Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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WEB TV: TELE WEB ITALIA

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 L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2023

LA MAFIOSITA’

QUINTA PARTE


 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
 


 

LA MAFIOSITA’

PRIMA PARTE


 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Ascesa di Matteo Messina Denaro.

L’Arresto di Matteo Messina Denaro.

La Morte di Matteo Messina Denaro.


 

SECONDA PARTE


 

SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Lotta alla mafia: lotta comunista.

L’inganno.

Le Commissioni antimafia e gli Antimafiosi.

I gialli di Mafia: Gelsomina Verde.

I gialli di Mafia: Matteo Toffanin.

I gialli di Mafia: Attilio Manca.

Gli Affari delle Mafie.

La Mafia Siciliana.

La Mafia Pugliese.

La Mafia Calabrese.

La Mafia Campana.

La Mafia Romana.

La Mafia Sarda.

La mafia Abruzzese.

La Mafia Emilana-Romagnola.

La Mafia Veneta.

La Mafia Lombarda.

La Mafia Piemontese.

La Mafia Trentina.

La Mafia Cinese.

La Mafia Indiana.

La Mafia Nigeriana.

La Mafia Colombiana.

La Mafia Messicana.

La Mafia Canadese.


 

TERZA PARTE


 

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Stragi di mafia del 1993.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: l’Arresto di Riina.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Depistaggio.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Depistaggio. La Trattativa.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Depistaggio. La Trattativa-bis: “’Ndrangheta stragista”. 

Gli Infiltrati.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Delitto di Piersanti Mattarella.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Delitto di Pio La Torre.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Strage di Alcamo.


 

QUARTA PARTE


 

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Concorso esterno: reato politico fuori legge.

La Gogna Territoriale.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Ipocrisia e la Speculazione.

Il Caporalato dei Giudici Onorari.

Il Caporalato dei fonici, stenotipisti e trascrittori.

Il Caporalato della Vigilanza privata e Servizi fiduciari - addetti alle portinerie.

Il Caporalato dei Fotovoltaici.

Il Caporalato dei Cantieri Navali.

Il Caporalato in Agricoltura.

Il Caporalato nella filiera della carne.

Il Caporalato della Cultura.

Il Caporalato delle consegne.

Il Caporalato degli assistenti di terra negli aeroporti.

Il Caporalato dei buonisti.


 

QUINTA PARTE


 

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Usura.

Dov’è il trucco.

I Gestori della crisi d’impresa.

SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le Caste.

Pentiti. I Collaboratori di Giustizia.

Il Business delle Misure di Prevenzione.

I Comuni sciolti ed i Commissari antimafia.

Le Associazioni.

Il Business del Proibizionismo.

I Burocrati.

I lobbisti.

Le fondazioni bancarie.

I Sindacati.

La Lobby Nera.

I Tassisti.

I Balneari.

I Farmacisti.

Gli Avvocati.

I Notai.


 

SESTA PARTE


 

LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La P2: Loggia Propaganda 2.

La Loggia Ungheria.

Le Logge Occulte.

CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Censura.

Ladri di Case.
 


 

LA MAFIOSITA’

QUINTA PARTE


 

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La pm antimafia Dolci: «Usura, un reato oscuro tra paura e connivenza». Storia di Simone Marcer su Avvenire il 27 maggio 2023.

In tutta la Lombardia l’anno scorso ci sono state undici denunce per usura. Ed è un dato in linea con gli anni precedenti. L’usura si conferma "un reato a elevatissima cifra oscura", per usare le parole della coordinatrice della Dda di Milano Alessandra Dolci. "Le richieste di accesso al fondo di assistenza economica alle vittime di usura sono pochissime. Dai centri di ascolto antiusura e dalla rete di segnalazione della diocesi attivata dall’arcivescovo Delpini con la lettera ai parroci sull’usura e criminalità organizzata non abbiamo riscontri (parlo come Dda)", sostiene Dolci.

Perché l’usura non si denuncia?

C’è il timore di subire gravi atti di ritorsione, ma c’è anche un rapporto tra usuraio e vittima che è quanto mai mutevole; può esserci sudditanza, talvolta connivenza o addirittura collusione. A volte la persona indebitata si sente quasi beneficiata del prestito, altre volte finisce per collaborare con il proprio usuraio. È successo anche che la stessa vittima abbia fatto da procacciatore per l’usuraio. Naturalmente stiamo parlando dell’usura gestita dalla criminalità organizzata, non di quella del cravattaio di quartiere.

Che importanza ha l’usura nelle attività dell’holding ‘Ndrangheta?

L’usura per la criminalità organizzata è tradizionalmente un modo per riciclare denaro. Lo era soprattutto negli anni passati. Qualche collaboratore di giustizia ci diceva: "I soldi li reinvestiamo al Nord perché lì possiamo chiedere tassi più elevati". Ma sono elementi investigativi ormai datati. Ora l’usura è finalizzata anche a inserirsi e a rilevare le attività economiche, e il ricorso alla violenza è veramente residuale. La nostra attenzione è focalizzata sulle cooperative di servizi, che spesso sono meri contenitori di manodopera. È un sistema complesso: abbiamo un committente, che è un’impresa medio grande e che appalta ed esternalizza i servizi in favore di consorzi di cooperative, le quali sono scatole vuote (meri contenitori di manodopera e sostanziali bare fiscali): non pagano imposte, né contributi che compensano con crediti fittizi attestati da fatture false. Di questo sistema si avvantaggia il committente, che abbatte i costi di lavoro e ha una serie di servizi a prezzi fuori mercato. È un fenomeno grave: crea danno all’erario, ai lavoratori, i cui contributi non vengono versati, e soprattutto finisce per drogare il mercato consentendo a una serie di aziende di essere leader di una fetta di mercato proprio perché possono avvalersi di una serie di servizi (pulizia, facchinaggio, logistica, trasporti ecc.) a prezzi vantaggiosi. Questo è il sistema che stiamo monitorando anche attraverso le segnalazioni bancarie di operazioni sospette che attestano flussi ingiustificati di denaro ed inoltre siglando protocolli d’intesa con le sezioni fallimentari dei tribunali del Distretto. Ciò al fine di sensibilizzare i curatori fallimentari, che sono i primi ad avere contezza di questi “fallimenti annunciati”. Una visione parcellizzata dei singoli fallimenti non porrebbe invece in evidenza la gravità del fenomeno. Nelle indagine “Cavalli di razza”, nel Comasco, i fallimenti sono stati 20. In queste inchieste abbiamo anche documentato il fenomeno della “transumanza dei lavoratori”: centinaia di persone che passano dalle dipendenze di una società all’altra e che spesso non sanno chi è formalmente il loro datore di lavoro (la bara fiscale di turno).

Lei ha definito la Dda un “osservatorio privilegiato”. Se dovesse spiegare, in base alle indagini, qual è la realtà che non vediamo come la definirebbe?

Un fiume di denaro. In contanti. L’usura stessa è praticata con la consegna e restituzione di denaro contante. Una limitazione della circolazione del contante favorirebbe di per sé il decremento del fenomeno. Ma questo è un paese dove c’è un’imponente economia sommersa, dove si mischiano spesso il denaro che proviene dal traffico della droga con i proventi dell’evasione fiscale. Tutti noi bene o male utilizziamo forme di pagamento elettronico. Invece, quando siamo bravi e fortunati nelle nostre indagini, sequestriamo grossi quantitativi di denaro. Anche dalle chat criptate acquisite a seguito di indagini delle autorità francesi, abbiamo avuto modo di vedere in foto enormi quantitativi di denaro stoccati in diversi siti. La dimensione aterritoriale delle mafie, che occupano sempre più vasti settori economici, richiede una particolare formazione professionale anche a noi investigatori. Se fino a 20-30 anni fa il pm antimafia si occupava soprattutto di traffici di droga, di usura, estorsioni, e comunque di reati a connotazione violenta, ora deve avere una specifica preparazione per i reati a connotazione economica. Io oggi mi occupo perlopiù di fatture fittizie, bancarotte, indebite compensazioni di crediti d’imposta fittizi, cosa che non avrei mai immaginato 20 anni fa facendo Dda.

Le mafie hanno cambiato faccia

La ‘Ndrangheta in particolare ha una grandissima capacità di adattamento. Ha una struttura federativa, a differenza di Cosa Nostra, che è verticistica, e già questo facilita la replica di un modello: sono collegati ma ciascuna struttura è autonoma. E poi ha una visione strategica. Dopo l’indagine Infinito-Crimine del 2010…sembra passato un secolo… avevamo istituito con le forze di polizia il monitoraggio dei reati spia (la busta con il proiettile a un amministratore pubblico o a un imprenditore, la ruspa incendiata, la sventagliata di mitra contro le vetrine di un locale pubblico): erano centinaia a cavallo del 2010, ora sono pochissimi. Da allora non c’è stato più un omicidio di ‘Ndrangheta. Dopo quell’indagine, nel corso della quale abbiamo documentato 24 summit, hanno fatto esperienza e ne hanno tratto le debite conseguenze: stop alle riunioni, anche l’attività di intercettazione è diventata difficilissima. Se devono “ndranghetiare”, (parlare di ‘Ndrangheta), lo fanno in mezzo alla strada, e non portano con sé i telefoni cellulari. Al telefono o in macchina parlano più liberamente di affari, e allora diviene più semplice contestare, anziché il 416 bis, i reati a connotazione economica con aggravante dell’agevolazione mafiosa. È stato un passaggio che denota una visione strategica che arriva dalla casa-madre calabrese, la quale ha sempre privilegiato il “fare affari” nei territori dell’Italia settentrionale. "Meglio un brutto accordo che una bellissima guerra": ecco una perla di saggezza intercettata nelle nostre indagini. E ancora: "La guerra porta solo disgrazie, la pace è buona per tutti". Qual è allora l’evoluzione? La gestione di settori economici a bassa intensità tecnologica e ad alta presenza di manodopera. Ora quindi dicono: "Gestiamo le braccia. Offriamo dei servizi". Il modello di impresa attuale è molto diverso rispetto a 20-30 anni fa e il fatto che molte aziende abbiano previsto l’esternalizzazione di parte dei servizi di manodopera è significativo. Il mondo del lavoro è radicalmente mutato e i mafiosi si sono inseriti in questo segmento gestendo la manovalanza.

La ‘Ndrangheta è cambiata, ma è cambiato anche il modo in cui viene vista?

Se faccio estorsioni, uso metodi brutali ed è ovvio che sono considerato un corpo estraneo. Ma se emetto fatture fittizie mi comporto come molti altri da sempre. E così quando li prendiamo cadono dalle nuvole e ci dicono: "Ma quale mafioso? Io faccio false fatture come tanti altri in questo Paese". La ‘Ndrangheta cerca il consenso e l’accettazione: "Noi facciamo quello che fanno tanti imprenditori", dicono. E il consenso sociale è in crescita, con rischi seri e gravi per l’economia. Trovo sorprendente che soggetti che hanno già condanne per appartenenza alla ‘Ndrangheta siano considerati dal contesto sociale operatori socio-economici e interlocutori affidabili per fare affari. Manca veramente il discredito sociale. Allora mi cadono le braccia e dico: è tutto inutile.

Come prevenire le infiltrazioni per i lavori di Milano-Cortina 2026?

Avevo chiesto di prendere spunto dal protocollo Expo per il controllo sui contratti e subappalti, sui flussi di manodopera e sulla tracciabilità dei flussi finanziari, ma così non è stato. Era anche più complesso da realizzare visto che le Olimpiadi riguardano un contesto più ampio della Città metropolitana, con diverse prefetture interessate e con investitori privati. Nel caso di Expo fu fatta una legge ad hoc, ora è stata fatta una scelta politica diversa. Quindi saranno le singole prefetture a monitorare la situazione in prima battuta. Prefetture che peraltro sono molto presenti. Le interdittive antimafia sono in crescita e sono uno strumento efficacissimo; bisognerebbe quindi rafforzare gli organici degli uffici prefettizi.

Come vengono gestiti i beni confiscati?

Sono beni gestiti spesso da associazioni che fanno capo alla diocesi e fanno un’opera meritoria. L’arcivescovo ha a cuore il tema della presenza delle mafie nel nostro territorio e abbiamo fatto, con il suo sostegno, degli incontri con i sacerdoti dei decanati. Inoltre le associazioni cattoliche gestiscono nel modo migliore i beni confiscati. Penso alla masseria di Cisliano, confiscata alla famiglia Valle, con don Massimo Mapelli che riesce a coinvolgere i ragazzi come nessun altro. L’anno scorso abbiamo inaugurato un terreno a Quinto Sole, alla periferia di Milano, confiscato a uno ‘ndranghetista: era inselvatichito e i ragazzi l’hanno ripulito. Adesso c’è una serra con ortaggi. È stata una bellissima giornata, c’era il prefetto c’erano i ragazzi che lavoravano e cantavano felici. Bravi!... Proprio bravi! Sono esempi assolutamente positivi perché abbiamo bisogno di un aiuto da parte dei giovani. Ci possono dare una mano anche con un lavoro manuale, che però consente di fare gruppo e soprattutto di riconoscersi in determinati valori. Lavorare insieme per restituire alla collettività un bene confiscato, togliere terreno alle mafie facendo crescere una cultura di rispetto delle istituzioni, dei beni comuni, dei valori della legalità e del senso civico: c’è un significato concreto e insieme profondo in tutto ciò.

Case all’asta.

Il Trucco.

Case all’asta.

VITE ALL'ASTA. La disperazione di Teresa: “Per un debito di 4mila euro mi pignorano la palazzina da 1,5 milioni di euro”. Sabato 13 novembre è previsto sgombero, già rinviato il 13 ottobre scorso: "ma io non intendo uscire da casa mia, non solo perché non saprei dove andare, ma perché è totalmente ingiusto ciò che ci sta capitando. Qualcuno vuole insabbiare la verità". Redazione basilicata24.it il 04 Novembre 2021

“Vi chiedo di dare notizia della mia storia, raccontata in sintesi nella nota che allego, per cui ci hanno pignorato 4 appartamenti per un debito di 4 mila e cinquecento euro. Sabato 13 novembre è previsto lo sgombero, già rinviato il 13 ottobre scorso, ma io non intendo uscire da casa mia, non solo perché non saprei dove andare, ma perché è totalmente ingiusto ciò che ci sta capitando: per 4 mila euro non si pignorano 4 appartamenti!” 

Questo è l’appello della signora Teresa che noi accogliamo e perciò pubblichiamo integralmente la sua nota. L’appello è stato inviato a molti organi di stampa oltre che al presidente Mattarella, al ministro dell’Interno, al ministro della Giustizia, al Tribunale di Trani, alle procure di Trani e Lecce, alla Direziona nazionale antimafia, al Csm.

“Io Cataldo Teresa sono una donna e una mamma italiana truffata dalla Giustizia e tradita vigliaccamente dalle istituzioni. Facendo mille sacrifici e rinunce, io e mio marito Antonelli Mauro siamo riusciti a costruire una casa per noi e i nostri tre figli; abbiamo comprato un terreno in periferia di Terlizzi (oggi vico II Macello n. 3) ed abbiamo costruito la nostra casa, per poter abitare assieme ai nostri figli e poter chiudere la nostra esistenza tra gli affetti (secondo il desiderio di tutte le famiglie). Invece no!

Ad un certo punto, senza che noi ne sapessimo nulla, in modo inizialmente invisibile, nasce nella testa di qualche faccendiere locale, che ha le amicizie ‘giuste’, il progetto di una lottizzazione che vede anche la nostra casa all’interno di essa (come un fastidio da rimuovere). Che si fa allora, si rinuncia alla lottizzazione?  Ma certo che no, ci mancherebbe; si elimina la famiglia, anzi si eliminano (e senza pudore) ben quattro famiglie.

E siamo arrivati ad oggi!

Questa volontà di eliminarci viene di fatto realizzata attraverso un’esecuzione immobiliare che pende al tribunale di Trani (numero 184/2012 R.G.Es) in cui è previsto lo sgombero tra pochi giorni, ovvero il 13 novembre 2021.

L’esecuzione immobiliare in danno della mia famiglia è lo specchio di quanta illegalità si trova in alcune sezioni dei tribunali (e per quel che mi riguarda Trani). Essa è nata per un debito di poco più di 4 mila euro; per soli 4.752,84 euro ci viene fatto un pignoramento su tutti e quattro gli appartamenti, il cui valore di mercato è di certo di oltre 1 milione di euro, anche se sottostimato dal perito del tribunale in poco meno di ottocento mila euro (e qui è la prova del fatto che con la nostra palazzina familiare davamo fastidio a ‘qualcuno’).

Tutti dicono che non è possibile tutto questo, ma garantisco che se è anche pare incredibile, è così – e a riprova della verità di quanto dico dal punto di vista tecnico e giuridico, ho chiesto al mio nuovo avvocato di controfirmare questa mia lettera.

Ma c’è dell’altro, che solo a pensarci su genera rabbia

Il debito di quattro mila euro rinviene da una condanna alle spese del 2011 che riguarda il solo mio marito, Antonelli Mauro, in una vicenda giudiziaria civile come tante (nella quale pare che abbia pure ragione lui). Nel frattempo, era accaduto che dal regime patrimoniale di comunione tra coniugi, che avevamo all’epoca dell’acquisto del terreno su cui abbiamo costruito la nostra palazzina familiare, siamo passati a quello della separazione, con atto notarile dell’anno 1984. In conseguenza di ciò, l’unico chiamato a rispondere di quel debito di 4 mila euro (vero o farlocco che sia) era mio marito e solo lui, non io; non potevano pignorare la mia quota di proprietà immobiliare se col debito io non ho a che fare, la legge così dice.

E loro che fanno? Vanno avanti anche contro di me, come un caterpillar

Le stranezze sono tante: il CTU del tribunale, anche se richiestogli, non dice nulla nella perizia di quella che è la provenienza del bene che vogliono toglierci e della sua appartenenza anche a me. Ad un certo punto, nel fascicolo della procedura esecutiva, viene prodotto un estratto di certificato di matrimonio che però posticipa di dieci anni il matrimonio che io ho contratto con mio marito: e così dal 7 ottobre 1969 risultiamo sposati il 7 ottobre 1979! Un errore? Non ci credo manco se mi ammazzano!  Perché lo hanno fatto? Forse per introdurre un elemento che consenta di poter dire che il bene è solo di mio marito.

Ma in verità, l’acquisto del terreno dove abbiamo costruito la nostra palazzina è dell’anno 1976, quando ero già sposata ed ero in comunione dei beni con mio marito; evidentemente ‘qualcuno’ avrà capito che come hanno condotto avanti la procedura esecutiva non si poteva fare, non si poteva agire contro di me, ed ha escogitato l’idea di posticipare, sulla carta, la data del mio matrimonio ad un’epoca successiva all’acquisto del terreno. Ma mio marito c’era già accanto a me nell’anno 1976 e l’acquisto e la realizzazione è stata fatta in comunione dei beni con me: quindi metà della palazzina è mia.

La LEGGE dice che io avrei dovuto essere messa al corrente della procedura e che non posso subire la diminuzione di valore della mia proprietà se non c’entro col debito e non sono in comunione legale dei beni col debitore; ma niente da fare, nessuna legalità si può sperare se esiste il progetto di un ‘qualcuno’ che, per speculazione e vil denaro, con le amicizie ‘giuste’ al posto ‘giusto’, a mezzo di coperture e insabbiamenti, ottiene di poterci eliminare.

Negli anni, mio marito ha taciuto al resto della famiglia il problema, certo di risolverlo (in fondo erano pochi soldi, anche a voler considerare quelli che una banca ha chiesto intervenendo nella procedura e che sono assolutamente abbordabili da noi), ma non c’è stato Santo in paradiso.

Solo da poco ho appreso che negli anni mio marito, a mezzo di tanti avvocati, ha chiesto, più volte, al giudice dell’esecuzione di ridurre il pignoramento solo ad uno degli immobili (appartamento o terreno, quello che volevano) perché lo prevede la legge (art. 496 c.p.c.), ma il giudice ha sempre detto di no, ritenendo legittima la condotta di chi per soli 4 mila euro pignora un patrimonio immobiliare di 200/300 volte superiore; stesso discorso per tutte le opposizioni e le istanze fatte, di sospendere ed estinguere!

Mi risulta che tutto il terreno che circonda la mia casa (che è terreno urbano) e che è di circa 800 metri quadri non è stato mai pignorato, non essendo contemplato nell’atto di pignoramento iniziale, con la conseguenza che chi ha comprato non può appropriarsene, ma ora che conosciamo meglio a che “illegalità” sono giunti, io lo temo ci toglieranno anche questo! Io non so quanto c’entrino e se c’entrino, ma mi è stato detto che il presidente della sezione esecuzioni del Tribunale di Trani, sia il fratello del CTU della procedura in cui stanno colpendo anche me, pur senza esecutarmi, e che altro magistrato che è intervenuto nella vicenda giudiziaria di mio marito, tale…, abbia lo stesso cognome del marito dell’aggiudicataria di casa mia…; io non lo so se c’entrino, ma tutto ora mi parla di sospetto!

Sono passati gli anni, mio marito ha speso tanti soldi della nostra famiglia per difenderci ed ha coltivato speranze, per ritrovarci tutti, alla fine, ad essere sbattuti fuori di casa da uno Stato che agisce peggio della peggio mafia che dice di combattere. E magari avessimo avuto a che fare con la malavita, di certo qualcosa ce lo avrebbe lasciato.

Oggi io vivo nel terrore di essere buttata fuori casa e di non sapere dove andare, di perdere tutto per un debito minimo e nemmeno io, a botta di illegalità commesse con le coperture giuste da pezzi dello Stato e nell’inerzia della Procura che nicchia quando, come sa, ove dovesse scavare, troverebbe le responsabilità anche di alcuni giudici che questa storiaccia l’hanno consentita; dimagrisco alla giornata, ingoio veleno ogni giorno, vedendo la paura crescere attorno a me, vedendo mio marito colto da un senso di sgomento e fallimento per non aver risolto una situazione banale, vedendo i miei figli rimproverare il padre che ha taciuto pensando che avrebbe risolto tutto da sé, e respirando un’aria di disfatta il cui tanfo è costantemente nelle mie narici.

Io sono una dei tanti uccisi dalla giustizia italiana e chiedo, anzi pretendo, che chi di dovere avvii un’ispezione presso il Tribunale di Trani per verificare la legittimità degli atti della vicenda espropriativa che mi sta coinvolgendo.

No, mi dispiace… IO NON CI STO!”

Cataldo Teresa, Terlizzi (BA) 

Non è esecutato, non è fallito, non è debitore, ma gli tolgono la casa. "Lascia stare la legge". Cronaca di un’assurda vicenda di ordinaria ingiustizia. Ecco come è andata a finire. Redazione inchieste basilicata24.it il 21 Settembre 2023

L’articolo che qui riproponiamo è del 16 settembre 2020. Lo riproponiamo aggiungendo oggi un altro paragrafo: Come è andata a finire? 

Lui, Alessandro, non è il debitore. Lo era la madre proprietaria della metà dell’immobile andato all’asta. L’altra metà era del padre da cui Alessandro ha ereditato. Ma procedono comunque alla vendita anche della proprietà di chi debitore non lo era e non lo è e che non è assolutamente toccato dal decreto esecutivo. C’era già un ricorso, ritenuto fondato dal giudice il quale ha sospeso la vendita. Ma…

Nel momento in cui si discute il ricorso nascono problemi. Il giudice che lo aveva ritenuto fondato adesso torna sui suoi passi e lo rigetta ritenendo l’opposizione alla vendita manifestamente infondata. Misteri della giustizia? Macché. “Lascia stare la legge!” Il 7 settembre provano ad eseguire lo sgombero dell’immobile ormai già venduto a prezzo vile, ma lo sgombero non si può fare: perché?

Quell’immobile è dimora principale di Alessandro, esiste una norma che prevede la sospensione o l’annullamento delle operazioni di sgombero fino al 31 ottobre (Legge 27/2020, art. 54). Lo sgombero sarebbe avvenuto in violazione delle procedure (art. 560 del codice di procedura civile: “Quando nell’immobile si trovano beni mobili che non debbono essere consegnati, il custode intima alla parte tenuta al rilascio di asportarli, assegnando ad essa un termine non inferiore a trenta giorni, salvi i casi di urgenza da provarsi con giustificati motivi. Trenta giorni? Lo dice la legge, “ma la scia stare la legge!”

Con una motivazione d’urgenza non motivata il custode concede 22 giorni per l’asportazione dei beni mobili collocati nell’abitazione.

Il custode già il 7 settembre si presenta accompagnata dalla forza pubblica e il fabbro, dimenticando che si stava agendo contro un soggetto che nulla ha a che fare con il debito e che è privato di casa sua, svenduta a prezzo vile in violazione di legge.

La storia, sul piano legale è piuttosto complessa, ma ci basti dire in questo momento che l’esecuzione in danno del povero Alessandro è viziata sotto molteplici profili. Senza essere toccato dal titolo esecutivo, si è visto svilire la sua proprietà al di fuori di una qualsivoglia ragione legale che la giustificherebbe. Ma tant’è. Mentre l’avvocata difensore di Alessandro il giorno del tentato sgombero, il 7 settembre, cerca di spiegare al custode che sta compiendo un atto contro legge, il custode reagisce con la frase che sintetizza tutta la vicenda: “lascia stare la legge!” (vedi video)

E questa affermazione sintetizza e simboleggia molte delle vicende che riguardano le vendite all’asta, le esecuzioni fallimentari di cui ci siamo ampiamente occupati sostenendo anche la battaglia dell’avvocata Anna Maria Caramia che da anni si batte perché la giustizia prevalga a tutela degli esecutati e nei procedimenti fallimentari.

In questa precisa vicenda vi sarebbe l’ombra della speculazione edilizia. Siamo nel quartiere Santo Spirito a Bari, non a caso.

L’avvocata Caramia sa bene che, come diceva qualcuno, “è dimostrato che si può sopravvivere tre giorni senza acqua, due mesi senza cibo e tutta la vita senza giustizia”. Ma lei non condivide. Che possiamo farci, ci sono avvocati che si ostinano a pretendere il rispetto della legge.

Com’è andata a finire?

Oggi, 21 settembre 2023, la vicenda ha assunto i contorni di una tragica farsa. Il bene è stato comunque venduto a prezzo vile, l’avvocata Caramia ha ricevuto ben due deferimenti: al consiglio di disciplina (per un esposto disciplinare) e alla procura penale (dove pende un procedimento in attesa di sfociare a processo penale) e ci ha rilasciato una inequivocabile dichiarazione, estratta dall’ennesima memoria difensiva da lei predisposta e che richiama una denuncia presentata contro il “sistema delle aste” il 23 agosto scorso:

Dai video emerge chiaramente come, nella procedura, abbiano violato tutte le norme del codice a presidio dell’esecuzione e del processo, ne cito solo qualcuna: A) hanno espropriato in difetto di notifica del pignoramento, per poi affermare il G.E. di turno (Giudice delle Esecuzioni) che, costituendosi, la parte aveva sanato il vizio, peccato però che la parte mai si è costituita (ma questo è solo un dettaglio); B) Il G.E. ha affermato che nel caso di specie andava fatta la divisione endoesecutiva, ma poi non l’ha fatta affermando che tanto erano morti entrambi, marito e moglie (senza considerare o senza sapere, chissà, che alla morte subentrano gli eredi nelle stesse posizioni dei danti causa); C) hanno consentito che ad agire fosse un soggetto inesistente da anni, una società cancellata da anni, ma che per i miracoli dei tribunali (non della vita) si costituiva ed agiva come se fosse viva (così falsando tutte le regole); D) hanno accordato una sospensiva inaudita altera parte sulla scorta delle difese di Alessandro, ma poi senza che le stesse venissero sconfessate in alcun modo, la G.E. di turno ha ribaltato la vicenda, condannando Alessandro alle spese ed affermando che si era stancata a motivare la sua ordinanza di rigetto a fronte dei tanti (e fondati, aggiungo io) motivi sollevati. Insomma, anche questo caso, è finito nella nostra inchiesta a puntate sulla mala giustizia. 

Avv. Anna Maria Caramia: Lettera al Ministro Nordio.

Via Santa Caterina n. 1/C – 74016 Massafra (Ta)

p.e.c. caramia.annamaria@postecert.it

Tel. 099.8804688 –

Cell. 339.4208568

email avv.annamariacaramia@gmail.com

prot.dag@giustiziacert.it

Ministro della Giustizia gabinetto.ministro@giustiziacert.it dott. Carlo NORDIO

segreteriacapo.ispettorato@giustiziacert.it Ispettorato Generale Ministero

Massafra 4 gennaio 2022

Oggetto: segnalazione di malaffare giudiziario Illustre Sig. Ministro sono e mi chiamo Anna Maria Caramia, sono un avvocato iscritto presso l’Ordine degli Avvocati di Taranto e con questa nota porto a Sua conoscenza una realtà che certamente a Lei è nota nei sui caratteri generali, ma che ho il dovere di segnalare nel dettaglio perché sta assumendo connotati talmente inquietanti da minare la stessa stabilità sociale. Mi riferisco all’andazzo di parte della magistratura - parte che se non è la totalità e comunque porzione non residuale di essa - che amministra la funzione come fosse qualcosa di personale, strumentalizzandola per fini anche abietti (di potere, di avidità, di vendetta), con grave pericolo di conseguenze che diventano un effetto quasi naturale da parte di chi è costretto ad assaporare l’amaro di uno Stato che agisce come un mafioso, non rispettando le regole che esso stesso ha imposto1 . Non nascondo che sono molte le persone che, scontratesi contro il muro di gomma dietro cui i magistrati notoriamente si nascondono, manifestano l’intenzione di farsi giustizia da sé (e cominciano pure a farsela); e se questo avviene con violenza sulle sole cose e non sulle persone è già un risultato per cui si deve ringraziare la Divina Provvidenza. Purtroppo ho esperienza diretta in vari Tribunali d’Italia, dove ho appurato che l’amore per il denaro ed il potere davvero spinge alla delinquenza anche i magistrati (che dovrebbero perseguirla e non farla la delinquenza), soprattutto quelli chiamati ad esercitare le funzioni nell’ambito di quelle sezioni dove di soldi ne girano troppi 1 Il riferimento alla mafiosità dello Stato che non rispetta le regole l’ho mutuato da parole espresse dal magistrato dott. Alfonso SABELLA durante un’intervista a Sotto Voce di qualche anno fa. 2 | P a g . (esecuzioni e fallimenti); naturalmente, come gli ingranaggi di un orologio che non deve incepparsi, le Procure a cui le denunce della gente arrivano non fanno altro che decretare la ‘giustezza e correttezza’ di quanto è oggetto di segnalazione, anche se si tratta di un’evidente nefandezza (così offendendosi oltre al diritto ed alla Giustizia, anche l’intelligenza). Ciò premesso in generale, passo al particolare sperando che Lei possa tener conto del mio dire - sin da ora ponendomi a disposizione per mostrare prove (documenti, audio e video) dei gravi assunti di questa mia. In particolare segnalo alcune vicende in corso presso il Tribunale di Trani, notoriamente famoso per essere luogo che ha registrato diversi arresti di magistrati (SAVASTA, NARDI, CAPRISTO sono quelli che mi sovvengono or ora). Ivi io assito i signori CATALDO Teresa, ANTONELLI Mauro e SCARINGELLA Mauro in procedure varie (causa 3117/2022 R.G., 184/2012 R.G.E. Immobiliare e 1338/2022 R.G.E. mobiliare) nelle quali davvero si è raggiunto apice di scempio. E' notorio il tentativo di espropriare la famiglia ANTONELLI di tutto il patrimonio ed a tal fine i magistrati intervenuti non hanno avuto remore a NON RIDURRE il pignoramento di un patrimonio stimato oltre 800 mila euro allorché il debito non giungeva a 10 mila euro (per l'interesse di chi e di quanti?) [della vicenda se n’è occupata per diverse puntate anche la trasmissione Fuori dal Coro di Mediaset; indico il link di uno dei servizi trasmessi: mediasetinfinity.mediaset.it/video/fuoridalcoro20222023 /mauro-e-teresa-perdono-la-casa-per-un-debito-di-4500- euro_F312095101011C23]; e che dire del giudizio di spoglio possessorio che, da un'impostazione di equilibrio ad opera del Giudice dott. LABIANCA (e manifestata durante le udienze allorché il magistrato invitava i resistenti a consegnare le chiavi, implicitamente riconoscendo l’esistenza del diritto ad averle), siamo passati ad una decisione di palese ingiustizia ad opera della giudice dott.ssa STANO (che nelle more ha sostituito il LABIANCA), anche grazie a vere e proprie mistificazioni dei fatti (che saranno ovviamente segnalate), con sperticata e stolta tutela di posizioni indifendibili; non ci sono poi parole per indicare il tentativo di espropriare la CATALDO Teresa, senza rispetto dei suoi diritti di soggetto non toccato dal titolo esecutivo, a mezzo di falsi documenti che dalla procura vengono chiamati ERRORI (ma che tali non sono) e con la scelta di ignorare la sua stessa esistenza (compreso nella fase di sgombero allorché la citata, senza avere avuto un solo centesimo di debito, dall’antisommossa è stata cacciata da casa sua). Anche la questione del signor SCARINGELLA Mauro, apparentemente lineare, desta 3 | P a g . perplessità; nella vicenda di quest’ultimo, dopo una sospensiva inaudita altera parte che in quanto tale dimostrava l'esistenza del diritto invocato - egli è terzo possessore di terreno in virtù di contratto rogato da un Notaio e registrato, opponibile alla procedura perché anteriore ad essa, si è opposto al pignoramento dei suoi frutti pendenti (da egli prodotti nell’anno) poiché il pignoramento era stato fatto per un debito non suo ma del solo concedente il terreno - si è passati a una decisione totalmente contro ad opera dell'onorario dott. CARADONNA, che non ha tenuto conto nemmeno del fatto che fosse esistente il piano del consumatore che aveva segregato i beni aggrediti a soddisfazione del piano medesimo. Ma quale certezza del diritto c’è in questa maniera, se un conduttore di fondo agricolo rischia di pagare i debiti, che nemmeno conosce, del concedente? Questi sono solo alcuni esempi e mi limito ad essi per non tediare, ma non è possibile che, adendo la Giustizia, si vada incontro ad un'ingiustizia ancor più grave di quella per cui si è chiesta riparazione; non è accettabile non ottenere nulla se, dovendosi difendere, si è costretti a farlo anche contro alcuni soggetti che, vuoi per parentela e/o vuoi per altro, sono troppo protetti dal sistema - vedi l'Avv. Marianna Tiziana BELSITO, figlia di magistrato famosissimo come da ella sventolato in un tentativo di estorsione carpito da una registrazione, ma in nessun modo sanzionato; anche qui produco il link del video che contiene l’audio estorsivo della professionista: facebook.com/100005692235421/videos/675219766808705/ - o contro interessi di soggetti, magari anche indiretti o celati da nome altrui, tanto da produrre decisioni inequivocabilmente di ingiustizia (e quindi contro la gente). In questa maniera si uccidono le persone e si vanifica ogni tentativo posto in essere dal difensore di ottenere la Giustizia, spingendo sempre di più la gente che rimane vittima delle condotte arbitrarie dei magistrati di farsi la giustizia da sé stessi. Ma torno un attimo alla decisione della dott.ssa STANO che le parti intendono denunciare alla Procura della Repubblica di Lecce (competente ex art. 11 c.p.p.). E qui nasce un altro grave problema. Qualche tempo fa, mentre ero in audizione dal presidente del Tribunale di Lecce, lamentavo proprio le esagerazioni commesse dai giudici, aggiungendo che a causa di esse la gente si vedeva costretta a fare denunce che non voleva fare; a quel punto il magistrato mi evidenziava che le denunce non servivano a niente! Ma se le denunce non servono a niente (cosa peraltro abbastanza vera), cosa resta 4 | P a g . alla gente da fare per ottenere il suo? Cosa devono fare i signori ANTONELLI per tentare di recuperare diritto e dignità da ultimo scippati dalla dottoressa STANO (perché di questo si tratta)? Non vi è l’intenzione di denunciarla, ma vi è la certezza che il c.d. sistema Trani, in assenza di denuncia, non avrà remore a far si che le ulteriori iniziative giudiziarie dei signori ANTONELLI produrranno conseguenze solo per loro stessi e non già un risultato di Giustizia (e se pure è vero che la denuncia non risolve, però lo è altrettanto che se è fondata fa paura e il timore a volte ottiene ciò che il dovere omette). A proposito di denunce, sempre in quel di Trani, alcune vicende penali dei signori ANTONELLI sono all’attenzione del GIP dott. BARLAFANTE. Ma com’è possibile far decidere a lui la vicenda degli ANTONELLI, lui che è stato giudice dell’esecuzione nell’espropriazione degli ANTONELLI stessi (e che ha pure vergognosamente negato la riduzione del pignoramento); lui che, da rumors nell’ambiente, pare che abbia smesso di fare il giudice dell’esecuzione a causa del chiacchiericcio formatosi sul fatto che lo aveva visto conferire una molteplicità di incarichi ad una donna di cui si era invaghito, tanto da sposarla (facendo venire meno ogni garanzia di imparzialità e correttezza)?!? Ma che speranza hanno gli ANTONELLI di Terlizzi di vedere Giustizia con questi giudici? Io potrei dirle con gli atti (e lo farò) dei vari tentativi di distrarmi dalla mia professione, ritenuta scomoda, anche con tentativi di arresti oltreché con miriadi di procedimenti (che però non hanno portato a nulla, nemmeno a una minima sanzione); potrei dire delle mistificazioni commesse dai giudici e delle strumentalizzazioni della funzione, con deviazione degli apparati statali dal dovere e dal giusto. Il problema è solo uno ed è lo strapotere dei magistrati ed il senso di impunità che li muove: è qui il marcio del sistema Giustizia italiano! La prego dott. NORDIO di lasciare una traccia visibile del suo passaggio al Ministero della Giustizia, Lei che ha manifestato un’idea di rinnovamento forte e decisa, sino al limite delle dimissioni (come ho sentito). Intanto Le chiedo di inviare gli Ispettori al Tribunale di Trani ed alla Sua Procura, nonché a quelle di Lecce e Potenza pure già inutilmente adite. Con la massima osservanza, La saluto

La giornalista del quotidiano Basilicata24, Giusi Cavallo, assolta nel processo intentato dalla giudice Gerardina Romaniello. Lo rende noto con una dichiarazione alla stampa il difensore di Cavallo, l'avvocata Anna Maria Caramia. Redazione il 04/12/2022 su radiosenisecentrale.it

“Al termine del processo di primo grado dinanzi al Tribunale di Roma la giornalista Giusi Cavallo è stata assolta dall’accusa di false dichiarazioni al pm.

Il processo si colloca nell’ambito dell’annosa vicenda che ha visto contrapposte la giornalista e la giudice potentina Gerardina Romaniello e che ha già registrato molteplici passaggi giudiziari. Il processo aveva preso il via su querela della giudice che aveva accusato Giusi Cavallo di aver reso false dichiarazioni al pm della Cassazione nell’ambito del procedimento disciplinare a cui la stessa giudice era stata sottoposta e che si era concluso con la sanzione della censura. Il processo si è concluso il 2 dicembre con l’assoluzione della giornalista “perché il fatto non sussiste”. Il pm aveva chiesto la condanna a un anno e mezzo di reclusione.

Si attendono le motivazioni della sentenza che saranno depositate nel termine di novanta giorni.” Lo rende noto con una dichiarazione alla stampa il difensore di Cavallo, l’avvocata Anna Maria Caramia.

I guasti del sistema giudiziario: chi ha fame di giustizia viene “giustiziato”. Prima puntata della nostra inchiesta. Tribunali e magistrati che sbagliano anche quando fanno le cose sbagliate. Michele Finizio l'08 Giugno 2023 su basilicata24.it

Molti tribunali funzionano, è banale: perché non dovrebbero funzionare? Molti magistrati fanno il loro dovere con diligenza, applicando la legge e le procedure. Anche questo è banale o, meglio, è normale, sarebbe normale. Tuttavia esistono, come in ogni casta, comunità, o corporazione, i furbi, i compiacenti, i violentatori della legge e delle procedure. E questo non è affatto normale. Ci sono magistrati che in qualche modo e in forme diverse perseguono tornaconti personali o di gruppo: reciproche coperture, reciproci favori, accanimento nei confronti di persone che disturbano il loro discutibile operato, sentenze precostituite, e così via. Non rispondono alla legge, non rispondono ai sacrosanti diritti degli accusati, degli esecutati nelle procedure esecutive e dei falliti nei fallimenti, non rispondono alle procedure: rispondono soltanto a se stessi e ai loro referenti-amici-confratelli interni ed esterni. Non lavorano, non indagano, non studiano i documenti, vivono di arroganza e nuotano grottescamente nel delirio di onnipotenza.

Avviamo questa inchiesta, a puntate, sul funzionamento della giustizia partendo dalle nostre esperienze dirette a dai casi di cui ci siamo occupati su questo giornale. Lo facciamo perché ormai in alcuni tribunali e nel comportamento di alcuni magistrati, le circostanze “anomale” – usiamo un eufemismo – che emergono sono troppe. Lo facciamo avendo a disposizione documenti, prove, testimonianze che forniscono verità inconfutabili al nostro racconto. Naturalmente qualcuno querelerà, ormai abbondano le querele di magistrati nei confronti dei cittadini, dei giornalisti e degli avvocati per bene, un paradosso: sono alcuni di loro a ingolfare la macchina giudiziaria, altro che Paese litigioso. Sono alcuni di loro, quando moltiplicano i dibattimenti inutili, quando rinviano per citazione diretta a giudizio scavalcando le procedure, quando denunciano e poi non celebrano i processi, quelli necessari. Sono alcuni di loro che, quando devono difendersi o devono accusare, producono tonnellate di atti, decine e decine di memorie, invadendo le procure di mezza Italia, rendendo complicato e precario il lavoro degli altri magistrati. Sono loro che chiudono le indagini e le notificano a babbo morto o quando gli conviene. Ma andiamo per ordine.

L’AVVOCATA VUOLE ESSERE PROCESSATA

Qualcuno trascrive un verbale relativo a una S.i.t. (“Sommarie Informazioni Testimoniali”). Il verbale riporta dichiarazioni mai rese dall’avvocata ascoltata. La prova è nella fono-registrazione in cui è evidente la divergenza tra le dichiarazioni iscritte a verbale e quelle contenute nella registrazione. Riportiamo la testimonianza dell’avvocata Anna Maria Caramia, protagonista della vicenda, già contenuta in una delle sue denunce e segnalazioni al Ministro Nordio, all’ispettorato generale del ministero della Giustizia e al Csm:

A fine dicembre 2021 i carabinieri mi hanno contattata per la notifica di un 415 bis c.p.p. (avviso di conclusione di indagini) proveniente dal tribunale di Catanzaro per l’ipotesi delittuosa di calunnia in danno di una PM e di due uomini della PG. Il deferimento è stato fatto dal PM della D.D.A. di Potenza, Vincenzo Montemurro, a fine novembre 2021, ed il fatto addebitatomi era quello per cui – affermando io che in occasione delle mie s.i.t. a Potenza del maggio 2019 avevo detto una cosa e loro ne avevano scritta nel verbale un’altra – io avevo calunniato la PM e la PG accusandoli di falso ideologico. La ‘prova’ era una trascrizione affidata al Commissario … di Potenza che, bontà sua, aveva concluso dicendo che non c’era la divergenza da me lamentata tra i verbali fono-registrato e quello scritto. Beh, che dire… con gioia ho sostenuto l’interrogatorio il 3 febbraio 2022, ma da allora di un processo non c’è traccia – nonostante lo avessi detto durante l’interrogatorio che la storia doveva portare necessariamente a un processo: o nei miei confronti, per calunnia, o nei confronti di colui che mi aveva deferita. Ho pure sollecitato il processo, ma ad oggi nulla. Perché non mi processano?

E senza dire che nonostante la notifica del 415 bis c.p.p., che notoriamente chiude le indagini, almeno sino alla data del 1° settembre 2022 (dopo 10 mesi dalla chiusura delle indagini), risultavo ancora indagata presso la Procura di Catanzaro (della serie si tiene aperto ciò che non si sa come chiudere).

Ci risulta che Caramia abbia querelato il Pm Vincenzo Montemurro.

L’AGGIUDICATARIO PRESUNTO AMICO DEL GIUDICE E IL TESTIMONE MAI ASCOLTATO

Ritorniamo sull’asta “turbata” della Masseria Galeota aggiudicata al senatore Mario Turco, di cui ci siamo ampiamente occupati. Sentiamo anche in questo caso la testimonianza dell’avvocata Caramia, protagonista della vicenda, già contenuta in una delle sue denunce e segnalazioni al Ministro Nordio, all’ispettorato generale del ministero della Giustizia e al Csm:

Mi riferisco alla storia di un’asta che ha visto protagonisti della vicenda i soliti noti del Tribunale di Taranto e la Procura di Potenza, nonché un senatore della Repubblica (amico di molti giudici, per loro stessa asserzione) e come vittima reale una famiglia, come tante, che a botta di sacrifici aveva realizzato un bene, trasformandolo in gioiello da rudere che era.  Qui non voglio mettere in risalto gli elementi dell’asta che secondo me e in base agli atti è stata pilotata – cosa che dimostrerò – ma il modus operandi che certi  giudici hanno di insabbiare ciò che vogliono e nel contempo di attaccare chi ad essi si oppone cercando di far emergere la verità.

Beh, a distanza di una manciata di giorni ho ricevuto ben due 415 bis c.p.p. per la medesima vicenda, dalla Procura di Taranto (Pm Natale) e da quella di Potenza (Curcio e Guerriero), Procure che è ormai notorio che si vogliono un gran bene; l’episodio è lo stesso ed è quello dell’asta della Galeota: in un caso sono denunciata dal Commissario di Polizia (…), e nell’altra non saprei, ma con parti offese ci sono il senatore Mario Turco e il giudice Andrea Paiano. In entrambe, come in un’ennesima coincidenza, mi contestano un concorso che non esiste. Il Pm Antonio Natale, nell’ambito di una denuncia per diffamazione a mio danno, apre il fascicolo due giorni dopo la denuncia, conclude le indagini (ma le ha fatte le indagini?) sette giorni dopo, il 23 settembre 2022, ma mi notifica la conclusione delle indagini (415 bis) a maggio 2023, contestualmente alla notifica inviatami dalla Procura di Potenza per lo stesso reato.

Che strana coincidenza, anzi che strane coincidenze… ce n’è un’altra di coincidenza e se anche non la dettaglio ora (perché non è questa la sede), ne faccio solo un timido accenno: la Procura di Potenza ha firmato il 415 bis c.p.p. dopo pochi giorni dalla morte (per molte persone un po’ strana) di un soggetto che, autodefinendosi il Corvo, sapeva molte cose di quegli ambienti e di quella gente (e di molto aveva prova). Quest’ultima persona, per esempio, quanto all’asta della Masseria Galeota aggiudicata al senatore Turco sosteneva che il senatore e il giudice Andrea Paiano erano amici, tanto da giocare a tennis insieme. Questo episodio mai la Procura di Potenza lo ha accertato, nonostante fossero stati allegati alle denunce i post di Tonino Scarciglia (è questo il nome del deceduto), che sostenevano la vicinanza tra i due  tanto da aver giocato a tennis. In tutte le salse è stato chiesto di sentire il testimone Scarciglia, ma mai gli inquirenti lo hanno chiamato!

Nemmeno il GIP ha accolto il rilievo e questa persona non lo ha potuto testimoniare. Sapevano evidentemente bene che il Corvo la prova gliel’avrebbe potuta dare e quella prova non doveva entrare nelle carte processuali, solo questo mi viene da pensare oggi… e se fosse entrato questo dato, come avrebbero potuto chiudere la vicenda di un procedimento penale iscritto per turbativa d’asta nel quale il giudice non ha riaperto una gara che aveva l’obbligo di riaprire? E se la memoria non mi inganna, nelle carte c’è esattamente il contrario: ovvero il dato per cui i due (Turco e Paiano) non si conoscessero, così come ha affermato la difesa del Giudice! Ah, se avessero sentito  Scarciglia? A proposito… ma com’è che nessuno lo ha denunciato a questo Scarciglia per aver sostenuto pubblicamente il falso? Su questa vicenda c’è dell’altro, ma non è questa la sede. Forse non sapremo mai se i due si conoscessero o fossero amici. Ma chi era Tonino Scarciglia? Qualche magistrato, forse, potrebbe saperlo.

L’ACCUSA SA CHE SEI INNOCENTE, MA CHIEDE COMUNQUE LA CONDANNA

La giornalista Giusi Cavallo, finita suo malgrado in un groviglio processuale nato dal nulla, ha subito un processo e rischiato una condanna semplicemente perché alcuni documenti non erano stati acquisiti a fascicolo, seppure in possesso della presunta persona offesa (Giudice Romaniello). Insomma la parte offesa, un magistrato, continua a chiedere la condanna sapendola innocente, ma anche la pubblica accusa esercita l’azione penale in un caso in cui di penale non c’è nulla. Grazie al lavoro della difesa, congiuntamente alle ricerche documentali della stessa giornalista, quelle carte sono entrate nel fascicolo del Giudice. E così Giusi Cavallo è stata assolta con formula piena. Può un magistrato nascondere documenti a favore dell’accusato e produrre documenti e memorie anche inutili per confondere o magari orientare il Giudice? Roba da Csm anche questa.

Sentiamo Giusi Cavallo:

Ero a processo a Roma per false dichiarazioni al Pm della Cassazione nell’ambito del procedimento disciplinare del Csm a carico della giudice Gerardina Romaniello, che mi accusava. Romaniello ha prodotto una miriade di atti e documenti, tutti inutili, ma si è ben guardata dal produrre quelli dirimenti, due o tre, da cui emergeva che il capo di imputazione per cui venivo processata era il nulla incartato in processo e che quelle circostanze oggetto di imputazione erano del tutto inutili rispetto al procedimento del Csm che l’aveva sanzionata.

Credo che Romaniello in tal modo abbia commesso il reato di calunnia nei miei confronti, per questo l’ho querelata. Il reato si è consumato certamente, allorché la dottoressa Romaniello, pur in possesso di atti dirimenti, non solo non li ha depositati, ma ha continuato a chiedere la mia condanna, ha tentato di opporsi (attraverso il suo difensore) all’acquisizione dei documenti da me portati, non già contestandone il contenuto (contenuti ritenuti conformi), ma sollevando dubbi su come io ne fossi venuta a conoscenza. Quindi è certo e documentato che Romaniello mi ha accusata sapendomi innocente e, continuando ad insistere per la condanna, ha tentato di opporsi all’acquisizione di quei pochi documenti che nettamente mi assolvevano. Alla fine del processo, in data 2 dicembre 2022, sono stata assolta perché il fatto non sussiste, ma ad oggi la motivazione non è stata ancora depositata nonostante siano trascorsi oltre 180 giorni mentre il termine assunto è di 90 giorni.

Ho querelato con rammarico. Sono stanca di difendermi da accuse per reati inesistenti, o da reati per cui sono stata già giudicata e archiviata o assolta. I procedimenti  aperti nei miei confronti in questa storia sono una decina, incardinati in diversi Tribunali: Roma, Catanzaro, Potenza. Accusata di strani reati come, per esempio, il favoreggiamento alla diffamazione, io avrei favorito chi l’avrebbe diffamata. 

TU A PROCESSO DEVI ANDARCI COMUNQUE

Nelle prossime puntate parleremo di altri fatti, di altri processi, di altre denunce. Di Pm che rinviano a giudizio senza aver letto le carte. Ricordo uno dei casi capitato ancora una volta a Giusi Cavallo. Siamo stati denunciati per diffamazione. L’articolo lo avevo scritto e firmato io, il direttore responsabile ero io, ma la Pm porta in giudizio anche Cavallo che nulla c’entrava come articolista né come direttore responsabile del giornale. La “svista” viene segnalata dalla stessa Cavallo. Risolto? Macché. Siamo tutti e due a processo perché ci sarebbe un concorso nel reato di diffamazione. L’articolo è firmato da Michele Finizio il direttore responsabile è all’epoca dei fatti, e ancora oggi, Michele Finizio, ma a processo ci va anche Giusi Cavallo. Ma questi il concorso da magistrato come l’hanno superato? Certo, si tratta di una giovane Pm, adesso trasferita in altra sede – ci risulta per sua scelta e comodità – la quale ci ha anche rinviato a giudizio più volte con citazione diretta, persino nei casi in cui la circostanza, per legge e per procedura, prevedeva l’udienza filtro.

Ma anche in questo caso, ci aiuta il racconto di Giusi Cavallo:

Hai spiegato bene, ma te la racconto come l’ho vissuta.  Qualche settimana fa mi sono presentata dinanzi al giudice del Tribunale di Potenza per l’udienza di un processo a mio carico. Dovevo essere sentita come imputata. Prima di rispondere alle domande di Pm, giudice e avvocato della parte offesa, ho chiesto perché mi trovassi lì spiegando loro che dopo aver ricevuto l’avviso di conclusione indagine avevo chiesto di essere sentita, come è previsto. Ad ascoltarmi erano stati i carabinieri di Potenza ai quali non solo avevo rappresentato che non ero né l’autrice dell’articolo querelato né la direttrice responsabile ma avevo fornito la documentazione che provava le mie dichiarazioni. A processo però ci sono finita lo stesso. Perché?

La risposta me l’ha data il Pm che era quel giorno in aula, facendomi vedere l’avviso di conclusione indagini, a cui, dopo la mia audizione dai carabinieri, era stato aggiunto a penna, dalla Pm titolare delle indagini, la contestazione del concorso, mio, con te autore dell’articolo. Sulla base di cosa la Pm  lo abbia stabilito, non è dato saperlo. Lo capiremo nel corso del processo. Una cosa però mi è chiara: in un modo o nell’altro io dovevo essere processata. Ma le stranezze non finiscono qui.

Il Pm subentrato alla magistrata, di cui hai appena detto, pare non abbia letto quello che ha scritto la collega, a penna, sull’avviso di conclusione indagine. Perché se lo avesse fatto io sarei dovuta essere a processo con la contestazione dell’articolo 595 c.p. in concorso (art. 110) con l’autore dell’articolo e con il direttore responsabile. E no, io a processo sono finita come direttrice responsabile. E cioè con la prima imputazione della Pm che aveva aperto il fascicolo e che aveva indagato (?) così bene da non sapere che non ero io la direttrice responsabile e che poi aggiunge a penna il “concorso” perché io evidentemente a processo dovevo andarci lo stesso.  Perché, se viene aggiunto il concorso, il Pm che fa la citazione diretta a giudizio non modifica il capo di imputazione ma lascia in piedi la prima ipotesi della sua collega? Se non avessi fiducia nella giustizia penserei a qualcosa di torbido.  Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, e io oggi posso chiedermi da cittadina e da giornalista perché sto affrontando un processo che non avrei dovuto affrontare. Domanda a cui certamente non avrò risposta e che forse mi costerà altri guai. Certo è che, poiché le prodezze della Pm in questione nei miei confronti non sono solo queste da me raccontate, ho deciso di segnalarle nelle sedi competenti. Ci sarà qualcuno di buona volontà disposto a fare chiarezza? (Fine prima puntata)

Ci guadagna di solito il terzo speculatore. Immobili comprati all’asta, la svendita legalizzata e la bolla speculativa che inguaia solo i debitori. La rubrica “Giustizia in-civile” di Andrea Viola, avvocato e consigliere comunale. Perché una Giustizia civile che funziona, non solo aiuta il cittadino a sentirsi tutelato e protetto, ma crea le condizioni basilari per il funzionamento di ogni comparto economico-produttivo. Andrea Viola su Il Riformista il 2 Luglio 2023 

Ed eccoci qui con la nostra rubrica settimanale. Come è abitudine, vi devo sempre ringraziare per le numerose segnalazioni che ci inviate. Oggi prenderemo spunto da una vostra email. Parleremo delle esecuzioni immobiliari e delle questione legate alle aste.

Un nostro lettore ci racconta una storia che è purtroppo ormai prassi. un immobile di alto valore che alla fine viene venduto all’asta a prezzo super ribassato e poi rivenduto dall’aggiudicatario al prezzo reale.

Su questi temi e sulle vicende legate all’esecuzioni immobiliare si potrebbero aprire libri e libri di racconti. Il tema delle espropriazioni tocca tanti cittadini e tante imprese. La tutela spesso scontenta sia il creditore e sia il debitore. Ci guadagna di solito il terzo speculatore, ovviamente salvo eccezioni.

Ma vediamo qualche numero.

Divorzio, affidamento e mantenimento dei figli: l’odissea di una ragazza madre e le sentenze di primo grado sballate

Il “Report Aste 2022” curato dal Centro studi AstaSy Analytics di NPLs RE_Solutions, indica che lo scorso anno gli immobili messi all’asta sono stati 113.056, vale a dire 309 al giorno, ben 13 ogni ora.

La statistica su base regionale vede al primo posto la Lombardia, con il 15,22% delle aste nazionali, seguita dalla Sicilia (11,15%), dal Lazio (8,82%), dalla Campania (7%) e dalla Toscana (6,96%). Mentre in merito alla tipologia di immobili, quelli residenziali (categoria che comprende appartamenti, monolocali, mansarde, attici, ville e villette) costituiscono il 57,45% del totale, con i locali commerciali (come negozi e uffici) secondi al 12,28% e box e posti auto al terzo con il 10,62%.

Il dato più interessante e allo stesso tempo più preoccupante è che il prezzo medio della base d’asta nel 2022 è stato di 66.795 euro. Ciò significa che gli immobili sono stati aggiudicati a prezzi notevolmente inferiori ai reali valori di mercato.

Queste condizioni producono dei notevoli danni soprattutto al debitore, il quale oltre a perdere il proprio immobile, spesso unica abitazione, perde anche il reale valore del proprio bene.

E questo spesso comporta che il creditore precedente, se non interamente saldato, possa rivalersi aggredendo eventuali ulteriori beni del debitore. Potete capire il grande danno e problema.

Senza entrare nei tecnicismi, il codice di rito prevede che l’asta di un eventuale immobili parta da una perizia fatta dal tecnico incaricato dal Giudice. Anche la perizia spesso è contestata ma da qui si parte con il primo tentativo di vendita.

Se si procede alla vendita, di solito cosiddetta senza incanto, si procede in questa maniera. Viene pubblicato un avviso di vendita in cui vengono pubblicate condizioni e requisiti per partecipare. A tale asta si può partecipare indicando la somma che si offre per l’acquisto. E qui arriva il primo “problema”.

A seguito della modifica dell’art. 571 del Codice di Procedura Civile, introdotta con il D.L 27.06.2015 n. 83 convertito con modificazioni dalla legge 06.08.2015 n. 132, è possibile presentare un’offerta per un importo inferiore del 25% rispetto al prezzo base indicato nell’avviso di vendita, la cosiddetta “Offerta minima”. Capite bene che il valore del bene oggetto di asta si svaluta subito del 25%.

Quindi, se una casa viene valutata dal Consulente del Tribunale 400.000 euro la si potrebbe acquistare offrendo 300.000 euro. Il debitore perde secco già 100.000 euro.

Questo non basta, perché se la prima asta va deserta la somma base viene diminuita sempre del 25%.

Quindi se seguiamo lo schema precedente, una casa dal valore iniziale di 400.000 euro se non viene venduta alla prima asta, poiché non ha partecipato nessuno, la seconda asta avrà la base d’asta a partire da euro 300.000.

Ma a questa offerta base va tolto l’ulteriore 25% come offerta minima. Quindi la casa si potrà acquistare ad euro 225.000. Riepilogando, basta un’asta deserta per far perdere all’immobile quasi il 50% del valore reale. Ciò può continuare sino a 5 tentativi. Dopo l’immobile può essere venduto ad un prezzo ridotto della metà dell’ultima asta.

Insomma, una svendita legalizzata. Per dovere di cronaca diciamo che non sempre ci troviamo a che fare con immobili tenuti in buone condizioni o destinati ad abitazione ma in generale la situazione non rende giustizia ai più deboli. E l’esigenza di accelerare e snellire le procedure purtroppo sta creando gravi bolle speculative ai danni dei debitori non sempre colpevoli.

In tutto questo, poi si stanno inserendo vere e proprie agenzie che si occupano solamente di acquistare immobili alle aste, ossia una vera e propria compravendita con sicuro guadagno.

Il tutto sempre con le varie eccezioni del caso. In questa ottica sarebbe auspicabile una eventuale modifica dell’art. 571 c.p.c. per tutelare i debitori e soprattutto in generale evitare una enorme speculazione. Le ipotesi ci sono e bisogna intervenire prima che sia troppo tardi.

Andrea Viola, Avvocato, Consigliere Comunale Golfo Aranci, Coordinatore Regionale Sardegna Italia Viva; Conduttore Rubrica Vivacemente Italia su Radio Leopolda

Case all’asta (anche a Milano): offerte online, procedure, gare, cosa sapere prima di comprare. Gino Pagliuca su Il Corriere della Sera il 3 Febbraio 2023.

Comprare una casa all’asta, perché adesso è più facile

Comprare una casa all’asta oggi è sicuramente molto più semplice di qualche anno fa, quando le cancellerie dei tribunali pullulavano nel corso delle gare di personaggi non sempre raccomandabili (a Milano nel mondo immobiliare erano simpaticamente identificati come “La compagnia della morte”). Le procedure telematiche e le modalità di vendita senza incanto, con l’impossibilità di effettuare rialzi fittizi delle offerte per riaprire la gara dopo la prima fase di aggiudicazione, hanno reso molto più accessibile il business a chi cerca una casa per sé o, molto più spesso, per investimento. Inoltre, ora è molto più facile finanziare l’acquisto con un mutuo.

L’offerta di case all’asta

Ma se le aste hanno perso la cattiva fama di cui godevano, sono ancora oggetto della leggenda metropolitana per cui consentono di comprare case bellissime a prezzi stracciati. In realtà l’offerta è composta spesso di immobili in stato di manutenzione scadente e, quando occupati ancora dal proprietario, non sempre facili da liberare. Per questo anche se far da soli oggi è senz’altro molto più agevole di quanto non lo fosse all’inizio degli anni Duemila, se non si è proprio del mestiere è meglio appoggiarsi a un’agenzia

Quante case sono andate all’asta? Il 25% in meno del 2019

A supporto di quanto scriviamo arrivano i dati consuntivi sul mercato delle aste nel 2022, redatto dalla società specializzata Reviva. Dopo il blocco dovuto alla pandemia nel 2020 e la lenta ripartenza del 2021 sarebbe stato lecito aspettarsi un boom di esecuzioni e vendite, grazie anche al buon momento per il mattone. Non è stato così, perché il report dice che lo scorso anno sono state effettuate 191.253 aste, con un lieve aumento (+3%) rispetto al 2021 ma un calo del 25% rispetto al 2019, l’anno con cui il confronto ha più senso. Gli immobili andati in asta sono 125.752 (-0,5% rispetto all’anno precedente), per un valore complessivo di 13,3 miliardi (-6,9% rispetto al 2021). Si tratta di una cifra di 2,2 miliardi rispetto a quella che si sarebbe ricavata sommando le basi originarie d’asta, una decurtazione dovuta alle numerose gare andate deserte, a riprova che in offerta non ci sono solo affari d’oro. Poi certo l’incertezza del momento fa sì che molti soggetti potenzialmente interessati al business siano attendisti, infatti la seconda parte dell’anno, dopo lo scoppio dell’inflazione e il rialzo dei tassi, ha segnato un rallentamento piuttosto netto rispetto ai primi mesi 2022.

Roma e Milano le città con più aste

Attendismo che caratterizza non solo i potenziali acquirenti ma anche chi deve cedere gli immobili, al punto che lo scorso anno sono andati all’asta solo il 37% dei lotti oggetto di procedure esecutive. A restare in attesa di tempi migliori sono soprattutto i creditori che intendono realizzare cedendo le unità non residenziali, più difficili da aggiudicare, mentre il 57% (pari a 70.237 unità) dei lotti lo scorso anno era composta da alloggi, offerti a un prezzo minimo d’asta di 80.846 euro. Oltre tre quarti delle aste ha riguardato esecuzioni immobiliari, le procedure concorsuali sono state poco più del 20%, del tutto marginale (poco sopra il 2%) le procedure di ristrutturazione del debito. La regione con il maggior numero di aste è stata la Lombardia, con 18.771 gare, seguita dalla Sicilia (14.888) e dal Lazio (11.588). La classifica relativa alle città vede in testa la Capitale (6.839), seguita da Milano (4.170) e Napoli (3.665).

Le modalità di gara

Interessanti i dati su come sono state esperite le vendite. Le modalità di gara sono 4: 1)Presso il venditore: la tipologia di vendita tradizionale, in presenza fisica. Ha riguardato il 32% delle aste 2)Asincrona telematica: la gara si protrae fino a 3 giorni, sono state poco meno del 32% (spesso di 1-3 giorni). 3)Sincrona telematica: esclusivamente telematica, con gara a rilancio sul prezzo che inizia dopo la validazione delle offerte e si conclude subito allo scadere del tempo massimo (in genere non oltre 3 minuti) per effettuare un rilancio) e quindi di durata minore: 30% delle aste 4)Sincrona mista: si svolge contemporaneamente sia in presenza presso il venditore: sono state solo il 6%.

Come trovare una casa all’asta

I dati Reviva sono elaborati da https://pvp.giustizia.it/pvp/, il portale che presenta tutti i beni oggetto di aste pubbliche (altre agli immobili vi sono i beni mobili, le aziende, i crediti). L’accessibilità per i potenziali acquirenti è molto semplice, ed è possibile effettuare ricerche di immobili per tipologie e per ubicazione, circoscrivendo l’area geografica di interesse (ad esempio digitando un indirizzo e filtrando la ricerca poniamo a 5 km di distanza). Cliccando sul singolo immobile si ottengono copia dell’ordinanza e della perizia, e le indicazioni per la visita all’immobile (non sempre possibile), lo svolgimento dell’asta, se già calendarizzata. Chi propone l’immobile all’asta deve essere invece identificato tramite la Carta nazionale dei servizi.

Case all’asta: le piattaforme online

La ricerca è possibile anche sui siti dei vari tribunali italiani e inoltre su portali specializzati, come astegiudiziarie.it. Per quanto riguarda le gare segnaliamo che sia i notai gestiscono attraverso la Ran (Rete aste notarile) diverse dismissioni immobiliari di enti pubblici (Rete Aste Notarili - Consiglio Nazionale Del Notariato), e di una rete si sono dotati anche i dottori commercialisti /Rete Aste Commercialisti - Home page). Una recente iniziativa riguarda il braccio immobiliare di Bnp Paribas, che sul sito bnlimmobili.it ha dato vita a una piattaforma, che consente con la consulenza di un team dedicato di avviare le trattative per l’acquisto di immobili del Gruppo oggetto di dismissione o di immobili per cui è stata avviata una procedura esecutiva.

Il Trucco.

Antonio Giangrande: Io che mi occupo della prassi, ben conoscendo anche la legge e la sua personalistica applicazione corporativa (dei magistrati) e lobbistica (degli avvocati), posso dire che ci sono verità indicibili.

Mai si dirà in convegni giudiziari o forensi che da un lato ci sono le misure di prevenzione (inefficienti ed inique perché mai al passo con i tempi ragionevoli del processo e spesso incongruenti con le risultanze processuali di assoluzione, vedi i Cavallotti) e dall’altra le confische (conseguenti a processi dubbi, vedi Francesco Cavallari, mafioso per associazione, ma senza sodali) ed i procedimenti fallimentari con le aste truccate.

L’arbitrio dei magistrati sia in fase di misure cautelari e di prevenzione, sia in fase di confisca o di gestione e vendita dei beni confiscati o sequestrati (anche in sede civilistica con i fallimenti), non sono altro che strumenti di espropriazione illegale di aziende, spesso sane, per mantenere in modo vampiresco un sistema di potere, di cui i magistrati sono solo strumento, ma non beneficiari come lo sono il monopolio associativo di una certa antimafia o il sistema di gestione che è prevalentemente forense. Questo sistema è coperto dalla disinformazione dei media genuflessi a chi, dando vita alle liturgie antimafia, usufruisce dei vantaggi politici per generare ulteriore potere di restaurazione.

Se a qualcuno interessa ho scritto un libro, “la mafia dell’antimafia”, sui benefici che si producono per fare antimafia. In più ho scritto “Usuropoli e Fallimentopoli. Usura e fallimenti truccati”, che parla di usurpazione di beni privati a vantaggio di un sistema di potere insito nei palazzi di giustizia.

Insomma: si toglie ai poveri per dare ai ricchi. E se qualcuno parla (come Pino Maniaci che “Muto deve stare”), scatta la ritorsione.

Si badi bene: nessuno mi chiamerà per parlare di questo fenomeno, che è nazionale, in convegni organizzati nei fori giudiziari, né nessuna vittima pavida di questo fenomeno si prenderà la briga di divulgare queste verità, attraverso i miei saggi. Ecco perché si parlerà sempre di aria fritta e non ci sarà mai una rivoluzione che miri a ribaltare la prassi, più che a cambiare le norme.

Antonio Giangrande: Usurati ed esecutati. Aste giudiziarie fallimentari. Il marcio sotto il tappeto: chi si scusa si accusa.

Il business delle Aste giudiziarie fallimentari e della gestione dei beni confiscati a presunti mafiosi.

L’intervento del dr Antonio Giangrande, presidente della Associazione Contro Tutte le Mafie.

Dr Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Sono presidente di una associazione Antiracket ed Antiusura, riconosciuta dal Ministero dell’Interno perché iscritta presso la Prefettura di Taranto nell’elenco dei sodalizi antimafia, finchè lo permetteranno. La mia peculiarità è quella di essere presidente di una associazione che non prende soldi da alcuno, né ha agganci politici o istituzionali. Per tale carica e per la mia storia sono l’unico destinatario delle lamentele di migliaia di cittadini usurati ed esecutati da tutta Italia. Accuse tutte uguali: sfiducia nella giustizia e nelle istituzioni. La mia risposta a costoro è una sola: non caverete un ragno dal buco.

L’assunto è provato dal mio libro “Usuropoli e Fallimentopoli. Usura e fallimenti truccati”. Saggio che raccoglie le storie piccole e grandi sparse in tutta Italia. Storie come quelle di cui si parla in questo periodo al tribunale di Taranto: Foro chiacchierato per questa e per altre vicende. Ma del chiacchiericcio si deve tacere, altrimenti capita quello che capita a me: perseguitato dalla magistratura di Taranto e Potenza perché oso parlarne.

Da tempo mi chiamano i cittadini tarantini per denunciare anomalie nella gestione delle aste giudiziarie fallimentari e di questi ne ho fatto un gran fascio, oggetto di prove, veicolati presso uno studio legale che le raccoglie. Solo in questo periodo è montata la polemica per la presentazione di interrogazioni parlamentari, che ha permesso di parlare pubblicamente del fenomeno senza ritorsioni e stranamente si è parata un’alzata di scudi a spada tratta da parte delle corporazioni coinvolte: Excusatio non petita, accusatio manifesta, ossia, chi si scusa si accusa.

Ma provare a chi? Ai magistrati?

Un fallimento? In Italia può durare anche mezzo secolo !!! Quarantasei anni: a tanto ammonta la durata della procedura fallimentare di un’azienda di Taranto. Lo racconta Sergio Rizzo nella “Cricca”, un saggio Rizzoli dedicato alle lentezze e ai mille conflitti d’interesse del nostro Paese. Leggiamone un estratto. A Berlino la costruzione del Muro procedeva a ritmi serrati. Papa Giovanni XXIII aveva scomunicato il comunista Fidel Castro e la Francia riconosceva l’indipendenza dell’Algeria. In Italia Aldo Moro apriva la stagione del centrosinistra, Enrico Mattei regnava sull’Eni, Antonio Segni entrava al Quirinale. E mentre per la prima volta, dopo 400 anni, le orbite di Nettuno e Plutone si allineavano e gli Stati Uniti mandavano il loro primo uomo in orbita intorno alla Terra, in quel 1962 falliva a Taranto la ditta del signor Otello Semeraro. Non meritò nemmeno due righe in cronaca la notizia che al tribunale del capoluogo pugliese stava per cominciare una delle procedure fallimentari più lunghe della storia della Repubblica. Quarantasei anni. Nel 2008 il tribunale di Taranto ha approvato il rendiconto finale del fallimento Semeraro, con un verbale condito da particolari burocraticamente esilaranti. «Avanti l’Illustrissimo Signor Giudice Delegato Pietro Genoviva assistito dal cancelliere è personalmente comparso il curatore Michele Grippa il quale fa presente che tutti i creditori ed il fallito sono stati avvisati mediante raccomandata con avviso di ricevimento dell’avvenuto deposito del conto di cancelleria.» Nonostante ciò il giudice «dà atto che all’udienza né il fallito né alcun creditore è comparso». Sulle ragioni dell’assenza dei creditori non ci sono informazioni certe. Invece il signor Semeraro, pur volendo, difficilmente si sarebbe potuto presentare. Fitto è il mistero dell’indirizzo al quale gli sarebbe stata recapitata la raccomandata, con tanto di ricevuta di ritorno: perché egli, purtroppo, non è più tra i vivi. Come il tribunale di Taranto non poteva non sapere, avendo accertato, nel rendiconto del fallimento, un versamento di 10.263 euro «a favore della vedova di O. Semeraro». Quarantasei anni. Una lentezza inaccettabile per qualunque procedimento. Figuriamoci per un fallimento che ha fatto recuperare in tutto 188.314 euro, ai valori di oggi. Con la doverosa precisazione che un terzo abbondante se n’è andato in spese: 70.000 euro, di cui 50.398 soltanto per gli avvocati. Nei tribunali mancano i cancellieri, è vero. Nemmeno i giudici sono così numerosi. Poi la burocrazia, le procedure...Sulla scia del fenomeno denunciato è scandaloso quanto succede a Taranto. L’avv. Patrizio Giangrande, fratello del presidente Antonio Giangrande, e l’avv. Giancarlo De Valerio vincono la causa contro Equitalia Spa per risarcimento danni, sulla base di ipoteche su immobili emesse da detta società senza alcun avviso e per importi milionari attinenti presunti crediti, risultati inesistenti. Il Tribunale ha riconosciuto il risarcimento di svariate migliaia di euro liquidati in via equitativa. La cosa scandalosa è che, purtroppo, sono migliaia i casi in cui avvengono invii di cartelle talvolta recanti debiti anche estinti e con scadenze decennali. Il sistema permette al Fisco di effettuare sequestri di immobili o fermo amministrativo di auto, senza aver verificato, come nel caso di causa, la effettiva esistenza debitoria applicando interessi e spese che spesso superano l’importo del debito stesso, stranamente somme non calcolate come usuraie. Allucinante è il fatto che gli avvocati, in virtù della sentenza di condanna, recatisi unitamente all’ufficiale giudiziario per rendere ad Equitalia il torto subito ed eseguire il pignoramento presso la loro sede a Taranto, gli è stato comunicato dalla stessa Equitalia spa che non intende pagare, ritenendo i beni e i fondi insequestrabili. Pazzesco è che solo il Quotidiano di Puglia, alla pagina interna su Manduria, a firma di Gianluca Ceresio, si è occupato della vicenda che interessa tutti i cittadini, non solo tarantini, per la disparità di trattamento dei diritti lesi.

Legislatura 17 Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-06628. Pubblicato il 9 novembre 2016, nella seduta n. 719: “…le denunce che giungono presso il Tribunale e la Procura potentina sarebbero destinate all'insabbiamento ed all'archiviazione, così come era stato evidenziato nell'atto di sindacato ispettivo 4-06370”. Aste, stop alle accuse: “rispettate tutte le leggi”, scrive Campicelli su “Il Quotidiano di Puglia”. Il presidente del Tribunale di Taranto Francesco Lucafò respinge con fermezza qualsiasi insinuazione su “condotte non lineari” nell’esercizio delle funzioni svolte dai magistrati tarantini impegnati sul fronte delle esecuzioni immobiliari e delle aste giudiziarie: «La legge è chiara e le procedure si rispettano fino in fondo».

Già perché nei tribunali si rispettano le leggi? A questa domanda risponde un ex magistrato antimafia.

Ingroia: «Il tribunale di Roma ignora il lavoro dei pm nisseni». L’ex pm aveva chiesto che l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara venisse ascoltato come teste assistito nel processo sul riciclaggio del tesoro di Ciancimino, scrive il 2 novembre 2015 "Il Corriere del Mezzogiorno". «Sono rimasto sorpreso della decisione del tribunale di Roma di non acquisire gli atti dell’inchiesta della procura di Caltanissetta e del Consiglio Superiore della Magistratura sull’ex presidente della Sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, Silvana Saguto, e di non ascoltare l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara nella veste di teste assistito. Una decisione che trovo assolutamente incomprensibile e che rende purtroppo più difficile la ricerca della verità». Lo dichiara l’avvocato Antonio Ingroia, difensore di Raffaele Valente e del rumeno Victor Dombrovschi. «Il collegio - aggiunge Ingroia - ha totalmente ignorato le evidenti connessioni probatorie esistenti tra il processo di Roma e l’inchiesta di Caltanissetta, che vede indagati l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara e la giudice Silvana Saguto per fatti gravissimi all’esame del Csm e su cui si è pronunciato in modo netto anche il ministro della Giustizia Orlando. Nel procedimento romano, infatti, risultava che Cappellano Seminara era stato nominato dalla Saguto amministratore giudiziario dei beni sequestrati, e sequestrati proprio grazie alle informative di Cappellano Seminara: come si può negare che ci sia una connessione con quanto emerso nelle ultime settimane a Palermo? La logica suggerisce di sì e invece il tribunale ha deciso di ignorare il lavoro dei pm nisseni. Evidentemente - conclude Ingroia - meglio non sentire, non vedere, non sapere. Ma non è così che si accerta la verità e si fa giustizia».

Ma provare a chi? Agli ispettori ministeriali?

Se, come è stato evidenziato nell’interrogazione parlamentare, tutto è stato insabbiato a Potenza, come può desumersi fonte di prova un atto che non si trova o che sia già valutato negativamente dal sistema giudiziario? E comunque, il Ministero della Giustizia, (andando contro corrente, anche in virtù delle risultanze di una certosina ispezione senza condizionamenti ambientali, da cui risultasse un sistema criminale collusivo non certificato dai magistrati), promuovesse un’azione disciplinare nei confronti dei responsabili, quale risultato ne conseguirebbe, se non un esito scontato?

PUNTATA DEL 29/11/2015. LA GIUSTA CAUSA di Claudia Di Pasquale

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO:…ma un procedimento disciplinare del CSM a carico di un magistrato può durare fino a 5 anni.

CLAUDIA DI PASQUALE: Ogni anno quanti procedimenti vengono invece archiviati?

PASQUALE CICCOLO - PROCURATORE GENERALE CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE: La media è il 94% circa.

CLAUDIA DI PASQUALE: Che cosa?

PASQUALE CICCOLO - PROCURATORE GENERALE CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE: Delle archiviazioni sul numero degli esposti. Noi facciamo azione disciplinare sul 7% degli esposti.

FRANCANTONIO GRANERO - EX PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI SAVONA: Quando un magistrato prende uno svarione nessuno gli fa un procedimento disciplinare.

Ma provare a chi? Ai Prefetti in funzione antiusura ed antiracket?

Nella migliore delle ipotesi, da rappresentanti istituzionali e governativi, ti impediscono di parlare di usura bancaria e di aste truccate, come di malagiustizia in generale; nella peggiore delle ipotesi si parla di Prefetti arrestati o condannati, come Ennio Blasco per corruzione in relazione alle certificazioni antimafia rilasciate, o Carlo Ferrigno per usura e sesso in cambio di aiuto o agevolazioni.

Ma provare a chi? Agli avvocati?

Avvocati? A trovarne uno meritevole di tale appellativo è un’impresa. E se lo trovi te lo tieni stretto, pur essendo sempre un avvocato, coi i suoi difetti e con i suoi pregi. Il fascio di prove sono in mano ad un avvocato coraggioso di Massafra, che per ripicca è isolato ed accusato di Stalking giudiziario. Per altro gli avvocati di Taranto hanno preso una netta posizione.

I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la Giustizia per scopi elettorali», Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: “preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi”, scrive Enzo Ferrari su "Taranto Buona Sera” il 16 novembre 2016.

«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.

Ma provare a chi? Ai commercialisti?

Vicenda Aste pilotate, i commercialisti: fiducia nei magistrati, scrive Marcella D'Addato il 15 novembre 2016 su "Canale 189”.

Ma provare a chi? Ai politici parlamentari?

I due parlamentari di Taranto (avvocati) scrivono al ministro per difendere la sezione fallimentare del tribunale. Chiarelli e Pelillo evidenziano quelle che ritengono le estraneità assolute con fatti riguardanti la malavita e attaccano i parlamentari M5S che chiedono di chiarire presunte anomalie, scrive il 16 novembre 2016 “Noi Notizie”.

La polemica. Abusi nella gestione dei fallimenti, bufera sul Movimento 5 Stelle. Pelillo e Chiarelli scrivono al ministro Orlando e attaccano i senatori pentastellati, scrive "Taranto Buona Sera” il 16 novembre 2016. Diventa un caso politico la polemica sollevata da un gruppo di senatori del M5S su presunti abusi nella gestione dei fallimenti al Tribunale di Taranto. La reazione parlamentare all’interrogazione dei Cinquestelle arriva in modalità bipartisan con una lettera congiunta degli onorevoli Michele Pelillo (Pd) e Gianfranco Chiarelli (CoR) indirizzata al ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Una lettera nella quale, oltre a esprimere incondizionata fiducia agli operatori della giustizia, i due deputati accusano i senatori del M5S di aver voluto strumentalizzare politicamente situazioni che neppure conoscono.

Ma provare a chi? All’antipolitica parlamentare?

Aste Immobiliari del Tribunale di Taranto, il Meetup amici di Beppe grillo di Massafra risponde, scrive "Vivi Massafra” il 16 Novembre 2016. «Ma quali fini elettoralistici… il movimento 5 stelle non ne ha bisogno, cammina sulle sue gambe, anzi corre, e meno male che c’è!" Meetup Amici di Beppe Grillo Massafra». Da sapere che i 12 senatori della prima interrogazione che ha innescato la polemica ed i 15 senatori della seconda interrogazione sono quei parlamentari che hanno votato contro la responsabilità civile dei magistrati. Ergo: per la loro assoluta impunità ed irresponsabilità! Inoltre è risaputo il fenomeno dei concorsi pubblici farsa o truccati. Allora perché non chiedere ai rappresentanti delle categorie interessate pronti ad aprir bocca, come loro sono stati abilitati?

Ma provare a chi? Al regime omologato dell’informazione, che ha anch’essa assoluta fiducia nella magistratura?

Da premettere che ricevo segnalazioni di inchieste a carico di magistrati ed avvocati delle quali nessuno ha mai saputo nullo, compreso l’inchiesta sul bilancio del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto. Ma è esemplare come la vicenda delle aste giudiziarie fallimentari a Taranto con conseguente interrogazione parlamentare e ispezione ministeriale a gennaio 2017, sia rimasta censurata sulla stampa nazionale e locale, salvo casi eccezionali. Nella cerchia nell’eccezionalità, nella maggioranza dei casi, però, deformando la realtà. Si pensi che il video della intercettazione privata ambientale in cui si dimostra la concussione di un delegato giudiziario è stato pubblicato da un giornale non tarantino, non pugliese, ma da un giornale lucano. E comunque nessuno ha avuto il coraggio di fare il nome dell’avvocato coinvolto a chiedere la presunta tangente.

Su come sono stati trattati i fatti vi è un esempio lampante: “Caso aste giudiziarie a Taranto, un'inchiesta per fare chiarezza. La procura farà chiarezza sulle denunce arrivate dagli agricoltori”. Servizio di Francesco Persiani del 9/11/2016 su TeleNorba. Breve intervista a Paolo Rubino, Tavolo Verde agricoltori: «Non possiamo che registrare una grande sfiducia nelle istituzioni. In questo caso della Magistratura». Il resto dell'intervista dedicata all'Avv. Fedele Moretti, Presidente Camera Procedure ed Esecuzioni Immobiliari. «La Procura indagherà, partendo dai servizi giornalistici di questi giorni, ritenute possibili notizie di reato e per questo acquisiti dall’autorità giudiziaria su disposizione del procuratore capo presso il Tribunale di Taranto Carlo Maria Capristo», chiosa Persiani.

Servizi giornalistici? Lo studio legale che ha il fascio di prove sulle aste di Taranto è tenuta ben lontana dagli autori dei servizi giornalistici mai nati. Perché? Perché i giornalisti son di sinistra e son amici dei magistrati. Ecco a voi una vera e propria perla andata in onda su Rainews24: durante la notte delle elezioni americane, Giovanna Botteri si è lasciata andare alla disperazione: «Che ne sarà di noi giornalisti se non riusciamo più a influenzare l’opinione pubblica?» Parole testuali: «Che cosa succederà a noi giornalisti? Non si è mai vista come in queste elezioni una stampa così compatta ed unita contro un candidato… che cosa succederà ora che la stampa non ha più forza e peso nella società americana? Le cose che sono state scritte, le cose che sono state dette evidentemente non hanno influito su questo risultato e sull’elettorato che ha creduto a Trump e non alla stampa!». Forse è per questo che la gente non si fida più di voi? Forse è per questo che non vendete più giornali? Forse è per questo che dovete andarvene tutti a casa?

Ma i giornalisti sono troppo di sinistra? Si chiedono Luigi Curini e Sergio Splendore di Lavoce.info il 20 ottobre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". I giornalisti italiani si collocano politicamente più a sinistra dei cittadini. Ne consegue una scarsa fiducia dei lettori nella carta stampata. Perché i giornali non reagiscono? Perché a leggerli e comprarli sono coloro che hanno una posizione ideologica in media più vicina a chi li scrive. Il difficile rapporto tra italiani e stampa. Stando ai sondaggi periodicamente effettuati da Eurobarometro, i cittadini italiani hanno poca fiducia nella carta stampata. Sostanzialmente più di un italiano su due esprime un giudizio negativo a riguardo: negli ultimi quindici anni la media del livello di fiducia verso la stampa è stata complessivamente del 43 per cento, quattro punti in meno del dato europeo nello stesso periodo. Le spiegazioni più ricorrenti riconducono la sfiducia al modello di giornalismo italiano contraddistinto da una propensione al commento, da un alto livello di parallelismo politico e da una stampa che storicamente si è indirizzata a una élite, producendo, come conseguenza, bassi livelli di lettura. In questo quadro, il rapporto tra giornalisti e cittadini rimane tuttavia in secondo piano.

Tra gli omologati spicca la figura dell’eccezione. «Cane non morde cane. Le certezze del sistema e i dubbi dei cittadini. Sul caso delle aste pilotate al tribunale di Taranto e delle facili archiviazioni alla Procura di Potenza levata di scudi contro i Cinque Stelle e la nostra inchiesta. A quando la verità? - Scrive Michele Finizio su "Basilicata 24", mercoledì 16/11/2016. - Può darsi che quanto raccontato negli esposti dei cittadini vittime delle “presunte” irregolarità sia tutto falso, Oppure tutto vero. Basta fare qualche verifica. Eppure, a quanto pare, tutti i signori della giustizia, della politica, delle professioni, della stampa, non hanno dubbi: “Tutto regolare”. Vorremmo toglierci il dubbio anche noi, per questo il nostro lavoro di inchiesta sulla vicenda, continua. A presto rivederci».

Ma provare a chi? Agli usurati esecutati?

Le vittime, accusate di mitomania o pazzia, anziché fare un fascio di prove aggregandosi tra loro, anche per rompere il velo di omertà e censura, pensano bene di smarcarsi e fare guerra a sé per salvare il proprio orticello.

La conclusione di questo mio intervento, quindi, è che ogni vittima di qualsivoglia ingiustizia non caverà mai un ragno dal buco perché per gli altri sarà sempre “Tutto Regolare”, mentre per quanto riguarda se stessi: chi è causa del suo mal, pianga se stesso.

E comunque, dopo quanto ho scritto, non mi si chieda perché il mio sodalizio si chiama Associazione Contro Tutte le Mafie. Il perché dovrebbe essere chiaro…

Antonio Giangrande: FALLIMENTI TRUCCATI. IL MARCIO DOVE NON TE LO ASPETTI: NEI TRIBUNALI E NELLO SPORT.

Beni confiscati alla mafia in modo strumentale e fallimenti truccati.

Chi controlla i controllori? Dal caso Cavallotti ai casi di Danilo Filippini e di Sergio Briganti.

Venerdì 24 ottobre 2014 si tiene a Taranto la conferenza prefettizia tra il Prefetto, Umberto Guidato, il dirigente dell’Ufficio Ordine e Sicurezza Pubblica, sostituito dal capo di Gabinetto, Michele Lastella e le associazioni antimafia operanti sul territorio della provincia di Taranto. In quell’occasione è intervenuto il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, oltre che scrittore e sociologo storico, che da venti anni studia il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSapce.com e Google Libri.

Il dr Antonio Giangrande ebbe ad affermare che nuovi fenomeni si affacciavano nel mondo dell’illegalità: l’usura di Stato con Equitalia, l’usura bancaria e, per la crisi imperante, l’usura pretestuosa, ossia la denuncia di usura per non pagare i fornitori.

Il prefetto ed il suo vice, in qualità di rappresentanti burocratici del sistema statale prontamente hanno contestato l’esistenza dell’illegalità para statale e para bancaria, mettendo in dubbio l’esistenza di indagini giudiziarie che hanno svelato il fenomeno.

Eppure La corruzione passa per il tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C'è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Il Pm di Roma: Un fenomeno odioso, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A Napoli, dove il caos è dannazione di molti e opportunità per gli scaltri, il tariffario lo conoscevano tutti: se un imputato voleva comprarsi il rinvio della sua udienza doveva sganciare non meno di 1.500 euro. Per “un ritardo” nella trasmissione di atti importanti, invece, i cancellieri e gli avvocati loro complici ne chiedevano molti di più, circa 15mila. «Prezzi trattabili, dottò...», rabbonivano i clienti al telefono. Soldi, mazzette, trattative: a leggere le intercettazioni dell’inchiesta sul “mercato delle prescrizioni” su cui ha lavorato la procura di Napoli, il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea sembrano un suk, con pregiudicati e funzionari impegnati a mercanteggiare sconti che nemmeno al discount. Quello campano non è un caso isolato. Se a Bari un sorvegliato speciale per riavere la patente poteva pagare un magistrato con aragoste e champagne, oggi in Calabria sono tre i giudici antimafia accusati di corruzione per legami con le ’ndrine più feroci. Alla Fallimentare di Roma un gruppo formato da giudici e commercialisti ha preferito arricchirsi facendo da parassita sulle aziende in difficoltà. Gli imprenditori disposti a pagare tangenti hanno scampato il crac grazie a sentenze pilotate; gli altri, che fallissero pure. Ma negli ultimi tempi magistrati compiacenti e avvocati senza scrupoli sono stati beccati anche nei Tar, dove in stanze anonime si decidono controversie milionarie, o tra i giudici di pace. I casi di cronaca sono centinaia, in aumento esponenziale, tanto che gli esperti cominciano a parlare di un nuovo settore illegale in forte espansione: la criminalità del giudiziario. «Ciò che può costituire reato per i magistrati non è la corruzione per denaro: di casi in cinquant’anni di esperienza ne ho visti tanti che si contano sulle dita di una sola mano. Il vero pericolo è un lento esaurimento interno delle coscienze, una crescente pigrizia morale», scriveva nel 1935 il giurista Piero Calamandrei nel suo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”. A ottant’anni dalla pubblicazione del pamphlet, però, la situazione sembra assai peggiorata. La diffusione della corruzione nella pubblica amministrazione ha contagiato anche le aule di giustizia che, da luoghi deputati alla ricerca della verità e alla lotta contro il crimine sono diventati anche occasione per business illegali. Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma, prova a definire caratteristiche e contorni al fenomeno: «La criminalità del giudiziario è un segmento particolare della criminalità dei colletti bianchi. Una realtà tanto più odiosa perché giudici, cancellieri, funzionari e agenti di polizia giudiziaria mercificano il potere che gli dà la legge». Se la corruzione è uno dei reati più diffusi e la figura del giudice comprato è quella che desta più scandalo nell’opinione pubblica, il pm che ha indagato sulla bancarotta Alitalia e sullo Ior ricorda come tutti possono cadere in tentazione, e che nel gran bazar della giurisdizione si può vendere non solo una sentenza, ma molti altri articoli di enorme valore. «Come un’informazione segreta che può trasformare l’iter di un procedimento, un ritardo che avvicina la prescrizione, uno stop a un passaggio procedurale, fino alla sparizione di carte compromettenti». Numeri ufficiali sul fenomeno non esistono. Per quanto riguarda i magistrati, le statistiche della Sezione disciplinare del Csm non fotografano i procedimenti penali ma la più ampia sfera degli illeciti disciplinari. Nell’ultimo decennio, comunque, non sembra che lo spirito di casta sia prevalso come un tempo: se nel 2004 le assoluzioni erano quasi doppie rispetto alle condanne (46 a 24) ora il trend si è invertito, e nei primi dieci mesi del 2012 i giudici condannati sono stati ben 36, gli assolti 27. «Inoltre, se si confrontano queste statistiche con quelle degli altri Paesi europei redatte dalla Cepej - la Commissione europea per l’efficacia della giustizia - sulla base dei dati del 2010», ragiona in un saggio Ernesto Lupo, fino al 2013 primo presidente della Cassazione, «si scopre che a fronte di una media statistica europea di 0,4 condanne ogni cento giudici, il dato italiano è di 0,6». Su trentasei Paesi analizzati dalla Commissione, rispetto all’Italia solo in cinque nazioni si contano più procedimenti contro i magistrati. Chi vuole arricchirsi illegalmente sfruttando il settore giudiziario ha mille modi per farlo. Il metodo classico è quello di aggiustare sentenze (come insegnano i casi scuola delle “Toghe Sporche” di Imi-Sir e quello del giudice Vittorio Metta, corrotto da Cesare Previti affinché girasse al gruppo Berlusconi la Mondadori), ma spulciando le carte delle ultime indagini è la fantasia a farla da padrona. L’anno scorso la Procura di Roma ha fatto arrestare un gruppo, capeggiato da due avvocati, che ha realizzato una frode all’Inps da 22 milioni di euro: usando nomi di centinaia di ignari pensionati (qualcuno era morto da un pezzo) hanno mitragliato di cause l’istituto per ottenere l’adeguamento delle pensioni. Dopo aver preso i soldi la frode continuava agli sportelli del ministero della Giustizia, dove gli avvocati chiedevano, novelli Totò e Peppino, il rimborso causato delle «lungaggini» dei finti processi. Un avvocato e un giudice di Taranto, presidente di sezione del tribunale civile della città dei Due Mari, sono stati invece arrestati per aver chiesto a un benzinaio una tangente di 8mila euro per combinare un processo che il titolare della pompa aveva con una compagnia petrolifera. Se a Imperia un magistrato ha aiutato un pregiudicato a evitare la “sorveglianza speciale” dietro lauto compenso, due mesi fa un giudice di pace di Udine, Pietro Volpe, è stato messo ai domiciliari perché (insieme a un ex sottufficiale della Finanza e un avvocato) firmava falsi decreti di dissequestro in favore di furgoni con targa ucraina bloccati dalla polizia mentre trasportavano merce illegale sulla Venezia-Trieste. Il giro d’affari dei viaggi abusivi protetti dal giudice era di oltre 10 milioni di euro al mese. Raffaele Cantone, da pochi giorni nominato da Matteo Renzi presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, evidenzia come l’aumento dei crimini nei palazzi della legge può essere spiegato, in primis, «dall’enorme numero di processi che si fanno in Italia: una giustizia dei grandi numeri comporta, inevitabilmente, meno trasparenza, più opacità e maggiore difficoltà di controllo». I dati snocciolati tre mesi fa dal presidente della Cassazione Giorgio Santacroce mostrano che le liti penali giacenti sono ancora 3,2 milioni, mentre le cause civili arretrate (calate del 4 per cento rispetto a un anno fa) superano la cifra-monstre di 5,2 milioni. «Anche la farraginosità delle procedure può incoraggiare i malintenzionati» aggiunge Rossi. «Per non parlare del senso di impunità dovuto a leggi che - sulla corruzione come sull’evasione fiscale - sono meno severe rispetto a Paesi come Germania, Inghilterra e Stati Uniti: difficile che, alla fine dei processi, giudici e avvocati condannati scontino la pena in carcere». Tutto si muove attorno ai soldi. E di denaro, nei tribunali italiani, ne gira sempre di più. «Noi giudici della sezione Grandi Cause siamo un piccolo, solitario, malfermo scoglio sul quale piombano da tutte le parti ondate immense, spaventose, vere schiumose montagne. E cioè interessi implacabili, ricchezze sterminate, uomini tremendi... insomma forze veramente selvagge il cui urto, poveri noi meschini, è qualcosa di selvaggio, di affascinante, di feroce. Io vorrei vedere il signor ministro al nostro posto!», si difendeva Glauco Mauri mentre impersonava uno dei giudici protagonisti di “Corruzione a palazzo di giustizia”, pièce teatrale scritta dal magistrato Ugo Betti settant’anni fa. Da allora l’importanza delle toghe nella nostra vita è cresciuta a dismisura. «Tutto, oggi, rischia di avere strascichi giudiziari: un appalto, un concorso, una concessione, sono milioni ogni anno i contenziosi che finiscono davanti a un giudice», ragiona Rossi. I mafiosi nelle maglie larghe ne approfittano appena possono, e in qualche caso sono riusciti a comprare - pagando persino in prostitute - giudici compiacenti. In Calabria il gip di Palmi Giancarlo Giusti è stato arrestato dalla Dda di Milano per corruzione aggravata dalle finalità mafiose («Io dovevo fare il mafioso, non il giudice!», dice ironico Giusti al boss Giulio Lampada senza sapere di essere intercettato), mentre accuse simili hanno distrutto le carriere del pm Vincenzo Giglio e del finanziere Luigi Mongelli. A gennaio la procura di Catanzaro ha indagato un simbolo calabrese dell’antimafia, l’ex sostituto procuratore di Reggio Calabria Francesco Mollace, che avrebbe “aiutato” la potente ’ndrina dei Lo Giudice attraverso presunte omissioni nelle sue indagini. Sorprende che in quasi tutte le grandi istruttorie degli ultimi anni insieme a politici e faccendieri siano spesso spuntati nomi di funzionari di giustizia e poliziotti. Nell’inchiesta sulla cricca del G8 finirono triturati consiglieri della Corte dei Conti, presidenti di Tar e pm di fama (il procuratore romano Achille Toro ha patteggiato otto mesi), mentre nell’inchiesta P3 si scoprì che erano molti i togati in contatto con l’organizzazione creata da Pasquale Lombardi e Flavio Carboni per aggiustare processi. Anche il lobbista Luigi Bisignani, insieme al magistrato Alfonso Papa, aveva intuito gli enormi vantaggi che potevano venire dal commercio di informazioni segrete: la P4, oltre che di nomine nella pubblica amministrazione, secondo il pubblico ministero Henry Woodcock aveva la sua ragion d’essere proprio nell’«illecita acquisizione di notizie e di informazioni» di processi penali in corso. Secondo Cantone «nel settore giudiziario, e in particolare nei Tar e nella Fallimentare, si determinano vicende che dal punto di vista economico sono rilevantissime: che ci siano episodi di corruzione, davanti a una massa così ingente di denaro, è quasi fisiologico». I casi, in proporzione, sono ancora pochi, ma l’allarme c’è. Se i Tar di mezza Italia sono stati travolti da scandali di ogni tipo (al Tar Lazio è finito nei guai il giudice Franco Maria Bernardi; nelle Marche il presidente Luigi Passanisi è stato condannato in primo grado per aver accettato la promessa di ricevere 200 mila euro per favorire l’imprenditore Amedeo Matacena, mentre a Torino è stato aperto un procedimento per corruzione contro l’ex presidente del Tar Piemonte Franco Bianchi), una delle vicende più emblematiche è quella della Fallimentare di Roma. «Lì non ci sono solo spartizioni di denaro, ma anche viaggi e regali: di tutto di più. Una nomina a commissario giudiziale vale 150 mila euro, pagati al magistrato dal professionista incaricato. Tutti sanno tutto, ma nessuno fa niente», ha attaccato i colleghi il giudice Chiara Schettini, considerata dai pm di Perugia il dominus della cricca che mercanteggiava le sentenze del Tribunale della Capitale. Dinamiche simili anche a Bari, dove l’inchiesta “Gibbanza” ha messo nel mirino la sezione Fallimentare della città mandando a processo una quarantina tra giudici, commercialisti, avvocati e cancellieri. «Non bisogna stupirsi: il nostro sistema giudiziario soffre degli stessi problemi di cui soffre la pubblica amministrazione», spiega Daniela Marchesi, esperta di corruzione e collaboratrice della “Voce.info”. Episodi endemici, in pratica, visto che anche Eurostat segnala che il 97 per cento degli italiani considera la corruzione un fenomeno “dilagante” nel Paese. «Mai visto una città così corrotta», protesta uno dei magistrati protagonisti del dramma di Betti davanti all’ispettore mandato dal ministro: «Il delitto dei giudici, in conclusione, sarebbe quello di assomigliare un pochino ai cittadini!». Come dargli torto?

A conferma di ciò mi sono imbattuto nel servizio di TeleJato di Partinico (Pa) del 21 ottobre 2014 che al minuto 31,32 il direttore Pino Maniaci spiega: «Ci occupiamo ancora una volta di beni sequestrati. Questa mattina una audizione al Consiglio Superiore della Magistratura, scusate in Commissione Nazionale Antimafia, alla presenza della Bindi, alcuni procuratori aggiunti e pubblici ministeri di Palermo stanno parlando di Italgas. Quelli di Italgas è tutto un satellite ed una miriade di altre società che ci girano intorno, dove dovranno spiegare come mai le misure di prevenzione di Palermo hanno deciso di mettere sotto amministrazione giudiziaria questa società a livello nazionale. Sapete perché? Perché un certo Modica De Mohac, già il nome è quanto dire, altosonante, ha venduto, mentre le società erano sottosequestro. Dovevano essere semplicemente essere amministrate e per legge non toccate. E per legge in un anno si deve redimere se quel bene va confiscato definitivamente o restituito ai legittimi proprietari. I Cavallotti di Belmonte Mezzagno, assolti con formula piena dall’accusa di mafia, da ben 16 anni hanno i beni sottoposti a sequestro. 16 anni!! Dottoressa Saguto, 16 anni!!! Il Tribunale può violare la legge? In questo caso, sì. E che cosa è successo? Le imprese, le ditte, i paesi che sono stati metanizzati dai Cavallotti, da Modica De Mohac, naturalmente sotto la giurisdizione delle misure di prevenzione della dottoressa Saguto, ha venduto questa metanizzazione, ha venduto queste società all’Italgas. E lì, dopo si è scoperto, che essendoci le società dei Cavallotti, guarda caso l’Italgas è infiltrata mafiosa. E cosa si fa? Si sequestra l’Italgas! Sono quei paradossi tutti nostri. Tutti siculi. Dove, sinceramente, chi amministra la giustizia, che commette queste illegalità la fa sempre da padrone e la fa sempre franca. Ma è possibile? In Sicilia sì!! Vediamo i particolari nel servizio. “Italgas alcuni mesi fa è stata sequestrata e messa sotto tutela, cioè affidata alle cure di amministratori giudiziari ed ispettori che entro 6 mesi dovrebbero verificare se nell’azienda ci sono o ci sono stati infiltrazioni mafiose. La Guardia di Finanza, non si sa se ispirata dal giudice che si occupa dell’ufficio di misure di prevenzione (sapete chi è? La solita dottoressa Saguto, ha trovato che alcuni pezzi di attività delle società erano stati rilevati presso le aziende Cavallotti di Belmonte Mezzagno che si occupavano di metanizzazione. Ma da qui 16 anni sono sotto sequestro. L’operazione di trasferimento degli impianti di metano dei vari comuni venduti in parte all’Italgas per un importo di 20 milioni di euro ed un’altra parte prima alla Coses srl, azienda posta sotto sequestro, amministrata dal Modica, tramite una partita di giro contabile avvenuto nel 2007 per un importo di 2 milioni di euro. Poi gli stessi impianti, dopo essere stati in possesso della Coses srl vengono rivenduti sempre alla Italgas per un importo di 5 milioni di euro. E dopo aver incassato la somma, la stessa Comest Srl, amministrata sempre dal Modica, provvede a trasferire i ricavati della vendita degli impianti di metano nelle società riconducibili ad esso stesso ed ai suoi familiari. Questa manovra è avvenuta semplice al Modica, in quanto alla Comest srl era ed è confiscata e definitivamente passata al demanio. Il Prefetto Caruso, quando era direttore dell’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati, accortosi delle malefatte del Modica De Mohac, ha provveduto a sollevare il Modica da tutti i suoi incarichi per poi affidarli ad altri amministratori del tribunale di Palermo. E’ chiaro che l’operazione di vendita, come prescrive la legge, deve essere fatta con il consenso del giudice che ha nominato l’amministratore stesso e quindi la solita dottoressa Saguto dovrebbe essere al corrente di quanto oggi la Commissione Antimafia vorrebbe sapere, avendo convocato il procuratore aggiunto di Palermo Dino Petralia, il Pubblico Ministero Dario Scaletta ed il pubblico ministero Maurizio De Lucia. Non è chiaro quanto c’entrano i magistrati in tutto questo e perché non ha interrogato il magistrato che invece c’entra. In Italia funziona proprio così. Per complicare quest’indagine è stata associata un’altra indagine che non c’entra con i fratelli Cavallotti e che riguarda una serie di aziende a suo tempo del tutto concorrenziali con quelle degli stessi Cavallotti e che facevano capo a Ciancimino, al suo collaboratore prof. Lapis ed ad un altro suo socio. Le notizie trasmesse dalla stampa lasciano credere invece che le aziende dei Cavallotti sono ed agiscono assieme a quelle di Ciancimino e che l’infiltrazione mafiosa che riguarda due cose diverse sia invece la medesima cosa. Staremo a vedere se passati 6 mesi di controllo e l’Italgas potrà tornare a distribuire il suo gas senza pagare di tasca sua il solito amministratore giudiziario e se l’attività persecutoria che si accanisce sui fratelli Cavallotti, assolti, ricordiamo, in via definitiva ma sempre sotto il mirino della solita dottoressa Saguto, possa continuare all’infinito per tutta la settima generazione. Per quanto riguarda l’audizione del giudice Scaletta, egli ha avuto in mano le indagini che riguardavano la discarica di Clin in Romania. Una parte della quale, la cui proprietà è stata attribuita a Ciancimino è amministrata dal solito re degli amministratori giudiziari, Cappellano Seminara, che è sotto processo per aver combinato alcuni imbrogli nel tentativo di impadronirsi di una parte di quella discarica. Ma fermiamoci. Il discorso è così complesso che siamo convinti che la Commissione Antimafia preferirà metterlo da parte e lasciare tutto come si trova per non scoprire una tana di serpi o per non aprire il coperchio di una pentola dove c’è dentro lo schifo distillato. Per una volta non soltanto di distilleria Bertollini. (Parla la Bindi: La Commissione ha registrato un fallimento sui beni confiscati. Non è così. Non abbiamo registrato un fallimento perché i risultati sono stato ottenuti e non perché questa è la città dove metà dei beni sequestrati della mafia sono in questa città e le misure di prevenzione e la gestione di questi beni che è stata fatta in questa città e di questa regione ha fatto scuola in tutta Italia.) Sono quei bordelli tutti siculi, sai perché? Ti trovi nella terra del Gattopardo: cambiare tutto per non cambiare un cazzo….»

Uno dice, meno male che di pulito in Italia ci rimane lo sport. Segno tangibile di purezza, sportività e correttezza.

Giovanni Malagò, n.1 dello sport italiano, un po' abbacchiato per i 16 mesi di squalifica come... nuotatore, scrive Fulvio Bianchi su “La Repubblica”. Un momento difficile per tutto lo sport italiano, specie nelle istituzioni del calcio. Un momento non facile per la Lega Pro e il suo storico presidente Mario Macalli: dossier e denunce sono nelle mani della Procura federale (sperando che Palazzi, almeno stavolta, faccia in fretta) e anche della Repubblica della Repubblica di Firenze. Sono tanti, troppi, i fronti aperti: la Lega Pro ha licenziato il direttore generale Francesco Ghirelli, già braccio destro di Franco Carraro. E Ghirelli ha "confezionato" un dossier (scottante) che Macalli ha fatto avere al superprocuratore Palazzi. Lo stesso Palazzi presto potrebbe deferire il n.1 della Lega, e vicepresidente Figc, per il caso Pergocrema (vedi Spy Calcio dell'8 ottobre). In caso di condanna definitiva superiore ad un anno, decadrebbe dalle sue cariche. Inoltre la Procura della Repubblica di Firenze l'estate scorsa ha rinviato a giudizio Macalli sempre per il Pergocrema. La stessa Procura toscana avrebbe aperto un fascicolo anche sull'acquisto della splendida sede fiorentina della Lega, sede inaugurata da Platini. In ballo ci sono un fallimento e un paio di milioni..

Il presidente del Coni Giovani Malagò è stato condannato dalla Disciplinare della Federnuoto a 16 mesi di squalifica in qualità di presidente dell'Aniene, società per la quale gareggia anche Federica Pellegrini, scrive “La Gazzetta dello Sport”. Per Malagò dunque scatta la sospensione da ogni attività sociale e federale per il periodo in questione. E' stata così riconosciuta la responsabilità di Malagò per "mancata lealtà" e "dichiarazioni lesive della reputazione" del presidente federale Barelli, denunciato dal Coni per una presunta doppia fatturazione. Il caso era nato per una denuncia del Coni, presieduto da Malagò, alla Procura della Repubblica di Roma, per una presunta doppia fatturazione per 820mila euro per lavori di manutenzione della piscina del Foro Italico in occasione dei Mondiali di nuoto. Nel registro degli indagati era stato iscritto il presidente della Federnuoto Barelli, ma il pm aveva chiesto al gip l'archiviazione. La partita giudiziaria era stata poi riaperta dalla decisione di quest'ultimo di chiedere un supplemento di indagini, tuttora in corso. Nel frattempo, nuovi colpi di scena. Barelli, infatti, ha invitato la Procura federale della Fin ad "accertare" e valutare i comportamenti di Malagò, nella sua condizione di membro della Fin come presidente della Canottieri Aniene. Un invito a verificare se ci possano essere state "infrazioni disciplinarmente rilevanti" nelle parole con cui Malagò riassunse la vicenda nella giunta Coni del 4 marzo, parlando, sono espressioni dello stesso Malagò davanti al viceprocuratore federale, "come presidente del Coni e non da tesserato Fin". Il documento-segnalazione di Barelli accusava in sostanza Malagò di aver detto il falso in Giunta accusando ingiustamente la Federazione. La nota Fin citava la "mancata lealtà" e le "dichiarazioni lesive della reputazione", gli articoli 2 e 7, che Malagò avrebbe violato con le sue parole su Barelli in Giunta sulle "doppie fatturazioni". I legali del Coni avevano sollevato eccezioni di nullità, illegittimità e incompetenza, depositando anche il parere richiesto dalla Giunta al Collegio di Garanzia dello Sport, che chiariva la non competenza degli organi di giustizia delle Federazioni su vicende del genere.

Il passato scomodo di Tavecchio, scrivono da par loro Tommaso Rodano e Carlo Tecce per Il Fatto Quotidiano. "Spuntano una denuncia per calunnia contro il super candidato alla Federcalcio e un dossier depositato in procura che lo riguarda. E si scoprono strane storie, dalle spese pazze fino al doppio salvataggio del Messina. Ogni giorno che passa, e ne mancano cinque all’annunciata investitura in Federcalcio, il ragionier Carlo Tavecchio arruola dissidenti, smarrisce elettori: resiste però, faticosamente resiste. Nonostante le perplessità di Giovanni Malagò (Coni), dei calciatori più famosi e di qualche squadra di serie maggiore o inferiore. Il padrone dei Dilettanti, che dal ‘99 gestisce un’azienda da 700.000 partite a stagione e da 1,5 miliardi di euro di fatturato, com’è da dirigente? Dopo aver conosciuto le sue non spiccate capacità oratorie, tra donne sportive handicappate e africani mangia-banane, conviene rovistare nel suo passato. E arriva puntuale una denuncia per calunnia contro Tavecchio, depositata in Procura a Varese due giorni fa, a firma Danilo Filippini, ex proprietario dell’Ac Pro Patria et Libertate, a oggi ancora detentore di un marchio storico per la città di Busto Arsizio. Per difendersi da una querela per diffamazione – su un sito aveva definito il candidato favorito alla Figc un “pregiudicato doc” – Filippini ha deciso di attaccare: ha presentato documenti che riguardano il Tavecchio imprenditore e il Tavecchio sportivo, e se ne assume la responsabilità. Oltre a elencare le cinque condanne che il brianzolo, già sindaco di Ponte Lambro, ha ricevuto negli anni (e per i quali ha ottenuto una riabilitazione) e i protesti per cambiali da un miliardo di lire dopo il fallimento di una sua azienda (la Intras srl), Filippini allega una lettera, datata 24 ottobre 2000, Tavecchio era capo dei Dilettanti dal maggio ‘99. Luigi Ragno, un ex tenente colonnello dei Carabinieri, già commissario arbitrale, vice di Tavecchio, informa i vertici di Lega e Federazione di una gestione finanziaria molto personalistica del presidente. E si dimette. “Mi pregio comunicare che nel corso del Consiglio di Presidenza – si legge – è stato rilevato che la Lega intrattiene un rapporto di conto corrente presso la Cariplo di Roma, aperto successivamente al Primo Luglio 1999 (…). L’apertura del conto corrente appare correlata alla comunicazione del Presidente di ‘avere esteso alla Cariplo, oltre alla Banca di Roma già esistente, la gestione dei fondi della Lega. Entrambi gli Istituti hanno garantito, oltre alla migliore offerta sulla gestione dei conti, forme di sponsorizzazione i cui contenuti sono in corso di contrattazione”. Quelle erano le premesse, poi partono le contestazioni a Tavecchio: “Non risulta che alcun organo collegiale della Lega sia mai stato chiamato a esprimere valutazioni in ordine a offerte formulate dagli Istituti di credito di cui sopra”. “Risulta che non sono state prese in considerazione dal presidente più di venti offerte di condizione presentate in busta chiusa da primarie banche che operano su Roma, le quali erano state contattate dal commissario”. “Non risulta che né la Banca di Roma né la Cariplo abbiano concluso con la Lega accordi di sponsorizzazione”. “Nella sezione Attività della situazione patrimoniale del bilancio della Lega non appare, nella voce ‘banche’, la presenza del conto corrente acceso presso Cariplo”. “Nella sezione Attività della situazione patrimoniale, alla voce ‘Liquidità/Lega Nazionale Dilettanti’ risulta l’importo di Lire 18.774.126.556, che non rappresenta, come potrebbe sembrare a prima vista, il totale delle risorse finanziarie dei Comitati e delle Divisioni giacenti presso la Lega, bensì è costituito da un saldo algebrico tra posizioni creditorie e posizioni debitorie nei confronti della Lega”. Segue una dettagliata tabella dei finanziamenti ai vari Comitati regionali, e viene così recensita: “Il presidente della Lega ha comunicato che ai suddetti ‘finanziamenti di fatto’ è applicato il tasso di interesse del 2,40%, la cui misura peraltro non è stata stabilità da alcun organo collegiale”. Il vice di Tavecchio fa sapere di aver scoperto anche un servizio di “private banking”, sempre con Cariplo, gestito in esclusiva dal ragionier brianzolo: “Nessun Organo collegiale della Lega ha mai autorizzato l’apertura di tale rapporto (…) e mai ha autorizzato il presidente a disporre con firma singola (…) Trattasi di un comportamento inspiegabile e ingiustificabile, anche in considerazione della consistenza degli importi non inferiore ai venti miliardi di lire”. Ragno spedisce una raccomandata alla Cariplo, e si congeda dai Dilettanti di Tavecchio: “Di fronte all’accertata mancanza di chiarezza, di trasparenza e di correttezza e di gravi irregolarità da parte del massimo esponente della Lega, non mi sento di avallare tale comportamento gestionale e comunico le immediate dimissioni”. Per comprendere la natura del consenso costruito minuziosamente da Tavecchio nella gestione della Lega Dilettanti, un caso esemplare è quello del Messina calcio. La società siciliana approda in Lnd nella stagione sportiva 2008-2009. La famiglia Franza è stufa del suo giocattolo, vorrebbe vendere la squadra, ma non trova acquirenti. Il Messina è inghiottito dai debiti. Dovrebbe militare in serie B, ma il presidente Pietro Franza non l’iscrive al campionato cadetto: deve ricominciare dai dilettanti. Il problema è che il Messina è tecnicamente fallito (la bancarotta arriverà dopo pochi mesi) e non avrebbe le carte in regola nemmeno per ripartire da lì. E invece Tavecchio, con una forzatura, firma l’iscrizione dei giallorossi alla Lega che dirige. L’uomo chiave si chiama Mattia Grassani, principe del foro sportivo e, guarda caso, consulente personale di Tavecchio e della stessa Lnd: è lui a curare i documenti (compreso un fantasioso piano industriale per una società ben oltre l’orlo del crac) su cui si basa l’iscrizione dei siciliani. In pratica, si decide tutto in casa. Nel 2011 il Messina, ancora in Lega dilettanti, è di nuovo nei guai. Dopo una serie di vicissitudini, la nuova società (Associazione Calcio Rinascita Messina) è finita nelle mani dell’imprenditore calabrese Bruno Martorano. La gestione economica non è più virtuosa di quella dei suoi predecessori. Martorano firma in prima persona la domanda d’iscrizione della squadra alla Lega. Non potrebbe farlo: sulle sue spalle pesa un’inibizione sportiva di sei mesi. Non solo. La documentazione contiene, tra le altre, la firma del calciatore Christian Mangiarotti: si scoprirà presto che è stata falsificata. Il consulente del Messina (e della Lega, e di Tavecchio) è sempre Grassani: i giallorossi anche questa volta vengono miracolosamente iscritti alla categoria. Poi, una volta accertata l’irregolarità nella firma di Mangiarotti, la sanzione per il Messina sarà molto generosa: appena 1 punto in classifica (e poche migliaia d’euro, oltre ad altri 18 mesi di inibizione per Martorano). Tavecchio, come noto, è l’uomo che istituisce la commissione “per gli impianti sportivi in erba sintetica” affidandola all’ingegnere Antonio Armeni, e che subito dopo assegna la “certificazione e omologazione” degli stessi campi da calcio alla società (Labosport srl) partecipata dal figlio, Roberto Armeni. Non solo: la Lega Nazionale Dilettanti di Tavecchio ha un’agenzia a cui si affida per l’organizzazione di convegni, cerimonie ed assemblee. Si chiama Tourist sports service. Uno dei due soci, al 50 per cento, si chiama Alberto Mambelli. Chi è costui? Il vice presidente della stessa Lega dilettanti e lo storico braccio destro di Tavecchio. Un’amicizia di lunga data. Nel 1998 Tavecchio è alla guida del comitato lombardo della Lnd. C’è il matrimonio della figlia di Carlo, Renata. Mambelli è tra gli invitati. Piccolo particolare: sulla partecipazione c’è il timbro ufficiale della Figc, Comitato Regionale Lombardia. Quando si dice una grande famiglia."

«Denuncio Tavecchio. Carriera fatta di soprusi» dice Danilo Filippini a “La Provincia Pavese”. A quattro giorni dalle elezioni Figc, Carlo Tavecchio continua a tenere duro, incurante delle critiche e delle prese di posizione - sempre più numerose e autorevoli - di coloro che ritengono l’ex sindaco di Ponte Lambro del tutto inadeguato a guidare il calcio italiano. Tavecchio è stato anche denunciato per calunnia da Danilo Filippini, ex presidente della Pro Patria che ha gestito la società biancoblù dall’ottobre 1988 all’ottobre 1992.

Filippini, perché ha deciso di querelare Tavecchio?

«Scrivendo sul sito di Agenzia Calcio, definii Tavecchio un pregiudicato doc e un farabutto, naturalmente argomentando nei dettagli la mia posizione e allegando all’articolo il suo certificato penale storico. Offeso per quell’articolo, Tavecchio mi ha denunciato per diffamazione. Così, tre giorni fa, ho presentato alla Procura di Varese una controquerela nei suoi confronti, allegando una ricca documentazione a sostegno della mia tesi».

In cosa consiste la documentazione?

«Ci sono innanzitutto le cinque condanne subite da Tavecchio. Poi i protesti di cambiali per una somma di un miliardo di vecchie lire dopo il fallimento della sua azienda, la Intras srl. Ho allegato inoltre l’esposto di Luigi Ragno, già vice di Tavecchio in Lega Dilettanti, su presunte irregolari operazioni bancarie con Cariplo. Più tutta una serie di altre irregolarità amministrative».

Quando sono nati i suoi dissidi con Tavecchio?

«Ho avuto la sfortuna di conoscerlo ai tempi in cui ero presidente della Pro Patria. Quando l’ho visto per la prima volta, era presidente del Comitato regionale lombardo. In quegli anni ci siamo scontrati continuamente. Con Tavecchio in particolare e con la Federazione in generale».

Per quale motivo?

«I miei legittimi diritti sono sempre stati negati, in maniera illecita, nonostante numerosi miei esposti e querele, con tanto di citazioni di testimoni e prove documentali ineccepibili. Da vent’anni subisco dalla Federcalcio ogni tipo di abusi».

Per esempio?

«Guardi cos’è successo con la denominazione “Pro Patria et Libertate”, da me acquisita a titolo oneroso profumatamente pagato, e che poi la Federazione ha girato ad altre società che hanno usato indebitamente quel nome. Per non parlare della mia incredibile radiazione dal mondo del calcio, che mi ha impedito di candidarmi alla presidenza della Figc, come volevo fare nel 2001. Una vera discriminazione, che viola diritti sanciti dalla Costituzione. Sa qual è l’unica cosa positiva di questa vicenda?»

Dica.

«Sono uscito da un mondo di banditi come quello del calcio. E ora mi occupo di iniziative a favore dei disabili: impiego molto meglio il mio tempo».

Tavecchio risulta comunque riabilitato dopo le cinque condanne subite.

«Mi piacerebbe sapere in base a quali requisiti l’abbia ottenuta, la riabilitazione. E comunque, una volta riabilitato, avrebbe dovuto tenere un comportamento inappuntabile sul piano etico. Non mi pare questo il caso».

Insomma, a suo parere un’eventuale elezione di Tavecchio sarebbe una iattura per il calcio italiano...

«Mi auguro davvero che non venga eletto. Questo è il momento di cambiare, di dare una svolta: non può essere Tavecchio l’uomo adatto. Avendolo conosciuto di persona, non mi sorprende neanche che abbia commesso le gaffes di cui tutti parlano. Lui fa bella figura solo quando legge le lettere che gli scrivono i principi del foro. Comunque, ho mandato la mia denuncia per conoscenza anche al Coni e al presidente Malagò. Non ho paura di espormi: quando faccio una cosa, la faccio alla luce del sole».

