv pubblica italiana.

PETER HAFTER - AVVOCATO No capisco buono italiano, no

MANUELE BONACCORSI lo capisce bene?

PETER HAFTER - AVVOCATO No capisce quello che dite, no.

MANUELE BONACCORSI Lei lo legge l’italiano, lo capisce? Se io parlo in italiano lei capisce? Perché, se no, come ha fatto a fare il testimone?

PETER HAFTER - AVVOCATO Non voglio parlare con lei

MANUELE BONACCORSI ma lei come ha fatto a fare il testimone se non conosce l’italiano?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Gli avvocati di Margherita hanno denunciato il notaio Von Grunigen. Questo perché sospettano che le firme sotto il testamento non siano autentiche in base a una perizia calligrafica. I legali degli Elkann invece sono sicuri su questo punto. Poi ci sarebbe da stabilire la competenza territoriale di questa vicenda. I giudici dovranno stabilire se è italiana o svizzera. In Svizzera ci sono altre cinque cause che riguardano questo contenzioso. E poi insomma va da sé che una eventuale competenza italiana porterebbe anche con sé una questione fiscale. Bisognerebbe però pagare le tasse sull’eredità italiana, sul patrimonio che entra in Italia. E qui si parla di centinaia di milioni di euro. Ci sarebbe anche da capire la presunta esistenza di conti nei paradisi fiscali che l’investigatore di Margherita avrebbe trovato. Ma insomma questo è tutto da verificare. Però Margherita, quello che è certo, è che vuole tornare in possesso delle sue quote della società Dicembre. Ovvero di quella società che controlla a cascata l’impero industriale del gruppo più potente d’Italia. Che fine farà la Dicembre?

GIGI MONCALVO – GIORNALISTA La proprietà della Dicembre verrebbe ridiscussa e negoziata. Verrebbe a dover essere ridiscussa tutta la governance e avrebbe delle ripercussioni sulle partecipate, su Stellantis, sulla Giovanni Agnelli BV, su Exor, sulla Ferrari, sulla Juventus

MANUELE BONACCORSI È normale che un bene di questo tipo del Paese finisca all'interno di una querelle giudiziaria?

GIGI MONCALVO - GIORNALISTA Non è normale, ma in questa vicenda non c'è niente di normale.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora parliamo dell’eredità degli Agnelli che è al centro di un contenzioso di Margherita e i figli Elkann. Nel contenzioso c’è anche la società Dicembra, che controlla un impero industriale. Nel 1996 Gianni Agnelli aveva intestato il 25 per cento della cassaforte di famiglia, con questa lettera, a John Elkann. E dopo la morte dell’Avvocato, nel 2004 John Elkann diventa socio di maggioranza. Tutto ruota intorno a una scrittura privata che però presenterebbe anche questa delle anomalie. Tutto nasce nel 1984, quando viene istituita la Dicembre. E si sceglie come status quello della società semplice: si chiama così perché viene dal mondo agricolo. Ha dei vantaggi perché permette anche di non versare le imposte quando c’è la successione per il patrimonio che ha in pancia. Soprattutto ha il vantaggio di rimanere segreta.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Lui è Federico Solimena, il notaio che per primo ha usato la società semplice nel mondo della finanza e grandi imprese.

MANUELE BONACCORSI Qual è il vantaggio dal punto di vista del proprietario di una società semplice?

FEDERICO SOLIMENA - NOTAIO La società semplice non muore. La persona fisica sì. Quindi un bene intestato a una società semplice si tramanda, cambiando i soci. Un bene intestato a una persona fisica, prima o poi va in successione

MANUELE BONACCORSI E in successione si pagano le tasse.

FEDERICO SOLIMENA - NOTAIO E in successione si pagano le tasse di successione. È perfetto per una holding di controllo.

MANUELE BONACCORSI La Dicembre, in questo caso abbiamo un impero addirittura, che ha come sistema di controllo una società semplice. Che ne pensa di questo utilizzo?

FEDERICO SOLIMENA - NOTAIO Geniale.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Nonostante dal 2006 la legge abbia introdotto l’obbligo di registrazione anche per la società semplice, per anni la Dicembre è stata segreta. Nessuna informazione era pubblica. Né statuto, né elenco dei soci

MANUELE BONACCORSI La Dicembre viene fondata nel 1984. Ma voi come istituzione, ne venite a conoscenza soltanto nel 2012. Come può essere?

CLAUDIA SAVIO - CONSERVATORE REGISTRO IMPRESE TORINO Corretto. Le iscrizioni sono previste per legge. E all’iscrizione provvede l’imprenditore. È un obbligo sancito dalla legge.

MANUELE BONACCORSI Che però i soci della Dicembre non hanno rispettato.

CLAUDIA SAVIO - CONSERVATORE REGISTRO IMPRESE TORINO No, non è mai stata iscritta. È stata iscritta nel 2012 MANUELE BONACCORSI E se non si rispetta questo obbligo?

CLAUDIA SAVIO - CONSERVATORE REGISTRO IMPRESE TORINO Ci sono delle sanzioni. Un po’ più di 200 euro ad amministratore.

MANUELE BONACCORSI Quindi, per non aver reso pubblici gli atti della Dicembre, dal 1996 al 2012, i componenti della famiglia Agnelli/Elkann hanno ricevuto una multa di 200 euro?

CLAUDIA SAVIO - CONSERVATORE REGISTRO IMPRESE TORINO Per ogni singola omissione o ritardo.

MANUELE BONACCORSI Non credo siano andati in fallimento

CLAUDIA SAVIO - CONSERVATORE REGISTRO IMPRESE TORINO sì sì sì

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Ma dopo l’iscrizione la società non viene mai aggiornata. A giugno del 2019, la Dicembre risulta di proprietà di tre persone: la Signora Marella Caracciolo, deceduta a febbraio di quell’anno. Il manager di fiducia di Gianni Agnelli Gianluigi Gabetti, morto a maggio. E l’anziano ex ad di fiat Cesare Romiti.

CLAUDIA SAVIO - CONSERVATORE REGISTRO IMPRESE TORINO Infatti, noi alla morte di Caracciolo abbiamo scritto a Romiti chiedendo di aggiornare la situazione della Dicembre. E Romiti non l'ha fatto.

MANUELE BONACCORSI Il 18 agosto 2020 muore anche Romiti. Quindi in quel momento la società Dicembre, che ripeto controlla a cascata il più grande gruppo privato italiano, diciamo, se io facevo la visura in quel momento, mi risultava una società di fantasmi. Di altissimo livello. Ma tutti fantasmi.

CLAUDIA SAVIO - CONSERVATORE REGISTRO IMPRESE TORINO certo

MANUELE BONACCORSI dato che si sapeva che il dominus della società era John Elkann, non gli avete mai scritto?

CLAUDIA SAVIO - CONSERVATORE REGISTRO IMPRESE TORINO Noi abbiamo scritto alla società all'indirizzo che abbiamo trovato.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Fino a quando il giornalista Gigi Moncalvo, nel 2021, non decide di denunciare tutto. Ma non a un magistrato italiano. Direttamente alla Sec, l'authority di controllo della borsa americana, dove sono quotate alcune società del gruppo

GIGI MONCALVO - GIORNALISTA La Sec ha aperto un'investigazione su questo mio ricorso. Ebbene, finalmente John Elkann si è convinto a presentare documenti che da venti anni egli avrebbe dovuto per legge presentare.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Solo nel 2021 si scopre che già nel 2004, con una semplice scrittura privata, Marella Caracciolo aveva ceduto la nuda proprietà del 41,29% della Dicembre ai tre nipoti Elkann: John, Lapo e Ginevra, mantenendo per sé solo l’usufrutto delle quote.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO IN RICICLAGGIO È chiaro che una vendita ai nipoti, unici eredi, non ha alcun senso logico: Marella Caracciolo, con tutto quello che aveva, non aveva mica bisogno dei soldi dei nipoti per vivere, no? MANUELE BONACCORSI E quindi perché l'hanno fatta?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO IN RICICLAGGIO Per evitare che probabilmente la figlia impugnasse tutto e quindi che questa grossa quota della Dicembre andasse a finire in una causa e quindi venisse bloccata.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Non lo sapeva neppure l’Agenzia delle Entrate. Il fisco - durante un accertamento del 2009 - pone a Marella un questionario sulla sua residenza fiscale fino al 2008. Dal documento emerge che Marella avrebbe avuto della Dicembre solo la nuda proprietà non l’usufrutto.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO IN RICICLAGGIO Se è vera la scrittura privata, ha detto il falso all'Agenzia delle Entrate. Se non ha detto il falso all'Agenzia delle Entrate quella scrittura è stata fatta dopo il 2009.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO La copia della scrittura privata con cui Marella aveva ceduto le quote della dicembre viene depositata in camera di Commercio. Ma il notaio Remo Morone appone una certificazione che non è la solita dicitura “conforme all’originale.” Ma una che agli addetti ai lavori appare strana. il presente documento è copia conforme al documento a me esibito.

MANUELE BONACCORSI Senta: un notaio che deve scrivere un atto all'interno del fascicolo in Camera di commercio, come lo deve produrre questo atto tecnicamente.

FEDERICO SOLIMENA - NOTAIO Deve dichiarare che quella è la copia conforme all'originale

MANUELE BONACCORSI Le posso fare vedere un atto?

FEDERICO SOLIMENA - NOTAIO Sì, certo.

MANUELE BONACCORSI Secondo lei è valido? Sono tre cessioni…

FEDERICO SOLIMENA - NOTAIO Secondo me no. Non credo che l'abbia potuto recepire il registro imprese competente perché non c'è l'autentica delle firme.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO E infatti il tribunale di Torino il 7 luglio 2022 impone di cancellare l’atto della cessione delle quote della Dicembre dal registro perché “risulta privo dei requisiti formali”. Ma appena una settimana dopo il documento viene ripresentato alla camera di commercio

MANUELE BONACCORSI Com’è che quest’atto oggi, se io faccio la visura, lo trovo ripresentato come se nulla fosse successo?

CLAUDIA SAVIO - CONSERVATORE REGISTRO IMPRESE TORINO il controllo che fa il registro delle imprese è meramente formale.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Alla fine i legali degli Elkann producono al processo di Torino. un’altra versione della scrittura privata, si tratta sempre di una copia, ma in questo caso è autenticata nel 2004 da un notaio di Ginevra, Etienne Jeandin. Che a sua volta contiene una postilla con l’autenticità della scrittura fatta da un altro notaio, collega di studio di Jeandin, ma redatta nel 2021.

MANUELE BONACCORSI Vorremmo sapere se il documento è vero?

SEGRETARIA STUDIO NOTARILE JEANDIN è vero, ma il notaio ha verificato la firma, non il contenuto

MANUELE BONACCORSI Ma avete il documento originale qui?

SEGRETARIA STUDIO NOTARILE JEANDIN No, non l’abbiamo

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Secondo le perizie calligrafiche dei legali della figlia Margherita, le firme della madre Marella sulla scrittura privata sarebbero probabilmente apocrife. Per dipanare la questione basterebbe avere l’originale. L’avvocato di Margherita lo ha chiesto ai legali di John Elkann senza ottenere risposta. Noi abbiamo scritto al notaio svizzero Jeandin,chiedendogli se caraccio e i fratelli elkan fossero presenti avessero firmato davanti a lui. Ci ha risposto lapidario: Non intendo esprimermi. Poi c’è il giallo del giorno della firma della scrittura privata : secondo le indagini degli investigatori di Margherita il 19 maggio 2004 Marella Caracciolo non poteva trovarsi a Ginevra. MANUELE BONACCORSI Dove si trovava il 19 maggio 2004?

ANDREA GALLI - INVESTIGATORE PRIVATO A Torino e il 21 maggio è partita per Marrakech.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Questo è invece il documento, che Report può mostrarvi in esclusiva, che certifica il pagamento delle quote. John versa alla nonna 2,5 milioni; Lapo e Ginevra 39,2 milioni a testa tramite la Gabriel Fiduciaria di Torino, allora guidata dall’avvocato di Gianni Agnelli, Franzo Grande Stevens. La nonna incassa in totale 80,9 milioni di euro. Ma li tiene in deposito per appena 48 ore. In attesa di ulteriori istruzioni.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO IN RICICLAGGIO Entrambe le parti hanno un conto con la fiduciaria. E La fiduciaria ha conti presso Banca Pictet. La fiduciaria è di Torino, chi fa l'operazione sono tutti italiani, tutto questo viene fatto in Svizzera con movimenti finanziari che non si vedono perché vengono fatti dietro le società fiduciarie. MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Cioè non c'è una ricevuta di pagamento elettronico?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO IN RICICLAGGIO Non c'è nessuna contabile bancaria. Manca l'evidenza dell’intervenuta movimentazione del denaro.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La storia, l’abbiamo visto, è complessa. I giudici dovranno esprimersi, probabilmente, entro l’inizio dell’estate. Un contenzioso che riguarda la proprietà della Dicembre: una società semplice, così è stata istituita nel 1984, tuttavia controlla un impero. Una società semplice che è stata a lungo segreta: doveva essere registrata nel 1996 e invece fino al 2012 è rimasta completamente segreta. Poi nel giugno del 2019 da visura risulta che nella Dicembre c’era ancora Marella Caracciolo, poi c’era anche Gabetti, uomo di fiducia di Gianni Agnelli che però era morto a maggio, Marella era morta a febbraio. L’unico in vita era l’ex amministratore delegato di Fiat Romiti: avrebbe dovuto aggiornarla lui questa visura. Sennonché non lo fa e muore nel 2020. Fino a quando poi scopre tutto il giornalista Gigi Moncalvo che denuncia tutto alla Sec, l’autorità di controllo della Borsa americana, e pubblica anche una e-mail che fa girare presso tutti gli amministratori delegati del comparto auto. A quel punto Elkann sana tutto e da amministratore della società pubblica i documenti mancanti. Si scopre in quel momento che Marella aveva ceduto nel 2004 le proprie quote, il 41,29 per cento, ai nipoti Elkann. Ma aveva mantenuto l’usufrutto di quelle quote, cede solo la nuda proprietà. Tutto attraverso una scrittura privata, che però abbiamo visto, presenta delle anomalie. La prima è che manca il luogo dove è stata redatta. E secondo gli investigatori di Margherita, Marella quel giorno non era in Svizzera, era a Torino a firmare un altro documento che riguarda sempre la Dicembre. Poi era partita per Marrakech. Insomma, basterebbe per sanare la situazione l’originale. Noi l’abbiamo chiesto. Un rappresentante della Dicembre ci ha risposto che «ogni volta che i giudici italiani si sono espressi, in ben tre gradi di giudizio, con riguardo alla prima iniziativa di Margherita De Pahlen, l' hanno respinta poiché infondata. E che anche le nuove azioni intentate dalla contessa Agnelli sono infondate e che «attendono con serenità e fiducia la decisione dei giudici. Decisione che in ogni caso - dicono - non muterà gli assetti di governance della Dicembre». Ecco è possibile leggere la risposta integrale sul nostro sito. Abbiamo chiesto anche conto anche ai legali di Margherita di rispondere a questi quesiti, ma hanno preferito non rilasciare dichiarazioni. Insomma, indipendentemente da chi vincerà ci sembra che l’unico sconfitto qui, è l’amore tra madre e figli.

Gianni Agnelli, il ritratto affettuoso e il ricordo curioso di Platini. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 17 marzo 2023

«Gianni Agnelli, in arte l’Avvocato» sembra un album di famiglia (molte immagini sono del Centro Storico Fiat), quasi un racconto privato attento non solo agli eventi importanti

Un ritratto molto affettuoso, quello dedicato a Gianni Agnelli a vent’anni dalla sua scomparsa, in cui i tre nipoti John, Lapo e Ginevra giocano un ruolo fondamentale; un ritratto che coinvolge parenti, amici, collaboratori, calciatori, operai e giornalisti per ricordare la Fiat, la Juventus, il potere degli affari, il rapporto con la politica, ma anche il gusto per la bellezza, i motori, la Ferrari, il culto della vela e dello sci. Marco Durante, in collaborazione con Rai Documentari, ha prodotto «Gianni Agnelli, in arte l’Avvocato», scritto da Stefano Cappellini, Emanuele Imbucci e Dario Sardelli e diretto dallo stesso Imbucci (Rai3). Al di là degli aneddoti, spesso caricati di un’aura favolosa (l’eleganza, le battute, la spezzatura, le donne), delle vicende tragiche come dei pettegolezzi, la breve storia del capitalismo italiano si intreccia inevitabilmente con la storia degli Agnelli, di Gianni in particolare, secondo la celebre frase «ciò che va bene per la Fiat, va bene per l’Italia».

A differenze del documentario di Nick Hooker «Agnelli» della HBO, che ha rappresentato il punto di vista degli americani su una delle figure più carismatiche del nostro Paese, «Gianni Agnelli, in arte l’Avvocato» sembra un album di famiglia (molte immagini sono del Centro Storico Fiat), quasi un racconto privato attento non solo agli eventi importanti (la partecipazione alla II guerra mondiale, la presa del comando in azienda, la sfida al terrorismo con la decisione di non andarsene da Torino, la crisi della Fiat) ma anche ai risvolti più personali, quelli che di solito vengono rubricati come fatti di costume o di moda. I famosi vent’anni in Costa Azzurra, che a molti sono parsi come una lunga vacanza mondana, in realtà gli sono serviti per costruirsi un’aura internazionale, per porre le basi del «personaggio», se non del mito. La testimonianza più curiosa? Quella di Michel Platini.

Gianni Agnelli: oltre l’orologio sul polsino. L’arte, lo stile, l’identità. Redazione de L’Identità il 18 Marzo 2023

di TOMMASO DE MOTTONI

Gianni Agnelli è stato uno dei più grandi imprenditori italiani della storia, la sua visione innovativa e la sua determinazione hanno trasformato la Fiat in una delle aziende più importanti al mondo. Agnelli non si è limitato al mondo degli affari, ma ha avuto un’influenza significativa anche nella cultura, nella politica e nello sport.

La visione imprenditoriale di Agnelli era incentrata sulla ricerca dell’efficienza, dell’innovazione e della competitività.

Ha saputo cogliere le opportunità offerte dal mercato e ha investito in tecnologie all’avanguardia per migliorare la qualità dei prodotti e aumentare la produttività.

Ma Agnelli non era solo un grande imprenditore, era anche famoso per la sua bellezza e la sua eleganza.

Spesso considerato un icona del fashion, Agnelli ha influenzato lo stile maschile in tutto il mondo. Il suo abbigliamento elegante e impeccabile, accompagnato da un paio di occhiali da sole scuri e un orologio Rolex, è diventato uno dei simboli del lusso e della raffinatezza.

Agnelli è stato anche un grande collezionista d’arte, e la sua passione per l’arte lo ha portato a possedere una delle più importanti collezioni di arte moderna e contemporanea al mondo. La sua collezione privata includeva opere di artisti come Andy Warhol, Roy Lichtenstein, Pablo Picasso e Francis Bacon.

Ma Agnelli è stato anche famoso per la sua vita privata, in particolare per la sua fama da latin lover. Era conosciuto per la sua passione per le donne e per la sua vita mondana. Questo lo ha reso una figura controversa, ma anche molto ammirata da molti.

In ogni caso, l’impatto di Agnelli sulla storia italiana è stato indiscutibile. La sua visione imprenditoriale ha permesso alla Fiat di diventare un’azienda di successo, il suo impegno nella cultura e nella politica ha contribuito alla crescita del paese, e la sua eleganza e il suo fascino hanno ispirato intere generazioni.

Oggi, a vent’anni dalla sua morte, la figura di Gianni Agnelli continua ad essere oggetto di dibattito e di studio. La sua eredità è stata fondamentale per lo sviluppo dell’Italia, e la sua influenza si fa ancora sentire nella cultura, nella moda e nell’economia del paese.

In conclusione, Gianni Agnelli è stato un uomo eccezionale, dotato di grande intelligenza, passione e determinazione. La sua visione imprenditoriale, la sua passione per l’arte e la sua fama da latin lover lo hanno reso una figura unica e irripetibile. La sua eredità è stata fondamentale per lo sviluppo dell’Italia e la sua memoria rimarrà per sempre viva nella storia del paese.

Estratto dell’articolo di Massimo Sideri per il “Corriere della Sera” il 14 marzo 2023.

«Come per tutti i torinesi sentivi l’elicottero e sapevi che era l’Avvocato. Era sopra tutte le cose e ogni tanto veniva a terra a parlare con gli umani come noi». Raccontato da Michel Platini (che anche i non juventini accettano nel pantheon degli extra-umani) rende bene l’idea di quale fosse la percezione diffusa su Gianni Agnelli.

 L’elicottero, lo sci, le Ferrari (una Testarossa cabrio e una F40), la Juventus, le barche con l’andatura pensosa di bolina e, inevitabilmente, la Fiat. Nascita dell’archetipo dell’imprenditore italiano che tutti hanno cercato di emulare: come racconta Marco Tronchetti Provera negli anni Novanta c’era chi avrebbe voluto simulare un problema alla gamba pur di poter camminare con il bastone come faceva lui. È l’Agnelli pubblico delle battute fulminanti, come quando a Gianni Minoli che tentava di stuzzicarlo risposte: «Esistono uomini che parlano di donne e uomini che parlano con le donne. Io di donne preferisco non parlare».