"La vicenda Tavecchio? Una sospensione molto particolare.. Ma chi stava nell'ambiente del calcio sapeva perfettamente cosa sarebbe successo. Ho letto varie dichiarazioni e mi sento di condividere chi dice: tutti sapevano tutto, e questi tutti sono quelli che sono andati al voto e che, malgrado sapessero che questo sarebbe successo, hanno ritenuto che era giusto votare per Tavecchio. La domanda va girata a queste persone". Il presidente del Coni, Giovanni Malagò, commenta così la vicenda dei sei mesi di stop al presidente della Figc decisi dall'Uefa, scrive “La Repubblica”. "L'elezione è stata assolutamente democratica, evidentemente non hanno ritenuto che il fatto potesse essere penalizzante per il proseguo dell'attività di Tavecchio. Io come presidente del Coni di questa cosa, può piacere o meno, ne devo solo prendere atto perché il Coni può intervenire se una elezione non è stata regolare, se ci sono delle gestioni non fatte bene, per problemi di natura finanziaria, se non funziona la giustizia sportiva, per tutto il resto dobbiamo prenderne atto senza essere falsi". Anche il sottosegretario Delrio, presente stamani ad un convegno al Coni col ministro Lorenzin, si è tirato fuori: "Il mondo sportivo è autonomo, il governo non può intervenire". Malagò ha anche spiegato che comunque questa vicenda "crea un problema di immagine al nostro calcio". Carlo Tavecchio, presente anche lui al Coni, ci ha solo detto: "Io sono stato censurato dall'Uefa e non sospeso. L'Uefa ha preso una decisione, non una sentenza". E dal suo entourage si precisa che la "lettera che Tavecchio ha scritto alle 53 Federazioni europee era di presentazione e non di scuse". Il 21 a Roma c'è Platini per presentare il suo libro: Tavecchio è irritato col n.1 dell'Uefa, lo incontrerà? Domani comitato presidenza Figc, venerdì il presidente Figc a Palermo con gli azzurri. Il lavoro va avanti. Intanto, il 27 torna in ballo anche Malagò: processo di appello alla Federnuoto dopo la condanna di 16 mesi in primo grado. La speranza è in drastico taglio, in attesa di Frattini...

Ma almeno Macalli è immune da qualsivoglia nefandezza?

Caso Pergocrema, Macalli verso il deferimento? Il vicepresidente della Figc e n.1 storico della Lega Pro, Mario Macalli, rischia il deferimento in margine al caso Pergocrema. Il procuratore federale, Palazzi, ha chiuso l'indagine e passato le carte alla Superprocura del Coni come prevedono le nuove norme di giustizia sportiva volute dal Coni: ora Macalli potrà presentare le sue controdeduzioni, ed essere anche interrogato. La prossima settimana Palazzi deciderà se archiviare o deferire (più che probabile). Il caso Pergocrema si trascina ormai da molto tempo: questa estate la procura della Repubblica di Firenze aveva chiesto il suo rinvio a giudizio. Macalli secondo i magistrati avrebbe "provveduto a registrare a proprio nome i marchi Pergocrema, Pergocrema 1932, Pergolettese e Pergolettese 1932". In questo caso, il n.1 dell'ex Serie C, come stato scritto su Repubblica la scorsa estate da Marco Mensurati e Matteo Pinci, "intenzionalmente si procurava un ingiusto vantaggio patrimoniale arrecando un danno patrimoniale al Pergocrema fornendo agli uffici preposti della Lega esplicita disposizione di bloccare senza giustificazione giuridica il bonifico da oltre 256mila euro, importo spettante come quota di suddivisione dei diritti televisivi che se disponibili avrebbero consentito alla società sportiva di evitare il fallimento". Macalli aveva sempre assicurato la sua totale estraneità ai fatti. "Chiarirò tutto". Pare sia arrivato il momento. Possibile inoltre il deferimento di Belloli, presidente del Comitato regionale lombardo e fra i candidati alla successione di Tavecchio alla presidenza della Lega Nazionale Dilettanti. Oltre a lui, resterebbero in corsa solo Tisci e Mambelli, mentre avrebbero fatto un passo indietro Repace e Dalpin. Mercoledì prossimo riunione con Tavecchio. Si vota l'11 novembre. Per finire, chiusa l'inchiesta di Palazzi anche su Claudio Lotito: interrogati quattro giornalisti, acquisito il video. Ora le carte sono in possesso di Lotito, che deve difendersi, e del generale Enrico Cataldi, superprocuratore Coni: presto Palazzi dovrebbe fare il deferimento per le parole volgari su Marotta.

La Commissione Disciplinare ha deliberato il 6 marzo 2013 in merito al fallimento dell’Us Pergocrema 1932 ed ha inibito gli ex presidenti Sergio Briganti per 40 mesi e Manolo Bucci per 12, l’ex amministratore delegato Fabrizio Talone per 6 mesi, l’ex vice presidente Michela Bondi per 3 e gli ex consiglieri del Cda Estevan Centofanti per 3, Luca Coculo e Gianluca Bucci entrambi per 6 mesi, scrive “La Provincia di Crema”. Sulla base delle indagini effettuate dalla Procura Federale, la Disciplinare ha deciso di infliggere sanzioni ai personaggi di cui sopra accusandoli «di aver determinato (i due presidenti) e di aver contribuito (gli altri dirigenti) con il proprio comportamento la cattiva gestione della società, con particolare riferimento alle responsabilità del dissesto economico-patrimoniale».

A sbiadire ancor di più l’immagine di Briganti, però, ci pensa Striscia la Notizia. L’ex presidente del Pergocrema, Sergio Briganti, è stato protagonista di un servizio in una delle ultime puntate di Striscia la Notizia, il tg satirico in onda su Canale 5, intitolato “Minacce, spintoni, schiaffi”, scrive “La Provincia di Crema”. Jimmy Ghione è stato avvicinato da una giovane donna che ha segnalato come, nel vicolo del pieno centro di Roma dove si trova il bar di Briganti, le auto non riescano a transitare in quanto la strada è occupata da un lato da sedie e tavolini del locale e dall’altro da motorini. In quel vicolo, il transito è consentito soltanto agli automezzi di servizio, ai taxi, ai motocicli e alle auto munite del contrassegno per i disabili. E proprio un disabile stava sull’auto guidata dalla donna, che si è trovata la strada bloccata. A quel punto, la signora ha chiesto a Briganti di spostare i tavolini, ma la risposta è stata «un vulcano, una cosa irripetibile», ha commentato la donna.

C’è da chiedersi: quanto importante sia il Briganti per Striscia, tanto da indurli ad occuparsi di lui e non delle malefatte commesse dai magistrati e dall’elite del calcio?

Macalli a inizio ottobre 2014 è stato anche deferito per violazione dell’art. 1 dalla Procura Figc (dopo un esposto di Massimo Londrosi, d.s. del Pavia) per aver registrato a suo nome nel 2011 quattro marchi riconducibili al club fallito, e per aver ceduto - dopo aver negato il bonifico che ha fatto fallire il club - quello «Us Pergolettese 1932» alla As Pizzighettone, che nel 2012-13 ha fatto la Seconda divisione con quella denominazione. Macalli patteggerà, scrive “Zona Juve”. Anche su internet non si trova conferma.

Mario Macalli, da 15 anni presidente della Lega Pro di calcio, sarebbe indagato per appropriazione indebita, in merito alla sua acquisizione del marchio del Pergocrema, scrive “La Provincia di Crema”. Sulla scomparsa della società gialloblu (club dichiarato fallito dal tribunale cittadino il 20 giugno 2012), indagano le procure di Roma e Firenze che hanno ricevuto una denuncia da parte dell’ex presidente dei gialloblu Sergio Briganti, nei giorni scorsi inibito per 40 mesi dalla Federcalcio proprio per il fallimento del Pergo. E’ possibile che le due inchieste vengano riunificate. Macalli è stato vice presidente per alcuni anni della società gialloblu, vive a Ripalta Cremasca ed ha il suo studio in città. La storia dell’acquisizione del marchio venne scoperta e resa pubblica da un gruppo di tifosi che avrebbero voluto rilevare la società, percorrendo la strada dell’azionariato popolare. Con quattro registrazioni di marchi, Macalli ha reso impossibile il loro proposito.

Un altro terremoto scuote le malandate istituzioni del calcio italiano. La procura di Firenze, nel giorno della stesura dei gironi, ha chiesto il rinvio a giudizio per Mario Macalli, presidente della Lega Pro. L'accusa: abuso d'ufficio, scrive “La Provincia di Crema”. Oggetto dell'inchiesta penale condotta dal sostituto procuratore di Firenze, Luigi Bocciolini è la vicenda del fallimento del Pergocrema nell'estate 2012, nata dalla denuncia di Sergio Briganti, oggi difeso dagli avvocati Giulia De Cupis e Domenico Naso, e allora presidente del club lombardo. I dettagli dell'accusa per il manager sono pesantissimi: "In presenza di un interesse proprio, intenzionalmente si procurava un ingiusto vantaggio patrimoniale arrecando danno patrimoniale al Pergocrema fornendo agli uffici preposti della Lega esplicita disposizione di bloccare senza giustificazione giuridica il bonifico da oltre 256mila euro, importo spettante come quota di suddivisione dei diritti televisivi, e che se disponibili avrebbero consentito alla società sportiva di evitare il fallimento".

“Abuso d’ufficio”. E’ questa l’accusa, formulata dal procuratore della repubblica di Firenze, Luigi Bocciolini, che nei giorni scorsi ha portato alla richiesta di rinvio a giudizio Mario Macalli, presidente della Lega Pro, scrive “Crema On Line”. L’oggetto dell’inchiesta, iniziata nel marzo 2013 riguarda la vicenda del fallimento del Pergocrema, avvenuta nel giugno 2012. L’indagine è partita dalla denuncia dell’ex presidente gialloblu Sergio Briganti. Dai verbali in possesso della polizia giudiziaria fiorentina nell’aprile 2012 l’avvocato Francesco Bonanni, responsabile dell’ufficio legale della Lega Pro, era incaricato di effettuare i conteggi relativi alla ripartizione della quota della suddivisione dei diritti televisivi della legge Melandri. La somma destinata al Pergocrema, allora iscritta al campionato di Prima Divisione Lega Pro, era pari a 312.118,54 euro lordi, al netto 245.488, 80 euro. In quel periodo la società cremasca gravava in una pesante situazione debitoria nei confronti di tecnici, atleti e fornitori. Il 3 maggio 2012 è stata presentata un'istanza da Francesco Macrì, legale dell’Assocalciatori, in rappresentanza di dieci tesserati del Pergocrema che vantavano 170 mila euro di debiti nei confronti del club gialloblu. Il tribunale di Crema ha autorizzato il sequestro cautelativo della somma in giacenza, comunicandolo alla Lega Pro. Il sequestro è stato attivato il giorno successivo. Il dato certo, secondo la ricostruzione degli inquirenti, è che il 27 aprile 2012 la Lega era pronta a versare la quota: Bonanni ha escluso di aver dato l'ordine a Guido Amico di Meane, al commercialista della Lega Pro, di bloccare il versamento alla società cremasca. L'unico che avrebbe dato disposizione di non effettuare il relativo bonifico agli uffici preposti sarebbe stato Macalli.

Eppure, nonostante l’impegno della Procura, il Gup di Firenze Fabio Frangini ha assolto Mario Macalli, presidente della Lega Pro, dall’accusa di abuso d’ufficio riguardo al caso del fallimento del Pergocrema. Secondo l'accusa Maccalli non avrebbe autorizzato il versamento alla società della quota dei diritti tv relativa alla stagione 2011-2012. Non luogo a procedere, scrive “La Provincia di Crema”. Il presidente di Lega Pro e vicepresidente della Federcalcio, Mario Macalli, è stato prosciolto dall’accusa di abuso d’ufficio, nell’ambito della vicenda che portò nel giugno del 2012 al fallimento dell’Us Pergocrema 1932. La decisione è stata presa martedì mattina 21 ottobre dal giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Firenze, che non ha quindi accolto la richiesta di rinvio a giudizio depositata dal pubblico ministero Luigi Bocciolini il 30 luglio scorso. Il reato ipotizzato per Macalli era quello previsto e punito dall’articolo 323 del codice penale (l’abuso d’ufficio, appunto). Secondo il pubblico ministero, nella sua qualità di presidente della Lega Pro Macalli aveva intenzionalmente arrecato un ingiusto danno patrimoniale al Pergocrema, dando agli uffici preposti della Lega esplicita disposizione a bloccare, senza giustificazione, il bonifico alla società di 256.488,80 euro alla stessa spettante quale quota per i diritti televisivi. A seguito di ciò, il 28 maggio 2012, due creditori chirografari depositarono istanza di fallimento del Pergocrema, presso il tribunale di Crema, fallimento che veniva dichiarato il 19 giugno. In sostanza, l’accusa puntava a dimostrare che, la società gialloblù fallì perchè non fu in grado di saldare il debito contratto di 113.000 euro con il ristorante Maosi e l’impresa di giardinaggio Non Solo Verde. Il fallimento sarebbe stato evitato se la Lega Pro avesse eseguito a fine aprile sul contro del Pergocrema, come venne fatto per tutti gli altri club, il bonifico dei contributi spettanti alla società stessa. Ma il Gup — come detto —non ha sposato la tesi.

Al termine degli accertamenti, il Gup lo ha prosciolto con formula piena perché "il fatto non sussiste". I difensori del ragioniere cremasco, l’avvocato Nino D’Avirro di Firenze e Salvatore Catalano di Milano hanno evidenziato, tra l’altro, che Macalli non svolge la funzione di pubblico ufficiale e pertanto non si configura il reato di abuso d’ufficio, scrive “Crema On Line”. Quindi l’inghippo c’era, ma non è stato commesso da un pubblico ufficiale? E qui, da quanto dato sapere, il motivo del non luogo a procedere. Come mai questa svista dei pubblici ministeri? «Aspettiamo le motivazioni — ha affermato a caldo l’ex presidente del Pergocrema, Sergio Briganti — e poi ricorreremo. La cosa non finisce qui».

Antonio Giangrande: ASTE TRUCCATE: LINFA PER LA MAFIA.

Una Interrogazione Parlamentare alza il velo dell’ipocrisia a Taranto.

L’Omertà istituzionale, come sempre, ne coprirà la vergogna.

Il resoconto del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha pubblicato un saggio denuncia: “Usuropoli. Usura e Fallimenti Truccati”. Il libro contiene un dossier completo anche sulle aste truccate e le inchieste che nel tempo hanno coinvolto gli uffici giudiziari di tutta Italia.

Il dr Antonio Giangrande nella sua inchiesta elenca una serie di casi eclatanti.

Esemplare è il fallimento della Federconsorzi. Caposaldo dello scandalo, la liquidazione di un ente che possedeva beni immobili e mobili valutabili oltre quattordicimila miliardi di lire per ripagare debiti di duemila miliardi. L’enormità della differenza avrebbe costituito la ragione di due processi, uno aperto a Perugia uno a Roma. La singolarità dello scandalo è costituita dall’assoluto silenzio della grande stampa, che ha ignorato entrambi i processi, favorendo, palesemente, chi ne disponeva l’insabbiamento.

Altro tassello anomalo è la costituzione di società ad hoc per la gestione dei fallimenti. Le principali banche hanno infatti costituto apposite società denominate "Asteimmobili", nei principali Tribunali (Roma, Milano, Genova, ecc.), con la finalità di chiudere il cerchio quando i tartassati e maltrattati utenti non hanno la possibilità di adempiere alle obbligazioni, specie su mutui e prestiti. ABI e banche si sono quindi ritrovate ben presto, con personale impiegato nella società costituita “Asteimmobili” a fare lavoro di cancelleria come altri pubblici ufficiali (con la non piccola differenza di non essere entrati per concorso e di non aver dovuto "prestare giuramento di fedeltà" allo Stato) in gangli alquanto delicati come le esecuzioni immobiliari, le procedure fallimentari, gli uffici dei giudici di pace, le corti d'appello sia civili che penali, le stesse procure.

Non si può, comunque, dimenticare che il percorso dei giudici del Tribunale di Milano è stato particolarmente difficile, soprattutto nei confronti di un problema estremamente rilevante quale quello legato alla turbativa d'asta, vero e proprio tallone d' Achille per il sistema delle esecuzioni. E' proprio su questo punto che i giudici sono intervenuti in maniera decisa denunciando alla Procura il fenomeno. I giornali allora parlarono di un "cartello" di speculatori per le “aste truccate”. Una specie di organizzazione in grado di condizione le gare per l'acquisto degli immobili pignorati. Come dire, nessuno poteva partecipare ad un'asta giudiziaria senza pagare una "commissione" che andava dal 10 al 15 percento del valore dell'immobile che intendeva acquistare. In caso contrario il "cartello" soprannominato allora "La compagnia della morte" avrebbe fatto lievitare al prezzo. In passato, a partire dall’esperienza pilota del Tribunale di Milano, stampa ed istituzioni hanno dato grande risalto alla pretesa "innovazione" del sistema delle vendite giudiziarie, dedicando intere pagine, anche di pubblicità a pagamento, sui quotidiani nazionali, facendoci credere che con gli otto arresti di avvocati e pubblici funzionari della c.d. "compagnia della morte", si sarebbe posto fine al cartello di speculatori, in grado di condizionare le gare d’asta per l'acquisto degli immobili pignorati. Ci hanno spiegato e confermato che per svariati anni una banda di "professionisti" ha potuto agire impunita, scoraggiando la partecipazione alle aste del pubblico, che veniva intimidito e minacciato, imponendo il pagamento di un "pizzo" pari al 10-15% del valore dell'immobile pignorato e pilotando l'assegnazione su società immobiliari vicine o su professionisti, soggetti privati e prestanome, i cui interessi spesso sono risultati riferibili agli stessi magistrati giudicanti, come nei tanti casi da noi vanamente denunciati. Lo stesso dicasi per quanto attiene l'ambito delle procedure fallimentari, controllate da un vero e proprio racket di professionisti delle estorsioni, che con il caso del maxi-ammanco negli uffici giudiziari del Tribunale di Milano, da cui sono stati sottratti in 10 anni da una cinquantina di fallimenti, circa 35 milioni di euro, mietendo oltre 7000 vittime, ha messo a nudo una ultradecennale capacità di delinquere interna agli uffici istituzionali, in grado di resistere ad ogni denuncia-querela, forma di controllo ed ispezione ministeriale. Fatti per i quali si è cercato, anche in questo caso, di farci credere che tutto sarebbe avvenuto all'insaputa dei magistrati, dei vertici del Tribunale di Milano e degli organismi di controllo preposti (CSM, Ministero di Giustizia, Procura di Brescia, Procura Nazionale Antimafia), i quali, invero, seppure edotti di tutto, dagli anni ‘80, hanno sistematicamente insabbiato anche le stesse segnalazioni di magistrati onesti, come la dr.ssa Gandolfi, occultando solo negli ultimi anni svariate decine di migliaia di esposti a carico di avvocati, magistrati e curatori fallimentari, nei cui confronti sono rimasti del tutto inerti, giungendo, persino, a tollerare la dolosa elusione dell’obbligo di registrazione delle denunce nell’apposito Registro delle notizie di reato, tassativamente previsto dall’art. 335 c. 1° c.p.p. (26.000 procedimenti insabbiati e occultati in soffitta dalla sola Procura di Brescia).

Quattro anni di carcere e cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Da “La Repubblica”. È la condanna emessa dal tribunale di Perugia nei confronti di Pierluigi Baccarini, giudice della sezione Fallimentare del tribunale della capitale accusato di aver "pilotato" diversi procedimenti fallimentari trai quali quello della società che amministrava il tesoro immobiliare della Democrazia Cristiana. L' inchiesta era scattata a Roma dalle indagini dei pm Giuseppe Cascini e Stefano Pesci che nel 2005 avevano scoperto una sorta di "comitato d' affari" che gestiva l'attività fallimentari degli uffici di viale Giulio Cesare.

Dalle cronache dei giornali si apprende che una ispezione amministrativa a Lecce «negli uffici interessati dalle esecuzioni giudiziarie», in particolare a proposito dell’espletamento delle aste giudiziarie, è stata annunciata dal sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano in conseguenza di quanto emerso dopo l’uccisione di un salentino, Giorgio Romano, che avrebbe fatto affari frequentando appunto le aste giudiziarie. Mantovano lo ha spiegato, parlando a Lecce con i giornalisti. Romano è stato ucciso – a quanto è stato accertato poche ore dopo l’omicidio – da un uomo che, per gravi difficoltà economiche, aveva perso la sua casa e la sua macelleria e sperava di rientrarne in possesso tramite un accordo proprio con Romano, abituale frequentatore di aste giudiziarie. “Un procedimento disciplinare per tutti gli avvocati coinvolti nella vicenda delle aste giudiziarie sottoposte all’indagine della Procura”. È quanto ha annunciato il presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Lecce Luigi Rella.

Su “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 19 novembre 2011 Giovanni Longo racconta la Fallimentopoli barese. C’è voluto un camion per trasportare tutte le carte da Bari a Lecce. E quando i faldoni sono giunti a destinazione, pare che nella stanza del procuratore di Lecce Cataldo Motta non ci fosse spazio sufficiente. L’inchiesta della Procura di Bari sulle procedure fallimentari si allarga e trasloca: oltre a curatori, consulenti, professionisti, bancari e cancellieri, nel mirino del nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza sono finiti anche magistrati in servizio presso il Tribunale del capoluogo pugliese. E dunque il Pm ha passato la mano.

E che dire del caso Cirio. Ci furono accertamenti su presunte irregolarità avvenute nella sezione fallimentare del Tribunale di Roma, che hanno visto coinvolti giudici accusati di aver “pilotato” alcuni fallimenti e che vede una procedura di trasferimento d’ ufficio per incompatibilità, avviata nei confronti di un giudice arrestato per corruzione in atti giudiziari.

E che dire delle aste truccate in Lombardia. Al Tribunale di Milano i magistrati hanno denunciato una loro collega: tentata concussione e abuso d'ufficio nelle nomine dei consulenti, al fine di suddividerne i compensi. A Brescia si è archiviato un procedimento penale per usura, pur essendo stato accertato dal perito della Procura un tasso applicato del 446% annuo.

E che dire dell’intrigo che lega il Piemonte e la Toscana. Un Giudice condannato per tangenti per il fallimento Aiazzone e legato con un esponente della P2 in altri processi in Toscana. All’indomani di una udienza a Prato contro di questo, il suo difensore, noto avvocato e professore milanese, fu trovato morto a causa di uno strano suicidio. Nell’ambito di quei processi si denunciano casi di violazione del diritto di difesa. Sempre in Toscana, si chiede il processo ad un giudice: al magistrato vengono contestati corruzione, concussione, peculato, falso, abuso di ufficio e concorso in bancarotta.

Anche in Emilia Romagna si denunciano casi di lesione del diritto di difesa e del contraddittorio a danno dei falliti.

Nelle Marche l'inchiesta sul crack delle aziende dell'imprenditore sambenedettese ha coinvolto ben 18 personaggi. Fra essi numerosi magistrati, avvocati, curatori fallimentari e dirigenti di banca.

In Abruzzo, l’ex gip teramano, poi giudice a Giulianova e oggi magistrato di Corte d’Appello a L’Aquila e l’attuale presidente del Tribunale di Teramo sono stati coinvolti in un’inchiesta sulle vendite giudiziarie immobiliari partita da un esposto presentato da un cancelliere.

A Lecce, per la prima volta in Europa, è stato dichiarato il fallimento del creditore su richiesta del debitore. L’imprenditore è stato sbattuto fuori di casa, nonostante sia stato assolto dai reati di truffa e falso denunciati dal direttore generale di un noto istituto di credito spacciatosi per suo creditore, mentre era, in realtà debitore dell’imprenditore di cui ha provocato il fallimento. Una vittima spara e uccide il suo aguzzino: solo allora danno il via alle indagini, rimaste da tempo insabbiate.

Ciliegina sulla torta è il caso Palermo e Catania. A Palermo per il fallimento con il trucco, tre giudici rischiano il processo. A denunciare le illegalità un comitato antiracket ed antiusura. La competenza è passata alla Procura di Reggio Calabria. Nei suoi uffici è scoppiato lo scandalo “cimici”. A Catania, con atto ispettivo al Ministro della Giustizia n. 4-29179, l'interrogante On. Angela Napoli, ha denunziato la triplice reciprocità d'indagine tra le procure di Messina, Reggio Calabria e Catania con chiari e vicendevoli condizionamenti su una denuncia di un imprenditore dichiarato, ingiustamente, fallito.

Veniamo a Taranto.

Legislatura 17. Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-06370 Pubblicato il 21 settembre 2016, nella seduta n. 683.

Buccarella, Airola, Taverna, Donno, Bertorotta, Puglia, Cappelletti, Serra, Giarrusso, Paglini, Santangelo, Bottici -

Al Ministro della giustizia. -

Premesso che:

si apprende da un articolo apparso su "TarantoBuonaSera", del 13 luglio 2016, che a Taranto ci sarebbero quasi 750 case all'asta, con altrettante famiglie destinate a perdere la propria casa, che nella maggior parte dei casi è proprio quella di abitazione;

la crisi che ha colpito il Paese sta incrementando il fenomeno delle aste immobiliari, soprattutto conseguenti all'impossibilità, da parte dei cittadini, di onorare i mutui contratti (senza sottacere delle tante abusive concessioni di finanziamento, da parte degli istituti bancari, che vanno ad aggravare situazioni fortemente compromesse dalla recessione);

purtroppo, non mancano anche conseguenze estreme, come i suicidi ed anche gli omicidi-suicidi di interi nuclei familiari, ad opera di persone ritenute perbene e tranquille, ma che, nella morsa della crisi, non ravvisando vie di soluzione (nemmeno in conseguenza di azioni giudiziarie, che spesso non risultano loro favorevoli), compiono tali deprecabili atti, e i numeri depongono per un vero olocausto di italiani;

dall'Osservatorio suicidi per la crisi economica, gli interroganti hanno rilevato che negli ultimi 4 anni, ovvero tra il 2012 e il 2015, si sono verificati 628 suicidi, in media uno ogni 2 giorni. Ecco alcuni casi, verificatisi solo negli ultimi 12 mesi, balzati agli onori delle cronache: l'omicidio-suicidio di Boretto: agosto 2016, Albina Vecchi, 71 anni, uccide il marito Massimo Pecchini, 77 anni, e poi si uccide perché la loro casa è andata all'asta; 30 maggio 2016, Stefano, pescatore genovese di 55 anni tenta il suicidio perché senza lavoro da mesi, da quando gli era stata sequestrata l'imbarcazione con la quale usciva in mare, e, sfrattato dalla sua abitazione, era costretto ad occupare abusivamente un alloggio del Comune; marzo 2016, Sisinnio Machis, imprenditore di 58 anni, si è suicidato a Villacidro dopo il pignoramento della propria casa; gennaio 2016, Maurizio Palmerini, cinquantenne di Vaiano, frazione di Castiglione del Lago (Perugia), ha ucciso i suoi figli, Hubert di 13 e Giulia di 8 anni, a coltellate e ferito la moglie, poi si è tolto la vita; gennaio 2016, dopo il suicidio del signor Guarascio per aver subito lo sfratto, i deputati dell'Assemblea regionale sciliana del Movimento 5 Stelle comprano la casa andata all'asta e la restituiscono alla sua famiglia; dicembre 2015, un imprenditore si impicca a Lodi perché la sua casa viene messa all'asta;

risulta, inoltre, agli interroganti che presso il tribunale di Taranto, al quarto piano dedicato alle aste immobiliari, si sarebbero imposte prassi non del tutto conformi alla legge (come quella di vendere i beni pignorati anche al "prezzo vile", favorendo gli "avvoltoi" di turno e, verosimilmente, la stessa criminalità) a cui si aggiunge la tendenza a prestare maggiore attenzione alla prosecuzione delle esecuzioni immobiliari, piuttosto che alla tutela ed alle garanzie dei soggetti esecutati o falliti;

sempre presso il tribunale di Taranto, sarebbero diversi i cittadini ad aver lamentato abusi e violazioni di legge da parte dei magistrati chiamati a decidere le loro controversie, con grave nocumento dei loro diritti;

di recente a quanto risulta agli interroganti, la signora Maria Giovanna Benedetta Montemurro, presso il tribunale di Taranto, ha incardinato una procedura di opposizione avverso l'esecuzione immobiliare n. 168/1986 R.G.E., tentando di far valere molteplici ragioni a sua tutela. Nel ricorso, tra i tanti motivi di opposizione, invocando il "decreto Banche" (rectiusdecreto-legge n. 59 del 2016, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 119 del 2016), la signora Montemurro ha anche dedotto che il giudice non poteva procedere all'aggiudicazione atteso che, nella fattispecie, il prezzo di vendita era inferiore al limite della metà e che erano stati esperiti tentativi di vendita oltre il numero consentito dal citato decreto-legge. Effettivamente il recente decreto-legge n. 59, andando a completare il quadro normativo disciplinante la materia, non ha trascurato proprio i profili di tutela delle parti, creditrice e debitrice, soprattutto al fine di evitare che la vendita avvenga oltre determinati limiti e per un tempo indefinito;

la vendita al "prezzo vile", ovvero al prezzo lontano da quello di mercato, danneggia sia il debitore che lo stesso ceppo creditorio (con il rischio concreto di vendere le case e non soddisfare nemmeno le ragioni dei creditori) e pare anche certo che, indipendentemente dalle modalità di vendita (con incanto o senza), dal sistema delle norme che presidiano le esecuzioni immobiliari può ricavarsi che la vendita non possa avvenire ad un prezzo inferiore al limite della metà del valore del bene espropriando, così come stabilito dal tribunale ai sensi dell'art. 568 del codice di procedura civile;

tuttavia, nonostante l'apparente e verosimile fondatezza del ricorso proposto dalla signora Montemurro, il giudice dell'esecuzione ha rigettato le sue ragioni, peraltro in circostanze di tempo così rapide da destare, a parere degli interroganti, non poca inquietudine: il ricorso è stato presentato alle ore 12.30 del 24 maggio 2016; il magistrato ha ricevuto il fascicolo il 25 maggio (perché lo ha "ereditato" da altro magistrato che ha inteso astenersi); nella medesima data del 25 maggio il magistrato ha rigettato la tutela cautelare chiesta dalla Montemurro; solo il giorno successivo, ovvero il 26 maggio, ha provveduto all'aggiudicazione, a giudizio degli interroganti in maniera se non illegittima quanto meno in modo poco prudente, in considerazione del fatto che si trattava di espropriare un immobile adibito ad abitazione;

considerato che a quanto risulta agli interroganti:

la signora Montemurro, ritenendo di non avere ricevuto alcuna tutela in sede civile, con atto del 24 giugno 2016, ha adito il giudice penale ed ha denunciato non solo il giudice dell'esecuzione, ma anche il "sistema" aste presso l'organo di giustizia. Nel suo esposto, tra l'altro, ha lamentato che presso il tribunale jonico: vi è l'orientamento di vendere all'asta, con poca o nessuna tutela per le parti; vi è poca turnazione dei magistrati, che gestiscono le aste ed anche degli ausiliari di questi ultimi; vi sarebbe prassi di vendere anche al limite di 20.000 euro, indipendentemente da quello che è il valore del bene espropriando, con la conseguenza che, a suo dire, alla fine, risulterebbero "pagati" solo i costi delle procedure;

la signora Montemurro non è l'unica ad aver lamentato condotte discutibili e inclini alle banche (solitamente creditrici procedenti) ed alle espropriazioni in genere da parte dei magistrati del tribunale tarantino, di volta in volta chiamati ad intervenire in questioni relative alle opposizioni alle aste immobiliari, in sede sia di cautela che di merito;

consta agli interroganti che anche il signor Vitantonio Bello abbia lamentato una tenace chiusura della magistratura jonica rispetto all'asta immobiliare in suo danno (n. 593/2011 R.G.E. del tribunale di Taranto), non ottenendo tutela nonostante le molteplici procedure incardinate e nonostante, in qualche provvedimento giurisdizionale, il magistrato estensore abbia riconosciuto la fondatezza della doglianza da lui sollevata. Nel caso di Bello l'asta immobiliare ha ad oggetto la casa ove vive con moglie e due figli minori (di anni 5 ed uno), a tal punto il signor Bello avrebbe anche interessato della sua vicenda la Presidenza della Repubblica e quest'ultima, di rimando, la Prefettura di Taranto;

sempre nella vicenda del signor Bello, la magistratura di Taranto, non accordandogli tutela e non sospendendo l'esecuzione, in un provvedimento giurisdizionale, ha sostanzialmente anche asserito che non vi sarebbe alcun vizio nel rapporto tra il medesimo e la banca, se pure l'istituto di credito, concedendogli più prestiti a distanza di poco tempo, era a conoscenza che lo stesso cliente non sarebbe stato in condizione di restituire il denaro (e ciò in considerazione di quella che era la sua valutata capacità di rimborso). A parere degli interroganti, nella stessa statuizione, vi sarebbe anche un'abnorme legittimazione della concessione abusiva di credito;

altra vicenda molto sintomatica della pervicace chiusura dei giudici di Taranto rispetto alla tutela da accordare agli esecutati e falliti è quella della signora Maria Spera (procedura esecutiva n. 590/1994 R.G.E del tribunale di Taranto). Vicenda che, nonostante non si sia ancora conclusa, ha registrato non poche forzature, con grave danno economico, psicologico e morale dell'esecutata. Addirittura la signora Spera ha lamentato un'illegittima duplicazione di titoli esecutivi, con cui l'intero suo patrimonio risulta ancora bloccato: 1) la procedura n. 590/1994 R.G.E., che si basa sul titolo esecutivo "mutuo fondiario" e che vede quale bene pignorato un terreno di 24 ettari (terreno a cui sarebbe interessato un facoltoso imprenditore locale, già socio di Emma Marcegaglia); 2) un decreto ingiuntivo, che si basa sullo stesso e medesimo debito, decreto con il quale è stato ipotecato l'intero restante patrimonio immobiliare della signora Spera. La vicenda, a giudizio degli interroganti, è tanto più inquietante se si pensa che il debito originario contratto dalla signora nel 1990 era a pari a 500 milioni di lire (corrispondenti a circa 258.000 euro) e la signora, alla data del 2007, ne aveva già restituiti 400.000 euro (corrispondenti a circa 800 milioni di lire);

ad oggi la signora Spera, nonostante il pignoramento del terreno, sottostimato dal tribunale di Taranto in poco più di 400.000 euro (somma che sarebbe più che capiente rispetto all'eventuale debito residuo, ove ne residuasse, visto che circa 400.000 euro sono stati già resi dalla signora alla Banca nazionale del lavoro), ha l'intero suo patrimonio ipotecato, in virtù dell'altro titolo esecutivo (il decreto ingiuntivo), emesso per lo stesso ed unico debito (che così è consacrato in 2 distinti titoli esecutivi). Pertanto, se la signora volesse vendere qualcosa per pagare eventuali residui debiti, non potrebbe farlo (e nemmeno è in condizione di onorare le esose tasse sulla proprietà, se non con gli aiuti dei figli);

la signora Spera ha riferito agli interroganti che, decorsi 10 anni dall'iscrizione dell'ipoteca sul suo patrimonio, in virtù del decreto ingiuntivo, nell'assenza di atti esecutivi (perché nel frattempo la procedura è andata avanti per la vendita del terreno pignorato sulla base del titolo esecutivo "mutuo fondiario"), ha chiesto la cancellazione dell'ipoteca, anche ritenendo la perenzione del decreto ingiuntivo, ma in risposta ha ottenuto dal tribunale tarantino il rigetto della sua legittima istanza (procedura n. 3291/2014 R.G. del tribunale). La questione pende in appello (causa n. 536/2014 R.G. della Corte di appello di Lecce, sezione di Taranto), ma la signora Maria Spera ritiene che incontrerà ancora l'illogico ed illegale ostacolo;

considerato, inoltre, che:

la signora Maria Spera ha riferito agli interroganti di aver presentato, presso il tribunale di Potenza (competente a valutare gli esposti nei confronti dei magistrati di Taranto), denuncia penale nei confronti dei magistrati ed ausiliari che, a suo parere, avrebbero male esercitato la funzione giurisdizionale, causandole danni; ma anche a Potenza ha dovuto prendere atto che, anziché ottenere tutela, ha solo registrato l'astio del pubblico ministero e la pessima sua azione. Allo stato la signora Spera, esecutata dal 1994, non ha ottenuto, né dai giudici di Taranto né da quelli di Potenza, la tutela che le leggi le garantirebbero ma che la magistratura (chiamata ad applicarle) le ha negato;

la vicenda è già balzata agli onori della stampa (sul settimanale tarantino "Wemag" del 12 novembre 2010) ed è stata anche oggetto di un'altra interrogazione parlamentare presentata alla Camera dei deputati nel 2010 (4-07339 a firma dell'on. Zazzera dell'IdV, Legislatura XVI);

ad avviso degli interroganti, circostanza molto inquietante è quella per cui, sempre in danno della signora Spera, né la magistratura jonica (sia in sede civile che penale) né quella potentina (in sede penale) hanno inteso accertare l'usura che la signora stessa ha lamentato esserle stata applicata. Usura che è poi emersa nell'ambito di una causa civile sempre dinanzi al tribunale tarantino, in occasione di una consulenza di ufficio redatta (causa n. 7929/2009 R.G. del tribunale di Taranto);

considerato infine che:

i fatti lamentati, per quanto gravi, non sono isolati. Gli interroganti hanno preso atto anche di un'intervista fatta dalla televisione locale "Studio 100" a varie persone esecutate, che avrebbero descritto il quadro inquietante e ricorrente al quarto piano del tribunale di Taranto, destinato appunto alle esecuzioni e ai fallimenti: si racconterebbe di prassi illegali che, pur denunciate, non vengono sanzionate, di "avvoltoi" che si avvicinano agli esecutati, estorcendo denaro per rinunciare all'acquisto, per poi acquistare all'udienza di vendita successiva, con ulteriore ribasso del prezzo e aggravio di danno per le povere vittime;

a giudizio degli interroganti la delicatezza dell'argomento, sia per le gravose conseguenze sulle persone, che per i dubbi di opinabile esercizio della funzione giurisdizionale, impone interventi urgenti e forti,

si chiede di sapere:

se non ricorrano le circostanze per intraprendere le opportune iniziative ispettive, sia presso il tribunale di Taranto, che presso quello di Potenza, onde verificare se quanto lamentato dai soggetti coinvolti corrisponda al vero e, in caso di verifica positiva, se non ricorrano le condizioni di adozione dei necessari provvedimenti correttivi a tutela delle parti e del corretto esercizio della funzione giurisdizionale;

se, nell'ambito delle attività ispettive, il Ministro in indirizzo non ritenga di dover verificare: la sussistenza delle condotte descritte, con particolare riguardo ai rapporti con le banche e le società di recupero crediti, ai fini dell'eventuale adozione di provvedimenti sanzionatori da parte delle autorità competenti; se corrisponda al vero che, presso il tribunale di Taranto, si celebrano aggiudicazioni di immobili anche al di sotto della metà del loro valore, e comunque in violazione delle norme di legge;

se esista un obbligo di turnazione dei magistrati nelle sezioni di esecuzione immobiliare e fallimentare e, in caso positivo, se lo stesso venga rispettato presso il tribunale di Taranto e se il medesimo obbligo sussista rispetto ai consulenti e ausiliari vari.

Dr Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Antonio Giangrande: Come si truccano le aste giudiziarie, o i procedimenti dei sequestri/confische antimafia o i procedimenti concorsuali o esecutivi.

Intervista al sociologo storico Antonio Giangrande, autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.

Dr Antonio Giangrande di cosa si occupa con i suoi saggi e con la sua web tv o con i suoi canali youtube?

«Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Perché dice che i procedimenti giudiziari esecutivi sono truccati o truccabili, siano esse aste giudiziarie, o procedimenti di sequestro o confisca di beni presunti mafiosi, ovvero procedimenti concorsuali o esecutivi.

«Oltre ad essere scrittore, sono presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Sodalizio nazionale antiracket ed antiusura (al pari di Libera). Associazione già iscritta all’apposito elenco prefettizio di Taranto, ma cancellata il 6 settembre 2017 per mia volontà, non volendo sottostare alle condizioni imposte dalla normativa nazionale: obbligo delle denunce (incentivo alla calunnia ed alla delazione) e obbligo alla costituzione di parte civile (speculazione sui procedimenti attivati su denunce pretestuose). Come presidente di questa associazione antimafia sono destinatario di centinaia di segnalazioni da tutta Italia. Segnalazioni ricevute in virtù della previsione statutaria associativa. Solo alcune di queste segnalazioni sono state prese in considerazione e citate nei miei saggi: solo quelle di cui si sono interessati organi istituzionali o di stampa. Articoli giornalistici od interrogazioni parlamentari inseriti nei miei saggi d’inchiesta: “Usuropoli. Usura e Fallimenti truccati” e “La Mafia dell’antimafia».

Perché le segnalazioni sono state rivolte a lei e non agli organi giudiziari?

«Per sfiducia nella giustizia. La cronaca lo conferma. Chiara Schettini tenta di scrollarsi di dosso le accuse pesantissime che l'hanno portata in carcere, aggravate da intercettazioni che la inchiodano a minacce, a frasi sorprendenti come: "Io se voglio sono più mafiosa dei mafiosi". Il Fatto contro i giudici fallimentari: "Sono corrotti". Il quotidiano di Travaglio alza il velo sui giudici fallimentari. A parlare è una di loro: "Ci davano 150 mila euro e viaggi pagati per pilotare le cause...", scrive “Libero Quotidiano”. Il Fatto contro le toghe. No, non è un ossimoro, ma l'approfondimento del quotidiano di Travaglio e Padellaro sui tribunali fallimentari. Raramente capita di leggere sul Fatto qualche articolo contro le toghe e la magistratura. Per l'ultimo dell'anno in casa travaglina si fa un'eccezione. Così il Fatto alza il velo sullo scandalo dei magistrati corrotti dei tribunali fallimentari. A parlare è l'ex giudice Chiara Schettini, arrestata a giugno che al Fatto racconta: "A Roma era una prassi. Viaggi e soldi in contanti erano la norma per comprare le sentenze. Si divideva il compenso con il magistrato, tre su quattro sono corrotti". La Schettini è un fiume in piena e accusa i colleghi: "L'ambiente della fallimentare è ostile, durissimo, atavico, non ci sono solo spartizioni di denaro ma viaggi, regali, di tutto di più, una nomina a commissario giudiziale costa 150 mila euro, tutti sanno tutto e nessuno fa niente". Infine punta il dito anche contro i "pezzi grossi" della magistratura fallimentare: "Si sapeva tranquillamente che lì c'era chi per una nomina a commissario giudiziale andava via in Ferrari con la valigetta e prendeva 150 mila euro da un famoso studio, tutti sanno ma nessuno fa niente...". Cause truccate, tangenti, favori. Tra magistrati venduti, politici, e top model che esportano milioni - La giudice “pentita” Schettini, arrestata per corruzione e peculato, ha cominciato a fare i nomi del “sistema”, tra avvocati, commercialisti e legami tra professionisti e banditi della criminalità romana…, scrive Dagospia. Corruzione al tribunale: voi fallite, noi rubiamo, scrive, invece, Pietro Troncon su “Vicenza Piu”. Corruzione al tribunale: voi fallite, noi rubiamo, scrive Lirio Abbate su L'Espresso n. 3 - del 23 gennaio 2014. Più che un tribunale sembra il discount delle grandi occasioni. Una fiera dove la crisi fa arrivare di tutto: dagli hotel alle fabbriche, a prezzi scontatissimi. Ma all'asta sarebbero finiti anche incarichi professionali milionari, assegnati al miglior offerente. O preziosi paracadute per imprenditori spericolati dalla mazzetta facile. Minerva e il prezzo della verità. Fallimenti, magistrati e giornalisti, scrive Francesco Monteleone su “Affari Italiani”. Giornalisti contro magistrati. Quanto costa essere veritieri? E' la domanda posta dai giornalisti riuniti, all'ombra della statua di Minerva, sulle scale del Palazzo di Giustizia di Bari. “Aste e fallimenti truccati…” Di fronte all’ingresso dello stesso palazzo, una scritta sul muro sintetizza impietosamente il comportamento vergognoso di alcuni magistrati responsabili della Sezione Fallimentare, che hanno subìto provvedimenti duri da parte del Consiglio Superiore della Magistratura. E la verità bisogna raccontarla...tutta! Una scatola di pasta piena di soldi consegnata in un parcheggio di Trezzano. Altre due buste di denaro, una passata di mano in un ristorante di Pogliano Milanese e una in un pub in zona San Siro. Infine, una borsa di Versace, regalata in un negozio del centro di Milano, scrive Gianni Santucci su “Il Corriere della Sera”. Ruota per ora intorno a questi quattro episodi l'inchiesta della Procura su un sistema di corruzione nelle aste giudiziarie del Tribunale di Milano. Ville in Sardegna all’asta assegnate dai magistrati ai loro colleghi. Sospeso il giudice Alessandro Di Giacomo e un perito. Otto indagati in tutto. Il sospetto di altri affari pilotati, scrive Ilaria Sacchettoni il 15 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Magistrati che premiano altri magistrati nell’aggiudicazione di ville superlative. Avvocati che, in virtù dell’amicizia con presidenti del Tribunale locale, si prestano a dissuadere altri avvocati dall’eccepire. Colleghi degli uni e degli altri che, interpellati dagli ispettori del ministero della Giustizia, su possibili turbative d’asta oppongono un incrollabile mutismo. Massa e Pisa, aste truccate: “Dobbiamo rubare il più possibile”. Chiesta la sospensione del giudice Bufo. L'accusa è di aver sottratto soldi all'erario e aver dato gli incarichi alla figlia dell'amico. Sette provvedimenti. Ai domiciliari anche l’ex consigliere regionale Luvisotti (An), scrivono Laura Montanari e Massimo Mugnaini il 10 gennaio 2018 su "La Repubblica". «Qui bisogna cercare di rubare il più possibile» dice uno. E l’altro che è un giudice, Roberto Bufo, 56 anni, di Carrara ma in servizio al tribunale di Pisa, risponde: «Esatto». E il primo: «Il concetto di fondo è uno solo... anche perché tanto a essere onesti non succede niente». La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato.

DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Virus su rai 2 condotto da Nicola Porro. 22:33 va in onda un servizio dedicato al caso del magistrato Antonio Lollo di Latina. Gomez: "C'è un problema in Italia riguardo i tribunali fallimentari. Non è la prima volta che un magistrato divide i soldi con il consulente. Nelle fallimentari, è noto che c'è la cosiddetta mano nera. Sulle aste, succedono cose strane. E se a dirlo è Peter Gomez, il direttore de “Il Fatto Quotidiano”, giornale notoriamente giustizialista e genuflesso all’autorità dei magistrati, è tutto dire. Ed ancora.

RACKET DI FALLIMENTI E ASTE. LE CONNIVENZE DELLA PROCURA FANTASMA TRIESTINA, scrive Pietro Palau Giovannetti (Presidente di Avvocati senza Frontiere). Non solo a Trieste. E adesso l'inchiesta sulle aste pilotate a palazzo di giustizia potrebbe salire decisamente di tono: alla Procura di Brescia, competente a indagare sui magistrati del distretto di Milano (dunque anche quelli lecchesi), sarebbero stati inviati mesi fa una serie di documenti di indagine, scrive Claudio Del Frate con Paolo Marelli su “Il Corriere della Sera”. Ed ancora. Tangentopoli scuote ancora Pavia, scrive Sandro Repossi su “Il Corriere della Sera”. Mentre il sostituto procuratore Vincenzo Calia invia due avvisi di garanzia a personaggi "eccellenti" del Policlinico San Matteo come Giorgio Domenella, primario di traumatologia, e Giovanni Azzaretti, direttore sanitario, spunta un'altra ipotesi: un magistrato sarebbe coinvolto nell'inchiesta sulle aste giudiziarie. Caso San Matteo. Ed ancora. Il pm Paolo Toso ha presentato oggi le richieste di pena per i 15 imputati del processo sulle aste giudiziarie immobiliari di Torino e provincia: in totale 62 anni di condanna. Aste immobiliari, il business dal lato oscuro. L'incanto di case e immobili, in arrivo da fallimenti di privati e imprese è, complice la crisi, un settore in crescita esponenziale. Ma anche uno dei più grandi coni d'ombra del sistema giudiziario, scrive Luciana Grosso su “L’Espresso”. Se avete qualche soldo da riciclare, le aste immobiliari sembrano essere fatte apposta. E sono tante: circa 50mila all'anno, per un valore complessivo incalcolabile e, soprattutto, incalcolato. Corruzione e falso, arrestati giudice e cancelliere a Latina, scrive “la Repubblica”. Corruzione in atti giudiziari, concussione, turbativa d'asta, falso. Sono alcune delle accuse contestate a otto persone ai quali la squadra mobile di Latina ha notificato ordinanze di custodia cautelare emesse dai giudici di Perugia e di Latina. Tra gli arrestati, quattro in regime di detenzione in carcere e altrettanti ai domiciliari, anche un magistrato e un cancelliere in servizio presso il tribunale del capoluogo, alcuni professionisti e un sottufficiale della Guardia di Finanza. Al giudice andava una percentuale dei compensi che, in sede di giudizio, lo stesso giudice riconosceva ai consulenti. Le indagini avrebbero accertato come i consulenti nominati dal giudice nelle singole procedure concorsuali, abitualmente corrispondevano a quest'ultimo una percentuale dei compensi a loro liquidati dal giudice stesso. Il filone di indagine ha permesso anche di svelare altri illeciti sullo svolgimento delle aste disposte dal Tribunale di Latina per la vendita di beni oggetto di liquidazione. Tutto questo non basta ad avere sfiducia nella Magistratura? Ogni segnalazione conteneva una denuncia presentata, che si è conclusa con esito negativo. Sono stato sentito dagli organi inquirenti, territorialmente toccati dagli scandali, per rendere conto del mio dossier. Gli ho spiegato che sono uno scrittore e non un Pubblico Ministero con potere d’indagine, con l’inchiesta giudiziaria bell’e fatta, né sono una parte con le prove specifiche allegate alla singola denuncia rimasta lettera morta. Val bene che una denuncia può non essere sostenuta da prove, o che al massino vale un indizio. Ma decine di casi a supporto di un’accusa, valgono decine di indizi che formano una prova. Se si ha fede si crede a ciò che non si vede; se non si ha fede (voglia di procedere da parte di PM o suoi delegati), una montagna di prove non basta! Anche il giornalista di Telejato, Pino Maniaci, a Palermo non veniva creduto quando parlava di strane amministrazioni giudiziarie sui beni sequestrati e confiscati a presunti mafiosi, che poi le sentenze non li ritenevano mafiosi. Però, successivamente, l’insistenza e lo scandalo ha costretto gli inquirenti a procedere contro i loro colleghi magistrati, che poi sono i dominus dei procedimenti giudiziari, anche tramite i collaboratori che loro nominano. Comunque di scandali se ne parla e se ne è parlato. Quasi tutti i Tribunali sono stati toccati da scandali od inchieste giudiziarie. Quei pochi luoghi rimasti immuni sono forse Fori unti dal Signore...».

Spieghi, lei, allora, come si truccato le aste giudiziarie e i procedimenti connessi…

«LA NOMINA DEI COLLABORATORI DA PARTE DEL GIUDICE TITOLARE. I custodi giudiziari spesso si spacciano anche per amministratori giudiziari, per poter pretendere con l’avvallo dei magistrati compensi raddoppiati e non dovuti. Essendo i consulenti tecnici, i periti, gli interpreti ed i custodi/amministratori giudiziari i principali ausiliari dei magistrati, come a questi ci si pretende di porre in loro una fiducia incondizionata. Spesso, però ci si accorge che tale fiducia è mal riposta, sia nei collaboratori, che nei magistrati stessi. La nomina del curatore esecutivo o del commissario concorsuale o amministratore dei beni mafiosi sequestrati o confiscati si dice che avviene per rotazione. Vero! Bisogna però verificare la quantità degli incarichi e, ancor di più, la qualità. Un incarico del valore di 10 mila euro è diverso da quello di 10 milioni di euro. All’amico si affida l’incarico di valore maggiore con liquidazione consistente del compenso! Di quest’aspetto ne parla la “Stampa”. Giuseppe Marabotto era scampato a un primo processo per un serio reato (aveva rivelato a un indagato che il suo telefono era sotto controllo). Chiacchierato da molti anni e divenuto procuratore di Pinerolo, ha costruito in una tranquilla periferia giudiziaria un regno personale e il malaffare perfetto per chi, come lui, si sentiva impunito stando dalla parte della legge: 11 milioni di euro sottratti allo Stato sotto forma di consulenze fiscali seriali ed inutili ai fini di azioni giudiziarie. Secondo quanto scrivono Il Messaggero e Il Fatto Quotidiano la procura di Perugia sta indagando sulla gestione delle procedure fallimentari del Tribunale di Roma. Ovvero di come il Tribunale assegna i vari casi di crisi aziendali ai curatori fallimentari, avvocati o commercialisti, che in base al valore della pratica che gestiscono vengono pagati cifre in alcuni casi molto alte. L’ipotesi al vaglio degli inquirenti è che a “guidare” queste assegnazioni ci sia un sistema clientelare o corruttivo.

L’AFFIDAMENTO E LA GESTIONE DEI BENI CONFISCATI/SEQUESTRATI AI PRESUNTI MAFIOSI. I beni dei presunti mafiosi confiscato o sequestrati preventivamente sono affidati e gestiti da associazione di regime (di sinistra) che spesso illegittimamente sono punto di riferimento delle prefetture, pur non essendo iscritte nell’apposito registro provinciale, e comunque sempre destinatari di fondi pubblici per la loro gestione, perchè vincitori di programmi o progetti allestiti dalla loro parte politica.

LA DURATA DEL MANDATO. Un mandato collusivo e senza controllo porta ad essere duraturo e senza soluzione di continuità. Quel mandato diventa oneroso per i beni e ne costituiscono la loro naturale svalutazione. Trattiamo della nomina e della remunerazione dei custodi/amministratori giudiziari. In questo caso trattasi di custodia dei beni sequestrati in procedimenti per usura. Il custode ha pensato bene di chiedere il conto alle parti processande, ben prima dell’inizio del processo di I grado ed in solido a tutti i chiamati in causa in improponibili connessioni nel reato, sia oggettive che soggettive. Chiamati a pagare erano anche a coloro a cui nulla era stato sequestrato e che poi, bontà loro, la loro posizione era stata stralciata. Questo custode ha pensato bene di chiedere ed ottenere, con l’avallo del Giudice dell’Udienza Preliminare di Taranto, ben 72.000,00 euro (settantaduemila) per l’attività, a suo dire, di custode/amministratore. Sostanzialmente il GUP, per pervenire artatamente all’applicazione delle tariffe professionali dei commercialisti, in modo da maggiorare il compenso del custode, ha ritenuto che la qualifica spettante al suo ausiliario non fosse di custode i beni sequestrati (art. 321 cpp, primo comma), ma quella di amministratore di beni sequestrati (art. 321 cpp, secondo comma, in relazione all’art. 12 sexies comma 4 bis del BL 306/1992 che applica gli artt. 2 quater e da 2 sezies a 2 duodecies L. 575/1965). Il presidente Antonio Morelli ha riconosciuto, invece, liquidandola in decreto, solo la somma di euro 30.000,00 (trentamila). A parte il fatto che non tutti possono permettersi di opporsi ad un decreto di liquidazione del GUP, è inconcepibile l’enorme differenza tra il liquidato dal GUP e quanto effettivamente riconosciuto dal Presidente del Tribunale di Taranto. Anche “Il Giornale” ha trattato la questione. Parcelle gonfiate, indagato consulente del Pm. Avrebbe ritoccato note spese liquidate dalla Procura: è stato nominato in 144 procedimenti. Con le accuse di truffa ai danni dello Stato e frode fiscale, il pm Luigi Orsi ha messo sotto inchiesta il commercialista M.G., più volte nominato consulente tecnico del pubblico ministero e dell'ufficio del giudice civile e anche amministratore giudiziario di beni sequestrati. E poi c’è l’inchiesta de “Il Messaggero”. Tribunale fallimentare, incarichi d'oro. Inchiesta sui compensi da capogiro. In tribunale, avvocati e cancellieri ne parlano con circospezione. E lo raccontano come se fosse un bubbone che prima o poi doveva scoppiare, perché gli interessi economici in ballo sono davvero altissimi e gli esclusi dalla grande torta cominciavano a dare segni di insofferenza da tempo.

LA VALUTAZIONE DEI BENI. La valutazione dei beni da vendere all’asta pubblica è fatta in ribasso, anche in forza di attestazioni false dello stato dei luoghi. Per esempio: si prende una visura catastale in cui il terreno risulta incolto/pascolo, ma in effetti è coltivato ad uliveto o vigneto. Oppure si valuta come catapecchia una casa ben manutenuta e rinnovata. Esemplare è il fallimento della Federconsorzi. Caposaldo dello scandalo, la liquidazione di un ente che possedeva beni immobili e mobili valutabili oltre quattordicimila miliardi di lire per ripagare debiti di duemila miliardi. L’enormità della differenza avrebbe costituito la ragione di due processi, uno aperto a Perugia uno a Roma. La singolarità dello scandalo è costituita dall’assoluto silenzio della grande stampa, che ha ignorato entrambi i processi, favorendo, palesemente, chi ne disponeva l’insabbiamento.

LE FUGHE DI NOTIZIE. Le fughe di notizie sulla situazione dei beni, le notizie sulla pericolosità o meno dei loro proprietari, o gli avvisi sulle offerte sono cose risapute.

LA MANCATA VENDITA. Spesso ci sono dei personaggi, con i fascicoli dei procedimenti in mano, che in cambio di tangenti promettono la sospensione della vendita. Altre volte i proprietari mettono in essere comportamenti intimidatori nei confronti dei possibili acquirenti, tanto da inibirne l’acquisto.

LA VENDITA VIZIATA. La vendita del bene all’asta può essere viziata, impedendo ai possibili acquirenti di parteciparvi. Per esempio si indica una data di vendita sbagliata (anche da parte degli avvocati nei confronti dei propri clienti esecutati), o il luogo di vendita sbagliato (un paese per un altro).

L’AQUISTO DI FAVORE. L’acquisto dei beni è spesso effettuato tramite prestanomi al posto di chi non è legittimato all’acquisto (come per esempio il proprietario esecutato), e spesso effettuato per riciclaggio o auto riciclaggio.

IL PREZZO VILE (VALORE TROPPO BASSO RISPETTO AL MERCATO). Il filo conduttore che lega tutte le aste truccate è la riconducibilità al prezzo vile: ossia il quasi regalare il bene da vendere all’asta, frutto di sacrifici da parte degli esecutati, rispetto al valore di mercato, affinchè si liquidi il compenso dei collaboratori del giudice, e, se ne rimane, il resto al creditore».

Cosa si può fare contro il prezzo vile?

«Contro il prezzo vile, se si vuole si può intervenire. Casa all'asta: addio aggiudicazione se il prezzo è troppo basso. Importante ordinanza del Tribunale di Tempio sulla revoca dell'aggiudicazione di un immobile all'asta, scrive la dott.ssa Floriana Baldino il 10 febbraio 2018 su “Studio Castaldi” - Dal tribunale di Tempio, con la firma del giudice Alessandro Di Giacomo, arriva un'importante decisione. Il giudice, a seguito del deposito di un ricorso urgente, ha revocato l'aggiudicazione dell'immobile all'asta, considerando la circostanza che l'immobile era stato venduto ad un prezzo troppo basso rispetto al valore che lo stesso aveva sul mercato. Il giudice, infatti, deve sempre valutare l'adeguatezza del prezzo di vendita rispetto a quello di mercato onde evitare "l'eccesso di ribasso", che sicuramente non va a vantaggio né del creditore né del debitore. L'unico a trarne vantaggio sarebbe soltanto colui che all'asta acquista l'immobile ad un prezzo irrisorio. Il giudice Di Giacomo, accogliendo dunque la tesi dell'avvocato difensore, ha revocato l'aggiudicazione dell'asta in base ai principi stabiliti dalla legge n. 203 del 1991. Tale legge parla impropriamente di "sospensione" ma, in verità, attribuisce al G.E. – fino all'emissione del decreto di trasferimento – un vero e proprio potere di revocare l'aggiudicazione dell'immobile a prezzo iniquo. Il potere di revocare l'aggiudicazione, prima spettava solo al giudice delegato ex art. 108 della legge fallimentare, ma la riforma ha attribuito questo potere al giudice dell'esecuzione, allo scopo di "restituire il processo esecutivo alla fase dell'incanto che andrà rifissato con diverse modalità, affinchè la gara tra gli offerenti si svolga per l'aggiudicazione del bene al prezzo giusto".

La sospensione della vendita. Già prima dell'approvazione del decreto del 2016, molti giudici, di diversi tribunali, avvalendosi della possibilità riconosciuta loro ex art. 586 c.p.c., in seguito alle modifiche apportate dalla legge n. 203/91 di conversione del D.lg. n. 152/91, sospendevano la vendita quando il prezzo era notevolmente inferiore a quello "giusto". Quel decreto, urgente, era stato pensato per la lotta alla criminalità organizzata delle vendite pilotate, ovvero negli anni in cui si assisteva ad una serie di incanti deserti al fine di conseguire, attraverso successivi ribassi, un prezzo di aggiudicazione irrisorio. Questa legge, pensata e studiata per la lotta alla criminalità organizzata, è stata poi applicata in diversi tribunali e per tutte le procedure che non avevano più alcuna utilità. Ogniqualvolta i giudici ritenevano che gli interessi economici del debitore e del creditore venissero frustrati dal prezzo troppo basso di aggiudicazione dell'immobile, potevano, a discrezione, "sospendere la vendita". Così, ad es., il tribunale di Roma, sez. distaccata di Ostia, con ordinanza del 9 Maggio 2013 che ha sospeso per un anno l'esecuzione immobiliare dopo cinque tentativi di asta. Nella fattispecie, il prezzo del bene si era talmente ridotto rispetto alla stima del perito che il giudice ha ritenuto che la sospensione di un anno della procedura, potesse essere un congruo termine per tentare la vendita dell'immobile ad un prezzo diverso, e magari più adeguato. Al Tribunale di Napoli invece un giudice è andato oltre restituendo il bene al debitore (ord. del 23.01.2014.), facendo riferimento a due principi importanti. Il primo, della ragionevole durata del processo, ed il secondo, principio cardine a cui il giudice napoletano ha fatto riferimento, quello secondo cui, procedere con l'esecuzione, non era più fruttuoso né per il debitore né per il creditore, sempre per il c.d. "giusto prezzo". Successivamente anche il Tribunale di Belluno si è espresso in tal senso con ordinanza del 3.06.2013.

La necessaria utilità del processo esecutivo. Il processo esecutivo deve avere una sua utilità. Soddisfare il creditore e liberare il debitore dai suoi debiti. Il periodo storico in cui ci troviamo non è sicuramente dei migliori ed il mercato immobiliare è sicuramente molto penalizzato. Si assiste sempre a situazioni in cui alle aste non vi è alcuna proposta di acquisto, almeno fino a quando il prezzo dell'immobile rimane alto. Poi il bene viene venduto ad un prezzo veramente irrisorio ed il creditore non viene soddisfatto dal prezzo ricavato dalla vendita, mentre il debitore si ritrova senza immobile (in molti casi proprio la prima abitazione) e con ancora i debiti da saldare. Molte norme sono intervenute in aiuto degli imprenditori in crisi ed ora tutto sta nelle mani dei giudici dei tribunali, che possono applicare le norme in una maniera più elastica e meno rigida.

La giurisprudenza. Importante, in materia di esecuzione, è la sentenza n. 692/2012 della Cassazione. Occupandosi di esecuzione in materia fiscale, la S.C. ha ribadito che: "Nell'esecuzione esattoriale il potere del giudice di valutare l'adeguatezza del prezzo di trasferimento non solo non subisce alcuna eccezione rispetto l'esecuzione ordinaria ma deve essere esercitato con particolare oculatezza, sì da valutare se, nel singolo caso, sia più dannoso per lo Stato creditore il protrarsi dei tempi di riscossione o la perdita della possibilità di realizzare gran parte del proprio credito, a causa della sottovalutazione del bene pignorato". Una massima enunciata prima della approvazione del "decreto del fare", ovvero quando ancora Equitalia poteva pignorare e vendere all'asta gli immobili dei contribuenti. La massima enunciata dalla Cassazione in materia tributaria, si adegua, ed uniforma, a quello da sempre sottolineato nel procedimento civile.

Il processo esecutivo deve mantenere la sua utilità. La Cassazione specifica inoltre che il concetto di prezzo giusto, non richiede necessariamente una valutazione corrispondente al valore di mercato, ma occorre aver riguardo alle modalità con cui si è pervenuti all'aggiudicazione, al fine di accertare se tali modalità (pubblicità ed altro), siano stati tali da sollecitare l'interesse dell'acquisto. Insomma, sempre più numerose le sentenze a favore del consumatore indebitato che vede svendere i propri beni senza ottenere, per di più, dalla vendita la soddisfazione dei creditori».

Come bloccare un'Asta?

«Se la tua casa è all’asta esistono diversi metodi per sospendere o bloccare definitivamente il pignoramento a seconda delle situazioni. L’importante è che le aste vadano deserte, scrive lo Studio Chianetta il 22 maggio 2017. Molto spesso – specie quando si ha a che fare con la legge – si prende cognizione dei problemi quando il danno è spesso irrimediabile. Succede a chi ha la casa pignorata che, dopo aver ignorato gli svariati avvisi del creditore e aver sottovalutato le carte ricevute dal tribunale, si chiede come bloccare un’asta. In verità, anche per chi è soggetto a un’esecuzione forzata immobiliare, esistono alcune scappatoie, pienamente legali, ma da prendere con le dovute cautele. Infatti, se è vero che esse consentono di sbarazzarsi del pignoramento dall’oggi al domani, dall’altro lato non vengono accordate dal giudice con facilità e automatismo. Del resto, come tutte le norme, anche quelle che consentono di bloccare un’asta immobiliare sono soggette a interpretazione e, peraltro, come vedremo, lasciano un campo di azione abbastanza ampio alla valutazione del giudice. Ma procediamo con ordine. Il problema della casa all’asta resta il cruccio principale per molti debitori che subiscono il pignoramento. Impropriamente si crede peraltro che la «prima casa» non sia pignorabile, cosa non vera per due ordini di motivi: innanzitutto il limite vale solo nei confronti dell’agente della riscossione (Equitalia o, dal 1° luglio 2017, l’Agenzia delle Entrate-Riscossione); in secondo luogo perché a non essere pignorabile non è la «prima casa» ma solo l’unico immobile di proprietà del debitore (per cui, se questi ha due case, ad essere pignorabili sono entrambe e non solo la seconda). A dirla tutta, quando si tratta di creditori privati (la banca, un fornitore o la controparte che ha vinto una causa) il pignoramento immobiliare può essere avviato anche per debiti di scarso valore (invece, per i debiti con il fisco il pignoramento è possibile solo superati 120mila euro). Prima di capire come bloccare la casa all’asta sono necessarie due importanti precisazioni. La prima cosa da sapere è che, di norma, prima di procedere al pignoramento (e, quindi, all’asta), il creditore iscrive un’ipoteca sull’immobile. Per quanto ciò non sia vincolante (lo è solo nel caso in cui ad agire sia l’Agente della riscossione), avviene quasi sempre perché attribuisce un diritto di prelazione sul ricavato: in altre parole, il creditore con l’ipoteca si primo grado si soddisfa prima degli altri. La seconda indispensabile precisazione è che, per bloccare la casa all’asta si può contestare le ragioni del creditore solo se questi agisce in forza di un assegno o di un contratto di mutuo. Viceversa, se il creditore agisce in forza di una sentenza di condanna, il debitore non può più metterla in discussione (avendo avuto il termine per fare appello o ricorso per cassazione). Quindi, se il giudice ha fissato il nuovo esperimento d’asta e il creditore agisce perché ha ottenuto un decreto ingiuntivo (ad esempio, la banca per interessi non corrisposti) non è più possibile sollevare eccezioni sul merito del credito (ad esempio sull’anatocismo)».

Ma allora quando si può bloccare la casa all’asta?

«Le ragioni sono essenzialmente legate all’utilità della procedura. Ci spieghiamo meglio, scrive lo Studio Chianetta il 22 maggio 2017. Lo scopo del pignoramento – e quindi delle aste – è quello di liquidare i beni del debitore e, con il ricavato, soddisfare il creditore procedente. Una procedura che realizza l’interesse di entrambe le parti: quello del creditore – perché così ottiene i soldi che gli spettano – e quello del proprietario della casa – perché in tal modo si libera del debito. Quando però queste due finalità non possono essere realizzate, allora non c’è ragione di tenere in vita la procedura. Si pensi al caso di un’asta battuta a un prezzo ormai così basso da non consentire al creditore di recuperare neanche la metà delle somme per le quali agisce, al netto delle spese legali già sostenute. Nello stesso tempo, l’eventuale vendita – eseguita magari a favore di chi, furbescamente, ha atteso diverse aste prima di proporre un’offerta, in modo da far calare il prezzo – non consente al debitore di liberarsi della morosità, peraltro espropriandolo di un bene per lui vitale. Risultato: insoddisfatto il creditore, insoddisfatto il debitore. Consapevole di ciò il legislatore ha, di recente, emanato due norme che, sebbene possano apparire indipendenti tra loro, se applicate l’una con l’altra possono favorire la rapida conclusione del pignoramento.

COME BLOCCARE L’ASTA. Qualora non si presenti alcun offerente alle aste promosse dal tribunale, il giudice può disporre un ribasso del prezzo di vendita del 25% (ossia di un quarto). Molto spesso, però, nonostante i ribassi e il calo drastico del prezzo rispetto alla stima fatta all’inizio del pignoramento dal consulente del tribunale (il cosiddetto «Ctu», ossia il consulente tecnico d’ufficio), non si presenta alcun offerente. Con la conseguenza che il prezzo d’asta scende sempre di più fino al punto da non soddisfare le pretese dei creditori. Così il codice di procedura stabilisce che «quando risulta che non è più possibile conseguire un ragionevole soddisfacimento delle pretese dei creditori – anche tenuto conto dei costi necessari per la prosecuzione della procedura, delle probabilità di liquidazione del bene e del presumibile valore di realizzo – è disposta la chiusura anticipata del processo esecutivo». In pratica, tutte le volte che la casa, sottoposta a pignoramento immobiliare, non trova potenziali acquirenti e la base d’asta, a furia di ribassi, arriva a un prezzo che non è in grado di garantire un ragionevole soddisfacimento dei creditori il giudice decreta la fine anticipata del processo esecutivo. Si tratta di una estinzione anticipata del pignoramento che non consente allo stesso di risorgere in un secondo momento. Questo significa che il debitore torna nella piena disponibilità della propria casa prima pignorata e non dovrà subire alcuna asta. Ma quando è possibile raggiungere questo risultato? Quante aste bisogna aspettare? In teoria molte. E proprio per questo è intervenuta la seconda parte della riforma di cui abbiamo accennato in partenza. La seconda norma in evidenza è contenuta nel cosiddetto «decreto banche» dell’inizio 2016. In base all’ultima riforma del processo esecutivo, quando il terzo esperimento d’asta va deserto e il bene pignorato non viene aggiudicato, il giudice dispone un quarto tentativo di asta e, per rendere più allettante la partecipazione degli offerenti, può decurtare fino a metà il prezzo di vendita. Con l’ovvia conseguenza che, andata deserta anche la quarta asta, il prezzo di vendita sarà sceso così tanto da consentire il verificarsi di quella condizione – prima descritta – che consente l’estinzione anticipata del pignoramento: ossia l’impossibilità di conseguire un ragionevole soddisfacimento delle pretese dei creditori. Ecco così che già dopo la quarta o la quinta asta, al più dopo la sesta, è possibile bloccare le aste successive e chiudere una buona volta il pignoramento. Del resto scopo del pignoramento è quello di soddisfare il creditore e non infliggere al debitore una sanzione esemplare. Tanto è vero che una recente ordinanza del Tribunale di Tempio ha stabilito che: «Neppure le esigenze di celerità cui tale particolare procedura è improntata (si riferisce all’ esecuzione esattoriale), in forza delle quali l’espropriazione anche per prezzo vile trova la sua ragion d’essere nel preminente interesse dello Stato procedente, possono giustificare che il trasferimento degli immobili pignorati prescinda da un qualsiasi collegamento con il valore dei beni e che tale valore possa essere anche irrisorio, atteso che l’espropriazione ha la finalità di trasformare il bene in denaro per il soddisfacimento dei creditori e non certo di infliggere una sanzione atipica al debitore inadempiente». Secondo il giudice quindi è anche possibile sospendere la vendita se il prezzo è troppo basso. Il che è previsto dal codice di procedura civile che prevede la possibilità di sospendere il pignoramento anche una volta intervenuta la vendita: «Avvenuto il versamento del prezzo, il giudice dell’esecuzione può sospendere la vendita quando ritiene che il prezzo offerto sia notevolmente inferiore a quello giusto».

LA SOSPENSIONE DELL’ESECUZIONE FORZATA SULLA CASA. C’è poi la possibilità di chiedere la sospensione del pignoramento quando il giudice ritiene che il prezzo offerto sia notevolmente inferiore a quello giusto e di mercato. La misura è nell’interesse sia del debitore (che ha interesse a che la casa si venda al prezzo reale, per poter chiudere la partita col creditore), sia del creditore stesso (che intende recuperare quanto più possibile delle somme che gli spettano). Si tratta di un potere riservato al vaglio discrezionale del tribunale (ma che, ovviamente può essere sollecitato dagli avvocati delle parti) che comporta il differimento dell’asta pubblica “a data da destinarsi” (ossia a quando il mercato sarà più “maturo”). Sempre che, nelle more, non intervengano altri eventi modificativi del processo come, per esempio, il disinteresse del creditore, una trattativa tra le parti che porti a una transazione con sostanziale decurtazione del debito, ecc.

NEL CASO DI FALLIMENTO. Anche se la vendita avviene per via di un fallimento, le cose non cambiano. Difatti, la legge fallimentare prevede, nel caso in cui oggetto della vendita forzata sia un bene appartenente a un imprenditore fallito, che «il giudice delegato, su istanza del fallito, del comitato dei creditori o di altri interessati, previo parere dello stesso comitato dei creditori, può sospendere, con decreto motivato, le operazioni di vendita, qualora ricorrano gravi e giustificati motivi ovvero, su istanza presentata dagli stessi soggetti». In passato il tribunale di Lanciano, nell’ambito di pignoramento immobiliare conseguente a un fallimento ha preso atto del notevole squilibrio tra il prezzo di base d’asta dell’immobile e quello di mercato (per come attestato dalla perizia del Consulente tecnico d’ufficio) e, sulla scorta di ciò, ha sospeso la vendita della casa pignorata».

Incarichi pilotati al tribunale di Lecce, due giudici tra gli indagati. Tra le accuse c'è tentata concussione, corruzione e turbativa d’asta. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Settembre 2023

Sotto accusa i giudici del Tribunale di Lecce

Sono dieci gli indagati che compaiono nell’avviso di conclusione delle indagini avviate dalla Procura di Potenza nel settembre 2021 su un presunto giro di incarichi pilotati alla sezione fallimentare del tribunale di Lecce in cambio di favori, regali e varie utilità.

Nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, ci sono due giudici leccesi: Pietro Errede, 55 anni, all’epoca dei fatti giudice delle sezioni Fallimentare/Esecuzioni immobiliari e dal maggio scorso ai domiciliari; e Alessandro Silvestrini, 67 anni, indagato a piede libero.

L’avviso di conclusione delle indagini è a firma del procuratore capo Francesco Curcio e dei sostituti procuratori Maurizio Cardea, Vincenzo Montemurro e Anna Piccininni.

Tra gli indagati anche tre avvocati, tre consulenti commercialisti, un geometra e un imprenditore. Le accuse contestate a vario titolo sono di tentata concussione, corruzione, turbativa d’asta, estorsione, tentata estorsione. 

Chiuse le indagini della Procura di Potenza sulla sezione fallimentare del Tribunale di Lecce: a rischio processo due magistrati. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 22 Settembre 2023  

Le accuse contestate a vario titolo sono la tentata concussione, corruzione in atti giudiziari, turbativa d’asta e un tentativo di estorsione in danno dell’ex sindaco di Carmiano, Giancarlo Mazzotta, per ottenere un cronografo Rolex Daytona del valore di oltre 20mila euro.

La Procura di Potenza ha notificato un avviso di conclusione delle indagini preliminari in relazione all’inchiesta su giustizia e favori alla sezione Fallimentare del Tribunale civile di Lecce nei confronti di dieci persone tra i quali figurano due magistrati: Pietro Errede, sottoposto agli arresti domiciliari, e Alessandro Silvestrini, indagato in stato di libertà.  Rischiano il processo anche Alberto Russi, avvocato e compagno di Errede; Antonio Casilli, avvocato e consulente del Tribunale; i commercialisti Massimo Bellantone, Giuseppe Evangelista, Emanuele Liaci, Marcello Paglialunga,  l’ex funzionario della Regione Puglia  Antonio Vincenzo Salvatore Fasiello, e l’imprenditore Eusebio Giovanni Mariano, di Surbo. 

L’impianto accusatorio viene confermato di fatto dal procuratore della Repubblica Francesco Curcio, e dal procuratore aggiunto Maurizio Cardea e dai pm Vincenzo Montemurro e Anna Piccininni. Le accuse contestate a vario titolo sono la tentata concussione, corruzione in atti giudiziari, turbativa d’asta e un tentativo di estorsione in danno dell’ex sindaco di Carmiano, Giancarlo Mazzotta, per ottenere un cronografo Rolex Daytona del valore di oltre 20mila euro.

Secondo la Procura di Potenza Errede avrebbe acquistato personalmente il Rolex, che in seguito sarebbe dovuto essere “rimborsato” dal Mazzotta, imprenditore e titolare della società “Barone di Mare“, sottoposta all’epoca dei fatti a misura di prevenzione e quindi al controllo giudiziario , ma all’insaputa del magistrato. Nell’inchiesta si è parlato, in buona sostanza, di incarichi in qualche modo “pilotati” e di una serie di regalie giunte al giudice Errede per il tramite dei consulenti. 

Il “sistema” vigente al Tribunale Fallimentare di Lecce era fondato su una circuito di contatti e amicizie, i cui indagati sono stati sottoposti a intercettazioni ambientali e telefoniche. L’indagine ha origine da un esposto presentato alla Procura, a Lecce da Saverio Congedo ed Emanuele Macrì, in qualità di professionisti nominati quali amministratori giudiziari nell’ambito di una procedura. Procedimento che è stata trasmesso alla procura di Potenza competente su presunti reati commessi negli uffici giudiziari di Brindisi, Lecce e Taranto.

La procura guidata da Francesco Curcio ha quindi dato il via ad ulteriori necessari approfondimenti investigativi. Al magistrato Errede sarebbero state fornite delle informazioni privilegiate su un’asta giudiziaria, oltre a una serie di elargizioni, mentre Il magistrato Silvestrini risponde di due episodi di presunta corruzione in atti giudiziari. Uno dei quali in concorso con il commercialista Massimo Bellantone, che gli avrebbe garantito (secondo le tesi accusatore) una “sponsorizzazione” al Csm per la sua nomina a presidente del Tribunale, che è ancora sub judice, e l’altro episodio è relativo alla gestione “pilotata” di un’asta giudiziaria in cambio di una partita di tegole per la ristrutturazione di un’ abitazione ed incredibilmente della regalia di una cernia da quattro chili (che in realtà una ricciola) . Redazione CdG 1947

Arrestato dalla Procura di Potenza il magistrato Pietro Errede: corruzione e turbativa d’asta. Il Csm dorme o insabbia? Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 29 Maggio 2023

Gli indagati in totale sono dieci. Nel provvedimento cautelare emesso dal gip del tribunale di Potenza le accuse contestate a vario titolo sono: concussione, corruzione in atti giudiziari, turbata libertà degli incanti ed estorsione. Indagato un altro magistrato in servizio nel tribunale di Lecce che tramite il Sen. Marti cercava di arrivare a Matteo Salvini per farsi "sponsorizzare" al CSM

Il magistrato pugliese Pietro Errede, fino a poco tempo fa in servizio come giudice delle sezioni Fallimentare/Esecuzioni Immobiliari/Misure di Prevenzione del Tribunale di Lecce , ed ora in servizio negli uffici giudiziari di Bologna, l’ “amico” del magistrato, avvocato Alberto Russi in relazione al quale il Gip del Tribunale di Potenza dr. Salvatore Pignata ha ritenuto dimostrata la tentata estorsione non consumata, e tre commercialisti Massimo Bellantone, Emanuele Liaci, Marcello Paglialunga che sono finiti ai domiciliari per corruzione in atti giudiziari su disposizione della Procura di Potenza. 

La “cricca” di professionisti all’insaputa di Errede, costringeva soggetti privati le cui aziende erano sottoposte ad amministrazione giudiziaria a pagare loro il corrispettivo di 20mila euro per un orologio Rolex, in realtà già pagato realmente, anche se ad un prezzo vantaggioso dal dr. Errede, somma che non risultava corrisposta personalmente al giudice.

Gli indagati in totale sono dieci, tra i quali un altro magistrato in servizio nel tribunale di Lecce. Nel provvedimento cautelare emesso dal Gip dr. Pignata del Tribunale di Potenza le accuse contestate a vario titolo sono: concussione, corruzione in atti giudiziari, turbata libertà degli incanti ed estorsione. Sono in corso delle perquisizioni negli studi di commercialisti e professionisti, alcuni dei quali sono stati convocati in caserma per essere interrogati.  

Errede era già iscritto nel registro degli indagati nel procedimento per corruzione e turbativa d’asta. L’inchiesta era partita un anno fa dopo un esposto anonimo in relazione ad un giro di nomine e incarichi “pilotati” nel Tribunale fallimentare di Lecce, oltre ad una presunta interferenza in un’asta giudiziaria in cambio di favori, e dalle successive dichiarazioni verbalizzate il 21 settembre 2021 da Saverio Congedo e Michele Macrì amministratori giudiziari di due società al centro di una articolata vicenda, al culmine della quale era stato poi proposto l’inserimento di un “coadiutore”, persona per l’appunto alquanto vicina a Errede. I due denuncianti avrebbero mostrato gli screenshot delle conversazioni whatsapp ai pm di Potenza. 

Da queste evidenze vennero disposte una serie di ulteriori verifiche e grazie alle intercettazioni telefoniche ed ambientali, copiosa acquisizione di documenti, analisi e studio di tabulati telefonici, messaggistica ed atti giudiziari compiuti dagli attenti investigatori delle Fiamme Gialle salentine, affiancate dai magistrati della Procura di Potenza, sarebbe poi venuto alla luce un quadro che ha portato alla esigenza di compiere delle perquisizioni. Un intero capitolo delle indagini del nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza di Lecce è dedicato alla “collana tennis di brillanti” fornita da un consulente che sarebbe una “collana tennis di brillanti di particolare valore commerciale, a un prezzo pressoché simbolico“. 

Una nota ufficiale della procura di Potenza rende noto che il Gip, “in relazione ad ulteriori episodi di corruzione in atti giudiziari e tentata concussione contestati da questo ufficio, ha motivatamente ritenuto, per ragioni di carattere giuridico o probatorio, di non condìvidere l’impostazione accusatoria. Tale decisione viene doverosamente rispettata ed è dimostrativa, ancora una volta, della terzietà del giudice. Per tali aspetti, tuttavia la stessa sta per essere impugnata da parte di questo Ufficio e, quindi, sarà oggetto di appello innanzi al Tribunale del Riesame di Potenza“ 

Per dovere di cronaca segnaliamo che il Csm aveva avviato un procedimento poi incredibilmente “archiviato” per incompatibilità ambientale, che ha costretto il giudice Errede a trasferirsi da Lecce a Bologna. Ma non solo. Recente la 5a commissione ( incarichi semidirettivi del Csm) aveva proposto la presidenza del Tribunale di Lecce per il giudice della sezione Commerciale e Fallimentare Alessandro Silvestrini, con 4 voti al plenum, 2 voti sono andati al reggente, Roberto Tanisi), mentre la procura di Potenza ha chiesto i domiciliari per il giudice Silvestrini che risponde di un episodio di “corruzione in atti giudiziari” in concorso con il commercialista Massimo Bellantone. Secondo le ipotesi accusatorie del procuratore della Repubblica Francesco Curcio, Bellantone avrebbe accettato di sponsorizzare politicamente la nomina di Silvestrini alla presidenza, attraverso i membri laici del Csm in cambio di una “preminenza” negli incarichi e nelle consulenze ottenute dal Tribunale di Lecce.

Secondo l’impianto accusatorio della Procura di Potenza Bellantone avrebbe quindi chiesto, al segretario regionale pugliese della Lega, il Sen. Roberto Marti, di impegnarsi su tale fronte, e si sarebbe impegnato a contattare direttamente il leader della Lega Matteo Salvini (che ha indicato il nuovo vicepresidente Pinelli, così come ìnvece contava su Rocco Casalino per il M5s.

“Sto andando con Roberto (senatore Roberto Marti n.d.r.) questa sera mi vedo con Paganella (senatore Andrea Paganella, capo della segreteria politica di Matteo Salvini n.d.r.) , che mi deve organizzare l’incontro per domani direttamente con Salvini” dice Bellantone in una conversazione intercettata. Il giudice Silvestrini risponde: “Quindi mi chiamate e io vengo“. Aggiungendo: “Si io prendo la macchina e fino alle due arrivo, al limite». Oltre che per Silvestrini i domiciliari erano stati richiesti anche per Giuseppe Evangelista e Antonio Casilli. La procura aveva chiesto il carcere per il giudice Pietro Errede, per il suo compagno, l’avvocato Alberto Russi, e per Massimo Bellantone. 

Secondo le indagini condotte dalla Guardia di Finanza di Lecce, il giudice Silvestrini, presidente della sezione Fallimentare il cui nome era già emerso lo scorso anno in occasione di una perquisizione, a seguito della quale si era dichiarato estraneo agli addebiti avrebbe affidato numerosi incarichi al commercialista Massimo Bellantone (finito ai domiciliari per altri due episodi) in cambio dell’interessamento di quest’ultimo per “una attività di sponsorizzazione” politica, proprio ai fini della nomina a presidente del Tribunale. Un’attività che avrebbe coinvolto i vertici locali e nazionali della Lega ma di cui, però, non c’è alcun riscontro. Inoltre Bellantone, sempre secondo le indagini della procura di Potenza avrebbe anche chiesto all’imprenditore Giancarlo Mazzotta, esponente di Forza Italia, ex sindaco di Carmiano, di “avvicinare” altri politici, sempre per lo stesso scopo. 

Il Gip Pignata ha rigettato la richiesta per il suo collega Silvestrini. Garantismo ? Colleganza ? Impianto accusatorio debole ? Lo deciderà per il momento il Tribunale del Riesame di Potenza a cui la Procura di Potenza ha annunciato ricorso. Redazione CdG 1947

 Estratto dell’articolo di F. Ame. per “la Verità” il 30 maggio 2023.

Gli incarichi agli avvocati della sua corte venivano ricambiati con regalini, vacanze e feste esclusive. Per «l’uso strumentale dell’attività giudiziaria», il magistrato pugliese Pietro Errede, fino a poco tempo fa in servizio al Tribunale di Lecce e ora a Bologna, un avvocato e tre commercialisti sono finiti agli arresti domiciliari. 

Un esposto anonimo arrivato in Procura a Potenza, competente a indagare sui magistrati di Lecce, aveva acceso un faro su un presunto giro di incarichi pilotati al Tribunale fallimentare leccese. Il capo della Procura potentina Francesco Curcio ha subito puntato su una ipotizzata interferenza per un’asta giudiziaria. Ed è emerso il sospetto che dietro ci fosse un mercimonio.

Il settore, quello dei fallimenti e delle misure di prevenzione, è molto delicato. E gli investigatori della Guardia di finanza delegati dalla Procura di Potenza a ficcare il naso in quello che si è scoperto essere un suk si sono mossi con una certa accortezza. 

Finché non hanno scoperto che due soci di un’azienda finita in amministrazione giudiziaria sarebbero stati costretti a versare denaro per tentare di schivare le azioni giudiziarie. A quel punto hanno cominciato a convocare i testimoni e il coperchio è subito saltato dalla pentolaccia. 

[…] Il perno attorno al quale tutto sarebbe ruotato, stando all’accusa, è proprio Errede, in passato pm nel caso del rapimento e omicidio del piccolo Tommaso Onofri e moralista nella vicenda delle nomine al Csm che coinvolse Luca Palamara.

Beccato a pronunciare queste parole con il dipendente di una concessionaria di automobili della quale stava curando una procedura di controllo giudiziario e dove aveva comprato una Mini Cooper: «Io non devo correre dietro a nessuno, che non ti dimenticare quello che sono e quello che rappresento a Lecce, cioè voglio dire, non ci dobbiamo stare a prendere in giro, se devo usare il potere lo uso, male ma lo devo usare con voi, che devo fare?». 

L’avvertimento, secondo quanto ha ricostruito la Procura, era legato alla pretesa di restituire la Mini Cooper dopo un anno di utilizzo «alla medesima cifra, paventando presunti difetti alla centralina». 

Il «potere» al quale faceva riferimento d’altra parte, hanno ricostruito i finanzieri, poteva esercitarlo come preferiva. Anche tramite le nomine di persone di sua fiducia scelti come coadiutori nelle procedure. Gli indagati sono 10. E tra questi, proprio per delle pressioni sugli amministratori giudiziari dei controlli per favorire la nomina di Antonio Casilli, è finito nei guai Alberto Russi («quest’ultimo convivente del giudice», annota il gip).

In altri casi sceglieva lui direttamente i curatori dei fallimenti. E agli incarichi corrispondevano, secondo l’accusa, dei regalini. Marcello Paglialunga, per esempio, diventa curatore fallimentare in una decina di procedure. Da lui, ha scoperto la Guardia di finanza, avrebbe ricevuto un Ipad 4 poi sostituto con un Iphone 13, una collana tennis di brillanti da 12.000 euro e un incarico legale per Russi con immediato versamento di un anticipo da 2.450 euro. 

Una vicenda simile a quella che vede coinvolto Emanuele Liaci, nominato in una ventina di procedure di vendita. Il «prezzo del mercimonio della funzione giudiziaria pagato a Errede da Liaci», annota il gip, sarebbe stata «l’organizzazione e il pagamento di una crociera in Grecia» con tanto di «noleggio di una imbarcazione a vela» per Errede e i suoi cinque ospiti (tra i quali il compagno del giudice e la sorella Maria Grazia). Costo: 3.000 euro. […]

Altro incarico, altri regali. Questa volta le vittime sono note, perché finite nella storia dell’affare delle armi che Massimo D’Alema avrebbe tentato di mediare con il governo della Colombia: Paride e Giancarlo Mazzotta (il primo consigliere regionale in Puglia, il secondo ex sindaco di Carmiano). 

Ai due, che avevano grane con la società di famiglia Pgh Barone di Mare, il commercialista Massimo Bellantone avrebbe fatto sapere che «per non incorrere in provvedimenti giudiziari più incisivi, bisognava sottostare alle richieste economiche della coppia Errede-Russi, bisognava individuare un commerciante di fiducia che avrebbe dovuto fornire al giudice un raro Rolex Daytona. 

[…]

Regalo dopo regalo, il pm di Potenza ha cominciato a costruire i capi d’imputazione (ben 12), con le accuse di concussione, corruzione in atti giudiziari, turbata libertà degli incanti ed estorsione. Il gip di Potenza ha anche ordinato sequestri preventivi «nella forma diretta o per equivalente» a carico degli indagati, pari al «profitto illecito conseguito». Che nel caso di Errede corrisponde a 12.000 euro, più tutte le regalie.

Il caso Errede a Lecce: giustizia, brillanti e Rolex. Una collana da 7.100 euro come regalo di compleanno. LINDA CAPPELLO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Giugno 2023

Come tutti i magistrati di lungo corso, anche il giudice Pietro Errede gode di un’ampia disponibilità economica. Ma nonostante le somme di tutto rispetto possedute sul conto corrente, il magistrato - ai domiciliari dal 29 maggio scorso con l’accusa di corruzione in atti giudiziari e sospeso dal Csm - si è ben guardato dal rimborsare i 7.100 euro spesi dal suo amico, il commercialista Marcello Paglialunga - pure lui agli arresti - per la collana di brillanti che l’allora giudice della sezione commerciale del Tribunale di Lecce aveva intenzione di regalarsi per il suo 55esimo compleanno.

Nelle nuove carte dell’inchiesta, i militari della Guardia di Finanza ricostruiscono con dovizie di particolari l’episodio della collana, individuata come «merce di scambio» poiché lo stesso Paglialunga - presidente del Cda della «Esposito Group Oro e Metalli Preziosi Spa», poi fallita e ora divenuta EGM Spa - aveva nominato come legale di fiducia della società l’avvocato Alberto Russi, convivente di Errede, pure lui ai domiciliari. Una scelta fatta, secondo gli inquirenti, non su criteri meritocratici ma in base a logiche di «convenienza». E che rientra nella fitta rete di trame basate su scambi di favori fra il magistrato e la sua cerchia di professionisti nominati nelle diverse procedure, così come sostenuto dalla procura di Potenza.

Il gioiello, sequestrato la scorsa estate dai baschi verdi, era stato prodotto dal noto designer Giorgio Visconti, e sulla scorta di una perizia il suo valore commerciale era di circa 12mila euro. Un girogola lungo 50 centimetri con pietre - viene riportato nel certificato di garanzia - di ben 2,78 carati.

In una intercettazione, Errede e Paglialunga parlano proprio della tipologia di collana da acquistare:

Pietro: «…Senti no ti volevo dire queste cose vanno anche sapute portare…indossare secondo me, perché per esempio ci sono dei mazzaroni che te li vedi con queste cose»;

Marcello: «no, vabbè, che c’entra, mica puoi paragonarti a quelli…dai…»;

P: «no, dai, io voglio dire cioè…io per esempio…quando mi metto qualcosa lo vedi no?»;

M. «ma ci mancherebbe»;

P: «cioè è anche con nonchalance le metti con nonchalance i tennis, gli orologi, le cose no? Queste sono veramente cose belle…»;

M: « (…) alcune gioiellerie, quindi diciamo il grossista, quello importante…allora mi ha detto, guarda questo…è inutile che vai su quelli grossi»;

P: «no no»;

M: «è quello che è più raffinato e quello che va di più, fra l’altro»;

P: «no ma infatti io non li volevo…»;

M: «tra l’altro è anche di una marca importante»;

P: «no…io non li voglio quelli grossi…(…) sono pacchiani»;

M: «no no questo dice: “guarda è quello più di classe”»;

P: «cioè quello che si vede e non si vede, cioè che tu lo metti intorno al collo…è un filo e si vede»;

M: « guarda a te sta perfetto. Io ho detto però portamelo, cioè fammelo avere…»;

P: «senti però secondo me per come sei tu…»;

M: «così lo provi»;

P: «sì ovvio. Per come sei tu Marci io veramente una cosa del genere la vedrei anche su di te, perché anche tu sei disinvolto».

Gioielli e orologi sembrano essere la vera passione del magistrato originario di Monopoli. Tant’è che l’inchiesta racconta di un orologio Rolex Daytona, acquistato per Errede dall’ex sindaco di Carmiano Giancarlo Mazzotta, proprietario del complesso turistico Barone di Mare, colpito da interdittiva antimafia la cui procedura era affidata proprio al giudice. Nella sua lunga deposizione davanti al procuratore capo Francesco Curcio, Mazzotta svela anche altri retroscena. Come quello secondo cui un funzionario della Prefettura - che si era occupato dell’interdittiva - gli avrebbe consegnato il curriculum di una sua parente per farla assumere alla Bcc Terra D’Otranto, chiedendogli di intercedere presso il presidente. Richiesta alla quale però non fu dato seguito.

Ieri a Potenza erano fissati gli interrogatori per l’avvocato leccese Antonio Casilli e per il giudice del Tribunale Fallimentare di Lecce Alessandro Silvestrini, per i quali la procura aveva chiesto gli arresti domiciliari, non concessi dal gip. Il primo si è avvalso della facoltà di non rispondere, il secondo ha posticipato l’interrogatorio a venerdì.

Lecce, inchiesta sul Tribunale Fallimentare: anche un magistrato ai domiciliari. Arrestato Pietro Errede, giudice di Monopoli, trasferito dal Csm a Bologna. Il gip di Potenza: «Uso strumentale dell’attività giudiziaria per procacciare utilità personali». Dieci gli indagati, c’è un altro magistrato. REDAZIONE ONLINE il 29 Maggio 2023 su La Gazzetta del Mezzogiorno.

Tentata concussione, corruzione e turbativa d’asta in relazione alle attività della sezione Commerciale del Tribunale di Lecce sono le accuse contestate a vario titolo a dieci persone in una inchiesta della Procura di Potenza che stamattina ha portato all’esecuzione di cinque misure cautelari ai domiciliari.

Tra le persone arrestate c’è il giudice Pietro Errede, originario di Monopoli, recentemente trasferito al Tribunale di Bologna, oltre che un avvocato e tre commercialisti.

Tra gli indagati a piede libero dalla Procura di Potenza vi sarebbero un altro magistrato in servizio nel Tribunale di Lecce, e due avvocati, uno del Foro di Lecce e uno di Roma. Le accuse contestate a vario titolo nel provvedimento cautelare emesso dal gip del Tribunale di Potenza sono dunque di concussione, corruzione in atti giudiziari, turbata libertà degli incanti ed estorsione.

In relazione al magistrato Pietro Errede, il «quadro indiziario» descritto dal gip di Potenza parla di «un uso strumentale dell’attività giudiziaria utilizzata per procacciare utilità personali non solo al magistrato (vacanze, preziosi, device, feste) ma anche ai professionisti che ruotavano intorno a lui, che beneficiavano degli incarichi dati dal magistrato e che per questo lo ricambiavano». Il gip di Potenza, dunque, ha ordinato l’arresto ai domiciliari - eseguito dalla Guardia di Finanza - del magistrato Pietro Errede, attualmente presso il tribunale di Bologna ma all’epoca dei fatti giudice delle sezioni fallimentare-esecuzioni immobiliari nonché misure di prevenzione del tribunale di Lecce. Oltre a Errede, agli arresti domiciliari sono stati posti anche tre commercialisti e un avvocato: Massimo Bellantone, Alberto Russi, Marcello Paglialunga ed Emanuele Liaci.

Le indagini, cominciate nel settembre del 2021, si sono basate sull'ascolto di testimoni e parti offese, intercettazioni telefoniche e ambientali, sequestro di documenti e approfondimenti su tabulati telefonici, messaggi e atti giudiziari. I reati ipotizzati sono: tentata concussione, tentata estorsione, estorsione consumata e più ipotesi di corruzione in atti giudiziari.

In un aspetto dell’inchiesta, due degli arrestati avrebbero costretto privati le cui aziende erano in amministrazione giudiziaria a dare denaro poi non versato a Errede. Si era avviato - secondo i risultati delle indagini della procura della Repubblica di Potenza - «un meccanismo di reciproco scambio, fondato, da una parte, sull'assegnazione degli incarichi maggiormente remunerativi da parte del giudice a vari professionisti e, dall’altra, sull'ottenimento da parte del giudice di regalie e altre utilità».

Il gip di Potenza ha ordinato anche sequestri preventivi «nella forma diretta o per equivalente» a carico degli indagati pari al «profitto illecito conseguito». Su altri episodi di corruzione, il gip non ha concordato sull'impostazione accusatoria della Procura, che ha deciso di ricorrere al tribunale del riesame di Potenza.

Indagato anche il giudice Silvestrini, in corsa per la presidenza del Tribunale di Lecce. L'accusa: "Incarichi in cambio di sponsorizzazioni politiche". Ma il gip dice no all'arresto. MASSIMILIANO SCAGLIARINI il 29 Maggio 2023 su La Gazzetta del Mezzogiorno.

Era in corsa per la presidenza del Tribunale di Lecce il giudice Alessandro Silvestrini, per il quale la Procura di Potenza aveva chiesto l’arresto ai domiciliari con l’accusa di corruzione in atti giudiziari. Ma il gup Salvatore Pignata ha detto «no» alla misura cautelare, un diniego contro cui l’accusa ha già annunciato ricorso al Tribunale del Riesame.

Secondo le indagini condotte dalla Finanza di Lecce, Silvestrini, presidente della sezione Fallimentare (il cui nome era già emerso lo scorso anno in occasione di una perquisizione, quando l’uomo si era dichiarato estraneo agli addebiti) avrebbe affidato numerosi incarichi al commercialista Massimo Bellantone (finito ai domiciliari per altri due episodi) in cambio dell’interessamento di quest’ultimo per «una attività di sponsorizzazione» politica, proprio ai fini della nomina a presidente del Tribunale. Un’attività che avrebbe coinvolto i vertici locali e nazionali della Lega ma di cui, però, non c’è alcun riscontro.

Le indagini hanno acccertato che nel maggio 2022, poche settimane dopo il voto in Quinta commissione del Csm in cui Silvestrini aveva preso tre voti contro i due del collega Tanisi, Bellantone parlava con il giudice delle sue strategie per sensibilizzare i vertici della Lega: «Bellantone, evidentemente parlando sul solco di precedenti intese – secondo il gip -, entrava direttamente nel vivo della questione specificando di avere già in serata un appuntamento (evidentemente a Roma) per parlare con il capo della segreteria di Salvini onde sensibilizzarlo sulla questione “Silvestrini" per poi cercare di fissare la mattina seguente un incontro con l’onorevole Salvini Matteo in persona, mentre evocava il canale “Casalino” da contattare attraverso Simone Acquaviva». Le indagini hanno evidenziato che il giorno successivo a questa conversazione Bellantone è effettivamente stato a Roma, ma non ci sono conferme sul fatto che abbia effettivamente raggiunto gli interlocutori nominati: né Salvini né Rocco Casalino, all’epoca stretto collaboratore dell’ex premier Giuseppe Conte. «Da evidenziare - scrive infatti il Gip - come dai tabulati del traffico telefonico non risultino contatti fra il Bellantone ed i politici indicati nelle conversazioni».

Tuttavia agli atti delle indagini c’è la testimonianza di Giancarlo Mazzotta, ex sindaco di Carmiano, che nella sua veste di imprenditore sarebbe stato in qualche modo costretto a nominare Bellantone, oltre che a pagare per un Rolex asseritamente richiesto dal giudice Errede. «Lo stesso Bellantone – dice Mazzotta - mi chiese di sollecitare i miei amici di Forza Italia per sostenere al Csm il Silvestrini in corsa per la presidenza del Tribunale di Lecce. Ciò avvenne nel corso o dopo la vicenda Rolex quindi nella tarda primavera o all’inizio dell’estate del 2022 . Io per non indispettirlo dissi che “avrei visto”. Ma ovviamente non feci nulla. Ricordo che Bellantone era molto bene informato in quanto mi disse che avrei dovuto attivarmi per fare giungere questa sollecitazione all’avvocato Cerabona e Lanzi del Csm eletti su proposta di Forza Italia».

A marzo 2023 la difesa di Silvestrini ha depositato una memoria per respingere tutte le accuse. Ma comunque il gip ha rilevato che gli incarichi concessi da Silvestrini a Bellantone (dal 2014 al 2019) fossero molto precedenti alla presunta promessa di aiuto con la nomina, e ha dunque ritenuto che «non emergono dagli atti di indagine elementi specifici per ritenere sussistente la prova del prospettato collegamento sinallagmatico diretto tra le condotte del citato magistrato e la “disponibilità” del citato professionista a promettere la descritta sponsorizzazione in favore del giudice stesso».

LA REPLICA DEL GIUDICE SILVESTRINI

Non tarda ad arrivare la replica del giudice Silvestrini che commenta così la vicenda: «Nulla so di questa asserita attività di “sponsorizzazione”; quel che posso dire è che il precedente CSM (che ha cessato di operare nel febbraio di quest’anno) non ha potuto mai deliberare sulla mia eventuale nomina a presidente di tribunale, perché a causa delle indagini della Procura di Potenza ha dovuto soprassedere a qualsiasi decisione; posso anche affermare con certezza che il professionista - che si sarebbe attivato a mio favore - negli ultimi quattro anni non ha ricevuto alcun incarico e comunque il fatto che io goda della stima dei professionisti del posto non ha alcun rilievo penale». 

«Sono certo che il procuratore della Repubblica - ha aggiunto Silvestrini in una nota - quando mi avrà finalmente ascoltato, si convincerà che non vi è alcun motivo di continuare ad indagare; sono pure certo che, a dispetto delle illazioni di molti, non vi è alcun collegamento fra tali indagini e la procedura di assegnazione del posto di presidente del tribunale. E che, per una mera coincidenza, il mio interrogatorio è stato fissato a pochi giorni dalla deliberazione con la quale la quinta commissione del CSM ha proposto a maggioranza la mia nomina a presidente del Tribunale».

Inchiesta sui favori in Tribunale a Lecce, sentito anche l’ex premier Conte. La Procura di Potenza indaga sulle sponsorizzazioni a Silvestrini: tra i testimoni anche i politici. LINDA CAPPELLO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Giugno 2023

Il giudice Pietro Errede rinuncia al riesame. Il magistrato leccese, ai domiciliari dal 29 maggio scorso con l’accusa di corruzione in atti giudiziari, ha scelto di non chiedere ai giudici del Tribunale di Potenza di revocare la misura alla quale è sottoposto. Una scelta, annunciata a sorpresa ieri in udienza dagli avvocati Michele Laforgia e Donatello Cimadomo, probabilmente frutto di una strategia difensiva ben precisa.

Un’udienza fiume, quella di ieri, nel corso della quale il procuratore capo Francesco Curcio ed il sostituto Vincenzo Montemurro hanno discusso l’appello per le misure cautelari non concesse dal gip. In particolare, pare che i magistrati si siano soffermati a lungo sulla posizione di Alessandro Silvestrini, presidente della sezione fallimentare Tribunale fallimentare di Lecce, anche lui indagato per corruzione in atti giudiziari e per il quale la procura aveva chiesto i domiciliari. Secondo l’accusa, avrebbe chiesto al commercialista Giuseppe Bellantone - beneficiario di incarichi nelle procedure fallimentari - di sponsorizzare a livello politico la sua nomina a presidente del Tribunale. E per consolidare ancora di più questa tesi sono stati depositati i verbali di alcuni personaggi politici a cui sarebbe stata chiesta la raccomandazione: il senatore della Lega Roberto Marti, il leader del M5S Giuseppe Conte, Rocco Casalino, Mario Turco del M5S, e il senatore della Lega Andrea Paganella. Silvestrini, presente ieri in aula, ha rilasciato spontanee dichiarazioni.

In sintesi ha negato fermamente che gli incarichi a Bellantone - pure lui ai domiciliari - potessero essere considerati merce di scambio. Tanto perché l’ultimo incarico gli era stato affidato nel 2014. E per questo ha prodotto una copiosa mole di documenti. Poi sono iniziate le discussioni per le richieste di scarcerazione di coloro che si trovano ai domiciliari: oltre a Bellantone ed Errede ci sono Alberto Russi, compagno del magistrato, e i commercialisti Emanuele Liaci e Marcello Paglialunga. La decisone sarà depositata nelle prossime ore.

La deposizione dell’ex premier alla Gdf sulle manovre del magistrato salentino. LINDA CAPPELLO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Giugno 2023

«Ho incontrato personalmente il giudice Silvestrini ma non mi sono mai attivato in suo favore».

È quanto l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha dichiarato ai militari della Guardia di Finanza che stanno indagando sul presidente della sezione fallimentare del Tribunale di Lecce, accusato di corruzione in atti giudiziari: secondo le contestazioni, Alessandro Silvestrini avrebbe chiesto al commercialista Massimo Bellantone di contattare alcuni politici locali per sponsorizzare la sua candidatura come presidente del Tribunale presso i membri laici del Csm.

Conte, nei verbali depositati martedì al Riesame dal procuratore capo di Potenza Francesco Curcio, ha ammesso di aver incontrato il magistrato il 9 giugno 2022 all’hotel Ermitage di Galatina, senza però fornire ulteriori dettagli, aggiungendo di non ricordare l’oggetto della conversazione. Quest’incontro era avvenuto grazie all’intervento del senatore Mario Turco, che aveva il compito di “filtrare” gli appuntamenti di Conte con i personaggi locali. «È stato un incontro rapido e non significativo», ha aggiunto, specificando di non ricordare non solo il nome del suo interlocutore ma neanche l’argomento affrontato. «Qualsiasi cosa mi abbia chiesto - ha concluso - non ne ho dato alcun seguito».

Più circostanziata, invece, la deposizione del senatore della Lega Roberto Marti, che offre una lettura della vicenda ben diversa da quella della procura. Silvestrini lo aveva sì contattato, ma non per essere raccomandato, bensì per sollecitare il Csm a prendere una decisione visto che la pratica per la nomina di presidente del Tribunale sembrava essersi arenata. «Silvestrini - spiega Marti - aspirava ad un colloquio a livello istituzionale elevato in modo da poter sbloccare la pratica che a suo dire si era impantanata al Csm. (...) vi era un intoppo, mi sembra al plenum, probabilmente dovuto se ben ricordo ad una serie di ricorsi che pendevano».

La vicenda si inserisce nell’inchiesta che ruota attorno al giudice leccese Pietro Errede, ai domiciliari dal 29 maggio scorso con l’accusa di aver elargito incarichi professionali nelle procedure fallimentari in cambio di regalie. Agli arresti anche il compagno del magistrato, l’avvocato Alberto Russi, e i commercialisti Massimo Bellantone, Marcello Paglialunga ed Emanuele Liaci.

La procura ha impugnato la decisione del gip che non ha concesso i domiciliari a Silvestrini ed all’avvocato Antonio Casilli: inoltre, per Errede, Russi e Bellantone la pubblica accusa aveva chiesto il carcere.

Durante l’udienza del riesame di martedì, i pubblici ministeri hanno depositato una nuova annotazione della Guardia di Finanza, datata 19 giugno.

Gli atti di indagine riguardano una conversazione fra un commercialista leccese ed una funzionaria della sezione commerciale del Tribunale, ascoltata casualmente da un finanziere il 15 giugno scorso. I due commentano l’arresto di Errede e degli altri personaggi coinvolti, ma il professionista racconta un episodio inedito. A suo dire, sarebbe stato avvicinato dall’avvocato Russi, il quale gli avrebbe proposto di fargli ottenere incarichi giudiziari da parte di Errede a condizione del ritorno del 50 per cento della somma percepita a titolo di compenso. Tanto perché il magistrato avrebbe liquidato il relativo compenso in forma maggiorata, al fine di compensare gli oneri fiscali rimasti a carico del professionista incaricato. Ma non è tutto. Aggiunge anche di aver saputo da un elettricista di Galatina che Russi gli aveva commissionato un lavoro, ma alla fine si sarebbe rifiutato di pagare, affermando di non temere un’eventuale azione legale perché il tecnico non avrebbe trovato né un legale né un giudice disponibile a tutelare i suoi interessi.

Convocato dai finanzieri, però, il commercialista conferma parzialmente il contenuto della conversazione. Nello specifico, dice di non ricordare di aver fatto riferimento alla figura di Russi come intermediario per eventuali incarichi. «Ho commentato che i fatti descritti sui giornali potevano essere veri – ha dichiarato – perché in base alle voci che circolavano in ambiente giudiziario, e non solo, si sarebbero potuti ottenere incarichi giudiziari dal dottor Errede se si era disposti a retrocedere il 50 per cento del relativo compenso».

Per quanto riguarda l’episodio dell’elettricista, il professionista ribadisce di aver saputo l’episodio ma aggiunge di non ricordare chi gliel’abbia raccontato e tantomeno di sapere chi sia l’elettricista.

Affermazioni che però stridono con quanto detto dalla funzionaria del Tribunale, che sentita a sommarie informazioni precisa: «non ho dubbi che il racconto che mi ha fatto era riferito ad una sua esperienza personale avvenuta con l’avvocato Russi».

Arrestato dalle Fiamme Gialle curatore fallimentare del Tribunale di Taranto. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 6 Maggio 2023

Dalle indagini è emerso che lo Stanisci, in un arco temporale di circa 10 anni, dal 2012 al 2021, ha effettuato centinaia di prelievi bancari illeciti, emettendo assegni circolari in suo favore apparentemente giustificati dalla falsa copia dei relativi mandati di pagamento, in realtà mai depositati agli atti della procedura e recanti la firma falsificata dei giudici delegati.

Dopo una complessa attività investigativa i Finanzieri del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Taranto hanno dato esecuzione alla misura cautelare personale degli arresti domiciliari – emessa dal G.I.P. Francesco Maccagnano presso il Tribunale di Taranto su richiesta del pm Francesco Sansobrino della Procura di Taranto – nei confronti del commercialista Luca Stanisci, tarantino 61enne, gravemente indiziato dei delitti di peculato e falsità materiale commessa da P.U. aggravata e continuata, commessi in qualità di curatore fallimentare ovvero commissario liquidatore nominato dal Tribunale di Taranto nell’ambito di quattro procedure concorsuali.

il commercialista Luca Stanisci

Le investigazioni sono partite a seguito delle denunce presentate dai nuovi curatori fallimentari nominati dal Tribunale di Taranto –Sez. Civile in sostituzione del commercialista Stanisci – e condotte dalle Fiamme Gialle tarantine, hanno consentito di acquisire elementi di prova da cui desumere – allo stato – la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza nei confronti dell’indagato, che – rivestendo la qualità di Pubblico Ufficiale, come professionista incaricato dal Giudice delegato (ex art. 30 L.F.) nell’ambito di quattro procedure fallimentari, ed avendo in virtù di tale qualifica la disponibilità di somme di denaro vincolate e giacenti sui conti correnti intestati alle medesime procedure – si appropriava di importi fino ad un totale di circa 750 mila euro.

Gli investigatori del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Taranto, in particolare, dopo aver ascoltato a sommarie informazioni delle persone informate sui fatti hanno eseguito delle acquisizioni documentali e indagini finanziarie, a seguito delle quali è stato possibile ricostruire accuratamente le operazioni bancarie dello Stanisci, confrontando gli estratti conti con i provvedimenti giudiziari effettivamente depositati e risultanti dagli atti delle procedure. 

Da tali approfondimenti investigativi emergeva che lo Stanisci, in un arco temporale di circa 10 anni, dal 2012 al 2021, ha effettuato centinaia di prelievi bancari illeciti, emettendo assegni circolari in suo favore apparentemente giustificati dalla falsa copia dei relativi mandati di pagamento, in realtà mai depositati agli atti della procedura e recanti la firma falsificata dei giudici delegati.

Contestualmente alla misura cautelare personale il G.I.P. Francesco Maccagnano ha emesso anche un decreto di sequestro preventivo, diretto e per equivalente, di somme di denaro nonché immobili e disponibilità finanziarie fino alla concorrenza dell’importo di circa euro 750 mila, pari al provento dei reati finora accertati. Il commercialista Stanisci, difeso dall’avvocato Luca Balistreri, comparirà nei prossimi giorni dinanzi al gip per l’interrogatorio di garanzia.

L’operazione costituisce un’ulteriore testimonianza del costante lavoro svolto dal Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Taranto finalizzato al contrasto dei reati contro la Fede Pubblica e la Pubblica Amministrazione, a garanzia della regolarità delle procedure concorsuali e delle istanze del ceto creditorio. Redazione CdG 1947

Peculato e falso, arrestato curatore fallimentare a Taranto. Le indagini sono state avviate a seguito di denuncia dei nuovi curatori fallimentari nominati in sostituzione del commercialista. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 5 Maggio 2023

Un commercialista 50enne di Taranto, Luca Stanisci, è stato arrestato e posto ai domiciliari dalla Guardia di finanza con le accuse di peculato e falsità materiale commessa da pubblico ufficiale aggravata e continuata. Reati commessi in qualità di curatore fallimentare e commissario liquidatore nominato dal Tribunale di Taranto. Al professionista è stata notificata una ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari emessa dal gip del Tribunale ionico, Francesco Maccagnano, al termine si un'indagine coordinata dal pm Francesco Sansobrino.

Le indagini sono state avviate a seguito di denuncia dei nuovi curatori fallimentari nominati in sostituzione del commercialista. L’indagato, rivestendo la qualità di Pubblico Ufficiale, come professionista incaricato dal giudice delegato nell’ambito di quattro procedure fallimentari, ed avendo in virtù di tale qualifica la disponibilità di somme di denaro vincolate e giacenti sui conti correnti intestati alle medesime procedure, si sarebbe appropriato di importi fino a un totale di circa 750mila euro. In un arco temporale di circa 10 anni, dal 2012 al 2021, avrebbe effettuato centinaia di prelievi bancari illeciti ed emesso assegni circolari in suo favore apparentemente giustificati dalla falsa copia dei relativi mandati di pagamento, in realtà mai depositati agli atti della procedura e recanti la sottoscrizione apocrifa dei giudici delegati.

Contestualmente alla misura cautelare personale. il Gip ha emesso anche un decreto di sequestro preventivo, diretto e per equivalente, di somme di denaro nonché immobili e disponibilità finanziarie fino alla concorrenza dell’importo di 750 mila euro, pari al provento dei reati ipotizzati.

Estratto dell'articolo di Andrea Ossino e Clemente Pistilli per “la Repubblica - Edizione Roma” il 24 aprile 2023.

Avrebbero chiamato «cagnotte» le millantate tangenti che avrebbero dato ai vigili del fuoco per ottenere il via libera su un immobile a Fregene. E avrebbero offerto all’imprenditore che tenevano sulle spine, gestendo le sue aziende sequestrate, affari illegali. La faccenda però si è rivelata un boomerang, che ha alzato il sipario sul business opaco creato da un magistrato e dai suoi collaboratori. 

È trascorso appena un anno da quando l’imprenditore Fabrizio Coscione ha depositato la denuncia da cui è nata l’indagine che ha svelato il sistema dietro al quale la giudice di Latina, Giorgia Castriota, adesso in carcere, affidava l’amministrazione dei beni sequestrati all’amante Silvano Ferraro, anche lui arrestato, e ai collaboratori Stefania Vitto, ai domiciliari, e Stefano Evangelista, indagato a piede libero.

Tutto è iniziato l’ 8 aprile del 2022, con una querela in cui Coscione dice che sotto il suo naso si consumano quattro reati: abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata e traffico di influenze. 

[...] dice di aver registrato alcune conversazioni, trasformandosi in un detective, «perché ha cominciato a nutrire timori e dubbi circa la liceità dell’intera situazione e la buona fede dei professionisti che direttamente o indirettamente sono stati coinvolti nella procedura di sequestro della Isp logistica e della Isp servizi», le sue due aziende. Quelle affidate a Stefano Evangelista, con coadiutore Ferraro. 

Le altre persone chiamate in causa nella denuncia, il cui nome compare in maniera ricorrente anche nell’ordinanza di custodia cautelare ai danni del gip Castriota, sono Stefano Schifone, legale rappresentante pro tempore delle società di Coscione, e Alessandro Bartoli, titolare della Abeco Service, con cui gli amministratori giudiziari della Isp logistica hanno stipulato un contratto di consulenza. 

[...]

L’indagato dunque si trova davanti a pubblici funzionari o loro collaboratori che gli avrebbero chiesto di partecipare ad affari opachi. Versa 70mila euro per un progetto mai realizzato, sempre secondo la denuncia, e registra conversazioni dove si parla di millantate tangenti, di una «promessa di ‘na cagnotta ai vigili del fuoco». 

Quando Coscione spiega che lui tangenti non ne vuole pagare, Bartoli risponde: «Devi cambiare sistema. Devi far lavorare la gente giusta in maniera tranquilla». Di più: «Nun cascà dal pero, nun fare la mammola». [...]

Gli “ordini” della gip ai pm: «Quando io scrivo una cosa deve essere obbedita...». La “fratellanza” tra magistrati inquirenti e giudicanti nelle carte del caso Castriota: gli accordi preventivi alla ricerca di un accordo, in barba alla terzietà del giudice...Giovanni Maria Jacobazzi su Il Dubbio il 24 aprile 2023

Se in Italia le carriere dei pubblici ministeri e dei giudici fossero separate, il procedimento penale che ha portato la scorsa settimana all’arresto, con l’accusa di corruzione, della gip del tribunale di Latina Giorgia Castriota ci sarebbe stato? Ovviamente è impossibile dare una risposta in quanto sono troppe le varianti in gioco.

Le circa 130 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare del giudice di Perugia Natalia Giubilei offrono però uno spaccato quanto mai eloquente dei rapporti “confidenziali”, al netto degli eventuali profili penali, che spesso intercorrono fra pm e gip e che di conseguenza influenzano le scelte processuali.

I fatti sono ormai noti: Castriota, gip presso il tribunale di Latina, avrebbe creato un sistema che permetteva di incassare delle tangenti sugli incarichi di amministratore giudiziario che assegnava. Fatta sempre salva la presunzione d’innocenza, le decine e decine di intercettazioni telefoniche che sono state riportate nell’ordinanza non possono non lasciare indifferenti. La vicenda trae origini da un procedimento a carico di un imprenditore pontino, Fabrizio Coscione, accusato di aver commesso dei reati tributari. La magistratura dispone il sequestro delle sue società, nominando un amministratore giudiziario. Le società vanno male e si arriva alla stato di pre-fallimento. L’amministratore prepara allora una relazione da inoltrare ai pm per la richiesta per bancarotta (sperando che sia stata commessa, ndr).

Castriota, che avrebbe tratto come detto utilità economiche da questa procedura, ha il timore che possa finire in altre mani, in quanto la competenza non sarebbe più del tribunale di Latina, ma di Velletri. Iniziano così una serie di interlocuzioni fra la magistrata ed il procuratore aggiunto di Latina Carlo Lasperanza, assegnatario, insieme al sostituto Andrea D'Angeli, del fascicolo. La gip sollecita Lasperanza a prendere contatti con la Guardia di Finanza per prevenire la notifica di un eventuale dissequestro, anche parziale, delle società, con conseguente loro restituzione a Coscione. Per raggiungere lo scopo preme sulla stessa procura affinché sia celere nel presentare una istanza di sequestro delle predette società di Coscione per ulteriori reati segnalati da uno dei curatori, nonché facendo portare avanti la domanda di fallimento. Il piano ha degli intoppi in quanto sorgono contrasti con D'Angeli, dal momento che il nuovo decreto di sequestro imporrebbe il vincolo anche sui consorzi che controllano le società di Coscione e quindi al di là della originaria richiesta.

«Fammi un favore tu a me e io a te, fra virgolette per la giustizia», dice Castriota a D'Angeli. E a Lasperanza: «A me per levare questo (Coscione, ndr) dal delinquere mi interessa sicuramente il sequestro preventivo di 4 milioni». Informata che D’Angeli è in disaccordo, Castriota si lascia andare ad una violenta sfuriata con Lasperanza: «Quando io scrivo una cosa deve essere obbedita, la procura non è che fa come c... gli pare». La toga inizia anche ad accusare con i colleghi il sostituto di volere fare gli interessi dell’imputato. Lasperanza, nel frattempo, chiede al procuratore di Velletri, senza avere riscontro, se l’atto di dissequestro possa essere bloccato. Un estremo tentativo è con la Guardia di Finanza, invitata a rivolgersi direttamente a lei. Tentativo non realizzabile secondo Lasperanza, in quanto non si può scavalcare la procura, perché interverrebbe il procuratore a difesa di D’Angeli.

Come se non bastasse, Castriota cerca di far aprire, informando di ciò Lasperanza, un procedimento disciplinare, nei confronti del sostituto, cercando sponda presso il procuratore generale della Capitale Filippo Salvatore Vitello, contattato tramite un ex consigliere del Csm. La condotta della magistra è dunque ben sintetizza nelle frasi della giudice di Perugia secondo cui «l’urgenza di far fallire le società con la nomina di un curatore di fiducia e quella all’emissione del nuovo provvedimento di sequestro in tempi record, prima che fosse eseguito il dissequestro parziale disposto dalla procura di Velletri, spingendosi a sequestrare anche società non oggetto della richiesta del pm, coinvolgendo il procuratore aggiunto e ingaggiando una vera contesa con il titolare del procedimento, cercando di “portare dalla sua parte” la presidente del Tribunale, sono atti emblematici del tentativo del magistrato, di mantenere, sempre in nome della giustizia ed utilizzando mezzi di per sé leciti, lo status quo di mantenere la provvista economica». Ed Inoltre, prosegue la giudice di Perugia, «impedire che l’imprenditore o altri soggetti potessero verificare il coinvolgimento dei colleghi della procura, del presidente del Tribunale e del procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma è indice di estrema spregiudicatezza».

Che bilancio trarne? È innegabile un rapporto di “fratellanza” dove ci si dà tutti del tu e dove le scelte processuali paiono essere il frutto di un lavoro “d'equipe”. Gli atti processuali, in altre parole, sono il risultato di interlocuzioni preventive dove si è alla ricerca di un accordo. La terzietà del giudice, ed è questo l'aspetto su cui riflettere, non risulta essere pervenuta. E lo stesso dicasi per l'indipendenza dei singoli magistrati e della conseguente salvaguardia dei diritti degli imputati nel processo penale, dove il pm dovrebbe esercitare l'accusa ed il gip una funzione di garanzia. Ciò che è emerge, invece, è una “commistione” che risulta essere deleteria per tutti: pm, giudici e, soprattutto, imputati. Ps: per una volta il percorso è stato inverso. Normalmente il gip sarebbe appiattito sul pm, questa volta è stato il contrario. Ma non c'è nulla di cui rallegrarsi. Anzi.

Le trame della giudice Castriota arrestata a Latina: «Questo deve fallire, va arrestato. I 1.500 euro? Mettimeli in borsa». Fulvio Fiano, Michele Marangon su Il Corriere della Sera il 23 Aprile 2023.

Latina, la gip arrestata per corruzione cercava di non perdere il controllo delle società sequestrate: «I 1500 euro? Mettimeli nella borsa» 

«Te devo dà na cosa, te la do adesso perché sennò...». «Che cos’è?... A noooo, in Tribunale no». È il 18 febbraio e la cimice piazzata nell’auto del gip Giorgia Castriota intercetta uno dei tanti incontri tra lei e Silvano Ferraro, l’uomo col quale ha una relazione e che ha messo a gestire alcune aziende sotto sequestro perché lui le giri parte (cospicua) del suo stipendio. Stavolta Ferraro ha 1.550 euro in contanti: «Mettila in borsa» (la busta) le suggerisce lei. «Te li metto nella zip», suggerisce lui. «E nun ce va, nun ce vanno».

La disinvoltura con cui la giudice commette reati in spregio del suo ruolo è pari solo alla sua bramosia costante di denaro, in nome del quale, annota l’ordinanza che l’ha portata in carcere, «sono emersi suoi ulteriori e plurimi atti contrari ai doveri di ufficio», tra omissioni e manovre «attive». È lei a nominare l’amministratore giudiziario Stefano Evangelista (indagato) a gestire le società sequestrate a Fabrizio Coscione ed è lei ad affiancargli i coadiutori per completare la triangolazione delle nomine in cambio di denaro. Da ultima, la sua amica di lunga data Stefania Vitto: «Stefà, ormai sei tu la padrona, l’ho detto anche ad Evangelista, sei tu che gestisci... Sei pronta al tuo primo bonifico ricco?», la festeggia Castriota, alludendo al suo stipendio da 10mila euro, dei quali 3mila le verranno prontamente riversati ogni mese su una postepay. Per la giudice è una svolta perché potrà affrancarsi da Ferraro («l’ingrato»), con il quale ormai c’è una insopportazione reciproca per i continui battibecchi sui soldi: «Mi sono stancata pure dell’elemosina che mi fa - si sfoga Castriota con la colf che hanno in comune - basta, basta, tanto da sto mese c’è Stefania e buonanotte vaff...».

L’indagine su Coscione e le sue società però evolve e Castriota teme di perderne il controllo. L’idea, violando ogni dovere d’ufficio, è di portarle al fallimento. Per arrivare all’obbiettivo briga con Evangelista, invitato a denunciare l’imprenditore, e cerca di persuadere i pm titolari dell’indagine ad arrestarlo, adombrando la bancarotta: «Altro che dissequestro, questo deve fallire, spero lo arrestino». I pm però non la assecondano e Castriota appreso di essere sotto indagine, si affretta a inquinare le prove: distrugge un telefono, dicendo che «l’ha mangiato il mio cane Riccardo»; prende un pc in permuta per sviare gli accertamenti sul suo personale; infine si disfà di alcuni oggetti di valore, prove della corruzione, tra cui una borsa. «Meno male che so da dove viene — confida a Ferraro di ritorno dalle terme di Viterbo — Semmai me la voglio riprendere, era dell’outlet».

L’inchiesta di Perugia sta intanto smuovendo dalle fondamenta gli uffici giudiziari di Latina. Castriota ha gestito alcuni dei più delicati e recenti fascicoli di inchiesta, a partire da quelli che hanno portato alla caduta dei comuni di Terracina e Sabaudia, e in molti si fanno domande sulla loro gestione. Anche l’ordine degli avvocati pontini esprime «preoccupazione e apprensione» per i fatti emersi, rimarcando come la vicenda riporti d’attualità «la problematica dei criteri di affidamento degli incarichi giudiziari».

Estratto dell’articolo di Valeria Di Corrado per "Il Messaggero" il 23 aprile 2023.

Per occultare le prove che avrebbero potuto incastrarla, il giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Latina Giorgia Castriota, finita tre giorni fa in carcere, sarebbe arrivata al punto di dire che il suo cane Riccardo le aveva «mangiato il telefono». «Ancora deve venire chi mi si fotte». 

Questa frase dà il metro della sfrontatezza con la quale il magistrato 45enne avrebbe approfittato del suo ruolo per nominare consulenti "amici", nell'ambito delle procedure di amministrazione giudiziaria dei beni sequestrati, facendosi ripagare con una serie di mazzette che le servivano a soddisfare quelli che lei chiamava «sfizi»: come un Rolex da 6.300 euro, un viaggio a New York da 3.200 euro con il compagno, l'abbonamento in tribuna d'onore all'Olimpico di Roma del valore di 4.300 euro, un "Dado" di Bulgari da 1.900 euro. 

E tutto questo «perché si ostina a voler vivere al di sopra delle proprie possibilità economiche», scrive la collega gip del Tribunale di Perugia, Natalia Giubilei, nell'ordinanza di arresto. 

[…] la coppia mette in atto una serie di strategie per inquinare le prove, distruggendo i contenuti nello smartphone o nel pc, disfacendosi di beni di lusso in proprio possesso, condizionando eventuali testimoni. Così pensano di dare in permuta un computer fisso per un portatile. «Vado io a Bufalotta (centro commerciale, ndr) se tu non vuoi venire», propone Castriota.

Ma Ferrero si preoccupa di essere visto: «Ce sta la videosorveglianza». La giudice, dall'alto della sua esperienza nelle indagini, lo tranquillizza: «Ma mica le tengono per 20 anni. Generalmente 3 settimane». Due giorni prima, inoltre, tiene a precisare con una conoscente che il suo cane: «Mi ha spaccato il telefono in mille pezzi. Non ho recuperato un dato, tranne quelli che avevo sulla scheda». […]

Estratto dell'articolo di Valentina Errante per "Il Messaggero" il 23 aprile 2023.

L'ultimo "regalino" è stato un Rolex da 6.300 euro. Il gip di Latina, Giorgia Castriota, lo desiderava tanto da suggerire al compagno, al quale conferiva gli incarichi, il commercialista Silvano Ferraro, arrestato insieme a lei giovedì, di farsi pagare un compenso di 500mila euro in una procedura. Ma dagli atti dell'inchiesta della procura di Perugia, che ha portato ai domiciliari anche Stefania Vitto, un'amica del magistrato incaricata ad amministrare una società per 10mila euro al mese, emerge come la gestione dell'ufficio da parte del giudice fosse solo finalizzata a ottenere soldi, ai danni delle aziende.

Perché a Castriota, come scoperto dalla Finanza di Perugia, venivano assicurati: il pagamento dell'affitto e poi le utenze, lo stipendio della colf, viaggi, vacanze e, ancora, il ripianamento di esposizioni debitorie, l'abbonamento annuale in tribuna d'onore allo stadio Olimpico da 4.300 euro.

Addirittura, il "Dado" di Bulgari, «uno sfizio». E poi 1.800 euro al mese dal compagno e 3mila dalla Vitto, con una Postepay. E il bonifico da mille euro, fatto dal commercialista al giudice per Natale: «Tanti auguri amore mio». Con Ferraro, col quale trascorre le vacanze (abitualmente pagate dall'uomo), lo scorso aprile Castriota è volata a New York. Costo 3.200 euro.

[…] Castriota avrebbe fatto di più, tentando di portare al fallimento le società, emettendo provvedimenti che annullassero i dissequestri disposti alla procura e ingaggiando una vera e propria battaglia per disporre nuovi provvedimenti per impedire che le aziende tornassero ai titolari ed emergessero le irregolarità. 

LE INTERCETTAZIONI […] Ferraro e Vitto definiscono il suo problema di «shopping compulsivo». Il 23 febbraio la giudice suggerisce all'uomo, che tra il 2018 e il 2023 dalle sole procedure finite sotto accusa ha fatturato 312mila euro: «Ti dico la verità, vorrei levarmi le rate della macchina e poi, se mi avanzava qualche soldino, me volevo comprà un Rolex di secondo polso e quindi vorrei fare questa cosa se avanza qualche cosa, magari sui 20mila euro. 

Mi estinguo la macchina e mi tolgo il pensiero, comunque è un bel pensiero, e poi un regalino mi faccio, che un Rolex mi piacerebbe tanto». Delle procedure i professionisti parlavano con un gergo chiaro: «Dammi i documenti, me la studio, se c'è ciccia, come si dice a Roma, te l'accetto». E ancora: «C'è una marea di soldi da spartirsi». 

L'INTERESSE Nell'ordinanza il giudice fa riferimento a come la coppia fosse tenuta unita solo dall'idea del profitto […] E infatti Ferraro dice a un amico: «Quella di Latina non ce la faccio più». E quello risponde: «Adesso sta bono, concludi le tue cose e dopo prendi la decisione». E alla domanda dell'interlocutore che chiede quanto tempo serva, Ferraro risponde: «Penso 6 mesi ancora», aggiungendo: «E te sto facendo fà pure bella figura (riferendosi a Castriota), perché le attività che portiamo avanti sono tutte attività proficue per il risultato che tu devi ottenere». E l'amico: «Se era un'impiegata delle Poste... l'avevi lasciata dopo 6 mesi».

[…]

Estratto dell’articolo di Michele Marangon per roma.corriere.it il 20 aprile 2023.

Corruzione ed induzione indebita a dare e promettere utilità: con queste accuse, a vario titolo sono state eseguite tre ordinanze di custodia cautelare, due in carcere ed una ai domiciliari, rispettivamente nei confronti del giudice per le indagini preliminari Giorgia Castriota, per il consulente Silvano Ferraro. Restrizione nel proprio domicilio, invece, per l’imprenditrice Stefania Vitto. Indagati a piede libero anche altri due professionisti coinvolti nelle amministrazioni giudiziarie ‘disinvolte’ orchestrate dai tre soggetti. 

[…] La genesi dell’indagine stia nella denuncia dell’amministratore di una società di logistica sequestrata per reati tributari, che lamentava condotte poco trasparenti nella gestione dei beni che gli erano stati sequestrati da parte degli amministratori giudiziari e del coadiutore, con l‘avallo del giudice. 

Le indagini sono state delegate ai finanzieri del nucleo di polizia economico finanziaria di Perugia, facendo emergere un quadro indiziario pesante verso i tre, basato sul conferimento degli incarichi da parte della Castriota a persone con cui aveva assidue frequentazioni, in particolare Ferraro e Vitto, ottenendo prebende da parte degli stessi.

L’ordinanza fa emergere «attraverso le intercettazioni telefoniche e i riscontri documentali in quadro granitico di gravità indiziaria», facendo intravvedere un chiaro accordo corruttivo e di vendita della funzione nel quale i soggetti nominati dal giudice all’interno dell’amministrazione, già legati da rapporti personali pregressi, retrocedevano al magistrato sotto forma di contributo mensile ed altre regalie, parte del denaro che lo stesso giudice liquidava loro per l’adempimento degli incarichi».

La toga avrebbe ricevuto compensi in denaro da parte dei due amici, ma anche altre utilità come gioielli, viaggi e un abbonamento annuale per lo stadio olimpico in tribuna d’onore. […]

Arrestati anche due consulenti. Terremoto al tribunale di Latina, arresta la giudice Castriota: “Corrotta con soldi, gioielli e abbonamento allo stadio Olimpico”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 20 Aprile 2023 

Il giudice per le indagini preliminari di Perugia scrive di un “chiaro quadro di accordo corruttivo e di vendita della funzione”. È quello che emergerebbe dall’indagine che ha portato all’arresto in carcere del gip di Latina Giorgia Castriota, inchiesta che ha coinvolto anche due collaboratori nell’ambito di procedure di amministrazione giudiziaria, Silvano Ferraro, anche lui finito in cella, e Stefania Vitto, ai domiciliari.

A eseguire le misure cautelari, disposte nell’ambito di un’inchiesta della Procura di Perugia, è stata questa mattina, 20 aprile, la Guardia di finanza del capoluogo umbro. Le accuse sono a vario titolo di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio, corruzione in atti giudiziari e induzione indebita a dare o promettere utilità.

Indagine nata dalla denuncia sporta dal rappresentante legale pro tempore di alcune società, tutte riconducibili allo stesso gruppo operante nel settore della logistica, sotto sequestro per reati tributari nell’ambito di un’inchiesta portata avanti proprio dalla Procura di Latina.

L’imprenditore ha evidenziato, nella sua denuncia, “condotte non trasparenti e irregolarità nella gestione dei compendi aziendali” sequestrati da parte dei consulenti con l’avanzo del gip. L’attività di indagine, portata avanti anche con intercettazioni, ha permesso di ricostruire rapporti amicali molto stretti tra il giudice e i due consulenti, un rapporto che, sottolinea la Procura di Perugia, “dovrebbe impedire, per legge di accettare o conferire incarichi di amministratore giudiziario e coadiutore, nel caso in cui il rapporto amicale con il magistrato è caratterizzato da assidua frequentazione“.

Stando alle indagini dei magistrati umbri, in cambio di incarichi, affidati anche al di fuori di criteri oggettivi, si intravede un “chiaro quadro di accordo corruttivo e di vendita della funzione“, scrive il gip nell’ordinanza di arresto di Giorgia Castriota, nel quale i consulenti avrebbero diviso con il giudice le cifre liquidate, spesso sotto forma di contributo mensile e regali.

Si parla in particolare di denaro, percepito “sistematicamente” come parti dei compensi in denaro liquidati dallo stesso gip nell’ambito dell’amministrazione giudiziaria o corrisposto, a titolo di compenso, dalle società sequestrate, ma anche “gioielli, orologi, viaggi e un abbonamento annuale per assistere in tribuna d’onore dello stadio Olimpico alle partite di una squadra calcio” che la giudice per le indagini preliminari di Latina avrebbe percepito dai professionisti nominati da lei e inseriti nell’amministrazione giudiziaria.

Una vicenda delicata e, come tiene a precisare il procuratore di Perugia Raffaele Cantone, nei confronti degli arrestati “sussistono solo gravi indizi di colpevolezza, e non certo prove di responsabilità. Pertanto gli indagati potranno fornire tutti gli elementi a loro difesa”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Estratto dell’articolo Valentina Errante per “il Messaggero” il 21 aprile 2023.

Denaro ricevuto «sistematicamente» e poi gioielli, orologi, viaggi e un abbonamento in tribuna d'onore allo stadio Olimpico per le partite della Roma. Non solo ma anche la spartizione con il suo compagno, un commercialista, dei compensi ottenuti grazie agli incarichi che lei stessa gli affidava. Ieri il gip di Latina Giorgia Castriota, 45 anni, è finita in carcere. 

Per la procura di Perugia, violando la legge, avrebbe nominato consulenti "amici", o disposti a ripagarla, nell'ambito delle procedure di amministrazione giudiziaria dei beni sequestrati.

Anche due dei professionisti ripetutamente "scelti" dal magistrato sono stati arrestati: il compagno di Castriota, Silvano Ferraro, è in carcere, mentre Stefania Vitto è ai domiciliari. Corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio, corruzione in atti giudiziari e induzione indebita a dare o promettere utilità, sono le accuse le accuse contestate a vario titolo nel fascicolo. […] 

Gli accertamenti erano partiti proprio da Latina e sono stati condotti dal Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza Perugia. Hanno delineato quella che gli inquirenti ritengono una rete di rapporti amicali e di frequentazione fra i vari soggetti che, all'interno dell'amministrazione giudiziaria, hanno percepito «e stanno tuttora percependo» compensi particolarmente cospicui.

In particolare il conferimento degli incarichi sarebbe avvenuto «al di fuori di qualsiasi criterio oggettivo» e in contrasto con la norma che vieta ai professionisti di assumere gli incarichi di amministratore giudiziario e coadiutore, qualora abbiano «un'assidua frequentazione» con il magistrato che li conferisce. 

Il giudice di Latina - per l'accusa - non solo avrebbe direttamente nominato e agevolato persone con cui intratteneva rapporti personali «consolidati», ossia il suo compagno commercialista, ma da quest'ultimo avrebbe poi percepito, sistematicamente, parte dei compensi in denaro liquidati da lei stessa o corrisposti dalle società amministrate dal professionista.

Non solo: Castriota dopo le nomine non avrebbe vigilato. Tanto che il giudice di Perugia le contesta «plurimi atti contrari ai doveri d'ufficio» nella gestione delle società sequestrate. Come l'omessa vigilanza o la mancata denuncia di attività illecite da parte degli ex amministratori. […]

Giorgia Castriota giudice corrotta tra viaggi, massaggi e gioielli: «Spendo una marea di soldi». Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 22 aprile 2023.

La gip di Latina pilotava le nomine degli amministratori giudiziari e intercettata diceva: «Bulgari e Rolex, mi levo qualche 'sfizio'»

La giudice per le indagini preliminari del tribunale di Latina, Giorgia Castriota, 45 anni, aveva due problemi: il desiderio di soddisfare qualche costoso «sfizio», anteponendolo ai debiti accumulati e alle spese correnti, e quello di dover dipendere da sei anni da una relazione senza amore, ma sostanzioso interesse, per poterseli permettere. 

«Se lavorava alle Poste la lasciavi»

«Il problema è mio che non riesco a mandarlo a quel paese», si sfogava con una amica a proposito di Silvano Ferraro, ventidue anni più grande e da lei nominato coadiutore di società in amministrazione giudiziaria: lauta paga, mano pressoché libera nei loro conti e percentuale fissa da riconoscere alla giudice sotto forma di contanti, regali, servizi. «Se era una impiegata alle poste l’avevi lasciata dopo sei mesi», rifletteva un amico di Ferraro.

L'arresto

Insieme, lui e lei, sono finiti in carcere due giorni fa per corruzione: «Giorgia Castriota è una donna che ha bisogno di soldi, non perché il suo stipendio sia basso ma perché si ostina a vivere al di sopra delle sue possibilità economiche», la descrive la collega di Perugia Natalia Giubilei nell’ordinanza d’arresto. «In questo ambito, ha pensato di sfruttare il proprio ruolo per lucrare sulle nomine del compagno e di amici da quali poi farsi remunerare come atto dovuto». Un’amica stretta della giudice, Stefania Vitto, anche lei coadiutrice giudiziaria, è ai domiciliari. L’amministratore delle società, Stefano Evangelista, è indagato assieme ad altri funzionari della galassia di Castriota. 

L'abbonamento alla Roma in tribuna autorità

L’elenco dei beni e delle utilità avuti dalla giudice delle indagini preliminari, direttamente o da lei acquistati con i soldi della corruzione, è ampio: un abbonamento alla Roma calcio in tribuna autorità, valore 4.300 euro. Un Rolex da 6mila euro. L’affitto di una casa a Roma dove si ostinava a vivere nonostante l’incarico a Latina («Sai quanto mi costa di benzina andarci ogni giorno?»). I soldi da dare alla collaboratrice domestica, che condivideva con Ferraro in un continuo battibecco sulla divisione dei costi. E ancora vestiti e borse delle marche più note, massaggi e finanche la spesa nei negozi di alimentari più costosi.

Il dado di Bulgari

Un giorno Giorgia Castriota si lamentava del tenore di vita al quale la «costringeva» Ferraro con la sua contabilità sempre puntuale: «Mi doveva 1500, si è tenuto 50 che mi aveva anticipato. Diciamo che spendo una marea di soldi per la casa, per il cibo a Roma, per psicologi, psichiatri... e Silvano deve stare zitto perché non ha idea di quello che sto passando con Cesare (il cane della giudice, ndr)». Poi, nella stessa conversazione con l’amica, puntava in alto: «Volevo comprarmi il dado di Bulgari che costa intorno ai 1800 euro... ho detto quasi quasi... Poi se mi avanza qualche soldino, te lo dico, me volevo compra? un Rolex di secondo polso. Magari sui 20mila, ed estinguo le rate della macchina». A spese di Ferraro vanno a New York e progettano una seconda trasvolata a Los Angeles o una crociera sul Nilo. A Natale lui le dà mille euro in contanti ma lei soffre: «È una persona a cui uno vuole bene, ma mi sta rendendo la vita un inferno». I finanzieri contano 1400 incontri tra i due, che vanno anche assieme a trovare la famiglia del giudice in Calabria.

L'indagine di Raffaele Cantone

E quanto alle malelingue dei colleghi in tribunale: «Avete fatto un bordello dicendo che io avevo una relazione ma io vivo da sola. Quel Ferraro può essere pure che me lo sc.... ma non sono c.. vostri». Come detto la rete di Giorgia Castriota era molto più ampia. L’inchiesta della procura di Perugia guidata da Raffaele Cantone nasce dalla segnalazione di un imprenditore le cui società erano amministrate in modo opaco da Stefano Schifone, che la giudice invita a dimettersi «per motivi personali» per allontanare i sospetti: «Quando vengono gli ispettori lo trovano dimesso e si attaccano al c...», confida a Vitto. Proprio l’amica prenderà il posto di Schifone («ma non deve emergere che ti ho indicata io») e soprattutto diventa nei piani della giudice un’alternativa per potersi «liberare» di Ferraro, con i tremila euro mensili che le gira su una Postepay dai suoi 10mila di stipendio, salvo richieste di extra. «Stai attenta, quella ha lo shopping compulsivo», l’avverte lui. 

Partite le iscrizioni all’albo dei gestori della crisi d’impresa: le nuove opportunità per gli avvocati. Nel primo giorno utile per l’inoltro delle domande, lo scorso 5 gennaio, si è registrato un boom di adesioni. Dal 1° aprile l’elenco sarà consultabile. Tiziana Roselli su Il Dubbio il 12 gennaio 2023

Un vero e proprio clic day, quello dello scorso 5 gennaio, primo giorno utile per chiedere l’iscrizione al nuovo albo dei gestori della crisi d’impresa: 100 professionisti ogni ora hanno deciso di inoltrare la domanda e di intraprendere il percorso da futuro curatore e commissario giudiziale.

Partiamo dalle novità introdotte dalla riforma. A seguito delle recenti modifiche al Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, è stato istituito un nuovo albo per i gestori della crisi, che sarà consultabile e pubblico a partire dal prossimo 1° aprile.

Il Dm 30 dicembre 2022 ha fissato come giorno di inizio per l'iscrizione all'albo dei gestori della crisi d'impresa e dell'insolvenza il 5 gennaio 2023.

Oltre a modalità, requisiti e procedure, il decreto prevede la creazione di una commissione per la valutazione delle domande, formata da rappresentanti degli ordini professionali interessati e da esperti del settore. È inoltre previsto un aggiornamento biennale per mantenere l'iscrizione all'albo, che sarà gestito dalla Scuola superiore della magistratura.

Attenzione: i requisiti di cui all'articolo 358, comma 1, lettera b), devono essere posseduti sia dalla persona fisica responsabile della procedura, sia dal legale rappresentante della società tra professionisti o da tutti i componenti dello studio professionale associato.

Attualmente, le domande per l'iscrizione all'albo sono in corso e saranno disponibili per la consultazione pubblica a partire dal 1° aprile.

Le specifiche tecniche

L’ albo dei gestori della crisi d'impresa avrà una sezione pubblica e una sezione riservata accessibile solo agli utenti autorizzati e conterrà informazioni più dettagliate sui professionisti iscritti, come i loro curriculum e le referenze.

Inoltre, l'albo sarà gestito da una struttura amministrativa che avrà il compito di controllare, modificare e cancellare gli iscritti in base alle norme previste dalla legge.

Quando entra in funzione l’albo?

Con la circolare del 4 gennaio il ministero della Giustizia ha chiarito che fino al 31 marzo 2023 ci sarà una fase di presentazione delle domande di iscrizione all'albo e di valutazione delle stesse da parte dell'ufficio competente. Questo periodo di tempo è stato stabilito per garantire la par condicio per quanto riguarda i tempi di iscrizione all'albo e per offrire ai tribunali un albo adeguatamente popolato, che garantisca la presenza di una pluralità di soggetti incaricabili e la concreta possibilità di applicare il principio di rotazione.

A partire dal 1° aprile, l'albo sarà integrato continuamente. Ciò significa che non ci saranno più scadenze fisse per la presentazione delle domande di iscrizione, ma che potranno essere presentate in qualsiasi momento. In questo modo, l'albo sarà sempre aggiornato e potrà essere utilizzato dai tribunali in qualsiasi momento.

Una differenza sostanziale rispetto al passato. Infatti l’elenco degli esperti della Composizione negoziata della crisi d’impresa (tenuto presso le Cciaa) era condizionato da precise scadenze per la presentazione delle domande, rendendo impossibile il costante aggiornamento.

Nuova opportunità per gli avvocati

La creazione di un albo dei gestori della crisi rappresenta un passo importante per regolamentare e rendere più trasparente l'attività di gestione della crisi d’impresa e costituisce un'opportunità per gli avvocati che vogliono specializzarsi in questo settore, e offrire un contributo importante nella gestione della crisi d'impresa, sia come consulenti legali per le aziende in difficoltà, sia come curatori fallimentari. La loro conoscenza del diritto societario, commerciale e fallimentare, insieme alla loro esperienza nella gestione dei contenziosi, li rende particolarmente adatti a gestire le questioni legali e contrattuali che possono sorgere durante la crisi d'impresa.

Inoltre, l'iscrizione all'albo permette agli avvocati di accedere a nuove opportunità professionali e di ampliare il proprio business, lavorando con aziende di diverse dimensioni e settori.

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Il razzismo di casta può non avere colore ma ha una patria: gli Stati Uniti d'America. Un film di denuncia ispirato alla vita della scrittrice Isabel Wilkerson. Stenio Solinas il 7 Settembre 2023 su Il Giornale.

Caste: The Origins Of Our Discontents si intitolava il libro con cui Isabel Wilkerson terremotò il mercato editoriale americano qualche anno fa, ai tempi del Live Black Matters scaturito dall'omicidio Floyd. Il suo filo conduttore era l'idea che anche nella società americana non fosse fondamentale il razzismo, ma la casta, ovvero una supremazia legata non tanto o non solo al colore della pelle, ma a un'idea di superiorità e/o di differenziazione gerarchica di natura sociale, ideologica, religiosa, sedimentatasi nei secoli con tutta una serie di codici prescrittivi e comportamentali atti a perpetuare una logica di dominante-dominato o, se si vuole, padroni e schiavi.

In India, notava la Wilkerson, a fronte di un unico colore della pelle, non solo era esistita e ancora esisteva una gerarchia castale, ma addirittura, al suo gradino più infimo, la denominazione di «intoccabili» per una categoria, quella dei dalit, relegata a una sorta di animalità... Il colore della pelle, osservava ancora la scrittrice, non spiegava l'antisemitismo, visto che gli ebrei perseguitati erano bianchi quanto i nazisti che li perseguitavano, così come nell'Estremo Oriente lo stesso discorso valeva per i giapponesi verso i cinesi e viceversa, a seconda di chi nei secoli si fosse ritrovato in una posizione di forza...

Isabel Wilkerson si era imposta al pubblico americano già a metà degli anni Novanta, quando un suo articolo su una inondazione nel MidWest le era valso un premio Pulitzer e dato il via a una fortunata carriera di scrittrice. Caste venne scritto però in un momento molto particolare della sua vita: da un lato la perdita a breve distanza della madre e del marito, quest'ultimo nemmeno cinquantenne, per un infarto; dall'altro l'ennesimo omicidio di un ragazzo di colore, avventuratosi di sera e per sbaglio in un quartiere residenziale abitato solo da bianchi... Per quanto qui fosse stato il colore della pelle ad aver scatenato la reazione omicida di chi aveva visto il suo aggirarsi come un pericolo, la Wilkerson lo prese a pretesto, un po' forzato, per la verità, per un discorso più ampio, castale appunto, una sorta di suprematismo identitario...

Origin, di Ava DuVernay, ieri in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, mischia la biografia della scrittrice (Aunjanue Ellis-Taylor sullo schermo) e le tesi del suo libro e ne tira fuori un film potente nelle immagini, nonché provocatorio nelle tesi e dove gli Statti Uniti si ritrovano non a caso nella parte degli imputati: non il simbolo della libertà e del diritto alla felicità sancito persino nella sua Costituzione, ma il Paese dello schiavismo prima, dell'apartheid poi, nato oltretutto dal genocidio più o meno pianificato dei cosiddetti nativi americani, i pellerossa, per intenderci. C'è di più: le stessi leggi prese inizialmente dal nazismo nei riguardi degli ebrei, si rifacevano di base al sistema segregazionista americano, il cui unico difetto, nell'ottica nazista, era il suo avere a che fare con la componente più povera, in tutti i sensi, della società Usa...

Come tutti i film di denuncia, e per di più girati da una regista afroamericana militante, quale Ava Duvernay, già autrice di Selma. La strada verso la libertà, anche Origin ha il suo difetto nell'appiattire nel concetto di casta ogni elemento gerarchico presente nella storia per come noi la conosciamo, e nel ridurre epoche e sistemi diversi a un unico comun denominatore. Il suo punto di forza è nell'empatia che emana dall'interpretazione di Aunjanue-Ellis Taylor e nella intelligente ricostruzione di spaccati di vita americana e non solo.

Lea Garofalo.

Maurizio Avola.

Gaspare Mutolo.

Armando Palmeri.

Michelangelo Mazza.

Lea Garofalo.

50 litri d'acido per cancellarla”: chi era Lea Garofalo, che lottò contro la 'ndrangheta. Non solo un delitto di mafia ma anche un femminicidio: chi era collaboratrice di giustizia uccisa nel 2009. Rosa Scognamiglio e Angela Leucci il 25 Luglio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 L'opposizione alla 'ndrangheta

 L'omicidio

 Sei condanne, la forza di una giovane donna

"La cosa peggiore è che conosco già il destino che mi spetta, dopo essere stata colpita negli interessi materiali e affettivi arriverà la morte!". Sono parole che Lea Garofalo, collaboratrice di giustizia, scrisse nel 2009 all'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in una lettera aperta. La donna chiedeva conto nella sua missiva del tortuoso iter che aveva compiuto nella sua opposizione alle logiche e alle azioni mafiose: 7 mesi più tardi sarebbe uccisa. Aveva 35 anni e una figlia, Denise Cosco, di 18.

"La storia di Lea Garofalo è importante - commenta a IlGiornale.it il criminologo forense Francesco Esposito - perché, oltre a rappresentare un'importante operazione delle forze dell'ordine nel contrasto alla 'ndrangheta, si ricongiunge alla tematica - purtroppo attualissima - del femminicidio. Inoltre è una testimonianza che aiuta a scardinare e prevenire la patologia culturale del 'calabresismo tossico'. Mi riferisco a un'ideologia settaria, fortemente improntata sul patriarcato e rituali obsoleti, che rischia di compromettere la società non affiliata, le persone oneste".

L'opposizione alla 'ndrangheta

Lea Garofalo nacque nel 1974 a Petilia Policastro, oggi provincia di Crotone. Il fratello Floriano era un boss della 'ndrangheta, che venne arrestato nel 1996, poi assolto e in seguito ucciso in un agguato nel 2005. Ma tre anni prima, nel 2002, Lea Garofalo decise di entrare nel programma di protezione e iniziare una lotta alla criminalità, venendo trasferita con la figlia a Campobasso e svelando successivamente che il fratello sarebbe stato assassinato dal cognato, Giuseppe Cosco detto Smith, ovvero il marito di Garofalo.

Tuttavia non solo Garofalo venne ammessa al programma di protezione come collaboratrice e non testimone di giustizia, ma il programma fu per lei "a tempo determinato", tanto che nel 2006 venne estromessa: la donna fece ricorso al Tar e al Consiglio di Stato, e fu quest'ultimo a riammetterla. Nel 2009 tuttavia rinunciò lei stessa alla protezione. Quando fu estromessa, le parole di Garofalo "non avevano avuto, fino a quel momento, autonomo sbocco processuale e gli elementi informativi raccolti erano insufficienti circa l'attendibilità, l'importanza e la rilevanza del contributo offerto".

Proprio in quell'anno, a maggio, l'ex marito Giuseppe Cosco inviò nella sua casa di Campobasso il sodale Massimo Sabatino, travestito da tecnico della lavatrice, allo scopo di sequestrare la donna e ucciderla. Il piano criminale fallì e Garofalo denunciò l'ex, comprendendo che era stato il mandante. "La storia di Lea Garofalo - illustra il criminologo - è ancora attuale per due motivi. Il primo perché la lotta alle mafie passa anche dalle testimonianze dei collaboratori di giustizia. E poi perché, trattandosi di un femminicidio, apporta benefici anche in altri ambiti aiutando a contrastare tutte quelle narrazioni tossiche legate ad altri fenomeni criminali. Penso, ad esempio, alle giovani spose promesse della 'ndrangheta, di cui si parla sempre pochissimo. Si tratta di donne che vengono manipolate, alle quali viene letteralmente fatto il lavaggio del cervello. Vengono risucchiate nel sistema-famiglia senza neanche accorgersene, strumentalizzate per fini utilitaristici. Ed è anche grazie a loro se la 'ndrangheta sopravvive ancora oggi".

L'omicidio 

Il 24 novembre 2009 Garofalo si recò a Milano per incontrare Cosco. I due avrebbero dovuto parlare dei futuri studi universitari della figlia. Ma Garofalo fu sequestrata, tradotta in un edificio di via Montello - poi sgomberato e sequestrato nel 2012 - già molto noto alle forze dell'ordine per numerose attività della 'ndrangheta che, abusivamente, vi si erano svolte per decenni al suo interno.

È stato ipotizzato che la donna sia stata "interrogata" e quindi le sia stata usata violenza. Poi è stata strangolata con un cordino dallo stesso ex marito, il suo corpo fu sciolto in 50 litri di acido e infine fu arso per 3 giorni in località San Fruttosio a Monza, tanto che di lei sarebbero rimasti solo frammenti ossei, anche se in numero notevole. Solo nel 2013 ci sarebbero stati i suoi funerali.

"Lea - spiega Esposito - è stata uccisa con un metodo tipicamente mafioso, caratteristico proprio della 'ndrangheta: è stata distrutta con almeno 50 litri di acido. Sì è trattato di un tentativo di cancellazione dell'identità perché Lea, in quanto donna, rappresentava una minaccia per il patriarcato tossico della cosca. Nella logica delle famiglie 'ndranghetiste, una vita, soprattutto quella di una donna, non vale niente rispetto al nome e all'onorabilità della famiglia. I killer non ritengono di aver commesso un omicidio ma semplicemente di aver disposto altrimenti di un oggetto. Per loro, come poi è emerso da una nota intercettazione, Lea era 'la bastarda'. Proprio a voler rimarcare che non aveva alcun legame di sangue con la famiglia. Se non l'avessero uccisa avrebbero rischiato una faida interna che avrebbe procurato alla cosca un danno economico e sociale immenso. Pertanto l'omicidio e la distribuzione del corpo era l'unica opzione possibile per scongiurare ogni possibile rischio".

"Abbiamo ucciso un bravo ragazzo: chi era Michele Fazio, col sogno di fare il carabiniere

Sei condanne, la forza di una giovane donna 

A ottobre 2010 furono arrestati con le accuse di sequestro, omicidio e occultamento di cadavere Carlo Cosco, Massimo Sabatino, Giuseppe e Vito Cosco, Carmine Venturino e Rosario Curcio - che nel giugno 2023 si è suicidato durante la sua reclusione nel carcere di Opera. La difesa sostenne a oltranza che Garofalo sarebbe fuggita in Australia.

"Mi ripeteva – ha raccontato al processo Enza Rando, avvocato di parte civile e rappresentante di Libera – che voleva evitare a Denise la vita che aveva subito lei e che per questo avrebbe voluto andarsene via, per cambiare vita. Sognava l'Australia, o comunque un luogo sicuro dove poter voltare pagina. Insisteva molto sul fatto che lei portasse a termine gli studi".

Furono condannati tutti all'ergastolo nel 2012: in appello Giuseppe Cosco fu assolto, a Venturino - che dopo il primo grado permise di trovare i resti di Garofalo, poiché si era innamorato della figlia, tra l'altro sua ex fidanzata - la pena fu ridotta a 25 anni, mentre gli altri ergastoli vennero confermati. La Cassazione confermò il giudizio del processo d'appello.

Le condanne giunsero grazie alla testimonianza di Denise Cosco, che decise di opporsi al padre e al resto della famiglia - ripresa dalla stessa giovane nel suo vociare durante le udienze. "Mio padre - rievocò al processo, ricordando quel 24 novembre - in quell'occasione non mi guardò nemmeno una volta in faccia, diceva solo che se mia madre non si era presentata era perché mi aveva voluto abbandonare. Era impassibile".

Il piano, come ricostruito dagli inquirenti e poi riportato nelle motivazioni delle sentenze, fu di eliminare Lea Garofalo "dalla faccia della terra non solo uccidendola, ma anche disperdendone ogni traccia materiale", per via della sua "libertà […] rispetto alle regole di vita familiare sia rispetto a quelle imperanti in ambito criminale". "Dal punto di vista criminologico - conclude Esposito - il caso di Lea Garofalo è un reato contro le donne, che hanno il potere di interrompere la trasmissione dei geni malati della 'ndrangheta, di spezzare quel Dna tossico che garantisce il ricambio generazionale all'interno della cosca. Abbiamo il dovere di raccontare la testimonianza di Lea e di altre donne come lei che non si sono piegate alle logiche tossiche della criminalità organizzata. È importante che le nuove generazioni capiscano che le mafie non sono un'opzione di vita ma una condanna a morte”.

Maurizio Avola.

Michele Santoro intercettato: via d'Amelio, la grave accusa dei pm. Libero Quotidiano il 26 luglio 2023

Anche Michele Santoro finisce tra gli intercettati, suo malgrado. E' clamoroso il risvolto dell'inchiesta della Procura di Caltanissetta sul collaboratore di giustizia Maurizio Avola, accusato di calunnia aggravata. L'uomo è il protagonista del libro del 2001 Nient'altro che la verità, scritto proprio dal conduttore di Servizio Pubblico. Secondo i pm, spiega Marco Lillo sul Fatto quotidiano, le dichiarazioni di Avola, che ha affermato di aver partecipato alla strage di via D'Amelio in cui il 19 luglio del 1992 morì il magistrato antimafia Paolo Borsellino insieme a 5 agenti della sua scorta, sarebbero balle, così come le rivelazioni del pentito sulla strage di Capaci. Una brutta storia, secondo un canovaccio ricorrente nelle fumose ricostruzioni delle stragi di mafia, che ha tirato in ballo anche Santoro: lui e il suo collaboratore Guido Ruotolo, spiega Lillo, "sono stati intercettati (da terzi non indagati) con mezzi invasivi che si prestano a interrogativi sul rispetto del lavoro giornalistico".

Un intero faldone raccoglie le intercettazioni subite da Santoro e Ruotolo, "con tutti i mezzi: telefoniche con tracciamento; 'dei dati e delle conversazioni telematiche mediante captatore informatico'; intercettate anche le conversazioni dei due con l’avvocato di Avola, Ugo Colonna, e quelle dei giornalisti nell’auto sulla quale nel febbraio 2022 andavano a Caltanissetta, convocati per sommarie informazioni dai pm". Pm che non lesinano critiche agli stessi Santoro e Ruotolo, che a loro avviso avevano "operato la scelta di recepire in modo acritico le dichiarazioni rese da Maurizio Avola riportandone il contenuto nello scritto senza in alcun modo svolgere un vaglio critico". Dichiarazioni, quelle di Avola, che di fatto avrebbero rappresentato un vero e proprio tentativo di depistaggio nelle indagini su via D'Amelio. Un tentativo condotto utilizzando lo stesso Santoro, quest'ultimo come sottolineano i pm "in contatto con appartenenti ai servizi segreti".

"È ciò che Avola attribuisce alle intenzioni ostili degli inquirenti su di me. Punto. Il nulla", replica Santoro che critica gli stessi pm: "Sono avvenute cose molto gravi. La Procura ha fatto un comunicato per smentire un libro prima ancora che fosse distribuito. Gli accertamenti a mio parere sono stati fatti per dimostrare che Avola non diceva la verità e non per andare a vedere se dicesse la verità. Comunque non sono stati raggiunti elementi dirimenti per sostenere che Avola non fosse presente in via D'Amelio. Tanto che il Gip ha respinto la richiesta di archiviare e ha fissato un'udienza per decidere cosa fare. La cosa più grave per me è la lesione della nostra libertà di giornalisti di condurre un'inchiesta: siamo stati intercettati e monitorati e poi siamo stati sentiti come testimoni senza i diritti che dovrebbero essere garantiti a chi di fatto era già trattato come un indagato".

Estratto dell'articolo di Marco Lillo per “il Fatto quotidiano” il 25 luglio 2023.

La Procura di Caltanissetta indaga per calunnia aggravata il collaboratore di giustizia Maurizio Avola, protagonista del libro del 2021 di Michele Santoro “Nient’altro che la verità”. 

Le clamorose rivelazioni del ‘pentito’ sulla sua asserita partecipazione alla strage del 19 luglio 1992 ai danni del procuratore Paolo Borsellino e della sua scorta, sarebbero balle. Smentite per i pm anche le autoaccuse di Avola per la strage di Capaci. 

In questa indagine Michele Santoro e il suo collaboratore Guido Ruotolo sono stati intercettati (da terzi non indagati) con mezzi invasivi che si prestano a interrogativi sul rispetto del lavoro giornalistico.

Agli atti c’è un intero faldone di intercettazioni ai danni dei due colleghi con tutti i mezzi: telefoniche con tracciamento; “dei dati e delle conversazioni telematiche mediante captatore informatico”; intercettate anche le conversazioni dei due con l’avvocato di Avola, Ugo Colonna, e quelle dei giornalisti nell’auto sulla quale nel febbraio 2022 andavano a Caltanissetta, convocati per sommarie informazioni dai pm. 

Dopo l’esame (e l’intercettazione) i pm esprimono anche il giudizio sul lavoro altrui: i giornalisti avevano “in definitiva, operato la scelta di recepire in modo acritico le dichiarazioni rese da Maurizio Avola riportandone il contenuto nello scritto senza in alcun modo svolgere un vaglio critico”. 

Le dichiarazioni del pentito per i pm “avrebbero potuto portare alla incriminazioni di soggetti estranei alla strage di via D’amelio ma ciò che è più grave a precludere ogni ulteriore possibile sviluppo investigativo rispetto alle piste, emerse in plurimi dibattimenti, del coinvolgimento nella fase ideativa ed esecutiva delle stragi di soggetti esterni a cosa nostra”.

Il collaboratore catanese raccontò (prima a Santoro e a Guido Ruotolo nel 2019 e poi ai pm nel gennaio 2020) di avere imbottito lui la Fiat 126 di tritolo; accusò il suo ‘superiore’ di Catania, Aldo Ercolano; fornì la chiave del giallo dell’uomo sconosciuto del garage avvistato nel garage dal collaboratore (sincero) Gaspare Spatuzza mentre imbottivano di esplosivo la 126. Per Avola sarebbe stato proprio Ercolano. [...] 

Per i pm, Avola nelle conversazioni intercettate “si dice convinto che tra gli inquirenti vi sia la convinzione che le sue dichiarazioni siano frutto di un complotto finalizzato a depistare le indagini sulla strage di Via D'amelio, da egli stesso ordito con l'aiuto dell'avvocato Ugo Colonna, suo storico difensore e dei giornalisti Guido Ruotolo e Michele Santoro, quest'ultimo in contatto con appartenenti ai servizi segreti”.

Santoro replica: “È ciò che Avola attribuisce alle intenzioni ostili degli inquirenti su di me. Punto. Il nulla”. Sull’inchiesta poi Santoro spara: “Sono avvenute cose molto gravi. La Procura ha fatto un comunicato per smentire un libro prima ancora che fosse distribuito. Gli accertamenti a mio parere sono stati fatti per dimostrare che Avola non diceva la verità e non per andare a vedere se dicesse la verità. Comunque non sono stati raggiunti elementi dirimenti per sostenere che Avola non fosse presente in via D'amelio. 

Tanto che il Gip ha respinto la richiesta di archiviare e ha fissato un'udienza per decidere cosa fare. La cosa più grave per me è la lesione della nostra libertà di giornalisti di condurre un'inchiesta: siamo stati intercettati e monitorati e poi siamo stati sentiti come testimoni senza i diritti che dovrebbero essere garantiti a chi di fatto era già trattato come un indagato. Comunque non hanno trovato traccia di qualsiasi attività scorretta nostra”. 

L’avvocato Ugo Colonna commenta: “Avola non è mai stato condannato per calunnia nonostante le denunce di personaggi potenti. Non ha chiesto il programma di protezione e ha scontato le sue pene, ottenendo sempre la diminuzione di pena. I pm scrivono che le sue dichiarazioni sarebbero eterodirette ma non c’è nessun elemento in tal senso”.

Gaspare Mutolo.

Selfie, prediche e piazze. L'ex boss pentito Mutolo nuova star Antimafia. Un tempo sicario spietato dei Corleonesi ora va alle commemorazioni e pontifica. Luca Fazzo il 25 Luglio 2023 su Il Giornale.

Che ci fa uno scannacristiani come Gaspare Mutolo in via D'Amelio, a commemorare Paolo Borsellino e i suoi agenti di scorta? Cosa ci fa nelle foto ricordo insieme a Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ammazzato da Cosa Nostra? Lui, Mutolo: uno di cui la madre di un bambino ammazzato dalla mafia dice, dopo averlo incrociato sul luogo della strage, «ricordiamoci che lui e i suoi degni compari brindarono con champagne e caviale il 19 luglio del 1992»?

Da tre giorni, le foto di Mutolo - sicario dei Corleonesi, pentitosi non per angosce interiori ma perchè la nuova vittima doveva essere lui - fanno il giro del web. A postarle è lui stesso, l'assassino-collaborante, sulla sua pagina Facebook intitolata «Gaspare Mutolo il Pittore» (vecchia vanteria, sosteneva persino che i quadri dipinti in cella dal boss Luciano Liggio in realtà li aveva dipinti lui). E queste foto, l'uomo di Cosa Nostra affianco a chi piange le vittime di Cosa Nostra, il sicario di Riina affianco al fratello di Borsellino, sollevano indignazione e domande. Mutolo, ribatte secco: «Io sono stato invitato da Salvatore Borsellino e ho accolto molto volentieri il suo invito. Ero felice». E ancora: «Quello che io faccio è un esempio».

Questione di punti di vista. A non essere tanto d'accordo, per esempio, è la madre che se l'è trovato davanti in via D'Amelio e racconta di essere stata insultata da lui. Si chiama Graziella Accetta, Cosa Nostra le ammazzò il figlio Claudio quando aveva appena undici anni perchè aveva assistito a un delitto, gli spararono in mezzo agli occhi. Graziella incrocia lo sguardo di Mutolo, sa che lui ha sempre cercato di spacciare un'altra storia, dire che il ragazzino era stato vittima solo di una storia di corna. Il pentito e la madre si guardano negli occhi. «Poi lui mi ha detto: leccaculo. Per tre volte». Dopo Graziella, Mutolo incrocia il parente di un'altra vittima di mafia: è il figlio di Giuseppe La Franca, un brav'uomo ammazzato da Cosa Nostra nel 1997 per avere rifiutato di cedergli un podere. Stavolta a Mutolo va peggio, l'uomo lo caccia via, «tu qua non ci puoi stare».

Eppure il killer pentito continua ad aggirarsi per via D'Amelio, continua a postare foto. C'è, evidentemente, chi in quella piazza considera giusta e utile la presenza di Mutolo. Il motivo è facile da intuire: questo palermitano di ottantatrè anni non è stato solo uno dei primi a saltare il fosso, arrendendosi allo Stato sulla scia di Tommaso Buscetta. É stato anche uno dei primi «collaboranti» a portare linfa vitale alle piste investigative sulla zona grigia tra mafia e Stato, accusando non solo uomini d'onore ma anche rappresentanti delle istituzioni. E questo ne ha fatto quasi un'icona per i movimenti che non si accontentano, per spiegare le stragi del 1992 e 1993, delle condanne inflitte a Totò Riina e alla Cupola.

Peccato che strada facendo non sempre la credibilità di Mutolo sia uscita incolume dai processi. Lui stesso ha ammesso di avere detto più di una bugia, autoaccusandosi - per aumentare il suo prestigio - di delitti mai commessi. Ma il suo clou lo raggiunse accusando un giovane procuratore generale, Mimmo Signorino, di essere colluso con Cosa Nostra. Solo otto anni dopo il presidente della Corte d'assise di Palermo Alfonso Giordano, criticò l'abitudine di credere ai pentiti senza riscontri. Ma ormai era tardi. Dopo che le accuse di Mutolo erano finite sui giornali, Signorino replicò di avere indagato senza clemenza su Riina. Poi si chiuse in casa e si sparò.

Armando Palmeri.

Mafia, mistero sulla morte dell’ex pentito Palmeri: doveva deporre sulle stragi. Il Tempo il 17 marzo 2023

Giallo nel mondo di Cosa Nostra. L’ex collaboratore di giustizia Armando Palmeri, di 62 anni, è stato ritrovato morto nella sua casa, che si trova nelle campagne fra Partinico (Palermo) e Alcamo (Trapani). Secondo una primissima ricostruzione le cause del decesso sarebbero naturali: è possibile cioè che si sia trattato di un infarto ma sono in corso ulteriori indagini per capire come siano andate le cose. Palmeri sarebbe dovuto andare la prossima settimana a deporre dai pm di Caltanissetta, che avrebbero dovuto sentirlo nell’ambito delle indagini sui fatti avvenuti durante le stragi di mafia. I suoi verbali, benché fosse ormai fuori dal programma di protezione, erano stati depositati nel processo contro Matteo Messina Denaro, celebrato a Caltanissetta per gli eccidi del ‘92 a Capaci e in via D’Amelio. 

Palmeri, ex rapinatore, era stato vicino ad ambienti dei Servizi segreti. In carcere aveva avuto infatti rapporti con esponenti dell’estrema destra e con camorristi, in Cosa nostra si era avvicinato molto a Vincenzo Milazzo, capomafia di Alcamo, assassinato nel luglio del 1992 per vendetta dai corleonesi. Venne uccisa anche la fidanzata, Antonella Bonomo, incinta. Palmeri aveva raccontato che Milazzo si opponeva alle stragi, versione che coincise poi con quella di un altro collaborante, Gioacchino La Barbera. Lo stesso pentito alcamese aggiunse che Bonomo, nei giorni precedenti le stragi del 1992, si era incontrato con personaggi dei Servizi. E ora la morte su cui bisogna far luce.

Partinico, il pentito Palmeri trovato morto in casa: disposta l'autopsia. Nel processo Messina Denaro aveva parlato di stragi e 007 deviati. Salvo Palazzolo, Francesco Patanè su La Repubblica il 17 marzo 2023.

Non ci sono segni di aggressione, potrebbe avere avuto un infarto, ma la procura di Palermo ha disposto accurati accertamenti, anche l'autopsia

E' stato un testimone chiave nel processo di Caltanissetta che ha condannato all'ergastolo Matteo Messina Denaro come mandante delle stragi Falcone e Borsellino. Il collaboratore di giustizia Armando Palmeri è stato trovato morto questo pomeriggio nella sua abitazione di Partinico, alle porte di Palermo. La prima ricostruzione dei carabinieri parla di morte naturale, forse per infarto, ma sono in corso approfonditi accertamenti disposti dalla procura di Palermo. Si farà anche un'autopsia. L'ex boss Palmeri non era più da tempo nel programma di protezione, ma continuava ad essere un punto di riferimento per le delicate indagini sui concorrenti esterni delle stragi svolte dalla procura di Caltanissetta.

Palmeri era stato l'autista del capomafia di Alcamo Vincenzo Milazzo, ucciso poco prima della strage di via D'Amelio perché contrario alla strategie delle bombe. Il giorno dopo, assassinarono anche la compagna, Antonella Bonomo, che era incinta, era parente di un generale dei servizi segreti. 

"Un giorno Milazzo mi chiese di accompagnarlo a una serie di incontri con due personaggi che mi indicò come appartenenti ai servizi segreti", aveva raccontato Palmeri ai magistrati di Palermo quando iniziò a collaborare con la giustizia, a metà anni Novanta. "Tre incontri avvenuti nel 1992, a distanza di un mese l’uno dall’altro. L’ultimo, se non erro, si svolse una decina di giorni prima della sua scomparsa". Aggiunge: "Mi confidò che erano persone che conosceva già da tempo. Le prime due riunioni avvennero nelle prime ore del pomeriggio, mentre la terza in ore serali. Io da lontano li guardavo con il binocolo". Milazzo aveva confidato molte cose al suo autista: "Gli venne proposto di adoperarsi per la destabilizzazione dello Stato: una finalità da perseguire attraverso atti terroristici da compiere fuori dalla Sicilia. Ma Milazzo era contrario a queste cose. Diceva che non avrebbero portato nessun vantaggio a Cosa nostra. Anzi, avrebbero portato a una dura reazione dello Stato". Quel verbale sui misteriosi uomini dei servizi segreti fu poi ripreso dall'allora procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci, che ha istruito il processo a Messina Denaro, imputato di essere fra i mandanti delle stragi Falcone e Borsellino. Processo adesso giunto in appello, e fermo perché non si riesce a trovare un avvocato d'ufficio. Palmeri aveva deposto anche nel processo 'Ndranghetra stragista.

Alla ricerca di tracce per individuare quegli uomini, i magistrati di Caltanissetta hanno verificato se, effettivamente, Antonella Bonomo avesse un parente nei servizi segreti. E ne hanno avuto riscontro. Si tratta di un generale dei carabinieri, che aveva allora un incarico al Sisde. Convocato dai pubblici ministeri, il generale negò di avere avuto mai contatti con la giovane donna e il suo compagno mafioso. Allora, cosa c’era davvero dietro quell’esecuzione del boss Milazzo organizzata con tanta fretta? Un mistero su cui i pm di Caltanissetta non hanno mai smesso di indagare. Mentre Antonella Bonomo veniva strangolata, nella stanza accanto c'era Matteo Messina Denaro.

Il pentito che accusò i servizi segreti per le stragi di mafia è stato trovato morto. Stefano Baudino su L'Indipendente il 19 Marzo 2023.

È stato trovato morto ieri a Partinico, in circostanze misteriose, il pentito di mafia Armando Palmeri, ex factotum del boss di Alcamo Vincenzo Milazzo, che fu ammazzato dai corleonesi di Riina nel luglio del 1992. Sul corpo del 62enne, rinvenuto presso la sua abitazione, non sono state appurate tracce di violenza né sono stati riscontrati segni di effrazione in casa. Dai primi accertamenti il decesso sarebbe da ricondurre a cause naturali, ma la Procura di Palermo ha voluto disporre ulteriori accertamenti e domattina, all’istituto di medicina legale del Policlinico di Palermo, sarà effettuata l’autopsia. Domani, il pentito avrebbe dovuto essere sentito dai magistrati di Caltanissetta e, in settimana, da quelli di Firenze, che stanno indagando sulle stragi di mafia. Negli ultimi giorni, Palmeri avrebbe manifestato forte preoccupazione, arrivando a chiedere al tribunale di Caltanissetta di poter comparire in videoconferenza.

Palmeri è stato uno dei più importanti collaboratori di giustizia degli ultimi anni. Le sue deposizioni sono entrate in numerosi processi di primo piano sullo spaccato della “zona grigia“, tra cui quello sulla “‘ndrangheta stragista” e quello che vede imputato Matteo Messina Denaro per gli attentati di Capaci e via D’Amelio. In particolare, il pentito ha reso dichiarazioni esplosive quando si è soffermato sulla presunta partecipazione di apparati deviati dello Stato alla strategia stragista che gli uomini di Cosa Nostra posero in essere nel biennio 1992-1994.

Palmeri ha infatti parlato di tre incontri che sarebbero avvenuti tra il capoma­fia Milazzo ed esponenti dei Servizi segreti tra la primavera e l’estate del 1992, uno dei quali avrebbe coinvolto anche il medico Baldassare Lauria (diventato poi senatore di Forza Italia). Dopo il primo incontro, Milazzo gli avrebbe riferito che quelli «erano matti» e avevano intenzione di «iniziare una guerra allo Stato con bombe e a mezzo di bombe». E tali attentati, ha ricordato il pentito, «dovevano avvenire anche fuori dalla Sicilia». Soltanto un anno dopo, sarebbero andate in scena le stragi del 1993 a Roma, Milano e Firenze.

Secondo Palmeri, il movente dell’omicidio di Milazzo – avvenuto il 14 luglio 1992, nel periodo compreso tra la morte di Giovanni Falcone e quella di Paolo Borsellino – sarebbe da ricondurre proprio allo scetticismo del boss di Alcamo verso il piano stragista deciso dagli alti vertici della mafia. Quella che Palmeri chiamerà “La strategia del nì“: «La sua posizione era che si rifiutava, (ma) avremmo perso la vita quindi lui si mostrava apparentemente disponibile. Era un’azione da pazzi perché lo Stato avrebbe avuto sicuramente un’azione di contrasto a Cosa nostra e tutto questo poteva finire». I tentennamenti di Milazzo sarebbero stati intercettati dai capi corleonesi, che avrebbero quindi deciso di eliminarlo. Anche in quanto testimone scomodo.

Ad uccidere Milazzo fu Nino Gioè – spietato killer di Riina -, che del capomafia di Alcamo era anche uno dei più grandi amici. Gioè, uomo di “cerniera” tra mafia e servizi, si ritagliò un importante ruolo nella “Trattativa delle opere d’arte” che vide come intermediario tra lo Stato e gli uomini di Cosa Nostra quel Paolo Bellini (ex Nar e confidente del Sismi) condannato in primo grado un anno fa come esecutore della strage di Bologna. Una trattativa fermata anzi tempo sull’altare della più nota “Trattativa Stato-mafia” di cui furono protagonisti gli uomini del Ros dei Carabinieri. Arrestato il 19 marzo 1993, Gioè fu ritrovato impiccato nella sua cella del carcere di Rebibbia tra il 28 e il 29 luglio 1993. Un suicidio, stando alle indagini ufficiali, nonostante l’insieme delle tracce presenti sul corpo – i segni della corda che vanno verso il basso e non verso l’alto, la sesta e la settima costola di destra fratturate, un’escoriazione sulla parte destra della fronte, una ecchimosi bluastra al sopracciglio sinistro, il rachide cervicale intatto – facciano pensare a tutt’altro scenario. Interpellato sulla morte di Antonino Gioè, in aula Palmeri non ha manifestato alcun dubbio: «L’hanno “suicidato”. Ricordo che quando appresi della sua morte lo commentai con Gioacchino Calabrò e anche lui ebbe questa impressione. Mi disse sconfortato: “Lo ammazzarono”».

L’anno scorso, intervistato dalla trasmissione Report, Palmeri si è soffermato sul rapporto che avrebbe intrattenuto con Gioè. «A volte l’ho accompagnato ad incontri particolari con uomini delle istituzioni – ha detto il collaboratore di giustizia al giornalista Paolo Mondani -. Se parlammo di Capaci? Gioè mi ha detto ufficiosamente che a ‘Giovannieddu (Brusca, ndr) ci paria che era iddu a farlo esplodere’. Mi diceva che il dispositivo per lanciare l’impulso era un giocattolo e che era in sinergia con altra gente. Era un’operazione militare perfetta». Palmeri ha poi confermato che Gioè gli avrebbe parlato di un traffico di materiale radioattivo e dell’arrivo di elicotteri con materiale fissile nucleare che sarebbe stato scaricato nelle zone di Alcamo. Non sappiamo se, di fronte ai pm con cui aveva appuntamento la prossima settimana, il pentito avrebbe toccato anche questi argomenti. Quel che è certo è che da oggi la sua bocca rimarrà chiusa, per sempre. [di Stefano Baudino]

Michelangelo Mazza.

La palude burocratica degli ex collaboratori di giustizia. La storia di Michelangelo Mazza, prima killer, poi pentito, oggi nella trappola dello Stato: “Agli arresti per 38 anni, più di Brusca”. Ciro Cuozzo su Il Riformista l’11 Gennaio 2023

Arrestato il 31 gennaio 2006, dopo un anno e cinque mesi (giugno 2007) decide di iniziare il percorso di collaborazione con la giustizia, finito una prima volta nel 2013 quando viene capitalizzato e con i soldi ricevuti dal Servizio Centrale di Protezione prende casa e avvia un’attività commerciale in una città del centro-Italia per poi, ‘grazie’ a un errore di chi lo proteggeva (lo Stato), tornare nuovamente sotto lo status di pentito nel 2014, cambiare luogo e perdere quel poco che aveva provato a costruire in quei mesi. Oggi, dieci anni dopo, è un ibrido. Non è più sotto protezione, non è stato nuovamente capitalizzato, sta scontando gli arresti domiciliari, ha dei permessi (4 ore la mattina e 4 il pomeriggio) per lavorare ed un fine pena previsto nel 2044, ben 38 anni dopo l’arresto e la decisione di passare dalla parte dello Stato.

E’ la storia, o meglio, il calvario giudiziario che sta vivendo Michelangelo Mazza, ex rapinatore e poi killer del clan Misso del centro di Napoli, guidato dallo zio Giuseppe Misso, detto ‘o nasone. Michelangelo compirà 49 anni il prossimo 18 febbraio e vive in una località lontano da Napoli con la moglie, quattro figli e due nipoti, intrappolato nella palude burocratica di uno Stato che “anziché capitalizzarmi ha deciso di tenermi nel limbo pagando in questi anni cinque volte la cifra che avrebbe dovuto darmi per la fuoriuscita dal programma di protezione”.

E’ un fiume in piena Mazza, stanco della “poca trasparenza” del Dipartimento della Pubblica Sicurezza del ministero degli Interni e delle sviste giudiziarie che – stando al suo racconto – gli costarono in passato il ritorno sotto la protezione dello Stato. Nella sua carriera criminale ha spiegato di aver ammazzato 12 persone: per nove omicidi è stato processato e condannato, per altri tre l’iter giudiziario è ancora in corso. “Era il 2013 ed ero stato capitalizzato non essendo più un collaboratore di giustizia. Così decisi di aprire un’attività in una cittadina del centro Italia ma un giorno nel presentarmi la notifica di un processo, dove ero imputato insieme ad altre persone, dimenticarono di cancellare i dati sensibili, riportando oltre al nome e cognome anche il mio nuovo indirizzo di residenza e creando una situazione di pericolo perché le altre persone che avevo accusato, e che erano imputate con me nel processo, venivano a conoscenza del luogo in cui abitavo”.

Mazza torna così sotto protezione, viene trasferito in una località diversa con la famiglia e riparte nuovamente da zero. Dopo anni da pentito 2.0, “nel 2018 presento un progetto e chiedo di uscire dal programma ma non mi rispondono. Così ogni anno, fino al 2022, chiedo sempre la stessa cosa, presentando ogni volta un progetto che però non viene accolto dalla commissione”. Nel frattempo ha lavoricchiato come fattorino, facendo consegne e usando la sua vera identità. “Più volte mi sono ritrovato in situazioni di potenziale pericolo perché, sia sulle app, che online circolava la mia foto con nome e cognome. Col tempo ho deciso di lasciare ed evitare di diventare un bersaglio facile”.

Passano gli anni e “il 22 aprile 2022 decido di rinunciare al programma di protezione perché stanco, stremato da queste continue diatribe con il Dipartimento di pubblica sicurezza. Dopo sei giorni – racconta – vengono a casa mia e contro ogni pronostico mi portano la capitalizzazione per tre soggetti della mia famiglia con la cifra che però viene secretata insieme alla delibera. Mi faccio i conti in base ai loro documenti e mando tutto al Servizio Centrale di Protezione che mi risponde offrendomi una somma al ribasso, ovvero 27mila euro per queste tre persone con un progetto della durata di cinque anni. Un’eresia, neanche 10mila euro a persona. Che progetto si può presentare con una cifra simile? Mi costringono così a fare l’ennesimo ricorso al Tar del Lazio, ne avrò fatti in questi anni circa una quindicina”.

Mazza racconta quanto avvenuto durante l’emergenza covid quando “lo stesso governo che il 9 marzo mette l’Italia in lockdown, nove giorni dopo, il 18 marzo, fa una delibera nei miei confronti bloccando la proroga del programma di protezione, senza la previsione di alcuna somma per poterti reinserire in società, togliendomi anche il contributo alimentare”. Da lì inizia una battaglia legale che termina nel novembre del 2021 con la sentenza del Consiglio di Stato che stabilisce che Mazza deve stare sotto protezione. “Oggi, dopo un anno e mezzo, stiamo nuovamente davanti al Consiglio di Stato sempre per gli stessi motivi: per lo Stato non devo più stare sotto protezione ma allo stesso tempo vogliono capitalizzare, con somme minime, solo tre persone della mia famiglia”.

Una vicenda ingarbugliata, con Mazza che ogni anno si ritrova sempre al punto di partenza. “Basti pensare che dal 2018, quando ho chiesto di uscire dal programma di protezione con una capitalizzazione di 70mila euro per consentire alla mia famiglia di ripartire con un progetto che riguardava l’affitto di una casa e l’avvio di un’attività commerciale, ad oggi, il Servizio Centrale di Protezione ha speso per la mia famiglia la bellezza di circa 400mila euro quando poteva risolvere il problema dei miei due nuclei familiari, con una cifra di 70mila euro. Un vero e proprio gioco al massacro, un cortocircuito che si perpetua per vendetta sui collaboratori di giustizia e, soprattutto, sui loro familiari che nulla hanno a che vedere con la malavita”.

A tutto questo si aggiunge l’iter giudiziario infinito, nonostante l’avvio della collaborazione con lo stato avvenuta 15 anni fa. “Sono ancora sotto processo in Corte d’Assise per svariati fatti di sangue e gli altri imputati sono attualmente liberi e, stando ai recenti fatti di cronaca nera, impegnati negli ultimi anni in conflitti di camorra”. Così facendo “il Servizio Centrale di Protezione mi costringerà a tornare a vivere a Napoli dove almeno posso contare sull’ospitalità di alcuni parenti anche se diventerei poi un soggetto a rischio perché, ripeto, le persone che ho accusato e che sono imputate con me in diversi processi, sono a piede libero”.

Nel corso della sua collaborazione con la giustizia, Mazza ha testimoniato in decine di processi “per ben 298 impegni giudiziari. Con le mie dichiarazioni, raccolte da almeno 19 magistrati, ho colpito i clan Misso, Mazzarella, Montescuro, Licciardi, Lorusso, Contini, Prinno, Elia, Lepre, Casalesi, Nuvoletta, Vastarella, Tolomelli, Genidoni, Rinaldi, Formicola. Mazza ha un fine pena nel 2044 nonostante la collaborazione con la giustizia: “E’ più alto di quello dello stragista Brusca (attualmente in libertà vigilata, ndr) e addirittura delle persone imputate con me in processi per omicidio e che non hanno deciso di passare dalla parte dello Stato”.

Sono in trappola, vorrei solo lavorare in sicurezza e iniziare una nuova vita insieme alla mia famiglia” chiede Mazza che nelle prossime settimane racconterà, con Il Riformista, nel dettaglio la sua tormentata vicenda in una intervista video. Una vicenda simile a quella di Gennaro Panzuto, 48 anni, ex killer ed ex collaboratore di giustizia tornato a Napoli a inizio 2021 dopo essere stato “sbattuto” fuori dal programma di protezione non senza polemiche.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

La Interdittive.

I Sequestri preventivi.

La Interdittive.

Più probabile che non”: quella trappola nelle interdittive antimafia. Le interdittive antimafia sono adottate a discrezione dei Prefetti. Possono espropriare, bloccare un’azienda sulla base del solo sospetto di infiltrazione mafiosa. Angelo Riccardi su L'Unità il 16 Luglio 2023

Leggo e rileggo di una lotta alla mafia fatta di numeri freddi e irrilevanti, come a voler affermare che la lotta alla mafia foggiana non può prescindere nel colpire tutti, indistintamente, malcapitati buoni e cattivi. Consigli sciolti a catena e interdittive antimafia a raffica. Foggia come Reggio Calabria? Sarà il caso di comprendere la Reggio Calabria di oggi e se veramente è stato raggiunto un qualche risultato dell’antimafia sul territorio. Io credo che dopo tale analisi qualcuno guarderebbe con sospetto a queste iniziative dello “Stato”.

Le interdittive antimafia sono un mezzo esclusivo utilizzato in Italia per combattere la mafia e dimostrare l’impegno nella lotta alla criminalità organizzata. Questi provvedimenti amministrativi sono adottati a discrezione dei Prefetti e possono essere utilizzati per espropriare, bloccare o distruggere un’azienda sulla base del solo sospetto di infiltrazione mafiosa, basandosi su una valutazione della probabilità di infiltrazione mafiosa all’interno dell’azienda. In parole povere, basta che il Prefetto ritenga “più probabile che non” l’esistenza di infiltrazioni mafiose per adottare l’interdittiva. Carlo Giovanardi ha dedicato tempo alla trappola del “più probabile che non”, raccogliendo denunce degli operatori economici vittime.

Dopo aver ripetuto le denunce in conferenze stampa, è stato accusato di minacce al Prefetto di Modena e al gruppo interforze del Ministro degli Interni, oltre che di oltraggio a Pubblico Ufficiale. Le misure di prevenzione mostrano i loro limiti e sono palesemente discrezionali e discutibili. Qual è la visione strategica di chi prende le decisioni? Sarebbe interessante capire gli obiettivi di certe iniziative. Le “scelte” sono in realtà “politiche”, poiché sono affidate al Prefetto di turno che, senza una direzione chiara, decide chi colpire con misure interdittive che danneggiano persone, famiglie, imprese e interi territori. Secondo uno studio di Transcrime, l’85% delle aziende sequestrate alla mafia fallisce entro due anni dalla confisca come misura di prevenzione. È una situazione tragica per l’occupazione e i lavoratori, che perdono improvvisamente il posto di lavoro senza speranza di trovarne un altro. Qual è il modello economico alternativo proposto dallo Stato per evitare questo scenario disastroso? Ad oggi nessuno. Immaginate cosa sarebbe accaduto alle aziende di Silvio Berlusconi – e all’economia nazionale – se fossero state oggetto di interdittive.

Sulla parola di ex boss mafiosi e collaboratori di giustizia accreditati nei processi, che hanno ricordato e giurato sui rapporti tra Berlusconi e Cosa Nostra, sul pagamento di un “pizzo” in cambio di vantaggi economici e della pace sociale e famigliare. Meno male, ne sono felice, che le aziende di Berlusconi siano state risparmiate. Che nessun Prefetto abbia deciso di interdirle in base alla regola del “più probabile che non”. Che nessun giudice abbia adottato misure di prevenzione patrimoniali nei confronti dell’imprenditore Berlusconi. Lo stesso Berlusconi che nell’arco dei suoi quattro governi, sullo stesso presupposto del “più probabile che non”, ha sciolto per mafia decine e decine di consigli comunali. Per molto meno, invece, in provincia di Foggia, un’azienda è stata di recente colpita da un’interdittiva. E non per aver pagato la mafia ma per aver denunciato una richiesta estorsiva di natura mafiosa.

È difficile capire come un provvedimento del genere sia solo stato concepito e poi attuato. Perché le conseguenze per un’azienda colpita da un’interdittiva possono essere devastanti. Viene esclusa dalle liste delle aziende “pulite”, il che significa che non può più lavorare con la Pubblica Amministrazione, partecipare a gare pubbliche, ottenere licenze o autorizzazioni amministrative; persino l’accesso al credito bancario diventa quasi impossibile. L’azienda è condannata al fallimento. Secondo le parole del famoso scrittore Leonardo Sciascia, la mafia non può essere sconfitta con la “terribilità”, ma attraverso il Diritto. Ecco, dobbiamo fare in modo che il Diritto prevalga, che la verità emerga e che la giustizia sia giusta. Solo allora potremo sconfiggere la mafia e costruire un futuro migliore per tutti

Angelo Riccardi 16 Luglio 2023

La testimonianza. Misure interdittive antimafia, i sospetti l’unica prova che causano l’ingiusto fallimento delle aziende. L'interdittiva antimafia scatta per la presenza di due dipendenti con precedenti penali: uno ci era stato raccomandato da un carabiniere e l'altro faceva un percorso di risocializzazione dei detenuti. Agostino ed Ester Ferdeghini su L'Unità il 3 Settembre 2023

La nostra azienda è nata alla Spezia nel 1932 ed è stata colpita a morte il 31 ottobre 2019. La chiamano “misura interdittiva antimafia”. Per il tuo bene, per prevenire il contagio del male assoluto, la Mafia, ti possono anche uccidere. Nel nostro caso, la Questura e la Prefettura avevano presunto l’infiltrazione mafiosa dalla presenza di due dipendenti con precedenti penali. Secondo la loro geniale intuizione queste persone erano state inviate dalla camorra per impadronirsi della nostra attività. In realtà, erano state, una, raccomandata da un carabiniere del nucleo investigativo e, l’altra, arrivata grazie all’adesione della nostra azienda a un percorso di risocializzazione dei detenuti e su segnalazione della Casa Circondariale della Spezia con il beneplacito del Magistrato di Sorveglianza.

Il procedimento è stato impugnato al Tar e al Consiglio di Stato che, senza nemmeno considerare i ricorsi, ma solo sulla base della regola non scritta del “più probabile che non”, li ha rigettati, sottolineando anche che “con tanta brava gente che è senza lavoro, non era necessario assumere un detenuto”, calpestando l’articolo 27 della Costituzione. Oltretutto, queste persone, all’emissione dell’interdittiva, non facevano più parte dell’organico: uno già da settembre 2017 e l’altro da gennaio 2019. Ci hanno pure contestato di aver lavorato con quattro aziende sospettate di aver avuto rapporti con persone “controindicate”, ma con procedimento a loro carico archiviato o prosciolte e giustamente iscritte alla white list delle varie Prefetture italiane che gli consente di lavorare con la pubblica amministrazione.

A nulla è servito il ricorso in Cassazione, dove è stata evidenziata la commissione del reato di associazione a delinquere, reato che a noi non è mai stato contestato. Attualmente, dopo tre anni e mezzo dalla prima denuncia pubblica tramite Nessuno tocchi Caino, si sta verificando ciò che noi avevamo previsto: il fallimento delle nostre aziende costruite con l’onesto lavoro di quattro generazioni di imprenditori, con una figlia che sarebbe stata la prima donna alla guida della Società dopo tre generazioni di uomini. È scandaloso che una misura con effetti così devastanti possa essere emessa a discrezione del Prefetto in seguito a indagini eseguite da organi di Polizia e senza alcun confronto tra le parti, in base a valutazioni infondate e contraddittorie che portano alla distruzione di imprese sane e persone oneste che le hanno create. È sconcertante che sia il Tar sia il Consiglio di Stato si siano spinti a una valutazione anticipata di responsabilità quando queste, semmai, dipendono da future valutazioni che spettano al Giudice penale.

Questo pre-giudizio nei nostri confronti ha condizionato l’intero procedimento. Principi e regole basilari del Diritto sono stati violati: presunzione di non colpevolezza, giusto processo, parità delle armi tra le parti in causa, rispetto della proprietà privata, della vita sociale e familiare. E pure della libertà di circolazione, perché, al titolare è stata applicata anche una misura di prevenzione personale per diciotto mesi che ha avuto effetti deleteri sia sulla persona fisica che giuridica. Non tutti sanno che le imprese e le persone che vengono colpite da provvedimenti così brutali, se si potranno, forse, anche fisicamente rialzare, rimarranno delle anime morte che camminano e che vivono una vita ai margini della Società. Persone a cui è stata tolta l’azienda, il lavoro, la dignità.

Calpestate da leggi ignobili e ancor peggio applicate in nome di una lotta alla Mafia solo di facciata. La nostra impresa, come altre decine di migliaia in Italia che hanno subito la stessa sorte, non sono state nemmeno sfiorate dal fenomeno mafioso. Ciò nonostante, sono state annichilite con una violenza al pari di un’arma di distruzione di massa da chi dovrebbe tutelarle. Attualmente siamo inermi di fronte a tanta devastazione in attesa della liquidazione giudiziale delle nostre amate aziende senza poterci difendere, mentre ci viene strappato il frutto del nostro lavoro, magari a vantaggio di altre aziende competitrici che si trovano con un concorrente in meno sul mercato e con beni aziendali rilevabili all’asta a prezzi irrisori.

Nella disgrazia abbiamo avuto la fortuna di venire in contatto con Nessuno tocchi Caino che ha preso a cuore la nostra vicenda e ci ha motivato a presentare ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, grazie alla collaborazione di avvocati eccellenti, è stato dichiarato ricevibile. Ci rimane la speranza che, a seguito di tanti ricorsi alla Cedu, finalmente ci si renda conto che in Italia esiste un sistema di prevenzione che sarà sicuramente necessario per la lotta alla Mafia ma che ha bisogno di correttivi urgenti per evitare che imprese sane che rappresentano la ricchezza del grano del Paese siano mischiate indiscriminatamente con la miseria della gramigna criminale. Agostino ed Ester Ferdeghini - 3 Settembre 2023

La parentela coi membri del clan non vale, sospesa interdittiva a un'impresa. GIACINTO CARVELLI su Il Quotidiano del Sud il 2 settembre 2023.

«Il mero rapporto di parentela tra la titolare dell’impresa destinataria dell’impugnato diniego di iscrizione ed il suo unico dipendente, coniugato con la nipote di soggetto controindicato, non sia sufficiente, secondo canoni di logicità e verosimiglianza, a concretizzare il pericolo di condizionamento dell’attività dalla stessa svolta da parte della criminalità organizzata»: è quanto ha deciso il consiglio di Stato lo scorso 31 agosto accogliendo il ricorso presentato dall’avvocato Gaetano Liperoti contro un’interdittiva antimafia con cui il Prefetto di Crotone (nel febbraio scorso) aveva negato ad un’impresa di iscriversi nella “white list” per l’ottenimento di autorizzazioni e licenze da parte della pubblica amministrazione.

Lo stesso Consiglio, sospendendo l’interdittiva prefettizia, ha evidenziando che la decisione si fondava su dati «privi dei requisiti di specificità e concretezza che devono assistere una plausibile prognosi interdittiva». Inoltre, sempre per l’organo giudicante, «la lacuna istruttoria-motivazionale che inficia, sotto tale profilo, il provvedimento impugnato è suscettibile di essere colmata dalla circostanza, pure in esso evidenziata, che la ricorrente risiede stabilmente in Emilia-Romagna, con la conseguente affermata impossibilità per la stessa di gestire l’impresa che ha la sua sede legale in Calabria, atteso che, da un lato, dalla visura camerale prodotta in giudizio risulta che l’impresa suindicata ha anche una sede locale in provincia di Reggio Emilia».

Ed ancora, il fatto che il raggio operativo della consorteria criminale facente capo allo zio della moglie del suddetto dipendente comprenda il territorio emiliano- romagnolo non è dotata dalla pregnanza indiziaria necessaria a farlo assurgere a fattore giustificativo del provvedimento impugnato». Nello specifico, il Supremo Consesso di giustizia amministrativa (Sezione Terza) per i legali del ricorrenti, «ha così riaffermato che l’interdittiva antimafia, per quanto basata su una valutazione probabilistica, deve essere fondata su elementi precisi e concordanti, ribadendo che i semplici rapporti di parentela o il contesto territoriale di operatività sono dati neutri».

«Le interdittive – commenta l’avvocato Liperoti – sono efficaci strumenti di prevenzione antimafia, assicurando la massima anticipazione della tutela nell’obiettivo di garantire l’impenetrabilità dell’amministrazione pubblica. Proprio per questo, la loro adozione dev’essere presidiata dalla valutazione di specifiche condotte dei destinatari, non potendo essere sufficiente il binomio territoriale Calabria/Emilia Romagna per dedurre la possibilità del condizionamento». I magistrati Pierfrancesco Ungari, Presidente facente funzioni ed i consiglieri Stefania Santoleri, Giovanni Pescatore, Ezio Fedullo e Giovanni Tulumello hanno anche sancito di disporre la compensazione delle spese del doppio grado del giudizio cautelare.

I Sequestri preventivi.

Silvana Saguto.

Franco Lena.

Cedomir Vicario.

Francesco Gregorio Quattrone.

La Famiglia Cavallotti.

I Beni Confiscati.

Silvana Saguto.

Quella gogna contro l’ex giudice Saguto è peggio del suo “sistema”. L’arresto in diretta della donna trasferita dalla clinica al carcere col metodo “Tortora”: così la stampa si presta allo show giudiziario. Simona Musco su Il Dubbio il 23 ottobre 2023

Una donna malata, una struttura sanitaria, i baschi verdi della Finanza e, oltre i cancelli, i giornalisti pronti a filmare tutto. L’ennesimo caso di giustizia spettacolo è quello di Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, condannata in via definitiva - ma la pena va rideterminata - per la gestione dei beni confiscati.

Un crimine terribile, il suo, che ha rovinato la vita di decine di famiglie. Ma terribile è anche la scelta consapevole di ledere la sua dignità, da cannibalizzare in diretta, nonostante i tentativi disperati del figlio di nascondere il volto della madre con il proprio corpo. «Il figlio minaccia i giornalisti», si legge online, a corredo delle immagini che immortalano il giovane urlare che si tratta di una struttura sanitaria e vige la privacy più stretta. Urla e dichiara la disponibilità a farsi arrestare, quell’uomo, pur di porre fine allo stillicidio, contrario ad ogni regola deontologica richiamabile a memoria e che ricorda ad ogni giornalista che la dignità delle persone non può essere violentata in nome del diritto di cronaca. Filmare quell’arresto, d’altronde, non fornisce alcuna informazione ulteriore all’opinione pubblica, alla quale sarebbe bastato sapere che la giudice e gli altri condannati sono finiti in carcere. Mentre sarebbe stato più utile chiedersi, forse, perché la pena sia stata subito eseguita quando c’è da affrontare un nuovo processo per stabilire l’entità della stessa. Domande sciocche, forse, interessanti solo per gli “addetti ai lavori”. Come se la giustizia interessasse solo una piccola parte della società.

«I baschi verdi antiterrorismo della Gdf per arrestare una persona anziana in ospedale, “casualmente” i giornalisti appostati, un figlio costretto a fare da scudo alla mamma dai flash e dalle riprese. Uno schifo vomitevole da Paese incivile», ha commentato su Twitter il deputato di Azione Enrico Costa, tra i pochi attenti - e in maniera bipartisan - alle degenerazioni della giustizia che si trasforma in show televisivo. Uno spunto di riflessione che non ha prodotto l’effetto sperato: i commenti al Tweet sono spietati e svelano una concezione della giustizia che è più vicina alla legge del taglione.

Hai rovinato tante famiglie, devi subire l’umiliazione che hai inflitto, questo il riassunto delle reazioni. «Buonismo schifoso», scrive un utente, «lo schifo è vedere come difendi i delinquenti» e poi ancora «siamo di fronte al male assoluto, nessuna pietà», ribadiscono altri. La giustizia non serve a nulla se non alla vendetta e pensare che un giorno con Silvana Saguto possa essere messo in pratica l’articolo 27 della Costituzione, che mira alla sua rieducazione, è forse una speranza vana. D’altronde tra le proposte depositate da Fratelli d’Italia a inizio legislatura ve n’è una che mira a modificare anche questo pilastro: prima viene l’effetto “intimidatorio” della pena, poi - se rimane spazio - quello rieducativo. E poco importa se la repressione ha sempre fallito nella battaglia contro il crimine.

La reazione scomposta della stampa è il sintomo di una “malattia” molto grave: l’informazione è una merce e dunque le regole che valgono non sono quelle deontologiche e nemmeno le leggi dello Stato, ma le regole di mercato. Ed è il mercato a richiedere la gogna, che porta clic, anche se fa a pezzi la Costituzione. La stessa sulla quale hanno giurato coloro che, occupando ruoli istituzionali, invocano la forca dai propri palcoscenici virtuali.

Difficile far sentire in colpa, dunque, chi da casa rivendica il diritto di poter dire la sua. Il corpo di quel giovane uomo disperato di fronte alla distruzione della sua famiglia - anche il padre è stato condannato - avrebbe dovuto essere, metaforicamente, il corpo di chi, come il giornalista, avrebbe il compito di garantire il rispetto dei principi cardine della nostra democrazia. Tra i quali non rientra la spettacolarizzazione della giustizia. Ma dovremo accontentarci, forse ancora per molto, della battaglia solitaria di chi prova a scardinare tutto questo.

E dovrebbe far riflettere se a condannare questo modus operandi è proprio chi del “sistema Saguto” (forma che a sua volta serve ad assolvere chi ha consentito che tutto questo avvenisse) è stato vittima, come Pietro Cavallotti. «Non mi ha fatto piacere vedere le immagini del suo arresto - ha dichiarato al TgR -. La giustizia penale non deve farsi carico delle aspettative di una popolo sempre più affamato di carcere e sempre meno disposto a chiedersi quali siano i veri problemi che si nascondono dietro i titoli dei giornali».

Estratto dell’articolo di Salvo Palazzolo per repubblica.it venerdì 20 ottobre 2023.

Un tempo, a casa di Silvana Saguto, la giudice più potente dell’antimafia, c’era un gran via vai di fedelissimi. Ieri pomeriggio, in via De Cosmi 37, sono arrivati i finanzieri del nucleo di polizia economico finanziaria, per arrestare l’ormai ex magistrata, radiata dall’ordine giudiziario per lo scempio fatto dei beni sequestrati. Ma lei non c’era, si era fatta ricoverare in una clinica privata. È stata comunque accompagnata in carcere. Giovedì pomeriggio, la Corte di Cassazione ha confermato le accuse più gravi: corruzione e concussione.

Per altri reati minori, la sesta sezione della Suprema Corte ha deciso che dovrà essere celebrato un nuovo processo alla corte d’appello di Caltanissetta, per rideterminare la pena. Ma, intanto, si aprono le porte del carcere per l’ex presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo.

Per la condanna già definitiva deve scontare 7 anni e 10 mesi. In carcere è stato portato anche il marito di Silvana Saguto, l’ingegnere Lorenzo Caramma, deve scontare 6 anni e un mese. La procura generale nissena presieduta da Fabio D’Anna ha messo in esecuzione la sentenza di appello pure nei confronti dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara e del professore Carmelo Provenzano: il primo, che deve scontare 6 anni e sette mesi, si è consegnato nel carcere di Bollate (Milano); il secondo, condannato a 6 anni e 8 mesi, si è consegnato a Roma. Anche per loro si farà poi un nuovo processo d’appello per alcuni reati minori, su cui la Cassazione ha disposto la rideterminazione della pena.

A bussare a casa di Silvana Saguto sono stati gli stessi investigatori del Gruppo tutela spesa pubblica che nove anni fa iniziarono a indagare sulla gestione scandalosa dei beni sottratti alla mafia. La parabola della giudice si è conclusa proprio in quella casa che era diventata la sua corte, in cui erano ammessi solo pochi devoti. Casa che peraltro adesso è stata confiscata, per provare a blindare almeno una parte dei risarcimenti alle parti civili, perché nei conti bancari della giudice imputata non c’era nulla.

[…] In alcuni giorni, c’era anche un gran via vai attorno a via De Cosmi. La presidentessa diceva all’agente della scorta di andare a prendere la fidanzata del figlio. I poliziotti erano sempre a disposizione. Per fare la spesa, per andare in lavanderia. Il tribunale ha detto che non era reato di abuso d’ufficio. Ma di sicuro era l’ennesimo segno di ossequio attorno a quella casa diventata un simbolo poco edificante. La casa-corte dell’antimafia peggiore.

La mazzetta

In via De Cosmi, dove ora finisce questa storia, l’avvocato Cappellano Seminara arrivò invece una sera, alle 22.35, con un trolley. Dentro, c’erano ventimila euro, hanno spiegato nel processo di primo grado i pubblici ministeri Maurizio Bonaccorso e Claudia Pasciuti. Il “re” degli amministratori giudiziari uscì alle 23.10. Il giorno dopo, d’incanto, i problemi finanziari della giudice trovarono soluzione. Con un versamento di tremila euro. Poi un altro, di duemila. E un altro ancora, di tremila euro. La casa dei regali e degli ossequi. Ora, è solo la casa simbolo di una giudice schiacciata dai suoi deliri di onnipotenza.

A un certo punto, il professore Provenzano la trasformò anche nella casa delle nuove strategie, il laboratorio dell’antimafia stile Saguto. E intanto il trojan installato nel telefono del docente registrava. «Facciamo un triangolone», è rimasta la sua frase più celebre. Voleva mettere le sezioni Misure di prevenzione di Trapani e Caltanissetta sotto il controllo di Silvana Saguto, per gestire un immenso patrimonio di amministrazioni giudiziarie. Di quella casa Provenzano era ormai diventato un habitué, anche perché seguiva gli studi e soprattutto la tesi del figlio della giudice, che poi scrisse lui. […]

Arrestata la paladina dell'antimafia. Il "sistema" per lucrare sui sequestri. In carcere l'ex giudice condannata definitivamente per corruzione Tante le aziende rovinate dal meccanismo che aveva messo in piedi. Lodovica Bulian il 21 ottobre su Il Giornale.

Era stata uno dei simboli dell'antimafia, prima di diventare quello dell'antimafia deviata, per questo poi radiata dalla magistratura. E tanto era diventato tentacolare il suo modus operandi, che è stato ribattezzato «Sistema Saguto» quello che lucrava sulla gestione delle misure di prevenzione, sequestri e confische di patrimoni e aziende di soggetti sospettati di mafia. Ora la Cassazione ha messo un punto fermo alla vicenda giudiziaria dell'ex magistrata palermitana ed ex presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo Silvana Saguto, nel processo che ha portato alla sbarra con lei amministratori e professionisti: la Sesta sezione penale ha confermato la condanna in appello per corruzione rendendola definitiva. Sulle contestazioni di falso, peculato e tentata concussione ha disposto un nuovo processo di secondo grado, anche per i coimputati. Venerdì Saguto è stata prelevata da una clinica palermitana dove era ricoverata da 20 giorni e portata in carcere. Ieri il suo legale ha chiesto per lei i domiciliari per motivi di salute. Deve scontare 7 anni e 10 mesi, per aver favorito professionisti a lei graditi nell'assegnazione degli incarichi di amministratore giudiziario dei patrimoni confiscati.

Al di là degli esiti del nuovo processo, è una parola definitiva su un capitolo che ha macchiato l'antimafia siciliana e non solo, e che ha gettato un'ombra sull'intero sistema delle misure di prevenzione. Che, non solo nel caso Saguto, si è rivelato terreno fertile d'illegalità contestate ad amministratori giudiziari e magistrati. Talune inchieste ancora in corso fotografano un settore fatto di super parcelle e ambiti incarichi nelle amministrazioni giudiziarie a cui non sempre corrispondono altrettanto alti risultati di gestione.

Nel caso Saguto, ci sono aziende che sono state restituite dopo anni ai legittimi proprietari, quando i sequestri sono stati annullati, indebitate, svuotate, sull'orlo del fallimento e poi liquidate. Le misure di prevenzione viaggiano parallelamente al binario penale, non è necessaria cioè una condanna per procedere alla richiesta di sequestro. Basta il sospetto. Prevenzione, appunto. Il nodo però è il «dopo» sequestro. Gli amministratori giudiziari si dimostrano in molti casi incapaci di gestire i beni che hanno in custodia, soprattutto aziende, spesso condannate a morte insieme con posti di lavoro. Parte civile nel processo a Saguto ci sono gli imprenditori Rappa, titolari di concessionarie di automobili. Nel 2014 gli è stato sequestrato il patrimonio, 5 anni dopo è stato dissequestrato e restituito. Il titolare al processo ha descritto così cosa ha trovato al suo rientro: «É stato un assalto alla diligenza, una società piena di perdite, caricata di costi quasi per farla fallire». Lo stesso hanno trovato i Cavallotti, finiti nelle misure di prevenzione chieste da Saguto, quando le loro aziende sono state dissequestrate: erano ormai in rovina. Si sono rivolti alla Corte europea, che un mese fa ha chiesto chiarimenti al governo italiano sul sistema delle misure di prevenzione. Una delle domande è se questo rispetti il principio della presunzione di innocenza.

Franco Lena.

Se questa è giustizia. Giustizia, la storia di Franco Lena, che ha avuto la disgrazia di aver incontrato lo Stato nelle sue forme peggiori. Quella di Franco Lena è una vicenda che ha un senso di grottesco e di teatro dell’assurdo, se non ci fossero in gioco la vita di 60 famiglie e il lavoro di una vita di un cittadino italiano. Giovanni Pizzo su Il Riformista il 14 Settembre 2023 

Non siamo nel mare di Ustica, lì lo Stato ha dato il peggio di se stesso, in depistaggi ed omissioni. Siamo in uno dei territori più belli della Sicilia, a Castelbuono nelle Madonie, tra boschi, colline, vigneti ed uliveti circondati da montagne che si affacciano su un mare di un azzurro intenso da cui si scrutano le Eolie. Arriviamo attraverso una strada che si inerpica nella tenuta di Abbazia Sant’Anastasia, 400 ettari di bellezza pura. Siamo a casa di Franco Lena, il proprietario di questo gioiello medievale, incastonato in un posto da un fascino sorprendente. In questi vigneti si produce il Litra, un Cabernet Sauvignon che oltre a ricevere più volte l’agognato tre bicchieri al Vinitaly, aveva l’apprezzamento dell’unico uomo di reale bon ton italiano, l’Avvocato Gianni Agnelli.

Ci riceve l’ingegnere Lena ancora convalescente da un ricovero ospedaliero. Il fisico è provato, ma lo sguardo è fiero e combattivo. Al suo fianco la moglie Paola Moriconi, che da decenni si è legata a lui e a questo Paradise Lost. Perduto come nel dramma di Milton, perché Franco Lena ha avuto la disgrazia di aver incontrato lo Stato nelle sue forme peggiori. Quelle che ti prendono una mattina, ti schiaffano in carcere, ti tolgono il progetto di una vita, e poi dopo anni di processi e tre assoluzioni fino alla Cassazione, e dopo una causa risarcitoria per ingiusta detenzione, in cui ti danno degli spiccioli, alla fine ti restituiscono una delle aziende agrituristiche più belle d’Italia in uno stato di dissoluzione. La vicenda Lena avviene nel 2010, quando viene arrestato con altre 19 persone.

L’accusa è grave ed infamante, mafia. I contorni riguardanti la sua posizione sono poco chiari fin dall’inizio, ed una fase istruttoria più approfondita, tra coloro che lo accusarono c’era l’oggi senatore pentastellato Scarpinato, avrebbe forse già scagionato l’uomo, che già caratterialmente poco ha a che fare con la mafia. Tant’è che lui è l’unico assolto del gruppo di coimputati in primo grado. La procura insiste in appello e riperde. La Cassazione nel 2016 rigetta il definitivo e pervicace ricorso. Poi dopo una lunga diatriba, dopo l’allontanamento del primo amministratore giudiziario coinvolto nel caso Saguto, nel 2018, dopo otto anni, gli restituiscono l’azienda.

La Saguto conosceva bene questo posto, ci organizzava riunioni e convegni per il suo entourage, come piedistallo del suo fulgido sistema. Aziende saccheggiate, spolpate, a favore di amici, parenti e consulenti. Le intercettazioni fra la Saguto e Scimeca, l’amministratore giudiziario, sono imbarazzanti. L’azienda che riceve dopo otto anni Franco Lena non è un Paradise Regained, un paradiso riconquistato. L’amministrazione giudiziaria per tutti questi anni non ha mai approvato i bilanci, non pagando i contributi ai lavoratori non è riuscita ad incassare nessun spettante finanziamento regionale, avendo il Durc irregolare. Da 750.000 bottiglie l’anno di vino si è passati ad appena 150.000.

Buona parte dei vigneti, che l’amministrazione giudiziaria non ha tutelato, sono stati distrutti dai suidi che infestano queste contrade. In compenso i dipendenti sono aumentati, non per costruire recinzioni che difendessero uno dei più rinomati vigneti siciliani, dove Cotarella e Tachis, i  maggiori enologi italiani,  avevano profuso scienza ed impegno, ma per avere ruoli dirigenziali ed apicali. La rete di vendita, il portafoglio clienti faticosamente conquistato negli anni perso irrimediabilmente. L’azienda ha smesso di produrre l’olio dei suoi 40 ha di uliveto. Il resort, realizzato ristrutturando un’abbazia del quindicesimo secolo, lasciato senza manutenzione. Tasse e contributi dei dipendenti non versate, e nonostante incassi che sfioravano i due milioni di euro nessun pagamento delle rate di mutuo di Banca Nuova. L’istituto di Zonin, assorbito a zero euro da Banca Intesa, ha ceduto a basse percentuali i propri crediti ad una Finanziaria, la Amco. La quale ora invece vuole l’intero credito, più gli interessi di mora maturati per il mancato versamento delle rate da parte dell’amministrazione giudiziaria della società.

Franco Lena è un fiume in piena, ogni tanto sorretto dai salienti e sapienti ricordi delle singole fattispecie da parte di sua moglie. L’Abbazia da lavoro a 60 dipendenti, lontani dai fasti di 110 dei tempi allegri del sistema Saguto, ed ora costoro rischiano, dopo anni di gestione fallimentare da parte dello Stato, di cadere sotto i colpi delle banche, che dallo Stato sono state aiutate. La probabile fine sarà un concordato o un’asta giudiziaria, in attesa dello speculatore di turno. Ci vorrebbe un’idea forte, da parte di istituzioni o privati illuminati, ma chi si avvicina a recuperare un patrimonio del genere dopo tanta distruzione, fisica, amministrativa e morale?

Tutta la vicenda ha un senso di grottesco e di teatro dell’assurdo, se non ci fossero in gioco la vita di 60 famiglie, e il lavoro di una vita di un cittadino italiano che ha avuto la disgrazia di incontrare lo Stato nella sua forma peggiore. Quella che ti può stritolare senza remore, né senso del diritto, esattamente il contrario del principio del codice civile del buon padre di famiglia. Se questo, lo Stato, è il buon Padre, meglio essere orfani. Giovanni Pizzo

Cedomir Vicario.

Ora vivono in auto. Il dramma della famiglia Vicario, villa (ereditata dal padre) confiscata perché c’è sproporzione col reddito…Cedomir Vicario, imprenditore italiano di origini croate, l’aveva ereditata dal padre che l’aveva comprata vendendo una casa a Belgrado. Ma per le autorità italiane si trattava di soldi di provenienza illecita, per il tribunale c’è sproporzione tra il valore dell’immobile e il reddito di Cedomir. E scatta la confisca. Paolo Comi su L'Unità il 12 Settembre 2023 

Se sei un rom, anzi uno zingaro come si usa dire, non puoi possedere un appartamento, figuriamoci una villetta. E’ quanto accaduto a Cedomir Vicario, 48enne imprenditore italiano di origini croate, residente a Marcallo con Casone, un piccolo paese alla periferia nord-ovest di Milano. La vicenda inizia negli ‘90 del secolo scorso quando il padre di Cedomir decide di trasferirsi in Italia insieme alla propria famiglia. Con i proventi della vendita di un appartamento di sua proprietà a Belgrado, l’uomo acquista quindi una piccola villa nel comune di Marcallo con Casone. La compravendita avviene in contanti, all’epoca una proceduta non vietata dalla legge.

Alla morte del padre, Cedomir eredita la villetta dove vi trasferisce la residenza. Immediatamente, però, scatta un procedimento di prevenzione: le Autorità italiane ritengono infatti che la casa sia stata acquistata dal padre con soldi di provenienza illecita e frutto di attività criminali. Cedomir, per confutare tale ipotesi, consegna allora le ricevute della vendita dell’immobile a Belgrado e anche le ricevute dei vari bonifici bancari. Al termine di un contenzioso estenuante, la casa di Marcallo con Casone nel 2017 viene comunque sottoposta a confisca in quanto il tribunale è convinto ci sia una ‘sproporzione’ fra il suo valore ed il reddito di Cedomir in Italia.

Nonostante il provvedimento della magistratura, Cedomir continua in questi anni ad abitare nella villa insieme alla moglie, i tre figli minori, e una parente affetta da grave ritardo mentale e riconosciuta invalida al 100 percento, soggetta anche a procedura di amministrazione di sostegno a far data dal 2004 e di cui egli è l’amministratore di sostegno nominato dal Tribunale di Milano. Lo scorso 19 luglio, l’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati decide di effettuare un blitz per ‘sfrattare’ Cedomir e la sua famiglia. Vengono impiegati un centinaio di appartenenti alle Forze dell’Ordine, con l’utilizzo anche di squadre cinofile. Il maxi blitz, totalmente sproporzionato essendo noto che Cedomir non è un pericoloso latitante, è un fulmine a ciel sereno in quanto l’ordinanza di sgombero non era mai stata notificata in precedenza, impedendo in questo modo di presentare ricorso nei tempi previsti.

Il risultato è che da due mesi Cedomir e tutta la sua famiglia sono finiti in mezzo alla strada, costretti a vivere a bordo della propria autovettura in condizioni igieniche che definire precarie è un gravoso esercizio di eufemismo, senza che il comune di Marcallo con Casone abbia provveduto a trovare una diversa soluzione abitativa. “Quel che stride in una vicenda contrassegnata da un pregresso distorto uso della misura di prevenzione patrimoniale, è lo sbandierato scalpo esibito dall’amministrazione comunale di Marcallo con Casone”, ha dichiarato l’avvocato milanese Roberto Lassini che domani discuterà al Tar del Lazio la richiesta di sospensiva dello sgombero.

La sindaca di Marcallo con Casone, Marina Roma, è la moglie di Massimo Garavaglia, attuale presidente della Commissione bilancio della Camera ed ex ministro del governo Draghi, leghista di stretta osservanza e persona di fiducia di Matteo Salvini. Garavaglia, prima di andare in Parlamento, era stato anch’egli sindaco di Marcallo con Casone. “Non sarà certo un caso che simili sgomberi hanno subito una notevole accelerazione per ragioni certamente legate ai nuovi recenti orientamenti politici”, prosegue l’avvocato Lassini, riferendosi al ‘pugno duro’ che contraddistingue il governo Meloni in materia di repressione del disagio sociale. “E ciò traspare anche dall’immediato comunicato stampa con il quale la sindaca definiva l’abitazione di cui trattasi la “villa degli zingari”, con buona pace di tenersi lontano da atteggiamento razzisti e di maggiore equilibrio istituzionale”, aggiunge poi Lassini, prima di lasciarsi andare ad una amara riflessione: “Sembra una beffa il fatto che fu proprio Massimo Garavaglia, all’epoca molto più giovane e solo in un secondo momento assurto alla ribalta delle cronache nazionali, a rilasciare la concessione edilizia in virtù della quale il fratellastro di Cedomir veniva qualificato da un lato imprenditore agricolo e dall’altro con tale qualifica di indubbia rilevanza, veniva autorizzato a costruire in area agricola in forza delle note facilitazioni contenute nella vigente legislazione di regione Lombardia”.

“Non pretendiamo nessun trattamento diversificato, la legge deve essere uguale per tutti, ma qui c’è una ‘aggravante’ rom. Cedomir e la sua famiglia sono stati trattati come mafiosi. Parliamo di una persona che non ha creato problemi e che ha figli che vanno a scuola e sono integrati”, ha commentato Dijana Pavlovic, portavoce e responsabile per l’Advocacy per il Movimento Kethane Rom e Sinti per l’Italia.

“Non tutti i rom sono come quelli della famiglia Casamonica, spesso dediti al crimine, un dato sul quale nessuno vuole chiudere gli occhi, ma in questa vicenda è palese l’accanimento da parte delle autorità”, ha aggiunto Pavlovic.

Ma adesso, dopo il blitz estivo, che ne sarà della ‘villa degli zingari’? A spiegarlo è stato la stessa sindaca. “Il bene è nelle mani dell’Agenzia dei Beni Confiscati. A questo punto si farà una verifica per capire se l’immobile possa passare liberamente al comune o se invece è sottoposto ad ulteriori gravami”, ha affermato Marina Roma. ”Nel caso sia valida la prima ipotesi – ha poi sottolineato la sindaca – l’Amministrazione di Marcallo con Casone potrà riaverlo indietro dallo Stato, tenendo sempre conto della finalità sociale intervenire e decidere come meglio riutilizzare tale immobile a vantaggio del territorio e della comunità”. Ad esempio darlo a persone con grave disagio abitativo, come la famiglia di Cedomir finita in mezzo alla strada. Paolo Comi 12 Settembre 2023

Francesco Gregorio Quattrone.

«Assolto perché non sono mafioso, ma lo Stato non mi restituisce i beni». Vive con soli 324 euro al mese in un garage, senza acqua e luce. Lunedì scorso la protesta a Reggio Calabria: l’ex ristoratore si è arrampicato sulla gru nel cantiere del Palazzo di Giustizia. Annalisa Costanzo su Il Dubbio il 5 settembre 2023

Assolto perché il «fatto non sussiste». Francesco Gregorio Quattrone ristoratore di Reggio Calabria non fa parte di alcuna associazione di stampo mafioso - lo ha sentenziato un tribunale -, eppure la confisca di tutti i suoi beni è diventata definitiva. «Mi hanno lasciato con 372 euro al mese in tasca - spiega il 66 enne - , dicendo: “Da adesso vivrete con questi soldi”». E con quei soldi Quattrone, conosciuto dai suoi clienti e amici come Ioli, vive in una stanza senza acqua calda e senza luce.

È un uomo disperato. «Sono stato depredato dalla giustizia italiana di tutti i sacrifici fatti in 40 anni di lavoro, miei e della mia famiglia - racconta al Dubbio -. Chiedo al procuratore della Repubblica e a tutte le istituzioni di prendere provvedimenti verso questo sistema che punisce l'innocente». Chiede giustizia e rimarca: «Il mio caso è paradossale, non mi fermerò mai fin quando la giustizia non opererà correttamente».

È pronto a tutto e lunedì mattina, l’ormai ex ristoratore ha inscenato una forte protesta, arrampicandosi sulla gru nel cantiere del Palazzo di Giustizia, proprio davanti al Cedir, struttura dove hanno sede gli uffici della procura di Reggio Calabria. Con sé l'uomo ha portato tutta la sua disperazione, un cellulare e un manifesto: “Giustizia giusta la cerco e la voglio. Quando l'ingiustizia diventa legge, ribellarsi è un dovere al diritto”, ha scritto a caratteri cubitali col colore nero, il colore che simboleggia il dolore, il lutto. «Con la confisca viene sostanzialmente decretata la sua morte civile», rimarca l'avvocato Baldassarre Lauria, che da alcune settimane è stato chiamato per affiancare l'avvocata Maria Domenica Vazzana. A Baldassarre è stato affidato il compito di portare il caso dell'imprenditore reggino - e quindi l'Italia - direttamente davanti alla Cedu.

Proprietario del locale “Arca di Joli”, Quattrone nel 1995 viene coinvolto nel procedimento “Olimpia” ma viene prosciolto. Nel 2010 finisce nell'inchiesta “Entourage”: per la Dda reggina è un presunto affiliato a una cosca di ‘ndrangheta della città in riva allo Stretto. «Vengo arrestato e dopo 15 giorni rilasciato per assenza di gravi indizi. Nel 2012 - grida Quattrone dalla gru dove lunedì ha passato gran parte della giornata - scatta il sequestro dei beni: ristorante, pizzerie, albergo, tutti i terreni, i conti. Nel 2020 si conclude il processo per associazione. Vengo assolto perché il fatto non sussiste, assoluzione richiesta dal pubblico ministero, inappellabile e io dico, ok, va bene, avete sbagliato fino adesso, ma ora restituitemi i beni. Nel 2015, però, in Cassazione la confisca diventa definitiva: sostanzialmente mi viene detto che tutti i beni sono ormai dello Stato italiano. Ma se io non sono un mafioso perché se li deve tenere lo Stato?». È questa la domanda che Quattrone fa in continuazione.

Due settimane fa la corte di Appello di Catanzaro ha respinto l’istanza di revocazione della misura, non ritenendo nuovi elementi di prova sufficienti le agende ritrovare dalla difesa di Quattrone, nelle quali lo stesso, negli anni, ha scritto «gli appuntamenti di ricevimenti e feste che ho ospitato nel mio ristorante, lavorando 24 ore al giorno con mia moglie, i miei figli e i miei generi». «Le misure di prevenzione hanno un doppio binario che consente alla prevenzione di giungere a un giudizio diverso rispetto a quello del processo penale», spiega l'avvocato Lauria, che qualche tempo fa ha portato davanti alla Cedu il caso della famiglia “Cavallotti”, una storia simile a quella di Quattrone.

La Cedu ha dichiarato ricevibile il ricorso e allo stesso tempo ha posto al governo italiano una serie di questioni che toccano i punti nevralgici del sistema di prevenzione. Il governo guidato dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni dovrà fornire risposte entro il 13 novembre 2023. «L'Italia – ricorda il legale - è l'unico Paese occidentale che ha un sistema giuridico di questa natura ossia che consente la confisca senza la condanna. Negli altri Paesi non è possibile giungere a una confisca del patrimonio senza che vi sia un accertamento sulla responsabilità, quello italiano è un unicum in tutta Europa. Il signor Quattrone è una vittima di questo sistema: è un soggetto che non ha alcun precedente, nessun giudizio di colpevolezza a suo carico e tuttavia vive in un garage senza acqua e luce perché gli hanno confiscato tutto».

Nei prossimi giorni i legali Lauria e Vazzana depositeranno alla corte di Appello di Reggio Calabria - l'autorità che ha formulato il giudizio di pericolosità sociale - una istanza di revoca per evidenziare una contraddizione giuridica con la sentenza di assoluzione. Dopodiché i difensori di Quattrone andranno direttamente alla Corte europea per un’azione di responsabilità nei confronti dello Stato italiano. Intanto Quattrone è rimasto solo, lo Stato ha i suoi beni e vive con soli 324 euro al mese di pensione di malattia. Ma con orgoglio sottolinea: «Vado a vendere fiori di zucca, qualche pezzo di pane, l'olio e quel che trovo, vivo così... in modo onesto e dignitoso».

La Famiglia Cavallotti.

SEQUESTRI AI CAVALLOTTI BOCCIATI IN CASSAZIONE. «Un calvario di anni, ora lo Stato ci ridà i beni. Che però sono andati in fumo». Il commento di Pietro: «Anche l’antimafia, quando si comporta come la mafia, è un’altra grande montagna di merda!». Pietro Cavallotti su Il Dubbio il 10 febbraio 2023

Riportiamo di seguito l’intervento con cui Pietro Cavallotti ha commentato sui social la sentenza della Cassazione che annulla definitivamente tutti i provvedimenti di sequestro adottati nei confronti delle aziende sue e dei suoi familiari. Cavallotti è il rappresentante di una dinastia di imprenditori palermitani attivi nel settore della distribuzione del gas fin dagli anni Novanta e travolta da un’incredibile sequenza di misure di prevenzione antimafia, inflitte dalla sezione del Tribunale di Palermo presieduta, all’epoca, da Silvana Saguto. Nel 2019 il Tribunale siciliano aveva accolto il ricorso della famiglia Cavallotti: dissequestro confermato in appello, fino alla sentenza emessa lo scorso 17 gennaio dalla Cassazione, che dà definitivamente ragione agli imprenditori.

Non c’era bisogno della sentenza della Cassazione per certificare ciò che era evidente fin dal principio. Non c’erano prove, non c’era niente. C’era solo la volontà di fare male e di distruggere. Non ci credo più nella giustizia italiana e da molti anni vedo nelle sentenze dei giudici solo il frutto del loro arbitrio e non un mezzo per fare giustizia. Dopo tutti questi anni, dovrei esultare perché almeno è stata detta l’ultima parola. Ultima parola su cosa? Il lavoro di una vita è andato in fumo, sono stati fatti debiti su debiti, ci sono stati pubblici ministeri e persino un Procuratore Generale che senza vergogna ci hanno perseguitato fino al terzo grado di giudizio. Queste cose non si possono dimenticare. Nessuno pagherà, nessuno ci potrà restituire il tempo perso.

Ora che è tutto finito, si dovrebbe dire qualcosa. Ci si dovrebbe interrogare su chi ci ha perso e chi ci ha guadagnato. Ma sono domande inutili perché sappiamo bene che gli unici che ci hanno guadagnato sono gli amministratori giudiziari, le persone da loro nominate, i periti e i pubblici ministeri, che grazie ai loro errori, faranno carriera. Ci hanno perso tutti gli altri: i lavoratori, i creditori, noi. Si dovrebbe fare un appello alla politica affinché intervenga presto, affinché le persone rovinate dallo Stato vengano aiutate. Ma mi rifiuto di farlo perché, nonostante ci siano tanti politici che si sono interessati concretamente al problema, in politica ci sono sempre altri interessi da salvaguardare, altre priorità.

Mi dovrei rivolgere al mondo dell’informazione ma so che ci sono altre notizie che è più comodo fare passare. I crimini dell’antimafia devono essere sepolti insieme alle persone che li hanno subiti. Nessuno deve sapere, sentire o vedere niente. Mi dovrei rivolgere all’amministrazione comunale perché faccia un’analisi seria per comprendere come la nostra vicenda abbia influito sulla qualità della vita di molte famiglie di lavoratori e in generale sulla fragile economia del nostro paese. Ma mi rifiuto di farlo perché non c’è un serio interesse. Dovrei raccontare le umiliazioni e le sofferenze che abbiamo subito. Ma mi rifiuto di farlo perché non ci sono parole per far capire e neppure un reale interesse ad ascoltare.

L’unica cosa che vale la pena di dire, alla fine di questa triste vicenda, è un grazie ai nostri avvocati e al nostro consulente, amici sinceri, che ci hanno difeso pur sapendo fin dall’inizio che da questo processo non ci sarebbe stata alcuna soddisfazione economica. Ci hanno difeso solo per senso di giustizia, nella ferma convinzione che i deboli e le persone giuste vanno difese contro gli abusi dei forti, contro quello che è un vero e proprio regime. Allora, non chiedo proprio niente a nessuno. Mi basta sapere che, nonostante tutto, siamo ancora in piedi e che, soprattutto, siamo ancora vivi. Il mio pensiero va ai miei parenti che hanno dato esempio di come si reagisce quando tutto il mondo che hai costruito ti viene fatto crollare addosso.

Si dice che la mafia è una montagna di merda. Vero ma è un’affermazione incompleta. Anche l’antimafia, quando si comporta come la mafia, è un’altra grande montagna di merda! E chi lavora bene non ha motivo di offendersi per questa grande verità.

La vicenda della famiglia Cavallotti, che si è rivolta alla Cedu. Il sistema delle misure di prevenzione non funziona: è tempo di rivedere la legge. Piero Cavallotti, imprenditore siciliano la cui azienda di famiglia nel 1999 venne sequestrata nell’ambito di una inchiesta per associazione di stampo mafioso, si è rivolto alla Cedu. Il ricorso è stato dichiarato ammissibile ed i giudici di Strasburgo hanno posto alcune questioni al governo italiano. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 25 Agosto 2023 

“La politica deve capire una volta per tutte che il sistema delle misure di prevenzione non funziona”, afferma Piero Cavallotti, imprenditore siciliano la cui azienda di famiglia nel 1999 venne sequestrata nell’ambito di una inchiesta per associazione di stampo mafioso.

Nel 2011, pur essendo stato definitivamente archiviato il procedimento, la sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo allora presieduta da Silvana Saguto, poi radiata dalla magistratura e condannata ad otto anni di prigione proprio per l’illecita modalità con cui gestiva i beni, tramutò il sequestro in confisca.

Per motivare la decisione vennero utilizzate le stesse fonti di prova che i giudici penali avevano ritenuto inidonee per sostenere l’accusa di mafia.

L’azienda, nel frattempo gestita dagli amministratori giudiziari, era però fallita, mandando così la famiglia Cavallotti, al termine del processo risultata essere vittima delle estorsioni dei clan, sul lastrico.

Nel 2016 i Cavallotti, assistiti dagli avvocati Baldassarre Lauria e Alberto Stagno d’Alcontres, decisero allora di presentare ricorso alla Cedu.

Il ricorso è stato dichiarato ammissibile ed i giudici di Strasburgo hanno posto alcune questioni al governo italiano. Ad esempio, se la confisca dei beni a soggetti assolti in un processo penale non violi la presunzione di innocenza. Poi, se è stato motivato che i beni confiscati avrebbero potuto essere di provenienza illecita sulla base di una valutazione obiettiva delle prove fattuali, e senza invece basarsi su un mero sospetto. Ed infine, se l’inversione dell’onere della prova quanto all’origine legittima dei beni acquisiti molti anni prima abbia imposto un onere eccessivo ai ricorrenti.

In una lettera indirizzata all’Agenzia dei beni confiscati, alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni e ai ministri dell’Interno e della Difesa, i Cavallotti hanno quindi chiesto di sospendere “qualsiasi eventuale iniziativa volta all’utilizzo dei beni oggetto della confisca di prevenzione” fino alla decisione della Cedu o, in subordine, “fino alla comunicazione da parte del governo italiano delle sue determinazioni”, che dovranno essere comunicate entro il 13 novembre a Strasburgo.

La richiesta di sospensiva risponde ad una esigenza reale: i beni sono già stati danneggiati e rischiano di diventare inutilizzabili. “Per assurdo – aggiunge Cavallotti – se i beni venissero assegnati a qualche associazione e la Cedu dovesse darci ragione non riavremmo le nostre case che hanno per noi un grande valore affettivo, ma l’equivalente in denaro. Beni che nel frattempo sono stati vandalizzati: i ladri hanno portato via tutto, anche le piastrelle e i sanitari. Chi ci dovrebbe risarcire? L’Agenzia che non ha vigilato e che dice di non avere risorse? Ci sono danni che si potevano evitare e che non potranno mai essere risarciti. Altri, però, si possono ancora scongiurare”.

“La pronuncia della Cedu sarà sicuramente un grande passo avanti, perché per la prima volta potrebbe essere riconosciuto il fatto che il sistema di prevenzione contrasta in alcuni suoi aspetti con la Convenzione europea: l’uso di presunzioni e di meri sospetti ha soppiantato la ricerca della prova”, ricorda Cavallotti, aggiungendo che “occorre impedire che una persona assolta per gli stessi fatti si veda portare via tutto il patrimonio come è successo alla mia famiglia. La lotta alla mafia non deve trasformarsi in una inaccettabile persecuzione di innocenti”.

“Mi rendo conto – continua – che la revisione del sistema delle misure di prevenzione non è nel programma della coalizione. Ma non ci può essere lotta alla mafia senza il rispetto dei diritti e delle garanzie costituzionali”.

Attualmente il 90% delle aziende sottoposte a sequestro e finite in mano agli amministratori giudiziari falliscono dopo poco.

Senza contare che la confisca determina la perdita, dall’oggi al domani, di ogni bene, impedendo di poter continuare a lavorare, a mandare i figli a scuola, a fare la spesa.

Il mese scorso, comunque, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, intervenuto in prefettura a Palermo per la firma di un protocollo d’intesa per l’assegnazione di alcuni beni confiscati alla mafia, aveva affermato che la normativa italiana “è un unicum nel panorama mondiale: siamo richiesti da Paesi stranieri, anche europei per vedere come funziona il nostro sistema. È bene celebrarlo nella maniera dovuta”.

“Rivedere la legge sulle misure di prevenzione non vuol dire fare un regalo alle mafie, non significa indebolire la lotta contro la criminalità organizzata. Vuol dire solo evitare che la vita di persone innocenti venga distrutta nuovamente. Com’è capitato alla mia famiglia”, puntualizza Cavallotti.

Paolo Pandolfini

«Il governo ci dica se chi è innocente deve perdere tutto». Misure di prevenzione, l’appello di Cavallotti alla premier Meloni in attesa della Cedu: «La legge va cambiata». Simona Musco su Il Dubbio il 18 agosto 2023

«Rivedere la legge sulle misure di prevenzione non vuol dire fare un regalo alle mafie, non significa indebolire la lotta contro la criminalità organizzata. Vuol dire evitare che la vita di persone innocenti venga distrutta nuovamente. Com’è capitato alla mia famiglia». L’appello a Giorgia Meloni arriva da Pietro Cavallotti, vittima di sequestro da parte dello Stato. Le aziende di famiglia, tra le quali la Comest srl, sono tenute sotto sigilli dallo Stato dal 1999. Durante i lunghi anni dell'amministrazione giudiziaria, sono stati ceduti rami d'azienda, la sede operativa è stata distrutta. Fatti che sono stati oggetto di un esposto da parte della famiglia Cavallotti all'autorità giudiziaria che sino ad ora non ha riscontrato alcun reato nella pluridecennale gestione commissariale.

Nel 2011, nonostante il definitivo proscioglimento dall’accusa di associazione mafiosa contestata a Gaetano, Vincenzo e Salvatore Vito Cavallotti, il sequestro si è tramutato in confisca da un collegio presieduto da Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, radiata dalla magistratura e condannata per l’illecita gestione dei beni confiscati alle cosche. Motivo? Vengono considerati indizi di pericolosità quegli stessi elementi che i giudici penali avevano ritenuto incapaci di provare l’accusa di mafia. Ovvero elementi di contiguità con i boss Ciccio Pastoia e Benedetto Spera, vicinissimi a Bernardo Provenzano. Da qui la confisca dei beni, che dopo essere stati per anni in mano dello Stato sono ridotti a macerie. E ciò nonostante i Cavallotti si siano sempre dichiarati innocenti, vittime, semmai, delle estorsioni dei clan.