O, ancora, questa volta a Enzo Biagi che gli aveva confessato che Tommaso Buscetta era un tifoso della Juventus: «Lei lo rivedrà? Gli dica che questa è una delle cose di cui non dovrà pentirsi».

 Eppure nel docufilm «Gianni Agnelli — In arte l’Avvocato» prodotto da Marco Durante, presidente di LaPresse, con Rai Documentari per i vent’anni della scomparsa, è l’Agnelli dei ricordi dei tre nipoti John, Lapo e Ginevra Elkann, a prendere forma in maniera originale. Memorie sul nonno che si divertiva — racconta John Elkann — a derapare pericolosamente sulla salita per Villar Perosa così da far balzare i nipoti seduti dietro da una parte all’altra. Una mossa per cui oggi il movimento Woke ti impalerebbe sui social. «Per noi era meglio del luna park» confessa l’attuale presidente di Fca.

Peraltro fu proprio questa abilità alla guida che lo aiutò, negli anni del terrorismo, quando decise di rimanere a Torino. «Si divertiva a seminare anche la scorta» racconta ancora Platini.

 Poi, certo, c’è anche l’Agnelli dell’orologio sulla camicia (con una chicca storica: pare che l’Avvocato avesse rubato questa curiosa usanza tra l’aristocrazia argentina), quello della Costa Azzurra negli anni in cui plasmò, ricorda Paolo Mieli, la figura di imprenditore internazionale che «fece bene all’Italia».

Gianni Agnelli.

Estratto dell'articolo di Christian Benna per corriere.it mercoledì 18 ottobre 2023.

«Maestro Abbado, l’Avvocato avrebbe piacere di ospitarla stasera per cena a Villa Frescot». È il 6 maggio 1994 quando Claudio Abbado inaugura l’Auditorium del Lingotto Giovanni Agnelli dirigendo i Berliner Philarmoniker. Il grande direttore d’orchestra, scomparso nel 2014, accoglie con entusiasmo l’invito specificando però che non è solo: «Con me ci sono 128 orchestrali. Dove vado io, vengono anche loro».

A ricordare uno dei tanti episodi che coinvolgevano Villa Frescot è Giorgio Garuzzo, tra i massimi dirigenti dell’epoca d’oro del Lingotto, al vertice di Iveco e di Comau, autore del libro «Fiat: i segreti di un’epoca», uscito poi dal gruppo in polemica con Cesare Romiti. «L’Avvocato non fece una piega. Solo che dovette improvvisare una grande cena al Castello del Valentino perché a Villa Frescot non ci stavano tutti quanti», rammenta Garuzzo.

Candele a muro, arredamento nobile, quasi nulla di moderno, un grande parco dove correvano i cani, «Villa Frescot ricordava la casa di un sovrano». E in effetti Casa Agnelli era la casa del sovrano: «potevi incontrare Henry Kissinger come Guido Carli e i top manager». A Villa Frescot si parlava di tutto, anche di affari ma non si facevano affari. [...] 

Tanti sono i ricordi svelati dagli invitati al desco di Gianni Agnelli sulla cucina raffinata e spartana di Villa Frescot. C’è chi rammenta il brodo di tartaruga, e piatti della nouvelle cuisine. [...]

L’Avvocato aveva un cavalletto montato nella camera da letto, dove si alternavano capolavori. La bellezza di un Canaletto da vedere al risveglio. E la bellezza di un Monet prima di chiudere gli occhi.

Agnelli e la Juventus, 100 anni di passione e tifo. Un amore unico nel panorama calcistico mondiale per durata, successi e investimenti. Daniela Sbrollini su Il Riformista il 13 Ottobre 2023 

Famiglia Agnelli e Juventus significano 100 anni un connubio fatto di passione, di tifo, amore, impegno non di una sola persona ma di una famiglia intera. Un connubio tra una dinastia imprenditoriale, gli Agnelli, che ha fatto la storia del nostro Paese e una squadra di calcio, la Juventus, che ha fatto al storia del calcio e dello sport italiano.

La storia della Fiat va di pari passo con l’economia piemontese e più in generale italiana, allo sviluppo di un Paese che trovava nell’industria automobilistica un modello di sviluppo imprenditoriale, economico e sociale, facendo si che l’Italia coltivasse il proprio “sogno” di essere alla pari delle grandi nazioni che vedevano nell’automobile non solo un mezzo di trasporto ma un volano di crescita e integrazione sociale. E l’ondata demografica che spingeva le persone del sud dell’Italia verso il nord industriale, trovava nella Fiat primaria fonte di occupazione, e del miracolo economico del dopoguerra, con intere generazioni spinti dal sogno di trovare nel nord non solo opportunità di lavoro ma anche riscatto e crescita sociale ed economica e nel contempo costruiva il mito bianconero, il mito sportivo della domenica, del giorno di riposo e il tifo per la Juventus era il legame tra sud e nord, tra residenti e migranti, tra classi sociali differenti.

Un fenomeno di aggregazione sociale unico nel nostro Paese, fatta da persone di tutti i ceti sociali, di tutta Italia, legati da una passione per quella maglia a strisce bianconere. E se Fiat ha sempre significato l’impegno imprenditoriale della famiglia Agnelli, oggi diventato colosso internazionale con il gruppo Stellantis, la Juventus ha dato la dimensione di cosa è la passione di una intera famiglia per una squadra di calcio, e l’impegno di farla diventare la squadra con più tifosi del nostro Paese ma anche con una dimensione internazionale unica.

I 100 anni di questo amore unico e indissolubile tra una famiglia e un club calcistico, un amore unico e che non ha uguali nel panorama calcistico mondiale, per durata, successi e investimenti. Potremmo dire Juve storia di un grande amore! Un amore che da 100 anni lega non solo un club prestigioso, ma di tutti i tifosi, alla Famiglia Agnelli. Questo è legame indissolubile nato nelle famiglie, nei banchi di scuola, negli oratori, nelle periferie delle grandi città, nel sud e nel nord dell’Italia, che ha resistito a mille intemperie, che resiste e che resisterà nel tempo, con un legame non solo fatto di tifo, ma soprattutto di consapevolezza di come appartenere alla Juventus, significhi appartenere alla storia del nostro Paese. 100 Anni di stile Juventus e Agnelli che rende unici ed orgogliosi di tifare Juve in qualunque parte del mondo.

Quello che il popolo bianconero deve alla famiglia Agnelli tutta e in particolare a Gianni Agnelli, all’Avvocato, al quale è dedicato lo Juve Club del Parlamento, è un grazie infinito, che passa attraverso vittorie, emozioni, entusiasmo, anche sconfitte e delusioni, ma un grazie che ha dipinto decenni di storia della Juve, del calcio, dell’’industria, dell’economia e della nostra società e dell’Italia intera.

L’altra sera al Pala ALPITOUR di Torino le leggende erano tutte in campo per onorare ancora una volta una maglia, i tifosi, la storia di un club ma soprattutto il legame con una famiglia che ha regalato, continua a regalare e continuerà anche in futuro a regalare sogni a milioni di tifosi. Campioni e leggende per sempre che hanno emozionato e continuano ad emozionare.

Daniela Sbrollini. Senatrice capogruppo commissione cultura e Responsabile sport Italia Viva

Alberto Sordi racconta la surreale cena a casa dell'Avvocato Agnelli. Il racconto del divertente aneddoto di Alberto Sordi riguardante la striminzita cena a casa dell'Avvocato Agnelli, finito con una spaghettata improvvisata. Tommaso Giacomelli il 20 Agosto 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 L'invito di Agnelli

 Sordi salva la serata

Siamo nel 1976, nel salotto buono della televisione italiana, sul canale principale di "mamma" Rai, quando Mike Bongiorno presenta un ospite d'eccezione: Alberto Sordi. Il grande attore romano non è soltanto un'icona del cinema, ma è un personaggio popolare che riesce a oltrepassare i limiti del piccolo e grande schermo con la sua simpatia spontanea, con la sua naturale e tracimante verve ricca di giovialità. Durante la chiacchierata tra i due gettonati volti nazionali, Mike chiede ad Alberto di raccontare la sua esperienza culinaria in casa dell'Avvocato, che nel Bel Paese significa soltanto Gianni Agnelli, il patron della Fiat e il presidente della Juventus. I più si aspetterebbero una cena luculliana, come quella dei patrizi dell'antica Roma, ma si sbaglierebbero in toto.

L'invito di Agnelli

Alberto Sordi si trova alla prima proiezione di uno dei suoi innumerevoli film, quando fa capolino sulla scena Gianni Agnelli intento a recuperare alcuni suoi amici, anch'essi presenti al cinema. Tutti sono pronti ad andarsene a mangiare qualcosa, a degustrare una prelibata cena, quando da galantuomo il torinese estende l'invito per una serata conviviale dinnanzi a una tavola imbandita anche al mattatore romano, che accetta di buon grado. Dentro allo stomaco di quest'ultimo si muove un turbine scomposto, in fondo l'Albertone nazionale non ha mai nascosto la sua voracità, tanto al cinema quanto nelle altre occasioni a favore di telecamera. La pasta per lui è più di un amore, è un patrimonio inestimabile della sua esistenza. Non a caso, la mangia ogni domenica a pranzo da tutta la vita. La carovana, dunque, muove verso la magione degli Agnelli. L'ambiente è regale, raffinato e un po' alla moda, proprio come l'Avvocato. Tutti si siedono in modo decoroso e aspettano religiosamente il giro di pietanze.

Sordi salva la serata

I piatti si riempiono, prima con una foglia di lattuga, poi è il turno del paté de foie gras. Sordi è un po' stupito e mentre sta conversando coi suoi commensali rifiuta distrattamente la portata, dicendo: "No, io l'antipasto non lo mangio". In seguito, i camerieri porgono in tavola un pezzetto di formaggio e poi - improvvisamente - la macchina mangereccia si blocca. Mentre le pance brontolano, gli ospiti di Agnelli attendono con avidità che sopraggiunga qualcosa dalla cucina, ma tutto tace. D'un tratto arrivano dei vassoi, finalmente la fame si può placare, tuttavia più si avvicinano e più la delusione galoppa prepotentemente. Là sopra ci sono soltanto dei fumanti caffè. La cena è finita.

Alberto si guarda intorno, prende un po' di coraggio, e in modo scansonato dice all'Avvocato: "Lei non mi aveva invitato a cena? Io stavo andando al ristorante, quando mi ha detto venga a casa mia...". In modo trafelato e con la sua consueta flemma, Gianni risponde: "Che desiderava? Voleva forse uno spaghetto?". "E certo che volevo uno spaghetto", ribatte Sordi. Scroscio di risate. Agnelli richiama all'ordine la cucina e viene allestita una clamorosa spaghettata aglio, olio e peperoncino sulla quale tutti gli invitati si tuffano senza ritegno. Così Alberto Sordi ottiene quello che vuole e salva la serata a tutti, grazie alla sua spontaneità fuori dal comune.

Enzo Biagi: «Con l’Avvocato in giro per Torino. La gente perdona gli Agnelli nonostante i soldi». Enzo Biagi su Il Corriere della Sera il 2 Giugno 2023

Nel 1998 il grande giornalista si fece accompagnare dal patron della Fiat per un “viaggio” nella capitale sabauda, epicentro del nostro sviluppo economico grazie all’azienda di auto, «l’unica multinazionale italiana». «Qualcuno dice che non si deve parlare del passato ma non è vero, è molto piacevole farlo» 

Gianni Agnelli e Enzo Biagi all’allora stadio comunale di Torino nella fine degli Anni 90 durante un giro-reportage della città

Gran parte delle firme storiche del Corriere della Sera hanno scritto articoli che fanno parte della storia di questo giornale e del Paese. Dal numero di «7» in edicola il 2 giugno, vi proponiamo questo di Enzo Biagi, che apparve sul quotidiano nel novembre 1956. Buona lettura

27 SETTEMBRE 1998

La Torino che abbiamo conosciuto da ragazzi era quella di De Amicis, dei due vecchietti che sorridevano dalle scatole del Cacao Talmone, di Addio, giovinezza: certo anche la città dove facevano le automobili, quella dei circoli dei nobili o delle leghe proletarie, con due squadre di calcio, e i grandi viali, gli edifici austeri, le memorie di una antica capitale.

Da lì, raccontavano i maestri, è partito il nostro Risorgimento: e c’è il Palazzo Carignano, con l’aula che ospitò i primi 433 deputati del Regno d’Italia e al Ristorante del Cambio conservano il tavolo dove sedeva Camillo Benso di Cavour. I divani scarlatti sono sempre gli stessi; tutto è rimasto come allora: i tavoli in ferro battuto, e un vecchio menù elenca i piatti che venivano serviti al signor conte: lo «stuffadino», il «sarribaglione», le «sarde di Nantes». Neppure gli aristocratici e la corte erano forti in italiano.

I RICORDI DELLA SORELLA SUSANNA: «LA REGINA MARIA JOSÈ ERA BELLISSIMA, MOLTO TIMIDA. MA ANCHE TANTO, TANTO STRANA...»

«L’avvocato» (è Gianni Agnelli), come il «cavaliere» è Berlusconi, e il «professore » Prodi, mi accompagna alla scoperta di certi aspetti inconsueti della sua città: gli Agnelli, ha scritto un polemista, sembrano cosmopoliti, ma in verità «sono torinesi tra torinesi, e torinesi Fiat tra torinesi Fiat». C’è sempre stata a Torino una famiglia che per gli italiani contava e aveva un peso nelle decisioni importanti: si chiamava Savoia, adesso si chiama Agnelli. Le circostanze li favoriscono: gestiscono la loro impresa assai meglio di quanto i politici hanno amministrato il Paese. Il popolo, e nessuno sa quanto gli costa, li perdona anche se hanno tanti soldi. «L’ultimo signore d’Italia» così Stern aveva definito Agnelli III. Era il nipote più amato dal Fondatore, che prevedeva: «Quel birichin lì», quel giovanottino, li farà ballare tutti. E non era un sentimentale. Un giorno il vecchio senatore si presenta al Lingotto aspirando il solito sigaro. Ma scorge un cartello: «È severamente proibito fumare». Chiama il custode: «Perché non mi hanno avvertito che adesso è proibito?» «Perché chiel a l’è ‘l padron», risponde l’usciere, e gli sembra una buona ragione. Viene punito. Torino si identifica con la Fiat, e anche il metal-meccanico lega la sua vita a quella della ditta. Che lo segue dappertutto: quando va a fare acquisti alla Rinascente, se beve un vermut Cinzano, se legge un libro Bompiani 0 Rizzoli, o i testi scolastici della Fabbri, se compera una utilitaria a rate, 0 se carica una sveglia Borletti, se va in vacanza al Sestriere. 

È il 1899 quando la Fabbrica Italiana Automobili Torino, sorta «per la costruzione e il commercio» dei nuovi, veicoli, assume i primi cinquanta dipendenti. Quanta strada. Nasce come hobby costoso di alcuni gentiluomini dai colletti alti e dai baffi alteri: invece che alle scuderie pensano ai motori. C’è tra loro un ex ufficiale di cavalleria che, stanco di amministrare cascine, vuol tentare le sconosciute vie della meccanica, e pensa che l’automobile è destinata ad avere un futuro: è Giovanni Agnelli I.

II modello di esordio lo fotografano al Valentino accanto a una languida signora dal cappello a vari piani: è il Tipo A. Ha i fanali a carburo, le ruote poco più grosse di quelle delle biciclette, due sedili, la tromba. Può fare anche 35 chilometri all’ora, ma il massimo consentito è di sei; costa 4200 lire. Roba da signori.

Tra i primi clienti: il re di Spagna, Guglielmina d’Olanda, il Kaiser Guglielmo II. Vittorio Emanuele III in principio è riluttante, trova il nuovo mezzo «brutto, pericoloso e abominevole» ma un giorno rimane a piedi a Ostia, per un incidente del treno, accetta un passaggio dal principe Colonna e ordina per il Quirinale dieci automezzi.

«O BASTA LA’» E’ UN MODO DI STUPIRSI EDUCATAMENTE PER QUALCOSA DI SPROPORZIONATO. “LEI DICE?” ESPRIME INVECE UN EDUCATO DISSENSO

Il Piemonte è una terra dove abbondano i tipi singolari: perfino i santi escono dalla tradizione, dall’iconografia normale. Il Cottolengo, che nello spirito della carità raccoglie creature infelici, rivela anche certi aspetti manicomiali; don Bosco terrorizza Vittorio Emanuele II per indurlo a non firmare le leggi Siccardi, che sopprimono alcuni ordini religiosi e tolgono dei privilegi alla Chiesa.

Don Bosco gli riferisce sogni terrificanti, e lo avverte; durante una visione notturna un valletto gli è corso incontro urlando: «Grande funerale a corte». Infatti è una premonizione esatta e scalognatrice, e le maledizioni colpiscono inesorabili: il Savoia, che i sudditi considerano «galantuomo», perde in poche settimane la madre, la moglie, il fratello e un bambino di quattro mesi, l’ultimo nato. Il re invidia i reggimenti che vanno in Crimea a combattere i russi; sempre meglio, dice, che dover fronteggiare preti e suore.

Dice Giorgio Bocca: «Tutto distingue i piemontesi: la geografia e la loro storia. Per parecchio tempo hanno deciso le cose più importanti della politica italiana. I dirigenti del partito comunista erano quasi tutti torinesi, Gramsci e Togliatti stavano qui; da qui è partita l’industrializzazione e il miracolo economico. L’unica, multinazionale che c’è in Italia è la Fiat. Il Piemonte ha avuto per primo uno Stato e un esercito efficienti. C’è una dote precipua dei piemontesi, che non è la genialità, lo spirito, non sono spumeggianti, né grandi intellettuali, ma il buonsenso. Credo che Cavour e Giolitti siano stati politici che ne avevano tanto». Certamente il sistema di vita è molto più duro, compatto e omogeneo che da altre parti, il marchese Massimo D’Azeglio era solito dire: “Quando voglio respirare un po’ di aria libera vado via da Torino e vado a Milano”. Nel Piemonte la Fiat ha sostituito i sovrani; c’è stato proprio un passaggio: quella che era una volta l’autorità monarchica, la disciplina monarchica, si è trasferita in questa grande impresa e c’è un patriottismo aziendale per cui fino a poco tempo fa, un impiegato 0 un funzionario, che si presentava in fabbrica con una vettura di un’altra marca, veniva considerato un reprobo. La Fiat ha dato ricchezza, ha fatto progredire il Piemonte, ma ha anche creato problemi terrificanti, esempio l’emigrazione al Nord dei meridionali, con problemi sociali spaventosi che non si sono sanati neppure adesso».

Confessa Umberto Eco: «Mi sento piemontese più ora che a venti o a quarant’anni. Come per tutte le appartenenze, si scoprono man mano che si invecchia, per le stesse ragioni per cui nel momento della morte si chiama la mamma. Vorrei riassumerla in un’espressione alla quale ho anche che dedicato alcune pagine: “O basta là” detta di fronte a qualsiasi affermazione un po’ troppo forte; può essere l’intera teoria di Hegel, l’esposizione di un sistema religioso, il progetto della pace nel mondo, una dichiarazione d’amore troppo forsennata. Il piemontese dice: “O basta là”, che è anche un modo di stupirsi educatamente per qualcosa di sproporzionato che ci viene messo di colpo di fronte, e ritirarsi in un educato scetticismo. L’altra affermazione che trovo molto piemontese, sempre davanti ad affermazioni che possono andare da un discorso di Mussolini al Manifesto di Marx e Engels alla celebrazione della New Age è: “Lei dice?” che è un modo di lasciare all’altro la responsabilità con un educato dissenso, una decisa volontà di non essere interessato a quello che l’interlocutore sta raccontando perché al mondo sono un po’ tutti stupidi»

GIANNI AGNELLI: «MUSSOLINI L’HO VISTO PER LA PRIMA VOLTA PROPRIO QUI (AL LINGOTTO) NEL 1932. CI FU L’ADUNATA, MIO NONNO INDOSSAVA IL TIGHT»

(...) L’avvocato Agnelli mi accompagna sui luoghi che segnano il paesaggio, e lo stile di Torino, e anche momenti della sua vicenda: ci legano affinità generazionali, siamo di quelli che nel giugno del 1940 avevano vent’anni. Andiamo al Lingotto; sul tetto c’è la pista dove provavano le auto, e facciamo un giro. Credo che l’idea l’abbia avuta il primo Giovanni Agnelli, che era uno dei pochi italiani, con il senatore Cini, il finanziere, che conosceva allora gli Stati Uniti e aveva visto la Ford. Il Lingotto, ora restaurato, la scenografia degli eventi che contano. «Mussolini - racconta Gianni Agnelli - l’ho visto la prima volta da bambino, proprio qui; ci fu l’adunata nel cortile, il nonno indossava il tight, eravamo nel 1932. Sette anni dopo, invece, a Mirafiori, molte cose erano già cambiate: portava l’uniforme di membro del Senato, io ero in divisa del Guf; stavo sul palco, ma in fondo, lontano. Mussolini arrivò con un’Alfa 0 una Lancia, e la cosa fu considerata di pessimo gusto. Poi si rivolse alle maestranze: “Il mio discorso sulla previdenza e sugli orari settimanali lo avete letto?” chiese. Un lungo, imbarazzante silenzio. “Allora” riprese irritato “andate a casa e imparate”». Il senatore si sentiva innanzitutto piemontese, e parlava volentieri il dialetto; i gerarchi fascisti li aveva battezzati «gli italiani», il che fa supporre non avesse una grande considerazione dei compatrioti. Ancora un ricordo: al funerale di Edoardo Agnelli, padre dell’avvocato, la bara è portata dai capi reparto del Lingotto, e accanto al gagliardetto del gruppo rionale fascista c’è l’azzurra bandiera della Fiat col motto: «Cielo, Terra, Mare». Andiamo allo Stadio Comunale, dove si sta allenando la Juventus. Mi presenta a Marcello Lippi: è un allenatore che ammiro, perché parla e si comporta secondo gli usi delle persone serie. Del resto, nelle interviste, sono quasi sempre gli atleti che ne escono meglio. «Qui - dice l’avvocato - giocava la squadra dei tempi di mio padre, quando vinsero cinque scudetti, dal ‘30 al ‘35. Qualcuno dice che non si deve parlare del passato, ma non è vero, è molto piacevole farlo». Mi permetto una citazione da un libro di memorie che ebbe un certo successo: quello di una maitresse americana. «Il passato - diceva - ha sempre il culo più roseo». E l’avvocato aggiunge: «Chi non ha ricordi di solito li ha così brutti che non li vuole rievocare».