Nel 2016 i tre imprenditori hanno proposto distinti ricorsi (curati da Baldassare Lauria e Alberto Stagno d’Alcontres) in Europa, ricorsi ai quali la Cedu ha risposto ponendo alcune questioni al governo italiano, prima fra tutte se la confisca dei beni a soggetti assolti in un processo penale non violi la presunzione di innocenza. La Corte chiede inoltre di sapere se «le autorità nazionali abbiano dimostrato che i beni confiscati avrebbero potuto essere di provenienza illecita in modo motivato, sulla base di una valutazione obiettiva delle prove fattuali, e senza basarsi su un mero sospetto» e «se l’inversione dell’onere della prova quanto all’origine legittima dei beni acquisiti molti anni prima abbia imposto un onere eccessivo ai ricorrenti». In una lettera indirizzata all’Agenzia dei beni confiscati, alla presidente Meloni e ai ministri dell’Interno e della Difesa, Vito Cavallotti chiede ora di sospendere «qualsiasi eventuale iniziativa volta all’utilizzo dei beni oggetto della confisca di prevenzione» fino alla decisione della Cedu «o, in subordine, fino alla comunicazione da parte del Governo italiano delle sue determinazioni», che dovranno essere comunicate entro il 13 novembre.

«Una sentenza di accoglimento sarebbe la fine del calvario che la mia famiglia ha sofferto - spiega Pietro Cavallotti al Dubbio -. Ma non solo: per tutto il Paese sarebbe un grande passo avanti, perché per la prima volta verrebbe riconosciuto il fatto che il sistema di prevenzione contrasta in alcuni suoi aspetti con la Convenzione europea. E se ciò dovesse accadere, la politica, che fino ad ora è rimasta sorda alle nostre richieste di revisione normativa, dovrà intervenire. C'è da rivedere, per esempio, il rapporto tra processo di prevenzione e processo penale, l'uso di presunzioni e di meri sospetti che ha soppiantato la ricerca della prova. Ma soprattutto occorre impedire che una persona assolta per gli stessi fatti si veda portare via tutto il patrimonio, impendo con questo che la giusta lotta alla mafia si trasformi in una inaccettabile persecuzione di innocenti. Come diceva Falcone, la lotta alla mafia non si fa con le misure di prevenzione in assenza di prove, ma attraverso il rigoroso accertamento dei reati. Su questi temi fino ad ora non è stato possibile discutere, nonostante da parte di alcuni partiti sia stata mostrata una certa apertura. Ci vorrà forse una sentenza di condanna per far aprire gli occhi alla politica». La Cedu non solo ha dichiarato ricevibile il ricorso, ma ha posto al governo tutta una serie di questioni che toccano i punti nevralgici del sistema di prevenzione. E l’esito di questo procedimento potrebbe diventare una sentenza pilota per decidere casi analoghi. Cavallotti, nel corso della passata legislatura, si era fatto promotore di una proposta di legge, scritta con il Partito Radicale e fatta propria da Forza Italia - a condividerla anche l’attuale viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto -, proposta poi finita in un cassetto a causa della caduta del governo. E ora, tra i ddl pendenti, gli unici testi che si occupano di misure di prevenzione hanno un unico obiettivo: la gestione dei beni e la loro destinazione, ignorando tutto il percorso che porta alla loro confisca. La “proposta Cavallotti” mirava invece ad estendere le garanzie penali tradizionali al processo di prevenzione e di istituire un fondo per le aziende dissequestrate. Uno spiraglio però sembra essersi aperto: a sostenere la necessità di mettere mano alla normativa è anche Giorgio Mulè, vicepresidente della Camera in quota FI. «Voglio rivolgere un appello a Meloni affinché si renda conto che non si tratta di indebolire la lotta alla mafia, ma di distinguere i mafiosi dagli innocenti - spiega ancora Cavallotti -. Questo Governo ha fatto della lotta alla mafia una sua priorità. Condivido questa priorità. Aggiungo però che l'altra priorità dovrebbe essere quella di impedire che persone innocenti, come i miei familiari, siano distrutte. Mi rendo conto che la revisione del sistema delle misure di prevenzione non è nel programma della coalizione. Ma, di fronte ad una calamità che miete vite umane e distrugge patrimoni, un governo ha o no il dovere di intervenire? E questo governo, che non ha di certo la colpa delle modifiche che hanno trasformato un giusto strumento di contrasto alla mafia in un inaccettabile mezzo per distruggere innocenti, può avere il grande merito di porre fine ad una clamorosa ingiustizia, riportando l'attuale sistema delle misure di prevenzione a ciò che era in principio la legge Rognoni La Torre. Non ci può essere efficacia senza garanzie, non ci può essere lotta alla mafia senza il rispetto dello Stato di Diritto. Non c'è lotta alla mafia se si calpestano cittadini innocenti».

Nove aziende su dieci sottoposte a sequestro e finite in mano agli amministratori giudiziari - quindi allo Stato - falliscono, continua Cavallotti. Che si chiede: «Che risultati abbiamo raggiunto in tutti questi anni di lotta alla mafia?». Non esistono, però, dati statistici su quante persone innocenti - mai rinviate a giudizio o processate e assolte - siano state colpite da misure di prevenzione. Da qui la necessità, evidenziata ancora una volta da Cavallotti, di avviare un'indagine conoscitiva. Che è difficile da chiedere ad una politica che «appena sente pronunciare la parola mafia si sottrae dal confronto».

«Alla politica voglio chiedere di riflettere sugli effetti che una confisca può avere: perdere tutto dall’oggi al domani, non poter più lavorare, non poter mandare i figli a scuola, non poter fare la spesa - continua -. Se gli effetti sono questi, quali garanzie dobbiamo prevedere?. Quando si legifera non si può partire solo da fini ideali che poi non vengono raggiunti senza confrontarsi seriamente con i risultati e talvolta con i disastri prodotti». Le risposte del governo saranno importanti per capire quale sarà il futuro di queste norme. Che però l’esecutivo potrebbe anche voler mantenere inalterate. «Se così fosse - aggiunge Cavallotti - sarebbe una grande occasione persa per l'Italia. Spero che questo non accada». La richiesta di sospensiva risponde ad un’esigenza reale: i beni dei Cavallotti sono già stati danneggiati e rischiano di diventare inutilizzabili. «Per assurdo - conclude - se i beni venissero assegnati a qualche associazione e la Cedu dovesse darci ragione non riavremmo le nostre case che hanno per noi un grande valore affettivo, ma l’equivalente in denaro. Beni che nel frattempo sono stati vandalizzati: i ladri hanno portato via tutto, anche le piastrelle e i sanitari. Chi ci dovrebbe risarcire? L’Agenzia che non ha vigilato e che dice di non avere risorse? Ci sono danni che si potevano evitare e che non potranno mai essere risarciti. Altri, però, si possono ancora scongiurare».

La Corte ha rivolto al nostro Governo una serie di quesiti. La CEDU si è accorta delle eclatanti abnormità che connotano il sistema italiano delle misure di prevenzione patrimoniali.

L’Italia ha un sistema binario di persecuzione penale, riservato ai reati più gravi, da tempo non più solo di mafia. Dove non riesco a sanzionarti con la prova, ti sanziono con il sospetto, anche se la prova ti assolve da ogni accusa. Ora la CEDU ne chiede conto. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 29 Luglio 2023 

Finalmente la CEDU si è accorta delle eclatanti abnormità che connotano il sistema nostrano delle misure di prevenzione patrimoniali, un unicum mondiale del quale dovremmo infatti semplicemente vergognarci. Grazie ad esso, può regolarmente accadere che Tizio, assolto da ogni accusa penale, si veda pur tuttavia confiscare tutti i suoi beni, sulla base di un assioma indecente: è sì innocente, ma è tuttavia pericoloso. Si tratta, in sostanza, di un sistema binario di persecuzione penale, riservato ai reati più gravi, da tempo non più solo di mafia. Dove non riesco a sanzionarti con la prova, ti sanziono con il sospetto, anche se la prova ti assolve da ogni accusa. Dunque niente carcere, ma ti riduco alla miseria.

Dobbiamo la svolta ad una famiglia di imprenditori calabresi, gran lavoratori e persone per bene, i signori Cavallotti, che hanno esattamente subito una simile infamia. Arrestati, processati e definitivamente assolti da accuse di intraneità alla ‘ndrangheta, sono stati tuttavia interamente spossessati dei loro beni, con le loro aziende affidate alla vorace spoliazione degli amministratori giudiziari.

Su ricorso di questi benemeriti, ora la CEDU ha rivolto al nostro Governo una serie di quesiti ai quali la Presidente Meloni ed i Ministri Nordio e Piantedosi dovranno accuratamente rispondere entro il prossimo 13 novembre. Da quei quesiti sembra trasparire una sorta di incredulo stralunamento della Corte Europea, che evidentemente fatica a credere ai propri occhi: “Nel caso di una assoluzione in un processo penale, la confisca dei beni vìola la presunzione di innocenza?” (ma non mi dire); è “proporzionale è necessaria?” (difficile a credersi); “è forse una sanzione penale surrettizia, violativa dell’art. 7 della Convenzione Europea?” (eh già).

E tanti altri interrogativi ficcanti, secchi e non equivocabili. Siamo forse – o almeno ci piace augurarcelo – al redde rationem, che potrebbe segnare l’inizio della fine di un sistema legalizzato di abusi il quale, tanto più in presenza di giudizi penali assolutori, supera ogni limite di tollerabilità in uno Stato di Diritto. Un sistema che – in una malintesa prospettiva di difesa sociale – rende il sospetto più forte della prova, sanzionando ben più gravemente che con la privazione della libertà personale chi non saprà – non potrà – concretamente difendersi dalla brutale spoliazione di tutti i suoi beni. Un sistema in ordine al quale, in un passato anche recente, il Ministro Carlo Nordio ha scritto parole di fuoco, da liberale autentico quale egli è; e che invece il Ministro Piantedosi ha pochi giorni fa magnificato, sostenendo che – udite, udite – tutto il mondo ce lo invidierebbe.

Bella prova per il Governo, dunque: da seguire con molta, molta cura.

Gian Domenico Caiazza

Attaccare le misure di prevenzione è da mafiosi”: il procuratore fa cadere l’ultimo muro. In un convegno organizzato dai penalisti in Sicilia, il capo dei pm di Palmi, Crescenti, ha parole pesantissime per “L’inganno” e per Cavallotti, descritto come una vittima nel libro di Barbano ma ritenuto dal magistrato “colpevole” di aver denunciato la barbarie del codice Antimafia. Errico Novi su Il Dubbio il 23 maggio 2023

È ancora difficile parlarsi. È ancora quasi impossibile discutere con serenità di misure di prevenzione, dello storture incistate nel codice Antimafia. Della barbarie che si realizza talvolta in virtù di quelle norme.

Lo dimostra il dibattito, peraltro di altissimo livello giuridico e straordinaria intensità emotiva, organizzato nello scorso fine settimana a Capo d’Orlando da Camera penale e Ordine degli avvocati di Patti, in Sicilia. Al centro della contesa, “L’inganno”, il libro di Alessandro Barbano, meritoriamente assurto a caso editoriale-giudiziario degli ultimi mesi, con la sua potente denuncia sugli “abusi” commessi dai “professionisti del bene”. La discussione è stata inserita nel più ampio programma della due giorni che l’avvocatura di Patti ha dedicato alle “Emergenze del sistema penale”.

Vi partecipano un moderatore emozionante nel suo racconto come il giornalista Nuccio Anselmo, un testimone, anzi una vittima degli abusi di cui parla Barbano, cioè Pietro Cavallotti, e un magistrato, il procuratore di Palmi Emanuele Crescenti. Cavallotti non può che rievocare l’assurdità, la barbarie appunto delle vicende che hanno polverizzato le imprese della sua famiglia e vanificato il sudore di due generazioni: «Mio padre e i suoi fratelli hanno visto il loro procedimento di prevenzione concludersi con una confisca definitiva nonostante fosse definitiva anche l’assoluzione, nel processo penale vero e proprio, dall’accusa di 416 bis. Noi figli abbiamo visto aprire a nostro carico un ulteriore processo penale, con parallelo procedimento di prevenzione, per “trasferimento di esperienza lavorativa” da parte dei nostri genitori, siamo stati assolti e almeno noi abbiamo ottenuto, su nostra impugnazione, anche l’annullamento dei sequestri. Peccato che siamo passati direttamente dall’amministratore giudiziario al curatore fallimentare, visto che il primo ha potuto tralasciare, in virtù della legge che glielo consente, il pagamento di fornitori e tasse, anche se si è ben guardato dal congelare i propri compensi, in tutto 700mila euro».

Da lì, l’inevitabile, lapidario giudizio: «Una misura di prevenzione che toglie il patrimonio agli assolti non è giustizia: è barbarie. Dobbiamo combattere la mafia senza distruggere le persone che con la mafia non c’entrano niente», ha concluso Cavallotti dopo la sintesi storiografica sul terrificante sistema di ingiustizie avallato dal codice Antimafia.

Ecco, così come è potente il racconto di Barbano, lo è anche una simile testimonianza “dal vivo”. Di fronte a tanta forza narrativa, Crescenti, che pure ha riconosciuto ed enumerato storture e possibili rimedi della prevenzione antimafia, si è difeso in modo particolarmente “ruvido”. Primo: «Non leggo libri di chi ha subito processi», avverte in riferimento a “L’inganno” che parla dello stesso Cavallotti e di altri casi analoghi, «così come non leggo un libro sulla malasanità scritto da chi è stato vittima di errore medico».

E già non è una mano tesa verso il dialogo. Poi: «Tra le Sezioni unite e lei, dottore Cavallotti, mi fido delle prime», replica a proposito del passaggio in cui l’imprenditore aveva ricordato la controversa pronuncia sull’assenza di incompatibilità per il magistrato chiamato a giudicare i ricorsi avverso le misure di prevenzione che lui stesso ha emesso. E va bene. Ma poi Crescenti ha decisamente alzato il tiro quando ha aggiunto «guai a chiedere di eliminare le misure di prevenzione, perché così si fa il gioco della mafia», e soprattutto quando ha detto che è «mafiosità» indicare come un problema dello Stato «l’aggressione condotta attraverso le misure di prevenzione».

Ora, è chiaro che la discussione si è surriscaldata. Accorato e impietoso, seppure impeccabile nelle argomentazioni, è stato pure il tono di Cavallotti. Eppure la mafiosità evocata dinanzi a chi è stato vittima innocente delle misure antimafia è insostenibile. Lo ha fatto notare, a Crescenti, il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza, che non ha mancato di ricordare la «vergogna e la barbarie di amministratori giudiziari che non rispondono dei loro atti». Il procuratore di Palmi l’ha a propria volta condivisa. Ma poi ha ribadito che è «mafioso prendere spunto da un caso per aggredire il sistema».

Il discorso è che lo scarto fra l’enfasi con cui l’Antimafia — non Crescenti, al quale va riconosciuto di non negare la necessità, per esempio, di una «maggiore interdipendenza fra processo penale e misure di prevenzione» — ha sempre proclamato l’intangibilità di quel sistema, da una parte, e le ingiustizie che d’altra parte quel sistema può produrre, ecco, quello scarto provoca uno stridore così acuto che parlarsi diventa impossibile. E perciò, siamo dinanzi all’ennesima dimostrazione di quanto sia urgente rendere più coerenti con lo Stato di diritto le misure antimafia. Ne guadagnerebbe lo stesso spirito costruttivo di un confronto come quello dello scorso fine settimana.

Barbano: “Mi fa paura un pm che bolla come mafiose le mie critiche all’antimafia”. Il giornalista e autore de “L’inganno” replica, in una lunga intervista, al procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, che aveva additato come pericolose le obiezioni sulle misure di prevenzione. Errico Novi su Il Dubbio il 24 maggio 2023

Emanuele Crescenti è un procuratore della Repubblica. Capace di vivere la propria funzione con un non trascurabile grado di eroismo: la esercita a Palmi, nel territorio a più alta concentrazione ’ndranghetista del Paese. Ora, il procuratore Crescenti, come riferito dal Dubbio, ha duramente replicato, durante un convegno, a una vittima della in-giustizia antimafia come Pietro Cavallotti. Quindi ha apostrofato l’autore di un libro critico con il sistema antimafia come Alessandro Barbano. Riguardo al secondo, ha sostenuto che trarre da un caso singolo lo spunto per attaccare le misure di prevenzione è «mafioso». E “L’inganno”, il libro “scandalo” di Barbano sugli “usi e soprusi dei professionisti del bene”, sulla barbarie consumata a danno degli innocenti grazie alle norme della “prevenzione”, di quei casi è strapieno. La reazione di un magistrato di fronte a queste verità – processuali, cioè accertate nei limiti dell’umano – è dunque di scorgere un “collaborazionismo” in chi ne fa derivare una critica al codice Antimafia.

Vista la situazione, ci sembra giusto parlarne con te, Alessandro Barbano. A partire però da un altro fatto, concomitante col resoconto del conflitto dialettico fra l’avvocatura e il procuratore Crescenti. Sempre ieri, su un giornale come il Manifesto, noto per i titoli dalla folgorante genialità, si dava notizia dell’elezione di Colosimo al vertice della commissione Antimafia con il seguente epitaffio: “Capaci di tutto”. Vi si coglie l’anatema contro chi sconfessa il dogma antimafia, e sceglie per la Bicamerale una persona “colpevole” di essersi fatta fotografare con un condannato per eversione. C’è pure l’assimilazione fra chi “osa” tanto e chi sta con la mafia stragista. C’è insomma la linea rossa, sottile o meno, che separa il bene, e i suoi “professionisti” appunto, dal male.

Sì, in quel titolo ci sono molte cose. Ci vedo la teoria del doppio Stato, il complottismo come religione civile, come autobiografia della Nazione. E naturalmente ci vedo la censura moralistica di chi si sente autorizzato a dare patenti di idoneità e presentabilità rispetto all’assunzione di ruoli istituzionali. E soprattutto, direi, c’è una logica di potere: della serie, “l’Antimafia è roba nostra”. Cioè, l’Antimafia, la sua struttura, i suoi organismi, appartengono a un campo ben determinato. Non possono essere appannaggio di altri che a quel campo sono estranei.

Ecco, ma qui siamo a una rivendicazione di inaccessibilità (per gli estranei) che rimanda alla mistica dell’antimafia. Ai suoi dogmi. E torniamo al procuratore Crescenti, che nel suo liquidare come “mafioso” il discorso critico sulle misure di prevenzione, sembra assumere la rigidità di chi preserva un dogma.

Se critichi, se denunci la barbarie delle misure di prevenzione, se spieghi quanto siano incompatibili con lo Stato di diritto, sei un nemico. Non hai diritto di parola. La narrazione dell’antimafia non è contendibile, quindi non esistono vittime dell’antimafia, e se esistono sono sostanzialmente mafiosi, e non dovrebbero essere invitate a un tavolo in cui si parla di mafia, riservato solo ai rispettabili. Il procuratore Crescenti non contesta nel merito chi critica l’antimafia, gli addebita anzi una mafiosità. Ma lo dice solo incidentalmente a chi è autore del libro…

Che sei tu…

…lo dice soprattutto agli avvocati, che si sono intestati il diritto, la pretesa, l’impudente arbitrio di mettere in discussione il codice Antimafia. E questo sinceramente mi fa paura.

Esattamente perché?

Perché a definire mafioso il discorso che segnala le aberrazioni delle misure antimafia non sono io, che ho solo le parole come strumento: lo fa un magistrato che ha nelle mani armi pervasive, consegnate negli ultimi quarant’anni dalla politica alla magistratura. Armi che producono effetti collaterali. Mi fa paura in quanto destinatario dell’avviso, se posso chiamarlo così, ma anche come cittadino, perché il procuratore Crescenti rappresenta l’azione penale nel Mezzogiorno d’Italia, cioè l’istituzione che incarna la forza repressiva dello Stato. Il procuratore è anche un docente della Scuola superiore della magistratura: se trasferisce un simile approccio ai nuovi pm e ai nuovi giudici, c’è da temere che il dogmatismo dell’antimafia sia destinato a irrigidirsi anziché ad evolvere.

Crescenti ha reagito con quelle frasi sulla “mafiosità” alle dure critiche sulle misure di prevenzione, ma ha anche razionalmente riconosciuto l’urgenza dei correttivi, li ha elencati. È come se la prima parte della replica riflettesse anche una sorpresa, uno spiazzamento nel verificare che la critica alle misure antimafia è assai più strutturata di quanto si possa immaginare.

C’è sicuramente la sorpresa di cui parli. Ma a me sembra vi sia anche la difesa di un potere immane, connesso all’esercizio delle prerogative attribuite dal codice Antimafia alla magistratura. Mi spiego. Le norme su sequestri, confische e interdittive consentono di infliggere delle pene, al di là di come la Corte costituzionale ha qualificato, con un artificio sofistico, tali misure. Il codice Antimafia cioè consente di somministrare provvedimenti afflittivi senza provare la colpevolezza di chi li subisce. È un potere immane, appunto: si può infliggere una pena a un innocente. Siamo oltre la meccanica tipica dei regimi che, se mai, falsificano le prove della colpevolezza: siamo al potere del sovrano nelle monarchie assolute, al potere di dare la morte a chi è non cittadino ma suddito. Ecco, se non si ha idea di che strumento di distruzione di massa sia il codice Antimafia, della possibilità di confiscare beni agli innocenti, a chi è assolto in un processo, ai terzi ignari che abbiano acquisito quei beni lecitamente, se non ci si rende conto di quanto sia assoluto questo potere, non si comprende la sorpresa di chi si trova dinanzi all’ipotesi anche remota che tutto questo sia messo in discussione. Quel potere, va ricordato, non esiste in nessuna democrazia d’Europa.

Eppure Crescenti si è anche detto d’accordo sulla necessità di correggere le misure di prevenzione con un «meccanismo probatorio serio», con una «interdipendenza» fra tali provvedimenti e il processo penale vero e proprio.

Mi chiedo: se tale disponibilità è concreta, perché nessuno ci ha mai pensato, in quarant’anni? Perché in questi anni, di fronte a ogni intervento sul codice Antimafia, a cominciare dalla riforma Orlando, proprio i magistrati hanno invece fatto pressione affinché questi poteri speciali fossero estesi ai reati contro la Pa, nonostante il parere contrario di tanti autorevolissimi giuristi? E perché, se la disponibilità a eliminare gli aspetti abnormi della legislazione antimafia è effettiva, quando poi si discute di riforme, la premessa è che “però, per i reati più gravi, non deve cambiare nulla”? Sediamoci domattina e stabiliamo che una misura di prevenzione non può essere adottata a fronte di una sentenza penale di assoluzione.

Se l’antimafia è un sistema dogmatico, la sua liturgia riflette alla perfezione il dogmatismo e l’intransigenza tipici dei fondamentalismi.

Ecco, siamo all’altro aspetto che considero decisivo: il metalinguaggio. Inquinato da una logica di polizia. È una forma di “fascismo inconsapevole”. Lo rappresenta perfettamente, secondo la logica che i giuristi definirebbero a contrariis, una sentenza illuminata con cui pochi giorni fa la Cassazione ha stabilito che il ricorso alle interdittive non può basarsi su una mera familiarità mafiosa del destinatario. È stato travolto l’automatismo per cui chi ha un nonno, uno zio o un padre mafioso debba rassegnarsi a subire l’interdittiva.

Anche il Consiglio di giustizia amministrativa siciliano ha adottato, persino in anticipo rispetto alla Suprema corte, tale orientamento.

Ecco, possiamo rallegrarcene, ma dobbiamo anche chiederci, da intellettuali, perché sia necessario affermare con una sentenza ciò che dovrebbe essere pacifico in uno Stato di diritto. Anche un bambino sa che non è giusto far pagare ai figli le colpe dei padri. Ma se le supreme giurisdizioni devono sancirlo con una sentenza è perché, per trent’anni, il procedimento di prevenzione ha risposto a una logica di polizia. E così è stato, a ben vedere, non solo per la prevenzione, ma anche per la giustizia sia cautelare sia ordinaria.

E tutto è lecito perché una retorica moralista e dogmatica ha impedito qualsiasi esercizio critico.

Un metalinguaggio divenuto, di fatto, in modo inavvertito, il racconto della Repubblica. Un linguaggio intuitivo: nei secoli, la civiltà ha modellato il diritto con una logica controintuitiva, cioè ha frapposto tra il fine e il mezzo dell’azione penale tutta una serie di paletti grazie ai quali la legge ha assecondato l’irripetibilità dei fatti umani, tutti l’uno diverso dall’altro.

A parità di indizi puoi trovare un colpevole come un innocente.

Esatto. Ma in questi ultimi quarant’anni si è affermata la logica contraria: un diritto intuitivo, reattivo, secondo cui il fine giustifica i mezzi. Costruito su allusioni e suggestioni. Capace di informare lo stile dei giornali che scrivono e titolano “è stato assolto, ma secondo l’informativa della Dia, dieci anni prima era a cena con...”.

E così hanno liquidato Colosimo come “unfit”.

Lei ha spiegato di conoscere Ciavardini per aver sostenuto un’associazione impegnata nel reinserimento dei detenuti. Ma non poteva sfuggire a un altro assioma: l’irredimibilità del male. Sostenuto da chi con una mano brandisce la Costituzione e con l’altra finge di non sapere che, in base alla Costituzione, la pena deve tendere al recupero del condannato.

I Beni Confiscati.

Cosa loro. La pessima gestione pubblica dei beni confiscati alla mafia. Giacomo Di Girolamo su L'Inkiesta il 17 Novembre 2023

I Comuni hanno poche risorse economiche per le tantissime proprietà sequestrate ai boss mafiosi. Sono ancora troppo lunghi i tempi dalla confisca all'assegnazione: gli immobili perdono valore o falliscono per la gestione degli amministratori giudiziari che agiscono più come curatori fallimentari che come manager

Da un certo punto di vista, sembra una versione aggiornata e siciliana del mito della collettivizzazione delle repubbliche sovietiche. È il Comune di Roccella Valdemone, in provincia di Messina. Conta seicentocinquantasette anime. E la bellezza di duecentottantacinque beni immobili e terreni confiscati alla mafia e consegnati al Comune. In pratica, quasi un bene ogni due abitanti. La proprietà privata che diventa di proprietà della collettività, ossia dell’intera società. La cosa più vicina al comunismo che esista, se vogliamo.

Nel piccolo borgo, però, che si allunga tra le rovine del castello e la Madrice, non sanno che farsene di tutto questo ben di Dio. Anzi, per il Comune, duecentottantacinque beni da gestire sono un problema, una grande sciarada Roccella Valdemone ha il record italiano nella classifica degli enti pubblici che gestiscono beni confiscati, in rapporto con gli abitanti.

Piccola parentesi: ai tempi di Mani Pulite, sembra un secolo fa, uno dei magistrati più in vista, Piercamillo Davigo, nei suoi interventi pubblici, raccontava un aneddoto: una volta erano venuti degli americani, in visita al Palazzo di Giustizia, a Milano, per capire come funziona la lotta alla corruzione in Italia, e quando Davigo e i suoi colleghi erano arrivati al tema della prescrizione, i traduttori si erano confusi, perché non riuscivano a spiegare il concetto per gli americani, non sapevano proprio come dirglielo, che in Italia c’è un istituto del diritto per il quale dopo un tot di tempo la pena per un reato non si sconta più. Per Davigo era motivo di grande sconforto, questa eccezionalità italiana.

Quegli stessi traduttori, oggi, avrebbero (anzi, hanno) difficoltà a spiegare agli stranieri il concetto di «sequestro preventivo e confisca dei beni», perché anche questa è un’esclusiva italiana, è un’invenzione tutta nostra, e l’Italia è il Paese che per primo al mondo (grazie a un’intuizione del deputato Pio La Torre, che fu barbaramente assassinato anche per questo) toglie i beni ai mafiosi, le loro fonti di ricchezza, e li restituisce alla collettività. Pio La Torre aveva capito che l’attività di contrasto alla mafia deve colpire prioritariamente i patrimoni e gli interessi economici delle organizzazioni criminali, ma la vera innovazione rivoluzionaria di quella intuizione è stato il riutilizzo pubblico a fini sociali dei beni sequestrati e confiscati alle mafie, concretizzatosi con la legge n. 109/96.

Negli anni il fenomeno è cresciuto, ha creato distorsioni notevoli, come racconta la recente condanna definitiva del magistrato Silvana Saguto, che gestiva in maniera padronale alcuni beni sequestrati, e oggi sconta una pena per corruzione e concussione. Ma il suo non è un caso isolato. Sono stati diversi gli amministratori giudiziari condannati per aver rubato soldi dalle casse delle ditte sequestrate ai boss. Quattro ex amministratori di un’altra azienda sottoposta non al sequestro ma al controllo giudiziario, la Italgas, hanno presentato invece al Tribunale di Palermo una parcella da centoventi milioni di euro, per un solo anno di gestione.

La Corte Europea per i diritti dell’uomo sta invece esaminando il caso della famiglia Cavallotti. Sono quattro fratelli che finirono sotto processo per reati di mafia. Il reato di turbativa d’asta fu dichiarato prescritto, mentre arrivò un’assoluzione nel merito dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Scattò ugualmente il sequestro dei beni. In sette anni, però, delle loro aziende sono rimaste le macerie: sotto l’amministrazione giudiziaria sono andati in malora, con danni per undici milioni di euro.

L’Italia ha anche un’Agenzia Nazionale dei Beni Confiscati, e le classifiche su sequestri e dintorni sono molto utili a capire cosa si muove nella lotta alla criminalità organizzata nel paese. In termini assoluti il Comune che ha più beni confiscati è Palermo, con millecinquecentocinquantotto. Sui primi dieci comuni, sei sono siciliani. La Regione ha da sola più un terzo dei beni per cento dei beni confiscati alle organizzazioni criminali di stampo mafioso.

La realtà dietro i numeri racconta però una storia molto diversa. Per la maggior parte si tratta di immobili e terreni in stato d’abbandono, per tanti motivi: perché i Comuni non hanno le risorse per gestirli, perché dal sequestro all’assegnazione passano talmente tanti anni che gli immobili si rovinano, oppure per una precisa volontà politica (in diversi casi, i beni sono formalmente sequestrati ma rimangono nella disponibilità dei proprietari). 

Per non parlare delle aziende: nove aziende confiscate su dieci falliscono in breve tempo, principalmente perché gli amministratori nominati dai tribunali sono commercialisti e consulenti che hanno un approccio da curatori fallimentari, non certo da manager, e poi perché un’azienda che fa parte dell’economia mafiosa ha una sorta di doping; e quando rientra nella legalità, si scontra con la realtà del costo del lavoro, del rispetto delle scadenze fiscali, eccetera. 

In un dossier, la Commissione Antimafia dell’Ars ha fatto una fotografia preoccupante: su settecentottanta aziende siciliane sottratte dallo Stato a Cosa nostra solo trentanove risultano attive. C’è di più: delle quattrocentocinquantanove imprese per cui è stato portato a compimento l’iter gestorio, nell’isola solo undici non sono state destinate alla liquidazione: nel dettaglio, nove sono state definitivamente vendute e due date in affitto.

Il mantra che si ripete spesso in Sicilia è che dai beni confiscati potrebbero nascere ricchezza e lavoro. Ed è vero, nei pochi casi in cui si è riusciti ad attivare un circuito virtuoso. Ma l’ultima mazzata adesso viene dalla riprogrammazione dei fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza del governo Meloni. 

Un importante asset del Next Generation Eu era infatti destinato al recupero e alla valorizzazione di aziende e beni confiscati, ma le somme sono state azzerate nella recente rimodulazione fatta dal ministro Raffaele Fitto. Sono stati tagliati così ottantadue milioni di euro. A Caltanissetta, ad esempio, su un bene confiscato, doveva sorgere un Polo logistico ed espositivo dell’agroalimentare mediterraneo dal valore di otto milioni di euro. Cancellato. Così come il progetto di Ristrutturazione e riqualificazione di un immobile da destinare ad attività connesse all’agricoltura nel feudo Verbumcaudo a Polizzi Generosa, nel palermitano. Si tratta dei terreni confiscati negli anni Ottanta a Michele Greco, il “Papa” di Cosa nostra, grazie all’impegno diretto del magistrato Giovanni Falcone. Oggi il feudo è gestito da una cooperativa sociale.

C’era poi il recupero di un albergo in provincia di Trapani, una casa comunità per le donne vittime di violenza ad Agrigento, un progetto simile a Catania. A Messina era prevista la creazione, sempre in un terreno confiscato, di una grande area ludica e sportiva, così come in altri immobili a Ragusa e Siracusa dovevano sorgere degli asili nido. Tutto saltato.

Da parte sua, il presidente della Regione, Schifani, sostiene che ha avuto l’impegno dal governo Meloni che si troveranno i soldi in altro modo, ma in pochi ci credono. Sarà, ma sembra che, ancora una volta, le ragioni dello sviluppo legato alla legalità sono passate in secondo piano. Alla faccia di Pio La Torre. E a Roccella Valdemone, come nel resto della Sicilia, aspettano.

La denuncia: inutilizzati molti beni confiscati ai boss. Lodovica Bulian l'11 Maggio 2023 su Il Giornale.

Tra gli archivi affollati e la lunghezza dei procedimenti. La proposta: "Tavolo ad hoc"

Un bene confiscato alla camorra e usato per l'inclusione sociale 

É un buco nero quello dei beni confiscati alle mafie. Da anni si susseguono allarmate relazioni della Corte dei Conti sul patrimonio sequestrato alla criminalità organizzata, gestito dall'Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati.

Nell'ultima delibera della sezione di controllo pubblicata ieri, la Corte certifica di nuovo il fallimento del sistema. Buona parte dei beni - sopratutto immobili - rimane inutilizzata o versa in condizioni di totale degrado. Il paradosso è che l'Agenzia non ha nemmeno contezza di quanti e di dove siano tutti i beni. Si tratta però di un tesoro pubblico, che negli obiettivi della legge dovrebbe essere restituito alla collettività come segnale di vittoria dello Stato sulle mafie e di riscatto per la comunità. La Corte dei conti spiega che «malgrado le cospicue risorse umane e finanziarie impiegate, il volume delle informazioni raccolte sui beni sequestrati o confiscati non è ancora confluito in un sistema di dati affidabile, completo e pienamente consultabile». Molti beni dovrebbero essere dati in gestione ai comuni, ma spesso i costi per gestire e ristrutturare gli immobili - che arrivano agli enti locali molti anni dopo il sequestro in stato di degrado - sono troppo elevati. Così anche le onlus e le associazioni hanno le mani legate. Secondo i giudici contabili «gli ostacoli maggiori sono la lunghezza dei procedimenti, la ridotta disponibilità finanziaria dei Comuni e degli enti del terzo settore».

Secondo la relazione semestrale al Parlamento del dicembre 2021 del ministero della Giustizia, a quella data i beni confiscati - tra confisca definitive e non - inseriti nel database dell'Agenzia nazionale erano 95.106. Di questi, 34.909 erano quelli confiscati in via definitiva, e dunque pronti per essere assegnati alla collettività. Eppure solo 8.465 sono stati effettivamente «destinati» ai Comuni per un loro riutilizzo. Ma le cifre, come abbiamo visto, sono incerte. Uno dei nodi, secondo la Corte dei Conti, è «la scarsa conoscenza della loro esistenza e delle modalità di acquisizione», che «costituiscono significativi elementi di intralcio al riutilizzo sociale dei beni nell'ambito delle politiche di contrasto alle mafie».

I beni arrivano in gestione all'Agenzia nazionale solo dopo la confisca definitiva, e in stato di totale abbandono, visto che l'iter giudiziario delle misure di prevenzione può durare diversi anni. Anche se l'Ente avrebbe poteri di «custodia», per evitarne la rovina. Per la magistratura contabile le criticità «richiedono una rinnovata capacità di concentramento delle energie umane e finanziarie per restituire slancio e credibilità all'azione istituzionale». Basti pensare che spesso gli stessi Comuni in cui sono dislocati i beni sequestrati non sanno nemmeno della loro esistenza. Secondo le stime certificate dalla relazione della commissione parlamentare d'inchiesta sui beni confiscati datata 2021, «il 63 per cento dei Comuni può non essere a conoscenza di avere immobili di cui richiedere l'assegnazione». Ieri Cgil e Libera chiedevano «un tavolo di lavoro e di confronto fra i soggetti sociali e il Governo sulla gestione dei beni sequestrati e confiscati». Per il sindacato il patrimonio inutilizzato dallo Stato sarebbe una risorsa di edilizia pubblica: «Occorre istituire dei fondi a favore dei Comuni per cofinanziare l'acquisto e la ristrutturazione».

Estratto dell'articolo di Roberto Marrone per fanpage.it il 23 aprile 2023.

Subito dopo la provincia di Palermo, quella di Trapani in Sicilia si conferma uno dei territori con più beni confiscati alla criminalità organizzata. Per la precisione a oggi ammontano a 327 (per un valore di circa 13 milioni di euro) i beni sequestrati ai mafiosi trapanesi e attualmente in disuso. 

[…] 

ben 121 i beni riconducibili all'ex superlatitante Matteo Messina Denaro, di proprietà non solo di familiari, ma di vari boss locali e di suoi presunti affiliati che hanno permesso il suo mantenimento durante gli anni della latitanza. 

Dopo diversi anni di attesa, saranno 288 sui 327 totali i beni che verranno immediatamente assegnati così come illustrato durante la conferenza stampa. In particolare, toccherà al comune di Castelvetrano, città natale di Matteo Messina Denaro, il numero maggiore di beni confiscati.

Nello specifico toccheranno 109 beni per un valore di 4,5 milioni: 73 terreni agricoli, 3 abitazioni, 3 appartamenti in condominio, 10 locali di deposito, 1 fabbricato in costruzione, 6 terreni, 3 box garage, 8 terreni con fabbricato rurale e 2 altri beni. 

A Campobello di Mazara, dove ha vissuto il boss negli ultimi anni, toccheranno 49 beni (1,8 milioni): 10 appartamenti in condominio, 3 abitazioni indipendenti, 5 magazzini, 1 villa, 1 terreno con fabbricato rurale, 3 terreni agricoli, 2 negozi, 3 box garage, 21 terreni. 

[…] A Salemi invece sono 54 i beni che verranno messi a disposizione, per un valore di 514.576 euro, A Custonaci 52 beni (per un valore di quasi 2 milioni) tra fabbricati, alberghi e pensioni. Castellammare del Golfo riceverà 49 beni (539.988 euro), a Trapani toccheranno 5 beni (23.445 euro), tre terreni agricoli (4.184 euro) andranno a Paceco. Un albergo dal valore di 3,5 milioni andrà al comune di Valderice. Un’abitazione indipendente (56.160 euro) al comune di Partanna. Un terreno agricolo (3.014 euro) a Marsala e un terreno dal valore di 5.782 euro al comune di Alcamo. 

[…]

La mappa dei beni confiscati alle mafie, tra passi avanti e criticità. L'Indipendente il 9 marzo 2023.

Un sano ed efficace riutilizzo dei beni confiscati per un pregnante progetto di depotenziamento del potere mafioso: è proprio questo, nella cornice di un tempo storico in cui le organizzazioni criminali presenti sul territorio sparano poco e "fatturano" molto, uno dei principali obiettivi della lotta alla mafia. Al momento, i beni confiscati in Italia sono più di 54mila: sulla loro gestione, però, non mancano le zone d'ombra. Sia sulla mancata trasparenza troppo spesso rilevata nell'azione degli Enti chiamati a gestirli, sia rispetto all'effettivo riutilizzo in favore del bene comune cui l'Amm...

La società civile che si ribella: Libera e la gestione dei beni confiscati. Valeria Casolaro e Salvatore Toscano su L'Indipendente l’11 Marzo 2023

Un’immensa distesa di verde che si perde all’orizzonte. 120mila metri quadrati di terreno che ospitano 350 orti urbani e oltre 5000 alberi. Così si presenta ai miei occhi la Masseria Antonio Esposito Ferraioli, il bene confiscato più grande dell’area metropolitana di Napoli intitolato a una delle vittime della criminalità organizzata.

Antonio Esposito Ferraioli lavorava come cuoco alla mensa dell’azienda FATME a Pagani, in provincia di Salerno. Ferraioli era però anche un sindacalista che per il suo impegno – come nelle indagini sull’utilizzo di carne di provenienza sospetta all’interno della mensa – venne freddato sotto casa la notte del 30 agosto 1978. Il suo ricordo vive tra le scritte disseminate qua e là all’interno del bene, nei gesti dei volontari e nell’organizzazione degli eventi, come quello realizzato lo scorso 5 marzo, in occasione del sesto compleanno della Masseria.

Prima di addentrarmi nel verde e incontrare i volontari, attratto da un murales colorato, poso lo sguardo su una struttura rurale che scopro essere la Masseria. Dovrebbe trattarsi del centro nevralgico delle attività svolte dalla rete di associazioni e cooperative che ha ridato dignità ai 120mila metri quadrati di bene confiscato. Il condizionale è d’obbligo, visto che i lavori di ristrutturazione necessari alla sua rinascita hanno incontrato pesanti ostacoli politici e burocratici. Dopo la confisca alla camorra negli anni ‘90, il bene ha infatti vissuto venti anni di abbandoni e incuria, durante i quali l’occupazione abusiva a vario titolo da più persone l’ha fatta da padrona. Una condizione che in Italia diventa spesso prassi nel sistema di gestione dei beni sottratti alla criminalità organizzata: tra la confisca e l’assegnazione passano anni, se non decenni, come nel caso della Masseria. In questo lasso di tempo s’insediano persone senza alcun titolo, spesso vandalizzando e distruggendo il possibile a ridosso dell’assegnazione.

È ciò che successo anche ad Afragola quando si è arrivati alla messa al bando del bene sottratto al clan Magliulo. L’attuale direttore della Masseria, Giovanni Russo, mi racconta che nel 2017 ad accogliere la nuova gestione, formata da una rete di realtà sociali, fu una «situazione delirante», dal momento in cui all’indomani della pubblicazione del bando il bene confiscato venne dato alle fiamme, distruggendo la quasi totalità del pescheto presente. In più, nei mesi che precedettero l’assegnazione, la Masseria fu oggetto di ripetuti sversamenti di rifiuti. Iniziò così la seconda Odissea per quello che dovrebbe essere il fiore all’occhiello di ogni amministrazione perché luogo di sconfitta delle mafie, come recita il cartello all’ingresso. Invece, come mi spiega Giovanni, ancora oggi «la Masseria è attanagliata da una serie di questioni spiacevoli». Il ritardo istituzionale dell’assegnazione del bene confiscato è soltanto la punta di un iceberg che cerca quotidianamente di rallentare il cammino della Masseria Ferraioli e dunque la sua totale restituzione alla collettività. Negli ultimi anni si è perso il conto delle intimidazioni ricevute, sfociate spesso in furti mirati e strategici. L’ultimo, in ordine cronologico, risale alla fine di gennaio e interessa le impalcature di ferro del cantiere che dovrebbe far rinascere la Masseria. Si tratta dell’ennesimo stop ai lavori finanziati dall’Unione europea che aspettano di essere completati – pena la perdita del milione e mezzo di euro di fondi – entro la fine dell’anno. Va ricordato che tale somma di denaro è stata versata dallo Stato italiano nelle casse del Comune di Afragola nel giugno 2018 per far partire i lavori e ristrutturare quello che era il fortino del clan.

Giovanni mi descrive con orgoglio i progetti che dovrebbero sorgere all’interno della Masseria: dalla casa di accoglienza per donne e minori a un centro di formazione, passando per un bar al negozio in cui vendere ciò che viene prodotto, luoghi strumentali all’avviamento dei percorsi di impresa sociale capaci di creare posti di lavoro e combattere la criminalità organizzata anche sul piano occupazionale ed economico. L’entusiasmo di Giovanni cede il passo all’amarezza quando mi racconta dell’opposizione del Comune di Afragola attraverso un’inerzia amministrativa tale da rinviare l’inizio dei lavori fino al 2021, quando il Prefetto di Napoli nominò commissario prefettizio il vice prefetto Anna Nigro, la quale avviò finalmente il cantiere. Un entusiasmo durato pochi mesi, dal momento in cui la giunta di destra (guidata da Fratelli d’Italia), insediatasi nell’ottobre dello stesso anno grazie alla vittoria del candidato Andrea Pannone, ha iniziato a seguire la strada tracciata dalla vecchia amministrazione procedendo a rilento nella gestione dei lavori, affidati per legge al Comune e non all’ente sociale (beneficiario indiretto).

Ricordando il principio di sussidiarietà, presente nella Costituzione italiana, con Giovanni mi pongo il medesimo interrogativo: perché lo Stato, che di fronte alle minacce subite dalla Masseria ha mostrato la propria solidarietà, non interviene sollevando il Comune dal compito di condurre i lavori? Una domanda lecita, vista l’inadempienza dell’ente minore manifestatasi anche in una successiva richiesta che ha spiazzato la comunità vicina alla Masseria. L’IKEA deve infatti rimborsare il Comune di Afragola, attraverso una serie di opere compensative, una cifra pari a 10 milioni di euro. A tal proposito, l’ente ha chiesto al colosso svedese la realizzazione di uno svincolo autostradale che andrebbe a distruggere la nuova realtà sociale. La sua esistenza è inoltre minacciata da una delibera del 25 febbraio 2022 con cui il Comune di Afragola ha stabilito la necessità di costruire un canile su tutta la superficie della Masseria. Due progetti in contrasto con il buon senso ed evidentemente incompatibili con i finanziamenti europei.

Nonostante le questioni spiacevoli, la Masseria rappresenta oggi un valido esempio di lotta e successo nei confronti della criminalità organizzata, che al netto di poche eccezioni che ne ostacolano il cammino può contare sull’appoggio della stragrande maggioranza delle istituzioni e dei cittadini. La nuova gestione, oltre a ridare dignità sociale al luogo, coinvolge quotidianamente volontari e visitatori di ogni età, per un processo continuo di condivisione del sapere e delle conoscenze. A questi si aggiungono i beneficiari diretti, coloro che per decenni sono stati privati di un polmone verde, prima per mano della camorra e poi per l’abbandono e il degrado successivi, e oggi ne godono con serenità i vantaggi. «Abbiamo trovato enorme energia nelle persone, perché per tutta la vita entrare in questo spazio gli era vietato», commenta Giovanni. Il pensiero va ai 350 orti urbani, che a breve diventeranno 400, assegnati a centinaia di famiglie, le quali coltivano personalmente cibo di qualità viste le analisi costanti di acqua e terreno. Insieme alle piante, crescono le relazioni, lo spirito civico e il senso di comunità. Per alimentarli, e ricordare alla collettività che un’alternativa alle mafie è sempre possibile, la Masseria Antonio Esposito Ferraioli invita la popolazione a vivere il bene comune aperto a tutti.

A questo si aggiunge l’intensa attività sul territorio: un impegno che va dall’ospitare e organizzare incontri con la comunità, con particolare riguardo nei confronti delle scuole e università, alla partecipazione a manifestazioni ed eventi. Come mi ricorda Giovanni mentre indica il vigneto in lontananza, un bene confiscato e assegnato a realtà sociali rappresenta una doppia vittoria economica per un Paese. Alla criminalità organizzata viene infatti sottratto un immobile acquisito in modo illecito e al suo interno sorge un’alternativa al fenomeno mafioso, che oltre all’importante contributo dei volontari necessita di figure professionali per la sua gestione e dunque crea posti di lavoro. Fini economici e sociali s’intersecano nella vita del Terzo settore, un insieme di organizzazioni che in un Paese sovrano, democratico e nemico delle mafie non può che essere al centro del dibattito politico e dunque di una tutela costante. Perché se le mafie sono un fenomeno economico, combatterle non può che passare dalla creazione di un’economia legale alternativa.

Molto più a nord di Afragola, tra le colline del Monferrato, in Piemonte, sorge Cascina Caccia, bene sequestrato alla famiglia ‘ndranghestista Belfiore, legata a vari traffici nel nord Italia e al primo e unico omicidio di un magistrato in queste zone. Il nome di Bruno Caccia è riecheggiato spesso tra le pareti di casa mia, soprattutto per via di mia madre e dei suoi anni trascorsi come cancelliere presso il Palazzo di Giustizia di Torino, titolato al magistrato ucciso dalla mafia. Il suo nome è ritornato a farsi sentire con maggior vigore quando, otto anni fa (ad oltre trent’anni dalla sua uccisione) venne fuori che il panettiere sotto casa di mia nonna, dal quale ci rifornivamo con una certa frequenza, era uno degli esecutori dell’omicidio. Ricordo ancora il rumore degli elicotteri che ronzavano sopra piazza Campanella, nella periferia di Torino, e la voce di mia madre che mi diceva «Stanotte hanno arrestato il killer di Caccia. Era il panettiere qui sotto». Nel nord Italia la mafia è percepita come una presenza lontana, aliena, qualcosa che non ci riguarda. «C’è un lavoro culturale molto forte da fare. Al nord non siamo disposti ad ammettere che la mafia c’è. Manca soprattutto una cultura dell’antimafia. Al sud si parla di mafia e antimafia da anni, al nord è necessario un lavoro di costruzione di consapevolezza e lettura del fenomeno» commenta Fabio, uno degli operatori di Acmos, associazione parte della rete di Libera che gestisce Cascina Caccia. La Cascina, mi spiega, ha un ruolo storico, in quanto si tratta del primo progetto di riutilizzo sociale di un bene mafioso dell’intero nord Italia, costituendo tutt’ora il modello per tanti altri progetti di riutilizzo di beni confiscati. «In Piemonte c’è un dato importante da ricordare: si trova al penultimo posto in Italia per percentuale di beni confiscati e riutilizzati, pari all’incirca al 20-30% del totale. C’è sicuramente un forte lavoro da fare in questo senso, a fronte di una forte e comprovata presenza mafiosa, evidente per esempio nell’alto numero di Comuni sciolti per mafia».

La storia della Cascina ha inizio negli anni ’90 quando, nell’ambito di una maxi operazione delle forze dell’ordine che ha coinvolto tutto il nord Italia, viene arrestato Salvatore Belfiore, a quei tempi ai vertici della ‘ndrangheta nella provincia di Torino. Salvatore viene condannato per traffico internazionale di stupefacenti (nell’ambito dell’operazione viene effettuato uno dei più grandi sequestri di cocaina mai realizzati fino ad oggi: quasi sei tonnellate) e associazione a delinquere di stampo mafioso. Proprio quest’ultimo capo d’imputazione permetterà la confisca dei beni e, in particolare, della cascina dove risiede la famiglia, sita nel Comune di San Sebastiano da Po. In quegli anni a salire agli onori della cronaca fu anche il fratello di Salvatore, Domenico Belfiore, «capo di punta della loro famiglia» e mandante dell’omicidio Caccia, mi racconta Fabio.

La sera del 26 giugno 1983, infatti, Bruno Caccia, allora procuratore generale della Repubblica di Torino, viene raggiunto da tre colpi di pistola mentre porta a spasso il suo cane in via Sommacampagna, zona precollinare di Torino ai margini del centro cittadino. I colpi sono esplosi dall’interno di un’auto nella quale, secondo alcuni testimoni, vi sono tre o quattro uomini. L’omicidio, che sconvolge l’opinione pubblica, viene inizialmente attribuito alle Brigate Rosse. «Avvenne un fatto curioso», prosegue Fabio, «alle autorità arrivarono numerose telefonate che sostanzialmente dicevano: ‘Siamo le Brigate Rosse, abbiamo ucciso noi Bruno Caccia’. Erano gli anni di piombo, era facile credere a una cosa del genere». Le indagini successive smentirono questa versione, ma per lungo tempo gli inquirenti brancolarono nel buio. Fu solo grazie al collaboratore di giustizia Ciccio Miano (ex boss del clan dei Catanesi, operante su Torino in quegli anni) che la verità poté venire a galla. Con un registratore infilato nelle mutande, l’uomo inizierà a chiedere informazioni sul caso agli altri detenuti, fino a che non salterà fuori il nome di Domenico Belfiore. «Sostanzialmente, Domenico Belfiore fa intuire una cosa: ‘per l’affare Bruno Caccia dovete ringraziare solo me’. E quindi viene fatto un processo, nel corso del quale lui viene riconosciuto come mandante dell’omicidio Caccia». Giustizia è fatta, ma solamente in modo parziale: mancano infatti numerosi elementi, come gli esecutori materiali dell’omicidio. L’unico ad essere arrestato, ad oltre 30 anni dai fatti (grazie alla riapertura delle indagini presso il tribunale di Milano), è Rocco Schirripa. Il panettiere sotto casa. Come la famiglia Caccia, mi spiega Fabio, oltre l’80% dei famigliari delle vittime innocenti di mafia è tutt’ora senza verità e senza giustizia. Per questo il progetto della Cascina ha scelto di farsi carico di queste memorie e di parlare di Bruno Caccia con tutti coloro che la visitano. La dimensione della memoria diviene quindi un elemento preponderante della missione e dell’attività della struttura ed emerge con particolare forza dall’installazione artistica ospitata nel seminterrato: scaffali alti sino al soffitto pieni di faldoni, ciascuno recante il nome di una vittima innocente della mafia.

Il percorso di realizzazione del progetto della Cascina, che oggi ospita un Centro di Accoglienza Straordinario (CAS) e che è fortemente impegnata in attività educative, in particolare con i giovani, è tuttavia costellato di ostacoli e difficoltà. Basti pensare che Salvatore Belfiore è stato arrestato negli anni ’90 ma, anche se la cascina è divenuta nel frattempo proprietà del Comune di San Sebastiano, la famiglia verrà sfrattata solamente nel 2007. E quando gli operatori riescono a mettere piede all’interno, si trovano di fronte a una situazione inaspettata: i pavimenti in materiali pregiati, quali il marmo di Carrara e in parquet di olivo della Calabria, erano stati portati via, così come il piano bar e la scala che portava alla mansarda; i tubi dell’acqua erano stati riempiti di sabbia e cemento, l’impianto elettrico era in corto circuito e qualcuno aveva cercato di dar fuoco alla caldaia. «A quel punto si fa una scelta, si dice: se noi ce ne andiamo da qua c’è il rischio che tornino a finire quello che hanno iniziato, magari dando fuoco a tutto. Allora si dorme in macchina, con il motore acceso e i fari puntati sulla porta d’ingresso e poi man mano si iniziano i lavori per sistemarla. Si è trattato di un lavoro immane, che tuttavia è stato collettivo, vi hanno partecipato in tanti». È proprio la dimensione collettiva, l’idea che si tratti di un bene che arricchisce la comunità, a costituire il principio di fondo: «Si tolgono i beni alle mafie perché questi fanno parte del loro potere economico, ma anche perché sono il segno del potere e della presenza mafiosa sul territorio» asserisce Fabio. E impegnare questi beni in progetti socialmente utili è una maniera per far sì che la mafia, in qualche modo, possa ripagare il territorio e la cittadinanza del male che ha fatto.

Come descritto nell’articolo riguardante i dispositivi antimafia

presente in questo numero del Monthly Report, infatti, con la legge Rognoni-La Torre è stato introdotto il reato di “associazione di tipo mafioso”, il quale prevede la reclusione per chiunque faccia parte di un’associazione mafiosa e la confisca dei suoi beni. Grazie alla legge n.109 del 7 marzo 1996, fortemente voluta dall’associazione Libera, tali beni vanno destinati a scopi sociali. La valenza di una misura simile è evidente: colpire la mafia tanto nella dimensione economica quanto nel suo potere simbolico, restituendo le ricchezze accumulate alla società. In questo sono impegnate le associazioni della rete di Libera, nata nel 1995 e sin da allora impegnata nel contrasto alla mafia tramite l’educazione e l’azione della società civile. Una delle attività principali della rete è proprio quella di dare nuova destinazione ai beni e alle terre sottratti alla mafia, affidandone la gestione a Comuni e associazioni, benché le difficoltà burocratiche spesso rendano i percorsi di riconversione lunghi e farraginosi. Nella Cascina, al momento, vivono una decina di persone: due operatori di Acmos, due persone in situazione di emergenza abitativa e i sei migranti del CAS. «Noi viviamo qui insieme ad altri ragazzi con l’idea di animare, di rendere vivo e abitato il posto, facendo però nostri alcuni valori che sono l’attenzione ai consumi, la risoluzione non violenta del conflitto, la formazione permanente e la dimensione dell’accoglienza, partita all’inizio con l’aiuto a persone in emergenza abitativa e trasformatasi, quando abbiamo acquisito un minimo di struttura in più, nell’accoglienza dei richiedenti asilo». Il CAS è volutamente di dimensioni molto piccole, per promuovere la dimensione dell’accoglienza diffusa che permette un migliore sviluppo delle relazioni e rende più semplice l’integrazione. «Noi non crediamo nei grandi centri di accoglienza, dove le persone sono gestite come polli in batteria» mi spiega Fabio. Nell’area esterna, che affaccia sulle valli del Monferrato, vi sono poi gli orti, le arnie e un noccioleto per la produzione della nocciola tonda gentile del Piemonte dedicato alla memoria di Vito Scafidi, lo studente diciassettenne morto in seguito al crollo di una parte del liceo Darwin di Rivoli nel 2008. Il miele prodotto da Cascina Caccia è il primo prodotto a marchio Libera Terra del nord Italia. La Cascina poi ospita un gran numero di altre attività, dai matrimoni agli eventi educativi per le scolaresche all’estate ragazzi e molto altro. Per i corridoi sono tante le testimonianze anche degli artisti che hanno transitato dalla struttura e che hanno lasciato un loro segno, dalle foto di Letizia Battaglia al murales di GEC, artista di Ivrea impegnato in progetti sociali. Tanti piccoli segnali di un Paese che, attraverso l’impegno civile, cerca di realizzare un grande cambiamento.

[di Valeria Casolaro e Salvatore Toscano]

I beni confiscati sono il vero buco nero della democrazia italiana. Il giornalista Alessandro Barbano su Il Dubbio il 6 marzo 2023

I dati raccolti dalla Banca centrale del ministero della Giustizia, citati da Marta Cartabia nella sua audizione, indicano la cifra monstre di 215.995 beni fin qui interessati dalle misure di prevenzione

Alessandro Barbano (un estratto dal libro “L’Inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene”

All’inizio Paola Fortuna non vuole crederci: ventiquattro immobili confiscati alla mafia tra via Matteotti e viale dei Martiri. E lei, sindaca di Pojana Maggiore, e prima ancora consigliera comunale fin dal 2009, non ne sapeva niente. Ma l’articolo del «Giornale di Vicenza», nei primi giorni di aprile del 2015, è molto dettagliato. Quei beni erano dello Stato e, sulla carta, pronti per essere assegnati a finalità pubbliche.

Allora come mai nessuno l’aveva avvisata? La risposta del funzionario prefettizio, a cui chiede spiegazioni, è laconica: non ci sono disposizioni che ci obblighino a farlo. Qualcosa di più la sindaca lo apprende dall’amministratore di condominio: si tratta di un negozio, otto appartamenti, sei magazzini e otto garage, tutti vuoti e con apposti i sigilli, mentre magari tante associazioni del territorio sono costrette a pagare affitti esorbitanti per disporre di locali adeguati.

Così la prima cittadina decide di chiamare il prefetto di Vicenza, che suggerisce di contattare l’Agenzia nazionale, il braccio operativo del ministero della Giustizia che gestisce i patrimoni dopo la confisca di secondo grado. Ma, per modalità e tempistica, quei contatti si trasformano in un’odissea burocratica.

Le telefonate e le mail all’indirizzo della sede di Milano non ricevono risposta. La sindaca è più fortunata quando decide di inviare una lettera formale alla sede centrale dell’Agenzia, a Reggio Calabria, con la quale il Comune di Pojana esprime ufficialmente la disponibilità a ricevere in destinazione i beni. Nel frattempo Fortuna ha allertato associazioni e soggetti del terzo settore perché riferiscano interessi e necessità.

Finalmente, cinque anni dopo, l’8 maggio 2020, l’Agenzia risponde con un invito a esprimere ufficialmente l’interesse alla destinazione dei beni e con l’indicazione di un professionista da contattare per un sopralluogo. E il sopralluogo arriva a distanza di due settimane, mentre il paese sta uscendo dai divieti del lockdown pandemico.

L’incaricato dell’Agenzia nazionale si presenta all’appuntamento, ma non ha neanche le chiavi degli edifici sequestrati e dunque non è possibile verificarne la consistenza e lo stato di conservazione.

La sindaca non si dà per vinta. L’8 giugno, con delibera all’unanimità dell’amministrazione comunale, la manifestazione di interesse viene inviata all’Agenzia. Al buio.

In un modo o nell’altro quei locali possono essere utili: il Comune di Pojana progetta di insediarvi alloggi per anziani, per famiglie disagiate e per le forze dell’ordine, una comunità educativa per minori e un ambulatorio medico. Ma i buoni propositi della giunta vicentina sono destinati a smarrirsi nel labirinto kafkiano dell’Antimafia. Perché tutti i ventiquattro locali erano sì confiscati dal 14 settembre del 2017, ma quasi tre anni dopo restava ancora da definire la procedura di accertamento dei diritti dei terzi.

L’assegnazione non sarebbe potuta avvenire se il giudice delegato non avesse approvato il pagamento dei cosiddetti «crediti di buona fede», nei confronti dei soggetti che vantavano su quegli immobili pretese esigibili. Si trattava di quantificarle, reperire le risorse per soddisfarle mettendo all’asta e vendendo una parte di quei beni, pagare i creditori e finalmente consentire all’Agenzia di assegnare al Comune i beni rimasti. Due procedure complesse fanno un mostro burocratico.

Tra il 2020 e il 2021 il Comune ha inoltrato tre richieste di informazioni all’Agenzia nazionale sullo stato della procedura, ricevendo risposte vaghe e oscure, inutili a programmare, e perfino a capirci qualcosa. In realtà la povera sindaca di Pojana Maggiore non sapeva che stava andando a sbattere contro un meccanismo infernale. Perché se la verifica dei crediti richiede quattro anni, in un rimpallo di competenze vecchie e nuove tra giudice delegato e Agenzia nazionale, la vendita potrebbe richiederne il doppio.

La vendita è il tabù dell’intera normativa della prevenzione. Il rischio che i beni ritornino nelle mani della criminalità organizzata ha suggerito al legislatore una serie di limiti e divieti che somigliano ai paletti di uno slalom.

Si aggiunga che l’Agenzia nazionale può avocare a sé l’intero procedimento, ma la liquidazione del patrimonio confiscato si svolge ignorando le preferenze del Comune sui beni da preservare, poiché non esiste tra i due enti alcuna collaborazione operativa. Le scelte dell’Agenzia potrebbero non tenere conto delle esigenze manifestate da Pojana Maggiore, ma soprattutto il Comune non sarà mai informato di quali beni saranno venduti e quali gli saranno assegnati. Cosicché la sindaca non potrà neanche portarsi avanti con la procedura per conferirli alle associazioni no profit coinvolte. La destinazione delle confische è un’interminabile gimcana condannata a finire in un vicolo cieco.

Poi, finalmente, quando ormai la sindaca ha perso le speranze, a giugno 2022 arriva al Comune il piano di liquidazione del giudice delegato, con la notizia che le ipoteche sui beni saranno estinte con una parte della liquidità confiscata ai titolari del patrimonio. Dopo sette anni l’incredibile vicenda sembra essere giunta al termine. A quel punto Fortuna contatta ancora l’Agenzia nazionale per sapere se è ipotizzabile una data per l’assegnazione.

Dall’altro capo del telefono l’incaricata la gela con queste parole: «Come, non ha saputo? I beni sono stati messi a disposizione delle prefetture, perché potrebbero servire a ospitare i profughi ucraini». «No, non ho saputo niente. E chi avrebbe dovuto dirmelo?» La successiva telefonata alla prefettura di Vicenza conferma il provvedimento che sospende l’assegnazione: «È arrivata una circolare da Roma – le spiega il funzionario –, abbiamo già fatto un sopralluogo nei locali per verificarne l’idoneità ad accogliere persone». Buono a sapersi.

È una storia tanto paradossale da dubitare che sia realmente accaduta. E invece l’errore più grande che si possa commettere è considerarla un’eccezione. Al contrario, si tratta della regola, per stessa ammissione della Commissione parlamentare. Che non a caso invoca,

com’è suo costume e in spregio a qualunque garanzia di difesa, «un’assegnazione provvisoria agli enti locali, anziché aspettare anni per la destinazione del bene, spesso non verificandone le condizioni di degrado o di occupazione abusiva, accumulando debiti per spese condominiali non pagate». L’assegnazione provvisoria è un rimedio peggiore del male, perché legittima un esproprio arbitrario, senza neanche le garanzie minime del procedimento di prevenzione.

Tuttavia questa surreale proposta mostra l’abisso di un sistema che ha prodotto una gigantesca manomorta pubblica, in assenza di qualunque capacità gestionale.

I beni confiscati sono il vero buco nero della democrazia italiana. Lo ha dovuto constatare amaramente Marta Cartabia poche settimane dopo la sua nomina a ministra della Giustizia: «Sembra incredibile» ha detto la guardasigilli in audizione alla Commissione antimafia, ammettendo che lo Stato non conosce esattamente il numero e la tipologia dei beni sequestrati e confiscati nei procedimenti di prevenzione e ignora, in quanto non rilevati, quelli relativi al processo penale.

Prima di lei lo aveva denunciato la Corte dei Conti, non senza far notare che questa unica e inaccettabile forma di ignoranza pubblica è tanto più grave se si pensa che negli ultimi dieci anni sono stati erogati notevoli finanziamenti per tre diversi sistemi informatici. Che nulla potevano contro i ritardi dei tribunali nell’iscrizione delle misure di prevenzione e contro il mancato dialogo tra questi e gli amministratori giudiziari e tra questi e l’Agenzia nazionale. Secondo quanto racconta la relazione della Commissione antimafia, il flusso dei dati pervenuti all’Agenzia per via telematica è pari a meno del 10 per cento dell’intero ammontare dei dati trasmessi; il restante 90 per cento arriva per via cartacea e con i tempi biblici della burocrazia giudiziaria.

Un altro grave sbaglio sarebbe credere di poter derubricare una simile giungla come un disordine burocratico della macchina della giustizia. In realtà è lo specchio di un’irresponsabilità del potere nella quale sfuma qualunque distinzione tra l’esercizio della legalità e l’abuso. Il sistema della prevenzione è un elefantiaco reticolo di relazioni arbitrarie, fondate su un rapporto fiduciario che talvolta coincide con un rapporto amicale, e regolate da una discrezionalità amplissima. Che per un decennio ha distribuito deleghe, incarichi e consulenze senza limiti e senza controlli effettivi, e che tutt’ora resta un universo opaco.

L’Osservatorio permanente sulla raccolta dei dati relativi ai beni sequestrati e confiscati, insediato dalla guardasigilli Marta Cartabia il 21 giugno 2022, dispone di una mappa parziale e generica di questa babele, ma i pochi dati a disposizione bastano a certificarne il fallimento: le aziende sequestrate o confiscate, affidate alla gestione degli amministratori giudiziari, risultano essere 2.245, ma solo 145, cioè il 6,5 per cento, sono attive. Per le altre 2.100 la misura di prevenzione è stata la condanna a morte.

Ma le dimensioni del fenomeno reale sono ben diverse. I dati raccolti dalla Banca centrale del ministero della Giustizia, citati da Marta Cartabia nella sua audizione, indicano la cifra monstre di 215.995 beni fin qui coinvolti nelle misure di prevenzione. Di questi 81.913 sono stati confiscati. Nel solo 2020, anno della pandemia, in cui tutto pare essersi fermato tranne la macchina dell’Antimafia, i procedimenti di prevenzione patrimoniale sono stati 10.239, contro i 9.813 dell’anno precedente.

Per incompleti che siano, questi dati provano un fallimento che certamente non giova alla lotta contro la criminalità organizzata. Al netto dei ritardi nella destinazione dei beni, del dialogo inesistente tra l’Agenzia nazionale e le procure, della scarsità di risorse nelle casse dei Comuni, della sospensione o della revoca, da parte delle banche, delle linee di credito, la morte delle aziende e il degrado dei patrimoni confiscati hanno una ragione più profonda, che si finge di non vedere: il flop dell’idea che il pubblico possa sostituirsi ai privati nella gestione d’impresa, e soprattutto che possa farlo attraverso soggetti delegati, gli amministratori giudiziari, che con la cultura d’impresa spesso hanno poco a che fare.

Ce lo vedete un avvocato o un commercialista a gestire un cantiere edile, un autosalone o un’azienda agricola? E un prefetto a fare il manager? Perché è questo lo scenario che si profila all’orizzonte. Dal 2017 ai profili delle libere professioni, già inadeguati, la legge ha aggiunto anche il personale dell’Agenzia nazionale: una parte è infatti stata abilitata alla mansione di amministratore giudiziario, maturando uno specifico scatto di qualifica e salariale.

Federico Cafiero de Raho: «Misure di prevenzione fondamentali nella lotta alla criminalità organizzata anche se ci sono dei nodi critici».

L’INTERVISTA ALL’EX PROCURATORE NAZIONALE ANTIMAFIA

Federico Cafiero de Raho: «Misure di prevenzione fondamentali nella lotta alla criminalità organizzata anche se ci sono dei nodi critici»

Cafiero de Raho, parlamantere del Movimento Cinque Stelle ed ex procuratore nazionale antimafia

Il magistrato, ora esponente del Movimento Cinque Stelle, affronta con il Dubbio un tema molto delicato: «Quello degli amministratori giudiziari è un punto dolente: serve un controllo per l'affidamento degli incarichi e sulla tutela della continuità e della produttività dell'azienda». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 6 marzo 2023

«Le misure di prevenzione sono molto importanti nel contrasto alla criminalità organizzata di stampo mafioso», afferma l’ex procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Federico Cafiero De Raho, attuale parlamentare del Movimento Cinque Stelle. Ritenute da sempre tra gli strumenti più efficaci nella lotta alla criminalità organizzata sul versante economico-finanziario che mira a colpire l’accumulazione dei capitali illeciti e la possibilità di riciclarli attraverso investimenti nel circuito legale, le misure di prevenzione hanno però spesso evidenziato elementi di criticità nella loro applicazione. Se il loro scopo dovrebbe essere quello di individuare i canali che consentono alle organizzazioni criminali di reinvestire i proventi delle attività illecite, non sono purtroppo pochi i casi in cui hanno invece determinato il fallimento di aziende e società che nulla avevano a che vedere con la mafia, gettando sul lastrico centinaia di famiglie.

Onorevole De Raho, per la sua esperienza, il sistema delle misure di prevenzione è efficace o necessita di correttivi?

Come ho detto, le misure di prevenzioni si sono rivelate di particolare efficacia. Ricordo, comunque, che l’impianto normativo è molto cambiato negli anni. Le leggi fondamentali sulle misure di prevenzione personali risalgono al 1956, quelle patrimoniali al 1965. Negli anni ci sono poi stati numerosi interventi di modifica che hanno conferito loro l'attuale fisionomia, notevolmente diversa dunque rispetto a quella originaria. Nel 1982, con la legge Rognoni-La Torre, c’è poi stato un cambio di passo per adeguare l'ordinamento alle mutate modalità operative delle organizzazioni mafiose.

Il meccanismo è sempre quello della sproporzione fra reddito e beni?

Sì. La mancanza di giustificazioni è un presupposto oggettivo per il sequestro e la confisca.

Nel 2021 il quadro normativo ha subito altre modifiche importanti.

Certo, il soggetto ora partecipa in prima persona. Per quanto riguarda le interdittive, ad esempio, esiste un contraddittorio preventivo dove il prefetto contesta formalmente gli elementi acquisiti. Il soggetto può quindi fornire tutti gli elementi giustificativi del caso. Il prefetto, dopo questo passaggio, emana un provvedimento con delle prescrizioni che danno vita a una sorta di “collaborazione”. Si tratto di un modello che prevede un controllo da parte di un Nucleo interforze. Lo scopo è evitare di bloccare l’operatività della società solo sulla base elementi di sospetto.

Rimane, comunque, sempre il tema di coloro che sono chiamati ad amministrare i beni. Molti i casi che hanno evidenziato una gestione non corretta.

Questo è un punto molto delicato. Quando era procuratore nazionale antimafia ho insistito perché venisse approntato un elenco degli amministratori giudiziari al fine di consentire un controllo circa la trasparenza dell'affidamento degli incarichi.

Come dovrebbe essere questo elenco?

Oltre all’indicazione dei soggetti idonei per titoli ed esperienza, deve essere riportato l’affidamento dell’incarico nelle varie procedure di sequestro e confisca. Il punto fondamentale riguarda l'indicazione dei corrispettivi percepiti e quanti incarichi si hanno.

E in caso si verifichino situazioni dannose per il bene che istituti si possono immaginare per consentire di recuperare la sua piena funzionalità?

Premesso che mi pare di tutta evidenza che si debba riparare il danno che è stato prodotto, io pensavo ad una legge ad hoc che prevedesse dei ristori per le società, come una apertura di credito garantita dallo Stato per riprendere l’attività e quindi sopperire alla gestione non corretta degli amministratori. In queste situazioni è infatti fondamentale ripartire dalla capacità economica della società.

Un altro aspetto degno di nota riguarda proprio la fine della capacità produttiva dell’azienda oggetto di tali misure.

Anche questo è un tema complesso. Pensiamo al supermarket, dove si comprano e vendono le merci. Non dovrebbero esserci problemi. Ed invece si assiste al tracollo di queste attività. Il motivo è dovuto alla stessa organizzazione criminale che non consente di fare acquisti. I mafiosi sono molti attenti in questi casi e “consigliano” ai clienti di non comprare più in quel supermarket e di andare altrove.

Come risolvere questo problema?

Ho proposto di verificare e di analizzare se il bene possa liberamente continuare ad esercitare la propria attività. Ma non solo. Pensiamo ai beni che vengono vandalizzati e distrutti dalla mafia per impedire loro di avere una finalità sociale.

Un caso di scuola riguarda l’edilizia. Vedasi le aziende che producono calcestruzzo.

Certo. Anche in questo caso, nessuno lo compra e ci si rivolge altrove. Spesso, poi, tramite dei prestanome, la mafia avvia altre attività di questo genere così da raggiungere comunque i risultati economici sperati.

Un punto debole del sistema?

Fino a che il bene non viene definitivamente confiscato ed entra così a far parte del patrimonio dello Stato.

Beni confiscati ai clan un tesoro dimenticato: in Puglia e Basilicata sono 2000. Un patrimonio per la società. Ma molti Comuni li ignorano. Gianpaolo Balsamo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Gennaio 2023.

Quattro miliardi. Euro più euro meno. È la stima (probabilmente per difetto) del patrimonio sequestrato e confiscato a prestanome di Matteo Messina Denaro, il boss di Calstelvetrano finalmente arrestato nei giorni scorsi dopo 30 anni di latitanza. C’è di tutto nel patrimonio del capomafia trapanese: la grande distribuzione commerciale, impianti eolici, villaggi turistici, immobili, opere d’arte. Secondo l’articolo 48 del Codice Antimafia, tali beni (così come tanti altri) sono confluiti o confluiranno nel «tesoretto» sottratto alla disponibilità delle mafie, delle varie forme di criminalità economica e finanziaria (dal riciclaggio all’usura, dal caporalato alle ecomafie) e di corruzione: attualmente, in tutta Italia, sono oltre 23 mila i beni confiscati, di cui 14 mila già destinati agli enti locali e pronti per essere riutilizzati dalla cittadinanza

Questi, infatti, possono essere mantenuti al patrimonio dello Stato per «finalità di giustizia, ordine pubblico e protezione civile» e dunque messi a disposizione di altre Amministrazioni statali (un esempio classico è quello delle caserme delle Forze dell’Ordine).

In alternativa, i beni immobili vengono trasferiti in via prioritaria ai Comuni (in via secondaria alle Province e alle Regioni). Gli Enti territoriali, a loro volta, possono amministrare direttamente il bene o assegnarlo in concessione, a titolo gratuito e nel rispetto dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità e parità di trattamento (sostanzialmente attraverso procedure ad evidenza pubblica) a una serie di soggetti sociali indicati dalla legge: associazioni, cooperative, gruppi, comunità. Sono queste realtà a garantire la piena applicazione dello spirito della legge 109/96 per il riutilizzo pubblico e sociale dei beni confiscati alle mafie, trasformando i luoghi simbolo del potere mafioso in luoghi di riscatto e dignità, al servizio soprattutto di chi fa più fatica.

In Puglia, secondo i dati consultabili su «Open Regio» sulla base di quelli forniti dall’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, i beni immobili destinati sono 1.820 (28 in Basilicata): la Puglia è la quarta regione italiana con il maggior numero di beni confiscati dopo la Sicilia (7.675), la Calabria (3.127) e la Campania (3.093)...

Il dibattito sulle misure di prevenzione. “Confische incostituzionali”, Amato demolisce l’Antimafia che ha distrutto vite e aziende. Paolo Comi su Il Riformista il 4 Dicembre 2022

Le misure di prevenzione sono ‘contro’ la Costituzione. Parola di Giuliano Amato, presidente emerito della Consulta. La presentazione romana questa settimana dell’ultimo libro del direttore Alessandro Barbano dal titolo “L’inganno. Antimafia, usi e soprusi dei professionisti del bene”, edito da Marsilio, è stata l’occasione per fare il punto sull’istituto quanto mai controverso delle misure di prevenzione. Amato ha ricordato di quando era un giovane giurista negli anni Sessanta e, in compagnia di Leopoldo Elia e Augusto Barbera, sollevò per la prima volta il tema della compatibilità delle misure di prevenzione con il dettato costituzionale.

Il principale problema era dovuto al fatto che le misure di prevenzione, pur essendo afflittive, non venivano comminate da un giudice ma dall’autorità amministrativa, per l’esattezza quella di polizia. L’elemento cardine che giustifica un procedimento così severo era quello del “sospetto”. Lo Stato aveva dato un potere di fatto illimitato ai questori. A tal riguardo Amato ha ricordato una circostanza degna di Franz Kafka, quella in cui il questore provvedeva a diffidare formalmente la persona che a suo insindacabile giudizio avesse destato sospetti per la sua condotta di vita. Se la medesima persona continuava, sempre ad insindacabile giudizio del questore, a destare sospetti, scattava allora la denuncia penale per aver violato il provvedimento di diffida del questore. Un corto circuito che nulla aveva a che fare con lo stato di diritto.

Le misure di prevenzione ebbero poi negli anni una loro valorizzazione giurisdizionale e il sistema, pur pieno di criticità, si stabilizzò.

Lo spartiacque, ha aggiunto Amato, si ebbe nel 1965 quando vennero estese anche ai fenomeni mafiosi. Dalle persone ai beni il passo è stato breve. Fino ad arrivare ai giorni nostri dove, ha ricordato il presidente emerito della Corte Costituzionale, l’autorità di pubblica sicurezza può tranquillamente interdire per cinque anni una impresa ai suoi titolari sospettati di avere rapporti con la mafia, pur in assenza di procedimenti penali. L’intervento di Amato non poteva non essere apprezzato dall’autore del libro che ha esordito con una provocazione: se il sistema emergenziale italiano è giustificato dalla presenza di quattro organizzazioni criminali, allora bisogna anche giustificare Guantanamo. Il sistema di prevenzione, sul quale si discute sempre troppo poco, è un unicum nei Paesi europei.

Come ricordato da Barbano, infatti, non esiste in nessun altra realtà. In Italia si può essere assolti perché il fatto non sussiste al termine del processo e allo stesso tempo vedersi confiscati tutti i propri beni. A differenza della condanna, per la confisca sono sufficienti solo “elementi indiziari”. La ricerca doverosa degli autori della stragi di mafia deve essere svolta in una cornice di diritti e garanzie, ha sottolineato Barbano, ricordando che tutti coloro che avevano letto il libro come prima cosa gli dicevano: “che coraggio che hai avuto!”. “Coraggio lo ha chi lotta contro la mafia” non chi racconta un meccanismo legislativo dello Stato.

Durante il dibattito, al quale ha partecipato anche il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Giovanni Melillo, che ha sostanzialmente difeso l’impianto normativo delle misure di prevenzione ed il lavoro svolto dai pm e dai prefetti, è stato poi affrontato anche il tema del regime del 41 bis. “Serve un ragionevole bilanciamento”, ha aggiunto Amato, che firmò la modifica dell’ordinamento penitenziario sul punto. “Il 41 bis deve avere una sua utilità, altrimenti è solo vessazione”, ha quindi puntualizzato Amato. Paolo Comi

Infiltrazioni mafiose: in Italia ogni mese viene sciolta un’amministrazione locale. Stefano Baudino su L'Indipendente il 24 Novembre 2023

Dal 1° gennaio 2022 al 30 settembre 2023 sono stati sciolti per mafia ben 18 enti locali in tutta Italia. È quanto emerge dal dossier di avviso pubblico La linea della Palma sui Comuni sciolti per infiltrazioni della criminalità organizzata – curato dall’Osservatorio Parlamentare – in cui si attesta come in Italia, nell’arco di quasi due anni, si sia verificata la media di uno scioglimento ogni mese. Dal 1991, anno in cui è stata introdotta la normativa di riferimento, oggi delineata dall’art. 143 del Testo Unico sugli Enti Locali, al 30 settembre del 2023 sono stati partoriti in tutto 383 decreti di scioglimento in undici regioni della Penisola, di cui sei nel Nord o nel Centro Italia. Inoltre, i recenti scioglimenti del Comune di Caivano (Campania) e Capistrano (Calabria) non sono compresi nella ricerca, essendo avvenuti dopo la sua chiusura. Il report evidenzia poi che 76 Amministrazioni hanno subito più di uno scioglimento e che l’offensiva mafiosa si sia concentrata maggiormente sui piccoli Comuni (il 72% dei Comuni sciolti ha meno di 20mila abitanti, il 52% meno di 10mila), dove la criminalità organizzata può godere maggiori garanzie in termini di controllo del territorio e della società civile, anche grazie alla scarsità dei presidi delle forze di polizia e della ridotta attenzione mediatica.

Tracciando un bilancio, Avviso Pubblico rileva come le infiltrazioni nei Comuni, “lungi dal costituire un dato episodico”, rappresentano un “dispositivo strutturale dei clan”, capaci di ottenere “occasioni strategiche di radicamento territoriale e di arricchimento”. In particolare, l’associazione evidenzia che, sebbene “non manchino pressioni, minacce e intimidazioni sulle amministrazioni o durante il delicato momento delle campagne elettorali”, la strategia privilegiata dai clan “è quella utilitaristica”, che li spinge “a sfruttare ogni varco e ogni relazione possibile, anche con l’imprenditoria”. Proprio per questo motivo, nonostante fino a oggi il 95% degli scioglimenti si concentri in quattro regioni del Sud – Calabria, Campania, Sicilia e Puglia – risultano ormai in crescita esponenziale anche gli scioglimenti di Enti Locali nel territorio del Nord e del Centro Italia, il cui retroterra economico si presenta estremamente funzionale agli investimenti illegali delle mafie. I numeri, d’altronde, parlano chiaro: nella fase compresa tra il 1991 e il 2010, in quest’area sono stati sciolti per mafia solo 2 comuni; dal 2011 al 2022, gli scioglimenti sono stati ben 11. Tra gli ambiti prediletti della criminalità organizzata al Nord e al Centro Italia, ci sono gli affari nel settore degli appalti, dei lavori pubblici, dell’edilizia privata, oltre a quello patrimoniale-finanziario, delle risorse umane e, ovviamente, del voto di scambio.

Solo nel 2023, sono stati sciolti per mafia 9 comuni. In Sicilia, Mojo Alcantara (Messina), Castiglione di Sicilia e Palagonia (Catania); in Calabria, Scilla (Reggio Calabria), Rende (Cosenza), Acquaro e Capistrano (Vibo Valentia); in Puglia, Orta Nova (Foggia); in Campania, Caivano (Napoli), al suo secondo scioglimento. Per quanto riguarda il Nord Italia, il primo comune a essere sciolto per infiltrazioni mafiose fu, nel 1995, Bardonecchia (Torino). Negli anni successivi, lo stesso è accaduto, tra gli altri, a Sedriano (che fu il primo caso nella regione Lombardia), Brescello (Reggio Emilia), Lavagna (Genova). Soltanto tre anni fa, è stato sciolto addirittura un comune della Valle D’Aosta, Saint-Pierre. Per quanto riguarda il Lazio, e in particolare la provincia di Roma – che le relazioni della Dia hanno inquadrato come territorio di battaglia e di conquista di decine di clan – sono stati sciolti per mafia Nettuno (per due volte), Anzio ed Ostia. Tale circostanza, come ricorda Avviso Pubblico, “esprime la diffusione a macchia d’olio del fenomeno mafioso, capace di inquinare enti locali limitrofi con l’obiettivo di conquistare il controllo del territorio e di garantirsi un ruolo dominante anche nella gestione della cosa pubblica, a discapito della collettività”. [di Stefano Baudino]

In Calabria sono state commissariate 30 amministrazioni comunali. Stefano Baudino su L'Indipendente sabato 12 agosto 2023.

Nel corso di una riunione avvenuta nella giornata di ieri e presieduta dal Presidente della Regione Roberto Occhiuto, la Giunta regionale della Calabria ha deliberato il commissariamento di 30 comuni che non avrebbero “attuato la necessaria vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia in tema di controllo del territorio e la repressione dell’abusivissmo”. Tra gli enti commissariati “per inerzia e inadempienza” figurano centri urbani importanti come Vibo Valentia e Lamezia Terme, e celebri località turistiche, tra cui Soverato (Catanzaro), Praia a Mare, Scalea, Castrovillari, Paola (Cosenza) e Isola Capo Rizzuto (Crotone). Le statistiche dimostrano che, da lungo tempo, il territorio calabrese è uno dei più martoriati dalla pratica dell’abusivismo edilizio, fenomeno che anche negli ultimi anni ha mantenuto dimensioni estremamente preoccupanti in Italia e, in particolare, nelle regioni del Meridione.

“L’abusivismo edilizio – si legge in un comunicato diffuso dall’ufficio stampa della Giunta – è un fenomeno di diffusa perpetrazione del reato di abuso edilizio, tale da assumere una particolare e incisiva rilevanza sociale e politica. Oggi, uno degli aspetti di maggior rilevanza nell’analisi del fenomeno abusivistico è la rischiosità della violazione di norme e disposizioni legate alla sicurezza. Fra queste, diverse norme vietano l’edificazione su suoli che non consentono un accettabile grado di sicurezza statica dell’eventuale edificato. È il caso, ad esempio, di aree soprastanti zone a rischio frana o alluvione e di zone a elevato rischio sismico”. Dunque, la Regione Calabria “intende rafforzare le azioni di prevenzione e dissuasione delle attività edilizie abusive sul territorio, contrastando il fenomeno dell’abusivismo edilizio in base agli strumenti normativi vigenti”, chiude la nota.

“Quella approvata oggi dalla Giunta è una delibera davvero importante, la Calabria ha bisogno di questi segnali di discontinuità – ha commentato su Twitter il governatore della Calabria Roberto Occhiuto -. La lotta all’abusivismo edilizio è una priorità per il mio governo. Lavoriamo per diffondere la cultura della legalità e per difendere il nostro territorio”.

I numeri riferiti al fenomeno dell’abusivismo edilizio in Calabria – e, più in generale, nei territori del Sud Italia e delle Isole – sono impietosi. Secondo gli ultimi dati Istat riferiti al 2021, infatti, la Calabria si posiziona al secondo posto nella classifica delle Regioni meno virtuose con un’indice di abusivismo edilizio del 47,7% (dunque, quasi la metà delle abitazioni autorizzate dai Comuni sono risultate abusive). Al primo posto vi è invece la Campania, con il 48,8; a pari merito con la Calabria al secondo posto trova invece spazio la Basilicata, seguita dalla Sicilia (45,8). Le quattro regioni italiane con l’indice più basso sono Friuli-Venezia Giulia (3,2) e Trentino-Alto Adige (3,2), seguite dal Piemonte (4,1) e dalla Valle d’Aosta (4,1). Insomma, più si scende per lo stivale e più la situazione peggiora: l’indice di abusivismo medio delle regioni del Nord è pari a 4,3, quello del Centro passa a 13,8 e quello del Sud si attesta a 39,2.

Anche il nuovo rapporto di Legambiente “Mare Monstrum”, frutto di una elaborazione dei dati di forze dell’ordine e Capitanerie di porto, delinea uno scenario molto allarmante sulla pressione illegale ai danni dei mari italiani, di cui l’abusivismo edilizio è uno degli ingredienti fondamentali. Anche questa classifica è dominata in negativo dalla Campania, dove nel 2022 sono stati accertati 1.245 i reati (il 26% del totale registrato a livello nazionale). La Calabria, pur occupando il quarto posto dopo Puglia e Lazio, si mantiene seconda per il numero di illeciti amministrativi (1.018) e sanzioni (1.062).

«La mia amministrazione sciolta per una partita a calcetto...». L’assurda storia del Comune di Marina di Gioiosa. L’ex sindaco Vestito: «La nostra cittadina è stata umiliata e fermata nel suo processo di sviluppo iniziato in piena onestà». Valentina Stella su Il Dubbio il 10 agosto 2023

Marina di Gioiosa Ionica è un Comune italiano di circa 6000 abitanti della città metropolitana di Reggio Calabria. Nel novembre 2013 viene eletto sindaco l’avvocato Domenico Vestito, espressione della lista civica “Libertà è partecipazione”, che ha ottenuto 3.463 voti pari al 79% del totale. Il paese veniva già da due anni di commissariamento per infiltrazioni mafiose. La storia si ripete il 22 novembre 2017, allorquando, dopo una indagine ispettiva condotta dalla Prefettura di Reggio Calabria, il Consiglio dei ministri, con Marco Minniti responsabile del Viminale, ha deliberato lo scioglimento del Consiglio comunale per presunte infiltrazioni mafiose. In realtà contemporaneamente furono sciolti altre quattro amministrazioni, tra le quali Lamezia Terme. «La nostra cittadina è stata umiliata - ci racconta oggi Vestito - e fermata nel suo processo di sviluppo che la mia amministrazione aveva iniziato a compiere in piena onestà». L’amministrazione è stato sciolta, ci spiega l’ex sindaco, per vari motivi: «La partecipazione dell’allora assessore ai lavori pubblici al sesto memorial in onore del figlio di un soggetto controindicato, morto a 26 anni per una malattia. Ma proprio a quel ragazzo avevamo revocato tre licenze per uno stabilimento balneare a pochi giorni dall’emanazione delle interdittive antimafia. Nel mirino anche una ordinanza di demolizione di un bene riconducibile ai clan, fatta dalla mia amministrazione, ma che il Tar ritenne non doversi eseguire. Un altro elemento sarebbe stato il ritardo di una revoca di una ordinanza balneare sempre per effetto di una interdittiva antimafia che, giunta a fine ottobre, è stata da noi revocata subito a dicembre». Il paradosso ci dice Vestito è che l’amministrazione è stata sciolta nonostante la relazione della Commissione di accesso definì «l’attività della Giunta e del Consiglio comunale “dinamica e propulsiva”», nonostante non fu trovato nulla - precedenti, multe, parenti criminali - a carico dell’intera amministrazione dopo aver interrogato le banche dati delle forze dell’ordine e i casellari giudiziari, nonostante il Tribunale di Locri abbia rigettato l’incandidabilità richiesta nei confronti di Vestito, definendo le accuse mosse «generiche ed evanescenti». Tale provvedimento non è stato mai impugnato dall’Avvocatura dello Stato. Il Tar del Lazio, dopo aver analizzato il ricorso presentato dall’amministrazione, con 3000 pagine di documentazione allegata contro il provvedimento di scioglimento, aveva dato ragione a Vestito: «Accoglieva il nostro ricorso e stabiliva che le censure contenute negli atti impugnati erano caratterizzati da “ricostruzioni parziali” e “travisamento dei fatti”. Proprio per effetto di tale decisione, l’amministrazione da me guidata è ritornata in carica nel febbraio del 2019». In particolare, la prima sezione del Tar Lazio fu in grado di escludere, «per assenza di univocità e concretezza delle evidenze utilizzate, la ricorrenza di un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi, tale da compromettere il buon andamento o l’imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali in quanto tesa a favorire o a non contrastare la penetrazione della suddetta criminalità nell’apparato amministrativo». Anzi, «dalla documentazione complessivamente presentata in giudizio, emerge un quadro fattuale caratterizzato dalla presenza di un notevole ritardo nel riscontro delle richieste di informazioni antimafia da parte della prefettura reggina; di contro, il Comune risulta essersi attivato celermente, appena avuto notizia delle interdittive». Tuttavia l’aspetto assurdo che ci consegna Vestito è che «mentre il Tar del Lazio ha impiegato quasi un anno per leggere il nostro ricorso e valutarlo, quando l’Avvocatura dello Stato ha presentato il suo contro la decisione del tribunale amministrativo, la terza sezione del Consiglio di Stato, presieduta dall’ex ministro e commissario europeo Franco Frattini, ha impiegato solo due ore per accogliere il ricorso dello Stato», ordinando il reinsediamento delle commissioni straordinarie, in quanto «solo una valutazione complessiva, contestualizzata anche territorialmente, può condurre ad una valutazione appropriata di un provvedimento di speciale tutela avanzata dell’ordinamento, quale è lo scioglimento di un Comune, da adottarsi dopo plurime, e di alto livello tecnico e politico, fasi procedimentali». Per Vestito, questa fu una vera batosta: «La nostra avventura politica è finita in quel momento, eppure era nata con tanto entusiasmo, dal basso e con tanta voglia di fare. Nel periodo di commissariamento precedente erano nati dei comitati civici per superare il gap democratico che si innesca con l’insediamento delle commissioni che interrompono il rapporto con la collettività. Nell’estate 2013 si riunisce un Comitato di giovani e meno giovani professionisti e alla fine di una assemblea il mio nome è quello scelto per la candidatura a sindaco. Una volta eletti, abbiamo fatto tanto per Marina di Gioiosa ma il commissariamento definitivo ha rovinato tutto». C’è da sottolineare per l’avvocato che «in quell’anno con quel ministro dell’Interno si ebbe il record (dopo quello di Scotti, però a ridosso dell’emanazione della normativa, ndr) di scioglimento dei Comuni. È come se i prefetti avessero compreso che agendo sulla leva della legge dello scioglimento dei Comuni si potevano ottenere avanzamenti di carriera». Il procuratore antimafia di Reggio Calabria Stefano Musolino ci ha detto che «gli effetti degli scioglimenti sono stati deludenti: è peggiorata la qualità amministrativa, senza autentici effetti “liberanti” per gli enti coinvolti». «Ha ragione di dottor Musolino - dice Vestito -. Noi avevano elaborato, dopo decenni che non lo si faceva, il Piano strutturale comunale e quello spiaggia. Tutto si è arenato sotto il commissariamento e la città era sommersa di rifiuti. Quando ci siano re-insediati in quattro giorni abbiamo liberato le strade dalla spazzatura. Il problema è che i commissari stanno in città un giorno a settimana, mentre noi eravamo presenti tutti i giorni, tutto il giorno a servizio della comunità». Vestito è stato audito nel 2020 anche dalla Commissione Affari costituzionali della Camera con la quale ha condiviso una serie di proposte per cambiare la legislazione vigente che così ci sintetizza: «Responsabilità soggettiva, per cui solo chi sbaglia paga; contraddittorio e diritto di difesa, per cui le accuse devono essere circostanziate e chi è accusato ha il diritto di difendersi; terzietà di chi decide lo scioglimento, in quanto ora tutto ruota intorno al ministero dell’Interno; i commissariamenti devono essere realmente efficaci».

Così inchieste flop e scioglimenti copia e incolla hanno raso al suolo l’impegno politico di una regione. Segnalo il caso del Comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Il 25 febbraio 2020, la maxi retata dell’operazione “Eyphèmos” privò della libertà – tra gli altri – il sindaco Domenico Creazzo, appena eletto consigliere regionale in quota Fratelli d’Italia, il vicesindaco Cosimo Idà, il presidente del consiglio comunale Angelo Alati, il sottoscritto (consigliere di minoranza) e il responsabile dell’ufficio tecnico Domenico Luppino. Domenico Forgione (giornalista, storico e scrittore) su Il Dubbio l'8 agosto 2023

Le considerazioni sui provvedimenti di scioglimento dei comuni per infiltrazioni o condizionamenti mafiosi, espresse nella sua lettera a Il Dubbio dall’ex vicesindaca di Rende Marta Petrusewicz, hanno aperto un interessante dibattito, al quale l’avvocato Pasquale Simari ha offerto il contributo dell’esperto: «La vicenda di Rende – ha sottolineato – non si differenzia da quella della maggior parte dei Comuni sciolti per mafia». Parole forti, suffragate da fatti che purtroppo godono di scarsa visibilità mediatica: le sentenze dei processi che, a distanza di anni dai titoloni dei giornali, ridimensionano o addirittura smentiscono le ordinanze di custodia cautelare. Sarebbe pertanto ora di pensare ad un albo dei comuni sciolti per mafia ingiustamente, da pubblicare ( per dirla con Sciascia) “a futura memoria”.

Con questo spirito, mi permetto di segnalare il caso del Comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Il 25 febbraio 2020, la maxi retata dell’operazione “Eyphèmos” privò della libertà – tra gli altri – il sindaco Domenico Creazzo, appena eletto consigliere regionale in quota Fratelli d’Italia, il vicesindaco Cosimo Idà, il presidente del consiglio comunale Angelo Alati, il sottoscritto ( consigliere di minoranza) e il responsabile dell’ufficio tecnico Domenico Luppino.

La presenza di cinque indagati “infiltrati” nel Comune determinò la sospensione e poi lo scioglimento del Consiglio comunale (14 agosto 2020): «All’esito di approfonditi accertamenti – si legge nel decreto – sono emerse forme di ingerenza della criminalità organizzata che hanno esposto l’ente locale a pressanti condizionamenti, compromettendo il buon andamento e l’imparzialità dell’attività comunale». Al termine dei diciotto mesi previsti dalla legge, secondo prassi consolidata, seguì la proroga di ulteriori sei mesi, poiché non risultava ancora “esaurita l’azione di recupero e risanamento” dell’ente.

Lo scioglimento dei Comuni si fonda sulla relazione del prefetto al ministero dell’Interno: nella sostanza, la condivisione dei contenuti dell’ordinanza di custodia cautelare, a sua volta una sorta di copia- incolla degli “esiti dell’attività di indagine” e delle “notizie di reato” trasmessi dagli investigatori al pubblico ministero. Tre anni dopo gli arresti, la sentenza di primo grado (17 febbraio 2023) ha smentito l’esistenza di un condizionamento dell’amministrazione comunale, poiché all’archiviazione del sottoscritto si è aggiunta l’assoluzione degli altri quattro indagati.

Per il sindaco di Sant’Eufemia Creazzo, l’accusa era di scambio elettorale politico- mafioso: a «cercare la ’ ndrangheta è la politica e non il contrario», aveva sentenziato la relazione del ministro Lamorgese. Quasi un anno e mezzo di arresti domiciliari e un provvedimento di obbligo di dimora, prima della sentenza di assoluzione perché “il fatto non sussiste”. Il vicesindaco Cosimo Idà veniva presentato come “capo, promotore ed organizzatore di una fazione mafiosa all’interno del locale di ’ ndrangheta di Santa Eufemia”. Nove mesi di carcerazione preventiva, la scarcerazione per accertato scambio di persona e l’assoluzione perché “il fatto non sussiste”.

Scambio di persona anche per Angelo Alati, presidente del consiglio comunale accusato di rivestire la carica di “mastro di giornata” e assolto perché “il fatto non sussiste”, l’inconsistenza indiziaria era già emersa nell’udienza del Tribunale del riesame che ne aveva ordinato la scarcerazione, un mese e mezzo dopo l’arresto. Terzo scambio di persona riguardò chi scrive, accusato “di monitorare gli appalti assegnati dal Comune di Santa Eufemia per consentire alle aziende del locale di ’ ndrangheta di insinuarsi nei lavori”, “da spia” interna al Comune, a disposizione della cosca per compiere atti minatori nei cantieri, di disporre di “agganci” che gli consentivano di conoscere preventivamente gli esiti delle indagini che provvedeva a veicolare tra i sodali per eludere l’attività investigativa o la cattura».

Sette mesi di carcerazione preventiva, scarcerazione e proscioglimento al termine dell’udienza preliminare. Il responsabile dell’ufficio tecnico Domenico Luppino era accusato di prendere parte a riunioni di ’ ndrangheta e di operare “in favore della cosca affinché gli appalti fossero assegnati direttamente o indirettamente a una ditta gradita all’organizzazione mafiosa locale. Assolto perché “il fatto non sussiste”, dopo ben tre anni di carcere.

Il filone politico dell’inchiesta si è rivelato un flop totale. Del “solido complesso probatorio” restano parole che sono sale su ferite ancora aperte: «Nel caso del Comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte si va comunque ben oltre i “collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata di tipo mafioso” o le “forme di condizionamento” degli amministratori. L’operazione “Eyphèmos” dimostra che diversi OMISSIS piuttosto che “collegati” o “condizionati dalla ’ ndrangheta” sono organici alla stessa. Un salto di qualità rispetto alla fattispecie di cui all’art. 143 T. U. E. L. del tutto evidente». Ma di evidente, purtroppo, c’è soltanto lo scarto tragico tra ipotesi e realtà. Quando, nove mesi fa, si è votato per ridare alla comunità eufemiese un’amministrazione comunale, soltanto due tra i trentanove candidati nella precedente elezione si sono ripresentati. In un piccolo paese esistono dinamiche familiari e sociali che rendono arduo l’impegno politico sulla base delle attuali disposizioni di legge. Molti preferiscono defilarsi: per paura, per delusione, per senso di responsabilità.

Prevenzione e pregiudizio sono spesso le facce della stessa medaglia e concorrono alla compressione della democrazia, laddove impediscono l’affermazione della volontà popolare. Per questo, occorre denunciare la criminalizzazione subita da vaste aree del Paese. Affinché gli studenti di domani avvertano lo stesso moto di indignazione oggi suscitato dagli studi sul volto truce del potere nella storia d’Italia: la brutalità della legge “Pica”, la revisione arbitraria delle liste elettorali in epoca crispina, i mazzieri di Giolitti, lo scioglimento dei Comuni nel passaggio dallo Stato liberale al regime fascista. Ogni volta che, in nome dell’interesse superiore del mantenimento dell’ordine pubblico, una “guerra santa” ha ferito i principi democratici, sospeso le garanzie costituzionali e causato un numero spropositato di “vittime collaterali”. Oggi come ieri questo è stato. Ma questo è Stato?

Commissariamenti per mafia, quel ruolo a volte troppo “creativo” del Consiglio di Stato. Alla grande discrezionalità del ministero si affianca l’estrema angustia del sindacato del giudice amministrativo. Valentina Stella su Il Dubbio il 7 agosto 2023

Dall’entrata in vigore della norma (D.L. 164/1991) che regola lo scioglimento dei Comuni per infiltrazioni mafiose sono trascorsi trentadue anni durante i quali si sono succeduti diciotto ministri. Come ci spiega l’avvocato Pasquale Simari, che ha stilato una classifica in proposito (vedasi tabella), «il picco si raggiunge nei primi due anni di vigore della norma (1991-1993) con i Ministri Scotti e Mancino, che nel periodo della cosiddetta “mafia stragista” hanno disposto lo scioglimento di ben 73 Comuni»; mentre nel ventennio successivo «è stata mantenuta una media annua di scioglimenti compresa tra un minimo di 3 (nel 1995) e un massimo di 13 (nel 2005). Una improvvisa quanto inspiegabile impennata del numero dei commissariamenti per mafia si è invece registrata nel 2012, a seguito della nomina a Ministro dell’Interno del Prefetto Rosanna Cancellieri, che in neanche 18 mesi ha sciolto ben 37 enti, di cui 17 in Calabria. Dopo la parentesi di Angelino Alfano, con il quale i numeri sono tornati nella media ante Cancellieri, c’è poi stato l’exploit del calabrese Marco Minniti, che ha battuto ogni record con lo scioglimento, in meno di un anno e mezzo, di ben 38 comuni di cui 18 nella sua regione di origine». Spiega ancora l’esperto: «la media si è di nuovo abbassata con il governo Conte 1, in concomitanza con la presenza al Ministero dell’Interno di Matteo Salvini, che ha commissariato 19 comuni in 15 mesi; quando alla guida del Viminale si è insediato il Prefetto Luciana Lamorgese in circa 38 mesi di mandato ha decretato lo scioglimento di 42 pubbliche amministrazioni, tra cui le Aziende Sanitarie Provinciali di Reggio Calabria e Catanzaro». Da quando si è insediato Piantedosi, ossia nove mesi fa, sono stati 7 gli scioglimenti. Facendo un calcolo tra i mesi di mandato e gli scioglimenti il primo posto in classifica è di Vincenzo Scotti (Democrazia Cristiana), seguito da Marco Minniti (Partito democratico) e Annamaria Cancellieri (tecnica del Governo Monti). Ma c’è la possibilità che un Comune riesca a ribaltare in sede amministrativa il provvedimento di scioglimento? Come ribadisce Simari nel saggio contenuto nel libro Quando prevenire è peggio che punire, curato da Nessuno Tocchi Caino, «alla grande discrezionalità di cui gode il Ministero dell’Interno nella individuazione delle situazioni sintomatiche del pericolo di “infiltrazione” o di “condizionamento”, si affianca l’estrema angustia del sindacato del giudice amministrativo che, secondo la tesi ormai maggioritaria, non può estendersi oltre il profilo della logicità delle valutazioni che sorreggono il decreto di scioglimento e, dunque, non può entrare nel merito degli elementi indicati nella relazione ministeriale. Sicché è preclusa qualunque possibilità di procedere alla verifica in contraddittorio della sussistenza delle circostanze». Un esempio? Nel 2019 la Prima Sezione del TAR Lazio ha annullato alcuni decreti di scioglimento poiché, dopo aver vagliato una per una le circostanze che motivavano i provvedimenti, è stata in grado di escludere, «per assenza di univocità e concretezza delle evidenze utilizzate, la ricorrenza di un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi, tale da compromettere il buon andamento o l’imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali in quanto tesa a favorire o a non contrastare la penetrazione della suddetta criminalità nell’apparato amministrativo». Una delle circostanze addotte dal Viminale per sciogliere un Comune calabrese era stata la partecipazione di un amministratore a un “memorial” in ricordo di un soggetto il cui padre era esponente della criminalità mafiosa. Un altro elemento è che venivano contestati agli amministratori dell’ente due casi di ritardata notifica di provvedimenti di revoca delle concessioni balneari, a seguito dell’emanazione di altrettante interdittive antimafia. «Dalla documentazione complessivamente presentata in giudizio, tuttavia – secondo i giudici del Tar Lazio – emerge un quadro fattuale caratterizzato dalla presenza di un notevole ritardo nel riscontro delle richieste di informazioni antimafia da parte della prefettura reggina; di contro, il Comune risulta essersi attivato celermente, appena avuto notizia delle interdittive». Racconta Simari che però «la Terza Sezione del Consiglio di Stato, presieduta dall’ex Ministro e Commissario Europeo Franco Frattini, con decreti monocratici emessi a poche ore di distanza dal deposito dei ricorsi in appello da parte della Presidenza del Consiglio, del Ministero dell’Interno e delle Prefetture interessate, ha sospeso l’esecutività delle sentenze del TAR Lazio, ordinando il reinsediamento delle commissioni straordinarie, in quanto “solo una valutazione complessiva, contestualizzata anche territorialmente, può condurre ad una valutazione appropriata di un provvedimento di speciale tutela avanzata dell’ordinamento, quale è lo scioglimento di un Comune, da adottarsi dopo plurime, e di alto livello tecnico e politico, fasi procedimentali”».«In conclusione - dice Simari - , allo stato dell’arte, non rimane che segnalare, con estrema preoccupazione, i rischi derivanti dalla sempre più consapevole assunzione, da parte del Consiglio di Stato – ancorché in stretta connessione con il Ministero dell’Interno – di un ruolo proattivo, se non addirittura “creativo”, nella definizione degli strumenti amministrativi di contrasto alle mafie, spesso in aperto contrasto con le indicazioni provenienti dal Parlamento e dalla stessa Consulta».

«Il potere di sciogliere le amministrazioni è diventato arbitrio». Parla l’avvocato Pasquale Simari: «L’istituto non è più coerente con le coordinate dettate dalla Consulta». Valentina Stella su Il Dubbio il 4 agosto 2023

La lettera dell’ex vicesindaca di Rende (provincia di Cosenza), pubblicata ieri sul nostro giornale, nella quale stigmatizzava il fatto che «In Italia c’è un potere assoluto dei prefetti che possono sciogliere Comuni senza alcuna possibilità di confronto», ci offre la possibilità di interrogarci sul sistema di scioglimento di un ente per infiltrazioni o condizionamenti mafiosi da quando, nel 1991, questo strumento eccezionale di contrasto alla criminalità organizzata è stato introdotto nell’ordinamento giuridico italiano. Lo faremo a puntate perché il tema è vasto e merita approfondimenti da diversi punti di vista. Chi si è occupato - diciamo scientificamente - di questo fenomeno è l’avvocato calabrese Pasquale Simari, che ha anche scritto un saggio all’interno del volume, curato da Nessuno Tocchi Caino, dal titolo “Quando prevenire è peggio che punire. Torti e tormenti dell'inquisizione antimafia”. Secondo l’esperto la questione si caratterizza per due aspetti: «Da un lato, l’ampio margine di discrezionalità di cui godono gli organi governativi nel valutare la sussistenza dei presupposti per lo scioglimento; dall’altro, la forte limitazione del diritto di difesa che subiscono le amministrazioni “sciolte”, stante la sostanziale impossibilità di effettuare accertamenti circa la fondatezza, nel merito, degli elementi indiziari che sorreggono il decreto dissolutorio». Per Simari, «la vicenda di Rende non si differenzia da quella della maggior parte dei Comuni sciolti per mafia: la giurisprudenza amministrativa ha talmente dilatato il potere discrezionale degli organi deputati a decretare lo scioglimento da averlo trasformato quasi in arbitrio».

Ma da cosa è normato lo scioglimento di un Comune? Dall’articolo 143 Testo unico degli enti locali (Tuel), per cui il prefetto nomina una commissione d’indagine, questa ha massimo sei mesi per scrivere le conclusioni, dopo di che il prefetto sente il Procuratore della Repubblica e il comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, invia tutto al Viminale che fa richiesta alla Presidenza della Repubblica che con decreto scioglie poi il Comune. Il problema, sottolinea Simari, è che questa operazione invece di conferire allo scioglimento una natura tipicamente sanzionatoria si è trasformata negli anni in misura di natura preventiva. Lo scioglimento prescinde dalla eventuale responsabilità penale degli amministratori. La prassi, ormai, è quella di fare un pot-pourri di circostanze e condire la relazione anche di elementi sconnessi tra loro per giustificare la richiesta di scioglimento. Basta, ad esempio, che nel contesto territoriale siano presenti organizzazioni criminali, che qualche amministratore abbia un cugino indagato per mafia o che una gara sia stata gestita male per richiedere la misura. «A questo punto – sostiene Simari - è fin troppo chiaro che le caratteristiche dell’istituto, per come venuto modellandosi nel “diritto vivente”, non sembrano più coerenti con le coordinate ermeneutiche dettate dalla Consulta con la sentenza n. 103/1993». Secondo il giudice delle Leggi, infatti, «la corretta interpretazione della norma non consentiva che lo scioglimento potesse essere disposto sulla base di elementi “che presentano un grado di significatività inferiore a quello degli indizi e che, pertanto, mal si prestano ad un procedimento logico di tipo induttivo e ad un successivo controllo in sede giurisdizionale”, né poteva legittimare provvedimenti fondati su “convincimenti che, prescindendo dall’osservanza del canone di congruità argomentativa e conclusiva, potessero basarsi su considerazioni aprioristiche”». A supporto di tale interpretazione c’era anche una circolare del ministero dell’Interno del 1991 in cui si affermava che dagli elementi oggetto di valutazione avrebbe dovuto emergere «chiaramente il determinarsi di uno stato di fatto nel quale il procedimento di formazione della volontà degli amministratori subiva alterazioni per effetto dell’interferenza di fattori, esterni al quadro degli interessi locali, riconducibili alla criminalità organizzata». Invece negli anni ci si è completamente distaccati da queste letture, aggiungendo al quadro l’impossibilità di un effettivo contraddittorio nella fase istruttoria e i limiti propri del sindacato dei giudici amministrativi quanto alla ricostruzione dei fatti e alle implicazioni desunte dagli stessi, che non può spingersi oltre il riscontro della correttezza logica e del non travisamento. Simari nel suo saggio ricorda un principio enucleato da una sentenza del Consiglio di Stato secondo cui, trattandosi di provvedimento disposto con «decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro dell’Interno, formulata con apposita relazione di cui forma parte integrante quella inizialmente elaborata dal prefetto, è lo stesso livello istituzionale degli organi competenti ad adottare il decreto di scioglimento a garantire l’apprezzamento del merito e la ponderazione degli interessi coinvolti». Per l’avvocato si tratta «di una affermazione che non pare eccessivo definire di “matrice autoritaria”, non potendosi certamente considerare in linea con i dettami della nostra Costituzione la pretesa (si badi, enunciata in sede autorevolissima) di riservare all’Esecutivo il compito di stabilire in maniera insindacabile se, nel caso concreto, le esigenze di tutela dell’ordine pubblico debbano prevalere sia sull’interesse del sindaco e dei consiglieri comunali ad esercitare il mandato che è stato loro democraticamente conferito, sia su quello degli elettori a vedere rispettato l’esito del voto».

Verrebbe da chiedersi allora a cosa serve fare ricorso agli organi di giustizia amministrativa se si parte dal presupposto che il decreto è giusto data l’autorevolezza di coloro che lo hanno richiesto e firmato.

«Hanno sciolto per mafia il mio Comune senza prove e senza possibilità di difesa». La lettera dell’ex vicesindaca del paese calabrese: «In Italia c’è un potere assoluto dei prefetti che possono sciogliere comuni senza alcuna possibilità di confronto». Marta Petrusewicz,  Docente di Storia Moderna ed ex vicesindaco di Rende, su Il Dubbio il 3 agosto 2023

Lo “scioglimento” del Comune di Rende, in Calabria, è stato decretato il giorno 28 giugno 2023 dopo la relazione del ministro Piantendosi, datata 21 giugno, che consiste in poco più di tre pagine, e si richiama alla relazione della prefetta di Cosenza.

La delibera del Consiglio dei ministri risale alla sera prima, martedì 27 giugno 2023, sempre sulla proposta del ministro Piantedosi. Riunitosi alle 18:30 e terminato alle 20:04, il Consiglio ha dovuto far fronte a un’agenda strapiena: dalle misure per le famiglie e le imprese alle ricostruzioni in seguito alle recenti calamità naturali.

Non essendoci il tempo materiale per il governo di approfondire o verificare checchessia, appare evidente che il Consiglio dei Ministri si è affidato alle valutazioni del ministro Piantedosi, il quale – memore forse del suo passato da prefetto? - a sua volta si è fidato ciecamente della prefetta di Cosenza, la quale deve essersi fidata ciecamente della relazione della Commissione d’accesso, “rassegnata” il 24 marzo 2023. Insomma, tutto sembra essersi svolto senza alcuna verifica.

Il D.P.R è stato notificato ufficialmente all’amministrazione comunale rendese solo il giorno 17 luglio. Il D.P.R è arrivato corredato dalla proposta Piantedosi (3 pagine e mezzo) e dalla relazione prefettizia (di 74 pagine) ma non dalla relazione della Commissione d’accesso. Quest’ultima, si dice di 492 pagine, che non ci è pervenuta (sebbene sembrerebbe accessibile ad alcuni giornalisti), si dice dovrebbe contenere prove di duraturi contatti tra l’amministrazione e “membri apicali della criminalità organizzata”, “la persistente operatività di organizzazioni criminali”, “lo scambio elettorale politico-mafioso” e così via.

Il fatto che l’ente, oggetto di verifica da parte della Commissione di Accesso, non abbia alcuna possibilità di interloquire con i propri accusatori – presentare memorie, elementi a discarico, in breve, istaurare un contradditorio – è un’anomalia del testo normativo italiano in materia, più volte denunciato in quanto incostituzionale e soggetto alle numerose proposte di modifiche. Intanto, però, rimane in vigore il sistema inquisitoriale, che concede poteri smisurati al Prefetto e alle Commissioni di accesso. La loro narrazione unilaterale stabilisce la verità unica.

Non avendo, quindi, a disposizione alcun materiale interlocutorio e con la relazione della Commissione di accesso che rimane fantomatica, non mi resta che affidarmi, nella presente lettura, a quel poco che abbiamo a disposizione, cioè la relazione Piantedosi e la relazione Ciaramella.

La relazione Piantedosi, alla base riassume per sommi capi (molto “sommi”, ma che puoi fare in tre pagine?) quella della Prefetta. Tuttavia, si nota un twist curioso: laddove la prefetta più volte sottolinea che si tratta di “elementi indizianti”, in assenza di un qualsiasi giudizio definitivo, il ministro usa termini perentori (l’acclarata “assenza di legalità”, “della presenza e dell’estensione dell’influenza criminale”).

Nella relazione il riferimento “probatorio” principale è costituito dalle indagini avviate dalle tre procure (DDA di Catanzaro, di Salerno e di Cosenza), “sorretto, alla base, da un’operazione investigativa antimafia di grande portata, sfociata in un procedimento penale” (p. 69), senza precisare esplicitamente che nessun procedimento giudiziario si è finora concluso e altri non sono nemmeno iniziati. Come altro riferimento “probatorio”, si citano diverse misure cautelari che però, tranne una (sic!), sono state annullate o revocate o finite con assoluzioni. La relazione parla di risultanze giudiziarie (p.65), ma in assenza di un qualunque giudizio definitivo. Dove è finita la presunzione dell’innocenza, fino al terzo grado del giudizio? La Prefetta ammette che il Sindaco del Capoluogo si è astenuto dal voto perché ritenne “indispensabile … conoscere approfonditamente gli atti contenenti le risultanze delle indagini” (66). Strana pretesa, vero?

L’aspetto forse più surreale è la presenza di decine di omissis, dotati di una potente capacità transitiva. Un esempio. Nella deposizione resa nel 2015, un collaboratore di giustizia Omissis dichiara: “sia io che omissis, la stessa omissis, moglie di omissis, omissis abbiamo fatto la campagna elettorale” (p.16). O altri simili: “socia della omissis è omissis, compagna di omissis, fratello del …” (p.42); “si è finiti con il favorire la omissis, compagna di omissis …” (p.48). Come si potrebbe pretendere il Cdm o il ministro Piantedosi, o anche gli stessi rendesi, capiscano di chi si parla in una prosa del genere?

Il riferimento costante a legami di parentela/amicizia/amore è un modo di insinuare la presenza di un diffuso familismo amorale e a folklorizzare la realtà meridionale (ad esempio l’uso del termine “compare”, p.19), categorie già ampiamente screditate nella letteratura sociologica. Nella stessa vena, la relazione suggerisce che ci sia del marcio nell’operato della omissis (si suppone Rende Servizi, pp. 57-58), per il solo fatto che abbia assunto alcune persone con precedenti penali, dimenticando (ad arte?) che il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti nelle regioni del Mezzogiorno è stata una delle mission delle cooperative.

Una tale narrazione alimenta l’idea che nelle terre del Sud non “possono valere” le regole dello stato di diritto: la responsabilità individuale, la presunzione dell’innocenza, il giudizio riservato ai giudici. Suggerisce la Prefetta, citando a sostegno il parere del Procuratore della Repubblica di Cosenza, che, in questo contesto, si possa “prescindere dalla valutazione che ne farà il giudice in termini di riconoscimento o meno della soggettiva responsabilità penale” (pp.63-64) e ribadisce che “gli elementi emersi dalle indagini sono da configurarsi come dati storici inconvertibili, tanto da poter prescindere .. dal riconoscimento di responsabilità da parte del giudice penale” (p. 65).

Un’ultima riflessione: mi sono chiesta se, piuttosto della calabrese Rende, fosse proposto lo scioglimento del comune, diciamo, di Aosta, una città pari alla nostra in termini di popolazione e anch’essa sede universitaria. Potrei scommettere che la proposta non sarebbe stata liquidata in tre pagine e in un minuto, che più di qualcuno avrebbe chiesto di conoscere le risultanze delle indagini, le prove, le verifiche. E non mi si dica che il pregiudizio antimeridionale appartenga solo ai settentrionali, giacché essi fin troppo spesso l’hanno appreso dai meridionali stessi, sempre più subalterni.

Gli ex commissari antimafia rischiano il processo e il comune si costituisce parte civile. La Redazione del La Voce di Manduria martedì 4 aprile 2023

Il Comune di Manduria si costituirà parte civile nel possibile processo a carico del comandante della polizia municipale Vincenzo Dinoi (Attualmente sostituito dal suo vice, Umberto Manelli) e dei tre ex commissari straordinari che hanno amministrato la città di Manduria dopo lo scioglimento per mafia: Vittorio Saladino di Belmonte Calabro, di 71 anni, prefetto in pensione; Luigi Scipioni, 65enne di Messina, vice prefetto in servizio; Luigi Cagnazzo, 63 anni di Lecce, funzionario della prefettura salentina.

Il 7 aprile il giudice delle udienze preliminari, Francesco Maccagnano, deciderà sulla richiesta di rinvio a giudizio presentata dal pubblico ministero Maria Grazia Anastasia che ha coordinato le indagini condotte dai carabinieri. Rischiano il processo anche l’ex commissaria prefettizia, Francesca Adelaide Garufi e l’ex ingegnere comunale Emanuele Orlando.      

Devono rispondere a vario titolo di concorso in peculato, abuso d’ufficio, falsità ideologica e truffa in concorso. L’ufficiale dei vigili urbani, Dinoi, è difeso dall’avvocato Nicola Marseglia, l’ingegnere Orlando dal legale De Prete e tutti gli latri dall’avvocato Lorenzo Bullo.

Nel procedimento risulta parte lesa anche l’allora segretario generale Giuseppe Salvatore Alemanno che sarà assistito dall’avvocato Umberto Giuseppe Garrisi.   

Il periodo preso in esame dal pubblico ministero Anastasia è quello che va da settembre de 2017 a gennaio del 2019. In pratica dai primi mesi di amministrazione commissariale seguita alla caduta della maggioranza del sindaco Roberto Massafra e i tre anni successivi in cui la città è stata amministrata dagli incaricati ministeriali mandati a Manduria per ristabilire la legalità nell’ente sospettata di essere stata infiltrata dalla criminalità organizzata.

Secondo l’accusa, il commissario Saladino e il comandante della polizia locale, Dinoi, che rispondono di peculato e truffa, «in più occasioni ed in esecuzione di un medesimo disegno criminoso», avrebbero utilizzato l’auto di servizio in uso al Corpo di polizia municipale per fini privati. Dalle indagini sarebbero emersi almeno 64 viaggi da Manduria all’aeroporto di Brindisi per accompagnare o prendere il prefetto in pensione durante le sue trasferte. Stessa contestazione viene riconosciuta alla commissaria prefettizia, Garufi, sulla quale peserebbero 45 viaggi alla stazione ferroviaria di Brindisi a Manduria. Nazareno Dinoi

Comune di Manduria, ipotesi di truffa e peculato: chiesto il processo per sei. I fatti riguardano la fase commissariale dal 2017 al 2019 al Comune di Manduria. Nazareno DINOI su Il Quotidiano di Puglia Lunedì 3 Aprile 2023.