POTETE CONSULTARE UN SECOLO DI PAGINE, ABBONANDOVI CON LE FORMULE NAVIGA+ O TUTTO+ ALL’EDIZIONE DIGITALE DEL CORRIERE (A QUESTO LINK TROVATE TUTTE LE OFFERTE)

Proseguiamo per il Museo nazionale del Risorgimento, con la guida gentile professor Umberto Levra, storia all’Università. C’è l’aula del parlamento subalpino, lo studio di Carlo Alberto, e hanno ricostruito la cella di Silvio Pellico allo Spielberg: le sue memorie, nei bei tempi del nozionismo, erano una lettura educatrice, ma adesso credo che gli alunni pensino che la marcia su Roma fu una riuscita competizione di atletica leggera.

(...) È Susanna Agnelli che ricorda quando in casa c’erano feste 0 ricevimenti, e si spargeva la notizia emozionante: «Stasera vengono i Principi di Piemonte». Maria José portava il diadema sui capelli biondi, il filo di perle attorno al collo, l’abito di seta scollato, come nelle fotografie di Ghitta Carrol. Umberto indossava l’alta uniforme, magro, composto, sorridente. «Maria José - ricorda Susanna - era bellissima, assomigliava a Carolina di Monaco, molto timida, ma anche tanto strana».

(...) È a Torino che nasce il cinematografo, nei capannoni dalle pareti di vetro, e la radio, e fino al termine della guerra c’era un indirizzo famoso: Eiar, via Arsenale 21, Torino, ed è qui che viene fondata la Fiat, Fabbrica Italiana Automobili Torino. Quasi un secolo fa: 1899. C’è una poetica definizione degli anniversari di Borges: «Un attimo che muore e un altro che sorge». Le vicende di una industria che si intrecciano, anzi: prendono il via, da quelle di una famiglia: gli Agnelli.

LA BIOGRAFIA DI ENZO BIAGI 

Giornalista tra i più popolari del 900, scrittore, autore e conduttore tv, Enzo Biagi, Emiliano di Lizzano in Belvedere (Bologna), nacque nel 1920 ed è scomparso nel 2007 a Milano, a 87 anni. Il primo periodo al Corriere è tra il 1963 e il 1971. In quell’anno accetta la direzione de Il resto del Carlino a Bologna, ma l’esperienza finisce bruscamente e già a fine ‘71 torna al Corriere, dove resta fino all’81 quando decide di passare a Repubblica dopo lo scandalo P2. Ancora al Corriere nell’88 e vi resta fino alla morte

Gianni Agnelli e quel gran veto su Forte dei Marmi. L’avvocato lo frequentò per molte estati della sua giovinezza, ma una serie di tristi eventi lo persuasero a bandirlo come meta per tutta la famiglia. Paolo Lazzari il 12 Marzo 2023 su Il Giornale.

Accolto nello studio del notaio Santini, quell’uomo dai modi regali incide il foglio con la biro blu. Quando si alza tradisce un profondo sorriso. Se ne esce con quel documento penzoloni sottobraccio, inspirando avidamente l’aria carica di salmastro. Se socchiude le palpebre, può già immaginarsi a piedi nudi tra i corridoi della sua nuova residenza. È il 19 giugno del 1926 e Edoardo Agnelli sente che quelle sono le 900mila lire meglio spese della sua vita.

Villa Costanza, perché è questo il nome del suo nuovo gingillo, era stata fatta costruire a Forte dei Marmi dall’ammiraglio Morin e successivamente il dott. Ilio Bertelli l’aveva affittata ad albergo. Ora che è racchiusa tra le mani lisce di Edoardo, è pronta a disertare quel destino da contenitore multietnico per ospitare la famiglia più potente d’Italia. Ma solo per l’estate, s’intende, quando l’anima contusa dell’imprenditore reclama una pausa dalla pressione degli affari. Così un’opulenta carovana trasmigra dal nord alla Versilia, in cerca di uno spiraglio di spensieratezza. In testa la moglie, Virginia Borubon Del Monte, poi i figli Clara, Gianni, Susanna, Maria Sole. Quindi Cristiana, Giorgio e Umberto. Ricchi pranzi, servitù e yatch ormeggiati nel porto più vicino. Ma anche un ritorno, necessario, ad un sentimento balneare che profuma di semplicità.

È in questo placido contesto che si svezza Gianni Agnelli, destinato a diventare il futuro timoniere di quella colta combriccola. Classe 1921, trascorre larga parte della sua giovinezza estiva circuito dalle carezze fortemarmine. Da piccolo finisce i sandali sulla battigia e si rimpinza di gelati al bar dello stabilimento che frequenta la famiglia. Veste semplice, alla marinara, canotta a righe orizzontali bianche e blu, come i suoi fratelli. Cresciuto di qualche spanna, le sue scorribande assumono retrogusti differenti. L’irresistibile tentazione femminile, con la promiscuità alla salsedine che ne consegue, non arriva subito però. Prima viene il flirt con le focaccine alla arselle di cui fa laute provviste soffermandosi ad un chioschetto davanti all’arenile. Quando il Tirreno si arrende alla luce color pesca del tramonto, invece, toglie il costume, lava via la sabbia e indossa mocassini, jeans e camicia bianca. I capelli sono ravviati all’indietro con generose spruzzate di brillantina. E poi via, a sgasare in motorino, per le vie luccicanti del centro.

La borghesia fiorentina e quella nordica confluiscono tronfie nel buen retiro versiliese. Ma c’è di più. Qui, se sei un Agnelli, puoi incrociare lo sguardo con personaggi di calibro siderale. La crème del jet set internazionale e le élite culturali mettono egualmente a mollo in quell’acqua tonificante le membra provate dai forsennati ritmi del progresso. Gianni arriva alla spiaggia tramite il tunnel sotterraneo che ha iniziato a scavare suo nonno, cosicché quella ciurma di ragazzetti non debba cimentarsi con strade che cominciano ad affollarsi. Ma in una calda domenica estiva, è il luglio del ’35, da quella battigia che tanto lo aveva cullato osserva suo padre partire per non tornare più. Edoardo sale sull’idrovolante del padre Giovanni per rientrare verso Genova e da lì dirigersi a Torino. Ai comandi c’è l’asso dell’aviazione Arturo Ferrarin. Il cielo è terso e il volo non presenta difficoltà di sorta. All’arrivo nel porto ligure, però, il velivolo sbatte in fase di atterraggio contro un tronco che galleggia a pelo d’acqua. Il mezzo si ribalta ed Edoardo, alzatosi in piedi, viene colpito alla nuca dall’elica rimasta in movimento. È una tragedia che segna la vita di Gianni e quella di tutta la famiglia.

Il lutto che travolge la famiglia è potente, ma nelle estati seguenti la comitiva continua a riunirsi per le vacanze estive a villa Costanza. E Gianni, che ormai si è svezzato, tenta di diluire quel ricordo aspro intridendo la bella stagione con esperienze piacevoli. Viene avvistato un’infinità di volte a bordo di lussuose spider a fluttuare per le vie del centro, ma non sono le auto sportive l’unica passione. Al lato del passeggero siedono, sovente, incendiari amori balneari. Sempre donne bellissime, magnetiche. A volte appartenenti alla popolazione indigena, altre a potenti élite in vacanza. Sono gli anni che vedono la Versilia raccogliere i Ruccellai, i Pacelli, gli Sforza e molte altre famiglie in vista dell’Italia più patinata. Il giovane Agnelli arriva, seduce con quei modi eleganti, la parlantina solenne e il fisico asciutto, e porta via.

C’è un luogo, più di ogni altro, che catalizza l’attenzione del futuro avvocato. La Capannina diventa, per lui, una sorta di propaggine di villa Costanza. Un accampamento luccicante e periglioso. Perché, se da un lato Gianni tira tardi divertendosi parecchio ballando e mietendo conquiste - in molti lo hanno visto uscire all’alba - dall’altro, c’è chi giura che ai tavoli allestiti per poker da consumarsi lentamente, sia stato più d’una volta spennato da bari di fama internazionale. Illazioni, probabilmente, anche se non era soltanto il frugarsi costantemente la cosa che lo seccava di più.

Acuto osservatore, Gianni non poteva far finta di derubricare a flirt estivo le avventure della madre, Virginia Bourbon Del Monte. Quella aveva tentato di tenere il lutto, ma i risultati erano stati discutibili. Così, quando emerse nitidamente che lei frequentava il controverso scrittore Curzio Malaparte, il capo famiglia rimasto, il nonno, la scomunicò da Torino, insistendo affinché le fosse revocato l’affidamento dei figli. Un altro episodio consumatosi al Forte, che intristì non poco Gianni e rigò il suo legame con la Versilia. Stranito da tutto quel caos familiare, diversi anni dopo - era il 1970 - Agnelli decise di svendere la villa di famiglia, liberandola per 300 milioni delle vecchie lire. Il ricordo del padre scomparso, le sanguinose partite a carte e le libertine attitudini della madre avevano tutti un comune denominatore. Da luogo estatico, Forte dei Marmi divenne un tabù. L’avvocato pose un gran veto: la famiglia Agnelli non avrebbe più soggiornato lì per le vacanze estive. Un’imposizione che ha retto mezzo secolo. Di recente l’ha infranta soltanto l’ex presidente della Juve, Andrea.Da lastampa.it il 25 Gennaio 2023.

«Sei sempre stato il mio supereroe e lo resterai per sempre. Non c'è giorno in cui non senta la tua mancanza ma so che da lassù sei il mio più grande angelo custode». A scriverlo su Twitter è Lapo Elkann, nipote dell’Avvocato, che accanto alla parola supereroe aggiunge un'icona con un supereroe mascherato e conclude con un emoticon con l'aureola e un cuore rosso. Allegata è una foto del nonno con due dei suoi husky, in tenuta da montagna a Saint Moritz.

Marco Benedetto per blitzquotidiano.it il 3 Febbraio 2023.

Giovanni Agnelli II, Gianni per i giornali e gli amici, l’Avvocato per le masse, morì 20 anni fa di questi giorni. Era nato 102 anni fa fra 2 mesi, il 12 marzo del 1921. Era il nipote di Giovanni Agnelli il fondatore della Fiat. Entrambi senatori, il nonno di nomina regia, lui nominato dal presidente della Repubblica Cossiga.

 Fu un grande uomo. Non lo fu tanto e non soltanto per il personaggio interpretato. La partecipazione di popolo al suo funerale fu testimonianza di qualcosa di mistico. Giovanni Agnelli fu un grande della storia del nostro Paese soprattutto per il ruolo giocato come nocchiere di una Italia nave in gran tempesta quasi come ai tempi di Dante, in un tempo in cui uscivi di casa senza sapere se il supremo tribunale del terrorismo ti ci avrebbe fatto tornare. Nessuno era esente, non solo i padroni ma i moltissimi annoverati come loro servi. Nessuno che non vivesse nel Nord d’Italia in quegli anni può immaginarlo.

Credo che la Fiat sia quel pezzo d’Italia che più di tutti ha pagato col sangue dei suoi uomini la follia di quella gente. Dalla Fiat, sotto la guida di Agnelli, è partita però anche la riscossa che ha riportato l’Italia alla normalità. Agnelli tenne sempre la barra sull’orza, senza ambiguità né dubbi, solo senso di responsabilità e di essere nel giusto.

 Sapeva di essere il sogno di ogni terrorista. Una volta chiese a un capo dell’antiterrorismo francese cosa sarebbe stato utile per la sua sicurezza e quello rispose: non basterebbe nemmeno un reggimento di cavalleria. Confortato, affidò la sua sicurezza alla irregolarità dei comportamenti. Mai la stessa ora negli spostamenti da casa all’ufficio, partenze improvvise per l’estero, mancato rispetto dei semafori, contromano quando possibile, cosa che avveniva regolarmente a Roma, nel tragitto sull’Appia antica percorso contromano.

Un mattino lo accompagnavo all’aeroporto, lui al volante, io accanto. Erano le 7 del mattino di sabato, a Torino il deserto. Il semaforo si era fatto verde, lui non si muoveva. Gli dico: Avvocato, è verde. E lui: Appunto per questo non mi fido. Ma Agnelli fu grande anche per le piccole cose.

 Ne sono testimone. Un giorno del 1979, in pieno caos di conflittualità sindacale e terrorismo, era stato ucciso in quei giorni Carlo Ghiglieno, durante una conferenza stampa mi lascio scappare una battutaccia contro il sindaco di Torino Diego Novelli. I giornalisti riportano le parole ma non chi le ha dette. Cane non morde cane.

Tenace, Novelli lo scopre dopo nove mesi. Era fine luglio. Si precipita in Fiat e chiede all’Avvocato il mio licenziamento. Agnelli lo tranquillizza, lo congeda e mi manda a chiamare. Racconta ridendo l’accaduto. Poi la battuta. Sapeva che sarei andato in vacanza nelle Filippine. “Meno male che adesso va nelle Filippine, là si che le insegnano le pubbliche relazioni”. Erano i tempi del dittatore Marcos.

 Con un Romiti o un De Benedetti sarei già stato licenziato. Non era volgare né rancoroso. Disse sì quando gli prospettarono di affidare la guida della Montedison (cosa che poi non avvenne) a Carlo De Benedetti, che lui stesso aveva allontanato dall’azienda nell’estate del 1976. “È il più bravo di tutti” motivò.

Una ventina d’anni dopo (lasciai la Fiat nel 1984) incontrai il favore degli astri. Non lo sentivo da tempo. Mi telefonò per dirmi che era contento della mia fortuna e che lo meritavo. Romiti, stizzito per il mio abbandono, mi obliterò, proprio come in Vaticano o nell’Urss.

 Cresciuto in un mondo di privilegio dinastico, Giovanni Agnelli ne godeva immensamente. Ma forse per questo aveva ammirazione e rispetto per la forza di carattere di chi era diverso da lui. Questo spiega il fascino esercitato su Agnelli da un personaggio come Luciano Lama. E anche il rispetto dei due fratelli Agnelli verso il Partito comunista. Un altro punto fermo nella grande strategia dell’Avvocato fu la legittimazione del Pci rispetto agli Usa.

Lo scoprii quando una giornalista americana, Lally Weymouth, figlia di Catherine Graham, proprietaria del Washington Post, venne a Torino per intervistarlo. Amica di famiglia, era ospite di Agnelli nella sua villa in collina. Io la accompagnai in giro per le fabbriche, a Mirafiori evitammo uno spruzzo di giallo da un operaio della verniciatura infastidito dalla nostra presenza. Ma l’intervista si svolse fuori dal controllo che di solito mi veniva affidato.

Seppi cosa l’Avvocato aveva detto solo qualche settimana dopo, quando arrivò dall’Inghilterra il testo ripreso dal magazine del Telegraph. Erano parole esplosive in un tempo in cui si definivano i contorni del compromesso storico e il terrorismo divampava. Inorridito chiamai l’Avvocato che mi placò dicendomi: dobbiamo convincere gli americani che il Pci è un’altra cosa dall’Urss.

 Onorava Torino e il Piemonte come categorie superiori dello spirito umano. Per lui essere piemontese era un lasciapassare assoluto. Non so se parlasse la lingua correntemente, ma le frasi che pronunciava, spesso citando il nonno, le diceva in modo impeccabile, nel modo in cui gli aristocratici di ogni regione parlano il loro dialetto.

Amava il privilegio e i vantaggi che comportava. Ma ammirava il cognato Carlo Caracciolo, diventato grande editore partendo dal sottoscala perché non da eredità ma da duro lavoro aveva ottenuto il successo.

 L’Avvocato aveva un senso della realtà molto acuto, godeva del privilegio, era consapevole della responsabilità che gli veniva dall’essere numero uno di una delle più grandi aziende europee e mondiali, con molta autoironia si chiedeva: se non ci fosse stato Valletta a accumulare oggi noi cosa redistribuiremmo.

E sospirava anche: Se ci fosse mio nonno, cosa farebbe. Il nonno visse e sopravvisse all’ondata rossa del 1919. Successivamente impresse all’azienda uno sviluppo multicentrico oltre le automobili: Se ci fosse mio nonno saremmo già sulla luna, sospirava il nipote. Sulla scrivania di mio nonno c’era solo una matita rossa e blu. Si limitava a chiedere, in piemontese: Ai son i sold, ai son nen (ci sono i soldi o non ci sono?).

 Giovanni Agnelli II amava andare a Parigi e New York, suo nonno preferiva Berlino. A Giuseppe Gabrielli, creatore del primo aereo italiano in metallo ad appena 29 anni, progettista del G91  e del G222, consigliò di andare in vacanza a Berlino ai tempi di Weimar e lo raggiunse anche per qualche giorno.

La vita militare lo aveva segnato, forse perché lì il privilegio non pesava nella vita quotidiana, si sentiva uno come tutti o quasi. Una volta, andando in elicottero da Torino a Villar Perosa, nei pressi di Pinerolo, mi indicò eccitatissimo una scarpata che da giovane cavallerizzo scendeva a cavallo con grande rischio.

 Un’altra volta doveva andare a New York col Concorde. Io perennemente ritardatario, gli feci perdere la coincidenza a Parigi e dovemmo adattarci a un percorso di 8 ore invece di 3. Fu un incubo. Non mi rimproverò mai, non me lo fece mai pesare. Ma per tutto il viaggio, appena vedeva che cedevo al sonno, mi svegliava per dirmi qualcosa. In quella occasione mi raccontò di come aveva sventato il tentativo del nonno di non farlo partire per la guerra. Agnelli usò Edda Ciano, la figlia di Mussolini, di cui parlava con ammirazione (e con disprezzo del marito) per ottenere l’arruolamento. “Quando mio nonno lo scoprì si arrabbio tantissimo”.

Era il senso del dovere e della Patria. Mio zio piemontese era comunista ma non diede ascolto al vicino di casa fascista che disse a suo figlio mio cugino in procinto di partire per la Russia-Ucraina: buttati giù dal treno, rompiti una gamba ma non ci andare. Mio zio, tanto coinvolto nella propaganda antifascista da essere convocato dalla polizia politica nella caserma delle torture di Genova, non volle sentire ragione. Mio cugino partì e non tornò mai. Così erano i piemontesi di una volta.

 C’è un dettaglio infimo nella agiografia di Giovanni Agnelli che mi viene da ricordare. Quello dell’orologio sul polsino della camicia, evidenziato nel 1974 da un articolo su Epoca. Anche io avevo l’abitudine, per comodità e anche per non logorare il bordo del polsino. L’avevo imparato da bambino, a Genova, accompagnando mia madre in un mercatino rionale, osservando uno scaricatore. Arrivai a vivere a Torino proprio al tempo dell’articolo. Cominciarono gli sfottò, dovetti rinunciare a quello che sembrava un gesto di piaggeria.

Sempre sul piano delle frivolezze non si può trascurare due contributi importanti allo stile maschile: le camicie e le scarpe. Agnelli fu il primo a portare in Italia le camicie button down, col colletto floscio fermato da bottoni sulle punte. Oggi è di uso comune, all’epoca erano le camicie di Oxford azzurro che comprava da Brooks Brothers a New York.

 Le scarpe che portava l’Avvocato erano quelle tipo para-boots allacciate sopra la caviglia o, in alternativa, le car shoes, quei mocassini con i chiodini di gomma ottime per la guida, che, con l’abile promozione di Montezemolo, furono la fortuna di Diego Della Valle.

 Grande uomo fu anche, in modo diverso ma altrettanto importante, suo fratello Umberto, nato 16 anni dopo di lui, morto un anno dopo. Fu un uomo sfortunato, nella vita e nella discendenza. Fu persona di grande sensibilità, come dimostra questo fatto. Umberto Agnelli era  stato rimosso dal fratello Gianni, che l’aveva sostituito con Cesare Romiti nella carica di amministratore delegato della Fiat, per ordine di Cuccia, vero dominus della grande industria italiana in quegli anni.

 La posizione di Cuccia non era insensata. Consapevole dello scontro che stava per scatenarsi fra azienda e sindacato, nel vuoto dei partiti, Cuccia temeva che una sconfitta avrebbe trascinato anche la famiglia principale azionista. Con Romiti, fossero andate male le cose, si sarebbe ripetuto il modello 25 luglio. Così me lo spiegò, pur senza riferimenti storici, lo stesso Avvocato.

Bene, quel medesimo giorno che veniva diciamo pure brutalmente estromesso dalla partita della vita della Fiat e anche dell’Italia, Umberto Agnelli si fece portare dall’autista presso un famoso gioielliere di Torino, Fasano, e comprò un regalo per me, ultima insignificante ruota del carro: un cestino d’argento con sul coperchio una volpe dormiente tutta in filo d’argento. L’oggetto aveva un significato preciso, legato al mio lavoro nell’ufficio stampa. Chi di noi lo avrebbe mai fatto?

 Umberto Agnelli nutriva una devozione profonda per il fratello maggiore, al di là di ogni possibile diversa visione delle cose, biologicamente naturale in due uomini formati in epoche divise dal displuviale della guerra.

Entrambi adoravano Luca Montezemolo, unico in un mondo di sicofanti a dire la sua con schiettezza e lealtà. Con questa leva, Montezemolo riusciva a metterli d’accordo. La lealtà dell’Avvocato verso Montezemolo testimonia la stima e la fiducia, fino alla fine, verso una delle persone più capaci che ho conosciuto. Credo di non essere in questo accecato dalla gratitudine per la persona cui devo di più al mondo.

 Giustamente Montezemolo diventò, dopo i due fratelli (intervallati da Romiti), presidente della Fiat. Ha fatto cose egregie, molte di più ne avrebbe fatto se fosse stato più fortunato.

 Ho deciso di scrivere queste righe dopo molte perplessità. In occasione di questo ventennale ho letto un po’ di cose, spesso banalità sinistresi. Così ho deciso di dire la mia. Molto alta, invece, l’intervista del nipote John Elkann, figlio della figlia Margherita, ultimo presidente della Fiat prima della fusione con Peugeot.

John Elkann ha superato il nonno in una impresa che all’Avvocato non riuscì per ben due volte, con la Citroen negli anni ‘60 e con la Ford nei ‘90. L’impresa è stata quella di avere salvato la Fiat, e con la Fiat un pezzo d’Italia, facendola confluire in una azienda di dimensione mondiale.

 La retorica patriottica incrociata con quella sinistroide non gliene renderà merito. Per me John Elkann si è già conquistato il suo posto nella storia. Tuttavia il confronto fra nipote e nonno per ora si deve fermare qui. Le condizioni ambientali in cui oggi opera un imprenditore in Italia non sono certo ideali ma certo non sono paragonabili con quelle degli anni ‘60, quando Giovanni Agnelli subentrò a Vittorio Valletta nella presidenza della Fiat.

 Si era fermata la prima spinta del boom, la cavalcata della industria italiana dopo il disastro della guerra e oltre la miseria autarchica, proletaria e fascista di Mussolini. Nelle grandi aziende i rapporti fra padroni e lavoratori si erano fatti aspri. Il sindacato agiva secondo varie logiche. La prima era ottenere una più equa distribuzione del reddito accumulato negli anni della crescita. I risultati furono ottimi.

 Al punto da togliere spinta a un altro obiettivo che si inserì forse fin dall’inizio, quello della rivoluzione. Valletta pianse al primo sciopero, così mi ha raccontato Umberto Agnelli. I grandi imprenditori italiani non erano preparati alla durezza dello scontro. Il Fascismo e poi il boom avevano agito da anestetico. Le grandi imprese erano in prima linea. La convergenza fra guerra di classe e pauperismo cattolico fu devastante: il ‘68 in Francia durò un mese, da noi non è mai finito.

 Piccolo è bello era lo slogan di quegli anni. Col piccolo imprenditore, spesso lui medesimo di estrazione operaia, era più facile capirsi e tante altre cose. L’esistenza di tre grandi sigle sindacali (4 alla Fiat) complicava ulteriormente il quadro. Il Pci fu all’origine della spinta rivoluzionaria iniziale. Fu però anche il primo partito a rendersi conto della crisi, del fatto che Fiat non disponeva di risorse inesauribili, che la rivoluzione avrebbe travolto anche il partito dei lavoratori medesimo.

Erano anni duri, di fuoco, presto sarebbero stati di piombo. I due fratelli Agnelli tennero la barra ferma. Giovanni Agnelli seppe resistere a ogni tentazione di abbandono. Molto merito fu di Umberto ma l’ultima decisione era sempre la sua.

 In quegli anni duri e tormentati, Giovanni Agnelli non taceva davanti agli scempi del regime democristiano. La sua costante polemica intrisa di etica e moralità gli valse l’odio feroce di una parte della Dc, in particolare di Amintore Fanfani. Fanfani era convinto che l’Espresso, regalato da Adriano Olivetti a Caracciolo per fare uscire l’azienda di Ivrea dal cono d’ombra democristiano, fosse il braccio armato di Agnelli nell’informazione e che Agnelli ne fosse il socio occulto.

Gliela giurò e gliela fece pagare. Esattamente mezzo secolo fa, ai tempi della grande crisi petrolifera, la Dc operò per tenere bloccato il prezzo delle automobili in Italia, che all’epoca era soggetto a autorizzazione governativa. Una ventina di mesi di blocco dei prezzi in epoca di inflazione al 20%, aprì un divario rispetto alla concorrenza europea che probabilmente non si è più colmato.

 Anni dopo Cesare Romiti usò la concessione dell’adeguamento automatico delle retribuzioni alla inflazione, la scala mobile, come simbolo della debolezza dell’Avvocato. Sarebbe stato bello vedere Romiti al suo posto: “Minacciarono di occupare Mirafiori, cosa potevo fare?” mi disse l’Avvocato. (La scala mobile fu abolita negli anni ‘90 e fu uno dei contributi decisivi, insieme con la fine del terrorismo, alla ripresa nazionale dato da Pci e Cgil. Quest’ultima pagò un prezzo molto alto in termini di consenso).

 Romiti, uomo di straordinaria quanto intermittente generosità, dal canto suo non lo ho mai percepito come un vero duro”. Lo diventò dopo che Vittorio Ghidella, Carlo Callieri e Cesare Annibaldi piegarono i sindacati dopo un mese di occupazione della Fiat. Fino alla fine Romiti spingeva per un accordo qualunque anche al ribasso, forse con la segreta speranza di scaricare poi le automobili allo Stato. Niente di disdicevole in quelle circostanze.

Alla una di notte il sindacato crollò. In un lampo Romiti si appropriò del successo. La sera dopo ero nel mio ufficio a Torino. Il tg delle 20 manda in onda una intervista a Romiti che devo ammettere era sfuggita al mio controllo. La sintesi era uno sfolgorante: “Abbiamo vinto”. Prendo il telefono e chiamo il mio capo, Luca Montezemolo. “Hai sentito quello che ho sentito io?”

In realtà la strategia per riportare l’azienda sotto controllo era stata elaborata nell’ufficio di Umberto Agnelli prima che Cuccia ne imponesse l’allontanamento. E approvata in quello dell’avvocato. Fu un momento displuviale per la storia d’Italia. Prima c’erano Prova d’orchestra di Fellini, steward e hostess della Alitalia che insultavano i passeggeri, e soprattutto un fermento che fu brodo di coltura del terrorismo.

Gianni Agnelli, il retroscena inedito: "Cosa pensava dell'Italia". Libero Quotidiano il 27 gennaio 2023

Aldo Cazzullo ricorda Gianni Agnelli. Rispondendo alla lettere di un lettore, l'editorialista del Corriere della Sera racconta alcuni retroscena sull'Avvocato, soprattutto su quel suo modo di trattare i giocatori della Juve e su cosa pensava davvero del nostro Paese. "Secondo la leggenda, la cifra non la indicava Agnelli bensì Boniperti; ma sia Zoff sia Tardelli mi hanno raccontato che non era proprio così, che un margine di trattativa c’era. All’epoca i giocatori appartenevano alle società. Ora appartengono di fatto ai procuratori, che spesso sono la rovina del calcio di oggi. Ma se raccontiamo soltanto l’aspetto sportivo e mondano dell’Avvocato, rischiamo di darne una lettura riduttiva".

Poi lo stesso Cazzullo parla dell'Avvocato in Fiat, una passione imprenditoriale lunga un secolo: "Gianni Agnelli era la Fiat: il più importante gruppo industriale italiano, che egli gestì in prima persona solo per brevi periodi, ma su cui regnò per tutta la vita, da quando nel 1945 morì suo nonno. Come ha ricordato Jas Gawronski, molti manager si sono detti: la Fiat sono io. Qualcuno, come Vittorio Valletta — un grande italiano oggi del tutto dimenticato —, con qualche ragione. Ma tutti, ovviamente in circostanze diverse e non paragonabili, da Romiti a Marchionne passando per Morchio, alla fine hanno dovuto cedere il passo alla famiglia. Ho conosciuto Agnelli nel 1997, quando gli mandai un libro sulla Torino degli anni 50 che avevo appena pubblicato. Fu l’allora direttore della Stampa Carlo Rossella a consigliarmi di farlo; da solo non ci avrei mai pensato. Pochi giorni dopo, citò il libro in un’intervista a Gad Lerner e mi mandò a chiamare".

Infine una rivelazione su quel pessimismo sull'Italia che ha sempre accompagnato Agnelli: "Un personaggio come lui non si può liquidare in poche righe; ci vorrebbe una biografia, che tuttora manca. Posso dirle questo: l’Avvocato era molto diverso dall’immagine che tanti avevano di lui. Era più colto, più profondo, più pessimista; non tanto sull’azienda, quanto sull’Italia".

Colto, profondo, pessimista Un ricordo dell’Avvocato. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 25 Gennaio 2023.

Caro Aldo, ho letto sulla sua intervista a Jas Gawronski, grande amico di Gianni Agnelli. Al di là delle tante notizie, alcune veramente inedite, della vita e delle passioni di un uomo così straordinario come l’Avvocato, sono rimasto colpito, ma fino a un certo punto, quando Jas dice «la Ferrari lo appassionava perché era sua; la Juve era un vero amore». Mi ricordo da ragazzo, quando leggevo sul Corriere dello Sport, che i giocatori della Juventus firmavano tutti il contratto in bianco: la cifra ce la metteva l’Avvocato e, intervistati, non c’era un calciatore insoddisfatto. Lei lo ha conosciuto? Gaetano Villani

Caro Gaetano, Secondo la leggenda, la cifra non la indicava Agnelli bensì Boniperti; ma sia Zoff sia Tardelli mi hanno raccontato che non era proprio così, che un margine di trattativa c’era. All’epoca i giocatori appartenevano alle società. Ora appartengono di fatto ai procuratori, che spesso sono la rovina del calcio di oggi. Ma se raccontiamo soltanto l’aspetto sportivo e mondano dell’Avvocato, rischiamo di darne una lettura riduttiva. Gianni Agnelli era la Fiat: il più importante gruppo industriale italiano, che egli gestì in prima persona solo per brevi periodi, ma su cui regnò per tutta la vita, da quando nel 1945 morì suo nonno. Come ha ricordato Jas Gawronski, molti manager si sono detti: la Fiat sono io. Qualcuno, come Vittorio Valletta — un grande italiano oggi del tutto dimenticato —, con qualche ragione. Ma tutti, ovviamente in circostanze diverse e non paragonabili, da Romiti a Marchionne passando per Morchio, alla fine hanno dovuto cedere il passo alla famiglia. Ho conosciuto Agnelli nel 1997, quando gli mandai un libro sulla Torino degli anni 50 che avevo appena pubblicato. Fu l’allora direttore della Stampa Carlo Rossella a consigliarmi di farlo; da solo non ci avrei mai pensato. Pochi giorni dopo, citò il libro in un’intervista a Gad Lerner e mi mandò a chiamare. Un personaggio come lui non si può liquidare in poche righe; ci vorrebbe una biografia, che tuttora manca. Posso dirle questo: l’Avvocato era molto diverso dall’immagine che tanti avevano di lui. Era più colto, più profondo, più pessimista; non tanto sull’azienda, quanto sull’Italia.

Ormezzano: «Io e Gianni Agnelli. Ricordo quando mi telefonò all’alba per informarsi su come giocava Zico». Gian Paolo Ormezzano su Il Corriere della Sera il 25 Gennaio 2023.

E ancora: «Gli dissi di andare allo stadio con calzini viola e controllare la volta dopo quanti, intorno a lui, portavano calzini viola»

Gianni Agnelli è stato commemoratissimo a vent’anni (ieri) dalla scomparsa. La vastità del personaggio ha favorito memorie di ogni tipo, con il concorso di grandi accadimenti economici, industriali, politici, artistici, sportivi, sino alle gioie e tristezze intime. Tanto Agnelli, quella volta lì in quel posto là. E chi scrive queste righe ha avvertito, per la sua mini-fiera delle vanità, banale gelosia di un suo Gianni Agnelli speciale, piccolo ma speciale, mediato dall’amore comune per lo sport. Quello che ti telefonava all’alba chiedendo scusa del disturbo per informarsi su come giocava Zico appena arrivato all’Udinese (mi è accaduto: «Nessun disturbo, milioni di italiani vorrebbero essere svegliati da lei così»). 

Essì, non poche volte mi è arrivata, quando ero giornalista militante, prima a Tuttosport poi su La Stampa, la telefonata di una sua segretaria, e la proposta era sempre la stessa: «L’Avvocato (riusciva a farti sentire la A maiuscola) le chiede se può passare da lui quando ha un po’ di tempo, per parlare di sport». Era stato il mio immenso amico Giampiero Boniperti ad avviare la bella cosa. Naturalmente dicevo di sìììì, e andavo appena possibile in corso Marconi, ad affrontare lo scibile soprattutto calcistico. Agnelli sapeva da Boniperti del mio tifo per il Toro. L‘Avvocato voleva bene a Giampiero (che lo arciricambiava), lo stimava e però gli piaceva fare con me dell’ironia sul come il suo giocatore prima e presidente bianconero poi sapeva dribblare le domande e sapeva pure dribblare le sue telefonate stramattutine, corrompendo segretarie. 

Il «mio» Avvocato si divertì quando gli dissi di andare allo stadio con calzini viola e controllare la volta dopo quanti, in tribuna intorno a lui, portavano calzini viola. Lui mi parlava del grande calcio danubiano (Sarosi e compagnia austroungarica) come se io, di tre lustri più giovane, lo avessi conosciuto. E ogni volta mi diceva di una sua sorta di amore per il Grande Torino (che fu Torino Fiat, in tempo di guerra). Mi apparve, Agnelli, autenticamente felice quando mi sfidò a ricordare una cosa bella offerta da lui al popolo granata, e gli diedi la risposta giusta che aspettava: anno 1951, il grande «pugile ballerino» Ray Sugar Robinson è campione del mondo dei pesi medi, Gianni Agnelli strapagandolo riesce ad averlo a Torino per boxare contro il campione d’Europa, il belga Cyril Dellanoit, ko al terzo round. Diciamo pure che l’evento è di proprietà sua, e lui lo fa ospitare dallo stadio Filadelfia, nel posto di culto granata (e Robinson sale a Superga). 

E avanti assai, anno 1997, ero al Sestriere per i Mondiali di sci, al telefono la segretaria di Agnelli con la solita domanda. Stavo parlando con Pescante presidente del Coni e Tomba sciatore massimo, buttai addosso ai due un bell’«ubi maior» e mi calai a Torino subito, vestito da montagna. Corso Marconi, Agnelli dal fondo del suo vasto ufficio mi ringraziò come sempre e via con la domanda: «Lei ha presente Gabetto?». E come no?, il centravanti del Grande Torino dismesso dalla Juve nel 1935, alla fine del quinquennio, e rilanciato dal mio Toro. Agnelli: «Gabetto non le ricorda un giocatore bianconero di adesso?». Gli dissi no, proprio no, lui se ne uscì con un nome strabiliante: «Michele Padovano». Feci notare all’Avvocato che c’erano, fra l’altro, sei chili di brillantina sui capelli di Gabetto, niente sulla chioma di Padovano. 

E poi l’Avvocato di quando celebrammo l’assegnazione — grosso merito suo — a Torino dei Giochi Invernali del 2006 in un alloggio bene della città, c’erano il nuovo presidente della Fiat Paolo Fresco e Franco Carraro e Primo Nebiolo ed Evelina Christillin e Giorgio Giugiaro, si attendeva Agnelli, arrivò, salutò tutti poi mi prese da parte e mi chiese di parlare di calcio: come feci a lungo, odiatissimo e invidiatissimo. 

E infine l’Agnelli sparito con alcuni colleghi quel sabato a Montecarlo, vigilia di Formula 1, lui che arrivò col suo yacht nero, venne nel box Ferrari offrendosi alle nostre domande, e fu così amichevole che un giornalista emiliano passò allo strettamente personale : «Avvocato, io ho delle azioni Fiat e stanno calando, sono preoccupato, cose devo fare?». E lui: «Pensi allora a me che ne ho di più».

Appassionato e curioso, che grande editore è stato l’Avvocato. Alla redazione romana della Stampa capitava di sentir squillare il citofono e assistere al fuggi fuggi per mettere giacca e cravatta mentre l’altoparlante avvisava: «Sale Giovanni Agnelli!» Antonella Rampino su Il Dubbio il 25 gennaio 2023.

Premessa: io non sono tra quelli che lo conoscevano bene. E nemmeno tra quelli che, trattandolo come una caricatura, gli metterebbero mai in testa la corona di “monarca”. A me è semplicemente successo di lavorare per lunghissimi anni nella testata di cui era l’editore. E in quella veste, di giornalista appunto, mi è capitato di incontrarlo. Per l’esattezza: di essere da lui interrogata, di dover rispondere a delle domande, e anche piuttosto circostanziate, sugli argomenti di cui mi stavo occupando. Non sono nemmeno la sola a cui sia capitato, ovviamente, tra i non pochi (all’epoca eravamo all’incirca una quarantina) in forze alla redazione romana della Stampa. Tra questi, anzitutto Francesco La Licata: Ciccio è il più importante mafiologo d’Italia, il giornalista che aveva intervistato Tommaso Buscetta quand’era ancora uccel di bosco. E anche la mafia incuriosiva l’Avvocato.

Ed è proprio questo il punto. Tra i moltissimi articoli che si stanno pubblicando sui media non solo italiani, alcuni bellissimi, altri affettuosi, ma molti anche con tratti esegetici esorbitanti (il che, da lassù, lo farà di certo sorridere), c’è un aspetto che non è comparso: Giovanni Agnelli è stato un grande editore, forse il più grande editore italiano di giornali. Pari solo ad Eugenio Scalfari - che notoriamente non è stato solo un giornalista, avendo diretto per vent’anni il giornale di cui era editore con Carlo Caracciolo (che dell’Avvocato era tra le altre cose anche il cognato). Un editore che conosceva e rispettava la libertà professionale del giornalista. Certo nella cornice di una linea editoriale che viene definita nello stretto rapporto tra l’editore e il direttore che l’editore ha scelto. E finché Giovanni Agnelli è stato editore, io non ho mai ricevuto neanche la minima pressione circa gli articoli che scrivevo. Né ho mai sentito dire che altri le abbiano subìte. La sua scomparsa, non ha nuociuto solo alla Stampa, ma a tutto il sistema dei giornali: per effetto di una concorrenza non solo di mercato, ma di stile.

Credo che Giovanni Agnelli sia stato un grande editore di giornali perché in lui viveva la passione per il giornalismo. Il giornalismo come “pensiero che cammina“, per dirla con Balzac, ma anche il giornalismo che intravede una minuzia, un particolare, e spinge lo sguardo, segue il filo dei dettagli e riesce a ricomporre il quadro nascosto delle vicende. Sì, il diavolo è nei dettagli. Ma per vederli serve un occhio attento, serve la molla della curiosità. E la curiosità dell’Avvocato era insaziabile, un’Araba Fenice: una volta soddisfatta quella precisa curiosità, l’interesse crollava. Per riaccendersi subito altrove.