Il pubblico ministero della Procura ionica, Maria Grazia Anastasia, ha chiesto il rinvio a giudizio per i tre ex commissari della gestione antimafia del comune di Manduria, del comandante della polizia municipale dello stesso ente e di altri due indagati, un’ex commissario prefettizio e un dirigente tecnico. 

L'OPERAZIONE

Riciclaggio, operazione della Finanza antimafia: nel mirino un'azienda ortofrutticola, 8 arresti

Devono rispondere a vario titolo di concorso in peculato, abuso d’ufficio, falsità ideologica e truffa in concorso. Si tratta di Vittorio Saladino di Belmonte Calabro, di 71 anni, prefetto in pensione; Luigi Scipioni, 65enne di Messina, vice prefetto in servizio; Luigi Cagnazzo, 63 anni di Lecce, funzionario della Prefettura salentina. I tre indagati hanno amministrato la città messapica nei tre anni successivi allo scioglimento per infiltrazioni mafiose dell’amministrazione comunale già sciolta per l’intervenuta sfiducia del sindaco da parte della maggioranza dei consiglieri. 

Con loro rischiano il processo il comandante della polizia locale, Vincenzo Dinoi, la commissaria prefettizia Francesca Adelaide Garufi, 71enne romana, in carica alla direzione del Comune prima della nomina dei tre commissari straordinari da parte del ministero dell’interno e l’ingegnere comunale incaricato a termine, Emanuele Orlando, 63 anni tarantino. L’ufficiale dei vigili urbani è difeso dall’avvocato Nicola Marseglia, l’ingegnere Orlando dal legale Antonello Del Prete e tutti gli latri dall’avvocato Lorenzo Bullo.

Udienza fissata il 7 aprile

Nell’udienza preliminare fissata per il prossimo 7 aprile davanti al gup Francesco Maccagnano, si costituirà parte civile il Comune di Manduria che ha dato già incarico all’avvocato Mario Rollo. Nel procedimento risulta parte lesa anche l’allora segretario generale Giuseppe Salvatore Alemanno che sarà assistito dall’avvocato Umberto Giuseppe Garrisi. 

Il periodo preso in esame dal pubblico ministero Anastasia è quello che va da settembre de 2017 a gennaio del 2019. In pratica dai primi mesi di amministrazione commissariale seguita alla caduta della maggioranza del sindaco Roberto Massafra e i tre anni successivi in cui la città è stata amministrata dagli incaricati ministeriali mandati a Manduria per ristabilire la legalità nell’ente sospettata di essere stata infiltrata dalla criminalità organizzata.

Secondo l’accusa, il commissario Saladino e il comandante della polizia locale, Dinoi, che rispondono di peculato e truffa, «in più occasioni ed in esecuzione di un medesimo disegno criminoso», avrebbero utilizzato l’auto di servizio in uso al Corpo di polizia municipale per fini privati. Dalle indagini sarebbero emersi almeno 64 viaggi da Manduria all’aeroporto di Brindisi per accompagnare o prendere il prefetto in pensione durante le sue trasferte. 

Stessa contestazione viene riconosciuta alla commissaria prefettizia, Garufi, sulla quale peserebbero 45 viaggi alla stazione ferroviaria di Brindisi a Manduria. 

Nelle carte dell’inchiesta figurano anche presunti favoritismi e sospetti abusi fatti dai commissari per agevolare i due dirigenti incaricati, Orlando e Dinoi. Quest’ultimo, in particolare, per aver ricevuto nomine apicali non avendo i titoli richiesti. Sospetti su quest’ultimo anche per quanto riguarda la gestione delle procedure di esproprio con pagamenti a favore di suoi parenti. 

Il corteo a Milano e gli irriducibili del giustizialismo. Manifestazione dell’antimafia per la verità, ma i processi hanno già detto tutto…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Marzo 2023

Vogliamo la verità sui delitti di mafia. Il grido sale dal corteo che attraversa il centro di Milano per poi concentrarsi in piazza Duomo, dove la voce dei parenti delle vittime di Cosa Nostra cede la voce, e il palco, ai politici di sinistra invitati da Libera, il cartello di associazioni fondato da don Ciotti. Erano tredici anni che non veniva celebrata questa giornata rievocativa. E sono datate a dieci e anche venti anni fa le grandi inchieste sulla criminalità organizzata al Nord condotte dall’ex responsabile della Dda milanese Ilda Boccassini. Inchieste come “Infinito” o “I fiori di San Vito” con le loro alterne risultanze processuali e la costante, purtroppo inutile, denuncia degli avvocati del fatto che nei processi su reati di mafia regolarmente saltano le regole dello Stato di diritto, quelle che in genere governano i dibattimenti “normali”. Più che politica del doppio binario, veri binari morti, per le garanzie degli imputati. Ma siamo a Milano, e si sa quale sia stato, fino a poco tempo fa, il rito ambrosiano, non solo nelle indagini su Tangentopoli.

L’anno 2023 segna per il capoluogo lombardo l’anniversario di una data tragica, quella della bomba di via Palestro, il 27 luglio del 1993. Non è chiaro se l’associazione Libera e il suo promotore don Ciotti abbiano scelto questa ricorrenza piuttosto che il 1992 con le uccisioni di Falcone e Borsellino, per scendere in piazza. Ma la connotazione tutta politica, con la presenza, non solo quella doverosa del sindaco Beppe Sala, ma in particolare anche quella di Elly Schlein, presente a Milano due volte di fila in pochi giorni, e gli interventi contro il governo, lasciano intravedere qualcosa di diverso. Lo ha ben intuito Silvio Berlusconi che, con la sua proverbiale marcia in più, si è affrettato a prendere posizione, con un’uscita sincera, ma anche opportuna, e forse preoccupata per una certa piega che stano prendendo certe indagini che corrono da Firenze a Reggio Calabria. Così, con le parole che sono patrimonio di tutti, il “pensiero commosso” per le vittime e i loro familiari e “l’omaggio a due figure emblematiche” come Falcone e Borsellino, compare anche il riconoscimento alle forze dell’ordine e alla magistratura “che ogni giorno rischiano la vita per la legalità e la sicurezza di tutti”.

È vero che nel commemorare le due più famose vittime delle bombe mafiose l’ex presidente del Consiglio ha tenuto a distinguere il loro “profondo rispetto delle garanzie e dello stato di diritto”, ma il riconoscimento alla magistratura come corpo in sé, rimane. E va a cadere, non casualmente, sulla manifestazione indetta da Libera, “cartello di associazioni contro le mafie” nato su iniziativa di don Ciotti nel 1994. Non nel 1992 con le sue stragi di Capaci e via D’Amelio, e non nel 1993 con le bombe di Milano Firenze e Roma, ma a pochi mesi dall’insediamento del primo governo Berlusconi. Nasce e diventa da subito un potente partito politico. Il successore naturale della “Rete” di Leoluca Orlando, padre Pintacuda e Nando Dalla Chiesa, con il sostegno forte di un pm di Mani Pulite come Gherardo Colombo. Nemici di Leonardo Sciascia e delle garanzie, cui preferivano il loro credo: “Il sospetto è l’anticamera della verità”.

Il gruppo di Libera si è impadronito del prezioso timbro di ceralacca dell’antimafia nella sua veste più ideologica e furibonda, “contro la mafia e la corruzione”, anticipando di molti anni le degenerazioni giuridiche del Movimento cinque stelle e della legge “spazzacorrotti” voluta dal ministro Bonafede. A questa base teorica di chi guarda la realtà in chiave moralistica per dividere il mondo in buoni e cattivi e poi processando questi ultimi in tribunali speciali, Libera ha accompagnato anche un aspetto economico. Favorendo la dissennata politica delle confische fondate sul sospetto più che sulle responsabilità penali, ha cominciato da subito a rivendicare per sé la primogenitura e il “bollino blu” per le assegnazioni ai propri aderenti degli immobili confiscati. Nel nome dell’antimafia, naturalmente, non dell’interesse commerciale. Abbiamo già raccontato quell’esempio di Buccinasco e del sindaco lapidato perché si era permesso di offrire gli spazi confiscati a diverse associazioni e non a una sola. Mancava poco che qualcuno desse del mafioso a quel sindaco, perché aveva preferito un atteggiamento pluralistico nei confronti di tanti piuttosto che far aprire la pizzeria “antimafia”.

E la storia pare ripetersi, dopo gli attacchi di Nando Dalla Chiesa e Giancarlo Caselli al libro L’Inganno di Alessandro Barbano, che ha stracciato il velo dell’omertà di chi viola costantemente le regole nel nome di un bene superiore e della lotta a una mafia che viene dipinta sempre come eterna e invincibile. E intanto tutti i magistrati “in lotta” (obbrobrio in uno Stato di diritto) contro il crimine organizzato, dal procuratore calabrese Nicola Gratteri alla responsabile della Dda milanese Alessandra Dolci, si affannano a spiegare che non importa se la mafia non spara più, ma che si è trasformata in comitati d’affari. “Operatore economico e agenzia di servizi”, la definisce la dottoressa Dolci. Senza mai spiegare, né lei né i suoi colleghi, perché ancora esista nel codice penale quell’articolo 416 bis che pone l’assoggettamento e il con-trollo del territorio come requisiti fondamentali perché un certo comportamento possa rivelare l’esistenza di un’associazione criminale di tipo mafioso. Ma il retroscena delle manifestazioni “antimafia” sono le inchieste giudiziarie sul passato, sugli anni Novanta.

Che cosa significa, al di là dei sentimenti dei parenti delle vittime, cui va sempre rispetto, quel grido “vogliamo la verità”? Se intendiamo parlare di verità storica, ma anche di verità processuale, dobbiamo dire che sulla mafia di Cosa Nostra, ma anche sulla ‘ndrangheta e sulla camorra, si sa ormai tutto. Giovanni Falcone non credeva nel “terzo livello”, e ha avuto ragione. I processi, da quello contro Giulio Andreotti in avanti, hanno dimostrato i limiti politici e culturali proprio di movimenti come la Rete e Libera. E la natura vera di inchieste come quella che ha portato al processo “’ndrangheta stragista” di Reggio Calabria e le forsennate ( e già fallite nelle tre versioni precedenti) indagini fiorentine su Berlusconi e Dell’Utri come mandanti di stragi. In questo modo non si cercano né verità né giustizia, ma capri espiatori al fine di prolungare all’infinito il ruolo dell’ ”antimafia”.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Beffato due volte, ora vive nel terrore. La mafia gli chiede 500 euro al mese, l’antimafia 3.000: la denuncia dell’imprenditore Paolo Castaldo. Francesca Sabella su Il Riformista il 26 Gennaio 2023

«Sono stato vittima prima della mafia e poi dell’antimafia. Da entrambe ho subito estorsioni. All’antimafia ho pagato seimila euro, alla mafia niente». A parlare è l’imprenditore campano Paolo Castaldo. E questa è la sua storia. Nel marzo 2020 denuncia la camorra: «Mi hanno chiesto il pizzo, non pago, voglio denunciare». La camorra gli aveva intimato di pagare seimila euro all’anno, questo il prezzo per continuare la sua attività. Pochi giorni e iniziano le minacce e i furti, portano via due furgoni della sua azienda bufalina di Casoria. Passa un po’ di tempo e lui non paga.

Non si piega. Le intimidazioni si fanno più pesanti e a due mesi dalla denuncia l’azienda bufalina nella quale produce il latte per il suo caseificio viene avvolta dalle fiamme. Danni enormi. Il perito incaricato li quantificherà in più di un milione di euro. Brucia un’azienda, brucia la vita di un imprenditore, brucia la legalità. Questa è la storia di un imprenditore vittima della mafia, ma anche dell’antimafia. Perché se la prima estorsione l’ha ricevuta dalla malavita, la seconda viene direttamente da chi avrebbe dovuto affiancarlo, con un supporto legale, nella lotta alla criminalità. È per questo che Castaldo si rivolge a Sos Impresa, nota associazione antiracket guidata dal presidente Luigi Cuomo, che si occupa, e riporto parola per parola dal loro statuto, di “promuovere l’elaborazione di strategie di difesa e di contrasto al racket delle estorsioni, all’usura e a tutte le forme di criminalità che ostacolano la libertà d’impresa. Inoltre, si impegna a garantire assistenza legale e solidarietà agli imprenditori vittime del fenomeno mafioso ed in particolare a chi è colpito da attività estorsive ed usurarie – e veniamo agli obblighi – gli associati hanno l’obbligo di svolgere la propria attività verso gli altri in modo personale, spontaneo e gratuito, senza fini di lucro, anche indiretto».

Tutto chiaro no? Siedono al fianco delle vittime di estorsione e le assistono anche legalmente. Senza prendere un soldo. Cioè, almeno così dovrebbe essere. L’imprenditore, infatti, si rivolge a loro, disperato e impaurito. Chiede aiuto e loro che fanno? Sì, ti aiutiamo, però il costo è di tremila euro al mese. Ma come? Sì, servono per le spese legali. Spese legali? Ma l’associazione Sos impresa non nasce per garantire il gratuito patrocinio? Castaldo paga. Emette due bonifici da tremila euro l’uno all’indirizzo di un associato, sul suo conto corrente personale. La causale? Spese legali. (Il Riformista è in possesso delle ricevute dei bonifici e ha verificato beneficiario e causale). Evitiamo di riportare nome e cognome perché siamo garantisti, con tutti, sempre. L’associato, denunciato da Castaldo (abbiamo preso visione anche della denuncia), aveva spiegato all’imprenditore che c’erano ritardi nei pagamenti, che insomma era un “momento particolare” e che avrebbe dovuto pagare lui questi soldi, salvo poi riaverli quando tutto sarebbe finito. Non solo. E qui c’è lo spettro di una truffa creata ad hoc.

L’associato rassicura anche l’imprenditore sul suo risarcimento danni, nel corso di una telefonata dirà chiaramente: «Devi pagare perché altrimenti la pratica non va avanti, ma stai tranquillo perché i soldi sono arrivati, prima di Natale avrai sul tuo conto corrente 720mila euro». Falso. La pratica era ferma. Dopo aver sborsato seimila euro ed essere venuto a conoscenza di sviluppi processuali di cui però né l’associato né l’associazione sapevano nulla, Castaldo si insospettisce e prima di emettere il terzo bonifico, vuole vederci chiaro. Va a parlare prima con Luigi Leonardi, anche lui imprenditore e anche lui vittima della camorra e di un’altra associazione antiracket, e poi va a parlare direttamente con il presidente di Sos impresa Luigi Cuomo che dice di non sapere nulla e prende le distanze da uno dei membri dell’associazione da lui presieduta. «Condanno fermamente il comportamento di questo nostro associato – afferma Cuomo – è un atteggiamento inqualificabile. Lo abbiamo denunciato e si è già dimesso da referente territoriale di Sos impresa». Insomma, il presidente dice di non sapere nulla di questa vicenda ed è sorpreso dell’accaduto.

Ma le associazioni antiracket, come documentano le cronache giudiziarie degli ultimi anni, non sono nuove a questo tipo di atteggiamenti e le denunce presentate in tutta Italia da imprenditori sono diverse. «Sono stato vittima anche io della mafia e dell’antimafia» racconta Luigi Leonardi. Anche lui ha denunciato la camorra che gli chiedeva il pizzo e oggi vive sotto scorta. «Da me hanno preteso e avuto 14mila euro. Un comportamento assurdo da parte di un’associazione che dice di difendere gratuitamente chi si rivolge a loro. L’avvocato che mi chiese il denaro è lo stesso che ora lavora per Sos impresa». Sarà la magistratura a fare chiarezza. Per ora c’è un imprenditore beffato due volte e che vive nel terrore. «Ho dovuto ricomprare tutte le attrezzature che c’erano in azienda e che sono state distrutte nell’incendio – racconta Castaldo – un investimento enorme. Ma la parte più brutta è la paura che possa succedere qualcosa ai miei figli, a mia moglie. Per settimane dopo l’incendio non ho visto i bambini per paura che potessi essere un bersaglio e quindi di coinvolgerli in una tragedia». Come sta vivendo ora? Silenzio. Poi poche parole. «Vivo, vivo e basta».

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

La vicenda dell'imprenditore Castaldo. Racket, Sos Impresa al Riformista: “Mai chiesto soldi all’ imprenditore” ma a chiederli fu referente territoriale. Redazione su Il Riformista il 5 Febbraio 2023

Il Riformista ha pubblicato, lo scorso 26 gennaio 2023, un articolo a firma di Francesca Sabella nel quale sostanzialmente si racconta di un imprenditore che denuncia di aver pagato l’associazione antiracket SOS IMPRESA. Le attività della nostra associazione sono gratuite e senza alcun onere a carico dei propri assistiti sia per l’accompagnamento alla denuncia, per l’accesso al fondo di solidarietà (ex legge 108/96 ed ex legge 44/99) che per l’assistenza legale in giudizio per la costituzione di parte civile.

Questo imprenditore, in realtà, non ha mai pagato l’associazione antiracket, bensì, sembra che, un ex collaboratore infedele, tradendo l’etica e le regole vigenti nell’associazione antiracket SOS IMPRESA, si è fatto consegnare fraudolentemente dei soldi millantando ruolo e funzioni che non aveva. Dire o far intendere il contrario significa falsare la realtà dei fatti. Inoltre, questo imprenditore ha sempre saputo che i servizi che offre l’associazione antiracket SOS IMPRESA, sono assolutamente gratuiti e senza oneri per le vittime.

Non si comprende, dunque, il motivo per cui, senza chiedere conferma ai vertici dell’associazione, che, invece, stavano seguendo la sua istanza abbia deciso di elargire soldi a questo soggetto. L’associazione, inoltre, appena appreso i fatti, ha proceduto a denunciare i fatti in questione all’arma dei Carabinieri, comunicando l’accaduto al Commissario straordinario antiracket Prefetto Maria Grazia Nicolò e il Prefetto di Napoli dottor Claudio Palomba. L’antiracket non si fa pagare dalle vittime, mai! L’onorabilità è l’onestà dell’associazione SOS IMPRESA RETE PER LA LEGALITÀ, insieme a quella del suo presidente Luigi Cuomo è un valore assoluto, certificato da vent’anni di storia dell’antiracket in Campania. (Associazione Sos Impresa)

LA CONTROREPLICA – Sos impresa parla di “un ex collaboratore infedele che ha millantato ruolo e funzioni che non aveva per farsi dare i soldi”. Omette di dire che ho contattato al telefono il presidente, Luigi Cuomo, per conoscere la posizione di Sos Impresa e dell’associato. Posizione riportata nel mio articolo. Alla mia domanda: “Questo signore che ruolo ha nell’associazione?”, il presidente ha risposto: “È un nostro referente territoriale”. E quindi per me è l’associazione Antiracket, rappresentata in questa circostanza da un associato, a chiedere i soldi. Inoltre, ho specificato che il bonifico è stato emesso sul conto personale dell’associato. Ma i soldi li ha avuti perché faceva parte di Sos impresa. Infine, tutti i fatti da me riportati sono accompagnati da documenti che accertano la loro veridicità. (Francesca Sabella)

Gli Allucinogeni.

L’Alcool.

La noce moscata.

L'eroina.

La Cocaina.

La Cannabis.

Il Tabacco.

Gli Allucinogeni.

DAGONEWS il 23 giugno 2023.

Non erano solo gli hippy degli anni Sessanta a fare i trip con gli allucinogeni.

Secondo un tema di ricercatori del Tampa Museum of Art, in Florida,anche gli antichi egizi si sballavano con sostanze psichedeliche: a dimostrarlo sarebbe alcune tracce di sostanze psicoattive trovate in un vaso di epoca dell'era tolemaica (305 a.C.). 

Il vaso probabilmente apparteneva a un culto primitivo del dio Bes al quale si chiedeva fertilità: durante i riti si assumevano droghe e i partecipanti probabilmente sperimentavano deliri, allucinazioni e aumento della libido.

Ruta siriana e loto blu egiziano sono stati trovati all'interno del vaso. I semi della ruta siriana possono causare allucinazioni "oniriche", e c’è chi sentiva voci. Il loto blu, una pianta acquatica psicoattiva che cresce sulle rive del Nilo, dà una "leggera euforia" e può aiutare a indurre sogni lucidi. 

Sono state trovate anche tracce di latte fermentato di mucca insieme a miele e pappa reale, entrambi noti per i loro effetti allucinogeni e ritenuti in grado di aumentare la vitalità sessuale. 

I ricercatori hanno anche rilevato un cocktail di un liquido alcolico derivato dalla frutta fermentata insieme a "proteine umane" all'interno del vaso di Bes. «C’era latte materno e fluidi corporei, orali e vaginali, e sangue» hanno concluso i ricercatori.

Estratto dell'articolo di Mariagiovanna Capone per ilmattino.it il 17 aprile 2023.

[…] Gli scavi archeologici nella sepoltura dell'età del Bronzo e nella grotta di Es Càrritx a Minorca hanno fornito alcune ciocche di capelli umani coinvolte in un singolare rito funerario. […] Attraverso analisi accurate dei campioni sono stati rilevati gli alcaloidi efedrina, atropina e scopolamina che confermano l'uso di diverse piante contenenti alcaloidi da parte delle comunità locali di quest'isola del Mediterraneo occidentale all'inizio del primo millennio a.C. […] Le precedenti prove dell'uso preistorico di droghe in Europa si basavano su prove indirette, come la scoperta di alcaloidi dell'oppio in contenitori dell'età del bronzo, la scoperta di resti di piante alcaloidi in contesti rituali e loro disegni murali.

L'atropina e la scopolamina sono sostanze presenti in natura nella famiglia delle Solanaceae che possono causare delirio, allucinazioni e percezione sensoriale alterata. L'efedrina è uno stimolante derivato da alcuni arbusti e pini che può aumentare l'eccitazione, la vigilanza e l'attività fisica.

[…] «All'inizio del Paleolitico, gli esseri umani si sono imbattuti nelle proprietà non alimentari di alcune piante. I risultati presentati nel nostro studio indicano che diverse piante contenenti alcaloidi sono state consumate da persone dell'età del bronzo di Minorca, anche se le Solanaceae e l'Efedra non sono state le uniche ad essere state consumate» spiegano. 

«È interessante notare - proseguono gli scienziati - che le sostanze psicoattive rilevate in questo studio non sono adatte ad alleviare il dolore attestate nella popolazione sepolta nella grotta di Es Carritx, come ascessi periapicali, carie grave e artropatie». Quindi gli scienziati suggeriscono che la presenza di queste sostanze potrebbe essere dovuta al consumo di alcune piante di Solanaceae, come mandragora, giusquiamo nero o stramonio, e pino comune. Si pensa che queste piante allucinogene possano essere state utilizzate come parte di cerimonie rituali eseguite da uno sciamano.

Secondo i ricercatori, i cerchi concentrici sui contenitori di legno in cui sono stati scoperti potrebbero aver raffigurato gli occhi e potrebbero essere stati una metafora della visione interiore legata a uno stato di coscienza alterato indotto dalla droga. […]

L’Australia autorizza MDMA e funghi allucinogeni per trattare le malattie mentali. di Valeria Casolaro su L'Indipendente il 6 Febbraio 2023.

Lo scorso venerdì la Therapeutic Goods Administration (TGA), l’organo governativo australiano responsabile della regolamentazione dei farmaci, ha annunciato che dal 1° luglio di quest’anno sarà possibile per alcuni psichiatri specificamente autorizzati prescrivere psilocibina (la sostanza psichedelica presente in alcuni funghi allucinogeni) e MDMA (La 3,4-metilenediossimetanfetamina, più comunemente nota come MDMA o Ecstasy (talvolta chiamata anche MD, XTC, Molly)  per trattare alcune condizioni di salute mentale. In particolare, la MDMA potrà essere utilizzata per il trattamento del disturbo post-traumatico da stress (DPTS), mentre la psilocibina verrà impiegata nei casi di depressione resistenti ad altri tipi di trattamenti. Se rientranti in questi utilizzi, dunque, entrambe le sostanze rientreranno nella categoria “droghe controllate”, mentre rimarranno classificate come “sostanze proibite” per tutti gli altri. L’Australia diventa cosìil primo Paese al mondo ad approvare l’uso come farmaco di queste due sostanze, le cui potenzialità sono rimaste a lungo inesplorate per via di un diffuso approccio proibizionista.

In anni recenti si sono infatti moltiplicati gli studi sulle potenzialità di queste due sostanze nell’ambito del trattamento di alcune patologie psichiche. Nel 2016 è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista The Lancet l’esito di uno dei primi studi sulla correlazione tra psilocibina e trattamento delle patologie legate alla depressione. In esso era emerso come questa sostanza fosse in grado di agire impedendo l’assorbimento da parte del corpo della serotonina, l'”ormone del buonumore”, permettendone così una più lunga circolazione nell’organismo. Lo studio, durato quasi tre anni per via delle difficoltà ad ottenere i permessi per lavorare con questo tipo di sostanze, ha coinvolto 12 pazienti tra i 30 e i 64 anni, tutti affetti da forme di depressione di gradi variabili e durata decennale, per i quali le terapie tradizionali non avevano sortito effetto. I risultati della sperimentazione erano evidenti già da subito: nel giro di una settimana, con due sole somministrazioni di sostanza (la prima da 10 mg e la seconda da 25 mg, a distanza di 7 giorni), i pazienti mostravano già cenni di miglioramento. A tre mesi, alcuni di loro presentavano segni di remissione. Seppur molto limitato nei numeri, il campione di soggetti sottoposti alla sperimentazione (con 8 pazienti su 12 che hanno rilevato effetti positivi a seguito della terapia) ha costituito un punto di partenza importante per sviluppare ulteriori studi simili e ipotizzare una possibile cura della depressione con una sostanza naturale. In nessun paziente, inoltre, si sono verificati effetti avversi significativi. Negli anni successivi sono stati condotti ulteriori studi sul tema, che hanno dimostrato l’effetto positivo di tale sostanza su soggetti affetti da depressione, oltre che in coloro che soffrono di ansia, disturbi ossessivo-compulsivi e dipendenze da alcol e fumo, in particolare in coloro che risultavano particolarmente resistenti alle cure tradizionali.

Numerose ricerche sono state condotte anche per quanto riguarda l’utilizzo di MDMA, ovvero il composto chimico 3,4-metilendiossimetamfetamina (la sostanza psicoattiva alla base dell’ecstasy), in particolare per quanto riguarda il trattamento di sintomi da DPTS. La caratteristica di questo disturbo è infatti quella di «continuare ad avere le stesse reazioni disadattive, pur a distanza di tempo, come se la persona continuasse a rivivere l’evento nel momento presente», spiega il dott. Francesco Bulli in un articolo pubblicato sul sito dell’IPSICO, l’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Comportamentale e Cognitiva. Alla base del disturbo vi è la memoria, il ricordo che riporta al fatto traumatico, che è proprio ciò sul quale agisce la MDMA. La psicoterapia, scrive Bulli, non è in grado di cancellare la memoria del paziente e impedire che questi si ricordi di quell’evento. La MDMA, quindi, «sta guadagnando credibilità come potenziale trattamento integrativo per i pazienti che hanno subito gravi traumi». In particolare, secondo un articolo pubblicato sulla rivista Nature Medicine, alcuni ricercatori hanno riportato come la somministrazione di tre dosi di MDMA, in associazione con trattamenti psicoterapici, avesse ridotto significativamente i sintomi di DPTS in appena 18 settimane ai soggetti che si erano sottoposti alla sperimentazione, oltre ad aver apportato «un miglioramento del funzionamento generale con una riduzione significativa della sintomatologia depressiva». Trattandosi di uno studio già arrivato alla fase III (ovvero alla somministrazione a diverse decine di pazienti), l’ultima prima di ricevere l’approvazione per uso clinico, ci si attende che entro quest’anno la Food and Drug Administration approvi la psicoterapia assistita da MDMA anche negli Stati Uniti.

Risultati di questo genere potrebbero imprimere una svolta decisiva al trattamento di disagi psichici in soggetti per i quali le terapie tradizionali si siano rivelate inefficaci, migliorandone sensibilmente, se non in maniera decisiva, la qualità della vita, a fronte di un rischio di effetti aversi quasi del tutto nullo. Studi di questo tipo, tuttavia, sono possibili solo superando una ormai arretrata mentalità proibizionista, che si ostina a non voler considerare le ormai dimostrate potenzialità di queste sostanze, e i nuovi campi di applicazione nei quali potrebbero essere utilizzate. [di Valeria Casolaro]

L’Alcool.

Estratto dell'articolo di Michela Nicolussi Moro per corriere.it il 20 Gennaio 2023.

Professoressa Antonella Viola, lei è biologa, ricercatrice e docente all’Università di Padova. Sta facendo discutere il suo appoggio alla scelta dell’Irlanda, approvata dalla Commissione europea, di equiparare alcol e sigarette e di inserire nell’etichetta degli alcolici gli avvertimenti sui danni alla salute.

 L’ha definita «una decisione giustissima», perché?

«Perché bisogna far sapere che l’alcol è incluso nella lista delle sostanze cancerogene di tipo 1, come amianto e benzene. È chiaro il legame tra il consumo di alcol, e non solo l’abuso, e i tumori al seno, del colon-retto, al fegato, all’esofago, a bocca e gola. Le donne che bevono uno o due bicchieri di vino al giorno hanno un rischio aumentato del 27% di sviluppare il cancro alla mammella».

 E quindi il famoso detto «un bicchiere al giorno fa sangue, fa bene al cuore»?

«È un falso, nessun medico serio lo direbbe. Non c’è una dose sicura. Come per le sigarette la dose sicura è zero. Noi siamo abituati a pensare che a far male sia l’abuso di alcol, ma l’effetto cancerogeno si sviluppa anche con un uso moderato. Può indurre alterazioni metaboliche che si riflettono a livello cardiochirurgico e causare seri danni all’intestino».

Anche al cervello?

«Sì, studi recenti hanno analizzato le componenti della struttura cerebrale, dimostrando che uno o due bicchieri di vino al giorno possono alterarle. Insomma, chi beve ha il cervello più piccolo».

(...)

Niente aperitivo con gli amici?

«Sì, ma con il succo di pomodoro. Non dobbiamo fare l’errore di trovarci in compagnia per bere qualcosa, come si dice. Io per esempio ho da poco rivisto il mio amico e collega Nicola Elvassore, appena nominato direttore scientifico del Vimm, l’Istituto di Medicina biomolecolare di Padova dove tempo fa ho iniziato la mia vita di ricercatrice, e abbiamo festeggiato con una passeggiata».

(...)

Estratto dell’articolo di Giorgio Calabrese per “la Stampa” il 23 gennaio 2023.

 Cara Professoressa Viola, le scrivo da medico-nutrizionista clinico a proposito dell'articolo in cui attesta indiscutibilmente che il vino accorcia la vita.

 La sua affermazione trae spunto […] da una ristretta quantità di «papers in review», quasi un diktat. Ma a tale ristretta mole di papers si oppongono ben 236.068 pubblicazioni scientifiche che sottolineano la bontà di questo «alimento liquido», come amo definirlo.

[…] Il vino consumato con moderazione e intelligenza - e lo dimostrano le evidenze scientifiche - ha effetti benefici, soprattutto se associato ai pasti, specie se in stile mediterraneo. Anche i singoli composti presenti nel vino (polifenoli, minerali e vitamine) sono stati oggetto di studi e lavori scientifici, pubblicati negli ultimi 30 anni, e questi dimostrano il ruolo funzionale e positivo sull'organismo.

 [...] La richiesta fatta alla Commissione stessa da parte dell'Irlanda di apporre l'etichetta «Nuoce fortemente alla salute» [...] risulta, quindi, abnorme. Non prevede distinzione se a basso, medio o elevato tenore alcolico.

Questa richiesta avrebbe lo scopo di allertare i consumatori sugli eventuali rischi associati all'alcol e nasce da una civilissima nazione, che, però, di base ha un elevato consumo di superalcolici e che per dissetarsi, invece dell'acqua, beve birra. Non è così per l'Italia e il Sud Europa. 

 […] In Italia, secondo i dati Istat, si beve all'incirca un bicchiere di vino al giorno e siamo passati negli ultimi 30 anni dai 3-4 bicchieri a questo consumo minimo con un contestuale aumento della qualità del vino medesimo. Una moderata quantità appaga il palato, aiuta la digestione e anche la salute cardio-circolatoria.

 Il vino contiene l'85-87% di acqua e il 12-15% di materia alcolica, associata a vitamine, minerali e antiossidanti. Chi scrive, più di 40 anni fa, ha definito il vino «un alimento liquido» al pari del latte e dell'olio e, come lei ben sa, anche questi due alimenti liquidi sono, a loro volta, sotto attacco mediatico e non mi stupirei, alla lettura del suo pensiero, che lei faccia parte di coloro che affermano che il buon latte provochi l'insorgenza del cancro.

Io penso che sia necessaria soprattutto un'azione di educazione alimentare e non solo fra i giovani, che sono i maggiori consumatori di birra, energy drink e shortini.

 Esiste in Parlamento un progetto di legge, che mi vede firmatario, inteso a educare i consumatori al moderato introito di alimenti, solidi e liquidi, spiegando che l'introduzione del minimo bicchiere di vino al dì deve avvenire dai 18 anni in su, quando il fegato è in grado di metabolizzare anche la minima quota di alcol, sempre durante i pasti e mai a digiuno, e men che meno come dissetante.

 I dati qui riportati e le vicende storicamente accertate vogliono essere al contempo un invito a rivedere le posizioni rigide, come quelle da lei esposte, quasi da persona astemia, che risultano parziali, ma anche di confrontare le diverse posizioni. Occorre, invece, una visione più ampia e scientificamente condivisa. Auguro a tutti e anche a lei di seguire il mio motto, coniato decenni fa: «Si beve l'acqua e si gusta il vino». Prosit!

Antonio Riello per Dagospia il 23 gennaio 2023.

Infuria la polemica su quanto possa ledere la nostra salute il vino e – paradossalmente – a scatenarla – sulle pagine dei media italiani – è stata una biologa che da anni vive e lavora in Veneto. Patria del Prosecco e dell’Amarone.

 Essendo cresciuto anch’io nel Veneto, sono conscio e preoccupato - come tutti del resto - dai molti e infidi danni procurati dall’abuso di alcoolici. Allo stesso tempo mi sento di aggiungere che, se la biologa in questione avesse per davvero ragione, le campagne delle Tre Venezie dovrebbero essere deserte da secoli. Insomma, la popolazione si sarebbe da tempo tranquillamente auto-estinta.

 Seriamente vale la pena forse di dare voce a quelli che, con tutta la prudenza e la responsabilità che il caso richiede, hanno deciso di mettere in risalto i pregi e i benefici che ne possono derivare dall’alzare un buon calice di rosso o di spumante. Tra loro anche una pattuglia di medici (delle più disparate specializzazioni mediche, finanche dermatologi, urologi e oculisti) protagonisti di un librino, Calici & Camici (edito da Cinquesensi) scritto da Paolo Brinis.  Un giornalista televisivo con una lunga militanza tra vigneti e cantine, che da diversi anni cerca di promuovere la cultura enologica, all’insegna del bere consapevole.  

Ebbene, tutti i professionisti intervistati, a cominciare dai cardiologi (fatto salvo il veterinario, che però faceva riferimento ai nostri amici a quattro zampe), hanno confermato che un approccio olistico al vino non fa per niente male.

 Insomma, il vino ci può essere amico. E a dircelo non sono frequentatori di osterie e incalliti wine-bevar, ma primari e professori universitari. Certo, se teniamo alla nostra salute, bisogna bere poco e bere bene, cercando sempre la qualità, come peraltro dovremmo fare ogni giorno acquistando i prodotti dell’agro-alimentare.

 Trovo quindi sia sbagliato etichettare come dannoso il consumo di alcol a prescindere dalle quantità assunte (senza distinguere tra uso et abuso) e dalla tipologia della bevanda scelta. Cercando di intimorire il consumatore con dei claim allarmistici sulle bottiglie di vino, come quelli che campeggiano sui pacchetti di sigarette, e dimenticando tutto ciò che sta intorno al “pianeta vino”.

Trascurando la necessità di educare ad un bere corretto, affinché le nuove generazioni possano comprendere che dentro ad un bicchiere di vino troviamo cultura, tradizioni, terroir, socialità, famiglie, ricerca, arte. Penso ad esempio al Museo Lungarotti, in Umbria, dove con rigore scientifico e qualità delle collezioni si raccontano 3000 anni di storia del vino. O ai vigneti sperimentali in alta quota, oltre i 1300 metri, a Cortina e Sappada. O alle cantine progettate da architetti e scultori come Zaha Hadid, Renzo Piano, Arnaldo Pomodoro, solo per citarne alcuni. Che dire poi di certe etichette che impreziosiscono le bottiglie? Gli artisti sono tanti, Fabrizio Plessi, Stefano Vitale, Luigi Ontani, Milo Manara, Gilbert & George solo per citarne alcuni.  

Senza dimenticare l’economia. La filiera del vino in Italia vale almeno 14 miliardi di euro. L’eno-turismo ogni anno attira nel Belpaese milioni di turisti stranieri. E l’export, nel 2022, ha raggiunto la cifra record di 8 miliardi di euro.

 Risulta evidente quindi quanto sia necessario comunicare, in maniera corretta ed equilibrata, i rischi, ma anche i benefici conseguenti all’assunzione di vino. Si può ragionevolmente dubitare che la soluzione migliore – come vorrebbe l’Unione Europa – sia farlo con una serie di minacciose avvertenze, che potrebbero avere conseguenze davvero penalizzanti per la produzione vitivinicola dei maggiori produttori continentali, Italia in primis. La questione comunque non è solo di carattere igienico-sanitaria. La prevenzione è importantissima, ma non si vive solo di quella.

La questione è culturale e, in qualche modo, geopolitica. Il vino appartiene intimamente alla Civiltà Europea, per un evidente intreccio di tradizioni religiose, agricole, sociali, alimentari (e perfino letterarie). Demonizzare il suo lato enologico equivarrebbe a demonizzare una parte importante della sua intima identità (soprattutto per quel che riguarda Francia, Italia e Spagna). Certo che la UE lo può fare, ma allora risuona legittima la solita domanda: chi e cosa rappresenta davvero la UE?

Vittorio Feltri, feroce sospetto su Antonella Viola: "Pur sputt*** il vino..." Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 22 gennaio 2023

Sta prepotentemente diventando di moda il proibizionismo più becero. Il ministro della Salute (si fa per dire) Schillaci si sta impegnando per impedire a noi poveri, anzi ricchi, viziosi di fumare in santa pace per strada, e persino nei ristoranti dotati di tavoli all’esterno sarà vietato accendersi una sigaretta e di godersela col rituale caffè. Non bastasse la lotta al tabacco, ora si tende a fare la guerra al vino, dopo che l’Irlanda, Paese ad alto tasso alcolico, va dicendo che fa male, provoca cancri in ogni parte del corpo, in una parola uccide. Io, nonostante l’età, ho deciso di suicidarmi sia con il tabacco sia con il nettare degli dei, ma confesso di avere molte difficoltà bevendo e aspirando a farmi secco e finire al cimitero.

La lotta all’alcol in Italia è stata promossa da una gentile signora, Antonella Viola, biologa e docente all’Università di Padova. La studiosa concorda con il Paese nordico sulla nocività del vino, equiparabile a quella della nuvolette azzurre aspirate per puro godimento. Ella dice senza remore che l’alcol è incluso delle sostanze cancerogene di tipo 1, come amianto e benzene, che non so che roba sia non avendola mai ingerita. Inoltre la scienziata afferma disinvoltamente che le donne le quali bevono un paio di bicchieri al giorno hanno il rischio aumentato del 27 per cento di sviluppare il cancro alla mammella. In sostanza, la famosa biologa equipara il Valpolicella, di cui faccio uso anche se non smodato, a un colpo di pistola che ci manda all’altro mondo abbastanza in fretta. Significa che per lei l’80 per cento dei nostri connazionali si candida a un decesso precoce, posto che trincare è una consuetudine in ogni famiglia perbene.

Io stento a crederle. Sbevazzo da 60 anni, pur senza esagerare, e ora che mi avvicino prepotentemente agli 80 la prima cosa che faccio non appena rientro la sera in casa è quella di assaporarmi un elegante spritz, che mi fa scordare tutte le grane vissute in giornata. Il vino buono non è un veleno ma un toccasana, come dimostra il fatto che molti centenari italiani sorseggiano gai un po’ di bianco e un po’ di rosso senza dare retta alla menagramo docente all’Ateneo di Padova dove, per altro, chi non beve peste lo colga. La scienziata, nel suo attacco al Refosco e similari, aggiunge che berne qualche calice danneggia il cervello. Mi viene così il sospetto che la cara Antonella Viola, pur sputtanando il vino, non se ne sia privata in dosaggi abbondanti. Non è una accusa, questa, ma una semplice ipotesi.

A proposito di sigarette, sigari e pipa, vorrei concludere il mio pistolotto con una osservazione statistica. Allora, negli ultimi anni i fumatori sono diminuiti nel Belpaese di oltre il 10 per cento, ma i malati di cancro sono aumentati nel frattempo del 12 per cento. Vuol dire che il tumore se ne fotte delle Marlboro e ammazza chi gli capita a tiro, senza distinguere se il suo bersaglio fuma o no. Chi non è d’accordo con me mi spieghi perché. Lo stesso discorso vale per l’alcol. Già la vita è difficile e non sempre lieta, se poi dobbiamo seguire gli insegnamenti della cara Viola e dei suoi colleghi ci conviene morire subito, ma sani. 

Da maridacaterini.it il 25 settembre 2018.

Ecco alcuni “fuori onda”. Si punta l’attenzione sul linguaggio colorito di Vittorio Feltri, direttore del quotidiano Libero. Feltri era intervenuto in collegamento a Stasera Italia week end e le sue esternazioni avevano suscitato i commenti stupefatti della conduttrice Veronica Gentili: “era proprio ubriaco, ma che si è bevuto?”. Dallo studio il collega: “Feltri è astemio, è proprio questo il suo carattere”.

FELTRI: Macron non ha perso la testa perché non l’ha mai avuta. Va a letto con la nonna da 20 anni, non gli darei molto credito. I flussi migratori? Non capisco perché noi italiani ci dobbiamo far carico dei problemi dell’Africa. Anche perché 10-15 anni fa gli africani non stavano meglio di oggi eppure non venivano qui a rompere i coglioni.

 FUORIONDA DI VERONICA GENTILI: Io non ce la faccio (risate), no ragazzi non potete farci questo e dai, vi rendete conto? E’ talmente ubriaco che non riesce a parlare un po’ di politica. Cioè…Dice delle cose…tipo da libro sussidiario con il delirio. Che spettacolo, che spettacolo, ragazzi. Queste sono le cose che veramente ti mettono di buon umore hai capito? Ma quanto s’è ‘mbriacato’ Che s’è bevuto? Ma cosa cazzo si è bevuto? Hai visto quanto sta ‘mbriaco? Guarda, guarda, cioccatelo: tutto rosso che fuma la sigaretta. Che spettacolo, ragazzi

Dagospia il 24 gennaio 2023. MA È MATTIA FELTRI O IL PADRE VITTORIO? – IL DIRETTORE DELL’”HUFFINGTON POST”, NEL SUO “BUONGIORNO” PER “LA STAMPA”, PRENDE ELEGANTEMENTE PER I FONDELLI ANTONELLA VIOLA E LA SUA CROCIATA CONTRO IL VINO: “HA RAGIONE. CON GLI ANNI HO SMESSO DI BERE SUPERALCOLICI. HO AUMENTATO LE VERDURE MA RIPASSATE IN PADELLA NON SI PUÒ, VERO? SONO PIÙ VIRTUOSO OGNI ANNO CHE PASSA. MA NON SO SE FARÒ IN TEMPO A DIVENTARE PERFETTO O SE MI SUICIDO PRIMA…”

Estratto dell’articolo di Mattia Feltri per “La Stampa” il 24 gennaio 2023.

Sì, lo so: ha ragione Antonella Viola, il vino non fa bene.

 Con gli anni ho smesso di bere superalcolici, dopo cena talvolta mi piaceva bere una grappa, ma l'ho abolita da un sacco di tempo. Birra poca per il colesterolo.

 […] Ho ridotto di molto ma fumo. Compenso con la sigaretta elettronica ma il ministro Schillaci ha detto che fa male anche quella.

[…] Mi piacciono la pizza, il pane, la pasta, ma sto attento perché le farine raffinate sono il peggior veleno della storia, ho letto in un report dell'Istituto dei tumori di Milano. Il fritto non più di una volta al mese, anche meno. […] Ho aumentato le verdure ma ripassate in padella non si può, vero? Comunque, mi sto sforzando tantissimo. Miglioro. Sono più virtuoso ogni anno che passa. Ma non so se farò in tempo a diventare perfetto o se mi suicido prima.

Estratto dell’articolo di Davide Desario per leggo.it il 24 gennaio 2023.

È diventato ministro tre mesi fa. E in questi 90 giorni Francesco Lollobrigida, a capo del dicastero dell’agricoltura e della sovranità alimentare, è riuscito a mettere i temi dell’agricoltura al centro dell’agenda di governo italiano ma anche dell’Unione Europea. Basti pensare alla battaglia contro la decisione dell’Irlanda di etichettare il vino come prodotto pericoloso per la salute.

 Cosa c’è di male nello scrivere sulle bottiglie che il vino fa male?

«Questa vicenda ha due aspetti che convincono poco. Il primo è che il Parlamento europeo si era espresso contro questo tipo di etichettatura mentre la Commissione Europea l’ha autorizzato.

 E questo è molto grave perché segna la debolezza del Parlamento europeo. Il secondo aspetto riguarda la scelta di una Nazione che non è leader nella produzione del vino di criminalizzare un prodotto i cui eccessi certamente producono danni come qualsiasi altro prodotto».

 Perché ora ve la prendete per il vino e non lo avete fatto per i pacchetti di sigarette?

«È un po’ diverso. Il vino assunto in piccole quantità, non solo non fa male ma è addirittura portatore di benefici per la salute come ha sostenuto il nutrizionista Giorgio Calabrese».

 In risposta alla tesi di questi giorni dell’immunologa Antonella Viola?

«Già, quella che dice che il vino è cancerogeno ma l’hanno fotografata mentre brindava con un bicchiere di bianco. Se dice che è così pericoloso perché lo beve? Il tabacco e il vino non possono essere paragonati: del tabacco fa male anche la singola sigaretta del vino, invece, fa male l’eccesso. La verità è che alcune nazioni criminalizzano dei prodotti per ragioni di mercato e concorrenza. L’Irlanda produce poco vino e molto whiskey. Ma non sono prodotti paragonabili: il whiskey ha degli effetti anche in piccole quantità ben più aggressivi per l’organismo del vino».

[…]

Si fa un gran parlare anche di carne sintetica, farine di insetti… Siete favorevoli all’apertura di questi nuovi orizzonti?

«Gli insetti sono in circolazione da tempo, alcune nazioni li hanno culturalmente sposati. Non so se siano un pericolo per la salute ma penso non lo siano per la nostra economia. Stento a credere che la dieta mediterranea sia sostituita da larve, grilli e cavallette. La carne e il latte sintetici hanno invece effetti ancora da testare per l’organismo, e il processo di trattamento è simile a quello della produzione di un farmaco. In alcuni ristoranti (ad esempio in Israele) è possibile assaggiare il pollo sintetico ma prima bisogna firmare una liberatoria. Ma il vero rischio è sociale».

 Si spieghi meglio.

«Credo che i ricchi continueranno a mangiare bene (prodotti di qualità). Per chi non è abbiente, invece, si produrrà un sistema più simile a quello che c’è negli Stati Uniti con il cibo spazzatura accessibile a tutti. Il rischio è la standardizzazione del prodotto». […]

Alcol, sigarette e morale. PIETRANGELO BUTTAFUOCO su Il Quotidiano del Sud il 21 gennaio 2023.

Da qualche parte Antonella Viola, celebre virologista Ztl, ha detto che l’aperitivo lei se lo fa col succo di pomodoro e che «chi beve ha il cervello più piccolo!». La morale è in agguato. Come dall’orizzonte sociale è sparita la sigaretta – tra poco sarà vietato fumare anche all’aperto – così s’intravede la messa al bando del bicchiere perché, insomma, ce lo chiede l’Europa. E però, al netto che fumare come un turco è un atto di libertà euroasiatica, da saraceni ebbri di gelsomino non si può che sghignazzare porgendo alle loro signorie i versi di Rumi: «Se in questa raccolta di poesie vedrai taverne, osti e ubriachi/correre dalla moschea alla taverna/e in quel luogo rilassarsi un po’/per un bicchier dar in pegno sé stessi/al vino il corpo e l’anima affidare/rose, roseti, cipressi, giardini e tulipani/ bada a non imbarazzarti per tutto ciò/ma fatti coraggio e scovane il significato: purifica il tuo sguardo se vuoi vedere la purezza».

Il super sommelier contro Viola: «Vino e cervello? Basta semplificazioni inutili». Luca Gardini su L’Espresso il 23 gennaio 2023.

L’immunologa fa scoppiare l’ennesima polemica sui danni causati da un consumo moderato di alcol. La risposta del critico: «Questa campagna diffamatoria è solo dannosa per il settore. Perché il problema, come ribadiscono i ricercatori, è sempre nel giusto dosaggio. E nella qualità del prodotto»

Mi sento in dovere, vista la pesante campagna discriminatoria che uno dei prodotti-cardine della manifattura italiana come il vino sta subendo da mesi, di dire la mia sull’argomento. È infatti dalla fine di ottobre del 2022, dalla pubblicazione cioè del “Libro Bianco in materia di alcol e problemi correlati” del Ministero della Salute, frutto di un monitoraggio pluriennale nei 30 Paesi Membri dell’UE da parte dell’OMS, che si susseguono messaggi allarmistici, aggravati da “ingiustificate fughe in avanti sugli health warnings”, vedi quella dell’Irlanda, come giustamente ha commentato Lamberto Frescobaldi, presidente dell’Unione Italiana Vini, che rischiano di penalizzare ingiustamente il segmento.

Ora arriva l’altrettanto contestabile (da cui, non a caso, colleghi illustri come l’infettivologo Matteo Bassetti si sono immediatamente dissociati) posizione espressa dalla professoressa Antonella Viola, ordinaria di Patologia Generale a Padova e ricercatrice, che in sede di intervista radiofonica a Radio Rai 1 ha deciso di semplificare ulteriormente una tematica che semplice non è.

Dato per assodato che quello dell’alcolismo, a livello europeo, e in particolare per la fascia degli under-25, è argomento serio, che meriterebbe una discussione politica ben più approfondita nei paesi membri, non credo giovino a nessuno, soprattutto se espresse da personalità scientifiche di incontestabile curriculum, dichiarazioni in cui l’effetto dell’alcol viene paragonato all’amianto e in cui viene messo in diretta correlazione un consumo, anche morigerato, di alcool, con patologie tumorali, fatto non dimostrato da nessuna indagine scientifica.

Anche lo stesso Libro Bianco del Ministero della Salute, non a caso, parla di sostanza “potenzialmente cancerogena e con la capacità di indurre dipendenza”, indicando come patologie alcol-correlate semplicemente la dipendenza. Quello che invece è certo, oltre alla vecchia tradizione del mezzo bicchiere a pasto, quei circa 100 cc che rappresentano uno degli elementi fondamentali, tra l’altro, della dieta mediterranea, anch’essa non casualmente patrimonio Unesco, è che il resveratrolo, ovverosia uno dei composti antiossidanti comunemente contenuti nel vino, per la precisione nelle bucce, sia bianche che rosse, è attualmente utilizzato in diversi preparati anti-age che vengono comunemente venduti in farmacia. Il problema, come ribadiscono i ricercatori, è sempre nel giusto dosaggio, oltre che (ovviamente) nella qualità del prodotto.

Se infatti 1 litro di vino contiene grossomodo 100 grammi di alcol, il mezzo bicchiere ne conterrà circa 7, quantitativo talmente basso da essere, per l’organismo, completamente metabolizzabile, ingenerando inoltre, oltre ad una blanda assunzione di antiossidanti, buone funzionalità cardio-circolatorie e, non secondariamente, aumento del rilascio di serotonina. Molto differente dall’effetto di un abuso dello stesso. Prendendo invece ad esempio il whisky, o meglio il whiskey irlandese, bersaglio privilegiato (immagino) soprattutto dalle politiche di Dublino, e contando che il contenuto in alcol di un litro di bevanda è circa del 35-40%, anche solo un bicchierino potrebbe avere effetti completamente diversi. Il succo del ragionamento insomma è: non demonizzare ma informare, rendere consapevoli. Soltanto così si possono condividere protocolli e politiche orientate a migliorare le condizioni di salute della popolazione.

Luca Gardini è il miglior critico del mondo sul vino italiano, secondo Tastingbook.com e sommelier campione del mondo

La Viola ci vieta il vino: ritorna il “metodo lockdown”. Il problema non è ciò che pensa Antonella Viola sul vino, ma il fatto che scambi la sua opinione per quella dell’intera comunità scientifica. Nicola Porro il 22 Gennaio 2023.

Oggi la Viola, in una sua intera paginata sulla La Stampa, ci spiega che “un aperitivo accorcia la vita”: avete capito bene, secondo la virologa, anche un singolo bicchiere di birra o di vino è cancerogeno.

Ma la cosa che mi fa impazzire è che, nelle prime righe, esordisce dicendo che “non sono opinioni personali” ma è proprio la scienza a sostenerlo. Curioso tuttavia che Mariano Bizzarri, professore oncologo della Sapienza, ma anche Matteo Bassetti ed altri, dicano che, talvolta, una dose moderata di vino rosso possa addirittura ridurre l’incidenza di diverse malattie tra cui alcuni tumori. Però queste sicuramente sono opinioni personali, vero?

Come se non bastasse, lo studio per cui con il vino “ridurrebbe il cervello”, citato già ieri dalla Viola, sarebbe – come spiega lo stesso Bizzarri – uno studio criticatissimo e considerato minoritario.

La Viola può dire tutto quello che vuole, ci mancherebbe.

Quello che però non può fare è negare che le sue siano opinioni personali. Questi dittatori della scienza, infatti, sono gli stessi che, fino a poco più di un anno fa, ci spiegavano che il lockdown fosse indispensabile e che con i vaccini non ci saremmo contagiati. Uno scienziato vero coltiva il dubbio, ricerca i possibili errori nelle proprie tesi e riesce a scindere le opinioni personali da quelle dell’intera comunità scientifica. Perché sì cara Viola, le tue sono proprio opinioni personali. Più che legittime, ma gran parte degli scienziati non la pensa come te.

Fa strano pensare che questi erano gli informatori scientifici durante il Covid. Durante la pandemia la Viola era considerata una specie di oracolo e, se la cosa non fosse seria, di fronte al pezzo di oggi dovremmo fare una gigantesca pernacchia.

Io vorrei che quelli che si sono cagati sotto durante i lockdown e che credevano ai virologi riflettessero sul fatto che una virologa di cui ci siamo tanto fidati ha detto che un bicchiere di vino è cangerogeno. Il che, per carità, potrà anche essere vero in minima parte, ma non si può spacciare la propria opinione per il pensiero di tutta la comunità scientifica.

Insomma, al solo pensiero che l’alternativa sana ad ubriacarsi si chiami Viola, ho i brividi.

Nicola Porro 22 gennaio 2023

Cristiana Lauro per Dagospia il 22 gennaio 2023.

Come si cerca di cavalcare l’onda parlando di tutto, con tutti e dappertutto? Ce lo spiega in poche, semplici mosse l’immunologa (per molti virologa) Antonella Viola.

 La dottoressa Viola – dal sembiante noto per via della presenza televisiva quotidiana quando eravamo obbligati in casa per colpa della pandemia – con questo ennesimo, recente giro di valzer ha scelto di occuparsi dei danni gravi derivanti dal consumo di alcol.

Il tema pubblico è stato avviato, come noto, dal via libera rilasciato dall’UE alle “etichette della salute” sulle bottiglie di vino in Irlanda; autorizzazione che – nonostante la ferma opposizione dei grandi produttori di Spagna, Francia e Italia – ha aperto il dibattito su direttive comuni a tutti i paesi UE circa l’etichettatura sanitaria dei vini.

 Ma vediamo i fatti, gli scritti, le affermazioni. La dottoressa Viola, che si dichiarò pubblicamente disponibile – per amore di questa bandiera, diciamo – in caso di ipotetica chiamata da parte del Governo Draghi (che invece non se la filò di pezza), farebbe meglio a ricordare, come scienziata, il fatto che da diversi millenni l’uomo produca e consumi vino senza essersi ancora estinto.

La correlazione causa-effetto dal punto di vista medico scientifico è assertiva, quindi farei intervenire specialisti come gastroenterologi, epatologi, esperti cardiovascolari, ad esempio. Insomma, chiediamo il parere ai medici specialisti prima di distribuire scampoli di scienza approssimativi e buttati un po’ a casaccio pur di riempire uno spazio social o televisivo.

 Facciamo parlare chi ha titolo ad esprimersi in materia, perché la questione per il nostro paese non è proprio di secondo piano. Vorrei ricordare che siamo fra i più importanti e migliori produttori di vino al mondo.

Il consumo di vino, isolato come fattore di rischio potrebbe non essere sufficiente a indurre le conseguenze di cui si sta occupando la dottoressa Viola. Io non dico che gli interessi economici debbano superare la tutela della salute, però sostengo fortemente che la scienza debba esprimersi con dati scientifici alla mano e soprattutto attraverso le figure giuste.

 In fine aggiungo che non mi piacciono le pressioni per assimilare il consumo di superalcolici a quello del vino, poiché vanno soprattutto valutate le modalità di consumo stesso. Attenzione perché il fatto che tutto sia ugualmente rischioso definisce gli interessi in gioco delle multinazionali e non di certo dei vignaioli. Mi riferisco a chi lavora in campagna, agli artigiani e a chi valorizza le nostre migliori tradizioni.

L’Italia è fatta di questo e il vino è il nostro petrolio, se vogliamo vedere anche il lato economico non disgiunto dalla faccenda. Senza contare che il vino è parte integrale della vita e della socialità dell’uomo fin dai tempi più antichi e che bere un buon bicchiere di vino in compagnia, a tavola mette di buon umore. O vogliamo dire che le molecole sintetiche alle quali ricorrono in tanti (compresi i più giovani, ahimè!) non hanno controindicazioni. No, quelle fanno bene?!

Estratto dell’articolo di Antonella Viola per “La Stampa” il 22 gennaio 2023.

[…] Non entrerò nel merito delle etichette, se queste funzionino o se invece bisognerebbe puntare su altri strumenti per ridurre il consumo di alcol. Né sulla probabile guerra economica tra vari Paesi europei e non. Cercherò invece, prove alla mano, di analizzare la questione sanitaria per rispondere ad una domanda semplice: è giusto avvisare i consumatori sui rischi legati al consumo di alcol? O, in altri termini, è vero che l'alcol fa male?

Prima di rispondere a queste domande, vorrei che fosse chiaro che tutte le affermazioni riportate in questo articolo non sono opinioni, personali o di una minoranza di ricercatori, ma la posizione ufficiale della comunità scientifica che si occupa di nutrizione umana, di oncologia, di tossicologia, di patologia; tutte queste posizioni sono basate su dati accumulati negli ultimi decenni e possono essere verificate.

 Cominciamo col dire che noi lo chiamiamo alcol, ma in realtà si tratta di alcol etilico o etanolo, perché di sostanze appartenenti alla famiglia chimica degli alcoli ce ne sono tante, ma l'etanolo è l'unico alcol adatto al consumo alimentare. Quando beviamo una bevanda alcolica, l'etanolo viene rapidamente assorbito a livello della mucosa gastrica e, in misura maggiore, dell'intestino.

 L'etanolo non è utilizzabile dal nostro organismo ed è tossico per le cellule: esso viene quindi sottoposto ad una serie di reazioni chimiche che lo trasformano. Il primo passaggio è la produzione di acetaldeide, una sostanza molto pericolosa, perché capace di danneggiare il Dna delle cellule in cui si accumula.

Quasi il 95% dell'etanolo assorbito a livello intestinale viene ossidato nel fegato, che subisce quindi pesantemente gli effetti del consumo di alcol. Per liberarsi della pericolosissima acetaldeide, il fegato deve continuare a lavorare fino a trasformarla in acido acetico. Queste reazioni […] causano la produzione di radicali liberi e quindi uno stress ossidativo che danneggia gli epatociti e che, a lungo andare, impedisce al fegato di svolgere al meglio tutte le sue funzioni essenziali per mantenerci in vita.

 Se però è vero che i danni epatici visibili […] sono certamente associati ad un consumo non occasionale di alcol, ben oltre il singolo bicchiere di vino a pasto, lo stesso non si può dire del rischio di cancro. Già durante il suo transito nel canale alimentare l'etanolo agisce come irritante e cancerogeno nei confronti delle mucose della bocca, della gola, dell'esofago e dell'intestino.

 Tra i tumori, infatti, associati al consumo di alcol, anche un consumo molto moderato, rientrano i tumori di bocca, laringe, faringe, esofago, stomaco e colon-retto, oltre a quello del fegato.

[…] Nelle donne, però, il rischio associato al consumo di alcol è maggiore che negli uomini. Uno studio inglese ha calcolato che su 1000 donne e 1000 uomini che consumano, in media, una bottiglia di vino a settimana, 14 donne e 10 uomini svilupperanno un tumore a causa dell'alcol. Naturalmente il rischio aumenta moltissimo se oltre a bere si fuma, se si è sovrappeso, se si hanno particolari fattori di rischio legati alla genetica o allo stile di vita. Diversi studi hanno confermato che nelle donne anche un consumo moderato di alcol, anche un singolo bicchiere di vino al giorno, può infatti favorire non solo lo sviluppo dei tumori di cui ho già parlato prima, che ovviamente colpiscono anche gli uomini, ma anche di quello che è il tumore più diffuso in Italia: il cancro al seno.

 […] Se tutto questo non bastasse a scoraggiare il consumo di alcol per scopo ricreativo, non vanno dimenticati gli effetti del consumo moderato di etanolo sul cervello. […]

In conclusione, quello che possiamo dire è che, quando parliamo di alcolici, non esiste una dose che possa essere definita sicura. Naturalmente, bere molto è decisamente peggio che bere poco, ma questo vale per tutte le sostanze tossiche e non è un argomento valido per negare i fatti. Noi, oggi, facciamo fatica a far passare questo messaggio, molto di più di quanto sia stato difficile farlo passare per il tabacco. Le ragioni sono molte: c'è la tradizione enologica del nostro Paese, il fatto innegabile che il vino fa parte della nostra cultura; e ci sono i legittimi interessi economici di un'intera categoria di produttori e commercianti. Ma tutto questo non si difende negando la realtà, mentendo ai consumatori ed esponendoli a gravi rischi per la salute.

La battaglia dei virologi per il vino. «Viola sbaglia, non restringe il cervello». Storia di Luciano Ferraro su Il Corriere della Sera il 22 gennaio 2023.

Dal Covid al vino, dalle polemiche su vaccini e lockdown a quelle su etichette e effetti nocivi dell’alcol. I virologi, gli infettivologi e gli immunologi che durante i mesi più caldi della pandemia sono diventati star della comunicazione, hanno trovato un nuovo terreno di scontro. Ha iniziato Antonella Viola, virologa che lavora in Veneto, la regione che è la prima produttrice italiana di vino, patria del Prosecco e dell’Amarone. Viola non si è limitata a dire, come sostengono molti medici, che l’unica quantità sicura di alcol da assumere è zero e che si tratta di un liquido potenzialmente cancerogeno. Ha aggiunto che bere un paio di bicchieri fa rimpicciolire il cervello («Studi recenti hanno analizzato le componenti della struttura cerebrale, dimostrando che uno o due bicchieri di vino al giorno possono alterarle. Insomma, chi beve ha il cervello più piccolo»). Subito le hanno risposto gli stessi colleghi che dividevano con lei la notorietà durante la pandemia.

Matteo Bassetti

Matteo Bassetti, il direttore di Malattie infettive all’Ospedale San Martino di Genova, si è fatto fotografare con un calice di rosso in mano dopo aver letto l’intervista che Viola ha rilasciato al Corriere del Veneto, in cui la docente padovana appoggia la scelta dell’Irlanda di indicare sulle bottiglie di vino e alcolici i rischi per la salute . «Credo che sia giusto dire alle persone - ha scritto Bassetti su Facebook - che non bisogna esagerare, che il vino può far male quando si usano delle grandi quantità. Non lo è altrettanto dire, «in un Paese come il nostro dove siamo cresciuti in qualche modo con la cultura del vino, che il vino rimpicciolisce il cervello o che è come l’amianto o chissà quale altro tipo di sostanza cancerogena. Dire che bere con moderazione non dovrebbe causare problemi è molto importante. Anche perché ci sono numerosi studi scientifici che dimostrano che in alcuni setting piccole quantità di vino non solo non fanno male, ma possono addirittura far benefico. Il vino è molto diverso rispetto alle sigarette, perché le sigarette o altre sostanze anche in bassa quantità possono avere un effetto cancerogenetico. Il vino, evidentemente, con quantità minori, credo che non ce l’abbia».

Più drastica con Viola è stata Maria Rita Gismondo, direttrice del Laboratorio di microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze dell’Ospedale Sacco di Milano: «Ogni eccesso è assolutamente criticabile, che si tratti di bevande o di altre sostanze. Mi permetto di dire, però, che dovremmo lasciare questi commenti agli esperti di quel settore».

Maria Rita Gismondo

Il virologo dell’Università Statale di Milano Fabrizio Pregliasco è convinto, come Bassetti, che una modica quantità di vino non solo non è nociva, ma può essere benefica per uomini e donne. «Il vino sicuramente rappresenta un rischio per la salute nel momento in cui lo si consuma in modo non congruo - sostiene -. Ritengo che una demonizzazione totale come sempre non abbia senso. E che, come sempre, sia necessario praticare il buonsenso», perché «il resveratrolo presente nel vino rosso, ad esempio, ha un’azione positiva e immunostimolante e quindi serve ragionevolezza. Giusto invece lanciare un messaggio sui superalcolici e su altri prodotti magari destinati ai giovani», fra i quali non prevale un’attenzione all’«elemento qualità, ma che a volte puntano solo allo `sballo´».

Fabrizio Pregliasco

Sul fronte opposto a quello dei virologi ci sono gli enologi. Si sono riuniti nei giorni scorsi a Napoli, chiamati a raccolta dal loro presidente mondiali, Riccardo Cotarella. Sul palco hanno chiamato un gruppo di medici a favore della «quantità intelligente» di vino da bere, che «aiuta a proteggere da alcune malattie cardiovascolari». Tra gli intervenuti Luc Djoussé, direttore del Dipartimento di medicina della Harvard Medical School. La convitata di pietra è stata appunto la dottoressa Viola.

Riccardo Cotarella

«Nel simposio - dice Cotarella - è stato ribadito quanto sia importante uno stile di vita sano che trova la sua massima espressione nella famosa dieta mediterranea – patrimonio mondiale dell’Unesco - che prevede l’uso moderato di vino durante i pasti. Siamo sconcertati per le affermazioni dell’immunologa padovana, credo che serva senso di responsabilità prima di sentenziare su un tema tanto delicato, per non lasciare spazio a eventuali desideri di ingiustificato protagonismo».

Avvisi di morte sul vino come sulle sigarette: l’UE dà il via libera alla proposta. Raffaele De Luca su L'Indipendente il 24 Gennaio 2023.

L’Irlanda potrà adottare il suo piano di etichettatura con cui il vino, la birra ed i liquori verranno sostanzialmente messi sullo stesso piano delle sigarette: è questa la conseguenza del modus operandi dell’Unione Europea, la quale recentemente ha di fatto dato il via libera alla norma irlandese che prevede di rifarsi ad avvertenze con cui mettere in guardia i consumatori dal rischio di ammalarsi di cancro e di andare incontro a malattie del fegato a causa dell’alcool. La disposizione era stata infatti notificata nello scorso mese di giugno da Dublino alla Commissione europea che, non avendo posto alcuna obiezione prima della scadenza del periodo di moratoria (fine dicembre), ha di fatto autorizzato l’Irlanda ad adottare la normativa. Un via libera, tra l’altro, arrivato nonostante i pareri contrari di diversi Stati Membri, che considerando la misura come una barriera al mercato interno si sono opposti ad essa.

Tra questi l’Italia, con il ministro dell’agricoltura Francesco Lollobrigida che ha definito la decisione «gravissima». «Crediamo che dietro questa scelta un’altra volta si miri non a garantire la salute ma a condizionare i mercati e che la spinta in questo senso viene da nazioni che non producono vino e dove si abusa di superalcolici», ha inoltre affermato il ministro, ponendo l’attenzione sul fatto che l’intento sia proprio quello di «equiparare il vino ai superalcolici» nonostante lo stesso, se utilizzato in maniera moderata, sia un «alimento sano». Una posizione, quest’ultima, a quanto pare condivisa anche da alcuni membri del comitato scientifico di MOHRE (l’Osservatorio Mediterraneo per la Riduzione del Rischio in medicina) che si sono schierati contro il piano di etichettatura. «Mentre non c’è nessuna evidenza che le sigarette non siano dannose per la salute, in letteratura scientifica ci sono studi che mostrano che basse dosi di vino sono in grado di allungare la sopravvivenza di chi le consuma», ha ad esempio affermato Fabio Lugoboni – responsabile dell’Unità Medicina delle Dipendenze del Policlinico veronese Giambattista Rossi – mentre secondo l’oncologo medico Oscar Bertetto «alle giuste dosi il vino può essere consumato senza problemi».

È anche in virtù di tali considerazioni, dunque, che le critiche arrivate dal mondo associativo risultano essere a maggior ragione rilevanti. “Il via libera dell’Unione Europea alle etichette allarmistiche sul vino è un attacco diretto all’Italia che è il principale produttore ed esportatore mondiale con oltre 14 miliardi di fatturato, di cui più della metà all’estero” ha ad esempio affermato la Coldiretti, sottolineando che l’Irlanda “potrà adottare un’etichetta per vino, birra e liquori con avvertenze terroristiche, che non tengono conto delle quantità, come ‘il consumo di alcol provoca malattie del fegato’ e ‘alcol e tumori mortali sono direttamente collegati'”. «È del tutto improprio assimilare l’eccessivo consumo di superalcolici tipico dei Paesi nordici al consumo moderato e consapevole di prodotti di qualità ed a più bassa gradazione come la birra e il vino», ha inoltre dichiarato il presidente della Coldiretti Ettore Prandini, sottolineando che «il giusto impegno dell’Unione per tutelare la salute dei cittadini secondo la Coldiretti non può tradursi in decisioni semplicistiche che rischiano di criminalizzare ingiustamente singoli prodotti indipendentemente dalle quantità consumate». Micaela Pallini, Presidente di Federvini, ha invece definito la normativa irlandese «unilaterale, discriminatoria e sproporzionata», invitando il Governo italiano ad attivarsi «quanto prima per studiare ogni azione possibile, nessuna esclusa, per osteggiare una norma che contrasta con il buon senso e la realtà».

Insomma, in Italia i pareri negativi nei confronti della normativa di fatto autorizzata dall’UE sono tanti, e del resto essi paiono giustificati non solo dalle opinioni degli esperti sopracitate, ma anche da un modus operandi dell’Unione alquanto enigmatico. L’utilizzo dei nitriti e dei nitrati, ad esempio, è consentito dalla normativa europea, ed i regolamenti europei sugli additivi alimentari permettono un impiego anche generoso di tali sostanze sui vari tipi di carni, pesce e formaggi che vengono messi in commercio: per rendere l’idea, nella produzione di aringhe e spratti marinati in scatoletta o al banco gastronomia, si possono aggiungere fino a 500 milligrammi di nitrato per ogni chilo di prodotto. Un atteggiamento che sembra essere alquanto permissivo, soprattutto se si considera che non vi è alcun obbligo di legge di indicare la quantità in etichetta ingredienti ma soltanto la loro presenza, nonostante i nitriti ed i nitrati favoriscano alcuni tipi di tumore. Certo, tornando al vino bisogna ricordare che l’etichettatura riguarda esclusivamente l’Irlanda e non in generale tutti i paesi dell’UE, ma il timore adesso è che l’esempio irlandese possa essere seguito da altri Stati membri, che potrebbero sentirsi legittimati ad agire nel medesimo modo. [di Raffaele De Luca]

Per l’UE il vino fa male quanto il fumo. C’entra ancora il Qatar? Redazione L'Identità il 12 Gennaio 2023

L’Irlanda, Paese membro Ue, ottiene il via libera da Bruxelles per etichettare il vino con le avvertenze per la salute come per le sigarette. Frasi e immagini-shock per scoraggiare il consumo di alcolici. Una decisione in netta contraddizione con l’orientamento espresso dal Parlamento Ue, che ha bocciato tale sistema di etichettatura per il vino. Come ricorda Dino Giarrusso, della commissione Ue Agricoltura, “il vino è un prodotto che se consumato responsabilmente non è nocivo, ed accompagna l’umanità da millenni”. E’ antiscientifico equiparare i danni per il nostro organismo. Insomma, il fumo fa sempre male. Il vino dipende dalle quantità. Magari l’Irlanda – la buttiamo là – ha un problema di alcolismo diffuso nella popolazione. In ogni caso, ci viene un dubbio legittimo, alla luce dei recenti scandali che hanno squassato l’Europarlamento. Non sarà che il Qatar sta facendo (ancora) pressioni, visto che l’Islam vieta l’alcol?

Lara Loreti per “la Stampa” il 13 Gennaio 2023.

 Alert sanitari sulle bottiglie di vino? Il nutrizionista: «C'è un grosso equivoco: è l'abuso di alcol a far male, non un bicchiere di un "alimento liquido" che ha al massimo il 15% di alcol». Il wine expert: «In Italia e Francia non accadrà mai». Il presidente di Assoenologi: «Nel nostro Paese è da escludere, sarebbe masochismo». Il produttore: «La Commissione europea ha sbagliato». Il sommelier: «È giusto avvisare i consumatori dei rischi».

Il mondo del vino italiano è in fibrillazione di fronte al via libera dell'Europa alla richiesta dell'Irlanda di adottare sulle etichette degli alcolici gli avvisi, come sulle sigarette, «il consumo di alcol provoca malattie del fegato» e «alcol e tumori mortali sono direttamente collegati». Mentre il governo italiano, con il ministro dell'Agricoltura Francesco Lollobrigida e il ministro degli Esteri Antonio Tajani, promette battaglia («finché ci sarò io - dice il primo - in Italia non succederà»), sale la preoccupazione che l'esempio irlandese sia seguito da altri Paesi.

A far drizzare le antenne ai protagonisti del settore, il fatto che il via libera Ue sia arrivato nonostante i pareri contrari di Italia, Francia e Spagna - principali produttori di vino - e altri sei Stati Ue. Destano poi timore le difficoltà che la misura potrebbe causare al mercato interno e l'annuncio della Commissione di iniziative comuni sull'etichettatura degli alcolici nell'ambito del piano per battere il cancro. Ricordiamo che proprio sul Cancer Plan al Parlamento europeo, nei mesi scorsi, era passata la linea morbida portata avanti dall'Italia su un alert sanitario incentrato sull'abuso e non sul semplice consumo di alcol.

«Quello che contestiamo - dice Riccardo Cotarella, presidente di Assoenologi - non è che l'alcol possa far male, ma la necessità di fare un distinguo fra consumo e abuso. Mi auguro che Italia e Francia facciano capire all'Ue che così non ci siamo. Noi da anni diciamo che bisogna bere con moderazione. Proprio domani (oggi, ndr) a Napoli ci sarà un convegno su vino e salute con 400 enologi».

Il dibattito è aperto. «Il fumo è un vizio, anche l'alcol può esserlo e può far male - dice il sommelier imprenditore italiano che vive a Bordeaux, Mattia Cianca - Queste etichette sono un danno per il commercio, d'altro canto è anche giusto avvisare i consumatori; in alcuni Paesi, sugli alcolici ci sono gli alert per le donne incinte, ad esempio, e credo sia giusto».

 Parla di "equivoco" il nutrizionista Giorgio Calabrese: «L'Europa è partita da una visione errata, che si ammanta di bene, ma che in realtà fa di tutta erba un fascio, valutando le bevande alcoliche uguali. Se bevo whisky è una cosa, se bevo birra o vino è un'altra. In molti Paesi del Nord Europa c'è la piaga dell'abuso di superalcolici, ma nel vino non c'è prevalenza di alcol, ma di acqua. Chi produce vino è esterrefatto».

 Lo conferma Lamberto Frescobaldi, presidente di Unione Italiana Vini: «Nel vino l'alcol di fermentazione può arrivare al 15%; i superalcolici sono cose diverse, non possono trascinarci in questo calderone. La richiesta dell'Irlanda è lecita, ma la Commissione europea non ha considerato la posizione del Parlamento europeo, e non ha valutato le conseguenze, in primis quelle sul libero commercio. E poi siamo sicuri che funzioni?».

 Il via libera non è definitivo: entro 60 giorni, l'Organizzazione mondiale del commercio dovrà autorizzare l'Irlanda. «Per noi quello irlandese è un mercato piccolo - continua Frescobaldi - ma altri Stati potrebbero fare lo stesso e questo mina i princìpi dell'Europa, che nasce come mercato europeo comune per la libera circolazione delle merci: se ogni Stato torna ad andare a briglia sciolta, chi ci rimette è il consumatore. L'Italia e gli altri Paesi fondatori possono fare moral suasion sulle istituzioni Ue».

 Anche il mondo della ristorazione si ribella. «In Italia, Francia e Spagna vino è cultura - nota Gabriele Del Carlo, direttore della sommellerie del Bulgari a Parigi - Bollare le bottiglie come le sigarette sarebbe rinnegare la nostra storia».

Giù le mani dalle etichette e dal vino italiano. Chiara Risolo su Panorama il 13 Gennaio 2023.

La normativa sulle etichette con frasi shock contro l'uso e abuso di bevande alcoliche introdotta in Irlanda e che piace a Bruxelles scatena la reazione dei nostri produttori

A dividere l’Europa ci si mette anche il vino. Patrimonio dell’umanità per molti, il nettare è al centro di un dibattito al cardiopalma. Motivo: la decisione dell’Irlanda di scrivere in etichetta «il consumo di alcol provoca malattie al fegato» e «alcol e tumori mortali sono direttamente collegati». Bruxelles ha dato il via libera alla norma presentata da Dublino in Commissione lo scorso giugno e ora è legge. In altre parole, il tempio della Guinness dichiara guerra a bianchi e rossi, riducendoli alla stregua di sigarette. Il timore, naturalmente, è che il modello irlandese possa solleticare «il salutismo» di altri paesi. Certamente non dell’Italia. Il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida ha già espresso la sua posizione, definendo la decisione del Parlamento europeo «gravissima». «Dietro questa scelta c’è la volontà non di garantire la salute ma di condizionare i mercati. La spinta oltretutto viene da nazioni che non producono vino e dove invece si abusa di superalcolici» ha aggiunto. Ha tuonato anche Luca Rigotti, coordinatore settore vino di Alleanza Cooperative Agroalimentari: «Siamo sbigottiti. Con questa azione l’Irlanda è andata a ledere e a mettere in discussione i principi del mercato unico, nel cui perimetro è disciplinato il settore vitivinicolo e che dovrebbe garantire, tramite l’Organizzazione Comune di Mercato, un’applicazione per l’appunto “comune” dei principi e delle regole europee in tutti gli Stati membri. L’iniziativa dell’Irlanda rappresenta un precedente davvero pericoloso per il mercato unico dell’UE». Non da meno lo sconcerto dei produttori italiani, storicamente tra i più capaci, apprezzati e seri del mondo (parla la storia, non il campanilismo).

Ernesto Balbinot, patron de Le Manzane, cantina veneta da cui escono prosecchi fatti a regola d’arte, non ha dubbi: «Il vino fa parte della dieta e della cultura mediterranea. È inammissibile poi paragonarlo alla sigaretta poiché una sigaretta, anche una soltanto, che oltretutto non è un alimento, fa male, mentre un bicchiere di vino a pasto fa solo bene. Altra cosa è l’abuso, da condannare sempre».

Dello stesso avviso anche Stefano Frascolla, anima commerciale di Tua Rita, “gioielleria” toscana di vitigni internazionali che esporta vin de garage in tutto il mondo: «Sposo la teoria del nostro presidente di categoria, Lamberto Frescobaldi, per cui la via giusta da percorrere è quella dell’educazione al bere e non del terrorismo. Sappiamo tutti qual è la differenza tra uso e abuso, ovvero ciò che trasforma qualunque cosa, vale per le bevande, gli alimenti, le medicine, da utile a dannosa». Marco Fasoli - Emilia Wine Marco Fasoli, direttore commerciale di Emila Wine, tycoon del Lambrusco, spiega: «Trovo ridicola la decisione dell’Irlanda di PUBBLICITÀ ? ? 14/01/23, 09:50 Giù le mani dalle etichette e dal vino italiano inserire un alert per tutte le bevande alcoliche, incluso il vino italiano. Prima di tutto perché si nota un limite relazionale con l’Unità Europea, che ancora una volta deve fermamente intervenire perché, oltre ad aver dimostrato una contrarietà in tal senso, lascia aperte delle variabili che possono diventare lesive nei confronti dei produttori. È una scelta che non tiene minimamente conto della differenza tra consumo moderato e abuso, che invece è il tema centrale. Vero è che in aree come quelle scandinave e irlandesi il consumo è elevato, ma ciò non significa che questo sia il modo corretto per limitarne, o per meglio dire ottimizzarne, il consumo qualitativo». Così, infine, una freschissima e granitica dichiarazione di Micaela Pallini, presidente di Federvini: «Siamo di fronte a una normativa unilaterale, discriminatoria e sproporzionata. Unilaterale perché spacca il mercato unico europeo, discriminatoria perché non distingue tra abuso e consumo. Criminalizza prodotti della nostra civiltà mediterranea senza apportare misurabili ed effettivi benefici nella lotta contro il consumo irresponsabile» «Chiediamo che il governo italiano si attivi quanto prima per studiare ogni azione possibile, nessuna esclusa, per osteggiare una norma che contrasta con il buon senso e la realtà. Forse è giunta l’ora che il tema venga trattato a livello politico in ambito UE, non da soli ma con i partner europei che hanno già manifestato gravi perplessità. È necessario una presa di posizione di fronte al mutismo della Commissione Europea» conclude. Attendiamo fiduciosi.

Vini e alcolici, le cifre del made in Italy vincente. Cristina Colli su Panorama il 13 Gennaio 2023.

Gli alert sanitari sulle bottiglie di vino e alcol (come accade sui pacchetti di sigarette) allarmano un mercato made in Italy che solo in Italia vale 14 miliardi di euro l’anno e che nel 2022 ha raggiungo un record storico sull’export (8 miliardi di euro). «Anche il comparto degli spirits registra numeri importanti con un valore export nei primi nove mesi 2022 pari a circa 1,2 miliardi di euro», spiega Micaela Pallini, Presidente Federvini.

E ora quest’industria teme le “etichette” con le avvertenze sanitarie che per prima l’Irlanda potrebbe iniziare ad usare per le bottiglie di vino, birra e liquore. La discussione a Bruxelles è iniziata nel 2021. Subito e sempre contrari alle scritte sulle etichette (“il consumo di alcol provoca malattie.”) i paesi maggiori produttori, tra i quali ovviamente l’Italia, oltre a Francia e Spagna. Gli health warning, spiegano i produttori e le associazioni di categorie, potrebbero incidere molto su un mercato che crea un’occupazione di oltre 1,3 milioni di addetti nel nostro Paese.

VINI E ALCOLICI: I NUMERI DEL 2022 PREMIANO L’EXPORT MADE IN ITALY I dati del 2022 (Federvini) fotografano un anno per il mercato di vini e spirits per l’Italia con export anche a doppie cifre, una lieve diminuzione nel GDO e una ripresa del consumo “fuori casa”. In linea con la situazione economica generale: + 2,9% per i consumi delle famiglie e +10,5% nelle esportazioni. Per il 2023 le previsioni sono rispettivamente del -0,4% e del + 2,7%.Il settore (14 miliardi di euro e 1,3 milioni di occupati nei più diversi ambiti) ha una produzione diversificata: 70% a Docg, Doc e Igt con 332 vini a denominazione di origine controllata (Doc), 76 vini a denominazione di origine controllata e garantita (Docg), e 118 vini a indicazione geografica tipica (Igt) riconosciuti in Italia e il restante 30% a vini da tavola.Nel 2022 le vendite (GDO Italia) di vini hanno segnato un lieve calo (-3,5%, 2.006 milioni di euro). A soffrire soprattutto le bottiglie Dop (-5,2%) e IGP (-3,1%), con una diminuzione in termini di volumi (ettolitri) di oltre l'8%. Per quanto riguarda l'export invece l’Italia è crescita ovunque, tranne in Cina e in Germania. In alcuni paesi il boom è stato a doppie cifre come il +33,9% per fermi e frizzanti in UK, +82,5% per gli spumanti sempre in UK. Interessante il quasi +20% di esportazione di spumanti italiani nella concorrente Francia. Italia, con Cile e Australia sono stati gli unici esportatori di vini a crescere anche in termini di volumi, quasi dell'1%.

Per quanto riguarda gli spirits (distillati liquori aperitivi amari e acquaviti) è l'export che fa da padrone, continuando la sua corsa e registrando nel 2022 un +32% a valore e + 21% a volume. Tra gennaio e agosto 2022 i liquori made in Italy hanno portato 345 milioni di euro (+27% sul 2021). Gli aperitivi alcolici trainano sempre con un +18% sul 2021, grazie alle ottime performance dei pre-mixati.Per vini e alcolici nel mercato italiano c’è stata la ripresa inoltre dei consumi “fuori casa” nel 2022, con il mercato AFH che ha raggiunto i 90 miliardi di euro (+38% verso 2021; +6% verso 2019).

VINI E SPIRITS: LE SFIDE DEL 2023 DEL SETTORE Il record per le esportazioni del vino italiano nel mondo, 8 miliardi di euro (bilancio Coldiretti su base dei dati Istat), è arrivato nel 2022 nonostante il settore stia vivendo l’impatto degli aumenti dei costi di produzione diretti o indiretti dovuti al caro energia. Si va da +129% per il gasolio al +170% dei concimi, + 35% per le etichette e 45% per i cartoni di imballaggio. Oggi una bottiglia costa fino al 50% in più rispetto al 2021. E il 2023? «Per i settori vino e spirits sarà un anno decisamente in salita. È evidente che ci muoviamo in uno scenario di mercato complicato ed in continua evoluzione: I dati dell’osservatorio Federvini mostrano chiaramente un rallentamento legato al contesto economico internazionale nel quale si evidenzia un’Inflazione particolarmente elevata. – conclude Micaela Pallini, Presidente Fedevini- Sicuramente occorre pianificare una strategia incentrata sulla diversificazione dei mercati di destinazione. Tale strategia può essere coadiuvata da un lato dalla leva promozionale e dall’altro da una maggiore proattività dell’Unione Europea nel concludere ulteriori accordi di libero scambio con i paesi extra-Ue».

La noce moscata.

Estratto dell'articolo di Samantha Suriani per agrodolce.it il 17 gennaio 2022.

 Durante la puntata del daytime di Amici di Maria De Filippi andata in onda nel pomeriggio di domenica 15 gennaio su Canale 5 è scoppiato il cosiddetto caso noce moscata. […]

 A quanto pare, […] durante la notte di Capodanno […]  Wax, Tommy Dali, NDG, Maddalena e Samu, avrebbero sniffato della polvere di noce moscata per sballarsi e festeggiare l’ultima serata del 2022. Noi abbiamo deciso di usare il condizionale, in quanto queen Mary […] non è entrata nei dettagli e non ha confermato nessuna versione dei fatti. Tuttavia, sul web la voce sembra essere stata convalidata da alcune talpe interne al programma.

Pare addirittura che i ragazzi coinvolti, dopo il loro gesto, si siano anche sentiti male. […] Ma la domanda sorge spontanea: la noce moscata ha effetti allucinogeni?

Innanzitutto, ricordiamo che la noce moscata è una spezia vegetale originaria dell’Indonesia. […] Questa spezia […] contiene due composti attivi: la miristicina e l’elemicina. Il primo è un principio attivo precursore dell’MDMA mentre il secondo ha strutture simili all’anfetamina in sintesi, nonostante l’assunzione provochi effetti paragonabili a quelli dell’LSD. Per questo motivo, se assunta in dosi eccessive, la noce moscata può avere effetti allucinogeni.

Quando parliamo di dosi eccessive ci riferiamo a cifre superiori ai 2-8 grammi. Ovviamente questa cifra può variare in base alla sensibilità del singolo individuo, oltre che al suo peso e all’età. In generale, nel caso in cui l’assunzione superi questa quantità, la noce moscata può provocare nausea, vomito, febbre, stitichezza, gola secca, menomazione delle funzioni motorie, eccitazione nervosa, occhi arrossati, sonnolenza, apatia, percezione diversa dei colori, stati paranoici e gravi disturbi psichici […].

Ma non è finita qui. In medicina, sono stati registrati anche alcuni casi di overdose e morte in seguito all’ingerimento di 20-25 grammi di prodotto. […]

La noce moscata però non ha solo controindicazioni ma anche molti benefici. Se utilizzata nelle giuste dosi è consigliata a tutte quelle persone che soffrono di malattie respiratorie quali influenza o bronchite. Inoltre, per risolvere problemi di gengivite e nevralgia dentale, è possibile creare un collutorio con una goccia di olio essenziale di noce moscata diluito in acqua. Non solo. […]Questo alimento ha infatti anche proprietà afrodisiache. […]

L'eroina.

L'inferno di sinistra dove l'eroina è legale. Storia di Roberto Vivaldelli su Il Giornale l’1 febbraio 2023.

Dal 31 gennaio, in Canada, la Columbia Britannica, provincia che comprende la città di Vancouver, ha avviato un programma pilota di tre anni che blocca i procedimenti giudiziari contro le persone trovate in possesso di piccole quantità di eroina, metanfetamine, ecstasy o cocaina e crack. Secondo il Nuovo Partito Democratico, l'intento è quello di abbattere le "barriere e lo stigma" che circondano la tossicodipendenza e ridurre i tassi di overdose.

A questo si aggiunge la possibilità di prescrivere oppiodi in un sistema finanziato dai contribuenti. Sull'onda di questa spinta libertaria, nonostante rimanga comunque vietato per legge, a Vancouver hanno addirittura aperto dei negozi in cui è possibile acquistare eroina. Storicamente, infatti, le forze dell'ordine hanno ignorato i commercianti che hanno venduto nei loro esercizi la cannabis, legalizzata nel 2018, e potrebbe chiudere un occhio, se non due, anche in questo caso.

Negozi di eroina a Vancouver

Come riporta Canada Today, l'ex tossicodipendente Jerry Martin, 51 anni, con un fratello morto per overdose, ha aperto un negozio in cui venderà anche eroina. Ha spiegato alla testata canadese che vuole dare ai tossicodipendenti l'accesso a forniture sicure e testate, attrezzature come aghi sterili e istruirli su come uscire dalla loro dipendenza.

Non è chiaro da dove provenga la droga che venderà ai suoi clienti, ma propone dei prezzi appena superiori a quelli degli spacciatori in strada. Non ha affatto paura dei controlli della polizia: Martin spiega che qualora venisse arrestato, presenterà un ricorso in tribunale a sostegno della vendita di droghe pesanti ai sensi della Carta dei diritti e delle libertà del Canada.

Conoscendo l'orientamento dei giudici canadesi, potrebbe anche spuntarla. Ha spiegato: "Per le persone là fuori che pensano che sia una cattiva idea, devono guardarla dal punto di vista dell'utente e della famiglia di quell'utente". Il suo avvocato, Paul Lewin, ha ricordato inoltre che "Vancouver è una parte molto progressista del Paese".

Conservatori all'attacco

Il mese scorso, Pierre Poilievre, il leader del Partito conservatore canadese, ha accusato la sinistra del Nuovo Partito Democratico di voler "usare i soldi dei contribuenti per finanziare droghe pericolose con la scusa dell'approvvigionamento sicuro". "Non esiste una fornitura sicura di questi farmaci. Sono mortali", ha aggiunto.

Ha poi spiegato che questa politica porterà a "un aumento significativo delle overdose da droga e un massiccio aumento della criminalità". Andy Bhatti, uno specialista delle dipendenze, ha affermato che l'esperimento della Columbia Britannica che consente la prescrizione di oppiodi, è una "soluzione a breve termine per allontanare le persone dal fentanyl", ma il "problema è che il 90% dei tossicodipendenti da oppiacei usa altri stimolanti".

La situazione in Canada

Nel frattempo, i dati sul consumo di droga - e sulle overdosi - registrate nella Columbia britannica sono drammatici. Nella provincia canadese, infatti, si è registrato, dal 2016 ad oggi, circa un terzo dei 32 mila decessi per overdose a livello nazionale, secondo i dati ufficiali. Tant'è che la provincia ha dichiarato quest'anno l'overdose di droga un'emergenza di sanità pubblica.

Depenalizzare l'eroina è la strada giusta? Il governo del primo ministro Justin Trudeau ha dichiarato a maggio che avrebbe permesso alla Columbia Britannica di depenalizzare le droghe con un'esenzione unica nel suo genere.

Non perseguendo le persone che trasportano piccole quantità di droga, il governo della provincia spera di affrontare la questione come un problema di salute pubblica piuttosto che attraverso il sistema di giustizia penale. La mossa, tuttavia, rischia di rivelarsi controproducente e molto pericolosa. Soprattutto per i giovani.

Estratto dell'articolo di Stefano Landi per corriere.it il 5 giugno 2023.

Era il 1994. Qui dentro si stringevano 1.800 persone. La morte di Vincenzo Muccioli un anno dopo. Chiunque conosceva almeno una persona che si era bucata via la vita. Eroina, ovunque. La serie di Netflix ha riacceso i riflettori su San Patrignano, ha tramandato quel disastro sociale a giovani che non erano manco nati quando la nuvola tossica era la cartolina di una generazione travolta dalle sue fragilità. Questa è un’altra storia. Perché oggi sta succedendo qualcosa di molto diverso. […] Adolescenze diverse, uscite a pezzi da due anni di clausura pandemica.

In 45 anni di storia, San Patrignano è diventato uno specchio delle curve buie della società. Oggi ti affacci e scopri facce pulite. Giovani. «Abbiamo appena finito i lavori per ospitare un terzo centro minori», dice Antonio Boschini. Che qui entrò a pezzi sotto i colpi dell’eroina, per poi diventare responsabile terapeutico della comunità. A San Patrignano cresce la domanda di minorenni. Il loro è un percorso diverso. Arrivano paracadutati dall’alto. Non l’hanno scelto, anzi gli fa pure schifo, come a tutti i ragazzini quando parli di regole.

[…] possono andare a scuola la mattina, mescolandosi con il mondo esterno. Possono scrivere, sentire e vedere i genitori prima degli altri, anche se il rapporto con le famiglie non sempre è un affare. Il tentativo di fagli vivere in modo sano l’adolescenza. Che per molti significa un giro al centro commerciale o un panino da McDonald’s cetriolo compreso. 

Ivan sembra un bambino. Ha 14 anni, è il più piccolo di tutti qui dentro. Ormai ha imparato a misurare i secondi del fumo di ogni sigaretta.  […] Ivan si è fatto solo qualche canna per gioco. La droga è un dettaglio. La sua è una carrellata di piccoli reati fatti per dimostrare qualcosa a qualcuno. È cresciuto a Bressanone in uno slalom tra assistenti sociali e forze dell’ordine: «Ho iniziato a stare in giro 6 anni fa quando hanno arrestato mio padre. La mia vita era andata: volevo quello che avevano altri e siccome i miei non me lo davano me lo prendevo». […] 

Luigi, 16 anni, l’hanno acchiappato per il collo dopo che era finito a scommettere 20 mila euro. Blackjack, videopoker, Superenalotto. Ludopatia. I soldi da perdere se li procurava rubando. «Rapina a mano armata, furti in abitazioni. L’azzardo era un’ebbrezza. Qui ho scoperto di non essere l’unico, di non essere solo. Lavoro per superare la mia impulsività».  […] Sono soprattutto le ragazze qui ad aver perso la sfida con le droghe. Michelle sta sfiorando i 18 anni. È qui da due: l’ha deciso con suo padre, che anni fa era stato salvato dall’eroina. «A 13 anni mi prostituivo per trovare i soldi per comprarmi il crack.

Ho vissuto mesi di spaesamento, ora lavorare in cucina mi insegna l’autocontrollo. Ho imparato la cura di me stessa, iniziato a volermi bene».

Ginevra invece sarebbe rimasta nella sua Albania dove viveva con mamma, sorella e con i nonni. «Mio padre era venuto in Italia, aveva problemi con la legge. Quando ci siamo trasferiti qui la situazione è precipitata. A casa era un incubo: alcol, violenze, mamma con gli occhi viola. Una sera sono scappata per fuggire dai suoi pugni. Ho iniziato rubare per le canne, la ketamina, la cocaina». Iniziano le visite dei carabinieri, degli assistenti sociali.

Nell’agosto del 2021, San Patrignano. «Ho superato questo cancello che erano le 11,25, pensavo di entrare in carcere. La convivenza con altre ragazze, per me cresciuta unica donna in mezzo a compagnie di maschi, mi terrorizzava». Oggi tira di boxe, gioca a pallavolo, sta per iniziare un corso da parrucchiera. «Il confronto con altre persone che hanno visto in faccia la sofferenza ti cambia, la rabbia diventa motore positivo». 

[…]

La Cocaina.

Benvenuti a Cocainopoli, dove sniffare è legale ma non si deve dire. Arresti e sequestri record non riescono a fermare lo tsunami di una droga che era per ricchi e ora unisce le classi sociali. Magistratura e forze di polizia lanciano l’allarme. Ma la polvere bianca dà lavoro. E la lotta al riciclaggio si fa per onor di firma. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 17 Agosto 2023

Chi glielo spiega al sottoccupato meridionale senza reddito di cittadinanza incappato in un posto di blocco con i pacchi di cocaina nel portabagagli che lui deve farsi vent’anni di galera mentre i protagonisti della politica, della moda, della pubblicità, ma anche ormai autisti di autobus, lavoratori sotto stress, ragazzetti con 50 euro in tasca, insomma gli utilizzatori finali del suo servizio possono dire ai cronisti scandalisti di farsi gli affari loro? Come dire, a lui e a chi lo arresta, che oltre il dibattito colto tra proibizionisti e abolizionisti c’è una terza via, quella del reale, dove la cocaina è già stata di fatto legalizzata?

Prima di gridare all’iperbole, bisogna ascoltare le parole di Francesco Lo Voi. Il 12 luglio scorso il procuratore della Repubblica di Roma in udienza alla commissione parlamentare antimafia, nominata dal governo Meloni senza troppa fretta dopo otto mesi, si è espresso così sulla situazione del narcotraffico nella capitale: «Se non è totalmente fuori controllo, poco ci manca, nonostante l’impegno, le indagini e gli arresti. Lo scenario è veramente preoccupante per la semplice ragione che ad alimentare un’offerta abnorme c’è una domanda abnorme». 

Se Roma sniffa, la Madonnina ha sostituito la nebbia con la polvere bianca. «Milano si conferma la capitale della droga. La richiesta è altissima», hanno dichiarato i magistrati del pool guidato dal procuratore Marcello Viola a commento dell’operazione “Money delivery”, chiusa in primavera con un bottino di 645 chilogrammi di cocaina sequestrato alle filiali lombarde dei clan di Africo. I volumi di traffico erano di tre quintali al mese, depositati in un capannone di Gerenzano (Varese) giusto il tempo di una distribuzione a tamburo battente, spinta da una richiesta forsennata e di fatto incontrollabile.

Nord e Sud uniti nella coca mostrano un’integrazione finalmente efficace. Il Mezzogiorno, per lo più, fornisce. Il Settentrione, per lo più, consuma e reinveste il denaro del narcotraffico nelle piazze ricche, perché anche la guerra al riciclaggio ormai si combatte per onor di firma.

Lo stato delle cose è descritto nell’ultimo rapporto della Dcsa (direzione centrale per i servizi antidroga), pubblicato il 15 giugno 2023 a firma del generale della Guardia di finanza Antonino Maggiore, sostituito a fine luglio da Pierangelo Iannotti dei carabinieri.

Nella prefazione al rapporto di 506 pagine le cifre parlano. Nel 2022 i sequestri di cocaina hanno ritoccato il record italiano del 2021 da 21,39 a 26,1 tonnellate. Gli effetti della pandemia sulla popolarità della coca sono stati irrilevanti. Caso mai, hanno incentivato i consumi. Nel 2018 i sequestri, che sono una quota minima del flusso effettivo, erano a quota 3,63 tonnellate. Un’inezia rispetto a quanto si è già visto nei primi sette mesi di un 2023 che corre verso il nuovo primato nazionale. Fino a pochi anni fa, i sequestri più importanti viaggiavano per quintali. Ora sotto la tonnellata è robetta. I due colpi di aprile e di luglio nelle acque di Catania e davanti a Termini Imerese hanno totalizzato insieme 7,3 tonnellate per un valore di mercato di 1,2 miliardi di euro. 

Il sequestro di due tonnellate al largo della costa orientale dell’Isola ha illustrato le nuove possibilità offerte dalla tecnologia ai trafficanti. Il carico è stato depositato dalla nave madre in mare aperto dentro involucri impermeabilizzati tenuti insieme da una rete e da galleggianti. Grazie al sistema gps è possibile anche affondare i pacchi, come si è appreso dall’inchiesta “Nuova narcos europea” della direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria contro la cosca Molé, che si serviva di sommozzatori professionisti reclutati a gettone nella Marina militare peruviana, oltre che di chimici colombiani e boliviani con spese di viaggio pagate, per recuperare i carichi sommersi di fronte ai porti di Gioia Tauro e di Livorno.

Il sequestro di fine luglio, oltre a stabilire il nuovo record italiano a quota 5,3 tonnellate, ha messo in mostra il collaudato sistema della spezzatura di carico dalla Plutus, salpata da Santo Domingo, a un peschereccio partito dalla costa calabrese. Fra i venti arrestati figuravano italiani, azeri, turchi, albanesi, tunisini, francesi e ucraini. In pratica, la rosa di una squadra di serie A.

Ed è ancora nulla rispetto alle 23 tonnellate bloccate tra Belgio e Italia nell’operazione Eureka andata a segno lo scorso maggio su intervento della Dda di Reggio Calabria. Il controvalore della merce è stato stimato in 2,5 miliardi di euro. Sommati agli 850 milioni di Termini Imerese e ai 400 di Catania si viaggia non lontano dai 4 miliardi, che equivalgono a metà della spesa del reddito di cittadinanza nel 2022 secondo le stime dell’Inps.

La coca dà lavoro. A tutti. Lavora il sottoproletario mafioso che rischia vent’anni e lavora il centralinista che prende gli ordini al telefono e spedisce un grammo o dieci a domicilio come manderebbe una capricciosa doppia mozzarella. A Ponte Milvio, quartiere della movida di Roma nord, le dosi si ordinavano attraverso la app Session, con i pusher nascosti dietro account falsi e indirizzi ip stranieri (marzo 2023). Idem a Verona, dove la merce ordinata arrivava con i rider (luglio 2023). A Trento è in uso il recapito in tabaccheria del centro, con una riedizione del vecchio fermo posta (ottobre 2022). Il giornale online RomaToday ha spiegato come in cinque clic si possa passare da Instagram all’immancabile Telegram attraverso un “dissing”, un litigio sulla pagina di un influencer. Fino a poco tempo fa, lo spaccio era confinato al dark web. Oggi basta una app di messaggistica istantanea, sul genere di Wickr Me che la controllante Amazon chiuderà alla fine del 2023. 

Al centro di questo mondo virtuale dove i dettaglianti mostrano fantasia e iniziativa, il ruolo della ‘ndrangheta rimane preminente. Ma i criminali calabresi sanno giocare bene sullo scacchiere delle alleanze. «Per quanto riguarda Cosa Nostra», sostiene la Dcsa, «le indagini rivelano una sua persistente vitalità, un reiterato interesse al traffico di stupefacenti, una notevole capacità di adattamento ai mutamenti di contesto ed un approccio pragmatico al redditizio “business” del traffico di droga, che genera enormi profitti, a fronte di minori rischi, rispetto ad altri reati tipicamente mafiosi, quali ad esempio le estorsioni». In ottima forma grazie alla coca sono anche la camorra e le mafie pugliesi.

Il controllo del territorio consente una relativa tranquillità nella gestione del traffico. I sequestri sono parte del rischio di impresa e le condanne colpiscono i personaggi apicali difficilmente o in ritardo. Roberto “Bebè” Pannunzi, romano, 75 anni vissuti nella cocaina da quando partì per il Canada dominato dal Siderno group di don Antonio Macrì, è stato spedito in Italia solo dieci anni fa dal Sudamerica dove era diventato il re dei mediatori. Un anno fa, Pannunzi ha ottenuto la revoca del 41 bis, il regime di carcere duro riservato ai grandi boss mafiosi. Gli rimangono diciotto anni da scontare. Forse anche lui era diventato obsoleto, dunque sacrificabile, rispetto al nuovo mondo della coca 2.0 dove, tuttavia, un attracco sul mare serve sempre.

«In questa ricostruzione dello scenario operativo», sottolinea il rapporto della Dcsa, «riveste un ruolo di assoluta centralità il porto di Gioia Tauro, nel quale si concentra l’80,35% dei sequestri di cocaina effettuati alla frontiera marittima, con un’incidenza del 61,73% sul totale nazionale».

In Calabria, ormai, si scherza sull’argomento con i post online dello Statale Jonico: «clamoroso a Gioia Tauro, trovate banane dentro un container di coca».

La satira e il folklore possono essere veri quanto la cronaca. Ci sono i giochi d’artificio sparati in certi quartieri delle grandi città per segnalare un carico andato a buon fine. Ci sono i rilevamenti chimici che hanno tracciato la coca in metà delle banconote sequestrate in Francia, soprattutto i tagli piccoli da dieci e venti euro, e addirittura nell’80 per cento dei dollari in circolazione a New York. Torna alla mente una frase di Pablo Escobar Gaviria. Il capo del leggendario cartello di Medellín, celebrato da film e serie tv, aveva già individuato la radice geografica delle sue fortune quando diceva: «Non c’è società in Colombia che prende più soldi di me dagli Stati Uniti». E ai suoi tempi la coca era ancora la droga dei ricchi.

Il ridere per non piangere è una coperta sottile sul cuore del problema: i consumi. Ai primi di agosto il progetto “Acque reflue” dell’istituto farmacologico Mario Negri ha pubblicato le sue conclusioni sul biennio 2020-2022. L’analisi dei residui metabolici delle sostanze stupefacenti nelle acque arrivate ai depuratori di 33 centri urbani nelle venti regioni italiane mostrano che la cannabis rimane al primo posto, con 51 dosi al giorno ogni mille abitanti. La cocaina segue in classifica con oltre 20 dosi al giorno per mille abitanti a Pescara, Montichiari, Venezia, Fidenza, Roma, Bologna, Merano. I consumi più bassi, compresi tra una e quattro dosi al giorno, si rilevano a Belluno e Palermo. Non solo grandi città, dunque. Anche la provincia si adegua alla moda. Con quali numeri è difficile dire.

Il bollettino statistico europeo pubblicato a fine giugno dall’Emcdda (european monitoring centre for drugs and drug addiction) mette la cocaina al primo posto fra le sostanze stimolanti, mentre a livello quantitativo la cannabis è sempre prima in classifica. Nei 27 paesi presi in esame i consumatori sarebbero 23,7 milioni pari all’1,3 per cento della popolazione. Ma sono dati che ruotano intorno all’uso patologico, che è il maggiore responsabile dei ricoveri in pronto soccorso per avvelenamento (27 per cento del totale).

L’ultimo rapporto sulle tossicodipendenze pubblicato sul sito del ministero della Salute a fine ottobre 2022 analizza a livello nazionale dei dati rilevati attraverso il Sistema informativo nazionale per le dipendenze (Sind). Dal rapporto è difficile rilevare o anche solo stimare quelli che l’Osservatorio europeo droghe e tossicodipendenze, agenzia dell’Ue con sede a Lisbona, definisce i consumatori sperimentali.

Nel mondo degli sperimentatori la cocaina è dovunque. Era nelle feste milanesi con stupro dell’imprenditore Alberto Genovese, che ha invocato la sua dipendenza come attenuante. Era negli incontri privati di Luca Morisi, il tattico della Bestia, la macchina propagandistica della Lega, che è stato archiviato su richiesta della pubblica accusa «per particolare tenuità dei fatti». Era in menu presso lo chef palermitano Mario Di Ferro dal quale si riforniva il berlusconiano Gianfranco Micciché, più volte parlamentare nazionale e oggi deputato regionale siciliano, ascoltato come semplice persona informata dei fatti. Nessun problema da parte di Miccichè ad ammettere l’uso, senza l’ipocrisia di molti colleghi e senza la tigna dell’autista dell’Atac che tre anni fa è stata trovata positiva a un controllo antidroga e negativa al secondo. La donna ha fatto causa all’azienda municipalizzata romana e ha ottenuto un risarcimento di 20 mila euro. Nel frattempo, però, i controlli antidoping a campione dell’Atac hanno portato diciassette licenziamenti.

Colpire i clienti del narcotraffico con multe e ammende, perché pensare al carcere è una follia, presuppone un impegno da parte dello Stato che è incompatibile con queste masse di consumatori e con gli standard italiani in generale. Quindi si lascia fare.

Chi sostiene la liberalizzazione delle droghe trova un buon argomento nell’impossibilità di contrastare un uso così ampio. Ma legalizzare per stroncare il principale canale di accumulazione finanziaria del crimine organizzato presuppone che i clan accettino più o meno di buon grado la statalizzazione dei loro traffici. Questo non è successo con i tabacchi lavorati esteri (tle), che sono ancora fonte di arricchimento per le mafie dedite al contrabbando. Men che meno accadrebbe con la cocaina. Inoltre bisognerebbe organizzare norme, limiti, verifiche, reti di distribuzione e trovare referenti per l’acquisto fra i padroni del traffico. Ciò significa trattare a viso aperto con criminali efferati che non hanno nemmeno la scusa, concessa ad alcuni capi di Stato attualmente in carica, di essere eletti dalla volontà popolare.

Soprattutto la liberalizzazione di una droga cosiddetta pesante creerebbe un problema con l’idea di Stato etico che aleggia dai tempi di Hobbes e di Hegel. La prima vittima casuale di un cocainomane vedrebbe le istituzioni sul banco degli imputati. Non sono cose che uno Stato sedicente etico è disposto a fare, quanto meno non alla luce del giorno.

La fascia di insicurezza intanto si allarga. Basta pensare ai casi avvenuti in due delle maggiori località turistiche della Campania. Il primo a Capri nel luglio di due anni fa, quando un bus è precipitato nel vuoto. Il conducente rimasto ucciso, Emanuele Melillo, 32 anni, aveva un’invalidità del 50 per cento e faceva uso di cocaina. Da bigliettaio era stato spostato alle mansioni di autista. Oggi sono sotto processo tre persone fra le quali il medico che avrebbe dovuto sorvegliare le condizioni di Melillo.

Il secondo episodio risale a pochi giorni fa quando nel mare di fronte ad Amalfi uno skipper trentenne è stato coinvolto nella collisione che ha ucciso l’editrice di Bloomsbury Usa Adrienne Vaughan. Il giovane è risultato positivo al test della cocaina.

Si è solo sfiorata la tragedia lo scorso giugno a Ciampino quando il conducente di un pullman in partenza per una gita scolastica di bambini è stato controllato dalla polizia locale e trovato positivo ad alcol e droga.

Insicurezza dovrebbe significare consenso elettorale in discesa. Ma la cocaina non è vista come un tema politico, anche perché in parlamento chi è senza peccato scagli la prima pietra. Allora avanti così, con la coca legalizzata. Basta che non si sappia in giro.

(ANSA il 20 luglio 2023.) Maxisequestro di cocaina in Sicilia, il più importante mai eseguito in tutta Italia. A bordo di un peschereccio sono state sequestrate oltre 5,3 tonnellate di cocaina. La droga, destinata al mercato italiano, avrebbe fruttato oltre 850 milioni di euro. L'imbarcazione è stata bloccata e scortata fino a Porto Empedocle, nell'Agrigentino, dove ha ormeggiato, dalle motovedette d'altura della Guardia di Finanza. Le cinque persone dell'equipaggio - un italiano, due tunisini, un francese e un albanese - sono state fermate dalla Dda di Palermo.

Erano tutte a bordo del peschereccio "Ferdinando d'Aragona" del compartimento marittimo di Reggio Calabria. I fermati sono Vincenzo Catalano, 35 anni di Bagnara Calabra (Reggio Calabria) - comandante del motopeschereccio; Kamel Thamlaoui, tunisino, 53 anni residente in Tricase (Lecce); Sami Mejri, tunisino, 48 anni, residente a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina); Yanis Malik Bargas , francese, 19 anni; Elvis Lleshaj, albanese, 35 anni. Sono già stati trasferiti tutti nel carcere Pagliarelli di Palermo. 

L'operazione è stata condotta dal comando provinciale di Palermo della Guardia di Finanza con numerosi mezzi aerei e navali del comando operativo aeronavale di Pratica di Mare (Roma) e del reparto operativo aeronavale di Palermo, in coordinamento con gli investigatori del nucleo di polizia economico finanziaria di Palermo e sotto la direzione della Dda Palermo, diretta da Maurizio De Lucia.

Tutto è cominciato martedì sera. Su segnalazione del II reparto del comando generale della guardia di finanza - un Atr 72 del comando operativo aeronavale, in servizio di ricognizione nel canale di Sicilia, impiegato da alcuni giorni nel monitoraggio di una nave mercantile, ha rilevato l'avvicinamento al cargo battente bandiera della Repubblica di Palau (isole del Pacifico ndr) di un peschereccio partito dalle coste calabresi. E' stato quindi predisposto un dispositivo di polizia, con l'impiego di ulteriori mezzi aerei e navali in forza al gruppo aeronavale di Messina, al gruppo esplorazione aeromarittima e al reparto operativo aeronavale di Palermo e con il supporto investigativo degli specialisti del Gico e del nucleo di polizia economico-finanziario di Palermo.

Durante la notte è stato accertato che la "nave madre" stazionava ai limiti delle acque territoriali dove aspettava il peschereccio, verosimilmente per un trasbordo illecito. Nelle prime ore di ieri sono state registrate anomale operazioni di accumulo di numerosi pacchi sul ponte della nave "madre" che poi sono stati scaricati in mare mentre si avvicinava il peschereccio italiano, che nel frattempo aveva disattivato il sistema di localizzazione Ais, per recuperare il carico gettato in mare. 

I finanzieri sono subito entrati in azione bloccando il peschereccio che stava facendo rientro verso le acque territoriali, a bordo del quale, occultato dietro una pannellatura che celava un ampio locale, è stato scoperto l'enorme quantitativo di stupefacente. Le unità navali del Corpo hanno inseguito la nave mercantile che nel frattempo stava cercando, senza successo, di riprendere il largo in direzione della Turchia. Il peschereccio è stato scortato al porto di Porto Empedocle mentre la "nave madre", con un equipaggio composto da 15 persone di nazionalità ucraina, turca e azera è stata scortata da mezzi navali verso il porto di Palermo. Anche i 15 componenti dell'equipaggio del mercantile sono stati fermati.

 Ester Palma per corriere.it il 17 luglio 2023.

Come arriva in Italia la tantissima cocaina che alimenta il fiorente mercato del nostro Paese?  L'ultima relazione della Direzione centrale dei servizi antidroga dedica al tema un focus e spiega che il 90% arriva via mare, visto che la stragrande maggioranza dei sequestri avviene nei porti. E illustra tutti i «trucchi» usati dai trafficanti per importarla. 

La droga viene nascosta praticamente ovunque: nel doppiofondo di un trolley, in un flacone di profumo, nella gomma di un'auto, nell'incavo di un souvenir, persino direttamente nello stomaco nel caso degli «ovulatori». I narcos, come spiega l'Agi. si affidano alle statistiche: per esempio nel 2021 per i principali porti Ue sono passate 3,5 miliardi di tonnellate di merci lecite. […]

Fra i sistemi preferiti dai narcos ci sono i container refrigerati. Ma non dipende dal carico. È per la presenza di vani ed intercapedini - sede dell'impianto di raffreddamento - che possono essere sfruttati riempendoli di panetti di stupefacente. Non solo: alcuni di questi spazi sono accessibili anche dall'esterno e quindi diventa meno complicata anche l'operazione di esfiltrazione. 

C'è però un limite: si tratta di vani in genere di ridotte dimensioni, per cui la quantità di droga trasportata è minore. In gergo, questo tipo di contaminazione delle strutture è nota come rip-off (o anche «gancho ciego»): è una grave minaccia perché quasi sempre avviene nella totale inconsapevolezza di spedizioniere e destinatario e può riguardare qualsiasi genere di prodotto, rendendo più difficili anche le analisi di rischio.

Ma è la contaminazione del carico - principalmente banane e pesce congelato ma anche caffè, cacao, frutta, legname, materiali da costruzione, rottami ferrosi, pelli semilavorate - di gran lunga la tecnica preferita dai trafficanti. Anche perché generalmente, molti di questi prodotti sono inscatolati e «pallettizzati». Di conseguenza, la contaminazione del carico può avvenire in sede di chiusura del collo e di formazione del pallet (presso l'azienda agricola o l'eventuale distributore), ovvero lungo il tragitto che conduce il prodotto già confezionato verso i magazzini dello spedizioniere o verso il porto.  […]

E poi ci sono i «parassiti», ovvero uno o più contenitori di stupefacenti che vengono agganciati allo scafo o possono essere trainati dalla nave attraverso un cavo d'acciaio. Si tratta di cilindri, di scatole, di magneti, di tubi attaccati alla chiglia o ad altri elementi (la pala del timone e le casse, ad esempio): servono dei sommozzatori per piazzarli e, una volta a destinazione, recuperarli. […] 

La spedizione di cocaina attraverso il rip-off impone tutta una serie di attività di recupero. Occorre, ad esempio, identificare il container che verrà spedito a un determinato porto ed ottenere il suo numero identificativo, il numero del sigillo doganale e l'ubicazione del container all'interno della struttura portuale. […] Dopo l'arrivo di un container destinato all'importazione nell'Ue, un rappresentante dell'importatore (spesso uno spedizioniere) presenta la polizza di carico e altri documenti alla dogana, in genere tramite una piattaforma digitale. […] Fuori dal porto, la droga viene estratta dal container che in alcuni casi viene semplicemente abbandonato lungo la strada o fatto sparire.

Estratto dell’articolo di Vincenzo Bisbiglia per “il Fatto quotidiano” il 17 luglio 2023.

 “La situazione sul traffico di stupefacenti in città è veramente preoccupante, se non è fuori controllo poco ci manca”. Le parole del procuratore capo di Roma, Francesco Lo Voi, mercoledì pomeriggio in Commissione parlamentare Antimafia, hanno rilanciato l’allarme sulla crescita esponenziale del mercato di droga nella Capitale. “L’offerta è enorme perché risponde ad una domanda che è altrettanto enorme”, ha spiegato l’ex capo dei pm di Palermo. 

Ma cosa è cambiato negli ultimi tre anni a Roma? Come ogni settore economico che si rispetti, non c’è solo il prezzo o la qualità del prodotto a invogliare il consumo, ma anche la facilità con cui il pubblico può fruirne. In questo caso, il mercato della droga capitolino – come desumibile dalle recenti operazioni eseguite da Carabinieri e Guardia di Finanza – ha compiuto un importante salto di qualità, introducendo la figura del “rider” e spostando buona parte delle attività delle 100 piazze di spaccio romane sulle chat di Telegram. 

[…] Come raccontato da Il Fatto nel marzo scorso, ormai il mercato della droga dentro il Grande Raccordo Anulare è arrivato a superare 1 miliardo di euro di giro d’affari. Lo Voi, in commissione parlamentare, ha ricordato che nella Capitale coesistono da sempre più livelli di “mafie”, tra clan strutturati, gruppi autoctoni, criminalità “interstiziale” e bande straniere. […]

Lettera di Filippo Facci a Dagospia Il 14 luglio 2023.

Caro Dago, devo contraddire quanto scritto (e da te ripreso) a opera dello scandalizzato Stefano Lorenzetto che, da incredulo cattolicone veronese, non può accettare che persino dei papi, quando la cocaina era lecita, ne assumevano con entusiasmo non perché fossero «tossicodipendenti», come non ho mai scritto, ma perché era considerata una sostanza miracolosa che, al pari della morfina, della mescalina, della caffeina e dell’alcol sono state considerate legali o illegali a seconda del periodo storico. 

Sto parlando di un tempo, nel caso, in cui era possibile entrare in una farmacia e chiedere della cocaina da inalare, masticare, sciogliere in bocca,  fumare, in unguento, in supposte e soprattutto in bevande come il Coca Wine della Metcalf ma, su tutti, il Vin Mariani che peraltro ispirò, priva di alcol, la formula originale della Coca Cola. 

Papa Leone XIII, golosissimo di Vin Mariani, insignì il suo creatore Angelo Mariani di una medaglia d’oro. Parliamo di un Papa che campò quasi cent’anni e che fece encicliche fondamentali, e che ne assumeva circa tre bicchieri al giorno (175 milligranmmi) corrispondenti a due o tre «strisce» di cocaina moderna mediamente tagliata. Poi la cocaina fu proibita, e tutto cambiò, accadde in un periodo in cui negli Usa del resto proibirono anche gli alcolici. Sul tema ho accumulato negli anni una documentazione impressionante per la mia vecchia idea di scriverci un libro.

Dagospia Il 14 luglio 2023. ESTRATTO DA “PULCI DI NOTTE” DI STEFANO LORENZETTO -  DA “ANTEPRIMA. LA SPREMUTA DEI GIORNALI DI GIORGIO DELL’ARTI", E PUBBLICATO DA “ITALIA OGGI”

«Nelle università si studia “L’interpretazione dei sogni”, che Freud scrisse con in corpo 5 grammi di cocaina quotidiani, e oggi la prendono atleti, piloti d’aereo, affaristi di Borsa, e la presero scienziati, e papi come Pio X e Leone XIII e molti sovrani europei». Lo scrive Filippo Facci sulla prima pagina di Libero, e tanto basta ad Anteprima per ricavarci il Clamoroso in apertura della «spremuta dei giornali»: «Pio X e Leone XIII fecero uso di cocaina (Facci, Libero)».

Ma di clamoroso c’è ben poco, trattandosi di una rimasticatura di ciò che apparve due anni fa, sempre a luglio (precisamente il 23), sempre su Libero, sempre in prima pagina e sempre a firma di Facci. Siamo invece in grado di aggiungere un dettaglio questo sì clamoroso: nella lista dei presunti cocainomani manca Benedetto XV. Sono infatti tre i pontefici citati come involontari testimonial dalla Maison Coca Mariani 1863 per aver attribuito una medaglia d’oro «al Sig. Mariani in riconoscimento dei benefici del Vin Mariani».

Altri documenti storici? Alcune inserzioni pubblicitarie apparse sui giornali dell’epoca e una lettera indirizzata a «Monsieur Mariani», peraltro priva di data, su carta intestata della Segreteria di Stato di Sua Santità, in cui il cardinale Pietro Gasparri si limita a riferire asetticamente, a nome di Benedetto XV: «Il Santo Padre augura che le saluti indebolite trovino sempre nelle proprietà del tonico della vostra casa un principio di vigore e forza». 