Alla redazione romana della Stampa (mai invece nella sede centrale di Torino, dove avvenivano solo rare e ufficialissime visite, in una specie di rituale bacio della pantofola) capitava di sentir squillare il citofono, di assistere al fulmineo fuggi fuggi per mettersi giacca e cravatta tra i segretari di redazione (una decina, tutti maschi, guidati dal leggendario Giovanni Corsi) mentre l’altoparlante interno avvisava tutti «sta salendo Giovanni Agnelli». L’Avvocato chiedeva dunque anzitutto di Giovanni Corsi, che poi lo accompagnava dal capo della redazione. Quando chiese di parlare con il giornalista che seguiva le riforme costituzionali - era il turno di quelle di Berlusconi e dei “saggi di Lorenzago” - dovettero fargli il mio nome. Mentre andavo nell’ufficio del caporedattore, incontrai lui che stava venendo da me. E cosi parlammo in piedi, in corridoio. Capii dal primo sguardo che avevo pochi secondi per raccontagli qualcosa che lui non sapesse, cosa già abbastanza difficile, e con tono e possibilmente dettagli intriganti. Curiosamente, è stessa esatta sensazione che ebbi solo davanti a un altra personalità eccezionale, quando mi capitò di dovergli parlare: Enrico Cuccia.

L’Avvocato voleva sapere come procedesse il progetto di riscrittura della Costituzione. Non ricordo cosa gli risposi, cercando di non pronunciare sciocchezze perché per quanto non fossi per nulla intimorita (una cosa che non mi appartiene, ma così purtroppo o per fortuna ci si nasce) capivo che non mi era consentita alcuna superficialità o vaghezza. Ma ricordo che gli brillò il divertimento negli occhi, quando gli raccontai che, inscenando per protesta una specie di Aventino, il presidente dei senatori dei Ds, Gavino Angius, aveva lasciato l’emiciclo canticchiando l’Internazionale. Quando Armando Cossutta si scisse da Bertinotti (salvando l’allora governo Prodi, che pure La Stampa non amava di amore appassionato), commentò «Fondare un partito a settant’anni…che uomo quel Cossutta!». Giovanni Agnelli, forse anche perché era stato militare, era affascinato dal “nemico storico”.

Altre volte capitava che Giovanni Agnelli venisse in redazione per seguire con noi qualche grande avvenimento, come nel caso dell’ insediamento di Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale. Una volta ci trovò tutti seduti attorno al tavolone della sala riunioni, e si accomodò su una sedia che trovò vuota. Toccò a Giovanni Corsi sussurrargli che stavolta non poteva stare in mezzo a noi, essendo l’editore, perché quella era una riunione sindacale. L’Avvocato ci salutò ma poi, mi raccontò Giovanni, gli chiese: «Ma, finita la riunione, vanno a lavorare, vero?». Un’altra volta arrivò e vide subito che eravamo in parecchi nella stanza del vicecaporedattore, l’adorabile, elegante Emilio Pucci. Davanti alla scrivania di Emilio stazionava una piccola folla, tutta di uomini. Un paio di loro erano per l’Avvocato delle buone conoscenze. Al suo arrivo, scattarono tutti in piedi. Io ero invece seduta su un divanetto e, ricordandomi che una signora si alza davanti a un uomo solo se si tratta di altezze reali o grandi anziani, non mi mossi. L’Avvocato fece una cosa semplicissima: venne a salutare me, si sedette anche lui sul divanetto, e mentre una grande firma cercava di attirare la sua attenzione parlandogli di soldatini di latta, intavolò una conversazione. Ha visto la mostra di Balthus? Ho visto il meraviglioso quadro di Balthus che era della viscontessa di Noaellies e che tengo in cartolina sulla mia scrivania: lei invece possiede l’originale.

Mi raccontò come era riuscito a convincere Andy Wharol a venderglielo. Non sapendo come continuare la conversazione - la sua attenzione rischiava di precipitare da un momento all’altro, ed era una goduria lasciare i miei colleghi con un palmo di naso - gli dissi che avevo intervistato Balthus, che come lui era stato militare in Nord Africa. Andammo avanti per un po’, poi restai (accade spesso) vittima della mia improntitudine. Ha mai dovuto uccidere qualcuno in guerra? Giovanni Agnelli non ebbe alcuna reazione, fece solo un lieve, vago, elegantissimo segno di stop con la mano destra. E finalmente la sua attenzione si volse al super inviato. E ai suoi soldatini di latta.

Estratto dell’articolo di Lucio Caracciolo per “la Stampa” il 25 Gennaio 2023.

Henry Kissinger, cento anni a maggio, ricorda con emozione il suo amico Gianni Agnelli a vent'anni dalla scomparsa. […] «[…] È stata l'ampiezza dei suoi interessi. E così siamo diventati amici».

 Quando?

«Ci siamo conosciuti nel 1969, quando accompagnai il presidente Nixon durante una visita a Roma. Ci fu una meravigliosa cerimonia al Quirinale, con molti politici e uomini d'affari italiani. La nostra amicizia si è cementata nei due anni successivi. Ogni volta che veniva in America mi chiamava. Ci siamo sempre tenuti in contatto, ma non mi ha mai chiesto nemmeno un favore. Non mi ha mai chiesto aiuto per la Fiat. Mi chiedeva di come andasse il mondo in generale. Parlavamo delle nostre vite, di quello che ci succedeva».

 Lei ha definito l'Avvocato «un uomo del Rinascimento».

«Ho usato quell'espressione perché Gianni era un uomo curioso di tutto. Era appassionato di arte, di sport, non solo di politica. […]».

Agnelli era pro-americano nel senso più ampio del termine, un atlantista convinto. Come vedeva il rapporto fra Italia e Stati Uniti?

«[…] era molto orgoglioso delle sue origini italiane. Credeva che l'Italia fosse qualcosa di speciale. Allo stesso tempo, pensava che l'Europa dovesse essere unita e fortemente legata all'America».

 Non tutti i leader italiani del tempo, specialmente se politici, erano così atlantici. Non le sembra che l'Italia della guerra fredda tendesse verso il neutralismo?

«[…] Gianni si interessava di politica […] ma gli interessava di più capire come i problemi potessero svilupparsi e impattare sulla società nel lungo termine. […] Lui era a favore della Nato, ma credeva che bisognasse sforzarsi di tenere insieme paesi e società diverse. Ed era sicuro che con la Russia – allora Urss - si potesse collaborare».

Viviamo un'epoca totalmente diversa. Come pensa che l'Avvocato avrebbe giudicato questo mondo in guerra?

«Gianni pensava ieri e penserebbe oggi che ogni nazione ha un impatto sulle altre. È molto importante non troncare mai il dialogo per far sì che ciascun paese, anche se coinvolto in un conflitto, abbia la certezza di poter tornare ad essere considerato buono».

 Varrebbe anche per la Cina?

«Credo di sì. Alla fine della sua vita Gianni stava esplorando la possibilità di entrare in Cina. Vi aveva anche aperto qualche stabilimento […]».

 […] Oggi noi occidentali in Europa siamo in guerra con la Russia.

«Al tempo della nostra amicizia, l'Europa era ancora divisa in occidentale e orientale. […] Gianni aveva degli interessi in Russia sovietica e pensava che la Russia fosse a tutti gli effetti parte dell'Europa. […] Io spero che questa cooperazione continuerà dopo la guerra».

Per lei la Russia è o non è parte dell'Europa?

«Il problema delle relazioni tra Russia ed Europa è dato dal fatto che la Russia ha sempre ammirato l'Europa, suo modello culturale, ma allo stesso tempo è sempre stata spaventata dall'Europa e dall'Occidente in generale, perché ne è stata invasa più volte. La Russia non è riuscita a decidere una volta per tutte se vuole vivere nella speranza o nella paura. Io credo che, comunque finisca in Ucraina, la Russia debba essere senza dubbio inclusa nel quadro europeo. So che in questo momento non sembra molto probabile, ma penso che il futuro sarà questo. E credo che Gianni avrebbe detto la stessa cosa».

 […] «L'intelligenza artificiale cambierà il mondo […] sta emergendo un nuovo concetto di realtà. […] l'intelligenza artificiale è totalmente distruttiva. Non ci sono più limiti alla capacità umana di distruggere. Ma ciò significa che, in un modo o nell'altro, l'umanità dovrà rendersi conto che la pace è necessaria. […]». […]

Giovanni Agnelli, in morte dell'avvocato e del capitalismo delle grandi famiglie. Se ne andò senza lasciare eredi e a vent'anni dalla sua scomparsa nessuno si è azzardato a scriverne. GIULIANO CAZZOLA su Il Quotidiano del Sud il 24 Gennaio 2023

 La morte è come una grande amnistia che azzera tutte le pendenze: rimette a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori. Sopravvive la memoria. Quando chi muore è un ‘’monarca’’ vi è un sovraccarico di emozione rivolta, più che alla persona, alla sua immagine nella fantasia popolare. Ricordo nettamente, venti anni or sono, di aver assistito ad una vera e propria beatificazione dell’avvocato Giovanni Agnelli: decine di migliaia di cittadini che sfilano in silenzio fino a tarda notte, tutte le autorità dello Stato, politici, imprenditori, star dello sport che si genuflettano. Funerali in diretta tv e giornali che sparano, in decine di pagine, i pezzi “coccodrillo” preparati da mesi; le persone di famiglia schierate a fianco della bara scrutate in ogni movimento da cronisti con la penna ispirata. Certo, la commozione e il compianto erano giustificati; era scomparso una persona che aveva scritto un pezzo importante della storia del Paese e rappresentato l’immagine migliore dell’Italia nel mondo. E a venti anni di distanza da quell’evento, in un Paese di nani, diventa naturale ricordarsi di un gigante.

Ma se davvero fosse consentito ai morti di osservare di nascosto le azioni dei viventi, Giovanni Agnelli sarebbe il primo a stupirsi di tanto clamore. E a commentarlo con la consueta ironia (Agnelli definì Ciriaco De Mita, ‘’un intellettuale della Magna Grecia’’). Perché, da uomo di mondo, l’Avvocato era consapevole di non essere un santo; la sua vita – corredata, come quella di tutti i mortali, di luci e di ombre – avrebbe meritato, alla fine, un giudizio serenamente equanime quando si fosse depositato il polverone dell’agiografia.

Eppure, dopo tanti anni nessuno, in questi giorni, si è azzardato a scriverne. Chi lo ha fatto si è limitato a raccontare di averlo conosciuto, aggiungendo qualche particolare che andasse oltre la moda di portare l’orologio sul polsino della camicia e la cravatta sul gilè. Giovanni Agnelli se ne andò senza lasciare eredi. A sancire questo “crepuscolo degli dei” non ci ha pensato solo un destino crudele, il quale ha voluto che, nel Casato sabaudo, i padri fossero condannati a seppellire i figli. L’Avvocato per antonomasia era già un sopravvissuto illustre di un’epoca svanita da tempo: un grande sauro miracolosamente scampato all’ecatombe della sua specie. Agnelli era la classica espressione del c.d. capitalismo delle grandi famiglie, un fenomeno non solo italiano, ma europeo e mondiale. Fondati da un capostipite, i grandi gruppi industriali (Krupp in Germania, la Fiat in Italia, la Ford negli Usa e tanti altri) erano prima di tutto un patrimonio di famiglia, quasi un feudo della modernità.

I giovani rampolli “vestivano alla marinara”, seguivano un duro “cursus honorum” nell’azienda paterna, imparando ad obbedire prima che a comandare. Così si guadagnavano i galloni. Chi non era adatto veniva escluso. Anche il giovane Gianni aveva svolto il suo tirocinio all’ombra di Vittorio Valletta, fino a quando non aveva dimostrato di saper tenere ben saldo il timone del gruppo. L’industria italiana, allora, iniziava e finiva in un elenco di dinastie celebri, legate tra loro da intrecci azionari, da sindacati di controllo stipulati con la mediazione di Enrico Cuccia. Laddove occorreva, le alleanze si cementavano con sapienti legami matrimoniali, come tra le case regnanti nei secoli scorsi.

Col passare degli anni questi gruppi esclusivi hanno ceduto il passo ora ai boiardi di Stato (quando le Partecipazioni statali intervenivano nell’economia), ora ad “homines novi” che avevano fatto fortuna. Negli altri Paesi sviluppati i potenti kombinat familiari si sono trasformati in public company, il cui capitale azionario è detenuto dagli investitori istituzionali per conto di milioni di risparmiatori, mentre lo scettro di comando è nelle mani di “capitani di ventura” superpagati (i manager), legati all’azienda da vincoli contrattuali, non da rapporti di sangue.

In Italia, per tanti motivi, le grandi imprese (anche quelle affrancate dal sistema PPSS) sono diventate un’eccezione, in mezzo ad un universo di “sciur Brambilla”, magari capaci di esportare il 90% della loro produzione. Ma la Fiat e la Famiglia rimanevano al loro posto, a sfidare gli eventi, le mode, i cambiamenti. Certo, anche la Fiat aveva mutato pelle più volte, ridimensionando la propria presenza a Torino e in Piemonte, decentrandosi al Sud, allargando gli interessi a settori diversi dall’auto. L’Avvocato, finito il sodalizio con Romiti (insieme al quale vinse la battaglia contro il sindacato nel 1980), aveva ceduto le armi ai manager. Era divenuto un sovrano-simbolo, un re che regnava ma non governava. Persino il furore iconoclasta del Pool di Milano non si azzardò a chiamarlo in causa: fu praticamente il solo grande imprenditore a cui fu riconosciuto di poter ‘’non sapere’’ ciò che avveniva alle sue spalle. La morte arrivò puntuale, in tempo a liberare l’Avvocato da un mondo che gli era divenuto estraneo.

Si chiuse così un capitolo di storia patria, che non è possibile riaprire, perché, in fondo, l’Italia e la sua classe dirigente non hanno mai accettato l’invito a “varcare le Alpi” e corrono da sempre il rischio di “sprofondare nel Mediterraneo”. Oggi la Fiat ha cambiato persino nome. L’ultimo erede non porta neppure il cognome della Grande Famiglia. Il gruppo è incorporato all’interno di una impresa multinazionale, candidata, nella nuova dimensione societaria e industriale, a fare parte di quelle poche holding dell’automotive che sopravviveranno nel pianeta convertito all’ecologia. L’auto, simbolo di emancipazione, di libertà individuale e di benessere sta diventando il principale nemico del terrorismo green, della lotta agli idrocarburi di quanti si mobilitano in Europa in nome di una superstizione scambiata per nuova religione.

Sul piano sindacale di Agnelli – oltre alla vertenza dei 35 giorni del 1980 che ha cambiato la storia del sindacato, va segnalato il ritiro delle sospensioni di migliaia di lavoratori, nell’autunno del 1969, che segnò una delle più cocenti umiliazioni del vertice torinese. Anche l’intesa Agnelli-Lama del 1975 sul punto unico di scala mobile – che fece più danni, all’economia e al lavoro, dell’invasione di uno sciame di cavallette in un campo di grano – fu classificata, allora, non come una resa al sindacato, ma come un atto di apertura negoziale.

Nessuno, tra i dirigenti sindacali, oggi, si prende la briga di ricordare, autocriticamente, quante volte, la Fiat venne messa con le spalle al muro proprio in seguito a lotte sindacali dissennate. A salvare il gruppo furono, nel contesto di trasformazioni produttive importanti ed essenziali, due manager ‘’esterni’’: Cesare Romiti e Sergio Marchionne.

Gianni Agnelli, il monarca repubblicano. La Fiat, il parallelo con Cuccia e quella battuta sul vento. Storia di Ferruccio de Bortoli su Il Corriere della Sera il 23 gennaio 2023.  

Come dice Jas Gawronski, intervistato da Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera di domenica scorsa,- che fu il monarca repubblicano del Novecento, nella sua Torino sabauda - sentiva come suo pari, almeno in Italia, solo . A suo modo anche il leggendario capo di Mediobanca era un sovrano repubblicano nell’Italia del Dopoguerra. Una sovranità dell’intelligenza e della cultura. Non solo del potere economico e finanziario. E questa è forse la grande differenza con la business community odierna. Quella di allora era una classe dirigente non priva di difetti, non esente da colpe (anche gravi), ma, almeno in alcune delle sue punte, di valore indiscusso. Se non fosse stato così, non avrebbe resistito a tanti raider alla Michele Sindona, alle seduzioni dei poteri occulti, alla voracità dei partiti, con i quali comunque trattò non sempre con onore. Una classe dirigente cosmopolita e internazionalizzata in un Paese ancora in parte arretrato e provinciale. Con una governance del tutto personale e persino autoritaria. Raffaele Mattioli, il mitico amministratore delegato della Banca Commerciale, oggi non avrebbe facilmente un incarico. Non passerebbe le rigide norme della Bce. E forse sarebbe subito indagato dalla magistratura per la sua attività di mecenate al di fuori di ogni regola societaria.

Cuccia per la verità ebbe a lungo nelle mani il futuro della . Ne determinò i destini, compresi quelli della famiglia Agnelli e dello stesso Avvocato. La aiutò, la protesse e la condizionò. Un po’ troppo. Non solo quando la Fiat conobbe, alla fine degli anni Settanta, una crisi profonda, risolta grazie all’azione di Cesare Romiti, scelto dallo stesso Cuccia, con la sua data simbolo (14 ottobre 1980), giorno della marcia dei 40 mila (che poi erano molti meno). Comunque, Agnelli e Cuccia erano sì due monarchi, che votavano repubblicano (nel senso del Pri di Ugo e poi di Giorgio La Malfa), ma anche e soprattutto due grandi italiani, con un senso di responsabilità nei confronti del loro Paese. Pur tra errori e omissioni. Li unisce un’altra caratteristica. Se vogliamo negativa. Entrambi non si sono preoccupati di quello che si sarebbe detto di loro dopo. Non hanno lasciato memorie, scritti. All’Avvocato (oggi gli contesterebbero il titolo) probabilmente piaceva, ma solo per il gusto della provocazione, una battuta di Oscar Wilde: «Perché dovrei curarmi dei posteri? Che cosa hanno fatto loro per me?». Cuccia aveva altre e più raffinate letture. Non si occuparono, colpevolmente, di custodire la loro memoria per discrezione o semplicemente per distrazione. E quel vuoto che si è creato dopo la loro morte, all’inizio di un nuovo secolo e millennio, lo hanno riempito altri. Nel bene, ma soprattutto nel male. E alla fine è andata così.

Vent’anni dopo la sua scomparsa, Giovanni Agnelli è, nell’immaginario collettivo, soprattutto un’icona di eleganza e di stile. La sua figura di industriale è finita invece per stingersi, appannarsi. Quasi non avesse mai fatto l’imprenditore. Un’attenzione concentrata soprattutto sulle passioni e sulle apparizioni: la vita privata, la Ferrari, la vela, le donne, la Juventus. A proposito dell’amore calcistico è godibile e attuale un suo colloquio con Enzo Biagi, reduce dall’aver intervistato Tommaso Buscetta, il mafioso pentito. «È un tifoso juventino, mi ha detto di dirglielo». E Agnelli: «Guardi Biagi, forse questa è l’unica cosa di cui non deve pentirsi». Leggendario. Qualche ricordo, persino quelli tra i più affettuosi e sinceri, lo fanno assomigliare a una specie di influencer del Novecento. Definizione che oggi gli farebbe orrore, a parte la curiosità di conoscerne gli interpreti, soprattutto femminili. L’antologia degli episodi, delle battute, è infinita. Rincuora però solo i meno giovani. È un integratore della nostalgia. Non trasmette né esperienze né tantomeno valori. Invece sarebbe opportuno discutere di più - in senso critico senza alcuna intenzione apologetica - sull’eredità imprenditoriale.

Capiremmo meglio pregi e difetti del nostro capitalismo. Interrogarci sul perché il Paese abbia perso molte grandi imprese e quali siano state le cause e le colpe. Sull’occasione, in parte dispersa, delle privatizzazioni, alle quali il gruppo Agnelli partecipò quasi controvoglia, mettendo un briciolo di capitali nel cosiddetto «nocciolino» della Telecom, oggi onusta di debiti e ridotta davvero a un «nocciolino». O sull’Edison finita, guarda caso, ancora ai francesi. E ancora: sul rapporto tra capitalismo privato e Stato, oggi trionfante e invadente. E, infine, sull’avversione di parte di quell’imprenditoria privata - che vedeva in Agnelli il proprio faro - per il mercato aperto, desiderosa di rifugiarsi in nicchie protette, all’ombra del committente pubblico. Per fortuna oggi abbiamo molte imprese che hanno accettato, con successo, le sfide del mercato aperto in un Paese che diffida della concorrenza. Agnelli fu testimone di un’italianità orgogliosa delle proprie eccellenze ma nello stesso tempo dotata di una sufficiente dose di autoironia per ammettere difetti e limiti del carattere nazionale.

L’Avvocato non si sentì mai uno straniero in patria, anche se probabilmente portò fuori dall’Italia un po’ del suo patrimonio (così facevano e purtroppo fanno ancora in molti). Forse, però, non avrebbe seguito la moda imperante di trasferire all’estero anche le sedi legali e fiscali di quasi tutto il made in Italy. Come senatore a vita gliene avrebbero chiesto il conto e un po’ se ne sarebbe vergognato. Ma dopotutto, Sergio Marchionne - che non conobbe - e il nipote John Elkann, hanno realizzato quelle aggregazioni internazionali che ai suoi occhi erano comunque inevitabili, tentate più volte e fallite. Agnelli era fiero di aver vestito la divisa militare, fedele allo Stato anche dopo l’8 settembre. Avrebbe potuto andarsene dall’Italia, specialmente ai tempi del terrorismo e dei sequestri di persona. Ma non lo fece. Si sentiva profondamente legato al proprio Paese. La Prima repubblica era intimamente la sua, più per affetto che per interesse.

E il declino cominciò nel momento in cui sottovalutò l’arrivo della Seconda, dominata da Silvio Berlusconi, capofila della rivolta dei piccoli industriali contro lo strapotere di Torino. I «berluschini» contro la monarchia industriale del gruppo Fiat, soprattutto in Confindustria, dalla quale Marchionne clamorosamente si separò. Agnelli non lo avrebbe mai fatto. Un monarca, abituato al consenso generale, non avrebbe resistito alle suppliche contrarie dei suoi seguaci, molti dei quali non più sudditi. L’Avvocato era un aristocratico popolare. Distaccato, non senza qualche punta di cinismo, dalla vita reale ma, nello stesso tempo, immerso, inebriato da una curiosità quasi infantile, per tutto ciò che gli accadeva intorno. Assetato di incontri, retroscena, piccoli frammenti delle esistenze degli altri. Un esploratore instancabile dell’universo femminile. Il principale nemico era per lui la noia. «Amo il vento anche perché non si può comprare». Gli soffiò quasi sempre a favore. Tranne che in famiglia, concentrato di troppe sofferenze - come il suicidio del figlio Edoardo - molte solitudini e future liti ereditarie.

Estratto da corriere.it il 23 gennaio 2023.

«L’Italia digerisce tutto»

«L’Italia digerisce tutto, la sua forza sta nella mollezza degli apparati, nella pieghevolezza degli uomini politici, nelle capacità di adattamento degli italiani. È un materasso, il sistema italiano. Pasolini avrebbe detto una ricotta. O, se preferisce, flectar non frangar. E noi, torinesi, ci siamo sempre sentiti un po’ stranieri in patria proprio per questo: siamo una gente montanara. Torino ricorda le antiche città di guarnigione, i doveri stanno prima dei diritti, il cattolicesimo conserva venature gianseniste, l’aria è fredda e la gente si sveglia presto e va a letto presto, l’antifascismo è una cosa seria, il lavoro anche e anche il profitto» (a Eugenio Scalfari, «La cura Agnelli per l’Italia», su la Repubblica del 25 novembre 1982).

«Un pessimo padrone chi non ricerca il profitto»

«Un padrone che non esige che un’impresa dia profitto è un pessimo padrone» (ad Arrigo Levi, in «Intervista sul capitalismo moderno», Laterza 1983). «Tanti meridionali hanno scelto Torino per vedere la Juventus» «Per me, la Juventus sentimentalmente vale moltissimo… Tra gli anni Cinquanta e Sessanta quando i flussi migratori al Nord erano cospicui, tanti meridionali hanno proprio scelto Torino per poter vedere in azione la Juventus. Per molti ammirarla dal vivo è sempre stato un sogno» (sull’Espresso del febbraio 1997).

 «Repubblica delle banane? In Italia ci sono solo fichi d’India»

«Repubblica delle banane? In Italia non ci sono banane, ma solo fichi d’India». Questa frase fu pronunciata da Giovanni Agnelli in occasione delle dimissioni del ministro degli Esteri Renato Ruggiero, il 6 gennaio del 2002, dal governo presieduto da Silvio Berlusconi.

 «Buscetta juventino? L’unica cosa di cui non dovrà pentirsi»

Enzo Biagi: «Tommaso Buscetta mi ha detto che lui è grande tifoso della Juventus» Gianni Agnelli: «Lei lo rivede? Be’ gli dica che è una delle cose di cui non dovrà pentirsi». Intervista andata in onda sulla Rai.

«Ciò che va bene per la Fiat, va bene per l’Italia»

«Ciò che va bene per la Fiat, va bene per l’Italia» (attribuita a Gianni Agnelli, è stata poi parzialmente smentita dallo stesso durante un’intervista di Gianni Minoli a Mixer, affermando: «Quello che è male per Torino è sempre male per l’Italia»).

 «Mi piace il vento perché non si può comprare»

«Mi piace il vento perché non si può comprare». La frase è contenuta in una risposta alla domanda che gli fece Enzo Biagi durante una lunga intervista raccolta nel libro «Il signor Fiat» (Rizzoli, 1976).

Con Gianni Agnelli se n’è andata una stagione irripetibile. «Ma beneficiamo di eredità importanti».  Christian Benna su Il Corriere della Sera il 23 Gennaio 2023.

La Torino orfana dell'Avvocato è più diversificata, più turistica, ma anche molto più debole. La città meno aristocratica e più borghese si è emancipata da quel mondo?

La «repubblica torinese» comincia una gelida domenica mattina di 20 anni fa, due giorni dopo il 24 gennaio giorno della morte di Gianni Agnelli, quando più di centomila cittadini sfilano infreddoliti lungo la rampa elicoidale del Lingotto per rendere omaggio «all’ultimo re». Centomila torinesi in sciarpa e cappotto salutano l’Avvocato, stringono le mani di Marella, John e Margherita che si alternano, insieme agli altri familiari, nella camera ardente allestita nella Pinacoteca Agnelli. L’esercito di torinesi, in riga per l’ultima volta, saluta il grande industriale, l’uomo che dava del tu a Kissinger e ai potenti, il «padre padrone» carismatico di quella che ancora si chiamava «mamma Fiat», ma soprattutto dicono addio a una stagione irripetibile, nella Torino che era sinonimo di auto e Juventus, una one company town, una monocultura industriale dove tutto, o quasi, era gestito da una famiglia imprenditoriale. Dal lavoro nelle fabbriche e negli uffici alle case popolari e le piscine e centri sportivi Sisport. Fino ai progetti strategici: negli anni ottanta Fondazione Agnelli, vero e proprio think tank, disegnava le rotte future del territorio, dall’idea di una città dell’innovazione all’Alta velocità della Tav e la candidatura alle Olimpiadi Invernale 2006. 

Con la scomparsa del «monarca» Gianni Agnelli, e il ruolo di Fiat meno locale e più internazionale, prima in Fca poi in Stellantis, inizia una nuova stagione, quella del «sistema Torino», con l’avanzata di una classe dirigente e di nuovi hub di sviluppo. La Torino meno aristocratica e più borghese si è emancipata da quel mondo? «Ci sono importanti eredità di cui ancora oggi beneficiamo», spiega Francesco Profumo presidente di Compagnia di San Paolo che ricorda: «Nel 1999 Fiat e Politecnico creano un comitato paritetico che pone le basi dello sviluppo dell’ateneo in un vero motore della città. Piero Appendino e Lodovico Passerin d’Entreves furono i protagonisti. Non è un caso che in quell’anno nasce I3p, l’Incubatore di startup». Gli altri due motori e agenti di sviluppo della nuova classe dirigente sono le fondazioni che nascono negli anni 90 e oggi portano avanti i contenuti della città dell’innovazione». Secondo Profumo «anche le imprese si sono emancipate, buona parte dell’indotto Fiat lavora in tutto il mondo e con tutti i costruttori. Poi certamente ci vuole tempo per ritrovare nuovi equilibri: non dimentichiamo che Fiat quando io ero studente coinvolgeva più di mezza città». Quello che è mancato a Torino in questi 20 anni, sostiene Profumo, è una scuola di management. «Escp, la business school di Torino che presiedo da alcuni anni, sta crescendo molto — continua il presidente di Compagnia — Io credo che la classe dirigente non si improvvisi ma vada formata in scuole di questo tipo». 

La Torino orfana dell’avvocato, più diversificata, più turistica, ma anche più debole, ha riscoperto negli atenei luoghi non solo di formazione ma di progettazione di un futuro alternativo a quello dell’auto e della grande industria. Guido Saracco, rettore del Politecnico, ricorda la grande crisi subprime del 2008: «Ha rallentato il processo di evoluzione. Ma la traiettoria della città è chiara: abbiamo gli atenei, la banca, le fondazioni; siamo una città delle competenze e un po’ meno della produzione». Saracco tuttavia riconosce maggior dinamismo imprenditoriale delle province piemontesi che in questi anni hanno visto crescere sui loro territori nuovi campioncini nazionali. «Tuttavia abbiamo posto le basi per creare anche qui nuovi campioni nazionali».

Vent'anni senza Agnelli, l'unico re senza corona. Un'esistenza abbagliante incrinata dal lutto per il figlio. Ma con lui è finito un mondo. Tony Damascelli il 24 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Vent'anni senza Gianni. Diciannove senza Umberto. Fine degli Agnelli, quelli veri, autentici. Dopo di loro, il diluvio. Oggi, gennaio ventiquattro del duemila e tre, si concludeva la vita avventurosa, affascinante, privilegiata, esclusiva, insomma l'avventura di Gianni Agnelli, detto l'Avvocato, con la vocale maiuscola per distinguerlo da qualunque altro dottore in legge, professione da lui mai frequentata. L'agiografia è grandiosa, i racconti sono diventati libri, film, documentari, probabile un progetto di fiction, Gianni Agnelli è stato per gli italiani, non tutti, quello che Elisabetta II è stato per gli inglesi, quasi tutti. Regnante senza corona, però sovrano e monarca di una dinastia centenaria che, nel prossimo luglio dovrebbe celebrare appunto il secolo di possesso e di proprietà di una squadra di football, la Juventus. Agnelli ha rappresentato il sogno degli yuppies, il desiderio di milf, cugar e signorinelle pallide, ha vissuto la vita dolce e la dolce vita, ha avuto donne mille ma nessun amore, sentimento che, secondo lui, riguarderebbe soltanto le cameriere. La moglie, Marella Caracciolo, è stata il controllore di volo di questo aristojet, passeggero e pilota del mondo ma profondamente legato alla terra di origine, Villar Perosa e Torino. Il vej Piemont, il bicierìn al bar della Consolata, quell'aria sabauda che si è smarrita nelle nuove tendenze che hanno anche lucidato il capoluogo dalla sua nebbiosa quotidianità. L'esistenza abbagliante ma elegante dell'Avvocato si era improvvisamente spenta il quindici di novembre del duemila, suo figlio si era suicidato lanciandosi da un ponte, Gianni Agnelli, accompagnato dal questore di Torino, arrivò sul luogo, appoggiandosi al bastone, il volto di cera, bianco il colore del viso, bianchissimi i capelli, il riconoscimento di Edoardo fu come l'atto di dolore a smascherare il senso di colpa. Restano quelle immagini, come le altre riservate agli ultimi giorni, nel silenzio rispettoso per la malattia che ormai aveva preso il sopravvento, Vennero mille e mille e mille di più, alla veglia, il popolo torinese, operai e impiegati, una nera folla in corteo non per manifestare contro il padrone, no, la lotta di classe era stata messa da parte, c'era da omaggiare l'uomo che, in fondo, aveva contribuito a mantenere la fabbrica, dunque il lavoro, nonostante la crisi, nonostante le scelte imprenditoriali sbagliate dai collaboratori, Romiti fra questi. Lo stesso Cesare Romiti volle restare in piedi per tutta la funzione funebre, così aveva imparato dallo stesso Gianni Agnelli che in chiesa manteneva la posizione eretta, forse anche per distinguersi. Di certo, come suo fratello Umberto, l'araldica si è come fermata in quei due anni, duemila e tre e duemila e quattro, quasi il segno del destino a unire, a distanza breve, i due veri punti di riferimento di una grande grandiosa famiglia. La narrazione prese a riportare aforismi e vicende private, l'agnelliade anche romanzata e non verificabile però testimonianza di una figura diversa, totalmente, dal resto dei teatranti sulla scena italiana, politici e imprenditori. Lo stesso tono, elegante e colto, con il quale Gianni Agnelli si rivolgeva agli astanti, potevano essere capi di governo, giornalisti o calciatori, provocava il piacere accompagnato dal sorriso, non sempre cortigiano. Lo divertiva svegliare, con una telefonata all'alba i conoscenti, quando lo fece con Michel Platini fu messo in fuori gioco dal francese: «Buongiorno, stava dormendo?» «Non ancora», replicò Michel e fu come l'inizio di una affinità imprevista. Era di una vanità mai esibita ma sempre ricercata, sua nipote Priscilla, figlia di Susanna e Urbano Rattazzi, lo fotografò più volte, uno scatto, nel ranch argentino Los Cardos, nel 1978, ritrae lo zio in camicia denim, appena sbottonata, i capelli svolazzanti, lo sguardo, fingendo sorpresa, era però attento alla posa: è il ritratto più vero e riassume il portamento, lo stile e l'astuzia ricercata dell'uomo più importante. Vent'anni dopo, si assiste alla ricerca di un segreto mai svelato, dell'aneddoto mai raccontato. In verità non si ammette che in quel giorno di gennaio, così come nel maggio del duemila e quattro, si concluse la storia degli Agnelli, nel nome di Gianni e di Umberto e con loro il tramonto di un'epoca irripetibile, non soltanto per quella famiglia.

Estratto dell’articolo di Marigia Mangano per “il Sole 24 Ore” il 22 gennaio 2023.

Il 24 gennaio del 2003, il giorno della scomparsa di Giovanni Agnelli, Fiat group valeva in Borsa 3,3 miliardi di euro. Oggi, 20 anni dopo quell’evento che ha segnato il passaggio di consegne dall’Avvocato al nipote Yaki, i pezzi più pregiati di quel grande contenitore che era il Lingotto valgono tutti insieme più di 100 miliardi. In questo numero si sintetizza la storia più recente della vecchia Fiat, quella orfana di Giovanni Agnelli.

Una crescita di valore senza precedenti, possibile grazie a capolavori finanziari come lo spin off di Ferrari realizzati nell’era di Sergio Marchionne, ma anche grazie a scelte industriali forti, che portano la firma di John Elkann, come il matrimonio di Fca con Psa che ha dato vita al quarto gruppo mondiale del settore auto, Stellantis.

 […] Questa scala di valori e questa distanza tra ieri e oggi, si replica anche guardando alla ricchezza della famiglia e degli eredi dell’Avvocato. Qui entra in gioco il valore riconosciuto alla Dicembre di Gianni Agnelli e a quella di John Elkann.

La Dicembre è la società che fa capo al ramo di Gianni Agnelli e dei suoi eredi. Oggi è controllata da John Elkann al 60%, mentre il restante 40% è di proprietà dei fratelli Lapo e Ginevra Elkann. Questa società è l’azionista più forte con una quota del 38% della Giovanni Agnelli Bv, a cui fa capo il controllo di Exor e del relativo impero fatto di Stellantis, Ferrari, Cnh, Iveco, Gedi, la Juventus e altre partecipazioni nel lusso.

 Nella storia della Dicembre ci sono state due compravendite che aiutano a ricostruire l’evoluzione del valore di quello che, per definizione, rappresenta il tesoro degli eredi di Gianni Agnelli. Si tratta dell’atto con cui Marella Caracciolo, moglie di Gianni Agnelli, comprò la quota della figlia Margherita, un passaggio oggi al centro di una disputa famigliare che coinvolge l’intera eredità, e la successiva cessione da parte della nonna della nuda proprietà della sua quota ai tre nipoti John, Lapo e Ginevra.

Il 5 aprile del 2004 davanti al notaio Ettore Morone si perfezionava l’uscita di scena di Margherita Agnelli dal libro soci della Dicembre. In quel momento l’assetto proprietario vedeva Marella al 3,7%, Margherita al 37,5% e John Elkann al 58,7%. Marella rilevò la quota della figlia pagando un assegno di 105 milioni di euro. Dunque la Dicembre, nel 2004, valeva 280 milioni di euro.

 A maggio del 2004 ha fatto seguito poi una nuova compravendita. La stessa Marella cedeva ai suoi nipoti la nuda proprietà dell’intera sua quota del 41,2%. A Lapo e Ginevra fu ceduto il 20% ciascuno, a John il restante 1,2%. In questa occasione il passaggio valorizzava la nuda proprietà del 20% della Dicembre 39,2 milioni.

L’intera società, dunque, al netto dei diritti di voto, era stimata in 196 milioni, un valore in linea con la compravendita avvenuta un anno prima tra madre e figlia che comprendeva la piena proprietà del pacchetto azionario. A distanza di 20 anni da quel riassetto che ha consegnato il controllo dell’impero Agnelli a John Elkann, la Dicembre vale 2,9 miliardi di euro. Un dato che si ricava tenendo conto che la valutazione interna della Giovanni Agnelli Bv alla data di novembre 2022, secondo quanto emerge da documenti interni della società olandese, è pari a 7,8 miliardi.

Giorgio Meletti per il Fatto Quotidiano – estratto articolo del 22-1-2018

Verso la fine del documentario prodotto dalla Hbo le parole di Lapo Elkann, figlio di Margherita Agnelli e nipote di Gianni l' Avvocato, nella loro asciuttezza suonano agghiaccianti: "Penso che sia stato un nonno meraviglioso, ma non avrei voluto essere suo figlio".

 Anche la testimonianza sullo zio e sul cugino Edoardo di Lupo Rattazzi, figlio di Susanna Agnelli, è asciutta e agghiacciante: "Eravamo a pranzo, a un certo punto Edoardo ha detto qualcosa, e Gianni gli rispose male, sprezzante. E io pensai che non riuscivo a credere che dopo tanti anni quel rapporto fosse così logorato dalla mancanza di rispetto del padre verso il figlio".

Tre giorni dopo, il 15 novembre 2000, Edoardo Agnelli si suicidò lanciandosi nel vuoto da un viadotto alto 80 metri sull' autostrada Torino-Savona. Giulio Marconi, per una vita cuoco dell' avvocato, sembra il più umano: "Allora io gli ho fatto, Avvoca', dico, un po' di colpa ce l' ha pure lei. Edoardo per me era un ragazzo bravissimo, il padre ha avuto poca fiducia in lui, e lui vedendosi così ha fatto quello che ha fatto".

Tiberto Rodrigo Brandolini d' Adda, detto Ruy, figlio di Cristiana Agnelli e cugino di Edoardo, sembra emozionato: "Gianni era totalmente devastato. Mi disse: 'Dio, devi avere un sacco di coraggio per buttarti giù da quel ponte'. Sì, Edoardo lo fece per mostrare al padre che aveva coraggio".

 Nicola Caracciolo di Castagneto, fratello di Carlo e Marella, cognato dell' Avvocato, si commuove: "Dopo il funerale di Edoardo, nella casa di Villar Perosa, Gianni mi disse: 'Non dovremmo mai dimenticare che questa è stata una casa felice, ma questa adesso non è una casa felice'". La sorella Cristiana: "Vidi Gianni un mese dopo la morte di Edoardo. Era molto, molto triste. Non lo riconobbi". Dopo il suicidio del figlio che non aveva saputo amare, l' Avvocato sprofonda in una invincibile depressione e nella malattia che lo ucciderà due anni dopo, il 24 gennaio 2003.

La vita di Gianni da giovane? "Ragazze, ragazze, ragazze", sorride compiaciuta Maria Sole. "Un seduttore irresistibile", chiosa Diane von Fürstenberg, ex moglie di Egon figlio di Clara Agnelli. Un matto, insinua Carlo De Benedetti: "Guidava come se stesse gareggiando in Formula 1 e invece era nel centro di Torino". Una vita erotica turbolenta ma alla luce del sole, almeno davanti agli occhi di amici e amiche che nel documentario di Hooker non lesinano particolari indiscreti e piccanti fino al cattivo gusto.

La stilista Jackie Rogers racconta della sera che in un albergo lo trovò a letto con Anita Ekberg, non si capisce bene se prima o dopo il matrimonio con Marella Caracciolo, ma forse si capisce. Sicuramente quel matrimonio fu preceduto da una relazione di cinque anni con la scoppiettante Pamela, un anno più grande di Gianni ed ex moglie del figlio di Winston Churchill.

Pamela lo voleva sposare ma non piaceva alle sorelle dell' Avvocato, e forse nemmeno a lui. La relazione costa cara all' Avvocato, in tutti sensi. Copre d' oro la ragazza, regalandole un attico nella zona più prestigiosa di Parigi e mettendole a disposizione servitù e autista. Ma una sera del 1952, in Costa Azzurra, Pamela lo sorprende con la giovane Anne-Marie d' Estainville e dà in escandescenze, notificando alla ragazza, e senza abbassare la voce, di ritenerla "una puttana".

 Gianni e Anne-Marie, raccontano divertiti gli amici, decidono di sottrarsi all' ira funesta dell' ex nuova di Churchill e futura ambasciatrice americana a Parigi. Saltano sull' auto sportiva del giovane miliardario e vanno a tutta velocità incontro al grave incidente stradale (sette fratture alla gamba) di cui Agnelli porterà i segni per il resto della vita. "Era pieno di droga", racconta l' amico fedele toccandosi platealmente il naso, come a dire che Agnelli tirava di cocaina quando ancora a Torino si facevano di bagna cauda.