E invia al destinatario e alla sua famiglia la consueta benedizione apostolica. In altre parole, Gasparri adottò lo schema formale con cui la Santa Sede ancor oggi risponde a chiunque invii omaggi o messaggi, indirizzandoli al Successore di Pietro. Da questo a dedurre che i papi fossero cocainomani ce ne corre. Facci si ostina a spacciare per droga il famoso Vin Mariani, una bevanda tonica ottenuta da foglie di coca importate dal Perú e lasciate macerare nel Bordeaux, messa a punto nel 1863 dal chimico Angelo Mariani (1838-1914). 

La quale viene tuttora venduta dal sito cocamariani.com (33 euro la bottiglia), ma anche da molte enoteche (per esempio Galli di Senigallia, a 39 euro). Peraltro, il Vin Mariani fin dal 1866 trovò un corrispettivo italiano nel liquore Coca Buton, anch’esso derivato dalle foglie ricche dell’alcaloide chiamato cocaina, e a tutt’oggi distribuito dal gruppo Montenegro, pur senza la benedizione di papa Francesco. Se questo basta ad assimilare tre pontefici dei secoli scorsi a tossicodipendenti, sempre ammesso che abbiano mai assaggiato la bevanda in questione (per antica prassi gli omaggi alimentari destinati al Papa vengono regalati ad altri), va detto che furono in ottima compagnia. 

Fra gli estimatori storici del Vin Mariani troviamo infatti, stando al sito ufficiale, i presidenti statunitensi Ulysses Simpson Grant e William McKinley, sei presidenti della Francia, il presidente dell’Argentina, la regina Vittoria del Regno Unito, il re di Spagna, il re di Svezia, la regina del Portogallo, il principe di Monaco, la regina di Romania, la principessa di Grecia, l’imperatore del Brasile, il re di Cambogia, il re di Serbia, Alexander Dumas, Émile Zola, Thomas Edison, i fratelli Lumières, Jules Verne e Sarah Bernhardt. Tutti ospiti in una Comunità di San Patrignano dell’aldilà, presumiamo, dov’è vietata anche la Coca-Cola, pure ottenuta da estratti delle foglie di coca. [...]

Dagospia il 15 luglio 2023. Riceviamo e pubblichiamo: 

Caro Dago,

avendo Filippo Facci «accumulato negli anni una documentazione impressionante» per la sua «vecchia idea di scriverci un libro», come ti ha specificato lamentandosi di un mio rilievo, restiamo tutti in attesa che egli produca le prove, con relative fonti, attestanti l’assunzione di cocaina da parte di Pio X e Leone XIII, come ha asserito su Libero  il 12 luglio 2023, ma anche il 23 luglio 2021: due anni per renderle note mi paiono bastevoli.

Osservo, di passata, che Facci non riesce a emendarsi dalla meschina abitudine di classificare le persone sulla base dei suoi stereotipi mentali, nonostante la recente disavventura professionale occorsagli nel caso La Russa. 

Nell’inconsistente lettera di precisazione che ti ha inviato mi qualifica come «incredulo cattolicone veronese», un ossimoro davvero spassoso quello religioso (ma debbo ritenere che vada intesa come disonorevole anche la qualifica geografica), in parte già utilizzato da Facci lo scorso 24 maggio, quando, per citare su Libero  un mio dialogo con Silvio Garattini, aveva scritto che il farmacologo era stato «intervistato da un cronista cattolicone».

Mi chiedo se questo Facci sia lo stesso Facci che nel febbraio 2008 impetrò dal «cattolicone» (o forse dal «veronese») un intervento su Bernardo Caprotti, presidente dell’Esselunga, per capire come fosse andato un colloquio di lavoro sostenuto dal fratello, desideroso di essere assunto come buyer. La richiesta fu da me prontamente esaudita, anche se poi non ebbi più notizie circa l’esito della segnalazione. 

Comunque, se fossi direttore di un giornale, e grazie a Dio non lo sono (ops, ho nominato Dio invano), un contratto glielo farei, visto che ha dichiarato di averne pressante bisogno.

Un cordiale saluto.

Stefano Lorenzetto

Dagospia sabato 15 luglio 2023. Riceviamo e pubblichiamo 

Caro Dago, 

mi spiace molto che Stefano Lorenzetto si sia offeso perché ho rilevato che ha scritto delle inesattezze peraltro su un tema non proprio sulla bocca o sul naso di tutti: l’ordinario uso di droghe illecite quando erano lecite, ed erano considerate dei medicinali formidabili persino da due papi. 

Quanto a «l’incredulo cattolicone veronese», anche qui: l’incredulo era riferito al suo atteggiamento circa quanto avevo scritto, non stavo soppesando la sua fede cattolica d’ambiente «Verità» e dintorni. Quanto alle mie fonti «formidabili», trovo singolare che un giornalista ne chieda a un collega, ma per così poco mi è sufficiente segnalargli il libro di Tim Madge «White Mischief: A cultural History of cocaine» che si trova anche su Amazon.

Per quanto infine riguarda l’intervento che chiesi a Lorenzetto per segnalare il mio fratellastro a Bernardo Caprotti, ai tempi presidente dell’Esselunga, è tutto verissimo, e, anzi, mi spiace solo di non aver mai incontrato Lorenzetto per ringraziarlo: il mio fratellastro, fresco di laurea in Scienze della produzione alimentare col massimo dei voti, fu poi assunto all’Esselunga, anche se neppure io ho mai saputo se ci sia stato un intervento di Caprotti o no. 

Detto questo, Lorenzetto resta un cattolicone (grosso, grande cattolico) e resta di Verona (dove è nato) e non capisco che cosa ci sarebbe di «disonorevole» nella qualifica geografica, considerando che una parte dei parenti è veneta. Non capisco, insomma, perché rompa tanto e tignosamente i coglioni, ma pazienza, io torno comunque a ringraziarlo per quel probabile favore che mi fece – da lui elegantemente esibito – e sappia lo ricordo solo con simpatia: mi vanto di avere molti amici ebrei, gay, interisti e persino cattolici veronesi.

Estratto da blitzquotidiano.it martedì 4 luglio 2023.

Cocaina legale? In Svizzera ci stanno pensando dopo che ben 4 città elvetiche sono finite tra le prime 20 in Europa per consumo di polvere bianca. Parliamo di  Zurigo, Ginevra, Basilea e Berna, nella cui rete idrica sono stati rilevati oltre 535 milligrammi di coca ogni 1000 persone. 

[…]  le amministrazioni locali hanno messo a punto una proposta di piano per contrastare il fenomeno. […] le città sopra citate hanno inviato al governo federale un progetto che prevede la distribuzione controllata di cocaina ai tossicodipendenti.

[…] il 5 febbraio del 1992 […] la confederazione elvetica adottò un sistema simile per liberare dallo spaccio di eroina il parco Platzpitz di Zurigo, all’epoca soprannominato Needle Park, ossia parco degli aghi. In quell’occasione fu infatti inaugurato un progetto-pilota di distribuzione controllata di eroina e metadone ai tossicomani.  […]

Estratto dell’articolo di Monica Zicchiero per corriere.it il 20 aprile 2023.

Da capitale dell’eroina gialla a seconda città d’Italia per consumo di cocaina. Lo dice il rapporto parlamentare annuale 2022 su sostanze e dipendenze, ma soprattutto il maxisequestro di 850 chilogrammi eseguito ieri, mercoledì 19 aprile, pare al Porto di Venezia, dove evidentemente il carico era occultato su una nave in arrivo. 

«Il dato particolarmente preoccupante per il Comune viene dall’analisi delle acque reflue — informa il report —. Risulta che la concentrazione della sostanza media è di 23 dosi ogni mille abitanti al giorno, contro le 12 dosi a livello nazionale: il secondo in Italia per consumo». Motivo per cui il consigliere Andrea Martini (Tutta la Città Insieme) ha chiesto chiarimenti in una interrogazione.

Da qui l’assessora alla Sicurezza Elisabetta Pesce (Lega) e il vice comandante della Polizia Locale Gianni Franzoi hanno risposto facendo il punto in commissione Sicurezza. I dati della Locale dicono che la cocaina è un quarto del mercato. «Nel 2022 abbiamo effettuato 358 sequestri per un totale di 5 chili di droghe varie e 7 mila dosi», spiega il vice comandante. 

Stessa percentuale per i 130 consumatori segnalati alla Prefettura, i 52 arrestati, i 90 denunciati a piede libero e i 162 multati per aver comprato o ceduto in strada droghe o aver abbandonato in luoghi pubblici cose che servono al consumo. 

Ancora: un quarto delle 77 persone intercettate in strada per la prima volta e dei 323 nuovi consumatori che si sono presentati al Drop usa cocaina. Non ce l’hanno scritto in faccia e nel corpo, i più lavorano, studiano, fanno sport, sono socialmente integrati. «Invisibili», li definisce Franzoi. Per questo, avere una mappa è impossibile.

[…] Ieri la notizia del nuovo carico intercettato è stata rivelata dal premier Giorgia Meloni e dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti: «Siamo orgogliosi di questa operazione della Guardia di Finanza che a distanza di pochi giorni ha eseguito un altro sequestro importante dopo i 2000 chilogrammi del canale di Sicilia. Un successo per donne e uomini a cui vanno i nostri complimenti e la dimostrazione che il governo sulla lotta alla droga fa sul serio e continuerà con la tolleranza zero».

Ritrovamento stupefacente. La Guardia di Finanza ha sequestrato due tonnellate di cocaina nascoste con delle reti in mare. L'inkiesta il 18 Aprile 2023

Nella costa orientale siciliana sono stati ritrovati 1600 panetti di droga dal valore di 400 milioni di euro in contenitori galleggianti, probabilmente gettati da una nave cargo per evitare controlli. Si tratta di uno dei sequestri più ingenti mai recuperati in Italia

La Guardia di Finanza ha sequestrato due tonnellate di cocaina dal valore di 400 milioni di euro, imballate in 1600 panetti galleggianti al largo della costa orientale della Sicilia. Si tratta di uno dei sequestri più ingenti mai recuperati in Italia per le sostanze stupefacenti. I militari del comando provinciale di Catania e del gruppo aeronavale di Palermo hanno trovato una rete galleggiante di circa settanta contenitori con un dispositivo luminoso. 

Probabilmente il carico è stato buttato nella notte in mare da una nave cargo per evitare i controlli nel porto. Il segnale luminoso avrebbe dovuto poi segnalare ai trafficanti di stupefacenti dove si trovavano i 1600 panetti di cocaina. Il  gruppo di Esplorazione aeromarittima di Pratica di Mare e la sezione Aerea di manovra di Catania hanno volato sopra la costa orientale siciliana per verificare l’eventuale presenza di altre reti disperse nell’area circostante. 

«Regione intossicata». I tre grammi di cocaina che tengono banco nel dibattito politico siciliano. Giacomo Di Girolamo su L'inkiesta il 17 Aprile 2023

Una ex Iena si occupa di testare i parlamentari in un delirio di demagogia che coinvolge tutti. Giancarlo Migliorisi, capo dell’area tecnica dello staff del presidente dell’Ars, è stato bloccato dalla polizia dopo aver acquistato la droga dallo chef Mario Di Ferro, ed è stato licenziato

L’hanno tanto evocata che alla fine si è materializzata. E così, davvero, è arrivata lei, la cocaina, a spezzare la monotonia dell’Assemblea regionale siciliana, e di questi parlamentari che non hanno nulla di cui discutere, per l’assenza totale di importanti disegni di legge all’ordine del giorno.

Qualche settimana fa, come abbiamo raccontato su Linkiesta, il deputato regionale Ismaele La Vardera, l’ex Iena, aveva proposto l’esame, su base volontaria, con il famoso “test del capello” per i suoi onorevoli colleghi, alla ricerca di dipendenze. L’esperimento era servito più per dare qualcosa da raccontare ai cronisti parlamentari, che per altro. Trentasette deputati su 70 si sono presentati: foto in posa, sorrisini, tutti negativi, avanti il prossimo.

Ma alla fine, qualche giorno fa, la droga si è materializzata davvero. In modica quantità: tre grammi. Tre grammi di cocaina, venduti dal gestore di uno dei ristoranti più glamour di Palermo, “Villa Zito”, Mario Di Ferro, a Giancarlo Migliorisi, capo dell’area tecnica dello staff del presidente dell’Ars ed ex capo di gabinetto con Miccichè. Uomo di Forza Italia, Migliorisi, è stato bloccato dalla polizia mentre si allontanava con il Suv dopo aver acquistato la droga, per un valore di 300 euro, da Di Ferro, che è stato arrestato. Per dovere di cronaca, va detto che lo chef si è difeso dicendo di non essere uno spacciatore abituale, ma che stava facendo un favore all’amico, e che Migliorisi, essendo un semplice acquirente, è stato segnalato alla Prefettura, ma non è indagato.

L’attuale presidente dell’Ars, Gaetano Galvagno, ha subito licenziato Migliorisi («Accanto a me non voglio persone che hanno a che fare con la droga», dice il rampollo di Fratelli d’Italia) dal suo staff di “appena” venti collaboratori. Migliorisi tra l’altro guadagnava circa 8mila euro al mese ed era vicino al posto fisso. Perché in Sicilia, tra le altre cose, accade anche questo: i collaboratori dei gruppi parlamentari sono precari, ma, periodicamente, quelli più anziani, per i poteri conferiti all’Ars, vengono stabilizzati. E Migliorisi era in pole per la prossima tornata di assunzioni, a fine anno.

La coca all’Ars, dunque. Ed è subito questione morale. Le logge di Palazzo dei Normanni tornano affollate come non mai. E non si parla d’altro. Sia perché Migliorisi era, per tanti, un “insospettabile”. Sia perché è iniziata la caccia alle streghe: gira la coca in Parlamento? Dichiarazioni, ammiccamenti, si dice e non si dice, battutine dal doppio senso, tutti registri nei quali la Sicilia dà il suo meglio.

E il presidente della Regione, Renato Schifani, che fa? Giusto giusto il giorno dopo l’arresto e il clamoroso licenziamento, va a cenare proprio nel locale dello chef, Villa Zito. I Cinque Stelle attaccano: «A Palermo si mangia bene in tanti posti, per forza lì dopo l’arresto dello chef doveva andare?».

E poi c’è sempre l’ex Iena La Vardera che ripensa al suo esperimento del test del capello e si chiede: «Perché solo 37 deputati su 70 si sono presentati per l’esame antidroga?». È un po’ come il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Solo qualche giorno fa quei deputati sembravano tantissimi, un paio addirittura di più della metà degli “aventi diritto”, neanche fosse un referendum. Adesso invece sembrano pochi: gli altri perché non vengono, cos’hanno da nascondere?

Tra gli assenti al test c’era anche Gianfranco Miccichè («È un’iniziativa demagogica», commenta). L’ex presidente dell’Ars è il punto d’unione tra lo chef arrestato e il consulente dell’Ars beccato con la droga. I due sono infatti suoi cari amici.

Miccichè, uomo più di fiducia di Berlusconi in Sicilia, dietro questa operazione della polizia, e relativo clamore, ci vede un complotto: «Come hanno fatto a beccarli? Qualcuno da fuori li avrà avvisati». Miccichè ne è convinto: qualcuno, indagando su persone a lui vicine, forse voleva colpirlo. I corvi alla Regione, un altro classico che ritorna. Miccichè dice e non dice, gira per i corridoi di Palazzo dei Normanni con fare guardingo: è rimasto da solo, come l’ultimo dei Mohicani, a fare l’opposizione al governo Schifani, dentro il centrodestra, e nel frattempo, dopo che aveva spaccato Forza Italia in due (con la creazione di due gruppi parlamentari passati alla storia: Forza Italia 1 e Forza Italia 2) qualche settimana fa gli hanno sfilato il partito dalle mani. Miccichè, tra l’altro, ha ammesso in passato di aver consumato droga da giovane («Non sono cocainomane – raccontò anni fa alla Zanzara, su Radio24. Lo sono stato quando ero ragazzo ma l’ho sempre ammesso. Avevo vent’anni e c’era la contestazione. Non rinnego nulla»). È stato protagonista di una storia famosa, quando era vice ministro dell’Economia, nel 2002. I carabinieri fermarono un suo collaboratore che stava portando della coca al Ministero: 20 grammi. Per gli investigatori, quella coca era per lui, ma poi fu lo stesso giovane a scagionare il vice ministro. Miccichè, che oggi ha la saggezza degli anziani, dice, a proposito degli ultimi avvenimenti: «Non vedo deputati tossici». Possiamo stare tranquilli, allora. Anzi, no. Perché lo stesso Miccichè aggiunge: «Piuttosto, vedo una regione intossicata».

E intossicati, purtroppo, sono in tanti, almeno vicino alla cittadella del potere siciliano. A due passi da Palazzo dei Normanni, infatti, tra i quartieri dell’Albergheria e la Kalsa, il crack, che oggi costa pochissimo, miete vittime in continuazione. Un’emergenza che a molti ricorda quella della Palermo degli anni Settanta, quando la mafia aveva scoperto il business dell’eroina e una generazione di giovani palermitani fu utilizzata come test per i prodotti tagliati che uscivano dai laboratori clandestini della provincia di Trapani e Palermo. E i giardini pubblici di Villa Sperlinga divennero una sorta di versione palermitana dello zoo di Berlino, una Villa “Siringa”, luogo di morte e perdizione.

Don Cosimo Scordato, prete in prima linea, che ogni giorno conta i morti come in guerra, parla, più in generale di una «politica drogata»: «A pochi metri da palazzo dei Normanni ci sono famiglie che lottano tutti i giorni per far studiare i figli, per tenerli lontani dalla criminalità. Vedo loro e poi penso a due cinquantenni benestanti che dentro un Suv scambiano trecento euro per tre grammi di droga in pieno giorno. Sono la cartina di tornasole di come è amministrata questa regione, da sempre. Molte scelte di chi governa l’isola sono all’insegna della soddisfazione immediata degli interessi di pochissimi a discapito della collettività. Esattamente come una sniffata di cocaina. In questo senso, la politica siciliana è drogata».

Gabriele Ferrari per Focus l’8 gennaio 2023.

Anguille drogate nel fiume Whitelake presso Glastonbury, paese di 9mila abitanti nel Somerset, in Inghilterra. Ricercatori britannici hanno trovato alte concentrazioni di stupefacenti, soprattutto cocaina e ecstasy, nelle acque del fiume e nell’organismo delle anguille. A Glastonbury si svolge ogni anno un festival musicale che attira da 200mila a 300mila persone che non si fanno problemi ad assumere droghe e urinare nel fiume

Il Tabacco.

Il mondo dei puff. Report Rai PUNTATA DEL 12/11/2023 di Antonella Cignarale

Sigarette elettroniche usa e getta, quanto sappiamo di questo mondo?

Colorate come pennarelli, invisibili in un palmo di mano, sono le sigarette elettroniche usa e getta. Ci sono con o senza nicotina, ma nel 2022 in Italia su 30 milioni di pezzi venduti più di 29 milioni contenevano nicotina. Variegate e dall’aspetto accattivante le sigarette elettroniche usa e getta, anche dette PUFF, si trovano al gusto di tabacco ma anche di frutta, bevande gassate, gelato e anche al gusto di zucchero filato o popcorn. Usate da chi vuole ridurre il danno delle sigarette di tabacco però si trovano anche in mano ai minori. Si mimetizzano tra i loro evidenziatori di scuola, non puzzano di fumo e il più delle volte sono invisibili a genitori e docenti. Ma quanto sappiamo di questo mondo?

La nota di SET Spa

Media Interview Request - Rai, Italian National Public Broadcaster Info - SET 27 giugno 2023 alle ore 15:59 A: "[CG] Redazione Report" , "support@lost-mary.com" Cc: antonella cignarale

Buongiorno, Vi ringraziamo per averci contattato e, scusandoci per il ritardo, di seguito vi inviamo le delucidazioni ai quesiti posti via e-mail. Per quanto riguarda le informazioni richieste sul prodotto, le Elfbar usano una tecnologia presente sin dagli albori della sigaretta elettronica: le cosiddette “single use”, infatti, sono le prime sigarette elettroniche uscite sul mercato nel 2007, tuttavia ottimizzate in chiave moderna. I flavour utilizzati sono rispondenti alle caratteristiche richieste dal dlgs 6/2016 (trasposizione italiana della Tobacco product Directive: i liquidi sono analizzati nella loro componente chimica e i vapori emessi sono controllati nelle loro esalazioni. I dati sono convogliati nel portale europeo EU-CEG (Common entry Gate) che ha tempo 6 mesi per manifestare i rilievi. Dopodiché i campioni del prodotto e il packaging dello stesso sono sottoposti al vaglio dell’Agenzia Dogane e Monopoli che, dopo le opportune verifiche, assegna i codici per la commercializzazione. Tutti i prodotti Elfbar distribuiti in Italia dalla nostra società rispettano questo iter, nonché conformi alle ulteriori norme previste dalla Tobacco Product Directive. Le molteplici controanalisi effettuate dalla nostra società presso laboratori indipendenti confermano i dati indicati nel portale europeo. Per quanto riguarda lo smaltimento dei prodotti, vi informiamo quanto segue: come previsto per legge, la nostra azienda è iscritta da anni in Camera di Commercio (Torino) al “registro pile” e al “registro AEE” nonché ad ERION, un consorzio di smaltimento/riciclo. Ogni anno abbiamo l’obbligo di fornire i dati immessi sul mercato (vendite) sia al consorzio sia in Camera di Commercio per calcolare la quota da pagare per il contributo allo smaltimento annuale nazionale di questi prodotti. All’interno del manuale di istruzioni del prodotto, come previsto sempre dalle normative vigenti, sono indicate le informazioni per il corretto smaltimento sia del device sia del packaging. Per quanto riguarda il device, quest’ultimo va trattato come un rifiuto elettronico. Essendo le norme sullo smaltimento dei rifiuti elettronici diverse da Comune a Comune, è possibile reperire le informazioni tramite le autorità competenti o più semplicemente presso le rivendite autorizzate. A tal proposito è opportuno segnalare due aspetti: 1. Il costo dello smaltimento/riciclo (che, ribadiamo, dipende da Comune a Comune), è a carico dell’azienda produttrice, ossia per ogni singolo pezzo immesso sul mercato viene versata una somma di denaro che servirà per le operazioni di smaltimento quando il prodotto non è ritirato direttamente dall’azienda stessa. Vi alleghiamo una certificazione del consorzio (rapporto di sostenibilità) per quanto immesso sul mercato nel 2022, e il relativo beneficio per quanto concerne il carbon foot print. In particolare, la SET S.p.A. nel 2022 ha investito 290.078,16€ per le operazioni di smaltimento/riciclo e ha così creato un saving di CO2 immessa in atmosfera per 158 tonnellate. 2. In tutti I nostri negozi e in altri punti vendita aderenti, è attivo un piano di ritiro del prodotto esausto chiamato GREEN PUFF. I negozi fungono da punto di raccolta e rispediscono alla nostra centrale i prodotti esausti che poi vengono regolarmente consegnati alle aziende specializzate per il trattamento ecologico. A livello nazionale, si sta implementando un piano globale di riciclo che sarà pronto a breve. In ultimo vi informiamo che abbiamo da poco introdotto sul mercato un prodotto decisamente più sostenibile, chiamato ELFA, munito di batteria ricaricabile dal consumatore e dove lo stesso può semplicemente sostituire la pod precaricata di liquido. Attraverso questa evoluzione. il rapporto di batterie immesse sul mercato potrà dunque arrivare ad essere 100 ad 1. Si tratta di un percorso ESG in cui l’azienda è fortemente impegnata. Ci auguriamo, infine, che la vostra analisi sul mercato delle sigarette elettroniche non sia monografica, bensì incentrata anche sulla comparazione con il fumo tradizionale. Lo svapo, come provato da decine di studi scientifici indipendenti, è ALMENO del 95% meno dannoso del tabacco tradizionale e non contiene sostanze cancerogene. Infatti, ci preme altresì sottolineare come la nicotina non sia ritenuta una sostanza cancerogena. Inoltre, quando non viene combusta, ha un impatto paragonabile alla caffeina: (vedi tabaccologia.it/PDF/1_2003/3_1_2003.pdf ) Lo stesso principio andrebbe poi applicato nel confrontare l’impatto ambientale generato dalle batterie al litio eventualmente disperse nell’ambiente e quello provocato ogni giorno dai i miliardi di mozziconi di sigarette disperse nelle strade, nei fiumi e nei mari. (di cui non ci risulta compensazione in CO2 per legge) Il nostro è un settore altamente perfettibile, di questo ne siamo consapevoli e in questa direzione vanno molti degli investimenti fatti e tutti gli sforzi della filiera. Tuttavia è giusto sottolineare come i nostri prodotti siano l’unico strumento capace di aiutare tutti quei fumatori che non vogliono o non riescono ad abbandonare le sigarette tradizionali; stiamo parlando del 91% dei fumatori. Cordiali saluti, La Direzione S.E.T. S.p.A.

IL MONDO DEI PUFF” di Antonella Cignarale

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Colorate come pennarelli, ognuna con un aroma diverso, invisibili in un palmo di mano, sono le sigarette elettroniche usa e getta, anche dette PUFF.

ROBERTO BOFFI - PNEUMOLOGO DIRETTORE CENTRO ANTIFUMO ISTITUTO NAZIONALE TUMORI - MILANO Questi prodotti dal punto di vista del marketing sono l’ideale per le scuole.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Sono l’ideale perché è facile mimetizzarle. Ci sono con o senza nicotina, ma nel 2022 in Italia su 30milioni di pezzi più di 29 milioni sono state vendute con nicotina. Variegate e dall’aspetto accattivante, in mano ai minori scopriamo anche quelle con luci lampeggianti! Le puff si scartano come una barretta di cioccolato e sprigionano odori aromatizzati.

MINORENNE RAGAZZA 1 Profumi, almeno in classe se ti beccano non si sente l’odore.

MINORENNE RAGAZZO 2 Se tu fumi la puff quando arrivi a casa i tuoi non ti scoprono che fumi.

MINORENNE RAGAZZO 3 La puff penso che sia più una cosa visiva, alla gente le cose devono piacere anche a vederle.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Alla fiera internazionale del Vaping gli stand delle usa e getta prevalgono su tutti gli altri prodotti. Ma perché tanto successo?

FRANCISCO TRISTAN - BIBBO PODS Alla fine, quando fumi devi avere la cartina, l’accendino, devi avere il tabacco, questo è molto comodo perché questo lo metti in tasca e basta non devi avere niente in più. Puoi cambiare i sapori, il tabacco è sempre lo stesso.

ANTONELLA CIGNARALE Senti facciamo così prendiamo qualche sigaretta…

UOMO Un secondo solo!

ANTONELLA CIGNARALE Sì, certo.

UOMO PARLA CON INTERVISTATO Report, l’hai vista? La trasmissione l’hai mai vista in Italia?

FRANCISCO TRISTAN - BIBBO PODS No perché?

UOMO Fanno inchiesta, cacano il ca…

UOMO Qualcosa ai giovani devi dare, non è che puoi eliminare tutte le cose, qualcosa devi dare, questo è… è meno pericoloso delle sigarette, punto.

ANTONELLA CIGNARALE Lo vuoi dire? Lo vuoi dire?

UOMO No. È un punto di vista che però non ha delle basi, non ha delle basi sanitarie. Nel senso, noi abbiamo presentato il prodotto come tutti quanti al ministero della Sanità che ha controllato e approvato.

ANTONELLA CIGNARALE Certo!

UOMO Se poi riscontriamo che tra 50 anni questo prodotto qua, fa crescere i capelli color fucsia, non lo sappiamo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora se provocano danni, è meglio saperlo prima. Quando sono state emesse sul mercato le sigarette elettroniche usa e getta, insomma ci avevano detto che servivano per limitare i danni del tabacco tradizionale. E gli importatori che importano appunto le sigarette usa e getta ci hanno detto: mi raccomando dite che fanno meno danni del 95% rispetto alle sigarette tradizionali con il tabacco. Ora citano anche uno studio, non sappiamo quanto questo sia attendibile, vale la pena dire però quello che pensa l’Istituto Superiore di Sanità che dice: non è possibile affermare che il consumo di sigaretta elettronica sia meno dannosa del 95%. Ci vorrebbero degli studi a lungo termine che mancano assolutamente. E poi, c’è un tema, ecco, non c’è una chiara regolamentazione sulle sostanze che vengono utilizzate per l’inalazione. A partire dagli aromi. Non fai in tempo a studiare uno che escono altre sigarette usa e getta e che propongono nuovi modelli. Li fanno soprattutto in Cina dove il paradosso è che vengono vietate tutte quelle sigarette con aromi, tranne quello con l’aroma tradizionale del tabacco. E comunque in questo ginepraio ha cercato di fare chiarezza la nostra Antonella Cignarale.

ANTONELLA CIGNARALE Quanti gusti avete?

SAMPSON ZHANG – UPENDS 24.

ANTONELLA CIGNARALE In Cina quanti aromi si possono scegliere?

SAMPSON ZHANG - UPENDS In Cina credo uno, solo quello all’aroma di tabacco.

ANTONELLA CIGNARALE Quanti ne hai provati prima di scegliere il melone?

RAGAZZA MAGGIORENNE Milioni!

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO In Italia oltre alle usa e getta aromatizzate al tabacco, ce n’è per tutti i tipi di palato. Dallo zucchero filato al popcorn ma anche al gusto di biscotto o alle noccioline e cioccolato. Si trovano addirittura al gusto di gelatina e quelle al sapore di bevande gassate. Non mancano i fruttati, accompagnati dall’ice come quelle al gusto di gelato alla fragola o all’ anguria ghiacciata.

ANTONELLA CIGNARALE Sono tutti aromi che sono stati vietati nelle sigarette di tabacco e nei prodotti di tabacco e si sono spostati qua.

MARCO CUTAIA - DIREZIONE ACCISE E TABACCHI - AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI Nel mondo dei prodotti e dei liquidi da inalazione noi abbiamo una base che non sa di nulla e l’unica possibilità di attribuirgli un gusto è inserirgli un aroma.

ANTONELLA CIGNARALE Cioè non se le fumerebbe nessuno!

MARCO CUTAIA - DIREZIONE ACCISE E TABACCHI - AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI Non se le fumerebbe nessuno, certo.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO E invece così piacciono agli adulti che vogliono smettere di fumare, ma anche ai minorenni che iniziano. Dallo studio dell’Istituto Superiore di Sanità emerge che, su 9000 studenti delle scuole medie e superiori, rispetto alle sigarette tradizionali e quelle a tabacco riscaldato, la sigaretta elettronica è il prodotto maggiormente usato tra gli 11-13 anni, un uso che sale tra i 14 e i 17 anni quasi al pari delle sigarette tradizionali.

RAGAZZA MINORENNE 4 Cioè sviluppi una dipendenza anche dalle puff, perché l’odore ti piace e quindi continui.

ANTONELLA CIGNARALE Quanti anni hai tu?

RAGAZZA MINORENNE 4 15 anni.

ANTONELLA CIGNARALE Cosa senti? Descrivi i sapori?

RAGAZZO MINORENNE 5 Dolce con un retrogusto un po’… un po’ fibroso, tipo sembra un po’ il mango veramente quando lo mangi, perché lo riproducono bene negli aromi. Sono buoni, per questo che te la fumi!

ANTONELLA CIGNARALE Chi ho sentito che ha provato quella al biscotto?

RAGAZZO MINORENNE 3 Io!

RAGAZZO MINORENNE 6 Anche io. È buono al biscotto!

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO E come facciano a riprodurre così bene i gusti e come vengono scelti gli aromi avremmo voluto farcelo spiegare dalla Vaporart azienda italiana leader di liquidi, e anche dalle società che importano i marchi Geek Bar, Iwik, Dinner Lady, ma non è stato possibile. Neanche con Umberto Roccatti Presidente di ANAFE Confindustria, l'Associazione nazionale dei produttori di fumo elettronico, nonché socio della Set SPA, la società che importa le sigarette usa e getta Lost Mary ed Elfbar, tra i marchi più noti al mondo.

UMBERTO ROCCATTI – SET SPA SOCIETA’ IMPORTATRICE ELFBAR E LOST MARY In questo momento fare un’intervista che deve essere un’intervista fatta bene è impossibile. Ti do la mia totale disponibilità a valutare un incontro.

ANTONELLA CIGNARALE Mi dai la tua parola che facciamo la video intervista?

UMBERTO ROCCATTI – SET SPA SOCIETA’ IMPORTATRICE ELFBAR E LOST MARY Allora, la parola non te la do.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO E allora per capire cosa c’è dietro la ricetta di una sigaretta abbiamo analizzato gli ingredienti e scopriamo che l’aroma che riproduce il gusto di ghiaccio è aggiunto non solo nella usa e getta all’anguria ghiacciata, ma anche in quella al popcorn.

ENRICO DAVOLI – COORDINATORE LABORATORIO DI SPETTROMETRIA DI MASSA - ISTITUTO MARIO NEGRI Serve perché deve mascherare la sensazione di bruciato che dà la generazione del vapore. Dà la sensazione di fresco che ne favorisce l’utilizzo.

ANTONELLA CIGNARALE Sappiamo che cosa fanno questi aromi quando li ingeriamo, ancora non è chiaro invece che cosa fanno quando li svapiamo?

ENRICO DAVOLI – COORDINATORE LABORATORIO DI SPETTROMETRIA DI MASSA - ISTITUTO MARIO NEGRI Si è proprio questo il problema, dal punto di vista tossicologico non c’è una regolamentazione ancora ben scritta.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO E oltre agli aromi a non essere regolamentati sono anche i livelli massimi di metalli pesanti che si possono inalare con una sigaretta elettronica.

LUCIANO RUGGIA – DIRETTORE ASSOCIAZIONE SVIZZERA PER LA PREVENZIONE DEL TABAGISMO Uno deve considerare che tra il liquido e l’aerosol che è inalato c’è un processo di riscaldamento.

 ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Ogni volta che si tira si attiva la batteria, collegata al serbatoio del liquido dove c’è una resistenza di metallo che lo riscalda e lo vaporizza.

LUCIANO RUGGIA – DIRETTORE ASSOCIAZIONE SVIZZERA PER LA PREVENZIONE DEL TABAGISMO Poi l’aerosol passa verso i fili, passa accanto alla batteria e finalmente arriva poi in bocca. Questo processo di riscaldamento probabilmente provoca il rilascio di altri metalli pesanti che ritroviamo poi negli aerosol inalati che però non ci sono necessariamente o non nelle stesse quantità nel liquido stesso. ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Luciano Ruggia è il direttore dell’Associazione Svizzera di Prevenzione al Tabagismo, è tra i primi che in Europa ha richiamato l’attenzione su questi dispositivi elettronici. In una sigaretta usa e getta da 3mila tiri ha trovato concentrazioni di piombo non indifferenti già nel liquido e ancora di più nell’aerosol aspirato.

LUCIANO RUGGIA – DIRETTORE ASSOCIAZIONE SVIZZERA PER LA PREVENZIONE DEL TABAGISMO Non posso dire esattamente se questi prodotti sarebbero accettabili, sono le autorità sanitarie che devono fare questo lavoro, però questo lavoro non è fatto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E questo è un problema. Non sappiamo cosa stiano inalando i nostri ragazzi. Insomma, già solo il meccanismo del riscaldamento della sigaretta elettronica abbiamo visto potrebbe portare all’inalazione di metalli pesanti. Non sappiamo poi cosa c’è nelle sostanze che compongono gli aromi perché manca una regolamentazione certa. A volte vengono anche miscelati per dare freschezza, per dare gusto alla base liquida che sapore non ne ha. Allora, la nostra Antonella Cignarale ha fatto qualcosa che nessuno ha mai fatto: le analisi alle sostanze che vengono inalate, quelle almeno inalate con le sigarette elettroniche, marche di sigarette elettroniche più diffuse. I risultati ve li daremo domenica prossima.

Il ritorno al mondo dei puff. Report Rai PUNTATA DEL 19/11/2023 Antonella Cignarale

Report ritorna sulle sigarette elettroniche usa e getta.

A differenza delle sigarette elettroniche tradizionali, la quasi totalità delle usa e getta in commercio in Italia non è ricaribile e una volta esauriti i tiri a disposizione la sigaretta monouso va gettata. Dove, però, conferirla correttamente per riciclare i suoi componenti non è neanche chiaro a tutti, né tra chi le usa né tra chi le vende. Il mercato delle sigarette elettroniche usa e getta è esploso in Italia da più di un anno,  e secondo la direttiva europea chi immette sul mercato una usa e getta deve fornire i dati tossicologici riguardanti gli ingredienti e le emissioni del prodotto, anche quando riscaldati.  Ad autorizzare il loro commercio sono i ministeri competenti, ma alcune sostanze che si possono inalare con questi dispositivi elettronici non sono state ancora regolamentate.

- La nota di Anafe ANAFE

- Le Informazioni fornite da ELFBAR, GEEKBAR Distribuzione Italia, GEEKVAPE, NOOVA ITALIA, JWEI, VAPORART, VAPESMOKE SRLS, VAPOUR INTERNATIONAL

La nota di Anafe ANAFE

Roma, 16 novembre 2023 Egregio dott. SIGFRIDO RANUCCI Capo Redattore redazione REPORT OGGETTO: Smentita servizio del 12 novembre “Il Mondo delle Puff” Gentile Redazione di Report, in riferimento al servizio “Il Mondo delle Puff”, andato in onda come anteprima in apertura della puntata del 12 novembre c.m., firmato da Antonella Cignarale, come ANAFE Confindustria – Associazione Nazionale Produttori Fumo Elettronico, ci corre l’obbligo di dover precisare alcuni passaggi nonché smentirne categoricamente altri. È indispensabile evitare che si continui a generare pericolosa confusione sul settore del fumo elettronico, a detrimento di una corretta informazione pubblica e della salute dei cittadini. Sono infatti ormai migliaia in tutto il mondo gli studi scientifici indipendenti che dimostrano come le e-cig riducano la tossicità di almeno il 95% rispetto alle sigarette tradizionali. Tra questi basterebbe anche solo citare quello svolto dalla MHRA (Medicines and Healthcare products Regulatory Agency), ossia l’agenzia del dipartimento del Ministero della Salute Inglese che proprio sulle sigarette elettroniche ha basato la propria politica nazionale di lotta al tabagismo, riducendo i fumatori dal 22% al 12% negli ultimi 10 anni. Mentre in Italia la percentuale è stabile da anni al 23%. QUI A ciò si può aggiungere l’ultima revisione della Cochrane*, organismo che ha analizzato 332 studi di lungo periodo su un totale di 157.179 fumatori adulti, e che – tra le tante cose a favore del fumo elettronico – a settembre di quest’anno ha sottolineato come nel processo di cessazione dal fumo la sigaretta elettronica si sia rivelata, negli anni, ben più efficace di sostanze farmacologiche quali vareniclina e citisina. QUI Alleghiamo una selezione di un centinaio di Studi indipendenti. È dunque assolutamente falso e antiscientifico dichiarare che non si conoscono gli effetti dei liquidi da inalazione e dei loro aromi, i quali - lungi dal dovere essere classificati come pericolosi e trattati con sospetto - sono invero l’elemento che consente a un fumatore adulto di aumentare la ricevibilità del prodotto ai fini della cessazione e della riduzione del rischio. “ANAFE” - Associazione Nazionale Fumo Elettronico Via Aurora 39, 00187 - Roma, Cod. Fisc. 97787450580 - tel. 06 6634647 Fax 1786082620 Non si può neanche tacere (come fa il servizio) che esista in Italia una stringente normativa che regolamenta le e-cig, i loro liquidi e la loro commercializzazione. La legge prevede (art. 21 D.Lgs. 6/2016) che sei (6) mesi prima dell’immissione in commercio, il produttore debba inviare al Ministero della Salute l’elenco di tutti gli ingredienti, i dati tossicologici e sulle emissioni, nonché le informazioni sulle dosi e sull’assorbimento di nicotina. Solo successivamente il Ministero ne consente la commercializzazione. QUI Rispetto alle analisi dei liquidi da voi svolte, intanto supponiamo che abbiano riguardato prodotti legali, acquistabili tramite canali autorizzati, e poi auspichiamo che nel servizio che andrà in onda siano presenti specifici raffronti per non generare allarmismi. Infatti, è necessario precisare che i livelli di concentrazione dei metalli pesanti (milionesimi di grammo per litro) contenuti nei liquidi delle sigarette elettroniche autorizzate, a cui voi fate riferimento, sono pari circa a quelli presenti nell’acqua. Con la differenza che se la dose giornaliera di acqua raccomandata è di 2 litri, la stessa dose di liquido da svapo è assunta - forse - in due anni. Per quanto concerne i prodotti illegali, proprio come alcuni di quelli mostrati nel servizio (ad esempio quelli con le luci colorate, categoricamente vietate dalla normativa), non si può tacere che ANAFE abbia sempre dimostrato di essere in prima linea per la lotta al contrabbando - attraverso contatti costanti con le forze dell’ordine che si sostanziano in centinaia di segnalazioni alla Guardia di Finanza e all’Agenzia dei Monopoli – oltre a essere da sempre impegnata per contrastare la vendita delle e-cig ai minori, tanto da aver siglato già nel 2020 un protocollo di intesa con il MOIGE (Movimento Italiano Genitori). Una considerazione in chiusura: sappiamo già che il Dott. Ranucci commenterà questa lettera con una delle sue classiche espressioni: “tutte queste cose l’Associazione avrebbe potuto dircele nell’intervista che invece non ci è stata concessa”. Ebbene ciò è stato fatto proprio con la piena consapevolezza che il servizio e la giornalista, lungi dal voler realmente approfondire il complesso mercato del fumo elettronico, avessero già raggiunto precise conclusioni e necessitassero solo di spezzoni di intervista per giustificare e rendere credibili le proprie erronee convinzioni. Nell’interesse di chi e che cosa, questo non si sa. Vi chiediamo quindi di dare lettura durante la trasmissione di questa comunicazione che rappresenta la nostra posizione su quanto finora trasmesso e riservandoci le ulteriori azioni solo dopo aver visionato il servizio completo. Cordiali saluti. Il Presidente Umberto Roccatti *Accreditato network internazionale indipendente e no-profit nato con lo scopo di raccogliere e sintetizzare evidenze scientifiche accurate e aggiornate sugli effetti degli interventi sanitari.

IL RITORNO AL MONDO DEI PUFF di Antonella Cignarale Immagini di Giovanni De Faveri, Cristiano Forti, Fabio Martinelli e Paco Sannino Grafica di Giorgio Vallati

ANTONELLA CIGNARALE Quanti gusti avete?

SAMPSON ZHANG – UPENDS 24

ANTONELLA CIGNARALE In Cina quanti aromi si possono scegliere?

SAMPSON ZHANG - UPENDS In Cina credo uno, solo quello all’aroma di tabacco.

ANTONELLA CIGNARALE Quanti gusti hai provato prima di scegliere il melone?

RAGAZZA Milioni!

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO In Italia oltre alle usa e getta aromatizzate al tabacco, ce n’è per tutti i tipi di palato: dallo zucchero filato al pop corn, ma anche al gusto di biscotto o alle noccioline e cioccolato, si trovano addirittura al gusto di gelatina e quelle al sapore di bevande gassate. Non mancano i fruttati, accompagnati dall’ice, come quelle al gusto di gelato alla fragola o all’anguria ghiacciata.

ANTONELLA CIGNARALE Sono tutti aromi che sono stati vietati nelle sigarette di tabacco e nei prodotti di tabacco e si sono spostati qua.

MARCO CUTAIA - DIREZIONE ACCISE E TABACCHI AGENZIA DOGANE E MONOPOLI Nel mondo dei prodotti liquidi da inalazione noi abbiamo una base che non sa di nulla e l’unica possibilità di attribuirgli un gusto è inserirgli un aroma.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Cosi piacciono agli adulti che vogliono smettere di fumare ma anche ai minorenni che iniziano. Dallo studio dell’Istituto Superiore di Sanità emerge che, su 9000 studenti delle scuole medie e superiori, rispetto alle sigarette tradizionali e quelle a tabacco riscaldato, la sigaretta elettronica è il prodotto maggiormente usato tra gli 11-13 anni, un uso che sale tra gli studenti dai 14 ai 17 anni quasi al pari delle sigarette tradizionali.

RAGAZZA MINORENNE Sviluppi una dipendenza anche dalle puff, perché l’odore ti piace e quindi continui

ANTONELLA CIGNARALE Quanti anni hai tu?

RAGAZZA MINORENNE 15 ANTONELLA CIGNARALE Cosa senti, descrivi i sapori?

RAGAZZO MINORENNE Dolce con un retrogusto un po’, tipo… non è amaro, un po’ fibroso, tipo sembra un po’ il mango veramente quando lo mangi, perché lo riproducono bene negli aromi. Sono buoni, per questo te te la fumi!

ANTONELLA Chi ho sentito che ha provato quella al biscotto?

RAGAZZO MINORENNE Io!

RAGAZZO MINORENNE Anche io. È buono al biscotto!

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO E come facciano a riprodurre così bene i gusti e come vengono scelti gli aromi avremmo voluto farcelo spiegare dalla VaporArt, azienda italiana leader di liquidi, e anche dalle società che importano i marchi Geekbar, IWIK, Dinner Lady, ma non è stato possibile. Neanche con Umberto Roccatti, Presidente di ANAFE Confindustria, l'associazione nazionale dei produttori di fumo elettronico, nonchè socio della Set SpA, la società che importa le sigarette usa e getta Lost Mary ed Elfbar, tra i marchi più noti al mondo.

UMBERTO ROCCATTI – SET SPA - SOCIETÀ IMPORTATRICE ELFBAR E LOST MARY In questo momendo di fare un’intervista che deve essere un’intervista fatta bene è impossibile. Ti do la mia totale disponibilità a valutare un incontro.

ANTONELLA CIGNARALE Mi dai la tua parola che facciamo la video intervista?

UMBERTO ROCCATTI – SET SPA - SOCIETÀ IMPORTATRICE ELFBAR E LOST MARY Allora, la parola non te la do.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO E allora per capire cosa dietro la ricetta di una sigaretta abbiamo analizzato gli ingredienti e scopriamo che l’aroma che riproduce il gusto di ghiaccio è aggiunto non solo nella usa e getta all’anguria ghiacciata, ma anche in quella al Popcorn.

ENRICO DAVOLI – COORDINATORE LABORATORIO DI SPETTROMETRIA DI MASSA ISTITUTO MARIO NEGRI Serve perché deve mascherare la sensazione di bruciato che dà la generazione del vapore. Dà la sensazione di fresco che ne favorisce l’utilizzo.

ANTONELLA CIGNARALE Sappiamo che cosa fanno questi aromi quando li ingeriamo, ancora non è chiaro invece che cosa fanno quando li svapiamo?

ENRICO DAVOLI – COORDINATORE LABORATORIO DI SPETTROMETRIA DI MASSA ISTITUTO MARIO NEGRI Sì, è proprio questo il problema: dal punto di vista tossicologico non c’è una regolamentazione ancora ben scritta.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO E oltre agli aromi, a non essere regolamentati sono anche i livelli massimi di metalli pesanti che si possono inalare con una sigaretta elettronica.

LUCIANO RUGGIA – DIRETTORE ASSOCIAZIONE SVIZZERA PER LA PREVENZIONE DEL TABAGISMO Uno deve considerare che tra il liquido e l’aerosol che è inalato c’è un processo di riscaldamento.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Ogni volta che si tira, si attiva la batteria collegata al serbatoio del liquido dove c’è una resistenza di metallo che lo riscalda e lo vaporizza.

LUCIANO RUGGIA – DIRETTORE ASSOCIAZIONE SVIZZERA PER LA PREVENZIONE DEL TABAGISMO L’aerosol passa attraverso i fili, passa accanto alla batteria e finalmente arriva poi in bocca. Questo processo di riscaldamento probabilmente provoca il rilascio di altri metalli pesanti che ritroviamo poi negli aerosol inalati, che però non ci sono necessariamente o non nelle stesse quantità nel liquido stesso.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Luciano Ruggia è il direttore dell’Associazione Svizzera di Prevenzione al Tabagismo. È tra i primi che in Europa ha richiamato l’attenzione su questi dispositivi elettronici, in una sigaretta usa e getta da 3000 tiri ha trovato concentrazioni di piombo non indifferenti già nel liquido e ancora di più nell’aerosol aspirato.

LUCIANO RUGGIA – DIRETTORE ASSOCIAZIONE SVIZZERA PER LA PREVENZIONE DEL TABAGISMO Non posso dire esattamente se questi prodotti sarebbero accettabili, sono delle autorità sanitarie che devono fare questo lavoro, però questo lavoro non è fatto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora ripartiamo dalle sigarette elettroniche. Erano state introdotte sul mercato per limitare i danni del fumo da tabacco. I produttori di sigarette di fumo elettronico dicono che addiruttura impattano il 95% in meno e ci sarebbero numerosi studi a testimoniarlo. Non è d’accordo l’Istituto Superiore di Sanità che dice l’entità dell’impatto non è quantificabile, non è certa perché mancano degli studi a lungo termine. Poi c’è la questione degli aromi, delle sostanze che vengono messe negli aromi, nelle sigarette che vengono inalate. Ecco la direttiva europea qui ha lasciato un po' le maglie larghe, ha vietato solo due sostanze, la taurina e la caffeina per il resto ha lasciato le ditta a documentare le possibili, potenziali sostanze tossiche da inserire negli aromi. Però questo ha preoccupatoi paesi europei. I Paesi Bassi per esempio hanno stilato una lista di 149 sostanze, tra cui ci sono anche gli aromi dentro, che vanno, che sono vietate. Il segretario alla sanità della Gran Bretagna, Berkley, ha sostanzialmente detto di essere preoccupato per la diffusione delle sigarette elettroniche tra i ragazzi e annuncia provvedimenti. Il primo ministro francese Borne ha detto che a breve vieterà l’uso delle sigarette usa e getta tra i ragazzi perché insomma è spaventata dall’abuso. Poi c’è la questione metalli pesanti ecco, su questo la direttiva europea non dice nulla, non ha messo limiti sulla presenza di metalli pesanti né come cercarli. Allora insomma si sono un po' tutti sentiti liberi, ditte, dogane e monopoli e il ministero della salute. La nostra Antonella Cignarale.

ANTONELLA CIGNARALE Perché i metalli pesanti vanno tenuti sotto controllo quando li inaliamo, quando li beviamo o quando li ingeriamo?

CLAUDIO MEDANA – PROFESSORE BIOTECNOLOGIE MOLECOLARI E SCIENZE PER LA SALUTE UNIVERSITÀ DI TORINO Hanno diversi tipi di tossicità sia sul sistema nervoso sia sul sistema cardiovascolare, nonché possono essere causa della comparsa di tumori.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO E chi autorizza il commercio delle sigarette elettroniche usa e getta non controlla i metalli, a cominciare dal ministero della Salute. A confessarcelo alla giornata mondiale senza tabacco è la dottoressa Galeone.

ANTONELLA CIGNARALE Anche se non mi date l’intervista se io chiedo se ultimamente sono state commissionate della analisi sulle sigarette usa e getta in commercio e sui metalli pesanti… ve la faccio come domanda o non vale manco la pena?

DANIELA GALEONE - DIREZIONE GENERALE PREVENZIONE SANITARIA MINISTERO DELLA SALUTE No, perché non è il nostro ruolo di fare questo tipo di analisi.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO E c’è anche il ministero dell’Economia e delle Finanze che autorizza il commercio di una sigaretta usa e getta, ad occuparsene è l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli

MARCO CUTAIA - DIREZIONE ACCISE E TABACCHI AGENZIA DOGANE E MONOPOLI Nei nostri laboratori chimici siamo in grado di fare anche analisi sui metalli evidentemente, naturalmente per il caso in questione non andiamo a cercare i metalli.

ANTONELLA CIGNARALE Cioè non fate analisi sui metalli perché non è previsto?

MARCO CUTAIA - DIREZIONE ACCISE E TABACCHI AGENZIA DOGANE E MONOPOLI Perché non è previsto certo.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO E allora a scopo esplorativo, abbiamo cercato le concentrazioni di metalli in 6 campioni tra le marche maggiormente trovate presso i rivenditori. In collaborazione con l’Istituto Negri e l’Università di Torino abbiamo analizzato gli aerosol che aspiriamo in circa 100 tiri di ogni usa e getta e abbiamo trovato residui di alluminio, rame, zinco, cromo, nichel e piombo. E visto che non esistono limiti di legge per inalarli con questi dispositivi, li abbiamo confrontati con i limiti massimi consentiti nell’acqua potabile. Il Nichel, altamente allergenico, ha un limite in un litro di acqua di 20microgrammi. Nell’aerosol della sigaretta all’anguria della Geekbar abbiamo trovato il doppio. In quello alla doppia mela della Vaal arriverebbe a 30 μg/L, nella Elfbar allo zucchero filato a 31. E tra i metalli più tossici c’è il Piombo. Se il limite in un litro di acqua è 10microgrammi, nell’aerosol di alcune sigarette usa e getta come la Geekbar all’anguria ghiacciata ne troviamo 65 μg/L, nella Vaporart al popcorn 21.

ANTONELLA CIGNARALE Però qual è la differenza, un conto è l’acqua e un conto è quello che noi inaliamo?

CLAUDIO MEDANA – PROFESSORE BIOTECNOLOGIE MOLECOLARI E SCIENZE PER LA SALUTE UNIVERSITA’ DI TORINO quando svapiamo una sigaretta elettronica non introduciamo certo un litro, ma una quantità molto inferiore, ma è anche vero che tramite la via inalatoria tutti questi residui di metalli vengono introdotti in una unità di tempo relativamente breve e quindi i potenziali rischi sono anche correlati a questa modalità di introduzione.

MARCO CUTAIA - DIREZIONE ACCISE E TABACCHI AGENZIA DOGANE E MONOPOLI Chiaramente questa è una cosa molto importante che lei ha evidenziato non c’è dubbio.

ANTONELLA CIGNARALE Il rischio c’è per il consumatore?

MARCO CUTAIA - DIREZIONE ACCISE E TABACCHI AGENZIA DOGANE E MONOPOLI Questo prodotto non deve contenere elementi nocivi per la salute e né elementi tossici, tutto quello che non è dichiarato come ingrediente può essere presente al massimo come traccia.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Quando inaliamo le sigarette elettroniche usa e getta sarebbe opportuno sapere qual è il rischio a fronte di numerose inalazioni, tenendo conto che una usa e getta va dai 400 agli 800 tiri e a inalarli in breve tempo ci sono adulti ma anche minori.

ANTONELLA CIGNARALE E questa quanti tiri ha?

RAGAZZA MAGGIORENNE Questa 600.

ANTONELLA CIGNARALE In quanto tempo la consumi?

RAGAZZA MAGGIORENNE In 2 giorni.

ANTONELLA CIGNARALE Quando ti è durata una puff a te?

RAGAZZO MINORENNE Da 600 tiri una serata in discoteca, 4 ore, 3 ore.

ANTONELLA CIGNARALE E quanto ti dura da 800 tiri?

RAGAZZO MINORENNE Un giorno al massimo.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO E fino a quando non viene posto un limite di sicurezza ai metalli inalati con questi prodotti, è bene sapere che una puff di 600 tiri può equivalere a circa 30 sigarette, una da 800 può equivalere a circa 60 sigarette ed esistono anche quelle da 9000 tiri.

RAGAZZO MINORENNE Quelle in tabaccheria hanno 600 tiri e costano 8 euro, questa 9000 tiri 15 euro.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO in Italia non è consentito vendere sigarette usa e getta con più di 800 tiri quando contengono nicotina, come queste, eppure acquistarle online è stato un gioco da ragazzi. E questi rivenditori, non autorizzati per il mercato italiano, non hanno richiesto neanche il documento per verificare la maggior età, così l’acquisto è più facile anche per i minori. Altroconsumo la scorsa estate ne ha segnalati 4 su 7

ALESSANDRO SESSA – DIRETTORE RESPONSABILE PUBBLICAZIONI ALTROCONSUMO I siti che non hanno richiesto l’identificazione della cartà di identità sono Puffbar, Salt, x-BAR e Amazon. Alla fine, si procede con l’acquisto, esattamente la procedura come se stessi acquistando un maglione.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Amazon ha subito ritirato il prodotto. Mentre dai rivenditori non autorizzati e dai siti non ufficiali della Elfbar è stato possibile comprare anche sigarette con una dose del 5% di nicotina, più del doppio di quella legale in Italia. Chi acquista questi prodotti con dose così alta forse si illude che la dose consentita del 2% di nicotina sia poca.

ROBERTO BOFFI - PNEUMOLOGO DIRETTORE CENTRO ANTIFUMO ISTITUTO NAZIONALE TUMORI MILANO No, non lo è affatto perché gli stessi fumatori quelli che passano dalle sigarette tradizionali a questi prodotti o che li assumono entrambi no, i duali, percepiscono come qualcosa che gli dà piacere quindi è una percentuale da forte fumatore.

SARA - GENITORE A 13 anni uno non può diventare dipendente dalla nicotina, non esiste al mondo, ed è una cosa che a me manda in bestia ed è una cosa che secondo me chi sta al governo deve capire. Stanno rovinando una generazione perché questi ragazzini qua bene o male, tutti, ce l’hanno in mano e non può essere un giocattolo in mano a un bambino di 13 anni, questo non lo posso accettare come mamma, ecco.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Ed è molto difficile accettare anche che si vendano e si consumino sigarette elettroniche usa e getta senza sapere dove gettarle, noncuranti del loro danno ambientale.

DAVIDE ROSSI – PRESIDENTE OSSERVATORIO PERMANENTE PER LA TUTELA DEL MERCATO DELL’ELETTRONICA Perché coloro che le importano non finanziano il sistema della raccolta, non ci sono in giro raccoglitori per le sigarette elettroniche.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Una usa e getta va smaltita come Raee, rifiuto di apparecchiature elettriche ed elettroniche, al pari di un cellulare. A finanziarne la raccolta e il riciclo tocca ai produttori e agli importatori che aderiscono ai sistemi di gestione e versano l’eco-contributo, ogni anno. Il problema è che dei 30 milioni di sigarette immesse nel 2022 non si sa quante ne siano state raccolte, non lo sa ERION il maggior consorzio per la raccolta dei Raee e neanche l’Osservatorio per la tutela del mercato dell’elettronica.

DAVIDE ROSSI – PRESIDENTE OSSERVATORIO PERMANENTE PER LA TUTELA DEL MERCATO DELL’ELETTRONICA quando lo smaltimento non è corretto, cioè vengono conferite nella spazzatura generale nessuno ha più traccia di questi prodotti.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Ed è proprio quello che succede.

ANTONELLA CIGNARALE Dove la butti?

CONSUMATORE Nel cestino, indifferenziata.

CONSUMATORE Non lo so.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Essendo prodotti elettronici si possono conferire gratuitamente presso i rivenditori con una superficie di 400mq, i piccoli rivenditori invece, sono tenuti a ritirare la sigaretta esausta quando ne compriamo una nuova, nei negozi di svapo lo fanno, mentre nei tabacchi c’è confusione.

ANTONELLA CIGNARALE Dove le posso smaltire da lei c’è un raccoglitore speciale?

TABACCHI No, puoi metterle tranquillamente nel bidone de “rusco” normale.

ANTONELLA CIGNARALE Lei ha un raccoglitore apposito?

TABACCHI Sì, insieme alle batterie vanno.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO In realtà è una indicazione sbagliata. E neanche tutte le societa che vendono il prodotto specificano dove va buttato. Sui foglietti illustrativi della Vaportart e delle Elfbar viene indicato come rifiuto elettronico, mentre per le Iwik, la Geek Bar, la Noova e la Vaal viene consigliato di:

ANTONELLA CIGNARALE …Smaltire in conformità alle disposizioni locali…

DAVIDE ROSSI – PRESIDENTE OSSERVATORIO PERMANENTE PER LA TUTELA DEL MERCATO DELL’ELETTRONICA Questo non va bene. Io sono veramente ammirato della ricerca che ha fatto, mi congratulo, migliore di quelle che abbiamo fatto noi.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Le società che importano queste sigarette in Italia, prima di farlo avrebbero dovuto iscriversi al Registro Nazionale dei produttori delle apparecchiature elettroniche, ma sul registro noi non le abbiamo trovate. Cerchiamo, allora, la società che importa la Iwik.

ANTONELLA CIGNARALE Le chiedo come vi occupate della raccolta e del riciclo delle usa e getta?

VINCENZO SPARACINO - AMMINISTRATORE RIBILIO - GRUPPO VAPOUR INTERNATIONAL D.O.O. E me lo chieda per iscritto che io le rispondo. ANTONELLA CIGNARALE Ad esempio, per le usa e getta siete almeno consorziati per raccoglierle e riciclarle?

VINCENZO SPARACINO - AMMINISTRATORE RIBILIO - GRUPPO VAPOUR INTERNATIONAL D.O.O. Ride…

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Ma alla fine abbiamo dovuto chiedere al Ministero dell’Ambiente ed è emerso che la Vapour International si è iscritta a un consorzio per finanziare la raccolta dei rifiuti elettronici e al Registro Nazionale dopo la nostra intervista. Anche Distribuzione Italia srl che importa la sigaretta Geekbar e la società Noova Italia, inizialmente non adempienti, ora sono iscritte. La Noova l’avevamo intervistata alla fiera del vaping.

ANTONELLA CIGNARALE Non c’è un vostro rappresentante, un consorzio, a cui voi pagate una quota?

GIANNI PELLEGRINI – NOOVA ITALIA No. ANTONELLA CIGNARALE No. “Smaltire in modo responsabile, questo prodotto non è adotto ai rifiuti generici, in particolare verificare le disposizioni locali”, cioè comunque neanche qui c’è scritto dove va buttata correttamente, non c’è scritto!

GIANNI PELLEGRINI – NOOVA ITALIA Ecco. È buon senso, è quello che le ho detto, e nel buon senso si apre un capitolo interessante, nel senso che ognuno di noi vede dove poterlo riciclare evidentemente. Ma è sempre così, nasce, c’è il boom di un prodotto...

ANTONELLA CIGNARALE Lo butti e poi dopo ci pensi?

GIANNI PELLEGRINI – NOOVA ITALIA Esatto. SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Adesso le sigarette elettroniche le possono raccogliere anche i tabaccai, dopo l’accordo con il ministero. Comunque la nostra Antonella che cosa ha fatto? E’ andata dall’Istituto Mario negri e l’Università di Torino e insieme hanno fatto delle indagini conoscitive, conoscitive e hanno utilizzato anche un metodo severo, cioè sono andati alla ricerca di quelle particelle, concentrazioni di metalli pesanti anche più piccole e che cosa hanno trovato nell’aerosol? Hanno trovato alluminio, rame, zinco, cromo, nichel e piombo. Hanno utilizzato come termine di paragone, non essendoci limiti sugli aerosol, hanno utilizzato quelle sostanze, i limiti ammessi in un litro d’acqua. 20 per il nichel, 10 microgrammi per il piombo. E poi abbiamo mandato i risultati alle aziende che ci hanno risposto. Allora, la società della sigaretta IWIK ci dice di non aver trovato Piombo e Nichel nell’aerosol del suo prodotto. Anche la Geek Bar ci dice che nel liquido non ha trovato tracce di Piombo e Nichel. Ammette però di averle trovate in alcuni materiali della sigaretta e spiega che probabilmente quando il liquido viene in contatto con queste sostanze potrebbe esserci un rilascio di nichel e piombo, che però l’azienda definisce quantità normali. La società della sigaretta Vaal non ha inviato analisi, ci scrive solamente che ci darà una risposta con l’Associazione ANAFE di Confindustria. Vedremo. La Elfbar invece scrive che nell’aerosol della sigaretta al gusto zucchero filato risultano concentrazioni di Nichel e Piombo molto inferiori rispetto ai limiti dello standard francese AFNOR. E invità anzi le autorità italiane a fare chiarezza sulle normative, questo per poter fornire un prodotto migliore ai clienti. Mentre sulla sigaretta da 3600 tiri analizzati la Elfbar dice che è illegale e che lei non ha assolutamente responsabilità. La VaporArt, della sigaretta al gusto di Pop Corn, ci scrive che il piombo e il nichel non sono stati rilevati mediante il metodo che hanno utilizzato loro e sottolinea che un consumatore dovrebbe svapare circa 500 sigarette per assumere una quantità di metalli pari a quelle che abbiamo comparato noi in un litro di acqua e che abbiamo trovato nella sua sigaretta. Insomma, abbiamo capito, tutte dicono che sono nei limiti stabiliti per legge, il problema è che la legge non stabilisce alcun limite per i metalli pesanti all’interno degli aerosol delle sigarette elettroniche. E non c’è neppure stabilito un metodo di analisi, cioè come cercarli. Il grande assente in questo dibattito purtroppo è il ministero della salute al quale avevamo chiesto se quelle concentrazioni che noi avevamo trovato potessero rappresentare un pericolo per i ragazzi. Ecco, non ci ha risposto.

Le politiche del governo. Perché vogliono vietare le sigarette all’aperto, rischio proibizionismo. Tiziana Maiolo su Il Riformista l’8 Marzo 2023

Ci fu una mezza rivolta quando, nel corso della seconda guerra mondiale, il governo inglese pensò bene di proibire il consumo di fish and chips, più sacri della corona, per combattere la crescente obesità dei soldati. Rivolta sacrosanta, perché il proibizionismo inizia a volte con apparente leggerezza, ma non si sa mai dove andrà a parare. Nel ridicolo, spesso. Ma anche magari ad affollare le celle delle galere, come già succede in Italia per le sostanze psicotrope, e un domani, perché no, anche per il tabagismo.

La notizia è soltanto trapelata, ma sappiamo bene noi giornalisti che quando dalla sorgente si lascia uscire qualche goccia, poi diventa uno scroscio, secondo i desiderata della fonte. Quindi da due giorni il mondo politico e quello sanitario stanno discutendo, con i pro i contro e le sfumature intermedie sul divieto di fumo, sia di sigarette convenzionali che di elettroniche, all’aria aperta. Quindi, dobbiamo dedurre dalla notizia che il ministro Orazio Schillaci avrebbe pronto un decreto di tipo proibizionistico, che Giorgia Meloni vuole copiare Beppe Sala? Eh si, perché da due anni, nel disinteresse generale, a Milano vige la regola più inapplicata del mondo, quella che vieta di fumare all’aria aperta se ci sono altre persone nel raggio di dieci metri.

Nel regno del politically correct stile terzo polo, di questa regola però si sono infischiati tutti, i fumatori che aspirano allegramente dalle proprie paglie, e quelli senza vizi, che si girano dall’altra parte. Molta più incazzatura, e non solo tra gli automobilisti, hanno suscitato in città le ciclabili disegnate sull’asfalto comparse un giorno come funghi dopo la pioggia, in zone di grande viabilità creando ingorghi e confusione. Eppure il “Regolamento per la qualità dell’aria” approvato dal consiglio comunale il 19 gennaio 2021 mentre l’attenzione era ancora concentrata sull’epidemia da covid, è considerato un fiore all’occhiello della giunta ormai più verde che rossa. Ma del tutto insensata, come sarà, se il Parlamento dovesse approvarla, la legge voluta dal ministro Schillaci. Si rischia una sanzione da 40 a 240 euro se si fuma per strada vicino alla fermata del tram. Oppure nei parchi, nelle aree cani, nei cimiteri, allo stadio e nelle strutture sportive all’aperto. Ma dal prossimo primo gennaio del 2025 -lo sanno i cittadini milanesi?- il divieto sarà esteso a ogni spazio pubblico della città.

Quanto queste regole siano insensate, al pari di quella che voleva entrare nelle cucine degli inglesi per impedire loro di mangiare pesciolini e patatine fritte, lo dimostra la loro totale inapplicabilità, al contrario della “legge Sirchia” che vent’anni fa proibì il fumo nei locali chiusi, controllabili. Ora, se una norma è inapplicabile e insensata, vuol dire che il suo animus, il suo significato è dovuto solo alla volontà di proibire. Non di informare sui danni alla salute, non di consigliare determinati comportamenti per non disturbare gli altri, non di iniziative per la riduzione del danno, dunque. Ma solo il gusto di proibire, di mortificare, di punire. Certo, scienziati preparati come l’ex ministro Sirchia, grande sostenitore di questo nuovo divieto, ci spiegheranno all’infinito che queste proibizioni sono finalizzate al nostro bene e alla salute pubblica.

Infatti sarà sicuramente vero, come lui dice in diverse interviste, che anche la sigaretta elettronica che a quanto pare sta spopolando tra i giovani e che nella previsione della futura legge sarebbe proibita quanto quella tradizionale con tabacco e nicotina, produce danni alla salute. Anche se lo stesso mondo scientifico non è del tutto compatto. Soprattutto sulle politiche sanitarie da adottare. Infatti vengono citati i governi di Paesi come Gran Bretagna, Giappone, Svezia, Norvegia e Nuova Zelanda dove da anni una politica sanitaria di riduzione del rischio avrebbe registrato un crollo di vendite delle sigarette convenzionali e del tabagismo tra i giovani. Ma è la politica della proibizione in sé a essere fragile. Prima di tutto perché nei comportamenti e nei rapporti con sostanze dannose per la salute, quelle consentite come l’alcol e fino a ora il tabacco, o quelle illegali come le sostanze psicotiche, non si fa mai la distinzione tra uso e abuso.

In un libro di Roberto Spagnoli (Prediche antiproibizioniste), che da anni conduce una fortunata e apprezzata trasmissione su Radio radicale, viene citato il 26 giugno come la giornata internazionale “contro la droga” (così citata in Italia), istituita dalle Nazioni Unite nel 1987. L’assemblea generale stabilì questa ricorrenza in modo molto diverso, “come espressione della sua determinazione a rafforzare l’azione e la cooperazione per raggiungere l’obiettivo di una società internazionale libera dall’abuso di droghe”. Il termine “abuso” dovrebbe indurre alla ragionevolezza i nostri legislatori, a maggior ragione quando stiamo parlando di una sostanza come il tabacco che non è fuori legge, anche perché commerciato dallo Stato medesimo. Non sarebbe più utile, quando parliamo di “droghe” di ogni genere, o di tutti i prodotti, cibi compresi, dannosi per la salute, una seria campagna di informazione e di educazione nei rapporti con gli altri, invece di pensare sempre alle multe o alle manette?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Estratto da panorama.it il 13 febbraio 2023.

Circa due milioni di fumatori in Italia sono passati ai prodotti senza combustione di Philip Morris International e hanno abbandonato le sigarette. A dirlo è l'azienda stessa, presentando i risultati del 2022.

 A dicembre, in tutto il mondo, è stata superata la soglia dei 17 milioni di utilizzatori di

Igos, il dispositivo di nuova generazione che scalda il tabacco senza bruciarlo. Si tratta di un ulteriore importante traguardo nel percorso intrapreso in questi anni

dall'azienda, protagonista di una trasformazione radicale, che punta a far passare il

prima possibile tutti i fumatori che non smettono di fumare ad alternative senza

combustione basate su scienza e tecnologia.

Nel medio termine, l'obiettivo di Pmi è che entro il 2025 i ricavi dai prodotti «senza

combustione» rappresentino almeno il 50 per cento del totale, convertendo ai prodotti

senza combustione almeno 40 milioni di fumatori adulti che altrimenti continuerebbero a  fumare sigarette.

 «Andiamo avanti a velocità crescente verso il nostro obiettivo di costruire un futuro senza sigarette […] » spiega Marco Hannappel, presidente Europa Sud Occidentale di Philip Morris International. «Oggi» aggiunge «da una parte celebriamo un risultato importante: circa 2 milioni di fumatori in Italia sono passati a una valida alternativa senza combustione e hanno abbandonato completamente le sigarette […]».

Nei giorni scorsi […]  l'azienda ha introdotto in Italia Iqos Iluma One, l'ultima versione della propria linea di punta per il riscaldamento del tabacco. Grazie al design all-in-one, Iqos Iluma One è costituito da un unico dispositivo elettronico, che non prevede

un separato caricatore per la ricarica dell'holder dello stick, e consente fino a venti utilizzi con una sola carica completa della batteria. Come Iqos Iluma, introdotto in Italia lo scorso dicembre, Iqos Iluma One è basato su una tecnologia a induzione che riscalda il tabacco senza la presenza della lamina all'interno del dispositivo: ciò significa nessun residuo di tabacco, meno odore, e nessuna necessità di pulire il dispositivo.

[…] Gianluca lannelli, Head of Marketing & Digital di Philip Morris Italia […] Con Iqos Iluma One puntiamo a convincere anche i fumatori più resistenti al cambiamento a dare una svolta al proprio stile di vita, grazie a un dispositivo ancora più semplice e intuitivo».

Messico, divieto di fumo in tutti gli spazi pubblici: anche all'aperto. È entrata in vigore una delle leggi anti-tabacco più severe al mondo. La Repubblica il 15 Gennaio 2023.

Sono lontanissimi in tempi in cui Goethe poteva dire che il tabacco era uno dei grandi piaceri della vita, o si potevano fare battute sulla tolleranza verso i non fumatori. Sulle sigarette non si scherza più. In molte parti del mondo, ma in alcune più di altre.

La legge messicana

Non è fumo per gli occhi. Le sigarette sono di fatto bandite. Ovunque. Non c'è solo il divieto di fumare in un ristorante, in un ufficio, in metropolitana, è vietato dappertutto. Nei parchi, in spiaggia, al lago. È entrata in vigore una delle leggi anti-tabacco più severe al mondo che vita di fumle in ualsiasi spazio pubblico, anche al'aperto. Ma non finisce qui: le sigarette sono anche demonizzate. Ci sarà il divieto totale di pubblicità, promozione e sponsorizzazione dei prodotti del tabacco, non potranno nemmeno essere esposti all'interno dei negozi. Anche i vaporizzatori e le sigarette elettroniche sono soggetti a nuove restrizioni più severe.

Il precedente della Nuova Zelanda

La Nuova Zelanda a dicembre aveva approvato una legge severissima: una norma che proibisce la vendita di sigarette non solo ai più giovani ma anche alle future generazioni. La legislazione introdotta dal parlamento di Wellington vieta di vendere tabacco a chiunque sia nato dal primo gennaio 2009 in poi: ovvero un divieto di fumare per tutti coloro che oggi hanno dai quattordici anni in giù, inclusi quelli che devono ancora nascere.

Il Buthan è il più severo del mondo

Il Buthan, un piccolo stato – gli abitanti sono solo 650mila – che sorge nella catena dell’Himalaya, tra l’India e il Tibet, è invece il più severo del mondo. Lì, infatti, dal giugno 2010 è in vigore il Tobacco Control Act, una legge che proibisce la coltivazione, la produzione e la vendita di tabacco e di derivati del tabacco in tutto il paese. È l'unico stato al mondo ad aver bandito totalmente il fumo.

Simona Buscaglia per “la Stampa” il 9 gennaio 2023.

Sono passati vent' anni dalla legge che vietò il fumo nei locali chiusi e che contribuì a diminuire il numero di tabagisti nel nostro Paese, ma adesso gli italiani con il vizio della sigaretta stanno tornando a crescere. La cosiddetta «Legge Sirchia», dal nome dell'allora ministro della Salute che si era battuto fortemente per l'approvazione della norma, fu emanata nel 2003 (entrò in vigore nel 2005) e fino al 2019 riuscì a mantenere la quota di fumatori nella popolazione in diminuzione: si passò (con diverse fluttuazioni) dal 27,6% del 2003 al 22%. Tra il 2020 e il 2022 si è però tornati al 24,2%, (circa 800 mila persone in più): quasi un italiano su quattro oggi fuma, una percentuale simile non era stata mai più registrata dal 2006.

Stanno anche cambiando i consumi. Dal report diffuso dall'Istituto Superiore di Sanità (Iss) lo scorso maggio, in Italia sono cresciute le persone che fumano sigarette a tabacco riscaldato, ritenute da più di una persona su tre meno dannose di quelle tradizionali: si è passati dall'1,1% nel 2019 al 3,3% nel 2022. Anche gli utilizzatori di e-cig sono aumentati negli ultimi anni, dall'1,7% del 2019 all'attuale 2,4%.

 Il mercato che cambia sta mettendo nuovamente in discussione il rispetto verso i non fumatori, che era invece diventato un costume sociale radicato: «Il 66,8% degli utilizzatori di e-cig e il 74,6% dei fumatori di sigarette a tabacco riscaldato si sentono liberi di usare questi prodotti nei luoghi pubblici» scrive l'Iss. La prevalenza più alta di fumatori di sesso maschile si registra nella fascia d'età compresa tra i 25 e i 44 anni (42,9%), mentre le donne fumano di più tra i 45 e i 64 anni, e guardando la cartina geografica si fuma di più al Sud rispetto al resto del Paese.

Il fumo poi continua a uccidere: dal sito del Ministero della Salute si legge come siano attribuibili al fumo di tabacco oltre 93 mila morti (il 20,6% del totale di tutte le morti tra gli uomini e il 7,9% del totale di quelle tra le donne), con costi diretti e indiretti che arrivano a oltre 26 miliardi di euro. Proprio secondo l'ex ministro della Salute Sirchia, alla luce del nuovo trend in crescita, servirebbe più impegno delle istituzioni nel portare avanti un'agenda contro il fumo.

Dal 2005 infatti è stato fatto solo qualche timido tentativo, come quello del Comune di Milano (che verrà imitato dalla città di Modena a partire dal 21 marzo prossimo). Nel capoluogo lombardo dal gennaio 2021 è stato introdotto lo stop al fumo anche all'aperto nei luoghi affollati, come ad esempio alle fermate dei mezzi pubblici e nei parchi. Non esiste però un vero e proprio piano controlli e possiamo parlare soprattutto di moral suasion, sperando nella collaborazione dei cittadini, nonostante siano previste sulla carta multe fino a 240 euro.

La Cannabis.

Nel Mondo.

A Singapore.

Negli Usa.

In Canada.

In Europa.

In Germania.

In Francia.

In Italia.

Nel Mondo.

Sua Maestà britannica spacciava oppio in Cina. Il saggio di Sergio Valzania ripercorre le guerre che portarono al crollo del Celeste impero. Matteo Sacchi il 30 Giugno 2023 su Il Giornale. 

Se vi avventurate, anche per un breve viaggio, all'interno della Repubblica popolare cinese, potreste restare stupiti di quanto spesso vengano fatti richiami al fu Celeste Impero. È stupefacente, per una nazione comunista quanto il ricordo della dinastia Quing (1644-1912) sia rimasto forte. I cinesi rimpiangono una sorta di età dell'oro, di isolamento e indipendenza che gli ultimi imperatori Quing non sono riusciti a salvaguardare. Insomma, quelle che la storiografia ci ha tramandato come le «guerre dell'Oppio» sono un trauma che la Cina contemporanea pare non aver superato del tutto, osia l'inizio di un infelice rapporto con l'Occidente che, nel XXI secolo, secondo molti cinesi finalmente è possibile invertire, se non «vendicare».

Se partiamo da questo ragionamento cercare di capire cos'è accaduto durante i due violenti conflitti, il primo avvenuto tra il 1839 e il 1842, il secondo tra il 1856 e il 1860, diventa qualcosa di più di un mero esercizio speculativo; diventa il modo di andare alla radice di un rapporto complesso e ancora irrisolto.

Per farlo risulta utile il volume di Sergio Valzania appena pubblicato per i tipi di Mondadori e intitolato proprio Le guerre dell'oppio. Il primo scontro tra Occidente e Cina (pagg. 278, euro 20). Lo storico e divulgatore, che ha molta passione per le questioni militari, analizza il tema allargando l'analisi alle lunghe e complesse vicende che hanno preceduto lo scontro. Si iniziò infatti con la diplomazia, o meglio con grandissimi equivoci scambiati per diplomazia. L'Inghilterra, con il suo Impero coloniale, in piena espansione, iniziò a cercare di prendere contatto con la corte imperiale cinese già nel 1793. La rappresentanza diplomatica britannica, capitanata da George Macartney (1737-1806), incappò subito in una serie di falle comunicative insanabili. Per i cinesi si trattava di barbari che si recavano dall'imperatore per riconoscere la sua superiorità. Insomma gli inglesi venivano a compiere il «kowtow», l'omaggio rituale con cui si riconosceva la superiorità di Pechino, il centro del mondo. Gli inglesi, invece, volevano aprire altri porti orientali al commercio, la concessione di una base navale, lo scambio di ambasciatori alla pari. Ovviamente l'incontro fu un fallimento. Pura incomprensione? O i cinesi, che contatti con l'India ne avevano, iniziavano a rendersi conto di come operava la Compagnia delle Indie una volta che penetrava in un territorio? Insomma che era meglio usare una scusa qualunque per concedere il meno possibile. Non lo sapremo mai. Di sicuro le navi inglesi iniziarono ad arrivare sempre più numerose per dare alla fonda nell'unico porto cinese aperto ai commerci: Canton. Soprattutto dopo che il dominio dei britannici sul subcontinente indiano divenne sempre più solido. E senza diplomazia e accordi a farla da padrone furono le esigenze di una primitiva globalizzazione portata avanti senza scrupoli.

La Cina forniva prodotti preziosissimi, come il tè, il rabarbaro, la seta... Gli inglesi però non potevano continuare all'infinito a pagare questi prodotti di lusso in argento: rischiavano la bancarotta. La trovata «geniale» dei commercianti di Sua Maestà fu quello di importare in Cina oppio prodotto in India. Era un modo più che efficace di mantenere in equilibrio la bilancia dei pagamenti, a cui rapidamente si associarono anche altri Paesi come gli Stati uniti. In breve i mercanti britannici divennero i più grandi trafficanti di droga del pianeta. Gli effetti sulla popolazione cinese, soprattutto sui suoi ceti medi, furono devastanti. Era inevitabile che a un certo punto ci fosse una reazione.

L'imperatore Daoguang, salito al trono nel 1820, cercò di intervenire sui suoi sudditi, senza ottenere risultati apprezzabili. Determinato a debellare il traffico, nel marzo del 1839 inviò, in qualità di commissario imperiale, il mandarino Lin Zexu (1785-1850) a Canton, dove era concentrata la maggior quantità di oppio che entrava nel Paese. Zexu ne fece subito distruggere un'enorme quantità sequestrata ai trafficanti stranieri e indirizzò una missiva alla regina Vittoria del Regno Unito affinché intercedesse per porre fine al traffico. La scelta del commissario imperiale della linea dura, risulta perfettamente comprensibile, sia in termini di sovranità nazionale sia in termini di ordine pubblico. Ma Zexu, solidissima formazione in morale e retorica confuciana (i funzionari cinesi subivano una selezione di prim'ordine), non aveva però la preparazione tecnica per valutare la disparità di capacità tecnologica fra le forze di cui poteva disporre. Da parte di Londra non arrivò nessuna marcia indietro. Anzi i commercianti inglesi, supportati dagli emissari del loro governo, chiesero di essere rimborsati dell'oppio distrutto. Ne nacque un braccio di ferro che sfociò in un primo scontro armato il 3 novembre 1839. Le fragili giunche cinesi attrezzate con artiglierie vecchissime che bloccavano il Fiume delle perle vennero rapidamente travolte dai pochi, ma molto più moderni velieri, della Royal Navy. Nel frattempo Londra stava mobilitando le sue forze inviando verso la Cina anche unita a vapore, che gettavano i cinesi nello sconcerto. Anche negli scontri a terra la fanteria britannica dotata di moderni fucili fece strage delle forze cinesi che utilizzavano archi e nei migliori dei casi obsoleti archibugi.

Il risultato fu l'umiliante trattato di Nanchino, firmato il 29 agosto 1842 dalla Cina. Non fu una chiusura duratura delle ostilità perché, di nuovo, le parti non giocarono a carte scoperte nella ratifica. Il risultato fu il nuovo e devastante scontro del 1856-60. Dimostrò che, nonostante l'accanita resistenza cinese, il divario tecnologico era ancora aumentato. E britannici e francesi lo fecero pesare con ritorsioni violentissime. L'incendio della residenza imperiale estiva, lo Yuan Ming Yuan, il 18 ottobre 1860, ordinata da Lord Elgin figlio dell'Elgin che saccheggiò i marmi del Partenone, fu un evento così brutale da provocare inchieste anche a Londra e Parigi. Ma ormai il vulnus - dentro un orgoglio millenario - era stato inferto. E ancora lascia traccia in un Paese che pensa in termini di secoli come noi in termini di decenni.

La cannabis nel mondo. Legalizzazione della cannabis nel mondo: dall’Uruguay al Canada tutti gli stai in cui ne è consentito l’uso. Leonardo Fiorentini su Il Riformista il 25 Giugno 2023

L’ Uruguay di Muijica è stato il primo Stato a legalizzare la cannabis per tutti gli usi nel 2013. Le vendite in farmacia sono iniziate nel 2017. Metà della popolazione USA vive in uno dei 23 Stati che hanno regolamentato legalmente la cannabis per adulti. Per referendum: Colorado, Stato di Washington, Alaska, Oregon, California, Maine, Massachusetts e Nevada, Michigan, Arizona, Montana, New Jersey, South Dakota, Maryland e Missouri.

Con legge: Vermont, Illinois, New York, New Mexico, Virginia, Connecticut, Delaware, Rhode Island e Minnesota. Possesso e coltivazione personale sono legali per referendum a Washington DC, mentre la cannabis è legale anche nelle isole Marianne settentrionali, a Guam e nelle Isole Vergini. Il Canada ha legalizzato nel 2018: dopo 4 anni sta revisionando il Cannabis Act sulla base delle evidenze raccolte. In Messico la Corte Suprema ha decriminalizzato le condotte per uso personale di cannabis, mentre la legalizzazione è ferma al Senato. La Colombia è a un passo dalla legalizzazione, anche se proprio questa settimana non ha raggiunto per 7 voti il quorum necessario al Senato. Leonardo Fiorentini 25 Giugno 2023

Dopo la guerra. Zelensky vuole legalizzare la cannabis terapeutica in Ucraina: “Fondamentale contro i dolori della guerra”. Redazione Web su L'Unità il 29 Giugno 2023 

Volodomir Zelensky già immagina la sua Ucraina in tempi di pace. Ed ha già lanciato l’input a due provvedimenti che per lui potrebbero essere importanti per la sua nazione una volta uscita dalla guerra. Il primo riguarda la legalizzazione della cannabis terapeutica, il secondo l’obbligo di conoscere la lingua inglese per i funzionari pubblici. Entrambe le proposte hanno scatenato molte critiche e anche qualche presa in giro ma hanno una motivazione non da poco. E tengono ben presenti le esigenze di una popolazione martoriata dalle bombe russe.

Zelensky quest’anno sarebbe al suo ultimo anno come Presidente ucraino. Ma ha già annunciato che le elezioni slitteranno a quando sarà cessata la guerra e cesserà la legge marziale. Ma ha già pensato a un paio di provvedimenti che si potrebbero fare una volta giunti alla pace, tra questi la legalizzazione della cannabis terapeutica e, secondo quanto riportato da repubblica, ne ha spiegato la ragione: “Affinché tutti i nostri cittadini non debbano sopportare il dolore, lo stress e il trauma della guerra – ha detto il presidente che ha parlato alla Verkhovna Rada nel giorno della costituzione dell’Ucraina, il 28 giugno – dobbiamo finalmente legalizzare onestamente i medicinali a base di cannabis, la ricerca scientifica pertinente e la produzione ucraina controllata per tutti coloro che ne hanno bisogno”.

Per Zelensky questa potrebbe essere l’opportunità per creare una industria specializzata post bellica, specializzata in riabilitazione mentale e fisica in Europa e contemporaneamente risolvere gli enormi problemi e i traumi fisici e mentali che le persone dovranno affrontare dopo aver visto la guerra con i propri occhi. Scopo ‘curativo’, per Zelensky, avrebbe anche l’obbligo di conoscere la lingua inglese per i funzionari dello Stato. Un modo per avvicinarsi sempre più all’Occidente e abbandonare sempre più la lingua e cultura russa, che ritiene siano state utilizzate come strumento di dominio.

Per il presidente ucraino bisognerà gettare le fondamenta per una nuova architettura sociale post bellica, una “nuova dottrina per il nostro Stato. Una dottrina chiara, non vaga, audace. Per l’Ucraina, che sta andando verso la vittoria. E per l’Ucraina vincitrice. Abbiamo bisogno di un nuovo sistema, nuove regole, nuove opportunità”. E pensa già a questi due primi provvedimenti.


 

A Singapore.

L’ex agente antidroga tornato a vivere con la cannabis: «Legalizziamola. La salute non sia ostaggio della politica». È stata l’unica cura possibile per la sua patologia. Alfredo Ossino, ex maresciallo della Guardia di Finanza, ha raccontato il suo caso in un libro. «L’osso del collo me lo sono rotto per servire lo Stato. Ora mi dovrei nascondere?» Rita Rapisardi su L'Espresso il 25 Maggio 2023

«Sembra veramente incredibile: a diciotto anni indossavo la divisa della Guardia di Finanza ed ero nel gruppo operativo antidroga più importante d’Italia, quello di Roma, per poi trovarmi a chiedere la cannabis al mercato nero». A raccontare la sua storia di contrappasso è Alfredo Ossino, maresciallo della Finanza in congedo. Tutto inizia nel 2001 quando gli viene diagnosticata l’artrosi del tratto cervicale: comincia una discesa lenta e dolorosa, le cure non servono, i dolori sono persistenti, una vita di notti insonni e malessere.

Il corpo militare lo mette in aspettativa per settecentotrenta giorni, se la situazione non si stabilizza o peggiora dovrà andare in congedo. Ma è solo l’inizio: seguono anni difficilissimi, due protesi alla cervicale, ma soprattutto un deterioramento che sembra impossibile fermare: «Dal servizio operativo, sono passato al letto, mi hanno intossicato, sono arrivato a pesare 90 chili, prossimo alla morte sia per la mia salute, sia perché ero depresso».

Fino al 2013 sono gli oppiacei la terapia di Ossino, lo consumano e alienano. Vuole cambiare, gli prescrivono la lirica che induce a idee suicidarie nelle prime settimane, «Mi sono rifiutato, non volevo gli oppiacei, ma nessun medico riusciva a darmi alternative, allora ho cominciato a consultare internet: conoscevo la cannabis per motivi di servizio, ma non sotto l’aspetto terapeutico. Così mi rivolgo al mercato nero, ho dovuto fare delle prove, ma mi ha salvato la vita».

Se la salute va meglio i suoi rapporti no. «La mia famiglia non lo accettava, “Sei diventato uno che si droga”, mi dicevano, per questo ho iniziato a nascondermi da loro e da tutte le mie conoscenze».

Ma Ossino non può tornare indietro dopo anni di insuccessi medicinali, già dalle prime assunzioni passa la depressione e comincia ad alzarsi dal letto. Intanto riceve il primo piano terapeutico dall’ospedale, che poi passa al medico di base dopo sei mesi: «Lui tutto schifato mi guardò: “Cosa sono ste storie di cannabis, io non ne prescrivo”».

«Nel 2015 riacquisto un po’ di dignità familiare grazie al decreto Lorenzin che parla di terapia del dolore, così mia sorella, medico, inizia a prescrivermi la terapia. La cannabis da strada non garantisce la qualità e costa tanto». Il piano terapeutico prevede tre grammi al giorno di infiorescenza secca, che non sempre è disponibile: «Spesso in farmacia non si trova il quantitativo per me ed altri pazienti. Per la mia terapia lo Stato spende mille euro al mese, ma è cannabis olandese, perché non produrla noi?». Andare nelle piazze di spaccio oggi per lui è completamente diverso da quando aveva la divisa, ha sempre paura e si guarda intorno timoroso: «E se incontro dei colleghi come faccio a dirgli che sono malato e quella è la mia cura?».

I disagi maggiori Ossino li ha con la vita di tutti i giorni, lo stigma e le difficoltà nel socializzare lo hanno allontanato da tutti: «Devo inalare cannabis dodici volte al giorno, in pratica ogni ora, ma non so dove andare. Se tiro fuori il vaporizzatore mi fanno domande, se sono al bar mi chiedono per l’odore, sono osservato, divento agli occhi della gente una specie di tossico».

Ossino gira sempre con un certificato medico che spiega la sua condizione e ogni volta raccontare la sua storia è un giustificarsi faticoso: «Non ho relazioni da nove anni, ormai mi sento un eremita. Vivo a Catania, non so se altrove è così. Mi sento toccato nella mia libertà e dignità che sono valori costituzionali». Per questo molti giorni non esce neppure, troppa umiliazione: «Non riesco a farmi amici perché la disinformazione e la propaganda proibizionista sono forti. L’osso del collo me lo sono rotto per servire lo Stato. E ora mi devo nascondere?».

Quando Meglio Legale va a casa sua per un’intervista nel 2021 Ossino decide di rendere pubblico con il vicinato la sua condizione, anche perché da poco aveva acquistato casa. Sei mesi dopo la vicina gli invia una lettera di diffida dall’avvocato dove l’accusa di immettere odori di marijuana nell’aria e che forse poteva pure trafficarla svolgendo attività illecita. Aggiunge che molti nel palazzo si erano sentiti male per gli odori. «Un atto intimidatorio, perché pur sapendo della mia condizione mi ha diffamato anche con i negozianti vicini a cui ho dovuto poi raccontare la mia storia. E se non avessi avuto il certificato medico sarei potuto finire in galera».

Ossino da paziente ha cambiato totalmente la sua visione nei confronti della cannabis, che vorrebbe fosse legalizzata per tutti: «Ogni giorno Gasparri, La Russa, Salvini, Santanché vanno a dire che se ti fumi la cannabis sei un drogato. Parlano di cultura dello sballo quando tra gli adolescenti le serate sono a base di alcool: potremmo fare percorsi fuori dalle discoteche, salvare vite. Iniziamo a insegnare alle elementari cosa sono le sostanze, non vietandole. La salute non può essere ostaggio delle ideologie politiche».

Ora Ossino ha 59 anni, è rinato, ha un fisico palestrato perfetto, fa attività tutti i giorni e ha raccontato tutto nel libro “Cannabis. La vera storia di un agente Antidroga” (Edizioni Effetto): «Hanno congedato un ispettore con tanta esperienza perché non sono stati in grado di darmi la terapia giusta in tempo, oggi lavorerei ancora». E purtroppo Ossino non è l’unico. «La scorsa settimana mi ha scritto un collega ancora in servizio, nella mia stessa condizione, lo stanno imbottendo di oppiacei, ma non può assumere cannabis, altrimenti sarebbe positivo al drug test».

I suoi legali non hanno avuto accesso alle prove. Impiccato per la cannabis senza potersi difendere: il giorno del boia e la notifica improvvisa ai familiari. Piero Zilio su Il Riformista il 28 Aprile 2023 

Negli ultimi 30 anni, il sole del venerdì non è mai sorto per le oltre 500 persone impiccate nella prigione di Changi a Singapore. Venerdì era il giorno del boia. Ma l’anno scorso qualcosa è cambiato. I familiari dei condannati a morte hanno cominciato a ricevere le notifiche di esecuzione in un qualsiasi giorno della settimana. È stato così anche per Leela Vathy, sorella di Tangaraju s/o Suppiah. Suo fratello è stato giustiziato mercoledì 26 aprile per favoreggiamento e cospirazione del traffico di 1.017,9 grammi cannabis. Si tratta della prima esecuzione di quest’anno nell’isola-stato sull’equatore.

Il caso di Tangaraju fa riflettere. Arrestato nel 2017 e condannato a morte nel 2018, il quarantaseienne singaporiano non ha mai toccato la droga di cui avrebbe progettato il traffico. Come sottolineano gli attivisti del Transformative Justice Collective, il suo caso si è basato su una serie di prove circostanziali. Tutto è partito dalla presenza dei suoi numeri di telefono nella rubrica di due uomini arrestati dall’Ufficio Centrale della Narcotici di Singapore. Il telefono di Tangaraju, però, non è mai stato recuperato per essere analizzato. I testimoni e le dichiarazioni dei due uomini che lo hanno accusato non sono mai stati resi noti alla difesa durante il suo processo. Al contrario, Tangaraju è stato interrogato senza un avvocato, e ha firmato una deposizione senza poterla capire interamente: durante l’interrogatorio gli è stato infatti negato l’interprete.

Nel 2020 la sorella di Tangaraju si è rivolta all’avvocato e difensore dei diritti umani Ravi Madasamy, che ha iniziato a lavorare al suo caso in parallelo a quello di altri 25 condannati a morte. Ravi ha fatto in tempo a salvarne uno, ingiustamente condannato alla pena capitale, ed è riuscito a rimandare l’esecuzione di altri 11 prigionieri, ma a causa delle sue dichiarazioni sul sistema giudiziario di Singapore la sua licenza è stata sospesa. Tangaraju non è riuscito a trovare un altro avvocato disposto a rappresentarlo a Singapore, dove chi difende i condannati a morte rischia di dover sostenere personalmente gli alti costi processuali. Lo stesso Ravi ha dovuto pagare decine di migliaia di dollari per i casi che ha seguito. Amnesty International e Human Rights Watch hanno denunciato più volte le azioni disciplinari contro gli avvocati. Ma con sempre meno tempo a disposizione, Tangaraju ha chiesto ugualmente la revisione del caso, e pur senza una consulenza legale ha deciso di autorappresentarsi davanti alla Corte. La sua domanda è stata respinta due mesi fa. A nulla sono valse le decine di appelli di clemenza consegnati a mano domenica scorsa presso la residenza della Presidente di Singapore.

Oggi dovrebbero essere 54 i detenuti nel braccio della morte della prigione di Changi in attesa di salire sul patibolo in un giorno qualsiasi della settimana. Le autorità non divulgano tempestivamente questi dati e le esecuzioni avvengono in silenzio, spezzato solo dal grido dei familiari che decidono di condividere il proprio dramma con la stampa e le organizzazioni per la difesa dei diritti umani. L’anno scorso sono state impiccate 11 persone, tutte per piccoli reati di droga. La storia di Tangaraju è purtroppo molto simile a quella di molti altri detenuti. Come quella di Nazeri bin Lajim e Abdul Kahar, impiccati nel 2022, e di Syed Suhail bin Syed Zin, in attesa di esecuzione. Tutti loro hanno conosciuto la droga e il carcere minorile fin da bambini. Sono diventati adulti entrando e uscendo dalla prigione, avendo come unico riferimento un contesto privo di cure, comprensione, o altro tipo di supporto se non la punizione.

E mentre Singapore inasprisce le pene per i trafficanti, multa gli avvocati e persino i cittadini che provano la cannabis all’estero, la Thailandia ne legalizza l’uso ricreativo e la Malesia abolisce la pena di morte. Anche in Europa la situazione è molto diversa. In Italia, Germania, Paesi Bassi, Belgio e Austria il possesso di piccoli quantitativi di cannabis per uso personale è stato depenalizzato. In Spagna, Lussemburgo e Repubblica Ceca è addirittura legale coltivare un numero ridotto di piante. A Malta l’uso ricreativo è legale. Che si sia favorevoli o contrari alla pena di morte, il caso di Tangaraju, impiccato mercoledì con l’accusa di aver progettato il traffico di un chilo di cannabis, punta i riflettori su due principi alla base della giustizia: la proporzionalità della pena e la dimostrazione di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. Piero Zilio, Fotoreporter

Negli Usa.

Nella Zombieland d'America: dove l'eroina trasforma tutti in morti viventi. Alberto Bellotto il 23 Luglio 2023 su Il Giornale.

Kensington Avenue, a Philadelphia, è una delle piazze di spaccio più grandi del Nord America. Dai fasti di inizio secolo all'incubo dell'eroina: ecco come è diventata un inferno 

All’inizio lungo Kensington Avenue c’erano soprattutto polacchi, irlandesi e tedeschi. Poi è arrivata la crisi industriale che ha cambiato tutto e aperto le porte allo spaccio. La droga ha creato una spirale sempre più cupa e negativa che in mezzo secolo ha inghiottito una fetta di Philadelphia. Oggi quella via rappresenta la terra perduta d’America, una Zombieland fatta di tossicodipendenti dallo sguardo perso e l’anima evaporata in quella che la Dea ha ribattezzato come "una delle piazze di spaccio più grandi del Nord America".

Ciclicamente i video da quella via della città che salutò la dichiarazione d’indipendenza fanno capolino sui media. Persone piegate in due in preda ad allucinazioni, bivacchi in pieno giorno sui marciapiedi e spacciatori in ogni angolo. Uno scenario da apocalisse che nessuno ad Hollywood è mai riuscito a immaginare con questa straziante lucidità. L’ultimo tour in ordine di tempo è stato quello di Vivek Ramaswamy, candidato alle primarie repubblicane “più a destra di Trump”, che ha fatto un giro per Kensington denunciando il degrado.

La droga che ogni anno ammazza 80mila persone in America

L’atmosfera che si respira in quel fazzoletto d’America è surreale. Una striscia di asfalto coperta da una sopraelevata rivela una lunga schiera di case fatiscenti a due piani, intervallate da fabbriche abbandonate, in un quartiere puntellato di rosticcerie da asporto cinese da pochi dollari, banchi dei pegni, punti in cui incassare assegni e fatiscenti pub irlandesi. Come ha raccontato il New York Times in un lungo reportage, le vetrine dei negozi sono capeggiate da annunci di persone scomparse. Nei dintorni un esercito di spacciatori puntella la via principale, le traverse e le piazze e offre la merce mortale, in molti casi addirittura distribuendo campioncini gratuiti. Nel mezzo ci sono gli zombi, persone perse a fumare crack da una pipetta di vetro, altre intente a consumare metanfetamine o eroina. In pieno giorno si vedono persone con aghi alle braccia, al collo o tra le dita dei piedi. Molti sono quelli collassati, tanti quelli in cerca dell’ennesima dose. Eppure lungo la Kensington Avenue non è sempre stata così.

Dagli anni d’oro al collasso

Gli anni d’oro di Kensington sono durati relativamente tanto. Secondo gli storici per un periodo che va dalla seconda metà dell’800 fino agli anni ’50 del '900. Quella zona della città ospitava migranti di origine caucasica provenienti dall’Irlanda e dall’Europa centrale. Per diverso tempo, a cavallo dei due secoli, l’area è stata un vivibile quartiere per colletti blu. Una parte degli immigrati europei andava a nutrire la folta schiera di operai della fiorente industria pesante statunitense, un’altra rappresentava il tessuto cittadino di piccoli artigiani, fatti di produttori di utensili, cappelli, pizzi o sigari. Poi sono arrivate due crisi a spaccare l’idillio.

La prima iniziata negli anni '20 con l’immissione nel mercato di prodotti a basso costo che hanno distrutto l’artigianato. Poi negli anni ’50 è stato il turno della grande migrazione interna, quella che ha portato milioni di afroamericani a lasciare il Sud per cercare fortuna a Nord, in particolare in quelle fabbriche del Mid-West che promettevano un lavoro sicuro e ben pagato. Il travaso fu la base di disordini razziali, incendiati anche dall’arrivo dei portoricani. In mezzo un lento e irreversibile processo di deindustrializzazione distrusse il resto dell’economia locale.

In un paio di decenni, alla fine degli anni ’60, Kensington si è trovata con i bianchi in fuga nei sobborghi, più ricchi e sicuri, una popolazione a maggioranza nera e ispanica in un’area ormai abbandonata e post industriale con oltre 30 mila edifici abbandonati. Un processo sociale non governato che ha tagliato fuori l’intero quartiere dal resto della città. E così magazzini e fabbriche abbandonate sono diventati il luogo perfetto per la nascita di una piazza dello spaccio. Un mix accelerato dalla vicina linea ferroviaria e all’innesto con autostrade che collegano il Nord-Est del Paese con gli Stati Uniti centrali. 

L’arrivo della droga

La droga è arrivata presto a Kensington. John Machen, ex tossico sentito dal Philadelphia Inquirer, ha raccontato di essere stato uno dei primi: “I primi eroinomani come me sono spuntati verso la fine del 1968”. Da quel momento la droga non ha più abbandonato quei vicoli e quelle strade. Come dimostra la storia stessa di John, che qualche anno fa ha perso la figlia Stephanie (25 anni) per un'overdose dovuta a un mix tra eroina e fentanyl.

Il mercato ha conosciuto padroni e fasi diverse, ma mai un declino. Gli anni ’70 sono stati dominati da gang irlandesi e italoamericane con sostanze provenienti soprattutto dal triangolo d’oro del Sud-Est Asiatico. Poi, verso la fine del decennio, è arrivata sulla piazza la cocaina, come ha raccontato l’antropologo esperto di mercati sommersi Philippe Bourgois. La polvere bianca ha fatto capolino negli anni ’80 grazie a un’alleanza tra colombiani (capitanati da Pablo Escobar) e gruppi afroamericani del crimine organizzato. Il nuovo tessuto sociale ricco di ispanici ha favorito fin da subito l’arrivo di cocaina sudamericana, considerata molto più pura di quella asiatica e oltre 200 volte più economica.

Alla fine del decennio un’altra svolta: il crack. Le strade di Kensington vengono invase dal nuovo mix di coca e bicarbonato che devasta ancora di più i tossicomani. È in quel momento che il quartiere guadagna il triste soprannome di “Badlands”. Lo scatto vero nell’immaginario globale del quartiere arriva all’inizio degli anni ’90 quando i colombiani, le gang domenicane e i cartelli messicani fanno affluire una nuova qualità di eroina, un oppioide talmente puro da poter essere sniffato. Poi il quartiere è rimasto inglobato nel nuovo dramma dell’America moderna, la vasta crisi degli oppioidi.

Il mercato della droga

La piazza del quartiere è fiorente e si riempie di nuovi clienti. Per le vie arrivano migliaia di persone in cerca di eroina a basso costo che sostituisca le pillole antidolorifiche come l’Oxycontyn. L’ultimo scalino verso l’inferno arriva con qualcosa di terrificante che ha fatto precipitare tutto: il fentanyl. L’oppioide sintetico, che innonda gli Usa dal Messico grazie alle forniture cinesi, fa arrivare morti e tassi di mortalità a un punto forse mai raggiunto.

Gli ultimi dati disponibili parlano di circa 1.300 morti per overdose nell’area di Philadelphia nel 2021. La contea che ospita la città ha il tasso più alto di morti per droghe rispetto alle 10 contee più popolose d’America. Secondo il dipartimento di Salute pubblica dell’amministrazione locale, oltre 75 mila residenti nella città consumano eroina e altri oppioidi. L'ultimo incubo in ordine di tempo è lo strano mix tra fentanyl e xilazina, un potente sedativo per animali, che letteralmente paralizza e "piega in due", i tossicomani.

L’intera “industria” di Kensington viene alimentata dai “turisti della droga”, persone che arrivano dagli Stati vicini come New Jersey, Delaware, Virginia e Maryland. Ma non solo. C’è anche chi arriva da lontano, dal Massachusetts al Texas. Alcuni fanno i pendolari, altri arrivano e finiscono per restare inghiottiti, lottando fino all’ultima dose.

Quella di Kensington è una piazza in cui girano moltissimi soldi. Il singolo shot è economico, costa 5 dollari, e gli spacciatori, primo anello della lunga filiera, girano con pacchetti da 16 dosi che posso essere acquistati per 80 dollari. Un singolo isolato, block, può arrivare a fruttare 60 mila dollari al giorno di eroina che in proiezione vuol dire 21 milioni di dollari l'anno. Josh Shapiro, oggi governatore della Pennsylvania e fino a qualche anno fa procuratore dello Stato, ha stimato che il mercato di Kensington possa valere qualcosa come un miliardo di dollari l’anno.

L’intera struttura dello spaccio viene regolata da una forma piramidale. Alla base ci sono gli spacciatori, spesso già tossicodipendenti, poi i supervisori del blocco, gli appaltatori che gestiscono parti del quartiere e quelli che regolano gli arrivi delle forniture. Secondo la polizia, in poco meno di 2 miglia di Kensington Avenue ci sarebbero almeno 80 “angoli” con mercati della droga a cielo aperto.

Gli ingranaggi dell’economia della droga

Il mezzo secolo di spaccio ha riscritto il Dna del quartiere e reso l’economia informale (e illecita) il centro di tutto. La compravendita di droga rappresenta per i residenti l’unico lavoro in un luogo dimenticato da tutti, senza ormai alcun tipo di tessuto produttivo. Un giovane senza prospettive, ha spiegato Bourgois, è praticamente costretto a “lavorarci”. In tutta l’area il reddito mediano è sotto i 17mila dollari l’anno: giusto per avere un’idea basti pensare che il valore mediano a livello nazionale è di 69 mila dollari. Metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà. I livelli di istruzione sono bassissimi e gran parte degli under 20 non ha nemmeno una licenza superiore.

In questo scenario non sorprende che anche i bambini giochino un macabro ruolo, spiega ancora Bourgois. Molti di loro per pochi dollari fanno da palo avvisando i responsabili dei blocchi dell’arrivo della polizia. Analogamente c’è chi si arrangia. Ad esempio chi può spaccia aghi puliti. Nell’area operano associazioni che forniscono gratuitamente aghi ai tossicodipendenti, seguendo un programma avviato tra la fine degli anni’80 e inizio anni ’90 per ridurre la diffusione dell’Aids. Così chi riesce a conservare un briciolo di lucidità si mette in fila per avere gli aghi e poi li rivende a 2 dollari.

Ovviamente l’intero sistema non si regge secondo leggi della domanda e dell’offerta. Si appoggia alla violenza e da sempre il quartiere vive ondate di violenza armata. Da un lato si tratta di regolamenti di conti per il controllo del territorio, dall’altro di residenti che prendono di mira gli spacciatori quando la situazione diventa insostenibile. Nel 2020, durante il pieno della pandemia, le sparatorie lungo la strada sono state quasi 263, di cui 47 fatali e nei due anni successivi non è andata meglio: 244 nel 2021 e 269 nel 2022.

L’incubo senza fine

Per molti Kensington rappresenta un inferno in terra, un labirinto senza via d’uscita. Tra i “turisti” della droga si trovano anche diversi veterani. Alcuni hanno alle spalle un pugno di missioni tra Afghanistan e Iraq. Il Times, percorrendo la Avenue, ha raccolto ad esempio la storia di Mark, ferito da uno Ied in Iraq, ha sviluppato forti dolori e una conseguente dipendenza da antidolorifici. Nel tempo è stato sempre più difficile procurasi le pillole e alla fine è passato all’eroina. “Io e la mia ragazza siamo tossici”, ha raccontato, “siamo partiti dal Nord per cercare qualche centro di riabilitazione a sud, più economico, magari in Nord Carolina”. Lungo la strada una tappa a Kensington, con conseguente consumo di eroina mischiata al fentanyl: “Mai stato così male in vita mia. So”, ha aggiunto, “che rischio di non andarmene più via”.

Per molti che muoiono di overdose, ce ne sono altri che continuano ad andare e venire. Jax, che si prostituisce per pochi dollari, ha raccontato al Nyt come nel giro di due settimane sia finita in overdose almeno nove volte e che ogni volta l’effetto sia stato interrotto con una spruzzata di naloxone, un farmaco potente che è in grado di invertire gli effetti della dose mortale. “A volte vorrei non sopravvivere”, racconta con sguardo perso, “vorrei mi lasciassero morire”.

Estratto dell’articolo di Nadia Ferrigo per “La Stampa” lunedì 25 settembre 2023.

«Nonostante le sperimentazioni sulla regolamentazione della cannabis, quando si tratta di droga il sistema legale statunitense resta orientato all’incarcerazione e alla punizione, piuttosto che trattare il problema come un’emergenza sanitaria pubblica. Stati Uniti e Italia non sono poi così distanti».  

Domenica primo ottobre alle 14 al Cinema Apollo il giornalista statunitense Keegan Hamilton sarà a Internazionale a Ferrara - il festival di giornalismo del settimanale che porta in Italia il meglio della stampa straniera - per parlare di Fentanyl, l’oppioide sintetico cento volte più potente della morfina e cinquanta volte più dell’eroina: negli Stati Uniti è un ingrediente di molte droghe spacciate per strada e ogni anno uccide decine di migliaia di persone. 

Una crisi sanitaria che il governo non riesce ad arginare. Hamilton ha lavorato come editore e corrispondente di Vice ed è autore del podcast Painkiller: America’s fentanyl crisis dedicato all’aumento dei casi di dipendenza di oppioidi sintetici. […] 

Quali sono state le conseguenze della regolamentazione nella società americana? 

«Premessa, facciamo una distinzione. C’è la canapa, che viene utilizzata per scopi commerciali come produrre carta o corde, e c’è la cannabis, che viene fumata o consumata come medicinale o a scopo ricreativo. Alcuni conservatori che si oppongono alla legalizzazione della cannabis hanno sostenuto la canapa negli Stati Uniti perché rappresenta una nuova opportunità per gli agricoltori e offre un’alternativa sostenibile al disboscamento delle foreste per realizzare prodotti di carta. 

La cannabis è più controversa. Da un lato ha creato una nuova fonte di entrate fiscali, fornendo milioni di dollari in nuovi finanziamenti per scuole, strade e altri progetti. È anche visto come un passo importante verso la fine dell’incarcerazione di massa negli Stati Uniti, poiché le leggi sul divieto della cannabis vengono applicate in modo sproporzionato contro i poveri e le minoranze.  

Lo svantaggio è che nei luoghi in cui le tasse sulla cannabis legale sono elevate c’è ancora molta concorrenza del mercato nero, perché i coltivatori e i rivenditori illegali vendono il loro prodotto a un prezzo inferiore. Ciò ha portato ad alcune enormi coltivazione illegali, che possono anche avere un impatto ambientale molto negativo. Ma nel complesso la legalizzazione della cannabis ha dimostrato di essere un argomento politicamente popolare. 

L’ultimo sondaggio mostra che quasi il 60% degli adulti statunitensi ritiene che la cannabis dovrebbe essere legale per uso ricreativo, e solo uno su dieci afferma che dovrebbe rimanere completamente illegale». 

Cosa stanno facendo gli Stati Uniti per combattere la dipendenza da oppioidi sintetici? Secondo lei quali sono le strategie che potrebbero essere attuate? Le droghe più pericolose sono quelle legali?

«Gli Stati Uniti hanno esercitato pressioni sulla Cina affinché reprimesse la fornitura di precursori chimici utilizzati per produrre illegalmente Fentanyl e altri oppioidi sintetici, e si sono anche discussi con il governo messicano sull'intensificazione degli sforzi per combattere i cartelli responsabili della produzione di questi farmaci in laboratori clandestini.  

Ma questi sforzi riguardano solo le fonti di approvvigionamento degli oppioidi, non le cause alla base della dipendenza e della domanda di farmaci negli Stati Uniti. Si è cercato anche di aumentare i finanziamenti per i programmi di trattamento e altri servizi offerti alle persone dipendenti dalla droga, ma non è stato sufficiente. È ancora difficile per molte persone che desiderano aiuto avere accesso a farmaci come il metadone e la buprenorfina, che hanno dimostrato di essere efficaci nel trattamento della dipendenza. 

E nel complesso, il sistema legale statunitense rimane orientato all’incarcerazione e alla punizione quando si tratta di droga, piuttosto che trattare il problema come un’emergenza sanitaria pubblica. È stata data gran parte della colpa alle aziende farmaceutiche per aver scatenato l’epidemia negli Stati Uniti promuovendo potenti oppioidi da prescrizione, ma nell’ultimo decennio le morti per overdose sono state causate dal Fentanyl illecito e sfortunatamente non se ne vede la fine».

Boom di overdose nelle basi Usa: "l'epidemia" che spaventa il Pentagono. Alberto Bellotto il30 Luglio 2023  su Il Giornale.

Negli ultimi due anni le basi a stelle e strisce hanno visto un picco di overdose e decessi. E tra i silenzi del Pentagono e i dubbi del Congresso è allarme

Theresa Conley ormai è rassegnata. “Vorrei scoprire ogni cosa possibile. Ma so che non sarà possibile”. Quella di Theresa è una storia come tante, la storia di una madre che piange un figlio chiedendosi come sia possibile che sia morto mentre era in servizio nell'esercito americano. Ma Roland, il figlio 35enne, non era in servizio in Afghanistan o impegnato in qualche missione segreta tra Asia e Africa. Era di stanza a Fort Liberty, ex Fort Bragg (nome cambiato nel 2021 perché legato a un ex generale confederato), la base più grande in territorio americano che ospita tra gli altri oltre 42 mila soldati in servizio attivo, 98 mila famigliari, 27mila veterani.

Ron, dopo una serie di dispiegamenti in Iraq e Afghanistan, aveva sviluppato un forte disturbo da stress post traumatico. La madre ha raccontato come il figlio vivesse molto male la condizione, anche perché non intendeva rivolgersi a qualche forma di supporto psicologico, troppo rischioso per la sua carriera. Allora si era appellato al cappellano militare, ma con risultati discutibili.

Poi nel corso del 2022 si era trasferito a Fort Lee, in Virginia, per seguire un corso di leadership. Ma lentamente le sue telefonate a casa erano diventate più rade, fino al completo silenzio radar. Poi la scoperta. Il corpo di Ron è stato trovato nel bagno della sua camera. Il responso dell’autopsia: overdose.

La crisi degli oppioidi è entrata nelle basi americane. Il fentanyl, il potente oppioide sintetico che ha aggravato l’epidemia di overdose, ha iniziato a mietere vittime anche tra i soldati. I numeri sono preoccupanti e rappresentano un campanello d'allarme che però il Pentagono sembra ignorare. Una scelta che rischia di diventare un boomerang in un momento molto delicato per le forze armate a stelle e strisce.

Il giallo dei dati

Persino i dati scarseggiano. Manca un registro ufficiale e questo ha reso ancora più opaca l’emergenza. Il Washington Post ha provato a fare luce sul fenomeno, chiedendo un accesso agli atti, e i numeri che ha scovato non lasciano presagire niente di buono. Nel 2021, ultimo anno con qualche dato consolidato, le overdose tra i vari rami delle forze armate hanno toccato un picco. Ma di che numeri stiamo parlando? Stando ai dati in possesso del Post, tra il 2015 e 2022 ci sarebbero stati 127 decessi legati al fentanyl, più del doppio dei soldati morti in Afghanistan nello stesso lasso di tempo. Solo nel 2021 i morti per l’oppioide killer sono stati 27.

In un primo momento il Pentagono ne aveva riportati la metà. Questo gap è alla radice del problema: il dipartimento della Difesa modifica i dati, non li raccoglie in modo sistematico e le indagini sui decessi vengono tirate per le lunghe se non insabbiate. Solo in un secondo momento, con una lettera inviata al Congresso, la Difesa ha rivisto i conteggi. Secondo questa comunicazione, tra il 2017 e 2021, i morti per overdose tra i soldati in servizio sarebbero stati 332, oltre la metà dei quali deceduti per fentanyl. Sempre secondo la lettera, a livello complessivo i soldati finiti in overdose nello stesso periodo di tempo, ma sopravvissuti, sarebbero stati 15mila.

La droga che ogni anno ammazza 80mila persone in America

L’identikit di chi muore di fentanyl nelle basi

Difficile dire se questi dati siano completi e aggiornati. Difficile dire se tutte le morti sospette siano state esaminate. Dai pochi numeri su cui il Wp ha messo le mani, l’identikit del soldato morto per overdose è abbastanza chiaro. La gran parte dei decessi, il 98%, riguarda personale arruolato e nessun ufficiale. La maggior parte dei soldati divorati dal fentanyl era bianca, solo 17 erano ispanici e 16 afroamericani. Dai fascicoli delle 127 vittime emerge che l’età media dei morti era sotto i 26 anni.

Sempre secondo la lettera inviata ai legislatori, il Pentagono sostiene che il tasso di overdose ogni 100mila abitanti sia comunque inferiore alla media nazionale - 5.0 ogni 100mila tra le forze armate rispetto ai 28.8 ogni 100 mila tra i civili (dati 2020) - eppure ci sono delle eccezioni. Ci sono infatti Stati come il Texas, che “dona” all’esercito il 17% dei soldati, in cui il tasso nelle basi è più alto di quello dei civili nello Stato. Se volessimo individuare un epicentro in questa crisi sarebbe in Nord Carolina, dove era assegnato Ron.

L’ex Fort Bragg, casa del comando per le operazioni speciali dell’esercito e dell’Airborne Division, è quello che ha sofferto il numero di overdose più alto. Secondo i dati del Wp, tra il 2015 e 2022 i decessi per fentanyl sarebbero 29. Mentre stando ai dati "rivisti" del Pentagono sarebbero 31 tra il 2017 e 2021.

La base già in passato era finita al centro di uno scandalo dopo la pubblicazione di una lunga inchiesta del Rolling Stone. Secondo i dati ottenuti dalla rivista, tra il 2020 e il 2021, tra le mura di Fort Liberty sarebbero morti almeno 109 ragazzi, tra personale attivo e riservisti. Di questi solo quattro sono morti in combattimento all’estero, gli altri decessi sarebbero avvenuti sul suolo americano, e di questi solo una ventina sarebbero da legare a casi naturali. Il resto è un inquietante mix tra omicidi, suicidi e ovviamente overdose.

Il braccio di ferro tra Senato e Pentagono

L’opacità nei numeri e nelle mezze conferme che filtrano dal Pentagono è il sintomo di un problema più grande. Soldati e ufficiali hanno fatto calare un tetro sinistro su quello che succede dietro le mura delle basi. Tra i soldati il tema della salute mentale, unita al modo di affrontare dolori dovuti a un lavoro pericoloso e difficile, resta un tabù. Nonostante programmi di ascolto e supporto, gran parte della truppa teme di chiedere aiuto per contraccolpi sulla carriera.

Dal canto suo, il Pentagono fa il resto. Jaime Earnest, appaltatore della Difesa, esperto in epidemiologia che ha studiato l’abuso di sostanze, ha raccontato al Post come la leadership dell’esercito non veda di buon occhio questi tentativi di portare a galla fatti scabrosi come le overdose dei soldati. Il problema è che il Pentagono viene da anni complessi. Nel 2022 la campagna di reclutamento è stata la peggiore di sempre dal 1973, quando fu introdotta la leva volontaria. Secondo i dati raccolti dal Wall Street Journal, le forze armate hanno mancato del 25% l’obbiettivo minimo di reclutamenti: 15mila in meno rispetto ai 65mila preventivati. I vertici del dipartimento della Difesa temono che portare alla luce abusi e punti oscuri nelle basi possa dare un nuovo duro colpo ai reclutamenti.

Ma intanto il braccio di ferro tra il Pentagono e il Congresso si fa più serrato. In particolare, i senatori vogliono che il dipartimento introduca un sistema trasparente e sistematico che raccolga dati e informazioni così da adottare contromisure efficaci. A fine maggio è stata presentata una legge che, se approvata, obbligherà i vertici della Difesa a rilasciare pubblicamente i dati sulle overdose ogni anno e a migliorare il tipo di supporto che viene garantito ai soldati.

Il quartiere dei morti viventi

Il caso dei veterani

Nel frattempo la rabbia delle famiglie ribolle. Tra le decine di testimonianze raccolte la sensazione che hanno mogli, madri e padri è quella di un tradimento da parte del Pentagono. Una sorta di patto spezzato tra chi “dona” all’America il proprio figlio e chi lo avrebbe dovuto proteggere. Molti accettano il dolore per un caduto in guerra, ma non per un figlio morto per un’overdose tra le mura di una base. E infatti sempre più voci contro la vita militare si sollevano dai veterani. Un allarme rosso preoccupante per il Pentagono, dato che l’80% di tutte le nuove reclute ha un familiare che ha indossato l’uniforme.