Pamela lo voleva sposare ma non piaceva alle sorelle dell' Avvocato, e forse nemmeno a lui. La relazione costa cara all' Avvocato, in tutti sensi. Copre d' oro la ragazza, regalandole un attico nella zona più prestigiosa di Parigi e mettendole a disposizione servitù e autista. Ma una sera del 1952, in Costa Azzurra, Pamela lo sorprende con la giovane Anne-Marie d' Estainville e dà in escandescenze, notificando alla ragazza, e senza abbassare la voce, di ritenerla "una puttana".

A questo punto le sorelle decidono che la donna giusta per Gianni è Marella, sei anni più giovane di lui e da anni, dicono, innamoratissima dello scapestrato dongiovanni, come lo definisce la sorella Maria Sole, la quale giura che, a dispetto della celebre massima dell' Avvocato secondo cui innamorarsi è roba da cameriere, anche lui "era molto innamorato" della donna che sposò nel 1953. Se a casa Agnelli non impazzivano per Pamela, a casa Caracciolo non apprezzano Gianni: "A mia madre non piaceva, non pensava che fosse un buon marito. Disse che era un tipo terribile", ricorda Nicola Caracciolo…..

Si ipotizza che Agnelli avesse annoverato tra le sue prede sessuali anche la first lady americana Jackie Kennedy durante una vacanza da cartolina a Capri nell' estate 1962, con l' Avvocato (già sposato e padre di due figli) a fare i fastosi onori di casa e John Kennedy a Washington a occuparsi dei destini del mondo (ed eventualmente anche di quelli della sua amante Marilyn Monroe, morta suicida proprio in quelle settimane)…..

Qui l' allegra fiducia di Maria Sole sulle inclinazioni non fraterne del fratello verso casa Kennedy ("Non ne sarei sorpresa") consegna allo spettatore un senso di sospensione tra l' ammirazione e il disprezzo. E comincia a proiettare il racconto verso il finale tragico. Questa gioventù dorata che pensa solo a divertirsi viene dipinta in modo impietoso dagli stessi reduci. Parla l' amica Marina Branca: "Gianni e Marella erano due genitori assenti. Anche io non ero così presente. Il nostro centro era uscire e divertirsi. I figli restavano a casa con signorine e governanti".

"Non erano una famiglia normale", dice una voce fuori campo. Racconta De Benedetti, socio e amministratore delegato della Fiat nei famosi cento giorni del 1976: "Ero dall' Avvocato, a un certo punto si apre una porta ed entra Margherita, completamente rasata. Agnelli la guarda e dice: 'Ma che hai fatto?'. E lei: 'Almeno ti sei accorto di me'".

Mario Gerevini per corriere.it - articolo del 9 dicembre 2022 - ESTRATTO

Torna a galla (lo scrive oggi Il Fatto Quotidiano) la vecchia storia della rete offshore creata per custodire una parte riservata del patrimonio di Gianni Agnelli, morto nel 2003. Si tratta di finanziarie, costituite a fine anni ’90 e smantellate anni fa, per lo più domiciliate alle Isole Vergini i cui nomi e referenti (Bundeena, Silver Tioga, Layton ecc), oltre che negli atti della causa civile in corso a Torino, erano stati al centro di un procedimento penale a Zurigo, intentato da Margherita Agnelli contro Morgan Stanley, e chiuso da tempo con l’archiviazione.

 Le holding da 900 milioni

Alcune di queste holding che custodivano un patrimonio stimato da 900 milioni - come ha scritto il Corriere nel settembre 2021 - erano riconducibili a Marella Caracciolo, la vedova dell’Avvocato scomparsa nel 2019, mentre altre 15 erano genericamente attribuibili a “members of the Agnelli family”.

 La ricostruzione della rete offshore è uno degli elementi a sostegno della tesi legale di Margherita, ovvero di essere stata tenuta all’oscuro di una parte consistente dell’eredità Agnelli. La tesi di un «presunto tesoro nascosto è una storia assai vecchia e da tempo conclusa», secondo i legali degli Elkann.

Gli accordi

Nel procedimento civile torinese la figlia dell’Avvocato (e madre, tra l’altro, di John, Lapo e Ginevra Elkann), intende invalidare la successione di sua madre Marella Caracciolo (morta nel 2019), «l’accordo transattivo» sull’eredità dell’Avvocato (da cui ha ricevuto asset per oltre un miliardo) e il «patto successorio» del 2004 con la madre (con il quale ha rinunciato all’eredità materna).

 Insomma tutti gli atti dell’eredità Agnelli che, tra l’altro, hanno consolidato l’assetto attuale del gruppo Exor (Stellantis, Ferrari ecc), con al vertice John Elkann. La successione di Marella, inoltre, secondo Margherita doveva ricadere sotto il diritto italiano e non svizzero perché la madre non aveva residenza abituale in terra elvetica. Su questo passaggio tecnico decisivo si pronunceranno, probabilmente a inizio 2023, i giudici torinesi.

Maria Sole Agnelli: «A mio fratello Gianni nessuno ha dedicato neppure una via. Né a Torino né in Italia». Francesca Angeleri su Il Corriere della Sera il 23 Gennaio 2023.

A vent'anni dalla scomparsa dell'Avvocato, parla la sorella: «Oggi sarebbe molto dispiaciuto dell’occasione mancata delle Olimpiadi con Milano. La Juve? Sto patendo tantissimo, mi spiace enormemente per mio nipote»

Vent’anni senza Gianni Agnelli. Vent’anni che il «re» è morto. Ma la diceria, un po’ popolare e da rivista, dei fondatori della Fiat definiti come la «casa reale italiana» non piace ai diretti interessati: «Sono solo sciocchezze», dice ferma seppur non seccata Maria Sole Agnelli. Ci parla nonostante la premessa che tanto forse tutto è stato già detto su quel suo fratello adorato, ricordato sempre, portato a esempio da un’Italia che molti altri esempi simili, di potere come di savoir faire come di fascino e internazionalità, non ne ha molti. Non ne ha. 

In queste due decadi senza suo fratello, cosa è cambiato nel Paese?

«Tante cose. Innanzitutto ci sono state le elezioni ed è cambiato il Governo. E poi c’è questa terribile guerra. Credo che non si sarebbe mai immaginato di rivedere una guerra. E neppure io. Un conflitto che, seppure piccolo, non accenna a fermarsi». 

Crede che avrebbe preso una posizione in merito?

«Certo: l’avrebbe deprecata. Come tutti noi d’altronde. E anche questo nuovo governo di destra l’avrebbe abbastanza innervosito». 

Come giudica lei, la premier Meloni?

«Per ora ha fatto bene. Non l’avrei di certo votata. A ogni modo, fino a qui ha fatto bene». 

Cosa le manca di più di lui?

«Potergli telefonare. Gli chiedevo sempre dei consigli. Mi fidavo delle sue impressioni». 

Che tipo di rapporto vi legava?

«Affettuoso. Quando eravamo bambini non avevamo molte cose che ci univano. Sa, eravamo divisi tra grandi e piccoli: io ero la più grande dei piccoli e la più piccola dei grandi. Venivo sempre scartata da tutti. Da adulti ci siamo legati molto di più. Non potrò mai dimenticare come mi sia stato accanto quando morì il mio primo marito. Mi aiutò molto». 

Da quando è mancato, c’è stato un allontanamento degli Agnelli da Torino?

«Non credo. Io non ci torno spessissimo anche se vi sono molto affezionata. Ho vissuto qui i primi vent’anni della mia vita. Conservo amicizie care. Quando ero presidente della Fondazione Agnelli riuscivo a venirci una volta al mese. Torino è bellissima. Sconosciuta, ma molto bella». 

È ancora attenta al tema scuola?

«La scuola ha sofferto molto a causa del Covid. Spero sia una priorità del governo. Sicuramente lo è del Presidente Mattarella, che seguo sempre e che conobbi proprio quando venne in visita alla Fondazione». 

È dispiaciuta che Torino ancora non abbia dedicato strade o piazze a Gianni Agnelli?

«No, proprio dispiaciuta no. Succederà quando il Comune avrà cambiato idea. Ad ogni modo a Torino c’è il Lingotto, che è talmente bello... se anche non gli dedicheranno nulla è come se lì dentro ci fosse sempre lui». 

Ma se accadesse, in che zona amerebbe gli intitolassero qualcosa?

«Mirafiori». 

Cosa ha tenuto l’Avvocato sempre legato a Torino?

«Era la sua città. Ci era nato, qui aveva fatto le scuole. Anche da militare non si era spostato di molto, andò a Pinerolo. Sarebbe molto dispiaciuto dell’occasione mancata delle Olimpiadi con Milano. A Torino teneva moltissimo. Non andò via neppure con le Brigate Rosse e tutti i guai successivi, anche se i suoi figli erano piccoli». 

Parliamo di Juve?

«Sto patendo tantissimo. Mi spiace enormemente per mio nipote che si è dato tanto da fare e che aveva lavorato molto bene. Soffrirà in modo incredibile». 

È tifosa?

«D’animo moltissimo. Da piccoli andavamo allo stadio, mia madre si portava un cane bianco e uno nero. Da grande, l’unica volta che la vidi dal vivo, fu a Napoli proprio con mio fratello, una partita che finì zero a zero».

Della nuova generazione Agnelli: chi ha preso di più da lui?

«Nessuno. Forse un po’ Lupo Rattazzi». 

In cosa? 

«Non lo so... Quando entra in una stanza, mi fa pensare a Gianni».

Gianni Agnelli, Jas Gawronski: "La sola donna che...", una bomba 20 anni dopo. Libero Quotidiano il 22 gennaio 2023

Sono passati 20 anni dalla scomparsa dell'avvocato Gianni Agnelli, un pezzo di Storia del nostro Paese. E a ricordarlo, in una lunga intervista pubblicata sul Corriere della Sera e firmata da Aldo Cazzullo, è Jas Gawronski. Nato a Vienna nel 1936, figlio di un politico e diplomatico polacco, fu fondatore de La Stampa. E ancora, fu portavoce del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, dunque senatore e parlamentare europeo. 

Gawronski è sempre stato molto vicino ad Agnelli. E nella lunga intervista ripercorre tutta la sua parabola, la sua vita, i rapporti, le imprese, le dicerie. E dunque non può mancare una lunga parte del colloquio dedicata alle donne, croce e delizia dell'avvocato Gianni Agnelli. In primis chiedono a Gawronski se è vero che si innamorano soltanto le cameriere, celebre aforisma attribuito all'avvocato. "Non l’ho mai sentita quella frase. Ma sì, la pensava così", ammette.

Dunque, una domanda sulla moglie Marella: che rapporto aveva con lei? "Mai visto un marito trattare la moglie con tanta cortesia, con tanta attenzione, badando a coinvolgerla nelle conversazioni, a chiedere sempre il suo parere. Forse anche per lenire quel senso di colpa, o comunque di responsabilità, che gli veniva dal non essere un marito fedele". Gli ricordano poi che Gianni Agnelli ebbe alcune tra le donne più belle al mondo e dunque gli chiedono se fosse possibile che non si era mai innamorato di nessuna. E Gawronski risponde: "Lo escludo. Certo dimenticare Anita Ekberg non era facile. Ma forse una sola l’ha davvero coinvolto". Chi? "Non lo dirò mai. Ma non era un'attrice", conclude lasciando il mistero in sospeso.

Per concludere una delle settimane più complicate della storia bianconera, dopo l’ormai nota penalizzazione di quindici punti inflitta alla Vecchia Signora, la Juventus non va oltre il 3-3 contro l’Atalanta. Un pareggio spettacolare, all’Allianz Stadium, che non permette però ad Allegri e i suoi ragazzi di cominciare la rimonta verso l’Europa che conta a cui sono chiamati: il quarto posto che vale la Champions League è lontano ora ben quattordici punti, mentre la sesta posizione della Lazio (che martedì affronterà il Milan) è a undici lunghezze. Allegri non cambia tatticamente rispetto al 3-5-1-1 capace di superare il turno in Coppa Italia (2-1 contro il Monza), le novità sono invece nei singoli, dato che dal primo minuto tornano - tra gli altri - Szczesny in porta, Bremer in difesa, Rabiot a centrocampo e Di Maria e Milik in avanti. Gasperini, invece, dà continuità al 3-4-1-2, lanciando Ederson in mezzo al campo e schierando Boga sulla trequarti a sostegno di Lookman e Hojlund. A fare la partita fin dai primi minuti è l’Atalanta, che trova il vantaggio al 5’, sfruttando una botta di destro sul primo palo di Lookman e un intervento maldestro di Szczesny. Il gol subito sveglia i bianconeri che reagiscono e trovano il pareggio dagli undici metri, con un rigore conquistato da Fagioli (errore da matita blu di Ederson) e trasformato da Di Maria, giunto ora a tre centri in campionato. Dieci minuti più tardi ecco arrivare il vantaggio bianconero, con un’azione capolavoro: Di Maria avvia tutto con un tacco illuminante, Fagioli lascia partire un cross perfetto che Milik trasforma in gol grazie a una girata al volo meravigliosa. Gli ospiti, però, non si perdono d’animo e pareggiano a inizio ripresa con Maehle, approfittando di una brutta palla persa di Danilo, prima di tornare in vantaggio ancora con uno scatenato Lookman, sempre su assist di Boga. Il difensore brasiliano si farà perdonare con la punizione che regala il definitivo 3-3 ad Allegri.

Gianni Agnelli, Jas Gawronski: "La sola donna che...", una bomba 20 anni dopo. Libero Quotidiano il 22 gennaio 2023

Sono passati 20 anni dalla scomparsa dell'avvocato Gianni Agnelli, un pezzo di Storia del nostro Paese. E a ricordarlo, in una lunga intervista pubblicata sul Corriere della Sera e firmata da Aldo Cazzullo, è Jas Gawronski. Nato a Vienna nel 1936, figlio di un politico e diplomatico polacco, fu fondatore de La Stampa. E ancora, fu portavoce del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, dunque senatore e parlamentare europeo. 

Gawronski è sempre stato molto vicino ad Agnelli. E nella lunga intervista ripercorre tutta la sua parabola, la sua vita, i rapporti, le imprese, le dicerie. E dunque non può mancare una lunga parte del colloquio dedicata alle donne, croce e delizia dell'avvocato Gianni Agnelli. In primis chiedono a Gawronski se è vero che si innamorano soltanto le cameriere, celebre aforisma attribuito all'avvocato. "Non l’ho mai sentita quella frase. Ma sì, la pensava così", ammette.

Dunque, una domanda sulla moglie Marella: che rapporto aveva con lei? "Mai visto un marito trattare la moglie con tanta cortesia, con tanta attenzione, badando a coinvolgerla nelle conversazioni, a chiedere sempre il suo parere. Forse anche per lenire quel senso di colpa, o comunque di responsabilità, che gli veniva dal non essere un marito fedele". Gli ricordano poi che Gianni Agnelli ebbe alcune tra le donne più belle al mondo e dunque gli chiedono se fosse possibile che non si era mai innamorato di nessuna. E Gawronski risponde: "Lo escludo. Certo dimenticare Anita Ekberg non era facile. Ma forse una sola l’ha davvero coinvolto". Chi? "Non lo dirò mai. Ma non era un'attrice", conclude lasciando il mistero in sospeso.

Jas Gawronski: «Dissero ad Agnelli della morte del figlio; so che era disperato, ma non pianse». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 22 Gennaio 2023.

Vent’anni fa la morte dell’Avvocato. «Una sola donna lo ha veramente coinvolto, non dirò mai chi. Al primo loro incontro, Malagò disse: “Avvoca’, diamoci del tu”. L’unica persona alla quale riconobbe supremazia fu Cuccia»

Jas Gawronski, quando vide Gianni Agnelli per la prima volta?

«Avevo vent’anni, era il 1957. Mi invitò a un party a Sestriere, con molta altra gente. Lo incuriosiva che vivessi in Polonia».

Perché?

«Era affascinato dai comunisti. Li riteneva uomini di un’altra categoria: spietati. Ed era interessato alla durezza della vita, alla sofferenza delle persone».

Quando lo rivide?

«Mi invitò alla Leopolda, la villa che aveva a Beaulieu, sopra Montecarlo. Il parco, la piscina, la vista indescrivibile: non avevo mai visto una casa così bella. Poi la vendette a un’americana».

Perché?

«La villa si chiamava così perché era appartenuta a Leopoldo del Belgio, padrone del Congo. Una residenza reale, appunto. I tempi erano cambiati. Anche se la sua casa più bella era quella in Corsica, a Calvi, vicino alla grande base della Legione straniera».

Un’altra delle sue passioni.

«Attaccava sempre discorso con i legionari, che non sapevano chi fosse. Anche da quei soldati voleva sapere tutto della durezza della loro vita. Lo colpivano le loro camicie stirate alla perfezione, con le pences dietro: vanno a morire con la divisa in ordine, diceva».

Agnelli la guerra l’aveva fatta.

«Ma non ne parlava mai».

Come andò il ricevimento alla Leopolda?

«Io ho sempre girato in Volkswagen, ma quella volta arrivai con la mia fidanzata di allora su una Jaguar targata Varsavia: un dettaglio che colpì l’Avvocato. Poi dovetti scendere a Montecarlo per un appuntamento. Al ritorno, scoprii che Agnelli ci aveva un po’ provato con la mia ragazza…».

Un po’ provato?

«In modo evidente, ma elegante. Lei era più divertita che turbata».

Non un grande inizio, per l’amicizia di una vita. Cosa vi univa?

«Credo che intanto l’Avvocato avesse nei miei confronti un senso di colpa, o comunque di responsabilità: grazie al fascismo, suo nonno aveva portato via il giornale di Torino a mio nonno».

Alfredo Frassati, editore e direttore della Stampa, nominato da Giolitti ambasciatore a Berlino, dimissionario dopo la marcia su Roma. Com’era suo nonno?

«Uomo d’altri tempi, di poche parole. Agnelli diceva fosse un po’ tirchio; io rispondevo che mio nonno, a differenza del suo, non si era mai fatto fotografare in camicia nera. Ebbe due figli: Luciana, mia madre, vissuta 105 anni; e Piergiorgio, morto a 24 anni per una poliomelite fulminante contratta nelle case dei poveri che aiutava, beatificato da Giovanni Paolo II».

Quali politici stimava l’Avvocato?

«Era affascinato da Pannella. Volle conoscerlo. In lui non vedeva l’esibizionismo, ma la buona fede».

E i democristiani?

«Non ne parlava certo bene. In generale non aveva una buona opinione dei politici. E neppure dei giornalisti. Anche se frequentava quelli di successo: insieme andammo alla festa per i novant’anni di Montanelli».

E i comunisti?

«Li stimava di più, aveva un ottimo rapporto con Lama. Una volta invitò a cena Castro. Dovevo esserci anch’io; ma Fidel arrivò con il suo assistente, Robaina, futuro ministro degli Esteri; per non essere in tredici a tavola, l’Avvocato mi pregò di venire dopo il dessert».

Cosa la colpì di quella serata?

«Durante la vestizione, notai che Agnelli non le attribuiva alcun significato particolare. Io avevo appena intervistato Castro con grande emozione: da anticomunista di ferro, lo ritengo tuttora un gigante della storia, capace di tenere in scacco otto presidenti americani… L’Avvocato invece era imperturbabile».

Disse davvero che si innamorano soltanto le cameriere?

«Non l’ho mai sentita quella frase. Ma sì, la pensava così».

Con il figlio Edoardo e la moglie Marella

Che rapporto aveva con Marella?

«Mai visto un marito trattare la moglie con tanta cortesia, con tanta attenzione, badando a coinvolgerla nelle conversazioni, a chiedere sempre il suo parere. Forse anche per lenire quel senso di colpa, o comunque di responsabilità, che gli veniva dal non essere un marito fedele».

Agnelli ebbe donne tra le più belle del mondo. Possibile che non si sia mai innamorato di nessuna?

«Lo escludo. Certo dimenticare Anita Ekberg non era facile. Ma forse una sola l’ha davvero coinvolto».

Chi?

«Non lo dirò mai. Ma non era un’attrice».

Com’era davvero il rapporto con Romiti?

«Un conto era l’amicizia, un altro il lavoro. Romiti apparteneva alla seconda schiera. Lo divertiva la sua franchezza al limite del cinismo. Una volta mi raccontò una riunione. Mattioli, il direttore finanziario della Fiat, comincia serio: “Ci sono tre modi per affrontare la situazione. Il primo: ammettere la verità…”. E Romiti: “Mattioli, non diciamo sciocchezze”».

Romiti pensò davvero di diventare padrone della Fiat, d’intesa con Cuccia?

«Ci hanno pensato in tanti, e non ci è mai riuscito nessuno: la famiglia si è sempre rivelata più forte. E comunque non credo allo schema di Cuccia contro Agnelli».

Perché?

«Si stimavano moltissimo. Cuccia è forse l’unica persona a cui Agnelli riconoscesse una supremazia. Per il resto l’ho sempre visto confrontarsi alla pari con chiunque. Quando era segretario di Stato, era Kissinger a cercarlo per chiedergli consiglio, non viceversa. Aveva caldeggiato anche la possibilità che Agnelli diventasse ambasciatore a Washington».

Ci ha mai pensato seriamente?

«L’idea gli piaceva. Ma non poteva lasciare il suo posto».

E con Montezemolo com’era il rapporto?

«Luca era il figlio che l’Avvocato avrebbe voluto: intelligente, spiritoso. Scanzonato. Agnelli gli dava del tu, Montezemolo del lei. Un giorno gli propone di portargli a pranzo un amico molto simpatico».

Chi era?

«Malagò. Che dopo venti minuti, con il suo charme romano, dice: “Avvoca’, perché non ci diamo del tu?».

E Agnelli cosa rispose?

«Certo non avrebbe mai detto: no, diamoci del lei. Così Malagò dava del tu all’Avvocato; Montezemolo gli diede del lei sino alla morte».

Il figlio vero era Edoardo.

«Un intellettuale. Sensibile, intelligente: ma non capiva di non avere le qualità necessarie a guidare una grande azienda. Quando il padre decise di puntare su Giovannino, il primogenito di Umberto, ne soffrì moltissimo».

Lei era con l’Avvocato quando gli arrivò la notizia del suicidio del figlio.

«Non pianse. Non mostrava il dolore in pubblico. Ma era disperato. Nello stesso tempo, si sentiva come liberato da un peso».

E la figlia Margherita?

«Preferisco parlarne come pittrice. È davvero brava…».

Non può cavarsela così.

«Margherita è una donna simpatica e intelligente. Dovrebbe capire che la Fiat non era una multiproprietà che poteva essere frazionata tra otto figli. Occorreva un capo».

Com’era il rapporto tra John e il nonno?

«Agnelli lo scelse e lo formò. E mi pare che abbia fatto un buon lavoro. Oggi sento membri della famiglia criticare l’Avvocato. Ma nessuno osa criticare John».

E con il fratello Umberto?

«Lo amava e lo proteggeva; però gli rimproverava di raccomandare i suoi amici. Una cosa che l’Avvocato non faceva mai».

E le sorelle?

«Aveva rapporti affettuosi con tutte, ma solo con Suni era una relazione alla pari. Si riconosceva in lei; anche fisicamente. Come se fosse il suo alter ego femminile. Però bloccò il film tratto dal suo libro, Vestivamo alla marinara».

Perché?

«Perché non amava si parlasse di sé. Non per modestia; anzi, era un po’ presuntuoso; ma riservato. Ad esempio detestava essere fotografato. Spesso nel gruppo di amici c’era qualcuno con la macchina fotografica: lui lasciava fare per educazione, ma era seccato. Ricordo due sole passeggiate per Torino. Una volta, era il 1984, andammo insieme a votare alle Europee. La gente lo fermava per strada, lui era gentilissimo con tutti. Subito dopo però…».

Subito dopo?

«Sbuffava: che noia… In realtà, se non lo riconoscevano ci restava male. Ma con i suoi vestiti e i suoi tic, come l’orologio sul polsino, era difficile non riconoscerlo».

Cosa votò Agnelli nel 1984?

«Partito repubblicano, come sempre. Ero candidato e disse che mi aveva dato la preferenza; ma lo escludo».

Perché?

«Detestava scrivere. A maggior ragione un nome complicato come il mio».

Mi fa vedere l’autobiografia di Agnelli che lei custodisce?

«Eccola. L’autore è Roger Cohen, grande firma del New York Times».

Già nella prima pagina c’è una rivelazione: avrebbe dovuto esserci anche Gianni accanto a suo padre Edoardo, sull’idrovolante pilotato dall’asso Ferrari...

«…Invece il papà gli ordinò di restare a terra. E morì nell’ammaraggio di fronte a Genova, colpito alla testa dall’elica».

Qui Agnelli scrive che suo padre non amava il fascismo, ma godette dei privilegi del regime…

«Fermiamoci. Se l’Avvocato avesse voluto pubblicare il libro, l’avrebbe fatto. Ha prevalso, anche qui, la riservatezza».

Di Berlusconi cosa pensava?

«All’inizio lo divertiva, lo considerava un po’ una caricatura. Quando vinse le elezioni, però, lo prese molto sul serio. E poi era lusingato dal fatto che tenesse la sua foto sul comodino. Anche se i suoi leader di riferimento sono sempre stati altri».

Chi?

«Ugo La Malfa. E Spadolini. Nel 1994 seguimmo insieme l’elezione del presidente del Senato. Per mezz’ora parve che avesse vinto Spadolini, e Agnelli era tutto contento. Quando si scoprì che aveva vinto Scognamiglio, non ebbe la stessa reazione. E dire che Scognamiglio era un suo parente, aveva sposato la figlia di Suni».

Lei divenne portavoce del governo Berlusconi.

«Una volta raccontai ad Agnelli che avevo ricevuto due amici a Palazzo Chigi. Mi rimproverò: “Non si fa, Palazzo Chigi è un’istituzione!”».

La rimproverò altre volte?

«Quando scrissi sull’Herald Tribune un articolo contro l’Olimpiade a Roma, qualcuno mi accusò di averlo fatto su ordine dell’Avvocato, per favorire l’assegnazione dei Giochi invernali a Torino. Invece lui mi sgridò: “Non si scrive sui giornali stranieri contro il proprio Paese! E poi, tra fare e non fare, sempre meglio fare».

L’Avvocato avrebbe mai venduto la Fiat?

«Mai. Intuiva che dopo di lui sarebbe accaduto. Si fidava di Paolo Fresco, che aveva stretto un patto con la General Motors. Ma tutto era rinviato a dopo la sua morte. La Fiat era una responsabilità; se non un peso».

Perché?

«Una volta, in una delle rarissime confidenze di lavoro, mi disse che se avesse potuto scegliere non avrebbe investito nell’auto, e non avrebbe investito in Italia. Rimasi stupito: all’epoca investire in Italia non era poi così male. Forse presagiva quel che sarebbe accaduto».

Non è grave che abbia portato fondi all’estero?

«È un caso legale ancora da chiarire. Certo, in America una storia così distruggerebbe la reputazione. In Italia siamo più indulgenti”.

Montezemolo dice che Agnelli era più “italiano” di quanto si pensi.

«È vero. Ad esempio era scaramantico: il numero 13, i gatti neri. Ed è falso quel che raccontano sulla sua parsimonia a tavola: “Siamo stati a cena da Gianni e abbiamo mangiato un’acciuga e un pisello…”».

Invece?

«Si mangiava bene e sano. In barca poi mangiava più volentieri: pasta al pomodoro e pesce fresco. Si divertiva a tirare sul prezzo: il pescatore chiedeva 100, lui chiudeva a 80. Poi gli dava 100 lo stesso. Ma voleva far vedere che sapeva trattare».

Anche sull’arte?

«Di musica non capiva niente, ma di pittura era un vero esperto. Una volta si disputarono un Basquiat da un milione di dollari lui e Madonna».

Madonna?

«Agnelli le disse: non lo trova un po’ caro? Lei rispose: non per me, per me è solo una canzone in più. L’Avvocato ne fu molto divertito: just another song… E le lasciò il Basquiat».

Ferrari o Juve?

«La Ferrari lo appassionava perché era sua; la Juve era un vero amore. Nell’intervallo scendeva negli spogliatoi: Trapattoni era un po’ seccato, ma non lo dava a vedere. Si divertiva a punzecchiare Boniperti, a ricordargli che si era lasciato sfuggire Maradona. Adorava Platini e Boniek, che trovava molto spiritoso. Mi raccontò che l’ingaggio prevedeva una parte in nero: Boniek la prese e se la infilò nei pantaloni, proprio lì…».

Le pare possibile?

«Di recente ho visto Boniek qui a Roma, e gliel’ho chiesto. In polacco, per lasciarlo libero di rispondere senza che nessuno, oltre a me, capisse. Mi ha assicurato di no, che era uno scherzo dell’Avvocato».

È vero che amava il pericolo?

«Sì. Ricordo un atterraggio nella nebbia in elicottero. Il pilota disse: non so se riusciremo. L’Avvocato ordinò di provare lo stesso. Oppure si faceva portare sulla sua barca, l’F100, dove cento sta per i piedi: 30 metri, non certo i mega-yacht di oggi; ma si poteva atterrare l’elicottero, con il mare calmo».

E con il mare agitato?

«Il pilota planava, noi ci spogliavamo e ci gettavamo in acqua. Il vero pericolo lo corse su un’altra barca, lo Stealth: sbagliò manovra, finì su uno scoglio, il timone che teneva sino a un attimo prima saltò in aria, per poco non lo trapassò. Visse l’incidente come uno smacco, perché era un ottimo velista: una volta a Bonifacio entrò a vela in una gola che tutti percorrono a motore, tra gli applausi dei presenti… Ho sempre avuto l’impressione che l’Avvocato cercasse una morte violenta, improvvisa».

Invece ha avuto una malattia lenta e dolorosa.

«Dolorosa non credo, o comunque non se ne lamentava. E poi non sapeva di dover morire».

Come fu il vostro addio?

«Non ci fu nessun addio, e mi sarei sorpreso del contrario».

Come? Lei era il suo migliore amico.

«Ma lui non era un sentimentale. E poi detestava i finali. Anche allo stadio andava via sempre prima della fine del match. Ha fatto così anche con la vita».

Le Memorie di Da liberoquotidiano.it il 7 gennaio 2023.

Esiste un libro di memorie scritto da Gianni Agnelli. Un memoir mai pubblicato e che probabilmente tale sempre resterà, per volontà di Jas Gawronski, l'unico uomo a possedere quelle carte. Intervistato dal Foglio, il grande giornalista icona di stile e tra gli ultimi testimoni di quella che fu l'epopea degli Agnelli, i Kennedy italiani, svela l'esistenza di quelle pagine, che l'Avvocato elaborò a quattro mani con Roger Cohen, "giovane giornalista corrispondente da Roma per il New York Times, che gli presentai io".

 "Il libro, che sarebbe stato un sicuro bestseller, è scritto in inglese, sono le memorie dell’Avvocato, che nessuno ha mai letto e nessuno mai leggerà - spiega il quotidiano diretto da Claudio Cerasa -. A un certo punto, dice Gawronski, ad Agnelli venne infatti lo sfizio di scrivere lui un libro, su di sé". Con Cohen "cominciarono a fare delle lunghe conversazioni. L’idea di fare un libro colpisce particolarmente perché l’Avvocato – dice Gawronski – era refrattario a ogni forma di scrittura; era un essere completamente orale, in un paese di grafomani, un uomo che non ha lasciato niente di scritto, un appunto, una lettera, tantomeno un diario.

 'Odiava scrivere, a mano o ancor meno al computer, che non ha mai imparato a usare. Forse a un certo punto cambiò idea, perché quel giornalista americano gli era molto simpatico, forse perché lo divertiva l’idea". Poi, di punto in bianco, l'Avvocato decise di voltare pagina, di lasciare perdere. Restano i racconti delle estati trascorse a Forte dei Marmi, del momento in cui si rende conto che il padre è rimasto ucciso in un incidente con l’idrovolante, del fascismo, di Napoli. Tutto con l'"io" dell'Avvocato.

Nell'ultimo libro scritto da Gawronski, invece, il giornalista sostiene che Agnelli "in qualche modo aveva previsto le beghe ereditarie devastanti sorte dopo la sua morte", sottolinea il Foglio. "Sì, e forse avrebbe potuto fare qualcosa di più per sistemare le cose - sottolinea Gawronski -. Dal punto di vista legale non c’è dubbio che Margherita ha ragione, dal punto di vista dello stile direi che avrebbe potuto evitare di infangare la memoria di una persona e di una famiglia, anche perché, diciamo, non è che abbia problemi di sussistenza". C'è anche un passaggio, struggente, sulla morte: Agnelli voleva morire in mare, "magari in un incidente in barca". Non andrà così.

Estratto dell’articolo di Ettore Boffano per “il Fatto quotidiano” il 19 gennaio 2023.

 Se ne va l'ultimo Agnelli che porta il cognome simbolo del nostro capitalismo familiare. Travolto dallo scandalo Juventus, Andrea, figlio di Umberto, ha annunciato il congedo anche dalle cariche in Exor […] e in Stellantis […].

 Una sua condanna, infatti, peserebbe su quel cognome e sulla possibilità di rivestire cariche sociali. Meno palesi invece, e tutte futuribili, le ragioni interne alla famiglia e soprattutto, riguardo ai rapporti tra l'ala "umbertiana" (penalizzata a lungo dai silenzi dell'Avvocato e dai diktat di Cesare Romiti ed Enrico Cuccia) e quel John Elkann che non si chiama Agnelli, ma è l'erede del nonno come capo famiglia.

Chi prenderà il posto di Andrea in Exor, più che in Stellantis? La sorella Anna che possiede la metà del loro pacchetto di azioni?

 O addirittura Allegra, la vedova di Umberto? E che effetti avrà tutto ciò sulla Giovanni Agnelli Bv, l'altra società che raccoglie tutti gli eredi della dinastia e controlla il 52 per cento di Exor?

 Oggi il 38 per cento è in mano a Dicembre (John e i fratelli Lapo e Ginevra). Sino a pochi mesi fa, Anna e Andrea erano al secondo posto con il 12 per cento, ora sono scesi all'11,85, come ha ricostruito il Sole 24 Ore, scavalcati dal ramo di Maria Sole Agnelli, salito al 12,32. Un segnale del prossimo abbandono dei discendenti di Umberto? […]

Estratto dell’intervista a Lapo Elkann di Walter Veltroni per “Oggi” il 19 gennaio 2023.

 (…)

 Mi racconta quell’ultimo viaggio con suo nonno?

«Ero a New York perché allora lavoravo presso l’ufficio di Kissinger. Andavamo spesso insieme a trovarlo. Io cercavo di distrarlo. Ricordo che gli portai persino una tigre bianconera. Quando decise di tornare a Torino, gli dissi che volevo stare con lui, che mi sarei licenziato. Mi rispose che ero un fesso, che avevo un buon lavoro e che dovevo restare in America.

 A mia volta gli dissi che, se quello era accaduto, era grazie a lui. E che tutto quello che avevo o avevo fatto lo dovevo a lui. Allora ero un ragazzo e lui mi appariva come una specie di supereroe. Se avesse sbagliato lo avrei difeso. Si fa così, quando ci si vuole bene. Si fa così, in una famiglia. Il giorno dei funerali ci accorgemmo che tutte le agenzie di pompe funebri usavano delle Mercedes. Non potevo consentire che mio nonno se ne andasse su ruote tedesche. Allora, merito dei lavoratori di Fiat Auto, fu allestito in fretta e furia un monovolume Ulisse per fargli fare l’ultimo viaggio con un’auto che avesse quelle quattro lettere impresse sul marchio».

Ricorda le ultime parole che le disse?

«Le ricordo con emozione: “Tu, tuo fratello e tua sorella dovete stare uniti. Evitate conflitti, evitate litigi. State uniti, vi prego”. E così è stato, come lui Edoardo era il mio zio preferito. Io per primo e tutta la nostra famiglia avremmo dovuto fare di più, stargli più vicino voleva. Tra difficoltà e differenze non abbiamo mai perso affetto e collaborazione. Siamo tre persone diverse per carattere, formazione e talenti, ma siamo uniti. E, per me, questo è un messaggio generale. Si può, si deve convivere rispettando identità e differenze. Il mondo non è fatto per essere abitato da persone uguali, ma da quella meraviglia che è la pluralità di culture, linguaggi, comportamenti, idee, religioni».

 Che rapporto aveva con la politica? Scalfari una volta lo intervistò, alla metà degli anni Settanta, chiedendogli addirittura se era vero che lui fosse diventato di sinistra.

«Con la politica aveva un rapporto di rispetto e di distanza. Aveva l’abitudine di dire sempre quello che pensava e non quello che poteva piacere. Il suo obiettivo non era conquistare consenso, ma difendere il ruolo della sua azienda e del suo Paese. Sapeva bene che questi due obiettivi erano compatibili ma non sovrapponibili. E però cercava concordia, non divisione. Non amava i recinti e le discriminazioni. Tentò con Peres e Arafat di costruire una fabbrica Fiat nella Striscia di Gaza, pensava avrebbe aiutato la pace tra quei due popoli».

 Tu, John e Giovanni Alberto avete fatto esperienze come operai nelle fabbriche del gruppo.

«Da ragazzo ero uno studente un po’ indisciplinato. Non ebbi paura di cambiare. Andai per alcuni mesi in Piaggio alla linea 2, sui tre turni, dove si facevano ammortizzatori e cavalletti. Avevo 18 anni, ora ne ho 45. Sono stato lì due mesi ma ancora oggi saprei ripeterti i movimenti che servivano in linea di montaggio. Il lavoro lì è pesante, ripetitivo, stancante. Averlo visto da vicino, averlo condiviso, ti aiuta a capire quanto sia dura quella condizione umana e professionale. Scioperai persino contro mio cugino Giovanni».

 (...)

 Ti va di parlare di Edoardo? Il suo suicidio, nel 2000, colpì tutti.

«Edoardo era il mio zio preferito, gli ho voluto molto bene. Nei miei confronti aveva un atteggiamento protettivo. Ricordo che da ragazzo volevo una macchina veloce e lui era preoccupato che mi facessi del male. Era un uomo profondo e sensibile, con dei grandi talenti. Aveva studiato religione a Princeton, una scelta molto coraggiosa, pensando alla famiglia di provenienza. Mio zio coltivava mille talenti. Non si è detto a sufficienza quanto lui abbia fatto per creare occasioni di dialogo interreligioso. Era una persona pura. Che conviveva con la sofferenza.

 Ricordo tanti momenti belli e anche quelli più tragici. Come la sua morte. Edoardo aveva problemi con le sostanze, come li ho avuti io. Nel suo tempo era qualcosa che andava nascosto, una vergogna. Oggi nel mondo anglosassone tante persone di successo non fanno mistero di curarsi dalle diverse forme di dipendenza: droga, alcol, cibo, gioco. Io ho avuto la possibilità di combattere i demoni che avevo dentro e di uscirne fuori. Edoardo non ha potuto, 25 anni fa il disagio non aveva cittadinanza.

 Era da nascondere. Edoardo ha avuto molte dita puntate contro, molte sentenze emesse a vanvera. Ma quante persone oggi sono uscite dalla dipendenza, hanno ruoli importanti e conducono vite rispettate? A Edoardo questo allora non fu concesso. E penso, è solo una mia opinione, che io per primo e tutta la nostra famiglia avremmo dovuto fare di più, stargli più vicino. Quando è morto, mia nonna ha mostrato tutta la sua forza, la sua capacità di convivere con il dolore. Mio nonno è morto due anni dopo. Non credo sia stato un caso. A Edoardo ho voluto e voglio molto bene e lo considero, ancora oggi, uno dei miei angeli custodi».

 Passiamo ai due amori dell’avvocato. Cominciamo dalla Ferrari.

«Come ho detto, lui salvò il Cavallino rampante evitando fosse venduto agli americani. Poi scelse le persone giuste: Luca di Montezemolo e Jean Todt. Lui stravedeva per le macchine Ferrari. Amava tutte le cose belle della vita. Non basta essere ricchi per apprezzare il bello. Il gusto non si compra. Il suo pilota preferito era quello che vinceva. Credo abbia per questo molto amato Michael Schumacher. Poi gli piaceva Gilles Villeneuve, il suo modo di guidare. E Ayrton Senna, che se non fosse morto in modo così tragico, l’anno dopo sarebbe venuto in Ferrari. Amava il talento e il coraggio e li riconosceva anche negli avversari. Era un vero uomo di sport».

 Juventus. In una celebre intervista a Enzo Biagi, che gli chiedeva cosa pensasse del fatto che Tommaso Buscetta si fosse dichiarato juventino, Agnelli rispose, dopo un sospiro: «Sarà l’unica cosa di cui non dovrà pentirsi».

«Per mio nonno la Juve era molto. Era la dimensione ludica della sua vita? Non solo. Lui ha amato Platini, Sivori, Del Piero, Vialli, Zidane e, tra i tecnici, Lippi e Trapattoni. Ma il suo legame di sangue con la maglia bianconera nasce più lontano. La Juventus fu fondata da suo padre, che morì giovane in un incidente con l’idroplano che lo decapitò. Gianni Agnelli apprese la notizia dai megafoni con i quali, allora, gli strilloni gridavano i titoli dei giornali che vendevano. Qui vorrei dire una cosa. Molti pensano che mio nonno si sia solo goduto la vita, che la sua esistenza sia stata una cavalcata trionfale e spensierata. Non è così. Ha fatto la guerra, ha visto morire giovani sua madre e suo padre, ha quasi perso una gamba in un incidente, gli è morto un figlio. Forse il suo amore per la vita nasceva proprio dalla precoce e ripetuta frequentazione con la morte».

(..)