La crisi degli oppioidi ha avuto conseguenze devastanti per la vasta schiera di veterani delle forze armate. Stando a una stima del dipartimento per i veterani, il 20% di chi ha servito sotto le armi soffre di disturbo post traumatico da stress e combatte contro l’abuso di alcol e droghe. Secondo uno studio pubblicato su Annals of Medicine all’inizio del 2022, nel periodo tra il 2010 e il 2019 il tasso di mortalità per overdose tra i veterani è aumentato del 53%. E anche qui il picco è dovuto al fentanyl, che in due anni, tra il 2015 e il 2017, è diventato la prima causa di morte per overdose, soppiantando antidolorifici, eroina e cocaina.

Il fentanyl è un pericolo per l’Europa? L'Indipendente il 6 Agosto 2023 su Il Giornale.

Negli Stati Uniti una delle più grosse minacce alla sicurezza nazionale è il fentanyl. Questa sostanza, che ogni anno uccide più di incidenti automobilistici, suicidi o violenza armata, è infatti considerata la principale causa di morte per gli americani di età compresa tra 18 e 49 anni, secondo i dati forniti dal Centers for Disease Control and Prevention e rielaborati dal Washington Post. Per la sua assunzione muoiono ogni giorno circa 196 americani. All'uso di fentanyl, autorizzato nel 2008 e prodotto e utilizzato anche dalle cause farmaceutiche del nostro continente per fini terapeutici, s...

Estratto dell'articolo di Massimo Basile per “la Repubblica” il 26 gennaio 2023.

Roland Conner era un adolescente negli anni ’90, […] quando […] venne processato e condannato per possesso di marijuana. Adesso […] è tornato ad avere a che fare con l’erba, solo che invece di scortarlo in tribunale, gli hanno spianato un tappeto rosso: per risarcirlo della condanna per un reato che a New York non esiste più, gli hanno dato la prima licenza per aprire un dispensario pubblico al Greenwich Village.

È il modo con cui il municipio offre agli ex condannati per marijuana la possibilità di un nuovo inizio, un’attività destinata al successo considerata la nebbia dolciastra che avvolge le strade di New York anche alle sette di mattina. Il negozio […]È il secondo, dopo quello aperto da una no-profit, ma il primo gestito da una persona con precedenti per possesso di marijuana.

 […] Il negozio è destinato a rappresentare un piccolo momento di svolta nella lotta alla discriminazione razziale e alle gang che controllano il mercato illegale. Altre venti attività apriranno nei prossimi mesi. Centinaia di persone sono in attesa di ricevere la licenza.

Le rivendite clandestine sono più di un migliaio e spesso bersaglio delle gang: nel 2022 sono state quasi seicento le rapine negli store, quasi due al giorno. Lo store legale dovrà rappresentare la fine del mercato da sottosuolo e l’uscita di un business che, secondo lo Stato di New York, dovrebbe arrivare a più di quattro miliardi di dollari entro il 2027. […]

La droga che ogni anno ammazza 80mila persone in America. Storia di Alberto Bellotto su Il Giornale domenica 16 luglio 2023.

C’è un’epidemia letale e silenziosa che striscia tra le città americane. Un’epidemia fatta di overdose, pillole e comunità distrutte. Da oltre un decennio gli Stati Uniti combattono la cosiddetta crisi degli oppioidi. Una vera e propria piaga di morti per abuso di sostanze stupefacenti che in un paio di decenni è costata la vita a un milione di persone, un decesso ogni 5 minuti. Un’epidemia tanto grave da aver abbassato di un anno le aspettative di vita dei maschi americani.

Da anni l’America si interroga sulle sfaccettature di queste emergenza. Dopo anni di analisi il punto di partenza è stato trovato nell’eccessiva prescrizione di antidolorifici a base di oppiacei, sublimata nell’iper consumo di Oxycontyn. Un mix letale in molte comunità abitate dalla working class affitta da dolori cronici. Nel tempo, però, la dipendenza si è trasferita dai farmaci ad altri ritrovati. Mentre i decessi continuavano a crescere, la crisi ha cambiato volto e oggi può essere sovrapposta alla più letale delle droghe in circolazione: il fentanyl.

I numeri dell’ecatombe

Prima di capire come si è evoluto il mostro che sta inghiottendo una fetta di America è necessario partire dai numeri, perché il loro impatto è devastante. Stiamo parlando di un fenomeno che uccide ogni settimana oltre 1.500 americani. I decessi per overdose in America crescono ogni anno con ritmi infernali.

Nel 2021 il numero di overdose da oppioidi ha toccato quota 82mila, erano 68 mila nel 2020, 49 mila nel 2018 e 47 mila nel 2018. Secondo le prime proiezioni per il 2022 le cifre dovrebbero mantenersi costanti con 79 mila decessi. Tra il 2021 e 2022, scrive il Centers for Disease Control and Preventions Usa, nel 2022 si sono registrati 105.452 morti per overdose, il 2% in meno rispetto all’anno precedente.

Numeri da narcostato. se andiamo a vedere nel dettaglio i numeri del National Center for Health Statistics scopriamo che gran parte di questi decessi da oppioidi sono da imputare al fentanyl. Erano 18 mila nel 2016, 30 nel 2018 e 69 mila nel 2021. Negli anni gli indicatori sono aumentati anche per altre sostanze come metanfetamine (6 mila decessi nel 2016 e 31 mila nel 2021) e Cocaina (11 mila nel 2016, 26 mila nel 2021). Unico dato in calo quello dell’eroina.

Ma qual è la radiografia della vittima del fentanyl: prevalentemente maschio, bianco in un età compresa tra i 25 e 54 anni. Anche se, nota il Cdc, quel numero si sta abbassando: tra il 2018 e 2021 i decessi per overdose tra i ragazzini di 15-19 anni sono aumentati del 150%. In sostanza, ha notato il Council on Foreign Relations in un suo dossier, siamo parlando di un ecatombe. Le vite distrutte nel solo 2021 sono state dieci volte superiori a quelle dei soldati americani caduti nelle due guerre post 11 settembre combattute in Iraq e Afghanistan.

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Cos’è il fentanyl, da dove arriva e chi lo gestisce

Ma cos’è il fentanyl? Come detto è una sostanza che fa parte degli oppioidi. È un ritrovato sintetico elaborato negli anni Sessanta usato per curare i dolori di alcune categorie specifiche di malati come i pazienti oncologici. Negli ultimi anni però il mercato illegale delle droghe è stato invaso da versioni molto economiche di fentanyl facendo balzare in avanti consumi e decessi. Il fentanyl, infatti, è circa 50 volte più potente dell’eroina e può essere letale fin dai primi consumi.

La gran parte del fentanyl illegale consumato negli Usa non viene prodotto sul suolo statunitense, ma arriva da oltre confine. Confine sud ovviamente. Come hanno sottolineato diversi rapporti della Dea la gestione del traffico di questo oppioide è in mano ai cartelli della droga messicani, che negli ultimi anni ne gestiscono anche la produzione. Il problema, è che ricostruire i rivoli di queste catene del valore illegali non è semplice. Fino al 2019 gran parte del fentanyl illegale arrivava dalla Cina. Poi un cambio temporaneo di policy tra Washington e Pechino aveva congelato la rotta, di fatto ridefinendo le catene del valore rendendole più decentralizzate.

Le successive rotture diplomatiche tra americani e cinesi hanno fatto il resto. Oggi esiste un vasto network globale che fa fluire i componenti chimici per produrre il fentanyl dalla Cina al Messico dove vengono utilizzati per produrre il prodotto finito. Tra i cartelli maggiormente attrezzati per questa produzione quello di Sinaloa e quello della Jalisco New Jeneration, un tandem che gestisce l’intero network della distribuzione.

L’aspetto interessante è che l’ultimo punto di contatto tra i cartelli messicani e i consumatori è statunitensi. È stato calcolato che tra il 2017 e 2021 l’86% dei trafficanti impegnati a portare il fentanyl oltre confine erano cittadini americani. La quantità di pillole in circolazione è difficile da stimare, ma si aggira sull’ordine degli milioni. Nel 2022 la Dea ha sequestrato qualcosa come 50 milioni di pillole e quai 4,5 tonnellate di polvere di fentanyl: abbastanza da uccidere tutta la popolazione americana.

Le conseguenze della crisi

Oltre alle disastrose conseguenze sociali, con famiglie e comunità distrutte, l’epidemia di fentanyl rappresenta un doppio pericolo per l’America. In primo luogo sotto il piano economico. Nel 2022 uno studio realizzato dal comitato economico unito del Congresso americano ha stimato che nel 2020 la crisi degli oppioidi è costata all’America qualcosa come 1500 miliardi di dollari, il 7% del Pil nazionale, un terzo in più della prima stima effettuata nel 2017. Non solo. L’epidemia incide ovviamente sulla forza lavoro. Stando a una stima dell’associazione no profit American Action Forum dei 6.3 milioni di lavoratori esclusi dalla forza lavoro, oltre 1,3 milioni sono stati bloccati per problemi relativi agli oppioidi, il 20% del totale.

Il secondo problema causato dall’epidemia riguarda la sicurezza nazionale. Il fatto che le catene del valore (illegale) che sta dietro le forniture di fentanyl del mercato nero affondino le loro radici in Cina espone un fianco sensibile per gli Stati Uniti. Nell’ultimo anno Washington ha tentato a più riprese di coinvolgere la Cina nel dossier. Gli ultimi viaggi dei funzionari americani sul suolo cinese, come quello del segretario di Stato Usa Antony Blinken e della segretaria del Tesoro Janet Yellen, hanno avuto tra i vari temi proprio il dossier fentanyl. La Cina per ora rilancia parlando di un problema guidato dalla domanda interna americana, ma sa bene di avere una possibile leva negoziale. Leva che probabilmente utilizzerà per sbloccare altri dossier per lei più sensibili, come la commessa partita tecnologica e il delicato status di Taiwan.

In Canada.

Vancouver depenalizza le droghe pesanti per contrastare la tossicodipendenza. «Chi viene trovato in possesso di una dose inferiore a 2,5 grammi non è un criminale ma una persona che ha bisogno di aiuto». Così il governo locale punta a ridurre i morti per overdose. Chiara Sgreccia su L'Espresso il 23 agosto 2023 

Schiena curva, sguardo assente, passo lento. Così centinaia di persone si muovono per East Hastings, la via che taglia la parte est di Vancouver, in Canada: Zombieland. Perché ospita un numero impressionante - per chi non ci ha mai messo piede prima - di senzatetto. Per la maggior parte sono persone con problemi di tossicodipendenza che vivono ai margini della società e della strada, accampati sui marciapiede, accasciati sul pavimento, freezati sulle panchine senza saperlo. Basta uno sguardo con Google street view per farsi un’idea. Prima c’era una tendopoli, dopo l’ultimo sgombero, rimangono i resti di un accampamento che sta per rinascere.

La situazione è la stessa da tempo: le tent city vanno e vengono, il problema della tossicodipendenza segna da decenni la British Columbia, la provincia più occidentale del Canada in cui si trova Vancouver. Già all’inizio dei Duemila il consiglio comunale della città aveva elaborato una strategia per contrastare il boom della droga, basata su prevenzione, trattamento e riduzione del danno. Nel 2016 il governo della Provincia ha dichiarato lo stato di emergenza per la sanità pubblica a causa dell’elevato consumo di sostanze stupefacenti. Da allora alla fine del 2022, sono morte per overdose più di 30 mila persone in tutto il Canada, 12 mila nella provincia più a Ovest del Paese, dove solo nel 2022 i decessi, secondo i dati di Cbc, il servizio pubblico radiotelevisivo canadese, sono stati 2.383, l’anno più mortale di sempre: oltre 6 persone al giorno hanno perso la vita.

Da gennaio 2020 a luglio 2021 i morti per overdose hanno superato quelli di Covid-19: tremila contro 1.800. La maggior parte dei decessi, l’85,8 per cento, è causata dall’abuso di Fentanyl, un oppioide sintetico molto potente, 50 volte più dell’eroina, 100 più della morfina. Sempre più spesso utilizzato anche per tagliare altre sostanze come la cocaina che, seconda in classifica, ha causato il 44,8 per cento delle morti per overdose tra il 2019 e il 2022. Poi le metanfetamine, l’alcol, altri derivati dell’oppio e le benzodiazepine.

Di solito chi abusa di droga muore dentro casa, in spazi chiusi in cui non trova l’aiuto di nessuno. Così molti preferiscono vivere all’aperto, per strada, gli uni accanto agli altri, sotto gli occhi dei passanti che attraversano noncuranti East Hastings se sono residenti, con lo sguardo esterrefatto se visitano per la prima volta Downtown Vancouver.

«Lo stigma e la paura della criminalizzazione fanno sì che alcune persone nascondano il loro uso di droghe aumentando il rischio di danni. Questo è il motivo per cui il governo del Canada tratta l’uso di sostanze come un problema di salute, non criminale», aveva scritto su Twitter Theresa Tam, direttrice della Sanità canadese, a maggio 2022, quando il governo federale aveva concesso alla Provincia un’esenzione dal Controlled drugs and substances act, entrata in vigore a febbraio 2023: i cittadini maggiorenni fermati con meno di 2,5 grammi di droghe pesanti destinati all’uso personale - come eroina, cocaina, metanfetamina, ecstasy e Fentanyl - non sono più perseguibili penalmente. Il possesso massimo consentito di cocaina, ad esempio, è di tre volte superiore a quello stabilito dalla legge italiana (750 mg), quello di eroina è 10 volte più alto. La vendita di droghe pesanti resta illegale nella British Columbia ma chi viene trovato con quantità inferiori a 2,5 grammi non sarà arrestato e incarcerato. Gli verranno, invece, date informazioni sui programmi e sul trattamento per disintossicarsi.

Il progetto, pensato per ridurre l’emergenza, non considera chi fa uso di droghe un criminale ma come una persona che ha bisogno di aiuto. Resterà in vigore per tre anni, fino al 2026: non ci sono ancora report che divulgano i risultati della sperimentazione ma secondo le autorità locali, nonostante la questione polarizzi il dibattito politico e pubblico, la depenalizzazione delle droghe pesanti e la parallela “fornitura sicura”, cioè la strategia che punta ad allontanare le persone dall’acquisto illecito di droga offrendo versioni regolamentate, sta già salvando alcune vite. E facilitando il contatto tra tossicodipendenti e servizi sanitari e sociali.

In Europa.

La cannabis nell'Ue. Legalizzazione della cannabis in Europa: da Malta alla Svizzera in quali stati ne è consentito l’uso. Leonardo Fiorentini su L'Unità il 25 Giugno 2023

Malta è stato il primo Stato dell’Unione Europea a decriminalizzare uso e coltivazione, anche associata nei Cannabis Social Club. Un interessante modello sociale, perfettamente in linea anche con la normativa dell’Unione che la Germania è intenzionata a copiare a breve, insieme all’avvio di una sperimentazione più ampia limitata ad alcuni Land.

Anche la Repubblica Ceca sta per presentare la sua proposta di legalizzazione, mentre il Lussemburgo vorrebbe legalizzare la coltivazione e l’uso personale. L’Olanda ha avviato la sperimentazione di canali legali per la produzione e distribuzione ai coffeshop, che rimangono aperti grazie ad una politica di tolleranza inaugurata negli anni ’70 in Spagna continua, fra alti e bassi nei tribunali, l’esperienza dei Cannabis Social Club. Fuori dall’UE la Svizzera ha inaugurato sperimentazioni a Basilea, Zurigo e Losanna, a breve si aggiungeranno Ginevra, Berna, Lucerna e Bienne.

Leonardo Fiorentini 25 Giugno 2023

In Germania.

Estratto dell’articolo di Tonia Mastrobuoni per “la Repubblica” giovedì 17 agosto 2023.

Una rivoluzione. Entro la fine dell’anno la cannabis sarà legale nella più grande economia europea. La Germania ha deciso che consentirà, entro certi limiti, l’uso e la coltivazione di hashish e marijuana in tutto il Paese. Lo scopo è combattere il traffico illegale e azzoppare la criminalità. Nella maggioranza semaforo che sostiene il governo Scholz, il progetto è stato voluto anzitutto dai verdi. Ma anche i liberali sono antiproibizionisti da sempre. 

Ieri mattina, dopo il via libera del Consiglio dei ministri, è così che il ministro della Salute Karl Lauterbach (Spd) ha motivato la sua decisione: stroncare il commercio illegale e tagliare le gambe ai trafficanti. Notoriamente la dimensione illegale garantisce una montagna d’oro anche alle mafie di tutto il mondo.  […]

Ieri Lauterbach ha ricordato però anche i danni della cannabis sui giovanissimi, spiegando che la legalizzazione sarà accompagnata da una campagna di informazione capillare sul rischio di un uso precoce per il cervello, che il ministro ritiene «dannoso quando è ancora in crescita». Il risultato delle consultazioni con la Commissione Ue è comunque notevole: in base alla legge approvata ieri, il possesso per uso privato sarà allargato — rigorosamente per i maggiorenni — a 25 grammi a persona, e chiunque potrà coltivare tre piante, sempre per uso personale.

Il commercio sarà limitato invece, almeno in una prima fase, ai cosiddetti “cannabis-club”, ossia a un numero ristretto di associazioni (500) che dovranno ottenere una licenza per poter coltivare e distribuire hashish o marijuana. Solo in una seconda fase il governo dovrebbe concedere anche l’apertura di negozi di prodotti legati alla cannabis. Passerebbe, insomma, al “modello americano” dove i derivati della cannabis vengono venduti in tutti gli Stati in negozi specializzati.

[…]  Ma gli economisti Justus Haucap e Leon Knoke stimano persino un beneficio per lo Stato che potrebbe raggiungere i 4,7 miliardi di euro. I due professori di Düsseldorf sommano agli introiti fiscali anche i risparmi sui processi e sulle indagini penali legate al traffico di stupefacenti. Un bel combinato disposto.

Il governo tedesco ha dato l’ok alla legalizzazione della cannabis. Iris Paganessi su L'Indipendente giovedì 17 agosto 2023.

«La politica sulle droghe va cambiata», così il ministro della Salute Karl Lauterbach ha aperto la conferenza stampa che si è tenuta ieri a Berlino, in seguito all’approvazione del progetto di legge per la legalizzazione parziale della coltivazione e del consumo di cannabis in Germania. La proposta del governo tedesco, ancora in attesa dell’approvazione da parte del Bundestag (il parlamento federale tedesco) e del Bundesrat (il consiglio federale tedesco), consentirebbe ai cittadini tedeschi maggiorenni il possesso fino a 25 grammi di cannabis e la coltivazione fino a tre piante per uso personale. Inoltre, le persone potranno unirsi nei “cannabis club” – organizzazioni private senza scopo di lucro, con un massimo di 500 membri – dove potranno acquistare, consumare e coltivare la pianta in modo legale.

L’obiettivo del governo tedesco è regolamentare l’uso e la produzione della cannabis al fine di depenalizzarla e di tutelare la salute dei consumatori attraverso un prodotto controllato. È prevista anche una campagna di sensibilizzazione sui rischi per la salute, principalmente rivolta ai minori, ai quali il consumo di cannabis rimarrà vietato.

Nonostante il ministro Karl Lauterbach abbia sempre espresso contrarietà alla depenalizzazione, a causa del presunto legame tra l’uso continuativo della cannabis e il rischio di schizofrenia e psicosi, negli ultimi 18 mesi ha riconosciuto l’insuccesso delle politiche proibizioniste. «Così non andiamo da nessuna parte», ha affermato durante la conferenza stampa, sottolineando che l’uso di cannabis è in aumento tra gli adulti e che lo scorso anno ben 4 milioni di persone nel Paese ne hanno fatto uso, con una percentuale del 25% tra gli individui di età compresa tra i 18 e i 24 anni.

Ora il documento con le linee guida andrà sottoposto alla Commissione europea e ad altri organismi di diritto internazionale e solo successivamente si potrà andare avanti nel processo normativo.

Anche se tutta Europa sta cercando di capire che politica adottare nei confronti della cannabis, non si può dire che i Paesi membri si stiano muovendo in modo omogeneo: il via libera da parte del governo tedesco segue la legalizzazione della cannabis per scopi medici e industriali da parte dell’Albania. Sulla stessa linea della Germania anche la Repubblica Ceca, che sta lavorando ad un piano per consentire la vendita e l’uso ricreativo della cannabis, non ancora finalizzato. A Copenaghen, la capitale della Danimarca, la proposta di legalizzazione della cannabis è stata respinta dal Parlamento. In Svizzera, lo scorso anno, le autorità hanno dato il via libera ad un progetto pilota, che consente a poche centinaia di persone a Basilea di acquistare cannabis dalle farmacie per scopi ricreativi. E mentre la Francia muove timidi passi avanti, l’Italia non sembra aver intenzione di attenuare le loro politiche proibizioniste. [di Iris Paganessi]

In Francia.

In Francia la cannabis light è ufficialmente legale, mentre l’Italia fa passi indietro. Francesca Naima su L'Indipendente il 7 gennaio 2023.

In Francia è divenuta ufficialmente legale la vendita di fiori e foglie di canapa contenenti cannabidiolo (CBD), il principio attivo della cannabis privo di effetti psicoattivi, a differenza del più noto tetraidrocannabinolo (THC). La sentenza rappresenta un passo avanti verso una tolleranza maggiore in un Paese storicamente caratterizzato da atteggiamenti perlopiù proibizionisti: la decisione del Consiglio di Stato dello scorso 29 dicembre revoca in maniera definitiva il precedente divieto introdotto dal Governo transalpino alla fine del 2021. I negozi potranno quindi riprendere a vendere in modo legale la cosiddetta cannabis light, ovvero infiorescenze di cannabis a basso contenuto di THC, quindi privi di effetti psicoattivi, ma molto apprezzate dai consumatori per le qualità rilassanti contenute nonché come sostituto del tabacco.

Per legalizzare il principio attivo ormai dimostrato essere non stupefacente, anzi ci sono diversi studi pronti a elencarne i benefici e i differenti utili usi, ci è voluto del tempo; dal citato divieto si potevano acquistare senza conseguenze legali i soli prodotti trattati e trasformati: al 30 dicembre 2021 in Francia era possibile la vendita di prodotti a base di cannabis con un contenuto di THC inferiore o uguale allo 0,3%, ma era vietato venderne le foglie e le infiorescenza da cui si ricava appunto la cannabis light da fumare.

La recente sentenza francese è importante per un settore ormai da anni in crescita e che potrà velocemente svilupparsi. Stando ai dati del Sindacato Professionale della Canapa (SPC) alla fine del 2022 in Francia sono stati contati circa 2.000 negozi di CBD e il volume d’affari del mercato equivale a circa 2 miliardi di euro. La manovra permetterà anche di produrre CBD “made in France” perché la nuova autorizzazione si estende a tutte le parti della pianta della canapa, al contrario dei dettami precedenti contenuti in un testo tra l’altro del 1990, secondo il quale la coltivazione della canapa era limitata alle sole fibre e ai semi. Non solo si svilupperà un settore di produzione agricola francese di CBD, ma seguiranno benefici ambientali: un ettaro di coltura di canapa è in grado di immagazzinare la stessa quantità di CO2 di un ettaro di foresta. Altro lato positivo che si apprende da alcuni studi effettuati in Svizzera – da dove il mercato della cannabis light è partito ormai diversi anni fa – e che potrebbe da ora giovare anche alla Francia è che la cannabis light legalizzata porterebbe a una diminuzione dello spaccio e anche a una riduzione dell’uso di farmaci.

Con una storia proibizionista simile all’Italia la Francia ha, per quanto lentamente, dato inizio a una nuova era per favorire un mercato in crescita, mentre nel nostro Paese non sembra intraprendere strade simili, per quanto ci siano stati tentativi nel corso del tempo. Eppure la Francia ha ricevuto una spinta significativa grazie a una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE) del novembre 2020, dalla quale si apprende che nessuno Stato membro possa “Vietare la commercializzazione del cannabidiolo (CBD) legalmente prodotto in un altro Stato membro, qualora sia estratto dalla pianta di Cannabis sativa nella sua interezza e non soltanto dalle sue fibre e dai suoi semi”.

In Italia però, specialmente dalla formazione del nuovo governo, pare si voglia vietare – anche – la cannabis light. Il 13 ottobre 2022 è stato ripresentato a firma di alcuni deputati di Fratelli d’Italia una proposta di legge che mira anzi ad azzoppare il mercato italiano del settore, prevedendo di vietare “la vendita e l’utilizzo delle infiorescenze di canapa per uso umano”. Inoltre Luca Marola, il fondatore di una del principali aziende produttrici di cannabis light italiane, è sotto processo. [di Francesca Naima]

In Italia.

Il nuovo spot antidroga del governo Meloni diffonde banalità e fake news. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 28 Novembre 2023

Dopo la sentenza del TAR di qualche settimana fa, che ha bocciato il decreto risalente a quest’estate che avrebbe voluto equiparare i prodotti a base di cannabidiolo a sostanze stupefacenti vietandone il commercio, il governo Meloni torna all’attacco della cannabis con uno spot, da qualche giorno in onda sui canali Rai. Il messaggio che si vuole trasmettere in appena 30 secondi di immagini è chiaro: la cannabis è una droga pericolosa che può potenzialmente aprire le porte al consumo di sostanze assai più dannose, quali (verosimilmente) la cocaina e l’eroina. Un problema che riguarda almeno un giovane su dieci. Tuttavia, la teoria della cannabis come droga di passaggio (vecchia di circa un secolo) è stata ripetutamente contraddetta da decine di studi, che hanno invece dimostrato il ruolo dell’alcol nell’aprire le porte al consumo delle droghe pesanti. Recentemente, alcune ricerche sembrano persino aver confermato il ruolo della cannabis nella disintossicazione da altre sostanze.

«Che stai facendo?» esclama con un tono tra lo stupito e l’accusatorio un ragazzino di una dozzina d’anni alla vista di uno un po’ più grande che, appoggiato a un muro, sta girando una canna. «Ti stai facendo una canna! Guarda che ti fa male» prosegue, spiegando che «è un attimo che passi ad altre droghe» e sottolineando con amarezza «l’ho visto con i miei occhi». A quel punto, sulle note di una melanconica musica di sottofondo, una voce fuori campo ci fa sapere che «Ogni anno, migliaia di persone vanno al pronto soccorso per patologie direttamente legate al consumo di droghe» e che «Circa una su dieci è minorenne». «Butta via la droga, non la vita» intima allora il ragazzino più giovane. L’idea che implicitamente si sta cercando di far passare è quella che la cannabis funzioni come gateway drug, ovvero come droga di passaggio che potrebbe facilmente aprire la strada al consumo di sostanze più pesanti, come eroina o cocaina. Eppure sono anni che tale teoria è stata smontata, in quanto non esistono prove a suo sostegno. Di fatto, la formulazione della teoria del passaggio risale al periodo del proibizionismo americano negli anni ’30 del ‘900, ma fu smentità già negli anni ’70 dalla stessa American Medical Association, che confermò come “se si esamina accuratamente la documentazione, non si trova conferma dell’esistenza di una relazione causale tra l’uso di marijuana e l’eventuale uso di eroina”. Successivamente, furono moltissime le ricerche che giunsero agli stessi risultato. Una recente ricerca condotta nell’arco di alcuni decenni dalle Università del Colorado e del Minnesota ha inoltre avanzato la tesi che non solo la cannabis non costituirebbe una droga di passaggio, ma potrebbe anzi essere utile nel processo di disintossicazione da altre droghe più pesanti, come cocaina ed eroina.

Pubblicato sulla rivista scientifica Psychological Medicine, lo studio è stato condotto su 4 mila gemelli, il 40% dei quali residenti in Colorado (dove l’uso ricreativo della cannabis è consentito) e il 60% in Minnesota (dove non vi è cannabis legale). John Hewitt, tra gli autori della ricerca, ha spiegato che sono stati tenuti in conto fattori quali «l’età, il background sociale, la vita domestica e persino l’eredità genetica». Gli individui che vi hanno preso parte sono stati osservati in due momenti differenti: prima del 2013, anno in cui il Colorado ha legalizzato la cannabis, e il periodo successivo. Christian Hopfer, co-autore dello studio, ha spiegato come «Per quanto concerne l’utilizzo moderato di cannabis, che valeva per la maggior parte dei soggetti, la legalizzazione non sembra aumentare il rischio di disturbi da uso di sostanze» e che «La legalizzazione della cannabis non era associata ad altri esiti avversi […] incluso il disturbo da uso di cannabis». Inoltre, numerosi altri studi recenti sembrano poi dimostrare come in realtà la cannabis sia una sostanza di aiuto nel percorso di uscita dalle dipendenze.

La sostanza per la quale, al contrario, sembrano esservi conferme in merito al ruolo di sostanza di passaggio verso l’uso di droghe più periocolose è l’alcol. Secondo i risultati di uno studio effettuato su 8 mila giovani e giovanissimi americani (dai 12 anni in su), «Coloro che hanno provato la cannabis prima dell’alcol e del tabacco sembravano avere meno probabilità di sviluppare problemi di abuso di sostanze rispetto a coloro che hanno provato la cannabis alla stessa età in cui hanno provato almeno un’altra sostanza». E nella stragrande maggioranza dei casi, hanno rilevato i ricercatori, l’alcol viene consumato ben prima della cannabis o di altre sostanze.

Antonella Soldo, di Meglio Legale, ha definito lo spot del governo come «un tentativo di avvalorare uno dei vecchi cavalli di battaglia del proibizionismo: quello della cannabis come droga di passaggio», ma che questa costituisce fondamentalmente una fake news. «La dipendenza da cannabis è nettamente inferiore a quella di altre sostanze, lo dicono tutti i dati del Ministero della Salute sull’accesso ai SERT – spiega Soldo – Parlando dei ricoveri: oltre 43mila persone vanno al pronto soccorso per abuso di alcol. A fronte di 350 persone all’anno che ci vanno per problematiche legate alla cannabis. Il 50% dei giovani italiani ha dichiarato di essersi ubriacato almeno una volta nell’ultimo anno: forse, questa è un’emergenza più seria». [di Valeria Casolaro]

(ANSA venerdì 10 novembre 2023) "Quando sento onorevoli che vanno nelle scuole a dire che la marijuana non crea dipendenza, è difficile combattere questo fenomeno dl punto di vista della prevenzione". Lo ha detto Nicola Gratteri, nuovo procuratore di Napoli e grande esperto di lotta alle mafie: intervenendo a "Giù la maschera", su Radio1, parla dei rischi per i giovani delle nuove droghe, controllate dai narcotrafficanti. 

"Ieri a un convegno a Napoli ho detto, lasciate perdere magari per un anno la giornata della legalità nelle scuole, e mandate i ragazzi nelle comunità a parlare coi giovani drogati, per farsi raccontare le loro storie, i loro drammi. Vale più questo di tante conferenze con grandi esperti". "

Chi si fuma uno spinello, si mette in macchina e passa col rosso, a quel punto non diventano più fatti suoi, ma fatti nostri. La legalizzazione delle droghe leggere? Pensate che l'80% dei tossicodipendenti nel mondo occidentale è cocainomane, e un grammo di cocaina costa 60 euro. Mentre un grammo di marijuana costa 5 euro e i tossicodipendenti da questa sostanza sono il 7, 8%", ha aggiunto. Quindi quale sarebbe il mancato guadagno per le mafie se la legalizzassimo?

"Ormai la droga viaggia anche sui social, e quindi diventa un problema che scavalca gli Stati, la politica. Siamo deboli dal punto di vista normativo. Noi sequestriamo mediamente il 10% della droga che arriva in Italia; se un corriere è incensurato, qualche viene trovato con 50 chili di marijuana resta in carcere al massimo cinque mesi. Va creato un sistema giudiziario forte, serio, proporzionato al danno. 

Finché sarà conveniente delinquere, lo si farà e questo vale per tutti i reati", secondo Gratteri. "C'è uno spaventoso aumento del consumo di droghe sintetiche, perché costano poco - ha detto ancora il procuratore a "Giù la maschera"- Io posso collegarmi con i siti indiani, vietnamiti, cinesi e compro tutto quello che mi occorre per preparami una pasticca e venderla davanti alle discoteche.

Come il Fentanyl che ha effetti devastanti, sta uccidendo migliaia di giovani negli Usa, vien detta la droga degli zombie, fa perdere ogni facoltà cognitiva. C'è poi in Bolivia la cocaina rosa, inodore, quindi difficile da cogliere per i cani. Per non parlare della Cina, che controlla anche i respiri, ma che sta avendo un grandissimo consumo di droga fra i giovani, il problema è grave come quello degli Stati Uniti".

Pusher risarcito dai giudici. "La confisca era eccessiva". I giudici della Suprema corte gli hanno restituito 17mila euro. Cristina Bassi il 7 Novembre 2023 su Il Giornale.

I giudici della Suprema corte gli hanno restituito 17mila euro. Lui è uno spacciatore, ma ha avuto ragione nel sostenere che i contanti che gli erano stati sequestrati erano troppi rispetto al reato specifico per cui era stato arrestato, la cessione di due dosi di cocaina.

La vicenda, per certi versi paradossale, è legata a un piccolo episodio di criminalità. L'ha riportata la Provincia di Como. Il giovane, un albanese di 26 anni, è stato arrestato in flagranza dalla Guardia di finanza di Ponte Chiasso. In quel momento era intento a cedere cocaina a un cliente svizzero e addosso aveva altre due dosi, circa 60 grammi. I due sono stati sorpresi nel parcheggio di un supermercato di Tavernola. La Gdf ha poi perquisito il b&b di Como dove il pusher alloggiava e ha trovato 17mila euro in contanti, di cui il 26enne non ha saputo spiegare la provenienza. Da qui il sequestro della cifra, ritenuta «profitto del reato», ai fini della confisca, ratificato dai giudici di merito. L'arresto è del dicembre del 2022. Ora la Cassazione, su ricorso del suo difensore, ha restituito il denaro allo spacciatore. Scrive la Suprema corte: «Il carattere assolutamente sproporzionato tra l'ammontare del denaro in sequestro e la modesta quantità di sostanza stupefacente ceduta (due dosi) renderebbe manifestamente illogica qualunque tesi volta a sostenere la diretta derivazione e/o il rapporto di diretta pertinenzialità del denaro rispetto alla cessione della cocaina». Non solo: «Non sono confiscabili le somme che, in ipotesi, costituiscono il ricavato di precedenti diverse cessioni di droga e sono destinate ad ulteriori acquisti della medesima sostanza, non potendo le stesse qualificarsi né come strumento, né quale prodotto, profitto o prezzo del reato». Nel frattempo il 26enne ha patteggiato una pena a due anni di carcere con la condizionale. Ma ha recuperato tutti i soldi.

Cristina Cattaneo, medico legale dei grandi delitti, a Milano trova la cannabis negli scheletri del 1600 (e non era per uso terapeutico). Anna Gandolfi su Il Corriere della Sera sabato 4 novembre 2023.

La scoperta dello staff dell'Università Statale: «Prima conferma in Europa dell'uso di cannabinoidi in età moderna». Le tracce sui resti di una donna di 40-50 anni e un ragazzo di 16-20: sono pazienti dell'Ospedale Maggiore ma non c'è traccia della sostanza nelle terapie. L'antropologa dei casi Yara e Claps: «Così indaghiamo anche nel passato»

Età: tra i 16 e i 20 anni lui, tra i 45 e i 54 lei. Città di residenza: Milano. Anno di nascita: incerto ma per entrambi collocabile nel XVII secolo. Ceto sociale: modesto, tanto da portarli a cercare cure mediche gratuite. Segni particolari: assuntori di cannabis. E non per uso terapeutico.

L’ennesimo caso trattato da Cristina Cattaneo, medico legale e antropologa forense più famosa d'Italia, non c’entra con la cronaca nera. La scoperta è ora pubblicata sul Journal of Archaeological Science e rivela un dettaglio inedito di vita milanese in epoche lontane. «Sugli scheletri conservati nel sepolcreto della Ca’ Granda abbiamo trovato la prima evidenza del consumo non farmacologico di cannabis in età moderna, in Italia e in Europa».

 Erodoto di Alicarnasso, nelle Storie datate 440 avanti Cristo, raccontava di inflorescenze dall’effetto psicotropo: ecco l’uso del principio attivo della canapa nel mondo occidentale. Però. «Quelle erano parole». Qui, adesso, ci sono i fatti: i test fatti con gli archeotossicologi dell’Università Statale di Milano - il responsabile Domenico di Candia e la dottoranda Gaia Giordano - hanno cristallizzato la prova più remota finora disponibile.

La dura vita a Milano nel '600

Nel Seicento, a Milano, c’era dunque chi usava la cannabis «per uso personale». L’identikit degli assuntori suggerisce un consumo senza distinzione di genere ed età, probabilmente vasto (tracce su due individui tra nove esaminati). Forse annebbiarsi la mente era un modo per sfuggire alla dura realtà? «Carestia, malattie, povertà, igiene pressoché inesistente. Certo Milano — riflette la professoressa — non è mai stata in condizioni critiche come nel Seicento. Nemmeno nel Medioevo».

Lo staff del Labanof (Laboratorio di antropologia e odontologia forense) ha esaminato i resti dei pazienti del secentesco Ospedale Maggiore, ancora oggi ospitati nella cripta della chiesa della Beata Vergine Annunciata. «Gli esami tossicologici sugli scheletri non si fanno mai, o quasi. Noi ci abbiamo provato».

Per uso personale

L’«archeotossicologia» nei mesi scorsi, su quei resti, aveva censito gli oppioidi, «che però si potevano collegare alle terapie mediche». Le ricerche sono proseguite. E, sorpresa: in una donna e in un ragazzo sono saltati fuori residui di cannabinoidi. Di cannabis, però, non c’è traccia nella documentazione coeva con cui alla Ca’ Granda venivano annotate le terapie. Se non era una cura — e non lo era — ecco le ipotesi: «Era usata come sostanza ricreativa, come automedicazione oppure l’accumulo è frutto di esposizione involontaria». La prima opzione sarebbe «la più probabile». Ancora: il fatto che le tracce siano persino nei femori suggerisce dosi consistenti.

Collezione di 10 mila scheletri

Questo è solo l’ultimo spaccato della Milano passata indagata grazie all’«ascolto» di 10 mila scheletri: resti che coprono 2 mila anni e costituiscono la Collezione del Labanof (Cal), tra più estese al mondo. Nata nel 2017, comprende — d’intesa con Soprintendenza e altre istituzioni — ritrovamenti di ogni epoca, soprattutto lombardi. Ci sono resti non reclamati, spoglie da necropoli antiche, da cimiteri moderni, dal sepolcreto della Ca’ Granda (accoglieva pazienti curati gratuitamente). Il Musa — Museo delle scienze antropologiche mediche e forensi per i diritti umani — è nato proprio per raccontare le scoperte fatte mettendo la collezione sotto la lente. La sede è in via Ponzio 7, nell’edificio accanto all’Istituto di Medicina legale della Statale: le pareti sono coperte da scaffali, a loro volta divisi in cassetti trasparenti arrampicati fino al soffitto. 

Nel Quadrilatero della moda affiora la necropoli dei sarti

Nei 2.500 scomparti del Musa c’è una selezione di altrettanti scheletri. «E ognuno è una storia», sottolinea il curatore, Mirko Mattia. Le raccontano didascalie, filmati e persino brani musicali. Un caso curioso, ad esempio, è quello di via Monte Napoleone. Prosegue Cristina Cattaneo: «Durante un cantiere nello spazio che ospita una famosissima griffe di moda francese è emersa una necropoli con un centinaio di scheletri. La Soprintendenza ci ha affidato gli studi». Le falangi e i denti, con piccoli solchi, non hanno lasciato dubbi: erano sarti del XV secolo con i segni di aghi e filo da spezzare. Corsi e ricorsi: il Quadrilatero già allora era il regno dei couturier. 

Arriva a noi dal XIII secolo anche un 18enne trovato nel 2007 vicino a piazza Sant’Ambrogio. Era straziato dalla tortura della ruota, supplizio dedicato agli untori - ne scrive Alessandro Manzoni - «in cui incappavano spesso indifesi diventati capri espiatori». Come il ragazzo che probabilmente — lo indicano  segni sul cranio — aveva una disabilità. Andare a caccia di tracce non è una passeggiata: il programma dell’Ateneo che finanzia le campagne (spesso massicce, laboriose, estese nei mesi: il piano si chiama Faith, Fighting Against Injustice through Humanities) è guardacaso intitolato «Grandi Sfide». 

L'omicidio di Galeazzo Maria Sforza

«Quasi sempre negli scavi in città si trovano persone di ceto medio-basso. I ricchi, invece, erano sepolti nelle chiese». In quella di Sant’Andrea, a Melzo, lo staff ha esaminato un cranio: «Si ipotizzava fosse quello di Galeazzo Maria Sforza, assassinato in una congiura ordita forse da Ludovico il Moro». Via con i test: il carbonio 14 ha collocato la morte tra il 1430 e il 1480, in linea con l’omicidio del Duca (1476); un’ipoplasia dello smalto dei denti collimava con la febbre terzana di cui Galeazzo — vedi la biografia — aveva sofferto a 9 anni. Infine dal paragone tra ricostruzione facciale dello sconosciuto, del ritratto di Galeazzo e del ritratto di Bianca Maria Sforza (la figlia) sono usciti nasi, labbra e menti molto simili. «I dati antropologici sono altamente compatibili con quelli storici, tuttavia la prova finale dell’identità del Duca sarebbe il test del Dna: dovremmo incrociarlo con quello di Bianca Maria che è sepolta a Innsbruck». Potrebbe essere il prossimo passo. L’indagine continua. Le storie anche.

Per i cannabis shop i sequestri senza motivo sono diventati una routine. Il decreto che vieta gli oli a base di CBD, stoppato dal Tar del Lazio, è diventato l'ultimo pretesto per gli interventi delle forze dell'ordine. Che poi si risolvono in un nulla di fatto. Ora gli imprenditori del settore alzano la voce: «Ci stanno uccidendo». Rita Rapisardi su L'Espresso il 13 Ottobre 2023  

«Le forze dell’ordine si stanno basando su articoli di giornale che fanno confusione, sequestrando qualsiasi cosa. Io stesso sono riuscito a bloccare tre sequestri mettendomi in contatto con la Guardia di Finanza». A denunciarlo è Mattia Cusani di Canapa Sativa Italia, un’associazione nazionale di settore che si sta muovendo per fermare definitivamente il decreto che ha reso illegale la vendita dell’olio di CBD. «Si sta danneggiando la nostra stessa economia, fatta di aziende e di famiglie». 

Secondo i dati di Canapa Sativa Italia, da gennaio a luglio dell'ultimo anno ci sono già stati 250 sequestri. E dal 22 settembre, quando è entrato in vigore il decreto che stabilisce che il CBD (il cannabidiolo) è una sostanza stupefacente, la sensazione è che quel numero sia in aumento. Da quel giorno sono iniziate anche le operazioni che, giustificate dal documento, hanno colpito indiscriminatamente anche prodotti non menzionati, in particolare le infiorescenze di canapa e di prodotti cosmetici contenenti CBD, di fatto leciti. Perché solo i prodotti a base di CBD per uso orale rientrano nel documento formato dal ministro della Salute Schillaci e che si pone contro le evidenze scientifiche: il CBD è infatti una molecola non psicotropa che non crea dipendenza, contenuta nella pianta di cannabis.  

«Ho un negozio di vendita al dettaglio di prodotti a base di CBD, aperto dal 2016, ma se andiamo avanti così rischiamo di chiudere - si sfoga un libero professionista della provincia di Venezia che vuole rimanere anonimo per paura di ripercussioni. - Ho avuto un sequestro due settimane fa, proprio dopo il decreto: hanno preso tutto quello in cui c’era scritto CBD, anche i liquidi per sigaretta elettronica che non sono a uso orale ma a inalazione, gli oli per cani e gatti che secondo normativa europea si possono vendere perché sono un prodotto alimentare per animali. Poi ci sono anche gli oli CBD cosmetici che si possono vendere: per fortuna non li avevo o me li avrebbero sequestrati. E infine quattro cinque chili di infiorescenze». Inoltre è stato sequestrato anche l’olio CBD che l’uomo aveva ritirato dalla vendita e messo in magazzino aspettando che il fornitore lo ritirasse. 

Lo stesso è successo a un altro imprenditore, che oltre a un’azienda agricola in Abruzzo ha diversi punti vendita: «Sono venuti alle sette del mattino e sono rimasti fino alle tre del pomeriggio: quindici agenti che hanno mal interpretato il decreto. Abbiamo provato a spiegarlo ma non ci hanno ascoltati - spiega l’uomo che vuole restare anonimo per proteggere la sua azienda - così hanno preso il CBD in essiccazione giustificando che è per uso orale: ma non è così, si inala. Sono un imprenditore, ma ti trattano in altro modo, abbiamo speso e dato tanto per questo settore. Non solo il danno economico, ma veniamo messi in discussione come imprenditori e a livello morale. Ormai sono anni che non dormo più», conclude l'uomo che racconta come i suoi negozi forniscono a circa a 600 pazienti alternative a medicine con effetti collaterali maggiori: «Ho 70 clienti affetti da Parkinson, 50 che hanno la fibromialgia, e poi epilessia, sindrome di Tourette, le patologie più gravi».  

«Mi sembra incredibile debba rimanere anonimo per paura che lo Stato si accanisca contro di me e la mia azienda - racconta un altro imprenditore del Piemonte che chiede che la sua identità non venga diffusa - ho aperto l’azienda commerciale nel 2020, subito dopo il decreto abbiamo subito il sequestro di tre chili di infiorescenze. Così colpiscono piccoli imprenditori, che vendono il prodotto anche all’estero e che con le piantagioni modificano in meglio il territorio, prima abbandonato. Questa è una guerra al logoramento».  

«Sono molte le aziende che ci stanno contattando, perché subiscono sequestri, che certo avvenivano anche prima, ma ora c’è anche la scusa di questo decreto - commenta Lorenzo Simonetti, avvocato specializzato in reati in materia di stupefacenti - il 90 per cento di quelli che gestiamo si risolvono positivamente - ottenendo in alcuni casi la restituzione del prodotto già nelle indagini - però nel frattempo le aziende spendono soldi, perdono tempo e non hanno la garanzia che il prodotto non si deteriori».  

Le operazioni sono continuate anche dopo la sospensione da parte del Tar del Lazio, interpellato dalle associazioni di settore: ad esempio in Piemonte o in Umbria dove le forze dell’ordine si sono giustificate che non valesse per tutte le regioni. «Smaschereremo questo imbroglio istituzionale per salvaguardare la libertà personale e d’impresa - spiega Claudio Miglio, avvocato esperto della materia, che con Simonetti ha uno studio - Innanzitutto focalizzandoci sull’irragionevolezza tecnica della valutazione del CBD, slegata dagli studi scientifici». L’udienza è il 24 ottobre, data in cui scade la sospensione voluta dal Tar del Lazio, ma si naviga a vista, non si sa cosa succederà dopo e il settore è sempre più incerto.  

Neoproibizionismi. Sulla cannabis light il governo rifiuta di riconoscere evidenze scientifiche consolidate. Istituto Bruno Leoni su L'Inkiesta il 26 Settembre 2023

Un decreto del ministro della Salute, Orazio Schillaci, inserisce il principio attivo del cannabidiolo nella lista degli stupefacenti, ma per l’Oms la sostanza non genera abusi o dipendenze. Non si capisce, quindi, su quali basi la libertà dei singoli debba essere limitata. L’editoriale dell’Istituto Bruno Leoni su Linkiesta

La cannabis light potrà essere acquistata solo in farmacia e dietro presentazione di ricetta medica. Lo stabilisce un decreto del ministro della Salute, Orazio Schillaci, che inserisce il principio attivo del cannabidiolo (cbd) nella lista degli stupefacenti. Con un tratto di penna, il ministro distrugge le legittime aspettative di migliaia di imprenditori che hanno investito per produrre e commercializzare prodotti che, fino a pochi giorni fa, erano perfettamente legali. Per tacere, ovviamente, dei loro consumatori, che quei prodotti li acquistavano nella convinzione di non fare nulla di male.

Il governo italiano, in nome di un “giro di vite” sulla droga (che sarebbe una specie di scala, dove al primo ipotetico scalino, la cannabis, seguirebbero invariabilmente tutti gli altri) rifiuta di riconoscere evidenze scientifiche consolidate. Dopo una lunga discussione, infatti, l’Organizzazione mondiale della sanità ha stabilito che il cbd, da un lato, ha possibili applicazioni terapeutiche (riconosciute anche dal decreto Schillaci) e, dall’altro, non è suscettibile di generare abusi o dipendenze.

Il consumo ricreativo di cbd può piacere oppure no, ma non sembra essere più dannoso rispetto ad altre attività o sostanze pacificamente accettate nella nostra società. Speriamo che neppure oggi, in questi tempi di neoproibizionismi di ogni colore, nessuno si sognerebbe di proporre la limitazione del diritto di acquistare sostanze potenzialmente pericolose come i detersivi, gli alcolici e le batterie delle automobili col loro contenuto di acidi. Non si capisce, quindi, su quali basi la libertà dei singoli debba essere limitata, a fronte di nessun beneficio dimostrabile a livello sociale e persino individuale, quando si parla di cbd.

Sulla base di questi presupposti – l’evidenza scientifica, il diritto e i diritti degli individui – letteralmente migliaia di imprenditori hanno scelto di operare in questo settore. Le stime suggeriscono che la filiera della cannabis in Italia dia lavoro a circa dodicimila persone occupate prevalentemente in tremila negozi. Non è la popolazione di una grande città, ma è un valore nettamente superiore alla popolazione media di un comune italiano. È come se il governo avesse sbarrato l’ingresso a un comune.

Il divieto imposto con un tratto di penna è socialmente dannoso non solo perché improvvisamente solleva una questione sul futuro di queste attività, ma implica anche che la domanda di cbd vada insoddisfatta o, peggio ancora, finisca per cercare sfogo nel commercio irregolare (dove le sostanze vendute sono meno controllate e potenzialmente più pericolose). Per questo hanno fatto bene gli operatori del settore a reagire immediatamente impugnando il provvedimento, che potrebbe configurare una violazione delle norme europee. La Corte di giustizia Ue, d’altronde, ha già condannato la Francia per un divieto simile.

Abbiamo più volte sottolineato quanto fosse importante mantenere la promessa della premier, Giorgia Meloni, di «non disturbare chi vuole fare». L’Italia è un paese pieno di vincoli che il governo si è giustamente impegnato a rimuovere. Il mondo è complicato, la politica difficile, eliminare sul serio quei vincoli spesso è talmente faticoso da scoraggiare anche i meglio intenzionati. Un buon inizio sarebbe quello di non aggiungerne di nuovi.

Cannabis light ‘fuorilegge’, per il governo proibizionista l’olio Cbd è una droga e si può vendere solo in farmacia. Un provvedimento oscurantista e ideologico che mette in crisi un intero settore e chi ci ha investito. Intanto, il governo favorisce i 'poteri forti' dando l'esclusiva di vendita alle farmacie. Al decreto del Ministro della Salute Schillaci risponde Magi di +Europa. Redazione Web su L'Unità il 22 Settembre 2023

Un blitz della maggioranza, a nome del Ministro della Salute Orazio Schillaci, ha criminalizzato l’olio Cbd classificandolo come sostanza stupefacente. Il provvedimento è contenuto in un decreto inserito in Gazzetta Ufficiale lo scorso 21 agosto. In questo modo, considerato che da allora i prodotti derivati da Cbd sono in pratica diventati una droga, potranno essere venduti solo in farmacia. Che gli smart shop si mettessero l’anima in pace. Così come un intero settore del quale fanno parte tante piccole e medie imprese anche agricole. Così il governo Meloni, per motivi ideologici e di consenso, ha espresso tutta la sua anima proibizionista ed oscurantista punendo tanti giovani imprenditori e privilegiando il settore farmaceutico.

Cannabis light e Cbd si vendono in farmacia

“L’idiozia proibizionista non conosce limiti. Da oggi in Italia sarà vietata la vendita libera di alcuni prodotti a base di Cbd, come oli e cibi, che potranno essere acquistati solo in farmacia. E per produrli serviranno autorizzazioni sanitarie specifiche. Con un decreto pubblicato lunedì 21 agosto in Gazzetta, il governo Meloni ha infatti incluso il cannabidiolo per somministrazione orale nelle tabelle delle sostanze stupefacenti“. A sottolinearlo in una nota è il segretario di Più Europa Riccardo Magi. “Peccato – aggiunge – solo che il Cbd non è una sostanza stupefacente: ciò che è davvero stupefacente è che il governo Meloni vieta una sostanza che ha gli stessi effetti di una camomilla e la spaccia per guerra alla droga“.

“Non lo diciamo noi. Lo dice l’Organizzazione Mondiale della Sanità: il Cbd non può essere classificato come una sostanza controllata, poiché non crea dipendenza e non comporta alcun danno per la salute umana. E lo dice anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea: nel 2020 ha stabilito che gli stati membri non possono vietare la vendita dei prodotti a base di Cbd. Ci aveva già provato il governo Conte II, Roberto Speranza. Ma dopo una serie di proteste, il decreto fu giustamente sospeso. Da anni c’è questo tentativo bipartisan, fondato sul mix tra proibizionismo e ignoranza sulla materia, di uccidere un settore in forte crescita, con tante piccole e medie imprese, anche agricole, gestite da giovani, che potrebbe rappresentare un asset per il tanto evocato ‘Made in Italy’“, conclude Magi.

Antiproibizionisti ‘ignoranti’

Ci sono, infatti, tre aspetti in particolare che cozzano con tale decreto. Il primo è sanitario, l’Oms non ha mai detto che il Cdb è una droga o che sia nocivo. C’è una motivazione giuridica: la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha affermato nel 2020 gli stati membri non possono vietare prodotti a base di Cbd. Infine, c’è una componente commerciale. Che non riguarda solo le aziende che si sono indebitate e magari creato lavoro per poi essere ‘spezzate’ da questo esecutivo. Il problema è relativo alla concorrenza estera. Infatti non vi è una regolamentazione sull’importazione dei prodotti derivati dal Cbd, da altri paesi nei quali essi sono legali. Questo tenderà a penalizzare i soli produttori italiani. Alla faccia della maggioranza sovranista. Redazione Web 22 Settembre 2023

La guerra del governo Meloni alla cannabis: vietati anche aromi, oli e cosmetici. «Così si distrugge un intero settore industriale». Tra pochi giorni entra in vigore l'obbligo di ricetta medica per tutti i prodotti con CBD, la molecola non psicotropa e che non crea dipendenza contenuta nella pianta. Che invece ora sarà equiparata alle sostanze stupefacenti a rischio abuso. Anche se la scienza dice tutt'altro. Rita Rapisardi su L'Espresso  Mercoledì 6 Settembre 2023. 

Made in Italy, piccola e media impresa, settore agricolo italiano. Dal suo insediamento il governo Meloni ripete ossessivamente queste parole d'ordine, in continui spot tra ministeri appositi e comparsate nelle fiere di settore: eppure pare esserseli dimenticati. È infatti nella direzione opposta che viaggia il nuovo decreto firmato Schillaci che inserisce il cannabidiolo (CBD), molecola non psicotropa e che non crea dipendenza, contenuta nella pianta di cannabis, quando destinata ad uso medico, tra le sostanze stupefacenti a rischio di abuso.  

Una decisione che va a toccare nel vivo l’intero settore della canapa industriale italiana che oggi conta 12mila occupati (senza contare l’indotto) e con un'alta percentuale di under 35 al suo interno, e che cambia dall’oggi al domani la vita lavorativa di migliaia di persone. Infatti inquadrando una qualsiasi sostanza tra quelle a rischio d'abuso si entra in pieno conflitto con la commercializzazione dello stesso per altre destinazioni lecite come quella cosmetica e in prospettiva come integratori alimentari “novel food”.  

«Tra pochi giorni festeggeremo un anno di attività, siamo ottimisti, ma sappiamo che è dura, certe mattine è veramente difficile», racconta Erika Pozzetti, che con i suoi due fratelli ha fondato la Treepoties, un’azienda specializzata in Canapa che prende ispirazione da una lunga tradizione familiare di attività nella cosmesi naturale e negli integratori. «Abbiamo deciso di concentrarci sulla canapa, per i benefici della pianta a tutti i livelli, e per entrare in un mercato innovativo e tanto richiesto in Europa. Ma anche per combattere un pregiudizio, con la voglia di fare divulgazione». Sono infatti sempre di più le persone che valutano alternative a farmaci “pesanti” e che trovano la risposta nel CBD che ha proprietà antinfiammatorie, antiepilettiche e antiemetiche. «Si mette in ginocchio un settore e le persone che nel CBD hanno trovato una risposta migliore e che per esempio per dormire meglio usano l’olio di CBD per non prendere le benzodiazepine che creano dipendenza», conclude Pozzetti.  

In pratica tra un mese, quando il decreto entrerà in vigore, per acquistare l’olio a base di CBD servirà una ricetta medica (non ripetibile) come avviene nei farmaci considerati pericolosi ed alto rischio abuso, come gli ansiolitici e gli antidepressivi. «È qualcosa che non avremmo permesso per nessun altro settore, pensiamo ai tassisti che tengono in mano il paese, per chi lavora la canapa invece, neppure una parola. Una spallata a un intero settore, senza una proposta alternativa - commenta Antonella Soldo di Meglio Legale - persone che hanno investito soldi e preparazione in aziende, creato posti di lavoro e innovazione, che pagano le tasse».  

Le mire proibizioniste del governo sono note, ma quello che non torna nella decisione presa da Schillaci, e che in realtà riesuma un decreto approvato per la prima volta dal ministro Speranza nel 2020, poi sospeso, è la valutazione scientifica del tutto sbagliata sul CBD: «Il vero problema è dove è stato inserito il CBD, cioè tra le sostanze psicotrope, quando questa non lo è. Questo inquadramento tra le droghe a rischio di abuso non ha nessuna prova scientifica. Legalizzare o meno la cannabis è una scelta politica, antiproibizionista o no, ma scientificamente qui non c’è valore», spiega Mattia Cusani di Canapa Sativa Italia, un’associazione nazionale di settore che si sta già muovendo per fermare il decreto. «Abbiamo già scritto ad Aifa e al ministero della Salute a riguardo e speriamo venga ritirato o corretto, ad esempio inserendo il CBD nei farmaci senza prescrizione medica e divieti di pubblicità, ma se ciò non avvenisse abbiamo già in mente di ricorrere al Tar ed eventualmente alla Commissione Europea». La regolazione del CBD infatti è di competenza europea e la sua commercializzazione è consentita proprio perché è una sostanza sicura.   

La decisione del governo Meloni va completamente in direzione opposta rispetto a quanto avviene in Europa, dove da tempo è stato avviato un percorso per una normativa comunitaria sui cosiddetti “novel food”. Un percorso, quello europeo, che legittima la libera circolazione del CBD per i cosmetici e gli integratori alimentari e non si fa alcuna menzione del rischio di abuso. Di più, alcuni paesi stanno andando oltre. La Francia ha approvato una legge per considerare il CBD un integratore: il Senato ha stimato un mercato che potrebbe fatturare fino a 2,5 miliardi di euro all’anno.  

«Qual è lo scopo di questo decreto, dare i soldi alle aziende straniere? Un prodotto da 100 ml da noi il consumatore lo paga 250 euro iva inclusa, con una ricetta non ripetibile come farmaco stupefacente invece, lo Stato, e quindi tutto noi, pagherà 1700 euro senza iva da una società britannica », commenta Costantino Gianfrancesco di Green Labs, che produce prodotti a base di CBD, venduti anche nelle farmacie, come burro cacao, creme antiage e oli per massaggi; unica azienda specializzata in Molise e che conosce bene la repressione ideologica nei confronti del settore: da anni infatti subisce controlli indiscriminati come se agisse nell’illegalità. Come lui centinaia di aziende: processi vinti nella totalità dei casi, secondo i dati di Meglio Legale, ma che risultano assai onerosi per l’industria spesso privata della materia prima sottoposta a sequestro. «Dopo che per anni ci hanno tenuti sospesi in assenza di una normativa chiara sull’uso tecnico, ora questo. Registreremo il prodotto per il solo uso cosmetico, ma così non possiamo usare l’estratto. Devo andare ad aprire il mio laboratorio altrove? In Germania o Repubblica Ceca? Così si crea ansia e disagio a un intero settore che da tempo dimostra di fare bene».  

«Mentre il settore vinicolo non si tocca, anzi sembra esserci un incentivo di stato all’abuso, come l’iniziativa del ministro Salvini che propone i taxi fuori dalle discoteche si fa una guerra morale e non scientifica - conclude Soldo - Non è un caso che dove le democrazie sono traballanti le leggi sulle sostanze sono pesanti». 

A Verona gli ultras spacciano coca durante le partite: è ora di chiudere quello stadio. L’operazione della polizia ha mostrato l’enorme traffico messo in piedi da una parte della tifoseria organizzata. Non è possibile continuare a ignorare che alcuni impianti sono fuori controllo. Fabrizio Bocca su L'Espresso il 30 Agosto 2023

Un tiro di cocaina per festeggiare i gol di Duda e Ngonge alla Roma. Allo stadio Bentegodi di Verona si spaccia droga mentre si giocano le partite del campionato. Prima ancora di scendere nei dettagli dell’attività criminale si pone automaticamente e immediatamente un problema grave: può rimanere aperto uno stadio dove si vende cocaina durante le partite di Serie A e dove gli ultras hanno messo in piedi un’attività illegale, mafiosa, a livello diffuso, si direbbe quasi industriale? Si chiudono i bar e i locali notturni dove si spaccia droga, perché non farlo con gli stadi riempiti da decine di migliaia di tifosi?

Il problema d’ordine pubblico, ma di riflesso anche sportivo, dovrebbero seriamente e praticamente porselo Federcalcio e Lega di Serie A che finora hanno chiuso curve o stadi interi in caso di episodi di violenza o di razzismo. Oppure non hanno proprio iscritto certi club ai campionati perché non avevano stadi adeguati, sufficientemente grandi e attrezzati. Ma se sono perfetti e circola droga a fiumi certi stadi vanno ugualmente bene per giudice sportivo, ufficio indagini, procure sportive varie e quanti si occupano di “giustizia” nel calcio?

Di solito di fronte a certe questioni le autorità sportive preferiscono fare la politica dello struzzo e mandare la palla in fallo: aspettare, attendere le mosse di polizia e magistrati, chiedere che qualcun altro decida al posto loro. “Non è questione che rientra sotto la nostra giurisdizione” è una scusa buona per tutte le occasioni. Saranno affari della questura o del prefetto insomma: avanti col calendario che qui non si può perdere un colpo.

Che la droga circoli negli stadi tra gli ultras è fenomeno conosciuto da tempo. Ma adesso ci troviamo di fronte a uno stadio grande piazza di spaccio. Siamo al Marcantonio Bentegodi, impianto che ospita le partite del Verona. Stadio teatro delle imprese del grande Verona di Osvaldo Bagnoli, scudetto nel 1985, rifatto per i Mondiali 90, con momenti di inquietante fatiscenza e decadimento, ritoccato anche numerose volte. Sulla copertura sono stati installati pannelli solari, che almeno lo rendono autosufficiente come costi. Ma il problema più grave e urgente dei consumi elettrici o del cemento che si sgretola oggi sono gli ultras che lo popolano.

Gli ultras del Verona, per la maggior parte di ultra destra, sono tra i più problematici d’Italia, negli anni sono stati protagonisti di episodi di cronaca clamorosi: dal manichino dell’olandese originario del Suriname, Maickel Ferrier, impiccato e penzoloni dal tetto dello stadio nel 1996, agli infiniti “Vesuvio lavali col fuoco”, cori razzisti rivolti a un’infinità di calciatori da Balotelli a Osimhen, fino a uno striscione appeso fuori lo stadio lo scorso anno, al momento dell’invasione russa in Ucraina, che riportava le coordinate geografiche di Napoli (40°50’ N, 14°15’ E). Come dire: tirate un missile qui. Insomma il razzismo come una specie di nota costante di sottofondo, di partita in partita.

La Polizia di Verona, coadiuvata da altre città venete con un’operazione in grande scala, ha dato esecuzione a 12 provvedimenti (una custodia cautelare, 4 arresti domiciliari, 7 obblighi di presentazione) emessi dal Gip. Alcuni già pregiudicati per reati di violenza in ambito sportivo. E comunque tutti tifosi appartenenti a gruppi ultras del club gialloblu. Che in questo campionato ha avuto una partenza ottima, due vittorie secche, sei punti e pure un provvisorio primo posto: vittoria a Empoli e vittoria sulla Roma di Mourinho. Festeggiamo con un tiro (di coca)?

Gli ultras spacciavano droga, in particolare cocaina, durante le partite di campionato e si andava avanti così almeno dallo scorso anno. Bastava andare al bar (indagata pure la barista responsabile…) o in bagno e si poteva fare shopping tranquillamente. Un business molto fiorente, a ribadire che quella degli ultras è un’attività che spazia nell’illegalità a 360 gradi: violenza, razzismo, controllo del territorio, spaccio.

La Polizia parla soprattutto di un “elevatissimo numero di consumatori” con “centinaia di grammi di cocaina” che venivano spacciati ad ogni partita. Sono stati identificati per questo centinaia di tifosi dell’Hellas che hanno fatto consumo di droga durante le partite. Chi voleva fare un tiro andava al bagno e trovava già la striscia di coca pronta, preparata dallo spacciatore sul vetro del telefonino. Le videocamere spia messe dalla questura fanno vedere la fila delle persone fuori della porta del bagno. Gli stessi inquirenti pongono il problema dell’alto numero di persone che assistono poi alla partita sotto l’effetto del consumo di stupefacenti, col rischio di innalzamento dell’aggressività e del tasso di violenza. Altro che “cornuto” all’arbitro…

Insomma un vero e proprio “Bazar della droga” allo stadio. Le perquisizioni hanno portato al sequestro di 110 grammi di cocaina, 2,7 kg di hashish, 200 grammi di marijuana. La droga veniva portata nell’impianto nascosta nelle mutande o sotto la soletta interna della scarpe. Così da sfuggire alle perquisizioni personali.

Il questore di Verona Roberto Massucci, grande esperto di sicurezza e violenza nel calcio, ex portavoce dell’Osservatorio Nazionale delle Manifestazioni Sportive con numerose pubblicazioni in materia, lo ha detto chiaramente: «Si ripropone il rischio di curve protese all’appropriazione del territorio e alla esclusione del controllo dello stato. È necessario stimolare la sensibilità dei club nel lavoro con i tifosi».

Per capibatteria e pusher un senso di impunità totale, inattaccabile, steward complementi impotenti. La Curva Sud dello stadio di Verona, un luogo di extraterritorialità dello Stato, controllato da ultras criminali impegnati a gestire i loro business mafiosi. Un posto, si direbbe, decisamente pericoloso e infrequentabile per tifosi normali e famiglie. E dunque da chiudere rapidamente senza se e senza ma.

A prescindere dalle inchieste penali e dai blitz della polizia, che cosa hanno intenzione di fare Federcalcio e Lega di Serie A? Probabilmente fare finta di nulla, come sempre.

Giustizia un po’ paternalistica al tribunale di Roma: l’uomo era stato sorpreso con una piccola quantità di droga. Il Dubbio il 29 agosto 2023

“Mi auguro che con il sussidio di disoccupazione troverà quelle entrate lecite per mantenere se stesso, sua moglie malata e suo figlio adolescente. Colga questa occasione, non potrà andarle sempre bene”. Con questo bonario invito, il giudice monocratico di Roma ha assolto, per particolare tenuità del fatto, un 48enne italiano finito a processo dopo essere stato arrestato dai carabinieri che lo hanno sorpreso con una modica quantità di cocaina e 280 euro contanti.

La vicenda risale a un paio di giorni fa quando i militari della stazione di Città Giardino - in servizio di perlustrazione del territorio - hanno controllato un'auto con a bordo l'uomo, poi finito in manette. Ai carabinieri era parso subito nervoso, e infatti - poco dopo - hanno scoperto che teneva alcuni involucri di polvere bianca sullo sportello dell'auto e all'interno del cavo orale. Tanto è bastato per far scattare l'arresto, convalidato anche dal giudice.

Portato in tribunale per la direttissima, l'uomo ha raccontato la sua storia: "Lavoravo in Barhain, poi sono stato costretto a dimettermi e con la mia famiglia siamo tornati in Italia. Adesso abitiamo in una casa occupata. Io sono in attesa del sussidio di disoccupazione. Mia moglie è malata: è stata dimessa pochi giorni fa dall'ospedale e deve tornarci periodicamente per dei controlli. Ho anche un figlio adolescente a carico. A settembre inizierà la scuola italiana in un liceo”. 

I carabinieri gli avevano sequestrato anche lo smartphone, dove avrebbero trovato chat che testimonierebbero l'attività di spaccio. Quella 'coca', in particolare, era destinata a un pub. “Mi hanno inviato un messaggio su whatsapp, mandandomi l'indirizzo della consegna e indicandomi il punto dove avrei trovato la macchina”, ha raccontato l'imputato, senza rivelare chi sarebbe stato questo "mandante" né come sarebbe entrato in contatto con lui, specificando tuttavia di non avere una sua vettura.

L'uomo, comunque, non ha precedenti penali: dal casellario risulta soltanto un episodio di quasi 30 anni fa, ottobre 1994. Dopo la convalida, esercitando un suo diritto, ha chiesto di essere giudicato con un rito alternativo: in particolare quello abbreviato, che in caso di condanna dà diritto a uno sconto. E così, accogliendo una richiesta del difensore, il giudice si è pronunciato per l'assoluzione tenuto conto della particolare tenuità del fatto, dettata dalla modica quantità. 

BISOGNA LEGALIZZARE LA CANNABIS? Si & No

Improponibile e immorale legalizzare la Cannabis mettendo a rischio la salute dei cittadini. Giorgio Maria Bergesio (Lega) su Il Riformista il 5 Agosto 2023 

Nel “Si&No” del Riformista spazio al dibattito su una delle grandi questioni del nostro tempo: bisogna legalizzare la Cannabis?Favorevole il Segretario di +Europa Riccardo Magi, che attraverso l’analisi di numeri e dati legati al consumo di marijuana in Italia, riflette sul concetto di democrazia liberale e sulle ripercussioni del proibizionismo sulla società moderna. Contrario il Senatore della Lega Giorgio Maria Bergesio che vuole rendere sempre più ardua la reperibilità delle sostanze stupefacenti per salvare i giovani dalla droga.

Qui il commento di Giorgio Maria Bergesio: 

“La legalizzazione della cannabis toglierebbe guadagni alla malavita” – Questo è quanto sostiene chi combatte per la legalizzazione delle droghe leggere. Ma la Lega non vuole far cassa sul disagio sociale: noi vogliamo salvare i giovani dalla droga. E questo non sarà possibile se renderemo semplice procurarsi le sostanze. Sostanze che – a mio parere – non dovrebbero essere definite “leggere”, in quanto rappresentano comunque un primo passo in una direzione che nessuno di noi si augura per i propri figli e i propri cari. Non esistono droghe pesanti e leggere, ma dipendenze più o meno severe. Ecco perché diciamo “no” alla legalizzazione della cannabis e delle droghe cosiddette “leggere”.

Ricordo inoltre che la liberalizzazione di queste sostanze stupefacenti sarebbe in contrasto con l’articolo 32 della Costituzione che recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Tutte le sostanze stupefacenti, inclusa la cannabis, sono sostanze tossiche da cui la popolazione deve essere protetta e tutelata. E se il nostro Paese facesse questa scelta causerebbe un aumento del numero dei consumatori e quindi delle persone che svilupperebbero dipendenza. Ricordo a questo proposito che è stato calcolato che almeno il 10% dei consumatori di marijuana soffre di dipendenza.

Ricordo anche che il principale agente psicoattivo della cannabis è il THC, la cui percentuale oggi è molto più alta rispetto ad anni fa. Numerosi studi hanno evidenziato la pericolosità del THC, che aumenta i rischi di danni al sistema immunitario, anomalie neonatali, infertilità, malattie cardiovascolari e cancro ai testicoli. Inoltre, a differenza del tabacco, la marijuana può causare alterazioni cerebrali e danneggia i polmoni più del tabacco, indebolendo le facoltà cognitive ed aumentando il rischio di incidenti. Legalizzare e rendere facile l’accesso a queste sostanze inoltre ridurrebbe nei consumatori e nei giovani soprattutto la percezione della pericolosità di queste sostanze. A fronte di ciò si avrebbe un aumento del rischio di incidenti, stradali e lavorativi, nonché delle patologie legate all’uso di droghe.

Senza contare che la legalizzazione avrebbe un impatto anche sulle nuove sostanze che verranno sviluppate e sulla vendita di droga via internet: entrambi avrebbero un forte sviluppo. Aggiungo che negli ultimi anni, malgrado le campagne di sensibilizzazione sui rischi portate avanti anche nelle scuole, si è purtroppo registrato un aumento del numero di minori che consumano droghe. Un dato reso ancora più allarmante dal fatto che si è progressivamente abbassata l’età media del primo consumo, che adesso si aggira intorno ai 14-15 anni, come rilevato dal Dipartimento per le Politiche Antidroga nella relazione sulle tossicodipendenze. Fra le sostanze più consumate dai nostri ragazzi al primo posto si colloca la cannabis, seguita dalle nuove sostanze psicoattive, dai cannabinoidi sintetici e dagli stimolanti.

Ritengo che le istituzioni debbano impegnarsi per contrastare questo fenomeno in maniera efficace e la liberalizzazione del traffico e della cessione della cannabis e delle altre droghe leggere andrebbe nella direzione opposta. Per tutte queste ragioni la legalizzazione delle sostanze stupefacenti leggere, un’illusione che fa presa su tanti, sarebbe una scelta sbagliata. Per quanto mi riguarda sarebbe improponibile ed immorale uno Stato che legalizzi e quindi tragga profitto dall’uso delle droghe, seppur “leggere”, per poi magari finanziare percorsi di recupero.

Pensiamo ad esempio a cosa abbiamo imparato dalla legalizzazione di alcool e tabacco: queste sostanze legalizzate sono anche le più utilizzate al mondo e tra le prime cause di morte. Per questo ritengo che la priorità sia rappresentata dalla tutela della salute della popolazione, dicendo no alla legalizzazione delle droghe leggere.

Giorgio Maria Bergesio (Lega)

Legalizzare la Cannabis è doveroso in una democrazia liberale altrimenti si fa un regalo alle mafie. Riccardo Magi (+Europa) su Il Riformista il 5 Agosto 2023 

Nel “Si&No” del Riformista spazio al dibattito su una delle grandi questioni del nostro tempo: bisogna legalizzare la Cannabis?Favorevole il Segretario di +Europa Riccardo Magi, che attraverso l’analisi di numeri e dati legati al consumo di marijuana in Italia, riflette sul concetto di democrazia liberale e sulle ripercussioni del proibizionismo sulla società moderna. Contrario il Senatore della Lega Giorgio Maria Bergesio che vuole rendere sempre più ardua la reperibilità delle sostanze stupefacenti per salvare i giovani dalla droga.

Qui il commento di Riccardo Magi: 

Il tema delle politiche sulle sostanze stupefacenti e di una loro regolamentazione – in particolare della Cannabis – è una delle grandi questioni sociali del nostro tempo, e in quanto tale andrebbe affrontato e discusso anche nelle aule del Parlamento, con approccio davvero liberale, cioè dati alla mano, senza pregiudizi ideologici né dannosi luoghi comuni.

Lo è anzitutto perché riguarda direttamente le vite di sei milioni di persone, che studiano e lavorano, prevalentemente giovani e giovanissimi, che non fanno del male a nessuno, non sono delinquenti né rappresentano un pericolo, ma consumano Cannabis. Soltanto questo, in una democrazia liberale, matura, che non sia contaminata da tendenze paternaliste da Stato Etico, basterebbe. Oppure qualcuno, forse anche tra chi si professa liberale, ritiene che tra i compiti dello Stato vi sia quello di esercitare una forma di controllo schiacciante sui cittadini attraverso il codice penale, sulla loro vita privata e sulle scelte individuali anche se non mettono a repentaglio i diritti né la sicurezza di nessuno?

Se poi il problema è tutelare la salute dei cittadini diciamo subito che la cannabis è una sostanza meno nociva di sostanze legali quali l’alcol e il tabacco. A nessuno di noi, favorevoli a campagne di prevenzione e informazione sui danni correlati all’uso e all’abuso di tali sostanze legali, verrebbe in mente seriamente di proibirle. Ecco allora che vale la pena, ancora una volta, ricordare che il proibizionismo ha fallito, prima di tutto perché ha promesso di debellare alla radice il commercio e il consumo delle sostanze attraverso normative sempre più repressive e i consumi sono continuati ad aumentare. Ha causato, anche in Italia, tragiche ricadute sull’efficienza del sistema della giustizia e dei tribunali, sulle condizioni delle carceri e dei detenuti, sulle risorse economiche nelle tasche della criminalità organizzata, sulla salute dei consumatori, sul degrado dei centri urbani, sulla sicurezza delle città italiane. Non serve essere impavidi antiproibizionisti per riconoscere questo fallimento. Oggi infatti ogni sostanza è libera, indipendentemente dagli sforzi e dalle risorse, anche economiche, che lo Stato impiega per evitarlo.

I dati dell’ultima Relazione al Parlamento sul Fenomeno delle Tossicodipendenze – presentata quest’anno dal Governo – evidenziano che la cannabis si compra per strada a partire da poco più di otto euro al grammo, l’Hashish a meno di dieci euro, nonostante gli aumenti dei prezzi degli ultimi anni, e che il 66% dei consumatori abituali ritiene facile o molto facile procurarsi Cannabis. Quasi 990mila studenti di età compresa tra i 15 e i 19 anni riferiscono di avere consumato almeno una volta nella propria vita una sostanza stupefacente, e circa la metà di loro lo ha fatto nel mese precedente alla rilevazione. D’altra parte, la stessa Relazione al Parlamento dimostra che le operazioni antidroga svolte dalle Forze di Polizia sono incrementate del 10% rispetto all’anno precedente, eppure i sequestri sono calati del 19%. Quelli di Cannabis, che riguardano il 63% del totale, sono calati addirittura del 32%. Non è il caso, alla luce di questi dati, ammettere l’errore e cambiare radicalmente l’approccio nelle scelte di politica criminale? Forse queste risorse potrebbero essere più opportunamente destinate ad altre operazioni di Polizia.

Vi sono poi gli effetti del fallimento sulle carceri. Dall’ultimo Libro Bianco sulle Droghe, pubblicato quest’anno, emerge che il 32% dei detenuti è in carcere per violazione della legge sulle droghe, mentre in Europa mediamente il dato si attesta al 18%, e che con una diversa legislazione sulle droghe non esisterebbe il sovraffollamento carcerario. Insomma, nonostante la legislazione italiana sulle droghe sia tra le più repressive d’Europa, il consumo e la circolazione di sostanze è stato tutt’altro che fermato.

Per non parlare dell’enorme regalo che queste politiche ultra repressive offrono alle mafie. Si stima infatti che legalizzare e regolamentare la Cannabis sottrarrebbe loro circa 6,5 miliardi di euro. Non è un caso se nelle democrazie avanzate sono state adottate politiche di legalizzazione, così è in molti Stati americani, in Canada e in Germania il governo è al lavoro in questa direzione.

È possibile in Italia avviare un dibattito serio su questo, in Parlamento? Perché si tratta di una soluzione di governo di un grande fenomeno sociale e non di una provocazione. Noi ci abbiamo provato nel 2021 con una proposta di Referendum, poi brutalmente fermata dalla Corte Costituzionale, con motivazioni discutibili. Continueremo a farlo, in Parlamento e nel Paese. Anche in questa Legislatura abbiamo presentato due proposte di legge alla Camera che vanno in questa direzione. Perché per noi, per +Europa, la Cannabis è semplicemente meglio legale che criminale. Riccardo Magi (+Europa)

Cannabis e lobbying. Mariella Palazzolo, Lobbista, su Il Riformista il 4 Agosto 2023

“Anche se la politica non ti interessa, è la politica che si interessa a te!” è un vecchio detto che risulta però sempre valido. Non si scappa, la politica riguarda tutti noi, anche se non guardiamo mai un telegiornale, anche se non votiamo, anche se pensiamo che i politici siano tutti ladri. È il caso della cannabis, che sembra una polemica buona per ragazzini, più o meno cresciuti, che reclamano il “diritto” di fare uso di sostanze illegali.

Non si tratta solo di questo. La partita della cannabis è molto più ampia e internazionale di quanto possiamo immaginare. Per la rubrica di Telos A&S Lobby Non Olet ne abbiamo parlato con il lobbista Philip Howard, direttore generale di Kamakura Consulting. Howard lavora in Giappone e segue anche il settore farmaceutico. La diatriba non riguarda la cannabis terapeutica per lenire il dolore cronico, ma un farmaco per curare l’epilessia. In Giappone è vietato qualsiasi prodotto ricavato dalle foglie di cannabis. “Il Paese è molto conservatore nell’approccio alle droghe attualmente illegali. E fare in modo che il loro uso venga approvato è una questione politica, non solo tecnica, di formulazione legislativa. Quindi, quello che abbiamo fatto è stato assicurarci di avere i dati e le evidenze necessarie dai mercati esteri dove il farmaco è stato approvato, per dimostrare che è sicuro, che non c’è rischio di dipendenza, che sarà gestito in modo appropriato”. Guarda l’intervista,

Sembra tutto molto semplice: c’è un problema di salute e un farmaco che dà la migliore risposta possibile. Ma non sempre 2 + 2 fa 4. Malgrado la sua utilità, quel farmaco non può essere utilizzato perché viene prodotto con una sostanza che si porta dietro un vissuto socioculturale. Il lobbista si scontra spesso con posizioni di tipo ideologico, che vengono strumentalizzate dai politici stessi e dai media. Non esistono, infatti, questioni puramente tecniche. “In termini di impatto sulla società, oggi ci sono pazienti in Giappone, bambini con forme di epilessia infantile gravi e croniche, che non hanno accesso alla migliore medicina disponibile, e questo provoca solo inutili sofferenze” aggiunge Howard. Ecco perché è importante il ruolo del lobbista che rappresenta il punto di vista delle aziende farmaceutiche, che ovviamente hanno un interesse economico, e quello dei pazienti, che invece hanno un interesse legato alla loro salute.

Kenta Suzuki, un simpatico influencer di Instagram che si autodefinisce “giappo de Roma”, ha recentemente pubblicato un libro per Mondadori che si intitola “I giapponesi sono fuori di testa. Segreti, costumi e follie di un meraviglioso popolo”. Per quanto riguarda il caso del dibattito politico sulla cannabis usata nell’industria farmaceutica, i giapponesi non sono fuori di testa. Almeno non sono molto diversi da noi. Queste polemiche sono all’ordine del giorno anche in Italia, in Europa e negli Stati Uniti. Ecco perché esistono i lobbisti, che contribuiscono ad arricchire il dibattito con un punto di vista degno di essere ascoltato.

Estratto da iltempo.it martedì 4 luglio 2023.

A Omnibus, su La7, nella puntata di domenica 2 luglio si parla di droga, sostanze e tossicodipendenze, a partire dalla stretta del governo per chi guida sotto l'effetto di stupefacenti. La scrittrice Guia Soncini chiede un cambio di rotta nella comunicazione rivolta soprattutto ai giovani, perché le campagne fatte finora a suo dire si sono rivelate inefficaci. 

Nel farlo fa un riferimento ai personaggi famosi che fanno uso di eroina, circostanza che fa scattare Francesco Giubilei, anche lui in collegamento. "Ci sono famiglie intere distrutte dal consumo di droghe, ma si rende conto di quello che dice?", afferma il presidente della Fondazione Tatarella che vede nelle parole di Soncini un messaggio pericoloso. […]

"Bene, allora cambiamo la comunicazione ma non diciamo che chi fa uso di eroina, se lo fa una volta, tutto sommato continua a vivere e va tutto bene", ribatte Giubilei. A quel punto la scrittrice azzarda: "C'è gente che si fa di eroina tutta la vita, ti ammazza se sei povero". Il botta e risposta si fa serrato. "Allora andiamo davanti alle scuole a distribuire volantini per dire agli studenti: consumate l'eroina, tanto ci sono attori di Hollywood che lo fanno e sono fighi e pieni di soldi - afferma Giubilei - È un messaggio culturale sbagliato". "Può scrivere quello che vuole sui volantini, i giovani non decidono di drogarsi o meno in base alle campagne", ribatte Soncini. […]

Estratto da blitzquotidiano.it martedì 4 luglio 2023.

Cocaina legale? In Svizzera ci stanno pensando dopo che ben 4 città elvetiche sono finite tra le prime 20 in Europa per consumo di polvere bianca. Parliamo di  Zurigo, Ginevra, Basilea e Berna, nella cui rete idrica sono stati rilevati oltre 535 milligrammi di coca ogni 1000 persone. 

[…]  le amministrazioni locali hanno messo a punto una proposta di piano per contrastare il fenomeno. […] le città sopra citate hanno inviato al governo federale un progetto che prevede la distribuzione controllata di cocaina ai tossicodipendenti.

[…] il 5 febbraio del 1992 […] la confederazione elvetica adottò un sistema simile per liberare dallo spaccio di eroina il parco Platzpitz di Zurigo, all’epoca soprannominato Needle Park, ossia parco degli aghi. In quell’occasione fu infatti inaugurato un progetto-pilota di distribuzione controllata di eroina e metadone ai tossicomani.  […]

La Jena - da “La Stampa” il 30 giugno 2023.

Alla sinistra piace la cannabis,

alla destra la cocaina:

almeno sulle droghe c'è una differenza.

Estratto dell'articolo di Tommaso Rodano per il “Fatto quotidiano” il 30 giugno 2023. 

La frequentazione cordiale e sovente tra politici e cocaina è uno dei segreti peggio custoditi della storia della Repubblica. Intendiamoci: sarebbe strano il contrario. La cocaina è ovunque – in strada e tra le pareti domestiche; nelle università, negli spogliatoi, negli studi, negli uffici, nei tribunali, nelle redazioni – per quale motivo dovrebbe mancare proprio in Parlamento?

Altro discorso è l’ipocrisia insopportabile di chi fa le leggi e con un dito pigia tasti contro “epidemie” e “mercanti di morte” (per la destra di governo le droghe sono rigorosamente “tutte uguali”) mentre con l’altra mano magari arrotola banconote per spalancare le narici.

“Con tutta quella cocaina alla Camera e al Senato, se entra un cane poliziotto si arrende subito”, se la rideva Daniele Capezzone nel lontano 2006, quando era un radicale e non ancora un alfiere del peggior conservatorismo. “Altroché se gira droga tra i politici – gli faceva eco il verde Paolo Cento, al secolo “er Piotta” –, coloro che fanno leggi repressive sulle tossicodipendenze sono i primi a trasgredirle”.

L’argomento torna ad appassionare i giornalisti per via dell’ultima notizia sul vizietto di Gianfranco Miccichè, ex uomo di potere di Forza Italia in Sicilia, che andava a fare i suoi acquisti addirittura con auto blu e lampeggiante. Anche Piero Marrazzo – ex governatore del Lazio tra il 2005 e il 2009 – fu accusato di un poco nobile impiego dell’automobile di servizio, in occasione dello scandalo che segnò la sua vita e la sua carriera: lui confermò di aver frequentato transessuali e che in quegli incontri girasse pure cocaina, ma in compenso ha negato fieramente di essersi fatto accompagnare dalla scorta o di aver usato mezzi della pubblica amministrazione.

[…] La polverina nelle istituzioni è un costume antico, la pista inizia chiaramente nella Prima Repubblica, c’è un assuntore confesso persino tra i padri costituenti: Emilio Colombo, uno dei grandi della Democrazia Cristiana, presidente del Consiglio tra il 1970 e il 1972. Alla veneranda età di 83 anni, appena nominato senatore a vita, il nome di Colombo finì tra le more dell’ennesima indagine sugli stupefacenti e lui – non indagato – fu costretto all’umiliante ammissione di essere un consumatore di cocaina. Ma per “motivi terapeutici”, aggiunse vergognoso. In che senso? “Stress da lavoro”, affermò. Ognuno si calma a modo suo.

Nella tradizione dei democristiani birichini si colloca anche il compianto Cosimo Mele, ex deputato dell’Udc: una notte d’estate nel 2007, l’onorevole fu pescato in una suite dell’Hotel Flora di via Veneto, a Roma, in compagnia di due escort. Una di loro, Francesca Zenobi, finì al pronto soccorso e accusò Mele di averle dato la cocaina che le aveva causato il malore (l’ex parlamentare è stato prescritto quasi dieci anni dopo, nel 2016: la quantità di droga ceduta a Zenobi risultò “modica”).

[…]  Nel 2006 Le Iene effettuarono una sessantina di narcotest sui parlamentari con un sotterfugio: i membri della troupe “tamponavano” la fronte degli intervistati. Sedici onorevoli risultarono positivi (4 di loro alla cocaina), ma il servizio fu bloccato dal garante prima di andare in onda, il nastro sequestrato dalla procura, i giornalisti indagati e poi condannati per violazione della privacy. 

[…] Non poteva mancare la cocaina a lambire gli anni d’oro dell’epopea berlusconiana. Il Cavaliere in persona non è mai risultato tra i consumatori, ma intorno a lui – è fatto noto – si faceva festa grande.

La mitica “dama bianca” Federica Gagliardi fu tra le accompagnatrici non ufficiali del premier (“era un amante di Silvio”, Sgarbi dixit, e l’ha seguito anche in missioni internazionali). Una bella mattina, nel 2014, fu fermata all’aeroporto di Fiumicino con 24 chili di cocaina nella valigia. 

Di recente anche l’ape regina Sabina Began, storica amica dell’ex premier, ha voluto condividere col mondo il fatto di avere un rapporto “fantastico” con la droga. Salute.

La cocaina è democratica ma – conti alla mano – tra i politici sembra piacere soprattutto a conservatori e cattolici: è successo più spesso che chi strillava la sua fede proibizionista, finisse per dimostrare che l’interesse era sospetto. Chiedere a Luca Morisi, ex “capo Bestia” della comunicazione di Matteo Salvini sui social, un algoritmo vivente di messaggi e slogan contro drogati e spacciatori. L’hanno beccato – pure lui – in un festino privato con cocaina ed escort rumeni. Miccichè, insomma, è in ottima compagnia, un granello in un deserto bianco.

Estratto dell’articolo di Filippo Fiorini per “la Stampa” il 27 giugno 2023.

Andrea Muccioli, 59 anni, figlio di Vincenzo Muccioli, cresciuto a San Patrignano, un nome che lo lega alla prima, più importante, amata oppure odiata, comunità di recupero per tossicodipendenti in Italia, un posto per cui si è speso e da cui si è allontanato definitivamente nel 2011, non ha visto il siparietto di ieri tra Meloni e Magi a Montecitorio. 

Come educatore, era «al lavoro» mentre la presidente del Consiglio annunciava una stretta nelle politiche contro gli stupefacenti dicendo «basta al lassismo» e l'onorevole di +Europa la contestava con un cartello antiproibizionista, con scritto: «Cannabis, se non ci pensa lo Stato, ci pensa la mafia». 

[…] si trova «fondamentalmente d'accordo» con quanto detto dalla premier, ma con un distinguo: «proibire, ok, ma anche rieducare. Sennò - spiega - è solo una foglia di fico per nascondere ciò che non vogliamo vedere». 

Giorgia Meloni ha condannato l'uso di qualsiasi droga, le serie Tv che celebrano queste e chi le spaccia, poi, ha annunciato una stretta proibizionista. È d'accordo?

«Su un piano di fondo, sì. Fare un'apologia di persone che devono il loro fascino e il loro successo al fatto di essere spacciatori, violenti o trafficanti di armi, non mi sembra un grande strumento educativo. Considerato il mondo in cui siamo, dove famiglia e scuola fanno già molta fatica ad educare, certo non per colpa dei ragazzi, ma per carenze del sistema. Dopodiché, dico anche che la proibizione non basta. Dopo una giusta sanzione, deve esserci una rieducazione, dove si viene accompagnati, instradati e motivati. Attualmente è molto carente. Sennò, il proibizionismo è solo una foglia di fico che copre ciò che non vogliamo vedere». 

Non crede che l'arte descriva la realtà, piuttosto che crearla? Cioè, è sicuro che sia la serie Tv a indurre il giovane e non il contrario?

«Non ho detto che le serie inducono il giovane, ma che non lo aiutano a rendersi conto del disvalore sociale, umano e morale dei fatti che narrano, nel momento in cui sono celebrati come qualcosa di positivo. Autori e produttori scelgono di dare un'immagine positiva dei criminali, perché sanno benissimo che il tessuto educativo della società è impalpabile, rovinato o addirittura inesistente. Da qui, i giovani sono più portati a perseguire vie di successo che abbiano come miraggio i soldi, le donne i viaggi e le belle macchine, più che a considerare il percorso necessario ad arrivarci. Il percorso è relativo ed è proprio questo relativismo morale che ci dovrebbe preoccupare».

[…] Tornando alle droghe, se fossero legali e ci fosse una buona educazione sulle conseguenze, l'uso non rientrerebbe nel libero arbitrio?

«Non è lo stesso. Se fumo 20 sigarette al giorno, non induco in me stesso un'alterazione psichica. Non mi sballo, per capirci. Se fumo una canna col 25% di Thc, tiro di coca, sniffo dell'eroina o prendo delle pasticche, mi provoco uno sballo e metto in pericolo me stesso e gli altri. Non riesco proprio a vederlo come un fatto positivo, mi dispiace».

Lotta alla cannabis, perché ha ragione la Meloni. La premier viene contestata da Riccardo Magi (+Europa) per la tolleranza zero sulle droghe. Francesco Giubilei su Nicolaporro.it il 27 Giugno 2023.

In occasione della giornata mondiale contro le droghe è avvenuto un confronto tra il presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il Segretario di Più Europa Riccardo Magi. Più che un confronto, in realtà, è stata una vera e propria interruzione da parte di Magi che, mentre Giorgia Meloni stava parlando e presentando quelle che erano le problematiche connesse al consumo di droga, ha deciso di interrompere il convegno esponendo un cartello con scritto “Cannabis: se non ci pensa lo Stato ci pensa la mafia”.

Partendo dal presupposto che questo modus operandi di interrompere i convegni è un qualcosa che dall’altra parte ci si sognerebbe di fare e non è mai avvenuta. Invece, molto spesso leader o personalità di sinistra interrompono dei convegni o conferenze e non è proprio il massimo da un punto di vista di educazione di forma. Al netto di questo, nel merito quello che scrive Magi, ovvero che “se non ci pensa lo Stato ci pensa la mafia“, è in realtà una vulgata che vuole che attraverso la legalizzazione delle droghe si andrebbe a combattere la mafia.

In realtà non è assolutamente così. Se si legalizzassero le droghe, cannabis o comunque in generale qualsiasi tipo di droga, si andrebbe invece a favorire paradossalmente la mafia legalizzando le loro attività. Se si legalizzasse lo spaccio, la mafia non smetterebbe di avere interessi e lo farebbe in modo legale e, al tempo stesso, continuerebbe comunque illegalmente a fare un’attività di spaccio di droghe come per esempio la cocaina, l’eroina e non solo.

C’è poi un tema di messaggio: nel momento in cui si rende legale un qualcosa lo si è a tutti gli effetti legittimato. Questo è quanto dice il presidente del Consiglio in merito alle serie tv ovvero il fatto che molte serie tv presentano e hanno presentato gli spacciatori come dei veri e propri eroi, come delle figure di riferimento. Queste serie tv sono viste soprattutto da tanti giovani ed il messaggio che passa purtroppo nella nostra società è che farsi una canna è un qualcosa di figo. Ecco quindi che il giovane che non si fa una canna è sostanzialmente molto spesso lo sfigato del gruppo.

Questo è quello che avviene: c’è un contesto socioculturale che è favorevole all’utilizzo delle droghe leggere con delle conseguenze drammatiche. I dati e gli studi ci dicono che molto spesso, non è ovviamente una correlazione automatica, chi inizia a fare consumo di droghe leggere poi passa a droghe ben più pesanti e si rovina a tutti gli effetti e la vita. Quindi il compito, il ruolo dello Stato e delle istituzioni della società dovrebbe essere quello di contrastare le droghe e soprattutto spiegare ai giovani e giovanissimi che molto spesso sono più vulnerabili e non sempre capiscono quale sia il pericolo di utilizzare le droghe e di quanto siano invece dannoso.

Al contrario, noi abbiamo sostanzialmente un immaginario che è portato avanti da delle serie tv, il cinema e anche attraverso i social network, dove si sdogana l’utilizzo delle droghe. Non è un caso che purtroppo quella tragedia che è avvenuta a Casal Palocco a Roma dove il giovane influencer alla guida della Lamborghini è stato trovato positivo alla cannabis. Molto spesso c’è anche il fatto che tanti giovani si mettono al volante dopo aver fatto uso di droga. Lo fanno anche dopo aver assunto dell’alcol ed è sbagliato anche questo ovviamente.

Il problema è che noi continuiamo a proporre dei modelli negativi come quasi da emulare. L’immaginario, i mezzi di comunicazione, il cinema e la televisione hanno una forte responsabilità. Così non riusciremo mai a vincere la battaglia contro la droga e continueranno purtroppo a rovinarsi le vite di migliaia di giovani italiani.

Francesco Giubilei, 27 Giugno 2023

Estratto dell’articolo di Clara Mazzoleni per rivistastudio.com l'1 luglio 2023. 

Lo psicoterapeuta che devo ringraziare per essere sopravvissuta al traumatico periodo post-comunità aveva una frase che amava ripetere: «Quando tocchi il fondo… puoi sempre iniziare a scavare». Mi è tornata in mente guardando lo spot contro le droghe di cui si sta parlando in questi giorni. Chi mai avrebbe potuto immaginare di poter vedere, nel 2023, una cosa del genere? 

Sembrava che il fondo della demenza fosse già stato raggiunto con il video di Salvini che citofona e chiede: «Scusi, lei spaccia?», o con le pubblicità progresso del passato, quelle che ci ritroviamo a guardare su YouTube alle 3 di notte a casa di qualcuno («ti ricordi questo?», «no vabbè epicoooo»), e invece guarda qua: scava scava, ed ecco che compare un video con Roberto Mancini che ci avvisa che «tutte le droghe fanno male», e un gruppo di Teletubbies decerebrati guardano il video (come hanno scritto nei commenti: se a non drogarsi si diventa così, beh, ci è andata benissimo) e hanno l’intuizione geniale di farsi un video anche loro dicendo la stessa cosa, per la gioia dell’allenatore che conclude: 

«Bravi, fatelo girare!». Come direbbe Roman di Succession, «if if I cringe any harder I might become a fossil». Ma non è solo cringe, è anche offensivo. Chi mai potrebbe essere così stupido da rinunciare a drogarsi grazie a questo video? È come dire a un fumatore che fumare fa male, è pericoloso, aumenta esponenzialmente il rischio di un cancro ai polmoni, eccetera. Che è proprio quello che ci ritroviamo scritto sui pacchetti di sigarette che fumiamo ogni giorno. 

Ma già lì, almeno, c’è il tentativo di spiegarci le tante maniere in cui, a un certo punto, i danni del fumo si manifesteranno e rovineranno la nostra vita. Qui invece il destino di una generazione è in mano all’unico comandamento espresso da un allenatore di calcio, manco fosse Dio. Riassumendo il messaggio è: «non drogarti perché lo dice Mancini».

Confrontiamo, ad esempio, “Tutte le droghe fanno male” con il corto della campagna antidroga del 2011, “Non ti fare, fatti la tua vita”. Gita di classe: la ragazzina seduta sul bus vede che il suo ragazzo viene raggiunto di corsa da un tizio che gli mette in mano una busta di pasticche. Si prende male e mette il muso. Lui sale sul bus, si siede vicino a lei, si addormenta e sogna una bona angelica (con le sembianze della ragazzina) che improvvisamente, grazie a un notevolissimo effetto speciale, diventa un orrendo mostro-vampiro (metafora della droga, che prima dà e poi toglie). 

Si sveglia di soprassalto, scende dal bus e butta la busta nel fuoco. La ragazzina lo vede e sorride soddisfatta. Riguardandolo mi chiedo, ma cosa c’era da ridere? In confronto a Mancini, “Non ti fare, fatti la tua vita” era praticamente un capolavoro. Ho provato a dare un’occhiata alle pubblicità progresso del passato, italiane e non, e non sono riuscita a trovarne una così idiota e inutile. […]

[…] Come se una persona predisposta a drogarsi potesse avere a cuore la propria salute e la salute del proprio cervello, come se gli importasse qualcosa di se stessa e del suo destino. Ma allora come si fa a far funzionare un messaggio contro la droga? Forse l’errore di questi spot e che è parlano sempre del tossico e mai di chi gli vuole bene. Se la puntata di Breaking Bad in cui Jane muore di overdose ha traumatizzato me e tanti altri, non è tanto per quello che succede a lei ma per come viene raccontato suo padre, prima, durante e dopo la sua morte.

Un concetto, quello della responsabilità nei confronti degli altri, non certo facile da riassumere in uno spot di pochi minuti. L’idea di spot contro la droga, evidentemente, è problematica di per sé (questo non giustifica affatto l’insuperabile schifezza con Mancini, ovviamente). Ci pensavo qualche settimana fa quando si è diffusa la notizia sconcertante che il libro Alice e i giorni della droga era un fake scritto da una casalinga mormona, e non il diario di un’adolescente tossicodipendente che inizia da un acido, passa all’eroina, inizia a prostituirsi e, alla fine, muore.

Negli Usa quel libro era stato utilizzato politicamente come campagna-anti droga. Ma per me ha funzionato in senso totalmente opposto: non ricordo come e perché è capitato in mano alla me tredicenne che si aggirava tra gli scaffali della biblioteca di Galbiate, ma mi ispirò un immediato desiderio di emulazione, così come hanno sempre fatto tutti gli altri libri e film i che dovrebbero sortire l’effetto opposto. […] 

Invece di perdere tempo a creare ridicoli spot antidroga o sperare e pretendere che i libri e i film sull’argomento riescano nell’assurdo intento di “sensibilizzare” i giovani (quando invece più spesso provocano emulazione, per capirlo basta fare un rapido check su TikTok) o di insistere con la mitizzazione del cosiddetto metodo Muccioli, allora, sarebbe davvero utile concentrarsi non tanto sulla prevenzione del problema, ma sulla sua soluzione.

Il servizio del Sert continua ad essere carente, gli psicoterapeuti costosissimi, inavvicinabili per via dei tempi di attesa infiniti, o incompetenti, e per una persona che ha problemi di dipendenza da sostanze l’unica speranza restano i gruppi autogestiti dei Narcotici anonimi (che però funzionano nello stesso modo dal 1953) o le comunità private. Negli ultimi anni, il problema è diventato ancora più grave: il Covid ha peggiorato le condizioni della maggior parte delle persone con problemi di dipendenza (latenti o già manifesti), ma di questo non frega un cazzo a nessuno.

Tolleranza zero su droghe e alcol al volante per cucire lo strappo creato dai The Borderline (come se, al netto delle sfide demenziali, dei video che pubblicavano e del popolo di imbecilli che li seguiva, alla fine la causa di tutto fossero le canne che si sono fumati) e un bel video con Mancini per ricamarci sopra e fornire l’ennesima, ottima occasione per un po’ di sano umorismo social, ridiamoci su per non pensarci, sdrammatizziamo, tutte le droghe fanno male e quindi chi si droga è stupido e non merita nessun tipo di aiuto.

Lettera alla premier. Sulle droghe leggere il fallimento è tutto della Meloni. Ristabiliamo le cose per come sono. A governare il fenomeno è stata la sua parte politica e i risultati sono evidenti: tribunali ingolfati per un reato senza vittima, carceri che scoppiano a causa di una vera “detenzione sociale”. Noi siamo stati all’opposizione. Franco Corleone, Riccardo Magi su L'Unità il 28 Giugno 2023

Gentile Presidente, il 26 giugno è per noi una discriminante e da quattordici anni presentiamo un Libro Bianco sugli effetti della legge antidroga sulla giustizia e sul carcere curato dalle associazioni che si occupano di questo tema da decenni, Società della Ragione, Forum Droghe, Cgil, Antigone, Associazione Coscioni, Cnca e molte altre sigle.

Molto spesso il Dipartimento Antidroga non rispetta questa scadenza, ma quando presenta la Relazione al Parlamento vengono confermati i nostri dati. Il confronto è stato chiaro, alla mattina nella Sala Stampa della Camera dei Deputati una operazione verità, al pomeriggio nella Sala dei Gruppi un’orgia di demagogia e retorica. Ristabiliamo le cose per come sono. La nostra storia è di dura opposizione alla legge in vigore, la legge Iervolino-Vassalli del 1990, che contrastammo a lungo. Quella scelta proibizionista fu voluta da Bettino Craxi che cambiò l’impostazione del Partito Socialista che era stato con Loris Fortuna vicino ai radicali nelle battaglie per i diritti civili, umani e sociali, dal divorzio all’aborto, dall’obiezione di coscienza all’eutanasia.

La campagna contro la criminalizzazione dei consumatori creò un cartello “Educare e non punire” che aveva come esponente don Luigi Ciotti del Gruppo Abele e propose un referendum nel 1993 che fu vinto con l’affermazione della depenalizzazione del consumo personale.

Noi siamo stati sempre all’opposizione della guerra alla droga, la “war on drugs” di origine americana, mentre la sua parte politica ha governato il Dipartimento antidroga con tanti zar, dal prefetto Soggiu al deputato di AN Nicola Carlesi, e per molti anni la responsabilità è stata nelle mani del sottosegretario Carlo Giovanardi e del dr. Giovanni Serpelloni.

Addirittura la legge n. 49 del 2006 che Lei rimpiange affermava che le droghe sono tutte uguali, senza distinzione, con una pena per la detenzione e il piccolo spaccio da otto a venti anni di carcere, porta il nome di Gianfranco Fini. Solo grazie alla decisione del 2014 della Corte Costituzionale, provocata dall’iniziativa della Società della Ragione, all’intuizione di Luigi Saraceni e all’impegno di Giovanni Maria Flick, ci liberammo di una visione antiscientifica e punitiva. Mettiamo a posto le cose. Lei ha governato il fenomeno e noi siamo stati all’opposizione. I risultati di cui porta la responsabilità, sono evidenti.

I tribunali sono intasati per un reato senza vittima, le carceri sono caratterizzate dal sovraffollamento dovuto a un fenomeno sociale che andrebbe governato non con il codice penale, ma con la prevenzione e l’informazione. I numeri sono eloquenti: il 40,7% degli ingressi in carcere è di soggetti qualificati come tossicodipendenti, 15.509 per l’esattezza e il 26,1% di soggetti accusati di violazione dell’art. 73 del Dpr 309/90, esattamente 9.961; l’ingresso per tutti i reati ammonta a 38.125. Le presenze al 31 dicembre 2022 sono il 30% di detenuti tossicodipendenti (16.845) e il 34,3% per violazione dell’art. 73, detenzione e piccolo spaccio (18.273).

Una vera detenzione sociale! Aggiungiamo un dato clamoroso, quello delle segnalazioni alle prefetture per mero consumo; dal 1990 ad oggi sono stati colpiti un milionequattrocentomila di giovani e oltre un milione per uno spinello. Una criminalizzazione e una stigmatizzazione di massa che provoca sanzioni amministrative che gettano nell’emarginazione sociale e nell’etichettamento morale. Lunedì abbiamo ascoltato un armamentario rancido di falsità come la canapa definita come droga di passaggio, come il livello di THC che sarebbe a livelli altissimi e una sovrabbondanza di paternalismo autoritario e di visioni apocalittiche che usano l’immagine del tunnel.

Lei ha come modello la San Patrignano di Muccioli, le ricordiamo la tragedia di un ospite della comunità, di Roberto Maranzano massacrato nella macelleria e sepolto in una discarica di Napoli. Il nostro modello è invece don Andrea Gallo fondatore della Comunità di San Benedetto al Porto. Ieri ha accreditato comunità chiuse, autoritarie, ed è significativa la decisione della rete più vasta di strutture di accoglienza, il Cnca, di non partecipare alla kermesse governativa. Nel tentativo di mettere in cattiva luce le esperienze di legalizzazione della cannabis negli Usa avete invitato due lobbisti del proibizionismo che si sono prodigati nel ribadire le fake news più ricorrenti. Hanno parlato degli effetti nefasti delle riforme antiproibizioniste in Colorado e ogni spettatore o giornalista curioso si sarà chiesto perché il governo italiano, se vuole fare un convegno serio, in cui parlare anche dell’esperienza del Colorado, chiama questi due e non dei rappresentanti dello Stato del Colorado.

Ironia della sorte ha voluto che a Denver si sia appena conclusa la più grande conferenza mai tenuta sulla Psichedelia, Psychedelic Science che ha visto la partecipazione di 13 mila persone tra medici, politici, artisti, interessati alle più che promettenti applicazioni mediche degli psichedelici e ai nuovi regimi normativi sul tema. Abbiamo ascoltato il programma del sottosegretario Alfredo Mantovano che ha avuto l’intelligenza di non parlare delle proprietà chimiche delle sostanze, ma della persona. Sono indicazioni preoccupanti ma ci confronteremo con nettezza. Il mantra portato avanti dai proibizionisti è che una legge più severa è necessaria per superare i danni del permissivismo! Il problema è che per decenni abbiamo vissuto sotto la cappa della repressione e del moralismo.

I guerrieri della droga mascherano il loro fallimento e la volontà di proseguire all’infinito, per sete di potere, la loro lotta in nome della salute e della libertà. Ci piace ricordare quanto scrisse Paolo Mieli sul Corriere della Sera del 2 dicembre 2003 rispondendo al Sottosegretario all’Interno di AN, Alfredo Mantovano che fu il vero artefice del testo di Gianfranco Fini, dicendo che “in Italia non è mai stata sperimentata non solo la libertà ma anche solo la legalità della droga”. E aggiungeva: “Sono anni che lo Stato insiste a proibire anche le sostanze leggere e i risultati sono quelli da lei descritti. Infine fa sorridere, mi creda, il tentativo di riversare la colpa di ogni calamità in questo campo su quel (peraltro disatteso) referendum del 1993”.

Tutta la documentazione della nostra riflessione nazionale e internazionale La può trovare nella raccolta del mensile Fuoriluogo, con i contributi fondamentali di Giancarlo Arnao e di Peter Cohen, su i miti e i fatti della Marijuana. Le cose non sono banali. Esiste la canapa terapeutica che viene prodotta dall’Istituto militare di Firenze e che recentemente ha visto la visita del presidente Mattarella ed esiste la canapa tessile esaltata negli anni del fascismo. Per fortuna nel modo il vento sta cambiando, dall’Uruguay al Canada, da tanti Stati degli Usa alla Germania si sceglie la via della legalizzazione. Lei aspira a fare dell’Italia il capofila della reazione. Auguri!

La sfidiamo sul terreno della democrazia. Sblocchi la piattaforma digitale per raccogliere le firme per i referendum e l’anno prossimo verificheremo la decisione dei cittadini. Noi abbiamo fiducia nell’intelligenza e nel senso di umanità e giustizia dei giovani che potranno riacquistare fiducia nelle istituzioni.

Con cordialità,

 Franco Corleone, Responsabile Comitato scientifico della Società della Ragione. Già sottosegretario alla Giustizia

Riccardo Magi, Deputato, segretario di +Europa

Estratto dell’articolo Mattia Feltri per “la Stampa” il 28 giugno 2023. 

Ogni tanto […] qualcuno e se la prende coi famosi modelli negativi offerti dalla tv. L'ultima […] è stata Giorgia Meloni, ardente di tolleranza zero alla droga, nel proclamarsi sconcertata dalla serie di Netflix (Breaking Bad) in cui si fa un eroe di uno spacciatore. Forse ricorderete quando, anni fa, Silvio Berlusconi denunciò il danno d'immagine all'Italia provocato dalla Piovra […] e […] da Gomorra […] Ma se vi fate una passeggiata su Google, troverete un Matteo Salvini furioso con The Bad Guy, in cui tracolla il ponte sullo stretto, e un Federico Mollicone scandalizzato da Peppa Pig, laddove compare un porcellino con due mamme.

[…] da sempre, quando si sta al governo, si vorrebbero una tv e un cinema e più in generale un'arte dedicate a raccontare il mondo nuovo e bello. Un po' alla […] sovietica, dove ogni riga e ogni nota avevano da essere in sintonia col tiranno. Secondo la logica meloniana, il nostro sconcerto andrebbe esteso per esempio a Fuga da Alcatraz, dove si fa un tifo indiavolato per l'evasione del rapinatore Clint Eastwood, e a un altro milione di film dalla parte di banditi di ogni varietà. E spesso col pregio di dimostrare che il confine fra il bene e il male è una faccenda complicata, molto più di come la mette chi pensa che i buoni stanno al governo e i cattivi devono stare in galera.

Estratto dell’articolo di Andrea Camurani e Andrea Galli per corriere.it il 28 giugno 2023.

Sangue e coca, torture ed eroina, dai banchi di scuola ai boschi della droga. Nella progressione delle inchieste della giovane e produttiva Procura di Busto Arsizio — l’ultimo fascicolo è stato coordinato dal sostituto Susanna Molteni, 26 le misure cautelari — sull’infinito spaccio marocchino, gli indagati che han parlato nelle intercettazioni senza ricorrere a codici segreti, hanno confermato il punto di partenza.

Ovvero la povera regione di Béni Mellal-Khénifra, lo scorso maggio visitata dal Corriere sulle tracce dei pusher, gli esordienti e prima di loro quelli antichi, i predecessori già pieni di soldi avendo aperto negozi, macellerie, attività da tassisti, imprese edili; soprattutto c’è il fatto che gli spacciatori si conoscono fin da quando sono piccoli, nati nei medesimi quartieri e anche palazzi, insieme dai tempi delle partite di calcio sulla terra dura.  […]

Era proprio della zona di Béni Mellal-Khénifra, nel centro del Marocco, luogo d’enorme bellezza e insieme d’arretratezza sociale — l’ossessivo dominio della legge coranica su ogni aspetto dell’esistenza a cominciare dalle donne sottomesse ai mariti — il 24enne torturato a morte, giudicato dal capo colpevole:  colpevole d’aver rubato alla stessa propria banda 30mila euro tra droga e denaro, forse con l’idea sacrilega di aprirsi un giro suo; il cadavere, rinvenuto in data 22 maggio 2022 ai bordi della strada statale 336 tra Piemonte e Lombardia, aveva innescato le indagini condotte con metodo dalla squadra Mobile della questura di Varese, anche se Varese non è più l’unica geografia.

Nel senso che i marocchini, in prevalenza tra i 20 e i 30 anni d’età, negli ultimi tempi originari di Oued Zem, una polverosa cittadina dove su un totale di 90mila abitanti un terzo è nato dopo il 2008, si sono estesi al Lodigiano, al Comasco, al Lecchese, al Piemonte… Ovunque. Logiche di mercato: le bande seguono le richieste quotidiane degli italiani tossicodipendenti, occupano spazi liberi, sfruttano il disinteresse dei grossi marchi criminali per lo spaccio al dettaglio, le cosche calabresi e le gang albanesi che lasciano fare.

È convinzione di chi indaga l’esistenza del concreto pericolo di una strage includendo il coinvolgimento di civili: troppa facile ferocia, troppe armi potenti. Il classico incidente che ricorrerebbe puntuale generando la sveglia per i politici nazionali; politici i quali, salvo rari casi (il sottosegretario leghista Nicola Molteni quantomeno è venuto a vedere), se ne fregano. 

[…]  Logiche di mercato: le bande seguono le richieste quotidiane degli italiani tossicodipendenti, occupano spazi liberi, sfruttano il disinteresse dei grossi marchi criminali per lo spaccio al dettaglio, le cosche calabresi e le gang albanesi che lasciano fare. È convinzione di chi indaga l’esistenza del concreto pericolo di una strage includendo il coinvolgimento di civili: troppa facile ferocia, troppe armi potenti. […]

Era successo all’inizio con l’ex bosco di Rogoredo, succede con questi nuovi boschi. Nulla di inedito. Al netto beninteso dei molteplici sforzi della Procura retta da Carlo Nocerino per chiudere covi e sgominare reti, della regia del prefetto, delle azioni di agenti e carabinieri che giocoforza sottraggono personale e risorse ad altre priorità del territorio, inutile prendersi in giro. 

Ora, l’esponenziale aumento della strutturazione delinquenziale dei gruppi forse rende ormai ineludibile il governo centrale dei fascicoli da parte della Dda, la Direzione distrettuale antimafia: del resto il longevo tempo di attività, i guadagni massicci, la facilità di procurarsi pistole e kalashnikov, le molteplici faide, ecco, dimostrano la necessità dei massimi strumenti possibili da utilizzare. Prima, si diceva, che sia tardi. Ma non lo sarà già? 

Cadaveri su cadaveri. Almeno qui intendendo quelli rinvenuti (altri giacciono di sicuro dimenticati nei boschi): dell’alba la scoperta d’un altro corpo. Mistero a Cornaredo, nel Milanese. Le prime risultanze dei carabinieri: uomo, identità ignota, forse un nordafricano, colpito a volto e gambe, anzi massacrato; senza scarpe; ucciso altrove e trasferito lì, sulla strada provinciale 162; buttato come immondizia.

Estratto dell'articolo di Andrea Galli per il “Corriere della Sera” il 29 giugno 2023. 

Sono luoghi di camminate, paesaggi e turisti, ma nel loro mondo di sotto gli spacciatori si ancorano a coordinate opposte: nascondersi nei boschi, vivere in grotte e tende, attendere i tossicodipendenti che tanto sempre e comunque si presentano, eroinomani allo stadio terminale, lavoratori, anziani, mamme coi figli all’asilo e a scuola.

Nessuna zona in Italia come la provincia di Varese contiene una così asfissiante progressione di conquista del territorio, sanguinarie faide, morti ammazzati e gambizzazioni, arsenali di pistole, lame e kalashnikov, adulti irregolari e ragazzini soldato. Difficile stabilire una precisa mappa in quanto gli spacciatori, in prevalenza marocchini originari di Béni Mellal dove girano Porsche acquistate con i guadagni illeciti, sfruttano gli oltre 52 mila ettari boschivi del Varesotto lasciando un’area, se pressata dalle forze dell’ordine, per colonizzarne subito una nuova.

Le Procure di Varese e Busto Arsizio, con il personale e i mezzi a disposizione, hanno da mesi avviato plurime inchieste; [...] Ma nel doveroso realismo s’impone un’antica domanda, anzi se ne impongono due: dinanzi a quest’ossessiva richiesta di dosi, e ben conoscendo l’abbandonarsi a ogni mezzo possibile pur di acquistarle a cominciare dalla vendita del corpo, che cosa davvero si può fare?

[...] 

Le bande della droga hanno perfezionato un sistema di turnover: connazionali vanno e vengono dal Marocco, fantasmi che prestano servizio nei boschi, intascano, vengono sostituiti. La pratica serve a danneggiare gli inquirenti che approntano un’indagine su determinati soggetti salvo appurare che nel mentre sono spariti. […] Nelle prigioni hanno abitato anche i cosiddetti «sottomessi», quarantenni che si consegnano agli spacciatori, sono incaricati di accompagnare il tossicodipendente fra gli alberi scelti per la consegna, procurano cellulari intestati a proprietari fittizi, batterie di ricarica e cibo in scatola […]

 

Estratto dell'articolo di Andrea Galli per corriere.it il 29 giugno 2023. 

A modo suo e nel suo mondo, questa ventenne di nazionalità marocchina, […] ha catturato l’interesse investigativo e di conseguenza anche il nostro. Fra i medesimi inquirenti, quasi a rimarcare il «peso» della ragazza, girano già dei soprannomi: per esempio «madame cocaina».

Nella narrazione dei boschi della droga — Varese il centro delle bande armate di pistole, lame e kalashnikov; sono pusher e insieme torturatori e killer —, del resto non era mai capitato che una donna avesse un ruolo apicale. E non sfugga la base di partenza […] parliamo di marocchini, dunque originari di terre maschiliste[…]

Fidanzata con il capo del clan quasi azzerato dall’ultima inchiesta della Procura di Busto Arsizio — era riparato in Spagna e dovrebbe essere tornato in Marocco —, per mesi ha mantenuto i contatti tra lo stesso latitante e i «luogotenenti» deputati al controllo dei boschi e alla gestione dei «soldati» nascosti fra le pinete e addetti al rifornimento di dosi ai tossicodipendenti italiani. Per la donna, viaggi continui con la meticolosa adozione, ci viene spiegato, di tecniche per non incappare in controlli delle forze dell’ordine, veicolando ordini, soldi, documenti falsi; e una volta tornata in Lombardia, così autorevole da riuscire a comandare e affrontare le emergenze.

[…]

L’omicidio che ha innescato le indagini ha avuto come vittima un 24enne, uno dei pusher, giudicato «colpevole» d’aver rubato denaro e droga ai complici. […] un massacro a mani nude e con oggetti vari, una prolungata agonia prima d’essere finito e buttato ai bordi della strada statale 336 che conduce all’aeroporto di Malpensa.

Era stata proprio la ventenne a telefonare al padre del ragazzo e chiedere il riscatto, che era pari a 30mila euro, ovvero l’ammontare della sottrazione […]. Le chiamate erano avvenute sia prima del decesso, sia i giorni successivi […] Giocava con la disperazione di un genitore […]gli prospettava un epilogo positivo quando il corpo era ormai già stato abbandonato.

Una donna dura. Durissima. Catturata e trasferita in prigione. A differenza, come detto, del fidanzato. […] l’assenza di accordi bilaterali tra Italia e Marocco induce a concludere che il balordo non sarà preso. […] 

Fra gli aneddoti del recente viaggio del Corriere nella regione di Béni Mella-Khénifra, c’è questo: la cittadina di Fquih Ben Salah è un notorio punto di laboratori di documenti contraffatti, per lo più carte d’identità e patenti. Avevamo ingenuamente domandato la «nazionalità» di quei documenti. Ebbene, ci avevano risposto che sono in via esclusiva italiani, richiesti da Milano e Varese; fabbricare false carte d’identità e patenti marocchine, se scoperti, regala una lunga e aspra galera.

Rapporto sulle carceri: il proibizionismo riempie le prigioni italiane. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 29 Giugno 2023

“Il 34 per cento dei detenuti entra in carcere per possesso di droga. Quasi il doppio della media dei Paesi dell’Unione europea (18 per cento)”. È solo uno dei dati emersi dalla nuova edizione del Libro bianco, un rapporto indipendente sul modo in cui il Testo Unico sugli stupefacenti impatta sul sistema penale, sui servizi, sulla salute delle persone che usano sostanze e sulla società, realizzato da associazioni e sindacati.

Il documento, che non a caso quest’anno è intitolato La traversata del deserto – a evidenziare la difficile situazione politica italiana su argomenti come questo – ha canalizzato la sua attenzione principalmente sul tema delle presenze in carcere per effetto della legge sulle droghe. I dati dicono che 9.961 (il 26,1%) dei 38.125 ingressi in carcere nel 2022 sono stati causati dall’art.73 del Testo unico. Di che si tratta?

Nel nostro ordinamento giuridico la detenzione di sostanze stupefacenti è sanzionata dal DPR n.309/1990, Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza. Questo, al suo interno, contiene due articoli particolarmente rilevanti quando si parla di droghe e galera: il 73, per il caso di detenzione ai fini di spaccio e il 75, per il caso di detenzione al fine di utilizzo personale. Il primo, in particolare, recita così: “Chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall’articolo 14, è punito con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da euro 26.000 a euro 260.000”.

Il risultato è che, alla fine, oltre un quarto dei detenuti entra in carcere per possesso di sostanze, il 34% è dietro le sbarre per il solo art. 73 del Testo unico e quasi la metà di chi finisce in cella usa droghe.

In altre parole, senza detenuti per art. 73 o tossicodipendenti non si avrebbe sovraffollamento nelle carceri, come evidenziato dalle simulazioni prodotte.

Per non parlare dei processi, che subirebbero una netta diminuzione. I dati, fermi al 2021, dicono che le persone coinvolte in procedimenti penali pendenti per violazione dell’articolo 73 e 74 sono rispettivamente 186.517 e 45.142, e che 7 procedimenti su 10 terminano con una condanna. 

Al momento, sotto il comando dell’attuale Governo, l’atteggiamento proibizionistico non sembra poter essere abbandonato. In concomitanza con l’uscita del Libro Bianco, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni interveniva all’evento organizzato in occasione della Giornata mondiale contro le droghe, tenutasi il 26 Giugno scorso, ribadendo a gran voce che «le droghe fanno male tutte, senza distinzioni». E che, per lo stesso motivo, vanno punite tutte in egual modo. Di tutt’altro avviso il leader di +Europa, Riccardo Magi, per cui «davanti a una così grande questione sociale, contano i dati di realtà. Il proibizionismo ha fallito. Ha riempito le carceri di detenuti per violazione della legge sulle droghe, ma i consumi continuano ad aumentare».

Lo scorso ottobre lo stesso CESCR, il Comitato delle Nazioni Unite incaricato di sovrintendere all’attuazione del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali aveva criticato le politiche italiane sulle droghe, definendole in contrasto con le norme internazionali che tutelano i diritti umani. Dopo essersi riunito negli scorsi giorni per esaminare la condotta di diversi Paesi tra cui l’Italia, il Comitato si è infatti detto “preoccupato per l’approccio italiano che punisce il consumo di droghe e per l’insufficiente disponibilità di programmi di riduzione del danno”, raccomandando così alla nostra nazione non solo di “migliorare la disponibilità, l’accessibilità e la qualità di questi ultimi” ma anche di “rivedere le politiche e le leggi sulle droghe per allinearle alle norme e alle migliori pratiche internazionali in materia di diritti umani”. [di Gloria Ferrari]

I dati del libro bianco. Record di tossicodipendenti in carcere: mai così tanti dal 2006. In aumento del 10%, mai così tanti dal 2006. Il 34% dei detenuti ristretto per violazione della legge sulle droghe. Leonardo Fiorentini su L'Unità il 27 Giugno 2023

Quasi metà delle persone che entrano nelle carceri italiane è classificato come “tossicodipendente”, secondo i criteri del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Il 30% dei detenuti in carcere al 31/12/2022 erano persone che usano droghe, con una definizione meno stigmatizzante e preferibile da usare. Si tratta non solo di un aumento del 10% rispetto all’anno precedente, ma soprattutto del record di presenze in carcere di persone con problemi di uso di sostanze dal 2006 ad oggi.

È questo il dato più eclatante e allarmante proveniente dalla nuova edizione del Libro Bianco sulle droghe presentato ieri alla Camera e promosso da La Società della Ragione, Forum Droghe, Antigone, CGIL, CNCA, Associazione Luca Coscioni, ARCI, LILA e Legacoopsociali. Non era necessario il titolo – “La traversata del deserto” – per intuire quali siano le prospettive per le politiche sulle droghe nel nostro paese al tempo del duo Meloni-Mantovano. Il Governo ha del resto dato buona prova di sé, organizzando nel pomeriggio una kermesse (vedi l’Unità del 25 giugno) ad uso e consumo delle proprie lobby, imbarazzante dal punto di vista politico e scientifico.

Se Mantovano&c. hanno trasformato la giornata mondiale contro l’abuso di droghe e il narcotraffico nella giornata contro la cannabis, la Società Civile ha voluto celebrare invece la mobilitazione internazionale di “Support! Don’t Punish”, che chiede politiche sulle droghe rispettose dei diritti umani e delle evidenze scientifiche e che quest’anno ha coinvolto oltre 275 città in circa 100 paesi. Lo ha fatto anche con una contestazione dentro e fuori l’evento governativo, consegnando fra l’altro il Libro Bianco a Meloni e Mantovano. Prima ancora ha presentato per l’ennesima volta i dati sul disastro generato dalla legge sulle droghe in Italia. Per l’esattezza per la quattordicesima volta per buona pace di chi, come Meloni, accusa gli altri di “non essersene mai occupati”.

I dati pubblicati sono la conferma di quanto si dice ormai da troppo tempo: un quarto delle persone che entrano in carcere lo fanno per una singola norma penale, quella dell’art. 75, ovvero detenzione a fini di spaccio, in larga parte per fatti di lieve entità. Il 34% dei detenuti italiani a fine 2022 era ristretto a causa della legge sulle droghe, che è quasi il doppio della media europea. La media mondiale si aggira intorno al 22%. Di fronte a questa enormità, che mette a dura prova il nostro sistema della sicurezza, della giustizia e dell’esecuzione penale, dovrebbe essere impossibile non porsi interrogativi. È evidente in tutte le nostre piazze il completo fallimento delle politiche repressive nel disincentivare la domanda e arginare l’offerta di droghe.

Invece il Governo tira dritto con il paraocchi: “le droghe fanno male tutte, non esistono distinzioni, chi dice una cosa diversa dice una menzogna” ha detto Meloni. L’impressione è che l’obiettivo sia da un lato quello di mettere al centro della criminalizzazione e dello stigma – usando le solite tecniche narrative – la sostanza più usata e con meno rischi (anche di alcol e tabacco), dall’altro di gestire dal centro ingressi in comunità, finanziamenti ed accreditamenti, dirottando fondi e tagliando fuori le Regioni.

Intanto, la prima novità c’è stata. Per la prima sono stati negati dei dati ai curatori del Libro Bianco: il Dipartimento Antidroga ha infatti deciso di non concedere il dato sul numero di procedimenti in corso per droghe che nel 2021 erano addirittura 231.659. Un diniego incomprensibile quanto risibile, ma che rende bene l’idea del nuovo corso. Tornando ai dati va sottolineato l’aumento della criminalizzazione dei minori nel corso del 2022. Sono stati 1126 i minori denunciati per spaccio: si tratta di un aumento del 15%, il 75% lo è stato per derivati della cannabis. Sono stati circa il triplo, 3526, i segnalati al Prefetto per mero consumo, quasi tutti per cannabis (98%): l’aumento sul 2021 è del 33%. Non sappiamo se e come sia collegato a “Scuole Sicure” e ai controlli antidroga con i cani nelle scuole.

Di certo la clava della sanzione penale e amministrativa si sta abbattendo sui giovani. L’altra certezza è che è il metodo peggiore per intervenire. A proposito di repressione del consumo, è ormai da tre anni che oltre 30.000 persone l’anno sono oggetto di segnalazione. Il 38% di queste finisce con una sanzione amministrativa (ritiro della patente, del passaporto, del porto d’armi o del permesso di soggiorno turistico, anche senza aver messo in atto comportamenti pericolosi). La repressione colpisce principalmente la cannabis (75,4%), poi cocaina (18,1%) ed infine eroina (4,2%). Le altre sostanze sono quasi irrilevanti. Dal 1990 oltre un milione di italiani, perlopiù giovani, sono state segnalate per possesso di derivati della cannabis.

Il volume, liberamente scaricabile da fuoriluogo.it e presto disponibile in libreria, presenta anche un interessante focus sulla questione della riforma del fatto di lieve entità per droghe e un approfondimento sulle proposte di uscita dal carcere per le persone che usano droghe. Oltre a questo, nella parte internazionale, contiene un’analisi della posizione dell’Italia nel dibattito internazionale, sul rispetto dei Diritti Umani nelle politiche sulle droghe e una revisione critica del rapporto dell’INCB sulla cannabis recentemente pubblicato. È un fondamentale strumento per conoscere e farsi un’idea di come le leggi sulle droghe influiscono sulla società italiana e sulla necessità oramai improcrastinabile di una loro riforma. Ma prima bisogna togliersi il paraocchi.

Leonardo Fiorentini Segretario Forum droghe 27 Giugno 2023

Ha 45 dosi di marijuana, ma viene assolto: l'ultimo "capolavoro" della Cassazione. Un giovane, condannato in Appello un anno di reclusione e 2.500 euro di multa, è stato definitamente scagionato nonostante possedesse in frigo 45 scorte di marijuana. Lorenzo Grossi il 18 Giugno 2023 su Il Giornale.

Possiedi 45 scorte in marijuana in casa? Nessun problema. Con la sentenza di ieri, la Corte di Cassazione ha sostanzialmente sdoganato la droga più usata nel mondo con delle motivazioni che, in certi passaggi, sfiorano il senso dell'assurdo e che non possono non rendere entusiasti tutti gli ultrà della legalizzazione delle droghe leggere. Tutto è partito da un processo ai danni di un ragazzo che era finito sotto processo per spaccio di sostanza stupefacenti: in secondo grado gli avevano inflitto un anno di reclusione e 2.500 euro di multa per avere detenuto nel frigorifero della sua abitazione un cartoccio di carta stagnola contenente una quarantina di dosi di marijuana. Tuttavia la persona imputata è riuscita incredibilmente a salvarsi nel definitivo grado di giudizio. Motivo? Il bilancino di precisione e, in questo caso, le 45 dosi nel frigo non sono sufficienti a dimostrare la vendita della sostanza.

Le motivazioni sulla marijuana

Lo ha stabilito nero su bianco la Cassazione tramite la sentenza n. 26216 del 16 giugno 2023. Gli Ermellini non sono nuovi a questi verdetti a favore dei consumatori di cannabis. In questo caso hanno cancellato il responso dell'Appello e hanno assolto l'uomo in quanto non può essere dimostrata la finalità di spaccio solo per la presenza del bilancio di precisione e della scorta. Per potere confermargli la condanna, infatti, si sarebbe dovuto rinvenire nell'appartamento del giovane altri elementi: come per esempio del denaro. Ma non è tutto: perché l'imputato, oltre che per spaccio, è stato assolto anche dal reato di detenzione illegale.

Schlein sposa la linea Saviano ma racconta solo bugie

Sempre nelle motivazioni, infatti, si legge che - ai fini della configurabilità del reato di illecita detenzione di cui all'art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 - la destinazione all'uso personale della sostanza stupefacente non ha natura giuridica di causa di non punibilità. In poche parole, dunque, non può essere dell'imputato la responsabilità di fornirne la prova, gravando così invece sulla pubblica accusa l'onere di dimostrare la destinazione allo spaccio. Nel caso in questione, non è stata in alcun modo provata la finalità di spaccio. Al contrario, la condotta dell'accusato sembrerebbe compatibile con l'acquisto a uso personale della sostanza stupefacente, anche se con il possedimento di ben 45 scorte di marijuana.

I giudici "agevolano" la legalizzazione

Il dato ponderale della sostanza ha infatti solo valore indiziario e tutta l'impostazione argomentativa dei giudici consente di rilevare la mancanza totale di prove riguardo l'esistenza di un elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice contestata. In sintesi, stante la situazione, è stato imposto l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, non essendo riconoscibile alcuna possibilità di ulteriore sviluppo motivazionale. Risulta quindi inutile lo svolgimento di un giudizio di rinvio, con il ragazzo che è stato assolto con formula piena e non dovrà affrontare un appello bis. Insomma: per quanto non verrà mai votata dall'attuale Parlamento, la legalizzazione delle droghe leggere si sta facendo lentamente strada anche grazie a sentenze come questa.

La pdl della deputata Montaruli. Fratelli d’Italia delira sulle droghe, in galera anche per caso di lieve entità. Angela Stella su Il Riformista il 19 Aprile 2023 

Prima la proposta di legge firmata da 13 senatori meloniani per il ripristino della «certezza della pena» e per lo stop a «svuotacarceri» e «pene extramurarie»; adesso una proposta di legge sugli stupefacenti presentata dalla deputata di FdI Augusta Montaruli per garantire la certezza della misura cautelare in carcere e innalzare la pena a cinque anni di reclusione. Insomma, il partito che ha fatto prima eleggere come deputato e poi nominare come Ministro della Giustizia Carlo Nordio si muove in Parlamento in senso contrario al Guardasigilli.

La pdl di Montaruli, che è pure avvocato, è stata presentata il 12 aprile scorso e punta a modificare gli articoli 73 e 85 bis del decreto del presidente della Repubblica in materia di stupefacenti. Il testo, di due articoli, prevede, dunque, un giro di vite sulla droga anche quando il fatto sia qualificato come di «lieve entità». In questo caso, come ricorda la relazione che illustra la proposta, ripresa dall’Ansa, viene attualmente prevista la reclusione da sei mesi a quattro anni e la multa da 1.032 a 10.329 euro. Una previsione che, si evidenzia nel testo, «rende al momento impossibile applicare la misura cautelare in carcere».

Una possibilità che «si rende tuttavia necessaria quando la condotta tipica del reato per le modalità dell’azione determini, nonostante la lieve entità, un fenomeno criminoso comunque grave con il ritorno dello spacciatore sulla strada». Di qui la proposta, prevista all’articolo 1 del testo Montaruli, di innalzare a 5 anni la massima pena detentiva prevista. L’articolo 2 riguarda, invece, i casi di confisca. Anche in questo caso, nella legislazione attuale, vengono esclusi i casi di «lieve entità». La proposta di legge di Fratelli d’Italia, all’articolo 2, sopprime tale previsione «ampliando dunque il novero delle ipotesi di applicazione dell’istituto della confisca» ai casi di lieve entità.

«Una proposta demenziale», per il Segretario e onorevole di +Europa Riccardo Magi, primo firmatario di una proposta di legge sulla depenalizzazione delle droghe. «La cosa assurda – per il deputato radicale – è che non si coglie la necessità di distinguere tra diverse sostanze, in questo senso si ripropone l’impostazione folle e dannosa della Fini-Giovanardi tanto cara al sottosegretario Mantovano». Critico anche Marco Furfaro, deputato e membro della nuova segretaria del Partito Democratico: «Altro che garantismo, il governo non fa altro che inasprire pene e inventare reati».

Inoltre « l’approccio figlio della cultura proibizionista si è dimostrato un vero fallimento, che non ha risolto il tema dello spaccio né della dipendenza da stupefacenti. Questa legge non farà altro per produrre ulteriori costi per lo Stato senza risolvere il problema delle dipendenze tra i giovani». Quindi inasprimento delle pene, ampliamento del recinto per la custodia cautelare, con conseguente aumento del sovraffollamento. Chissà che ne pensa il Guardasigilli? Angela Stella

Interrogazioni ai ministri Piantedosi e Valditara. Gasparri: "Droga non sarà mai legalizzata". Polizia a scuola nell’assemblea sulla cannabis, questura smentisce ma la preside conferma: “Chiesti i documenti”. Redazione su Il Riformista il 3 Marzo 2023.

A ventiquattr’ore dal blitz arriva la nota imbarazzata della questura di Enna che prova a smentire la presenza nel liceo Majorana-Cascino di Piazza Armerina di quattro dei suoi ispettori che avrebbero interrotto un’assemblea di studenti dedicata al percorso formativo sulla sensibilizzazione a marjuana e droghe leggere, smentendo di avere identificato – come riportato in un primo momento – gli studenti che organizzavano l’incontro anche in collegamento on line.

Sono però gli stessi ragazzi a sconfessare la versione della questura che ora rischia di aggiungersi alle grane per i ministri Piantedosi e Valditara. Tre rappresentanti d’istituto e due della consulta provinciale hanno dichiarato: “Quando abbiamo chiesto perché volessero i nostri documenti, ci hanno risposto che le domande le facevano loro”.

Un atteggiamento delle forze dell’ordine che ha irritato anche la preside, Lidia Di Gangi – al momento del blitz fuori sede – ma raggiunta per telefono da uno dei docenti che seguivano i ragazzi: “Mi hanno passato un ispettore al quale ho detto che l’assemblea era da me autorizzata nell’ambito di un percorso formativo avviato da tempo. Ho chiesto anch’io perché. Pare che la segnalazione anonima fosse arrivata in questura, ad Enna. Ma la scuola è parte lesa in tutta questa brutta vicenda”.

La versione della preside rivendica inoltre l’autonomia didattica e la piena libertà nei processi formativi è arrivata anche a Montecitorio al vicesegretario uscente del Pd, Beppe Provenzano, nato e cresciuto in quest’area al centro della Sicilia, che si è detto sorpreso dall’arroganza di chi avrebbe risposto ai ragazzi: “Adesso la domanda la facciamo noi depositando una interrogazione parlamentare al ministro Valditara e al ministro Piantedosi. Chi e che cosa ha autorizzato l’intervento della polizia in una regolare assemblea di studenti? È un fatto gravissimo che ricorda stagioni della storia del nostro Paese a cui non vogliamo, e non consentiremo di tornare. Qualcuno vorrebbe far respirare un’arietta autoritaria nelle scuole d’Italia”.

Il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri riportato da diverse agenzie ha dichiarato questa mattina: “Si possono tenere assemblee per minimizzare i pericoli delle droghe? La scuola può diventare un luogo di diseducazione invece che una sede dove evidenziare i pericoli delle droghe, di tutte le droghe? Quanto è avvenuto è gravissimo. Ma nel senso contrario rispetto a quello indicato da tanti ipocriti della sinistra. La droga non sarà mai legalizzata. Tutte le droghe fanno male. E la scuola deve dare informazioni sui danni causati dagli stupefacenti. Non deve essere un luogo per propagandare l’uso delle droghe. Andrò io fino in fondo a questa vicenda per capire le responsabilità di quanti hanno dato luogo a un episodio inquietante, sul quale il Ministro dell’Istruzione e le altre autorità di governo hanno il dovere di intervenire con urgenza”.

La preside Lidia Di Gangi aggiunge un’altra gatta da pelare al ministro Valditara – dalla scorsa settimana al centro della querelle per la lettera scritta da un’altra preside ai suoi studenti contro le aggressioni e sui valori costituzionali dell’antifascismo – e attenendosi ai fatti riporta quanto accaduto: “L’assemblea congiunta è stata richiesta dai rappresentati di classe sulla base di una programmazione con la consulta provinciale. Una partecipazione estesa, attraverso le piattaforme Meet, agli alunni collegati dalle singole classi e a un esperto, Pierluigi Gagliardi, rappresentante dell’associazione ‘Meglio legale’. Obiettivo era quello di riflettere e presentare agli studenti un quadro normativo argomentando la tesi di un auspicato utilizzo legale della cannabis per contrastare i fenomeni di criminalità connessi con lo spaccio clandestino”.

Le critiche di Provenzano sono state condivise da Stefania Marino, firmataria dell’interrogazione per il Pd a Valditara, e hanno anche trovato appoggio in altre interrogazioni presentate a Piantedosi da Davide Faraone di Azione-Italia Viva e da Nicola Fratoianni di Alleanza Verdi Sinistra, a sua volta ironico: “Quello che è accaduto, bloccando chi discute di legalizzazione, è ‘stupefacente’”.

Cannabis terapeutica, l’Italia punta all’autonomia con l’Esercito. Sergio Barlocchetti su Panorama il 02 Gennaio 2023.

Con l'aumento della produzione di cannabis, l'Esercito ha registrato due tipi di marijuana che raccoglie come marchi, denominati fm1 e fm2, sigla che significa “farmaceutico militare" Cannabis terapeutica, l’Italia punta all’autonomia con l’Esercito

Dal 2017 la gestione della coltivazione della cannabis terapeutica in Italia è affidata all'Esercito. Lo scopo è che anche il nostro Paese possa diventare autosufficiente nella produzione e, nell'anno che è appena iniziato, la Difesa prevede di produrne 700 chilogrammi di alta qualità per coprire quasi la metà del fabbisogno, circa 1.500 chilogrammi necessari per coloro che devono sottoporsi a una terapia per ottenere sollievo dal dolore.

Nicola Latorre, a capo dell'Agenzia italiana per le industrie della Difesa, ha recentemente dichiarato alla testata Defence News: «Il prossimo passo è l'autosufficienza, questa è la nostra ambizione». La cannabis che l'Esercito non è ancora in grado di coltivare viene importata dall'Olanda, dal Canada, dalla Danimarca e dalla Germania, ma la produzione nazionale, effettuata in una struttura riservata situata vicino Firenze, sta aumentando di anno in anno. Il responsabile dello stabilimento, il colonnello Gabriele Picchioni, ha dichiarato alla medesima testata che «Quello che possiamo fare a Firenze è produrre un prodotto altamente standardizzato allo stesso prezzo che paghiamo ora per le importazioni». Avviato nel 2014, lo stabilimento fiorentino ha prodotto 50 chilogrammi nel 2020 per poi salire a 300 chilogrammi nel 2022. L'incremento è stato ottenuto grazie a più spazi destinati alla coltivazione dai quali si ottengono sei raccolti all'anno. Per raggiungere i 700 chilogrammi entro il 2024 i tecnici stanno perfezionando l'illuminazione, l'irrigazione, la temperatura e la ventilazione e stanno utilizzando una miscela di nutrienti segreti sviluppati internamente che vengono mescolati con l'irrigazione. Il laboratorio mira a produrre già quest'anno dello speciale olio d'oliva alla cannabis che gli utenti potranno assumere sotto forma di gocce. All'Esercito è stato affidato il ruolo di fornitore legale di cannabis in Italia per due ragioni: per produrre in una struttura sicura e perché l'Esercito opera nel settore farmaceutico da decenni, producendo antidoti per la guerra chimica, pillole contro la malaria per i soldati e soprattutto è specializzato nella creazione dei cosiddetti farmaci “orfani” , ovvero medicinali per malattie rare o condizioni che le grandi aziende non fanno a causa dei bassi numeri di produzione. Il Servizio farmaceutico della Difesa attualmente produce quattro farmaci di questo tipo per rifornire 3.000 persone in Italia. Con l'aumento della produzione di cannabis, l'Esercito ha registrato due tipi di marijuana che raccoglie come marchi, denominati fm1 e fm2, sigla che significa “farmaceutico militare" e ognuna contiene un livello diverso di tetraidrocannabinolo, la sostanza attiva della marijuana. Nell'intervista alla testata anglosassone, Latorre ha affermato che le attività della sua agenzia hanno facilitato il coinvolgimento militare nel settore della sanità pubblica, una tendenza accelerata dalla pandemia: «Il Covid-19», ha precisato, «ci ha mostrato come la salute pubblica sia legata alla Difesa del Paese e alla sua sicurezza». Il 21 novembre scorso era stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale (n. 272), il decreto del ministero della Salute definito: “Determinazione delle quantità di sostanze stupefacenti e psicotrope che possono essere fabbricate e messe in vendita in Italia e all’estero, nel corso dell’anno 2023”. Secondo questo provvedimento i quantitativi previsti nel 2023 sono fino a 400 kg proprio presso lo Stabilimento chimico farmaceutico Militare di Firenze. Il 24 ottobre 2021, l’allora Sottosegretario alla Salute Andrea Costa, aveva annunciato: «Stiamo varando bandi che diano la possibilità di coltivare anche ad aziende pubbliche e private, per raggiungere l’obiettivo di essere autosufficienti».

"Burocralia", il regno infernale delle scartoffie. A parte le scartoffie contenenti verba che purtroppo non volant, ma restano ferme e immobili per sempre, la burocrazia non si vede. Daniele Abbiati il 232 marzo 2023 su Il Giornale.

A parte le scartoffie contenenti verba che purtroppo non volant, ma restano ferme e immobili per sempre, la burocrazia non si vede. Ma si sente, eccome, quando picchia duro sul cittadino-utente. Bene ha fatto quindi Patrizia Parnisari a porre a capo della sua Burocràlia, wunderkammer di meraviglie distorte, palazzaccio kafkiano ed escheriano, luna park degli orrori in carta bollata, messer Buffalmacco (con Calandrino come vice). Ovvero quel Buonamico Buffalmacco, pittore vissuto fra XIII e XIV secolo che osò, pare, collocare Dante Alighieri nel Giudizio universale da lui affrescato nel Camposanto di Pisa.

Ovvero, soprattutto, la sua versione boccacciana nella terza novella dell'ottava giornata del Decameron. Quella che inizia così: «Calandrino, Bruno e Buffalmacco giù per il Mugnone vanno cercando di trovar l'elitropia...». L'elitropia, la pietra che rende invisibili... come la burocrazia. Burocralia, tirata in 500 copie numerate dalla veneziana Corte Nova Scriptorium, è una discesa agli inferi in cui si agitano, prigionieri, i condannati. E il brevissimo, sapidissimo assaggio di Dall'Inferno di Giorgio Manganelli posto a mo' di introduzione certifica l'impossibilità di liberarli. Fine pena mai, per gli ostaggi dello Stato.

Rispetto ai nove danteschi, qui i cerchi sono sei (ma nessun condono, si paga tutto): «Ufficio Invalidi»; «Catasto»; «Ufficio Anagrafe»; «Ufficio Brevetti»; «Ufficio Reclami»; «Ufficio Tasse». La plumbea location di tale cittadella o roccaforte fatta di attese, vessazioni e timbri, si trova, come afferma il primo capitolo, «Alla periferia di Trantor», cioè del romanzo di Isaac Asimov Fondazione e Impero (1945) che ruota intorno al pianeta Trantor. Perché Burocràlia sembra proprio un marchingegno da fantascienza, sebbene le sue spire avvolgano e stritolino per davvero chiunque osi entrarvi.

Il sonno dei ministeriali genera mostri. Fannulloni, cinici, folli: il ritratto dal vivo di chi si crogiola all'ombra del potere. Daniele Abbiati il 23 marzo 2023 su Il Giornale.

Ministero, ufficio, scrivania: una triade indissolubile. Potere, burocrazia, lavoro: un triangolo equilatero. Gli impiegati di Honoré de Balzac (1837), Le miserie 'd Monsù Travet di Vittorio Bersezio (1863), La famiglia De-Tappetti di Luigi Arnaldo Vassallo alias Gandolin (1903): un trio di opere che dal potere ministeriale, dalla pubblica amministrazione esercitata nei labirinti di stanze, stanzette e stanzoni, dai tavoli ingombri di pratiche e faldoni hanno distillato magistralmente i contenuti grotteschi, alienanti e comici. Tuttavia, né il gigante francese, né il giornalista e deputato cuneese, né il cronista e umorista genovese, pur potendo contare sulla conoscenza diretta di uffici e scrivanie, ebbero a che fare da dentro con la vita ministeriale.

Accadde invece a Georges Courteline, non de plume di Georges Victor Marcel Moineau (Tours, 1858 - Parigi, 1929), poeta, narratore e drammaturgo, il quale fu per ben quattordici anni all'«ufficio dei culti» del ministero dell'Interno. Penna alata e sguardo disincantato, nelle nostre biblioteche lo troviamo soprattutto con un romanzo-vaudeville di volta in volta intitolato Quelli dalle mezzemaniche, I mezzemaniche o I travet. Ma il titolo originale è Messieurs les ronds-de-cuir (uscito fra il 1891 e il '92 su L'Écho de Paris e nel '93 in volume), laddove il ronds-de-cuir è il cuscino di cuoio a ciambella che Courteline e i suoi colleghi tenevano sotto le chiappe. In italiano potremmo renderlo oggi con «I culi di pietra», ma va bene anche il Tipi da scrivania con cui torna ora nelle librerie (Elliot, pagg. 155, euro 16,50) nella storica traduzione di Decio Cinti, ovvero l'unico futurista pacato e riflessivo di cui si abbia notizia, traduttore delle opere di Marinetti incluso quel Mafarka il futurista che in copertina si fregiò come di una medaglia del sottotitolo «Romanzo processato», nel senso di andato a processo - e condannato - per pornografia.

Lahrier, il primo ministeriale che incontriamo in una bella mattina di primavera, guarda caso ha le terga non su un rond-de-cuir, bensì sulla sedia del Café Riche, e non si preoccupa minimamente del suo consueto ritardo. Al contrario, medita sulla vanità del proprio impiego: «È proprio qualche cosa di bello, la Direzione dei Lasciti e Donazioni! (...) E infatti, i ministri lottano continuamente fra loro per non averla, questa Direzione inutile! A poco a poco, la Cancelleria se ne sbarazza e la vuol dare alla Pubblica Istruzione; la Pubblica Istruzione si difende, e vuole che se la pigli il Commercio; il Commercio protesta e la rimanda agli Interni; gli Interni non vogliono saperne e la spingono verso le Finanze, e così via, fino al giorno in cui un'anima caritatevole acconsente a prendersela a rimorchio e ad aggiungersela per compassione».

Insomma, si tratta di un sotto-ministero importante quanto un sottoscala, un ripostiglio, un polveroso solaio. «Alla tristezza tetra di rue Vaneau, la Direzione generale dei Lasciti e Donazioni aggiunge la nera tristezza della sua facciata senza alcun rilievo e della sua vecchia bandiera, divenuta un cencio stinto», chiosa con cognizione di causa l'autore. Parbleu! Se si parte con l'oltraggio alla bandiera, chissà dove andremo a finire, potrebbe pensare il lettore moderato. Ma niente paura, la Comune è passata, come un refolo di vento, vent'anni prima, e né Lahrier, né altri, dietro quella triste facciata, covano sentimenti di rivolta, anzi si crogiolano nella loro rendita di posizione, e tutt'al più mugugnano quando l'aumento di stipendio o la promozione si fanno attendere più del lecito. In rue Vaneau pullula, come pesci pilota appresso allo squalo, cioè come parassiti ministeriali, una pletora di personaggi. C'è chi, come lo stesso Lahrier, si porta in ufficio la fidanzata per pomiciare, chi passa il tempo a tirare di scherma in cantina, chi, ex cappellaio fallito e assunto lì quando aveva quarantacinque anni, arrotonda rimettendo in sesto i copricapo dei vicini, chi si lava i piedi, chi dorme, chi, come il direttore, butta giù la sceneggiatura di un balletto-pantomima... E poi, come in tutte le aziende, c'è chi, fantozzianamente, accumula le pratiche non evase dagli altri per addossarle voluttuosamente a sé in un delirio di stacanovismo, restando alla scrivania fino a notte.

La surreale filosofia della baracca sta tutta nelle parole del direttore Nègre al capoufficio de La Hourmerie quando questi gli propone il licenziamento in tronco di Lahrier, specialista nello scaricare il lavoro sulle spalle altrui: «Non capite che, tenendo tanto più al suo posto, quanto meno gli costa fatica a conservarlo, farà tutto il possibile per non perderlo? Non capite che appunto ciò che vi è di eccessivo nei suoi torti ci garantisce sicuramente i prodigi che farà perché essi rimangano impuniti, e che quanto più si ostinerà a non eseguire il suo lavoro, tanto più sarà energico nello scaricarsene sugli altri e nello stimolare la loro attività?».

Poi, c'è anche chi dà chiari segni di alienazione mentale. Si chiama Letondu (tondre significa falciare...) e dà fuori di matto per settimane nel disinteresse generale, se non proprio da comunardo redivivo, sicuramente da moralizzatore violento. Fino a quando... No, non diremo per quali circostanze, colpito da un fulmine a ciel sereno, il romanzo-vaudeville di Courteline sfumi nella tragedia. Diremo soltanto che sarà il rampante Chavarax (chavirer significa capovolgersi...) a volgere in positivo per l'intera brigata, con il plauso del direttore, la morte di un suo componente. Come? Con la spartizione, calcolata al decimo di franco, dei suoi ormai inutili emolumenti. D'accordo, è un trucco non da pubblica amministrazione, ma da azienda privata. Però a Courteline, dopo tanto realismo, può essere concessa una licenza poetica.

E da parte sua il prefatore del libro Marcel Schwob, altro campione del motteggio, lo ritrae in modo impareggiabile così: «Possedeva una tale grazia che le imprecazioni, cercando un santuario indistruttibile, lo trovarono nella sua opera».

Deep State: Stato profondo e Spoils system: cooptazione dei Dirigenti Pubblici.

Il Sistema esistente del Deep State la Cooptazione politica (Spoils system) di Responsabilità dei dirigenti Pubblici.

Metodo da usare in tutte le assunzioni pubbliche.

Chi li nomina, risponde del loro operato.

Storia dello spoils system che ha democratizzato la politica americana. MATTEO MUZIO su Il Domani il 12 gennaio 2023

Inventato da un alleato del presidente Andrew Jackson, eletto nel 1828, ha favorito la fiducia nei partiti e nelle istituzioni e ha promosso la partecipazione degli afroamericani negli stati del sud.

Purtroppo però nel corso del tempo ha fatto esplodere la corruzione, l’incompetenza e ha favorito l’uccisione di un presidente.

In una sola agenzia federale, invece, lo spoils system continua a funzionare brillantemente, quasi come ai tempi dei boss locali: parliamo della Casa Bianca, dove ad ogni cambiamento di amministrazione vengono sostituiti tutti i dipendenti, fino all’ultimo membro dello staff.

MATTEO MUZIO. Laureato in storia contemporanea, giornalista. Scrive di economia e di cultura. Ha collaborato con Repubblica, il Foglio, L’Espresso e il Fatto Quotidiano. Scrive per Linkiesta.

SPOILS SYSTEM, FINE DEI GIOCHI! ROBERTO NAPOLETANO su Il Quotidiano del Sud il 06 Gennaio

Bisogna mandare un messaggio globale che riguarda la valutazione dei risultati conseguiti e dei requisiti di competenza come priorità strategica assoluta nella scelta dei capi della burocrazia, dove c’è molto da fare, e ancora di più nella scelta dei capi azienda soprattutto di quelle quotate. Su questo punto fermo che è fatto di più sfaccettature non si può scherzare. La nostra amministrazione ha perso la caratteristica fondante di essere al di sopra delle parti e la politica considera grandi e piccoli commis tutti insieme un branco di venduti. Bisogna uscire in fretta da questo circolo infernale che può produrre danni inimmaginabili e ci permettiamo di suggerire di seguire quello che noi abbiamo definito il modello Fitto. Che vuol dire stressare le strutture tecniche con esami millimetrici di impegni assunti e di performance conseguite. Perché è il modo migliore per ottenere i risultati che la politica si prefigge e l’appoggio dell’Europa che è oggi per l’Italia l’aria in cui respira.

L’inflazione distrugge la fiducia dei cittadini nel sistema politico. L’inflazione da caro materie prime di origine bellica resta alta, ma è in rallentamento in Europa. Anche in Italia lo è, ma meno che negli altri Paesi europei perché c’è una speculazione interna dei soliti profittatori che si sentono protetti dal percepito di una politica del governo Meloni che allenta il rigore nei controlli fiscali e, in genere, di ogni tipo perché teorizza le briglie sciolte.

La conseguenza pratica dell’alta inflazione e della pericolosa componente interna italiana, che assomiglia molto alla anomalia che si registrò in Italia con il passaggio all’euro durante un altro governo di centrodestra a guida berlusconiana, è che i tassi salgono e questo rialzo cumulato con i danni prodotti dalla confusione generata sui mercati da una guida della Bce poco salda si traducono in un considerevole aumento dei costi di finanziamento del debito pubblico. Questo doppio dato di fatto restringe i margini di manovra della spesa pubblica italiana e determina minori spazi fiscali per fare interventi di redistribuzione. Che, peraltro, come dimostra l’abolizione dello sconto Draghi sulle accise per dare qualche mancia in più al lavoro autonomo già favorito, non è un obiettivo di politica economica così nitido al punto da evitare piccoli sbandamenti elettorali che producono comunque destabilizzazione pur dentro una cornice generale che è per fortuna ben salda di continuità con i predecessori nel controllo della finanza pubblica.

Bisogna rendersi conto che i due lati della tenaglia – inflazione distruttrice di fiducia e oneri in risalita su 510 miliardi di titoli pubblici da collocare sul mercato – se si stringono ulteriormente intorno al collo del Paese, mandano in frantumi governo e opposizione perché bruciano la fiducia che è la benzina del motore del miracolo italiano, bloccano investimenti e consumi, possono avere un effetto devastante sulla nostra economia e sulla tenuta sociale. A questa tenaglia che è l’emergenza assoluta del Paese oggi in un contesto globale che continua a essere segnato dalle incognite del covid cinese e della guerra russa in Ucraina con il loro carico di ricadute economiche, governo e opposizione dovrebbero dimostrare il massimo di responsabilità che invece non emerge come dovrebbe.

Il governo continua a ripetere che ha vinto, che il popolo è sovrano, e che fa come vuole. L’opposizione dice che il 40% non ha votato e che hanno perso questi voti per loro errori tattici quando quella quota di mancati elettori sono piuttosto persone che non si fidano più di nessuno. Un trend che è destinato peraltro ad allargarsi se governo e opposizione continuano a comportarsi in questo modo

Sono addirittura patetici i continui richiami, da parte dell’uno e dell’altro variegato schieramento, all’attesa miracolistica delle elezioni europee del 2024 per vedere come la gente reagirà a questa nuova situazione. Senza essere sfiorati almeno dal dubbio che a quella data bisogna arrivarci vivi. Perché, diciamocela tutta, se ci fosse questa imprescindibile consapevolezza, non ci si butterebbe nel gioco demente dello spoils system che è il modo più certo ed efficace per consegnarsi con le proprie mani dentro questa duplice tenaglia che riduce i margini di manovra e può addirittura togliere il respiro al primo errore vero che brucia il capitale della fiducia sul titolo sovrano della Repubblica italiana in casa e fuori.

Certo che si può scommettere su profili nuovi e di provata competenza, anzi a volte è proprio doveroso farlo, ma bisogna avere la consapevolezza assoluta che se io mando via uno bravissimo e ne prendo un altro che dovrà dimostrare di essere bravo, anche se si rivelerà dopo tale, nel frattempo sul mercato funziona il fatto che ho mandato via quello bravo e questo dato in sé fa stringere sempre di più la tenaglia intorno al collo del Paese aumentandone il rischio di soffocamento. Bisogna viceversa mandare un messaggio globale che è unico e riguarda la valutazione dei risultati conseguiti e dei requisiti di competenza come priorità strategica assoluta nella scelta dei capi della burocrazia, dove c’è molto da fare, e ancora di più nella scelta dei capi azienda soprattutto di quelle quotate.

Su questo punto fermo che è fatto di più sfaccettature non si può scherzare. Soprattutto sulla burocrazia ci rendiamo conto che la politica di governo ha la riserva mentale che la grande e piccola amministrazione vanno a raccontare all’opposizione tutti i loro segreti. Il Paese, però, proprio come accadde nel Dopoguerra, ha oggi bisogno di avere una classe di burocrati che capisca che c’è un dovere assoluto di riservatezza perché loro sono sempre al servizio del governo e della sua squadra di ministri che operano pro tempore sulla base di un mandato che esprime la sovranità popolare. Di tutti i governi che utilizzano le loro competenze con le stesse, identiche regole di riservatezza. Questa etica del servizio pubblico è stata distrutta in anni di egemonia del correntismo partitocratico per cui si faceva carriera soprattutto nella amministrazione pubblica solo se si era nelle grazie di questo o quel capo corrente. La nostra amministrazione ha perso la caratteristica fondante di essere al di sopra delle parti e la politica considera grandi e piccoli commis tutti insieme un branco di venduti. Bisogna uscire in fretta da questo circolo infernale che può produrre danni inimmaginabili e ci permettiamo di suggerire di seguire quello che noi abbiamo definito il modello Fitto. Che vuol dire stressare le strutture tecniche con esami millimetrici di impegni assunti e di performance conseguite.

Perché è il modo migliore per ottenere i risultati che la politica si prefigge e l’appoggio dell’Europa che è oggi per l’Italia l’aria in cui respira. Se si fanno prove muscolari su questo genere di cose scegliendo gli amici degli amici non si ottengono posizioni di potere, come si può immaginare, che aiutino il consenso nelle amministrative e nelle europee, ma millimetro dopo millimetro si stringono i due lati della tenaglia di inflazione e tassi intorno al collo del Paese e ci si sveglierà una mattina prima delle europee con fortissime difficoltà di respirazione. Consigliamo assolutamente di evitare esercizi così pericolosi

Deep State: Stato profondo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Per Stato profondo si intende a livello politico l'insieme di quegli organismi, legali o meno, che grazie ai loro poteri economici o militari o strategici condizionano l'agenda degli obiettivi pubblici, di nascosto e a prescindere dalle strategie politiche degli Stati del mondo, lontano dagli occhi dell'opinione pubblica. Detto anche "Stato dentro lo Stato", è costituito da lobby e reti nascoste, segrete, coperte, di potere in grado di agire anche contro le pubbliche istituzioni note.

Quando è affermata senza supporti fattuali, l'esistenza di un governo invisibile (detto anche Shadow government, criptocrazia o governo segreto) appartiene ad una famiglia di teorie della cospirazione basata sull'idea che il potere politico reale non risieda nei detentori visibili, ma in eminenze grigie: nelle monarchie questo avverrebbe con i powers behind the throne, mentre nelle democrazie vi sarebbero potentati privati che esercitano potere dietro le quinte, utilizzando come schermo gli eletti nelle assemblee rappresentative; lo stesso governo eletto ufficiale sarebbe sottomesso al governo ombra, che sarebbe il vero potere esecutivo.

Etimologia

Il termine moderno di Stato profondo emerge a partire dalla traduzione letterale del turco derin devlet, con cui in Turchia Bülent Ecevit designava la rete di potere laico-militare, fondata nel 1923 da Mustafa Kemal Atatür e permanente anche dopo la sua morte, per i decenni successivi.

Tipologie

Entità di questo tipo possono essere per esempio individuate, a seconda dei Paesi, nelle organizzazioni criminali, nelle lobby economiche, negli organismi religiosi e negli eventuali loro intrecci, negli organi di Stato, come le forze armate o le autorità pubbliche (agenzie di intelligence, polizia, polizia segreta, servizi segreti, agenzie amministrative o di sicurezza, burocrazia governativa).

Uno Stato profondo può anche consistere in funzionari di carriera che agiscono in modo non cospiratorio, ma per promuovere i propri interessi. L'intento di uno Stato profondo può includere la continuità dello Stato stesso, il mantenimento del lavoro per i suoi membri, il potere e l'autorità irrobustiti e il perseguimento di obiettivi ideologici non sempre a cuore all'opinione pubblica. Può operare in opposizione all'ordine del giorno dei funzionari eletti, bilanciando, rallentando e ritraducendo le loro politiche, condizioni e direttive. Può anche assumere la forma di enti pubblici o società private che agiscono fuori dal controllo normativo o governativo.

Storia

Descrizioni simili si ritrovano già nell'antichità classica. L'espressione greca κράτος ἐν κράτει (kratos en kratei) è stato successivamente adattata in latino come imperium in imperio o status in stato o status in statu.

Nel XVII e XVIII secolo il dibattito politico internazionale sulla separazione tra Stato e Chiesa spesso ruotava intorno all'idea che, resa globale ossia senza poteri politici nazionali a cui dar conto, la Chiesa sarebbe divenuta Stato nello Stato, invadendo e snaturando le prerogative statali.

Ernst Fraenkel illustrò la natura ed il funzionamento della dittatura nazista mediante il concetto di doppia lealtà, con la quale i funzionari pubblici osservavano la gerarchia formale della statualità e nel contempo quella sostanziale del Partito nazionalsocialista, nell'ambito di quello che definiva il doppio Stato.

Stati Uniti

Negli Stati Uniti, il termine "stato profondo" è stato usato per descrivere "un'associazione ibrida di elementi governativi e parti di industria e finanza di alto livello che è effettivamente in grado di governare gli Stati Uniti senza riferimento al consenso dei governati espressi attraverso il processo politico formale ". Le agenzie governative di intelligence, come la CIA e l'FBI, sono state accusate da elementi dell'amministrazione Donald Trump di tentare di contrastare i suoi obiettivi politici. Scrivendo per il New York Times, l'analista Issandr El Amani ha messo in guardia contro la "crescente discordia tra un presidente e la sua gerarchia burocratica", mentre gli analisti della rubrica The Interpreter scrivevano:

«Sebbene lo stato profondo sia talvolta discusso come una cospirazione oscura, aiuta a pensarlo invece come un conflitto politico tra il leader di una nazione e le sue istituzioni di governo.»

(Amanda Taub e Max Fisher, The Interpreter)

Italia

Il caso più famoso italiano è quello della doppia fedeltà degli apparati dello Stato durante la strategia della tensione e nelle attività della loggia Propaganda Due.. Propaganda due (meglio nota come P2) era una loggia massonica aderente al Grande Oriente d'Italia (GOI) che, nel periodo della sua conduzione da parte dell'imprenditore Licio Gelli, assunse forme deviate rispetto agli statuti della massoneria ed eversive nei confronti dell'ordinamento giuridico italiano. La P2 fu sospesa dal GOI il 26 luglio 1976; successivamente, la Commissione parlamentare di inchiesta sulla loggia massonica P2 sotto la presidenza dell'onorevole Tina Anselmi concluse il caso P2 denunciando la loggia come una vera e propria «organizzazione criminale» ed «eversiva». Fu sciolta con un'apposita legge, la n. 17 del 25 gennaio 1982.

Lo spoils system. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Lo spoils system (traduzione letterale dall'inglese: sistema del bottino) è la pratica politica, nata negli Stati Uniti d'America tra il 1820 e il 1865, secondo cui gli alti dirigenti della pubblica amministrazione cambiano con il cambiare del governo.

Le forze politiche al governo affidano dunque la guida della macchina amministrativa a dirigenti che ritengono non soltanto che possano, ma anche che vogliano far loro raggiungere gli obiettivi politici. Nell'accezione più negativa, le forze politiche al governo distribuiscono a propri affiliati e simpatizzanti le varie cariche istituzionali, la titolarità di uffici pubblici e posizioni di potere, come incentivo a lavorare per il partito o l'organizzazione politica, e in modo da garantire gli interessi di chi li ha investiti dell'incarico.

Significato del termine

Sebbene le linee generali di questa pratica si possano ricondurre alla nozione di clientelismo, l'espressione spoils system non implica, originariamente, una connotazione negativa o l'idea che tale distribuzione di cariche sia necessariamente un abuso (in altre parole, si tratta di un'espressione moralmente neutra che descrive una prassi formalmente riconosciuta, e apertamente applicata, in determinati periodi storici negli Stati Uniti d'America come in altri paesi).

Anche se l'espressione era già in uso di sicuro dal 1812, è stata resa famosa da un discorso del senatore William Marcy nel 1832, in cui, difendendo una delle nomine del presidente Andrew Jackson, disse: "To the victor belong the spoils of the enemy" (in italiano: "Al vincitore spetta il bottino del nemico").

Allo spoils system si contrappone spesso il merit system (letteralmente: "sistema del merito") in base al quale la titolarità degli uffici pubblici viene assegnata a seguito di una valutazione oggettiva della capacità di svolgere le relative funzioni, senza tenere conto dell'affiliazione politica dei candidati agli uffici. Un tipico esempio attraverso il quale si realizza il merit system è un concorso pubblico.

Lo spoils system nel mondo

Stati Uniti d'America

In particolare nel sistema statunitense, durante i primi 60 giorni di mandato, il Presidente degli Stati Uniti d'America copre direttamente 200-300 ruoli chiave dell'esecutivo, rimpiazzando elementi nominati dal mandato precedente. Le nomine istituzionali dette contratti di spoils system decadono nel momento in cui il rappresentante politico perde la carica.

Italia

A partire dagli anni novanta, con l'affermarsi in Italia dei sistemi elettorali maggioritari (legge Mattarella per il Parlamento e legge 25 marzo 1993, n. 81 per comuni e province), l'espressione spoils system è entrata in uso anche in italiano, per indicare l'insieme dei poteri che consentono agli organi politici di scegliere le figure di vertice come segretari generali, capi di dipartimento, segretari comunali, ecc.

Lo spoils system è regolato dalla legge 15 luglio 2002, n. 145 e dalla successiva legge 24 novembre 2006 n. 286 (di conversione del decreto legge 3 ottobre 2006 n. 262), che prevede la cessazione automatica degli incarichi di alta e media dirigenza nella pubblica amministrazione passati 90 giorni dalla fiducia al nuovo esecutivo (cioè la nomina di un nuovo governo); un sistema simile è operante verso enti e/o società controllate dal settore pubblico. L'istituto ha come ratio legis la necessità di fiducia e armonia fra l'amministrazione e la politica quale elemento necessario per il buon andamento della pubblica amministrazione.

Si noti che la Corte costituzionale, nella nota sentenza 233/2006, ha confermato la validità del sistema dello spoils system, affermando come la necessità del buon andamento della pubblica amministrazione sia in effetti prioritario rispetto al principio di imparzialità, il quale in teoria escluderebbe vertici amministrativi "parziali" verso l'esecutivo; la Corte ha però anche affermato come tale sistema non possa infrangere lo spazio riservato all'indipendenza della pubblica amministrazione (generalmente, quello più strettamente legato all'attività della stessa, con la politica incaricata solo di fornire gli obiettivi e le linee guida per raggiungerli), limitando quindi lo spoils system solo alle posizioni apicali ed escludendo la media dirigenza ed i vertici delle società pubbliche; essa affermò anche come il sistema non potesse concretizzarsi in una precarietà inaccettabile della dirigenza escludendo quindi il possibile azzeramento dei vertici delle amministrazioni, cosa che creerebbe anche una pericolosa dipendenza dell'amministrazione verso la politica.

Per quanto riguarda l'individuazione precisa dei vertici amministrativi interessati dallo spoils system, la Corte non ha fornito criteri volti ad individuarli con precisione; si può solo intuire come siano le posizioni più a stretto contatto con gli organi politici e che, come queste ultime, siano più coinvolte nel processo di formazione degli obiettivi che nella gestione più strettamente tecnica dell'attività amministrativa.

La Corte Costituzionale ha inoltre decretato l'illegittimità dello spoils system dei direttori generali delle ASL (Corte Cost. sentenza 34/2010). Una più recente pronuncia della Corte di cassazione - sez. lavoro (nº 2555 del 2015) ha sentenziato che "Il ruolo di dirigente della Regione non può essere revocato in conseguenza del cambiamento degli organi politici (spoils system) quando la figura non rientri tra quelle apicali", limitando ancora di più l'ambito applicativo legittimo dello "spoils system".

La Nascita.

L’arte della conversazione.

Google.

Le ONG.

Gli imballatori.

La Nascita.

Fare lobby in America: tutto nacque in un albergo (ed è legale). Federico Rampini su Il Corriere della Sera il 13 Gennaio 2023.

Dall’800 i gruppi di pressione sono stati regolamentati in nome di un’idea liberale che legittima gli interessi economici ma impone trasparenza. Il Qatargate lo ha dimostrato: meglio essere cinici (e lucidi) che più corruttibili

La lobby dell’hotel Willard di Washington, a pochi passi dalla Casa Bianca: qui nell’800 nacque la pratica degli incontri tra rappresentanti di gruppi economici. Da allora con la parola “lobby” si identifica la legittima attività dei gruppi di pressione

I recenti eventi in Europa, con lo scandalo Qatargate, e negli Stati Uniti e la battaglia al Congresso per la nomina dello speaker della Camera riportano in primo piano il peso delle lobby in America. In questo editoriale pubblicato su 7 in edicola il 13 gennaio, Federico Rampini analizza e spiega il fenomeno. Lo proponiamo online per i lettori di Corriere.it

Sono cresciuto in mezzo alle lobby di Bruxelles, un dettaglio che mi è venuto in mente in occasione del cosiddetto Qatargate (scandalo che dalle sue origini si è poi allargato a Maroccogate eccetera). Mi spiego. Negli Anni 60-70 ero alla Scuola europea di Uccle-Bruxelles perché mio padre era un funzionario della Commissione europea “originaria”, quando l’Europa aveva solo sei Stati membri e la sua tecnocrazia era minuscola. Tra i miei compagni di scuola c’erano anche i figli dei rappresentanti di Confindustria, Iri, Confagricoltura e Coldiretti. Già sessant’anni fa le lobby agivano per informare e influenzare le decisioni europee, difendere i propri interessi.

Dietro il lobbismo Usa, un’idea liberale

Da adulto divenni cittadino degli Stati Uniti, la nazione dove si diffuse il termine lobby: secondo un’etimologia consolidata, dal nome della lobby o hall dell’hotel Willard di Washington, dove dall’Ottocento si riunivano i rappresentanti di vari interessi economici, a pochi passi dalla Casa Bianca. Il Congresso degli Stati Uniti fu tra i primi a regolamentare quest’attività, che ha sempre minacciato di prendere in ostaggio la democrazia rendendola succube dei poteri forti. Dietro le normative americane c’è un’idea liberale: la legittima espressione degli interessi economici fa parte del gioco democratico e può aiutarlo a funzionare, non va repressa altrimenti continuerà di nascosto, va invece regolata. Trasparenza, obbligo di pubblicità per ogni sorta di finanziamento alla politica, sono ingredienti del sistema americano dove i lobbisti sono una professione accettata, purché si svolga alla luce del sole. Gli scandali ci sono stati lo stesso. Forse sono stati limitati grazie all’esistenza di regole.

L’ingerenza delle potenze straniere

Anche in America però si entra in un territorio più controverso quando gli interessi che si fanno rappresentare sono quelli di potenze straniere. Tra i casi celebri ricordo le donazioni saudite alla Fondazione di Bill e Hillary Clinton; i molteplici favori fatti da governi esteri alle aziende della famiglia Trump. Alcune patologie emerse nelle indagini della giustizia belga sull’Europarlamento rinviano a un deficit di regolamentazione. Se l’Europa adottasse un atteggiamento laico e pragmatico all’americana, potrebbe rendere più esplicito e visibile il ruolo delle lobby, aggiungendovi regole stringenti e sanzioni davvero pesanti per chi travalica e sconfina nel campo della corruzione. Va pure accettato una volta per tutte che non ci sono lobby buone e lobby cattive: anche le ong umanitarie rappresentano degli interessi (hanno un’agenda politico-ideologica) e il loro ruolo va regolato come quello delle imprese private.

Comprare influenza all’Europarlamento

La questione più delicata, come negli Stati Uniti, riguarda le potenze straniere. In un certo senso è lusinghiero che queste cerchino di “comprare influenza” all’Europarlamento, significa che questa istituzione oggi conta più che in passato. Preoccupa la nostra permeabilità. Stavolta fanno notizia Qatar e Marocco ma sappiamo quanto in passato la Cina, la Russia e altre potenze abbiano lavorato per assoldare politici europei alla loro causa, spesso con successo. Urgono nuove leggi e una vigilanza speciale. Né possiamo concentrarci solo sull’Europarlamento, ignorando che un ex cancelliere tedesco è sul libro paga di Vladimir Putin.

L’arte della conversazione.

La lobby spiegata dal punto di vista degli elefanti. Mariella Palazzolo, Lobbista, su Il Riformista il 21 Luglio 2023

Sono una lobbista. Ed è sempre difficile raccontare che lavoro faccio. La mia professione gode di pessima fama. È confusa con l’influenza sulla decisione politica o addirittura con la corruzione bella e buona. Inutile spiegare che una cosa è informare chi fa le leggi di quali siano le esigenze del settore produttivo del Paese e un’altra è chiedere favori dando qualcosa in cambio. La prima è un legittimo lavoro e la seconda è corruzione.

Recentemente, per la rubrica di Telos A&S Lobby Non Olet, abbiamo intervistato una serie di lobbisti internazionali: un inglese che lavora in Giappone, un tedesco-irlandese, un ispano-canadese, una turca. Tutti hanno condiviso con noi la difficoltà di spiegare il mestiere che svolgono.

Ayse Beyazit-Aricioglu, consulente turca, ha espresso la definizione più creativa, e allo stesso tempo precisa, del nostro lavoro. “Immaginiamo che un circo arrivi in paese. Se vuoi fare pubblicità, devi attaccare manifesti ovunque. Poi se hai anche un elefante che va in giro per il paese con i manifesti attaccati ai lati, questo è fare promozione. Poi se l’elefante entra nel giardino del sindaco e distrugge tutto e riesci a fare ridere il sindaco sull’accaduto, questo diventa pubbliche relazioni. Poi, alla fine, se illustri al sindaco i vantaggi di portare una proposta in giunta dove si dice che il circo è esente dal pagamento dell’imposta sull’intrattenimento, questo è fare lobby”.

Quello di Ayse Beyazit-Aricioglu è solo un esempio. Oggi, a mio avviso giustamente, in molti Paesi il circo con gli animali non è più visto di buon occhio. Questa considerazione ci porta a un altro caso di lobby. Nel 2017, è stata approvata la legge delega di riordino del settore dello spettacolo e, tra i criteri troviamo un breve comma che recita “revisione delle disposizioni nei settori delle attività circensi e degli spettacoli viaggianti, specificamente finalizzata al graduale superamento dell’utilizzo degli animali nello svolgimento delle stesse.” Piccolo ma grande comma dietro il quale c’è l’infaticabile lavoro delle associazioni per i diritti degli animali. Tuttavia, i decreti attuativi non sono mai stati adottati e la delega è scaduta senza attuazione nel dicembre del 2018. Nel 2022 viene approvata una nuova legge delega che, per la stesura del nuovo Codice dello Spettacolo, recupera i criteri indicati dalla precedente: ritroviamo infatti lo stesso identico comma e anche stavolta è necessario un decreto legislativo che lo attui. Ma l’aggettivo graduale è interpretabile e quindi, per definire un orizzonte temporale, il termine ultimo per la presenza degli animali è stato fissato al dicembre 2024. Le cose però si complicano perché  con l’approvazione del Milleproroghe del febbraio di quest’anno, viene disposta la proroga di 15 mesi dell’adozione del decreto legislativo. La LAV (Lega Anti Vivisezione) ha chiesto al Ministro Sangiuliano di accorciare i tempi. Conclusione: la LAV sta facendo un’operazione di lobby in favore degli animali selvatici costretti lavorare nei circhi.  Ecco la prova che la lobby è utile a tutti. Anche agli elefanti.

I due pesi e le due misure del lobbying. Mariella Palazzolo, Lobbista, su Il Riformista il 24 Marzo 2023

L’attività di rappresentanza degli interessi, cioè il lobbying, gode di pessima stampa. E questo si sa. Quello che si sa meno è che questo settore viene valutato con pesi e misure diverse.

Per la nostra video rubrica Lobby Non Olet, ne abbiamo parlato con Dominique Reber, socio di Hirzel Neef Schmid Konsulenten in Svizzera. Reber ha sottolineato come l’attività di lobbying sia ritenuta tale, se a svolgerla sono le aziende. Non lo è, se invece viene portata avanti dal mondo del terzo settore. In questo secondo caso si usano espressioni considerate neutre o meno compromettenti.

Nella mia esperienza, se l’attività di lobby viene svolta dalle ONG nel settore dell’ambiente o dei diritti umani, allora in genere i media non usano la parola lobby, ma qualcosa tipo ‘il lavoro delle ONG’. Se invece le stesse attività sono svolte dalle organizzazioni di rappresentanza degli industriali o dalle aziende, di solito vengono screditate dai media che le chiamano lobby. Quando in realtà l’attività che fanno è la stessa”.

Dalle parole di Reber capiamo che la diffidenza nei confronti del lobbying, al contrario di quello che generalmente si pensa, non è solo un fatto italiano. La sua cattiva fama è dovuta anche all’associazione di questa attività con il mondo delle aziende e, “peggio”, delle multinazionali. Quando la lobby è abbinata a temi umanitari, subisce un processo di beatificazione e non viene neanche chiamata con il suo nome, per evitare di “sporcare” la reputazione di chi la mette in pratica. Come se le ONG non fossero anche loro tra le realtà i cui interessi sono rappresentati attraverso il lobbying. Qualche esempio mi aiuterà a chiarire il punto.

Le leggi sui sacchetti di plastica o sui reati ambientali sono chiaramente il risultato di un preciso lavoro di rappresentanza degli interessi, ossia di un lavoro di lobbying. Da lobbista e da cittadina, ribadisco che in questo non c’è niente di sbagliato, tanto meno di riprovevole. Allo stesso modo però non è sbagliato né riprovevole rappresentare gli interessi, quindi fare lobbying, per conto di aziende private o multinazionali che pagano le tasse, offrono posti di lavoro, ci assicurano l’esistenza sul mercato di prodotti e servizi di cui ci serviamo e contribuiscono al Pil del Paese. Quindi basta con i due pesi e le due misure.

Quanta fatica spiegare ai parenti a Natale che un lobbista non è un criminale. Virginia Fatta su L’Inkiesta il 29 Dicembre 2022.

Uno degli inconvenienti più antipatici del Qatargate è far capire che il lobbismo non è un atto di corruzione. Se regolato bene è una straordinaria attività di convincimento del legislatore circa la bontà degli interessi grazie alla pura argomentazione

Ogni Natale chi lavora nel settore delle relazioni istituzionali vive un disagio che solo i suoi simili potranno comprendere appieno: spiegare in cosa consiste la professione del lobbista. Con fatica e devozione, ogni anno il lobbista spiega al cenone come si articola la professione, arzigogolando nel lessico pur di non usare termini astiosi, scegliendo piuttosto parole semplici per trasmettere al meglio il cuore del mestiere. Ma puntualmente ogni anno questo faticoso dramma esistenziale è minato dal solito commensale, spesso uno zio acquisito o un lontano cugino, che comodamente attovagliato chiede in ultima istanza: ma tutto questo è legale? 

Non c’è nulla di male, il tempo passa e non possiamo pretendere che tutti abbiano le idee chiare su alcune professioni che cinquant’anni fa non erano così strutturate. Però il cenone di Natale del 2022 è stato diverso: con il Qatargate tutti si sono seduti a tavola già con i compiti fatti, con una loro opinione sulla professione del lobbista, pronti per interrogarti.

A fronte della tanta informazione creata dallo scandalo nel Parlamento europeo, questo Natale ho rovesciato i ruoli: ho chiesto ai miei commensali come si immaginano un lobbista e il suo lavoro. Ecco l’identikit emerso. Partiamo dal fatto che il lobbista è un «faccendiere» (che poi, forse, un giorno qualcuno ci spiegherà davvero cosa voglia dire) dall’aria losca ma al tempo stesso anonima, in grado di confondersi tra la gente. È un uomo (nell’immaginario le donne non sono contemplate) in completo gessato, con una ventiquattrore di pelle in mano, di poche ma mirate parole, che sa con chi scambiarle, che probabilmente non alza mai la voce per passare inosservato e insediarsi nei gangli del potere. È «un opaco portatore di interessi particolari, a beneficio di pochi, per oscure multinazionali che si arricchiscono sulle spalle della povera gente», probabilmente promuovendo un business del vizio come il tabacco, il gioco d’azzardo o qualche altro comparto moralmente deplorevole come il settore delle armi, e che forse inquinano l’ambiente riversando i liquidi tossici delle loro fabbriche nei nostri mari e fiumi.

Ipotizziamo per un attimo che questo losco figuro entri nei luoghi del potere, con questa famosa valigetta, ovviamente piena di banconote di alta pezzatura, e con un ultimo sforzo d’immaginazione lo vediamo anche offrire il contenuto a un qualsivoglia legislatore, e che quest’ultimo accetti a patto di far approvare una legge a favore degli interessi del losco figuro. Quest’azione appena descritta ha un nome ben preciso “corruzione”, è prevista dall’articolo 318 del codice penale e stabilisce che «il pubblico ufficiale che, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa è punito con la reclusione da uno a sei anni».

La differenza tra corruzione e lobbying è evidente, poiché la corruzione deforma una decisione e ne consegue il reato, l’azione di lobbying è invece l’attività di convincimento del legislatore circa la bontà dei propri interessi grazie alla pura argomentazione.

Se dovessimo dire ciò che il lobbying non è, inizieremmo con il ribadire che non è uno scambio di favori per soldi, non è la compravendita di legislatori, non è un’attività sottotraccia operata da anonimi uomini.

Il lobbying è l’azione della rappresentanza di interessi di gruppi – sia chiaro, legittimi – messa a punto da professionisti che, al favore delle tenebre, preferiscono il sole di mezzogiorno. E ancora – tenetevi forte, cari commensali – i lobbisti sono i primi a chiedere una legge che regolamenti la loro professione. Prendo in prestito le parole del lobbista Fabio Bistoncini per dire che il lobbying, infatti, è l’esercizio di fornire un contributo migliorativo alla scelta del legislatore.

L’esercizio della rappresentanza di interessi è il sale della democrazia, perché è uno strumento per ovviare all’insipienza del legislatore. Più semplicemente: come può un parlamentare approvare una legge su un tema intricato e complesso, di cui ha una conoscenza puramente superficiale? Il decisore pubblico non può – per ragioni naturali ed evidenti – essere onnisciente, e per cultura democratica può (deve!) consultare operatori (detti anche stakeholders) per i quali quel tema intricato e complesso è pane quotidiano. Il rappresentante di interessi non garantisce l’approvazione di una legge, ma il suo lavoro è trasmettere la legittimità degli interessi del suo cliente in sede istituzionale.

In Italia sono andati a vuoto più di sessanta progetti di legge a oggetto la regolamentazione dell’attività di rappresentanza di interessi, tutti volti, in primis, a uniformare la normativa di settore e ovviare i diversi vulnus legislativi nel comparto della rappresentanza. Quanto tempo deve aspettare un ex politico prima di poter diventare un lobbista? Quali oneri e onori per chi si iscrive al Registro dei rappresentanti di interessi? È necessaria l’istituzione di un albo dedicato? Queste sono solo alcune delle domande che i commensali del cenone natalizio dovrebbero porre al legislatore.

Google.

Estratto dell'articolo di Giuliana Ferraino per il “Corriere della Sera” il 25 Gennaio 2023.

«Google abusa della sua posizione dominante sul mercato della pubblicità digitale da 15 anni». Con questa pesante accusa il dipartimento di Giustizia (DoJ) americano (insieme ad altri otto Stati, inclusa la California) fa causa ad Alphabet, casa madre di Google, chiedendo al tribunale di obbligare il gruppo californiano a separare tre diverse attività dal suo core business di ricerca, da YouTube e da altri prodotti come Gmail.

[…] Secondo il governo, il piano di Google per affermare la propria posizione dominante è stato quello di «neutralizzare o eliminare» i rivali attraverso le acquisizioni e di costringere gli inserzionisti a usare i suoi prodotti rendendo difficile l’uso dei prodotti dei concorrenti. «Google ha usato mezzi anticoncorrenziali, escludenti e illegali per eliminare o ridurre drasticamente qualsiasi minaccia al suo dominio sulle tecnologie pubblicitarie digitali», si legge nell’azione legale intentata presso la corte federale di Alexandria, in Virginia, un documento di quasi 150 pagine frutto di anni di indagini.

«Il dominio di Google nel mercato degli annunci significa che un numero minore di editori è in grado di offrire i propri prodotti senza addebitare costi di abbonamento o di altro tipo, perché non possono contare sulla concorrenza nel mercato pubblicitario per mantenere bassi i prezzi degli annunci», ha spiegato ieri in una conferenza stampa il procuratore generale Merrick Garland. Il risultato è che «i creatori di siti web guadagnano meno e gli inserzionisti pagano di più».

 […] Non è la prima volta che Google finisce nel mirino dell’Antitrust Usa. Nel 2020 l’amministrazione Trump ha citato il gruppo di Mountain View in giudizio, sostenendo l’esistenza di pratiche anti-concorrenziali nel mercato della ricerca e della pubblicità quando si fanno le ricerche. Nel nuovo procedimento le accuse sono durissime: «Google ha ostacolato in modo significativo la concorrenza e scoraggiato l’innovazione nell’industria della pubblicità digitale e ha impedito al libero mercato di funzionare in modo equo».

Alphabet respinge le accuse. In un comunicato ha dichiarato che la causa «si basa su un’argomentazione errata che rallenterà l’innovazione, aumenterà le tariffe pubblicitarie e renderà più difficile la crescita di migliaia di piccole imprese e di editori».  […]

Le ONG.

Unione europea, il caso delle lobby mascherate da Ong: chi sono e cosa fanno. Milena Gabanelli, Luigi Offeddu e Francesco Tortora su Il Corriere della Sera il 23 Gennaio 2023.

Bruxelles è ancora la capitale mondiale delle lobby, che dall’interno delle istituzioni cercano di influenzare le politiche della Ue. «No Peace Without Justice» e «Fight Impunity», già classificate come Organizzazioni non governative che si occupano di diritti umani e non perseguono fini commerciali, secondo la magistratura belga li perseguivano eccome, nelle persone dei propri capi: tangenti dal Qatar per migliorarne l’immagine alla vigilia dei Mondiali di calcio. Era successa la stessa cosa nel 2013 al Consiglio d’Europa: il denaro arrivava dall’Azerbaijan per affossare un rapporto sul trattamento dei prigionieri politici, e ad incassare una onlus di Saronno dell’allora presidente dell’Assemblea del Ppe Luca Volontè. Nel 2021 Volonté fu condannato in primo grado per corruzione, poi prescritto in appello e ora pende il ricorso in Cassazione. Scriveva Shakespeare: «Se il denaro scorre veloce tutte le porte si aprono».

Il registro delle lobby

Nel 2011 per sapere «chi» incontra «chi» e «per parlare di cosa» è stato istituito presso la Commissione il Registro per la trasparenza Ue, esteso nel 2021 anche a Parlamento e Consiglio, ma in questo caso su base volontaria. Ben 10 anni più tardi, e dopo che, già nel 2016, una consultazione pubblica durata 3 mesi lo aveva etichettato come obbligatorio. Il Registro classifica le lobby in 3 categorie: chi promuove i propri interessi o quelli dei propri membri (compagnie, aziende); gli intermediari (studi di consulenza); e chi non rappresenta interessi commerciali (associazioni no profit, Ong).

Al 19 gennaio 2023 il Registro raccoglie 12.417 iscritti, di cui 8.229 classificati come «compagnie che perseguono i propri interessi commerciali» (461 quelle italiane) e 3.488 come Ong o no profit (161 quelle italiane). Secondo Shari Hinds di Transparency International il sistema è incline agli errori perché le linee guida sulle categorie sono vaghe e generali, diverse organizzazioni non si registrano nella categoria corretta e i controlli sono pochi.

I requisiti richiesti alle Ong

Le Ong o no profit, già classificate come tali dal loro statuto originario in Italia, per iscriversi a Bruxelles devono: «certificare che promuovete i vostri interessi e la vostra finalità principale e/o settore di attività è di natura non commerciale o lucrativa; che promuovete gli interessi collettivi dei vostri membri e il principale settore di attività del 50% o più dei vostri membri è di natura non commerciale o lucrativa». Si tratta di auto-dichiarazioni, e ci si iscrive al Registro per concorrere ai bandi della Commissione sui programmi comunitari, o per sensibilizzare le istituzioni su temi di interesse collettivo. Fra le tante e nobili Ong che si occupano di tutela dell’ambiente, accoglienza dei migranti, benessere animale, cura delle malattie rare, disabilità, associazioni di genitori di bambini malati oncologici, troviamo però anche questo lungo elenco.

Profit o no profit

Unione italiana per l’Olio di palma sostenibile: dichiara di avere come obiettivo principale quello di promuovere l’olio di palma sostenibile da parte delle aziende. I suoi membri finanziatori sono infatti le aziende che vendono prodotti a base di olio di palma: Unigrà, Ferrero, Nestlé, ecc, ma Francesca Ronca - responsabile delle relazioni Ue - dichiara: «Non perseguiamo interessi commerciali di una singola categoria, noi siamo un’associazione trasversale che ne riunisce diverse altre».

Consorzio italiano compostatori: raggruppa 144 aziende fra produttori e gestori di impianti di compostaggio, biometano, fertilizzanti organici. Dichiara un budget di 2 milioni di euro, tuttavia è registrata come «organizzazione che non persegue fini commerciali».

OITAF, «Organizzazione internazionale trasporti a fune»: il suo presidente Markus Pitscheider spiega: «Rappresentiamo i costruttori delle funivie e filovie, le ditte che producono le funi, e gli esercenti. Ma ribadisco che noi non abbiamo fini commerciali».

Conciliatore bancariofinanziario: ha come obiettivo la risoluzione delle controversie fra intermediari finanziari e la loro clientela senza finire in tribunale. Opera sia sul territorio nazionale che estero. Il budget è di 1,8 milioni di euro e fra gli associati ci sono Abi, Federcasse, Assofin, Assogestioni ecc.

Wellness Foundation o Fondazione Benessere: sede a Cesena, promuove uno stile di vita sano, è classificata come Ong-no profit. Il suo presidente è Nerio Alessandri, fondatore e presidente di Technogym, leader mondiale nella produzione di attrezzi per lo sport e il tempo libero. Che beneficerà commercialmente dalle attività della fondazione. «Vi richiameremo per darvi ogni chiarimento», rispondono dall’ufficio relazioni esterne. Chiamata non pervenuta.

Wec Italia: riunisce tutti gli operatori del settore energetico ed è sostenuto dai contributi di Ansaldo Energia, Eni, Esso, Saipem, Gruppo Api, Snam, Terna. «Ma siamo da statuto un’associazione che non ha scopi commerciali», sostiene il suo segretario generale Paolo D’Ermo.

Piedmont Aerospace Cluster: promuove l’industria aerospaziale del Piemonte, e concorre ai bandi della Commissione per i progetti aerospaziali Ue. È sostenuta dalla Regione e dai suoi associati: colossi dell’industria strategico-militare come Leonardo, Thales Alenia, Ge Avio.

Elettricità Futura: rappresenta 500 imprese fra cui Enel, Edison, Eni. Fino al 9 gennaio figura fra le no profit. Ma alle 13.48 del 9 gennaio, dopo la richiesta di chiarimenti di Dataroom, passa fra le «associazioni di commercio e affari».

Ente italiano di accreditamento(Accredia): finanziato da vari ministeri italiani, rilascia i certificati di omologazione alle norme Ue, e riscuote le relative quote. Il 10 gennaio, alla domanda di spiegazioni, la portavoce Francesca Nizzero spiega: «Accredia è una no profit ed è stata assegnata alla categoria Ong per similitudine, il che non impedisce di chiedere una maggiore appropriatezza». Il 17 gennaio Accredia si cancella dal Registro.

PostePay S.p.A.: segue il mercato unico digitale e fino all’11 gennaio era classificata fra le «Ong che non perseguono fini commerciali». La mattina dello stesso giorno Francesca Cipollaro, responsabile delle relazioni Ue, ci dice che «deve essere un vecchio refuso». Due ore dopo PostePay figura fra le compagnie che «promuovono i propri interessi o gli interessi dei propri affiliati».

ETO, European Tuning Organization (letteralmente: «Messa a punto delle auto nella Ue»): si occupa di omologazioni meccaniche. Sul sito web afferma di rappresentare «centinaia di piccole e medie imprese che generano decine di migliaia di posti di lavoro». Nel Registro Ue, dichiara di «non rappresentare interessi commerciali». Il 12 gennaio, poche ore dopo la richiesta di spiegazioni di Dataroom, ETO ricompare nel Registro come «compagnia che promuove i propri interessi o quelli dei propri associati».

Radiati il 30% degli iscritti

Ma perché si iscrivono come «no profit» quando rappresentano gli interessi dei loro finanziatori, il cui interesse finale è il profitto? E pertanto dovrebbero figurare fra le lobby commerciali o associazioni di categoria. Le possibili risposte sono due:

1) collocandosi all’interno di un mondo portatore di interessi collettivi e sociali è più facile avere presa sull’interlocutore istituzionale;

2) il portatore di interesse si iscrive «in buona fede» nella categoria sbagliata.

Ma qualcuno controlla questo Registro? È cruciale, perché la confusione danneggia la reputazione di migliaia di volontari e associazioni che realmente tutelano gli interessi della comunità

Fra i requisiti richiesti c’è scritto: «Se un ente è istituito come organizzazione o associazione senza scopo di lucro a norma del diritto nazionale, ma rappresenta gli interessi collettivi di enti a scopo di lucro nel settore imprenditoriale, industriale o commerciale, rappresenta interessi commerciali e non rientra in tale categoria».

Già nel 2018, la Corte dei conti europea definiva «inaffidabile» la classificazione delle Ong, e a seguito di contestazioni nel 2021 nove controllori dipendenti dai vertici Ue hanno revisionato le tre categorie del Registro. Nel loro rapporto si legge: «3.360 controlli effettuati; il 30% è stato radiato per inammissibilità o mancato aggiornamento».

Gli italiani i più «distratti»

Dopo la girandola di valigette piene di contanti, la presidente del Parlamento europeo Metsola vuole che gli eurodeputati seguano le stesse regole della Commissione: obbligo di registrare gli incontri con i lobbisti di qualunque categoria, dalle multinazionali ai sindacati o associazioni no profit. Già, perché fino ad oggi sono solo «incoraggiati» (testuale). E i politici italiani sono risultati fra i più «distratti»: negli ultimi 3 anni solo il 42% ha ufficializzato almeno un meeting con i portatori d’interessi (Qui il documento). Contro il 76% della Germania, il 62% della Francia e il 54% della Spagna.

Tornando infine alle nostre Ong: delle 161 iscritte al Registro, ben 132 dichiarano «zero incontri». Vuol dire in sostanza che si sono iscritte al Registro in previsione di incontri futuri, oppure gli incontri ci sono stati, ma i parlamentari non li hanno segnalati.

Gli imballatori.

Che pacco! Il grosso grasso cartello milionario delle scatole di cartone. Lidia Baratta su L’Inkiesta l’8 Febbraio 2023.

Il settore del cartone ondulato, esploso con l’ecommerce, è stato manipolato a danno dei concorrenti più piccoli. L’Antitrust ha comminato multe milionarie per trentaquattro aziende coinvolte, confermate dal Tar e dal Consiglio di Stato. E ora le aziende danneggiate chiedono risarcimenti record, con una stima da 1,5 a 2,5 miliardi di euro

Mentre l’e-commerce cresceva e i pacchi consegnati si moltiplicavano, in Italia alcuni produttori di scatole di cartone hanno visto impennare i ricavi e altri invece sono stati costretti a lasciare i dipendenti a casa o addirittura a chiudere i battenti.

Sono gli effetti del “cartello del cartone ondulato”, messo in piedi da una trentina di grandi aziende, italiane e non, che hanno alterato il mercato delle scatole per oltre un decennio. Fino alle sanzioni record dell’Antitrust comminate nel 2019 e confermate in queste ore dal Consiglio di Stato. Una valanga che ora potrebbe trasformarsi in richieste di risarcimenti miliardari a catena, investendo tutta la filiera. Perché anche i grandi e piccoli consumatori di imballaggi di cartone, da Amazon in giù, potranno entrare nel procedimento e chiedere la conta dei danni.

Una storia di concorrenza sleale, listini di prezzi comuni e riunioni segrete tra le imprese tutta a vantaggio dei colossi del mercato del cartone. Tra il 2004 e il 2017, l’accordo illecito che emerge dalle sentenze della giustizia amministrativa sarebbe costato circa sessantamila euro l’anno ai trecento piccoli scatolifici “trasformatori” italiani, quelli che acquistano i fogli di cartone ondulato per produrre gli imballaggi che ogni giorno viaggiano in tutto il Paese.

«A un certo punto abbiamo addirittura riscontrato che, sul mercato, i fogli di cartone ci costavano di più dei prodotti finali venduti dalle stesse aziende da cui acquistavamo la materia prima, visto che alcuni nostri fornitori, spesso, erano anche nostri concorrenti», racconta Andrea Mecarozzi, presidente dell’Associazione Italiana Scatolifici, realtà che oggi raggruppa un centinaio di scatolifici trasformatori, nata nel 2010 come scissione dall’associazione di categoria afferente a Confindustria. «Le anomalie erano sempre più evidenti. Non riuscivamo più a stare sul mercato», spiega Mecarozzi. «Così abbiamo unito le nostre forze e, stremati, abbiamo deciso di fare segnalazione all’Antitrust».

L’Authority ritiene fondata la denuncia e nel 2017 avvia l’indagine. «Nel frattempo, quattro aziende si sono “pentite”, raccontando i dettagli del cartello messo in piedi per controllare il mercato», prosegue Mecarozzi.

Le sanzioni per trentaquattro aziende arrivano nel 2019, con una multa da 287 milioni di euro, cifra record se paragonata alla media delle sanzioni dell’Authority. Le sentenze dell’Antitrust vengono immediatamente impugnate dagli imprenditori condannati, ma sia il Tar del Lazio, sia le recenti sentenze del Consiglio di Stato confermano l’impianto accusatorio e le multe.

Le indagini svelano l’esistenza di non uno ma ben due cartelli paralleli «anticoncorrenziali». Il primo controllava la vendita di cartone ondulato agli scatolifici e il secondo la vendita delle scatole ai clienti finali. E a essere coinvolti, come si legge nelle carte, non sono solo i colossi del cartone, ma anche la Gifco, Gruppo italiano fabbricatori cartone ondulato, l’associazione di categoria membro di Assografici, affiliata a Confindustria. «L’Antitrust ha confermato quanto avevamo riscontrato. Decidevano chi, quando e come far pagare», dice Mecarozzi. «Venivano stabiliti fermi produttivi, listini e variazioni di prezzo totalmente slegate dagli andamenti reali della materia prima».

Il Consiglio di Stato finora ha confermato venti sentenze del Tar su trentaquattro. In alcuni casi sono state ricalcolate le sanzioni. Negli unici quattro casi in cui il Tar aveva accolto il ricorso, il Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione.

Nelle sentenze di Palazzo Spada, si parla di un «modo di agire comune sul mercato», con «scambi informativi» su «i prezzi o le quantità» allo scopo di «contingentare la produzione o ripartirsi il mercato» per «garantirsi vantaggi o extraprofitti».

Il Consiglio di Stato, nella sentenza che riguarda Gifco, fa riferimento a «due intese restrittive volte ad alterare le dinamiche concorrenziali nei mercati della produzione e commercializzazione di fogli di cartone ondulato e di imballaggi di cartone ondulato». La prima, chiamata «intesa fogli», viene descritta come la «definizione di prezzi di vendita dei fogli agli scatolifici non verticalmente integrati e il coordinamento dei livelli di produzione degli stessi». La seconda, chiamata «intesa imballaggi», riguarda la «definizione dei prezzi di vendita, ripartizione dei clienti (accordi di non aggressione) e delle forniture ai clienti condivisi (accordi di non belligeranza)». Il Consiglio di Stato parla di imprese favorite dall’associazione di categoria e di un fitto calendario di riunioni di vertice riservate alle imprese più influenti, con email «rivelatrici dell’intesa illecita».

In termini di volumi, l’Italia è il secondo produttore di cartone ondulato in Europa, dopo la Germania. Nel 2021, il comparto italiano ha prodotto 4,4 milioni di tonnellate di imballaggi in cartone, con una crescita del dodici per cento rispetto al 2020, grazie soprattutto al boom dell’e-commerce, visto che le scatole in cartone ondulato utilizzate per le spedizioni rappresentano più del novanta per cento degli ordini. Il comparto degli scatolifici “trasformatori”, composto da circa trecento piccole medie imprese, fattura complessivamente circa 1,3 miliardi di euro all’anno, occupando cinquemila persone.

Secondo uno studio commissionato all’Università Bocconi, tra il 2005 e il 2013 gli scatolifici “trasformatori” hanno perso il dieci per cento di quote di mercato a favore degli scatolifici “integrati verticalmente”. Dalle stime degli economisti, si ricava che il danno annuo per scatolificio è di circa seicentomila euro, pari a circa otto milioni di euro tra il 2004 e il 2017.

«Mentre l’imballaggio di cartone è cresciuto fortemente negli ultimi anni, tra l’e-commerce e la necessità di sostituzione della plastica, molti di noi vedevano ridursi il proprio lavoro, arrivando a dover tagliare il personale o addirittura alla chiusura degli scatolifici», racconta Mecarozzi.

Ora le piccole imprese strangolate dal doppio cartello si apprestano a chiedere la conta dei danni. Il valore stimato dei risarcimenti, secondo l’Associazione degli scatolifici, è tra 1,5 e 2,5 miliardi di euro. Qualche impresa sta già procedendo con la causa civile. E in tanti via via si accoderanno. Con gli studi legali che sono in fermento per accaparrarsi tra nuovi clienti, pronti a fare battaglia contro le aziende del cartello. Tra coloro che richiederanno somme di denaro ai colossi del cartone, potrebbero non esserci solo gli scatolifici. Se le tante imprese, più o meno grandi, che hanno acquistato scatole di carta, ritenessero di essere state danneggiate perché i prezzi erano superiori o alterati, potranno fare richieste di risarcimento.

«Oggi, a distanza di cinque anni dall’avvio delle indagini, non possiamo essere certi che la situazione sia cambiata», dice Mecarozzi. «L’impennata dei prezzi delle materie prime ha spiazzato il mercato, oltretutto in un momento in cui c’è stata una scarsa reperibilità della carta anche perché, con la sostituzione della plastica per motivi ecologici, la domanda è aumentata».

Il cartello delle scatole di cartone: l’intrigo milionario dietro il boom dell’ecommerce. Il settore del cartone ondulato, cresciuto a dismisura grazie agli acquisti online, è stato manipolato per eliminare i concorrenti più piccoli, confermano le sentenze del Consiglio di Stato e i dossier dell’Agcm. E ora le aziende danneggiate chiedono risarcimenti record. Gloria Riva su L’Espresso il 25 Gennaio 2023.

Se c'è una cosa che il commercio online ha contribuito a far lievitare è l'uso e consumo di imballaggi. Arriva il pacco Amazon, si strappa la scatola per verificare che il prodotto sia quello giusto e la scatola finisce nel bidone. Fine della storia.

In realtà dietro alla breve vita del cartone ondulato c'è un racconto decennale di concorrenza sleale, cartelli, rendite di posizione, battaglie legali, un intrigo per cui l'Agcm, l'Autorità Garante ha sanzionato una trentina di società a pagare 287 milioni di euro di multa: una cifra da capogiro se paragonata alla media delle multe comminate dall'Antitrust, che ha svelato l'esistenza di ben due cartelli paralleli, diretti dai colossi del mercato del cartone per controllare e – incidentalmente – strangolare una miriade di piccoli e medi scatolifici che lavorano sul territorio italiano. Una vicenda in cui non solo Davide ha vinto contro Golia, ma si appresta a chiedere pure i danni con gli interessi, per un valore stimato fra il miliardo e i 2,5 miliardi di euro, perché nella causa civile che i piccoli produttori italiani di scatole si apprestano a intentare contro le grandi imprese del cartello, stanno aderendo in moltissimi che dichiarano di essere stati vittima della maxi truffa.

La storia inizia nel 2017 quando un centinaio di imprenditori, riunitisi nell'Associazione Italiana Scatolifici, fa alcune segnalazioni all'Antitrust, lamentando che il costo del cartone segue un prezzo non logico - con oscillazioni del costo che spesso significano lavorare in perdita - e lamentano che i fermi produttivi dei loro fornitori li mettono in difficoltà: «Succede perché i nostri maggiori competitori sono anche i nostri fornitori. Nel mercato del cartone ci siamo noi, gli scatolifici del territorio, che ci limitiamo a fornire alle aziende italiane scatole e scatoloni. E poi ci sono le multinazionali e le grandi aziende verticalizzate, che non si limitano a produrre il cartone ondulato, partendo dal macero della carta e via dicendo, ma a loro volta vendono scatole», racconta Andrea Mecarozzi, presidente dell'Associazione Italiana Scatolifici, che rappresenta una parte dei 350 produttori italiani, capaci di generare un giro d'affari da 4,5 miliardi di euro, in crescita del 13 per cento l'anno e che danno lavoro a cinquemila persone.

Nella fase istruttoria, l'Antitrust raccoglie la confessione di una delle imprese del cartello, le società del gruppo Ds Smith, una multinazionale britannica del packaging che opera anche sul nostro territorio. Confessano altre tre grandi aziende e salta fuori che il 90 per cento delle imprese - trenta società in tutto fra cartiere e produttori di cartone - almeno tra il 2004 e il 2017 hanno messo in piedi un doppio cartello per definire i prezzi di vendita e i fermi degli stabilimenti produttivi danneggiando i piccoli scatolifici. «L'illecito contestato dall'Antitrust è solo la punta dell'iceberg, perché abbiamo il sentore che da svariati decenni il mercato è falsato, ma l'Agcm ha giustamente fermato le indagini al 2004. Andare ulteriormente a ritroso sarebbe stato impossibile», dice Mecarozzi, che continua: «Capivamo che le variazioni dei prezzi della materia prima erano totalmente scollegate rispetto alla reperibilità del materiale e l'acquisto del cartone ondulato non seguiva alcuna logica di volume di lavoro o di costo del mercato. Compravamo il cartone a un determinato prezzo, lo lavoravamo e facevamo il possibile per essere competitivi, ma nonostante questo sul mercato trovavamo scatole che costavano meno della materia prima da noi acquistata. Questo voleva dire che qualcuno stava giocando sporco. Per i piccoli imprenditori che si limitano ad acquistare il cartone ondulato era diventato difficile sopravvivere, perché veniva a mancare quel margine operativo essenziale per mantenere in vita l'azienda. Ecco perché, stremati, abbiamo deciso di fare ricorso all'Antitrust». 

Del resto è da oltre dieci anni che il business degli scatoloni è in costante crescita e fa gola a molti. E dopo i lockdown causati dal Covid, il giro d'affari è cresciuto esponenzialmente, viste le richieste di spedizioni. A titolo di esempio, il New York Times stima che entro il 2025 la dimensione del mercato globale degli imballaggi in cartone raggiungerà i 205miliardi di dollari, ovvero il prodotto interno lordo della Nuova Zelanda.

Ora, le sentenze dell'Antitrust sono state immediatamente impugnate dagli imprenditori condannati, ma sia il Tar del Lazio, sia le recentissime sentenze del Consiglio di Stato, pronunciate in questi giorni, confermano l'impianto accusatorio e le multe. «Il Consiglio di Stato ha definitivamente riconosciuto l’esistenza delle due intese restrittive della concorrenza, in violazione delle norme che il diritto nazionale ed il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea pongono a presidio della fisiologiche dinamiche competitive, in cui è coinvolta anche Gifco, l’associazione Confindustriale che raggruppa le imprese produttrici e trasformatrici di cartone», esulta Mecarozzi. Scrive il Consiglio di Stato in una delle sentenze che i due consolidati e rodati cartelli «hanno tolto risorse per molti anni, facendo perdere via via quote di mercato agli scatolifici, un comparto composto da piccole e medie aziende italiane».

Storia chiusa, dunque? Per nulla. A brevissimo si aprirà la causa civile e gli scatolifici, ma anche i grandi e piccoli consumatori di scatole, potranno insinuarsi nel procedimento e chiedere un risarcimento. Ad esempio, se grande società produttrice di pasta dovesse ritenere di aver subito un danno dalle oscillazioni del prezzo degli imballaggi, e se Amazon dovesse pensare lo stesso, e ancora, se le moltissime piccole e medie imprese che per spedire i loro prodotti hanno acquistato una o più scatole di carta, ritenessero di essere state danneggiate perché i prezzi erano superiori o alterati, potranno presentare un ricorso in Tribunale. Secondo primissime stime dell'associazione degli scatolifici, le richieste di risarcimento potrebbero attestarsi tra il miliardo e i 2,5 miliardi di euro: una cifra enorme che sarebbe a carico delle trenta aziende coinvolte. 

Le fondazioni bancarie sono una lobby privata allergica ai controlli. Il governo va in soccorso di enti diventati espressione di potentati locali autoreferenziali, in grado di influenzare pesantemente il mondo politico e finanziario in un rapporto di forza rovesciato. Francesco Fimmanò su L'Esprresso il 23 maggio 2023.

Il bonus previsto nella Finanziaria 2023 a favore delle Fondazioni bancarie che si faranno carico di incorporare quelle che si sono irrimediabilmente impoverite fino ad avere meno di 50 milioni di patrimonio, è l’ennesimo intervento che governo e Parlamento di turno fanno quando la potentissima lobby “chiama”.

Le fondazioni bancarie rappresentano una fenomenologia rilevante ma il loro ruolo è molto ambiguo e si traduce nella difficoltà di individuare con precisione la loro missione sociale e la trasparenza delle loro gestioni. Anche questa volta la politica, invece di verificare cause e responsabilità dell’impoverimento e delle dissipazioni, corre a sostenere il sistema con un credito di imposta pari al 75 per cento delle erogazioni in denaro a beneficio dei territori di operatività delle fondazioni incorporate in gravi difficoltà.

Questi enti sono detti di origine bancaria perché con la legge Amato del 1990 conferirono le aziende bancarie pubbliche di cui erano titolari in società per azioni, conservandone il controllo strategico. La legge Ciampi del 1999 ne inibì il ruolo di holding bancarie, rendendole persone giuridiche private grant-making, che utilizzano cioè i frutti del proprio patrimonio per erogare risorse a favore di progetti gestiti da terzi. La riforma Tremonti del 2001, dall’altro lato, rese ancora più invasiva l’ingerenza del potere pubblico a discapito della veste formale.

E infatti la lobby protegge e cura, come fosse un totem, questa veste giuridica formale di “enti privati” i cui organi sono però prevalentemente nominati da soggetti pubblici ed il cui enorme patrimonio deriva dal risparmio pubblico, a guisa di un piccolo fondo sovrano. Peraltro, nonostante i divieti della legge Ciampi, permane ancora oggi quell’abbraccio mortale con le banche conferitarie che ha determinato in molti casi il loro drastico impoverimento.

Si tratta di un ircocervo sfuggito via via finanche all’originario disegno del legislatore, divenendo in molti casi espressione di potentati locali autoreferenziali in grado di influenzare pesantemente il mondo politico e finanziario. E basta guardare alla longevità formidabile di molti amministratori per comprenderne appieno la capacità di ribaltare lo stesso rapporto di forza con la politica. Recuperando l’etimo della parola “politica”, è evidente che ci trova dinanzi a veri e propri soggetti pubblici che, grazie alla veste privatistica, sfuggono a qualsiasi controllo democratico. Le fondazioni bancarie continuano insomma a catalizzare l’attenzione in quanto risultano centri di potere per i patrimoni milionari di cui dispongono, nonché interlocutori privilegiati del sistema bancario grazie ai meccanismi di nomina dei vertici aziendali.

Pur volendo ammettere la logica del supporto ai territori, tutto dovrebbe avvenire invece secondo regole di trasparenza, efficienza, legalità, e soprattutto in un regime di controlli, vista la natura delle risorse e l’origine delle nomine degli amministratori.

Eppure non appena qualcuno giustamente osserva, ad esempio, la naturale soggezione al controllo della Corte dei Conti, si levano enormi polemiche e dibattiti, agitatati da fini legulei, per affermarne la natura del tutto privatistica e quindi fuori dall’ambito del controllo dei giudici contabili. Laddove in un sistema caratterizzato dalla moltiplicazione delle figure incaricate della cura di interessi generali, la questione non è discettare sulla natura giuridica ma su quali norme “orizzontalmente” riferite alle amministrazioni e agli enti pubblici vadano ad esse applicate, sulla base delle finalità perseguite e degli interessi tutelati. Ed è evidente che la stretta affinità con enti come le fondazioni “previdenziali” o quelle “lirico-sinfoniche”, pacificamente soggette ai detti controlli, dovrebbe imporne il medesimo trattamento senza neppure bisogno di una apposita legge. D’altra parte queste fondazioni se sono così utili e ben gestite quale preoccupazione hanno ad assoggettarsi a forme di controllo cosiddetto di gestione?

Investire i lauti profitti delle banche in opere a sostegno delle comunità può sembrare a prima vista un progetto meritorio nel quale le fondazioni assumono un ruolo di moderno mecenate. Ma, tolto il velo dell’apparenza, la situazione è quella descritta.

Peraltro, l’obbligo per le fondazioni di investire il 90% dei proventi nella regione di appartenenza privilegia il Nord rispetto al Sud del Paese, contribuendo a enfatizzare una differenza di disponibilità che ha ormai ampiamente superato il livello di guardia. Inoltre, se le sedi delle grandi fondazioni e delle relative grandi banche sono concentrate al Nord, lo stesso non si può dire dei loro correntisti o in generale della loro attività operativa.

La verità è che la lobby delle fondazioni è la più potente di tutte e vive nell’ombra senza che il cittadino comune sappia neppure di cosa parliamo: altro che concessionari di autostrade, spiagge cave o torbiere. Di fatto, le fondazioni bancarie, pur nell’originario divieto, non hanno mai cessato di occuparsi delle attività bancarie con il ruolo determinante nella nomina degli amministratori. E nel contempo dispongono di enormi risorse da spargere a pioggia liberamente e senza alcuna evidenza pubblica sui territori al di fuori di ogni regola di contabilità pubblica. Ed ogni volta che qualcuno propone regole si alzano polveroni che neppure all’epoca della glaciazione si sono mai visti.

Sciopero 17 novembre, il Garante si difende: “Esposizione inaspettata, istruttoria accuratissima”. Il Tempo il 15 novembre 2023

Il Garante sugli scioperi, Paola Bellocchi, si è presentata davanti alla commissione trasporti della Camera per spiegare il no a Cgil e Uil allo sciopero generale di 8 ore di venerdì prossimo, con la successiva richiesta di riduzione della durata della protesta a 4 ore: “Abbiamo esplorato tutte le possibilità interpretative e ci è sembrato che i presupposti per uno sciopero generale non ricorressero. Lo sciopero generale nazionale infatti deve riguardare la generalità delle categorie, la proclamazione cioè deve essere aperta mentre questo caso era una proclamazione chiusa perché conteneva un elenco di settori esclusi dal contrasto alla manovra del governo. Questo per assicurare al sistema una coerenza e una tenuta complessive altrimenti a partire da domani ogni confederazione farebbe una sciopero generale alla carta. Ogni sindacato - ha continuato il Garante - sceglierebbe le categorie che stanno dentro, quelle che stanno fuori, introducendo una instabilità in una categoria di sciopero che ha già provocato problemi alla commissione visto che il panorama sindacale è pieno di altre sigle e di un numero notevole di scioperi generali”.

Negli ultimi giorni Bellocchi è stata accusata di una vicinanza politica al governo Meloni e al ministro Matteo Salvini, cosa che avrebbe influenzato il lavoro sullo sciopero del 17 novembre. Ma punto per punto viene smontata la tesi della sinistra: “C’è stata una esposizione mediatica che non mi sarei mai aspettata dopo una istruttoria accuratissima e consapevole delle conseguenze trattata con sensibilità estrema anche perché la nostra interlocuzione con Cgil e Uil, sia prima che dopo, è sempre stata improntata ad un dialogo aperto e franco. Avevamo già segnalato informalmente che questa proclamazione di sciopero generale era del tutto illegittima e non poteva rientrare nei presupposti di applicazione della delibera del 2003. La legge 146, infatti non menziona mai lo sciopero generale e proprio per facilitarne l’esercizio la Commissione nel 2003 ha adottato una delibera del tutto convenzionale stabilendone i presupposti e così come l’ha creata la Commissione può anche interpretarne l’applicazione”. 

“La prassi della Commissione è stata quella di considerare gli scioperi proclamati non per la generalità delle categorie pubbliche e private ma per settori ancorché molto ampi, come scioperi plurisettoriali”, ripete formulando alcuni esempi: “Lo sciopero del pubblico impiego non è generale perché riguarda un settore ancorché importante del lavoro pubblico. Quello generale nazionale dei trasporti è generale solo nella prassi sindacale ma non generale secondo la disciplina di origine convenzionale. Non è generale nel senso richiesto perché pur coinvolgendo tutti i trasporti, a livello nazionale, un settore amplissimo del mondo del lavoro, non ha questo elemento unificante che riguardi tutti”. “Questa è stata la scelta interpretativa”, la parte finale del discorso di Bellocchi.

Abuso di sciopero. I dati smontano la lagna di Landini, della Cgil e degli altri sindacalisti: ogni anno migliaia di scioperi, spesso inutili. Francesco Giubilei su Nicolaporro.it il 14 Novembre 2023.

Il Garante degli scioperi ha dichiarato illegittimo lo sciopero generale indetto dalla Cgil e dalla Uil per venerdì 17 novembre. È in atto uno scontro politico: da un lato Landini, il segretario della Cgil; e dall’altro lato Matteo Salvini, vice premier e ministro dei Trasporti, che è arrivato a minacciare la possibilità che vi sia una precettazione dello sciopero.

D’altro canto è una delle prime volte in cui gli stessi sindacati non rispettano il volere del Garante degli scioperi, denunciandone la “nomina di carattere politico” (è sempre stato così, però è un ente terzo che dà un giudizio nel merito di uno sciopero generale).

C’è un tema di fondo quando parliamo di scioperi in Italia. Un articolo della Costituzione, l’articolo 40, sancisce un diritto che è sacrosanto. È giusto che i lavoratori possano astenersi dal lavoro, però stiamo attenti. Un conto è il diritto allo sciopero, un altro conto è l’abuso dello sciopero, che poi è quello che sta avvenendo nel nostro paese da ormai vari anni.

Vi leggo qualche dato. Nel 2023, anno che non si è ancora concluso, sono stati proclamati 1.425 scioperi, di cui 470 revocati. Nel 2022, invece, sono stati proclamati 1.520 scioperi, di cui 470 revocati. Nel solo settore dei trasporti, che come sapete è quello più colpito, sono stati proclamati 626 scioperi. Allora io mi chiedo: quando si proclamano nel corso di un anno più di 1.500 proteste siamo oppure no di fronte ad un abuso dello strumento?

Peraltro molti sindacalisti storici, ne cito uno su tutti, Giuseppe Di Vittorio, dicevano che lo sciopero ha ragione d’essere solo se utilizzato con parsimonia…Francesco Giubilei, 14 novembre 2023

Il disco rotto della Cgil e dello sciopero ad ogni manovra «di destra».   Andrea Soglio su Panorama il 14 Novembre 2023

Continua il muro Governo-sindacati sul 17 novembre. Una sfida che sembra avere un unico scopo: ridare visibilità a Landini ed i suoi a corto di iscritti La questione dello sciopero di venerdì continua ad infiammare il mondo politico e non solo. Oggi il muro contro muro è proseguito, come da copione. Salvini ieri ha minacciato la presentazione ed oggi ha invitato i sindacati al ministero per trovare una soluzione, un modo per salvaguardare il diritto allo sciopero (non in discussione) con il rispetto delle regole come richiesto non dal governo ma dal Garante. Fin dalla prima mattina Landini e (meno) Bombardieri hanno tempestato radio, agenzie e tv per raccontare che il Garante è politicamente schierato con il governo, che il sindacato ha rispettato ogni norma e che è tutta una manovra per cercare di limitare i poteri democratici per concludere con il solito slogan contro il regime fascista. Dall’altra parte Salvini ed il resto del governo tengono il punto, forti proprio delle notazioni del Garante, ricordiamolo, ente esterno, terzo, non sotto controllo dell’esecutivo. La sensazione, vista da fuori con freddezza e distacco, è che la CGIL sta cercando un po’ di quella visibilità e prestigio persi da tempo. È del tutto naturale e nel gioco delle parti che il principale sindacato di sinistra contesti la manovra di destra; l’avrebbero fatto a prescindere con o senza ragioni, per partito preso. E il conseguente sciopero o agitazione è un classico: «la legge di bilancio «colpisce i più poveri e accresce la precarietà; «premia gli evasori e con la flat tax aumenta l’iniquità del sistema fiscale. Nei prossimi giorni proporremo queste valutazioni a Cisl e Uil. Considereremo tutte le iniziative necessarie a sostegno delle nostre richieste per apportare i cambiamenti necessari». Queste frasi di Landini non sono di oggi, ma esattamente di 12 mesi fa; una sorta di copia incolla bello pronto da estrarre dal cassetto anche il prossimo autunno. Landini alza la voce forse nell’unico mese in cui sa bene di poter avere in mano un microfono, un motivo plausibile (la manovra) per dare ai suoi iscritti un segno di vita. ecco, gli iscritti. Il numero degli iscritti ai tre principali sindacati italiani è il quarto segreto di Fatima, una cifra tenuta nascosta e, nel caso, non verificata e verificabile. Di sicuro si sa che sono in calo, costante da anni, e che una bella fetta, variabile tra il 30 ed il 40%, non è costituita da lavoratori ma da pensionati. Non sappiamo oggi cosa succederà venerdì, che tipo di problemi e blocchi si troveranno a dover gestire gli italiani, vittime incolpevoli anche in questa situazione. Ci pensi la CGIL, è davvero il caso di urlare tanto e disturbare così la gente che di problemi ne ha già a sufficienza?

Sciopero, anche il comunista Rizzo accusa Landini: "Ha tradito i lavoratori". Dario Martini su Il Tempo il 15 novembre 2023

Se un comunista doc come Marco Rizzo arriva a deplorare come viene guidata la Cgil significa che i tempi sono davvero cambiati. L’ex deputato ed ex parlamentare, che con Francesco Toscano ha fondato Democrazia Sovrana e Popolare, non risparmia critiche a Maurizio Landini. Non è tenero neppure con Matteo Salvini, anche se forse questo c’è da aspettarselo.

In questo scontro sullo sciopero di venerdì 17 novembre, chi ha ragione tra i due, Salvini o Landini?

«Hanno torto entrambi. Salvini critica Landini perché fa sindacato. In realtà Landini non fa sindacato. Per nulla».

Come no, cosa fa?

«Non fa nulla. Questi scioperi avvengono quando ormai il mondo del lavoro è stato distrutto completamente: dalle privitazzazioni, dal JobsAct, dall’articolo 18. Hanno distrutto tutto. Adesso Landini fa sciopero? Cosa faceva quando c’era la Fornero che aumentava l’età pensionabile? Fecero quattro ore di sciopero. Poi so che Landini all’epoca era segretario della Fiom, ma comunque era una roba importante».

Allora perché ora vogliono scioperare?

«Perché adesso governa il centrodestra. Un centrodestra che ha fatto e continua a fare le stesse cose che faceva Draghi. Perché Salvini e la Meloni hanno preso i voti parlando di quota 41, di soldi agli invalidi, di soldi alle pensioni. Poi hanno fatto esattamente quello che gli diceva di fare Draghi, ovvero hanno fatto il contrario di quello che hanno detto per prendere voti. Quindi se devo dare la palma di chi dei due ha ragione, la risposta è nessuno dei due. Intendiamoci, Salvini fa la sua parte. Ma ha tradito ciò che ha detto all’elettorato. Proprio per questo deve fare il gioco delle parti attaccando Landini. E Landini cosa deve dire dopo aver tradito i lavoratori per oltre vent’anni? Deve attaccare Salvini. Si aiutano l’un l’altro. Ma la sostanza è che oggi il mercato del lavoro in Italia è stato tradito».

È nell’interesse dei lavoratori scioperare il 17 novembre?

«Dato che non viviamo su Marte, c’è un esempio concreto di ciò che si dovrebbe fare. In Francia hanno aumentato l’età pensionabile da 62 a 64 anni. In Italia l’hanno aumentata a 67 complici i governi del Pd e della Cgil che ha fatto solo 4 ore di sciopero. La signora Fornero ha portato a termine il compito per cui era messa lì. Senza colpo ferire. In Francia invece hanno messo in campo una battaglia che è durata mesi. Quello è fare sindacato. Quello è fare battaglia politica sociale. Io che sono stato iscritto alla Cgil 35 anni mi permetto di dire che in Francia è stato possibile quello proprio perché non c’è la Cgil. Perché oggi la grande Cgil che fu di Di Vittorio, tradita sino all’osso dalla concertazione sindacale, dal fatto di sedere ai tavoli sociali con governo e padronato, ha distrutto ciò che avevano fatto i nostri padri».

Landini protesta contro la mancata approvazione del salario minimo. Fa bene?

«Blatera di salario minimo quando ci sono ben 22 di contratti nazionali, con paghe ben inferiori ai 9 euro. Che sono comunque una miseria. Contratti tutti siglati dal sindacato concertativo, Cgil in testa. Il 30 maggio di quest’anno, ad esempio, è stato rinnovato il contratto della vigilanza privata con retribuzione oraria di circa 5 euro. Poi ancora quelli delle calzature a 7,9 euro; quelli dell’industria armatoriale a 7,6 euro; quelli dell’industria del vetro a 7,1 euro; gli operai agricoli a 7 euro l’ora; gli addetti delle imprese di pulizia a 8,1 euro. Landini si deve vergognare. I sindacati concertativi non servono i lavoratori, fanno comodo solo ai sindacalisti».

Tra l’altro, nella scorsa legislatura la Cgil non sosteneva il salario minimo...

«Perché governavano Conte e Draghi. Per quello la Cgil faceva finta di niente». Chi dà la linea, la Cgil al Pd o il Pd alla Cgil? «La dà Draghi ad entrambi. Ho pubblicato su Twitter una foto di Draghi con la mano sulla spalla a Landini. Quell’immagine dice tutto. Quella è una mano che mettono i presidenti americani su tutti gli altri presidenti. Biden lo ha fatto con Johnson, con Macron. L’unico che non ha voluto quella mano lì è stato Raul Castro con Obama». La Cisl avrebbe dovuto aderire allo sciopero? «Anche questo fa parte del gioco delle parti. Quando Cgil e Uil diranno una ciglia in più, loro dovranno dire no, va tagliata ancora a metà. Questi sono sindacati che servono ai sindacalisti».

Per fare cosa?

«Per campare. Poi, dopo la carriera nel sindacato, vanno in Parlamento. Hanno fatto tutti così. Di Vittorio però non c’è finito. La grande Cgil non era questa roba qua».

Il segreto di Landini, più politico che sindacalista. Lo scontro con il Garante e con Salvini, ma non solo. Landini e la Cgil non si occupano più dei lavoratori, è politica a tutti gli effetti. Massimo Balsamo su Nicolaporro.it il 14 Novembre 2023

Clima di alta tensione tra governo e sindacati. Come ormai tutti sanno, Cgil e Uil hanno proclamato sciopero generale contro la manovra dell’esecutivo Meloni venerdì 17 novembre.  Una pretesa di trascorrere un weekend lungo sulla pelle di milioni di italiani secondo il ministro Matteo Salvini, con Landini in prima fila. Ma non solo. Il Garante degli scioperi ieri ha bocciato la protesta delle sigle: non si tratta di uno sciopero generale ma plurisettoriale, ribadendo la necessità di rimodulare la mobilitazione. “Il Garante mette in castigo il capriccioso Landini”, la punzecchiatura della Lega. Le indicazioni della commissione di garanzia sono chiare: l’invito ad escludere i settori del trasporto aereo e dell’igiene ambientale e a rimodulare l’orario dell’astensione per i vigili del fuoco e per il trasporto pubblico locale, ferroviario e merci. Ma lo scontro è vivo, anzi vivissimo.

Nonostante l’esclusione dalla protesta del trasporto aereo, Cgil e Uil non hanno intenzione di fare passi indietro dopo le osservazioni del Garante. Tirare dritto, di tutto pur di mettere i bastoni tra le ruote del governo. Ma Salvini non ha intenzione di restare a guardare: senza un dietrofront, è già pronta l’ordinanza per precettare i lavoratori. “Se non rispetteranno le regole, quello che chiede la Commissione e prevede la legge, sono io direttamente ad imporre delle limitazioni orarie”, la conferma del vicepremier ai microfoni del Tg1. La strada è tracciata, ossia seguire le indicazioni della Commissione di garanzia: autorizzare quattro ore al massimo per lo sciopero dei mezzi pubblici e otto ore per i treni. “Non si può fermare un Paese e tenerlo ostaggio per un giorno intero”, il ragionamento di Salvini. Con buona pace dell’ambizioso Landini.

Sì, ambizioso. Perché il segretario generale della Cgil non sembra intenzionato a lavorare esclusivamente per il bene dei lavoratori, ma anche per il suo. “È tempo di cambiare il Paese. Salvini dovrebbe avere più rispetto per i lavoratori e le lavoratrici che scioperando ci rimettono dei soldi e lo stanno facendo per migliorare questo Paese”, la linea di Landini. Ma anche gli esperti del settore sono chiari: non ci sono i presupposti. Ma nessuno è sorpreso: questa mobilitazione è programmata da mesi ed è semplicemente strumentale. Zitto su Magneti Marelli (Calenda ha una sua teoria) e su altri dossier, il leader Cgil ha concentrato tutti i suoi sforzi contro l’esecutivo. D’altronde aveva promesso lo sciopero già mesi fa, quando la manovra economica non era stata nemmeno citata dal governo.

Il diritto allo sciopero è sacrosanto, sia chiaro. Ma la mossa studiata da Cgil e Uil sembra avere un unico obiettivo: danneggiare imprese, lavoratori e famiglie. Landini è disposto a tutto pur di andare fino in fondo. Senza dimenticare un altro dettaglio: la legge di bilancio deve essere ancora approvata e qualcosa potrebbe cambiare nel corso dei prossimi giorni. Ma, come anticipato, Landini scenderebbe in piazza anche con l’introduzione del salario minimo e le altre astruse richieste del suo sindacato. Più che pensare al bene dei lavoratori, la Cgil fa politica a tutti gli effetti. Non stupiscono le recenti voci sulle tentazioni di Landini di scendere in politica: il suo desiderio appare palese, guidare la sinistra nella riscossa contro il centrodestra. Magari unendo Pd e M5s, che non ci hanno pensato più di un secondo prima di sostenere i sindacati in questa battaglia. Massimo Balsamo, 14 novembre 2023

Tutt'altro che trasparenza. Landini, in conferenza stampa, fa la vittima ma non chiarisce: che fine fanno i soldi della CGIL? Il denaro proviene dalle quote degli iscritti e dalle trattenute sulle buste paga di milioni di lavoratori. Eppure, secondo il sindacalista, “Sono della Confederazione e basta”. Ecco perché chiedere trasparenza ed esigere di conoscere le finalità di spesa e i beneficiari non dovrebbe risultare come un dito nell’occhio. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 23 Settembre 2023 

Maurizio Landini ha la coda di paglia? Indice una conferenza stampa per “Rispondere agli attacchi politici”, poi però davanti ai giornalisti non chiarisce un solo punto sulle osservazioni che Il Riformista gli ha mosso.

Ci accoglie per farci sapere, piccato, di sentirsi “sotto attacco”. Anzi, di più: “Sotto un attacco politico mai visto prima”. L’assalto alla sede di Corso Italia dunque era poca cosa, rispetto alle inchieste giornalistiche. Se la prende con Fratelli d’Italia, che sui licenziamenti e le spese ha ripreso il nostro materiale per rivolgere una interrogazione parlamentare alla ministra del Lavoro, Marina Calderone. E invece di usare l’occasione per fare un’operazione di trasparenza, si limita a gridare una difesa d’ufficio, a sfoderare l’arma spuntata della propaganda. Sul caso del licenziamento di Massimo Gibelli “agli atti delle strutture ministeriali non risultano specifiche segnalazioni”, ma “il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali vigilerà sulla vicenda segnalata e, come per tutti i datori di lavoro, verranno svolti gli opportuni controlli di legge”, risponde Calderone durante il question time. Una risposta in punta di penna. Ma fa niente: apriti cielo! “Vigileremo noi sul governo!”, tuona Landini. “Noi siamo una realtà democratica, il più grande sindacato d’Europa”, dice in un crescendo rossiniano.

I cronisti si guardano tra loro: ci ha convocati per dirci che nessuno può e deve fargli i conti in tasca? Sì, ma non solo: una notizia in effetti la dà. Gianni Prandi, il compagno di scuola di San Polo D’Enza, aiuta la comunicazione CGIL, sì, ma lavora gratis. C’è stato lui dietro all’impostazione generale del nuovo assetto della comunicazione CGIL, sì. Ma non è mai stato pagato. “Da noi non ha visto neanche una lira”, si sbraccia Landini. “Male”, gli facciamo notare: i lavoratori si pagano. Chiedere una consulenza, e realizzarne il progetto senza pagarlo, come si può definire in termini sindacali? Landini incassa e nicchia. Anche perché se quell’imprenditore si dovesse anche occupare – così per fare una ipotesi, al di fuori della CGIL – della campagna di comunicazione di una qualche realtà che ha avuto a che fare con trattative sindacali, ricollocazioni di personale, esuberi, i maligni potrebbero perfino ricordarsi che esiste la fattispecie della “procurata altra utilità”, nel campo dei benefici derivanti da prestazioni professionali non retribuite.

Rimaniamo sulle certezze: avere a disposizione i dati di cinque milioni di persone significa un tesoro, in termini di profilazione. E torniamo a Corso Italia: nella sontuosa sala “Di Vittorio” ci saranno state una sessantina di persone; i giornalisti sono una dozzina, intorno a noi soprattutto dirigenti e funzionari del sindacato che sono venuti a sostenere il Segretario, a fargli vedere che ci sono. Landini fa sedere accanto a sé Alberto Cassandra, da trent’anni nell’ufficio stampa CGIL anche se non è iscritto all’Ordine dei Giornalisti. Speriamo che almeno lui venga pagato. Vengono proiettate delle slide a mò di diapositiva in bianco e nero dell’Italia che non va. Quando Landini accenna al Jobs Act lo fa per dire che non c’entra nulla con i contratti interni al sindacato. E quanto allo strombazzatissimo referendum per abolire il Jobs Act, sirena che ha risvegliato perfino Sergio Cofferati, adesso i torni di Landini si fanno sfumati: “Nei prossimi mesi valuteremo quali iniziative intraprendere su quelle leggi balorde”. E dopo che per una buona mezz’ora il Segretario generale mena il can per l’aia, raccontando che in Italia c’è l’inflazione e che purtroppo si muore sul lavoro (tutto vero, ma lo sapevamo già) ci permettiamo di fargli qualche domanda anche noi.

Se il portavoce è un lusso superfluo e Gianni Prandi non è mai stato pagato, che fine fanno i 2.700.000 euro che vediamo sul bilancio alla voce comunicazione? La Radio che c’era fino al 2019, oggi non c’è più. Massimo Gibelli, il portavoce che secondo Landini costava troppo, percepiva 57.000 euro lordi all’anno. Dove vanno a finire quei milioni di euro? “I soldi della Cgil vengono spesi dalla Cgil”, scandisce su di tono, Landini. Constatazione inoppugnabile. Ma come? “Li usiamo per tutte le esigenze di comunicazione, per esempio…”, si interrompe Landini. Poi ha una trovata: “Per esempio ci stampiamo le tessere. Per milioni di iscritti. Spendiamo circa trecentomila euro per farlo e la spesa della tipografia va sempre sotto la voce Comunicazione”. Una verifica puntuale, però, è impraticabile: il bilancio pubblico si compone di capitoli sommari e non è possibile leggere voce per voce, fattura per fattura. Altro che trasparenza. E Landini vede rosso ogni volta che si pretende di fare chiarezza in quei conti.

I soldi della CGIL che secondo Landini sono della CGIL e basta, provengono in realtà dalle quote degli iscritti e dalle trattenute sulle buste paga di milioni di lavoratori. Ecco perché chiedere trasparenza ed esigere di conoscere le finalità di spesa e i beneficiari non dovrebbe risultare come un dito nell’occhio. La ministra del lavoro, Calderone preciserà, a seguito della conferenza stampa: “Non c’è nessuna intenzione di vigilare sul sindacato in quanto tale, anzi siamo assolutamente consapevoli che il principio della libertà sindacale deve essere tutelato. Ma ho l’obbligo di non essere reticente”. Reticenze e omertà che non possono trovare asilo nelle pieghe del “segreto d’ufficio”. Chiediamo conto a Landini di quell’Assemblea generale che ha recentemente approvato un regolamento che vieta le sessioni aperte e le comunicazioni pubbliche – men che meno, social – dei lavori. Landini non conferma e non smentisce: “Mi sembra normale che ogni organizzazione decida cosa rendere pubblico e cosa no, alle volte andiamo in streaming”, dice. A noi risulta un verbale che attesta tutt’altro: l’espresso divieto di usare registrazioni audio e video durante le riunioni. Se il clima è quello di questo incontro stampa, versa sul gelo rigido. Dopo quattro domande, i giornalisti vengono liquidati. Usciamo avendo più dubbi di quando siamo entrati. E una certezza: in questa gestione qualcosa non torna.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Pierpaolo Bombardieri, l'innominato senza argomenti che grida al fascismo. Pietro De Leo su Libero Quotidiano il 19 novembre 2023

Quando Pierpaolo Bombardieri fu eletto segretario generale Uil nel 2020, una scheda dell’Agi raccontava che, sul muro alle spalle del suo tavolo di lavoro, era appesa incorniciata la “Lettera al figlio” di Ruyard Kipling. “Un inno al coraggio e alla determinazione rivolto ai giovani”, spiegava l’agenzia. Chissà, magari il vento nuovo che l’ha avvolto in questi ultimi mesi lo spingerà a riporla in uno scatolone, quella poesia incorniciata. Dato che Kipling, autore britannico d’epoca vittoriana, è odiato assai dagli alfieri della Cancel Culture e dell’antifascismo militante per via del suo sostegno al colonialismo. Kipling, tuttavia, ne ha scritta un’altra di poesia, la celebre If (Se), che comincia così: «Se riuscirai a mantenere la calma quando tutti intorno a te la perdono...». Ecco, segnaliamo questo passaggio, al segretario del (fu) sindacato riformista. Ormai abbandonato al vento tatticamente scalmanato della Cgil, il sindacato che ha lanciato l’opa sul terreno politico della disastrata sinistra. Un abbandono fino a conseguenze infauste, non soltanto la perdita di una specificità nell’universo sindacale, con un Bombardieri fagocitato dal più baldanzoso Landini. Ma anche lo schianto d’immagine, con una mobilitazione, quella di ieri, che è andata molto al di sotto le aspettative. 

Un insuccesso preceduto da vagonate di retorica impropria: «Violenza verbale, un atto di squadrismo», aveva detto Bombardieri a proposito delle accuse di Salvini circa uno sciopero vagamente strategico per allungarsi il week end. Il pericolo del Ventennio, che noia! La condivisione, dunque, di una retorica più propriamente cigiellina, il sindacato che del “pericolo fascista” ha fatto la sua ossatura qualificante nella Segreteria Landini. Eppure, da Bombardieri ti aspetteresti qualcosa di diverso, così, quanto meno ad occhio. Robusto e dal sorriso giocondo (al contrario di un certo piglio serioso di Landini), il racconto che promana dal suo account instagram è quello di un abile pescatore che mostra orgoglioso tonni e guglie imperiali. Nelle pause dall’impegno sindacale, ovvio. Una “forza tranquilla”, per dirla mitterandiamente, o magari una persona tranquilla e basta. Che non richiama a cuspidi intransigenti nemmeno leggendo la biografia. Studioso di Keynes e di Stigliz, si è laureato in Scienze Politiche all’Università di Messina, iniziando il suo percorso di rappresentanza nella Uil giovani, di cui è segretario generale nei primi anni ’90. Intanto, è impegnato come ricercatore nell’Istituto superiore perla prevenzione e la Sicurezza del Lavoro. Nel sindacato “adulto”, poi, inizierà da segretario organizzativo della Confederazione Regionale Laziale.

Una figura che trasmette il modello dello studioso prestato al sindacalismo. Lech Walesa, prima sindacalista e poi leader politico, per dire faceva il montatore elettrico nei cantieri navali a Danzica. E allora ecco che in questa fase in cui Bombardieri è il Robin di Landini, in questo romanzo sindacale uscito un po’ scarno, ci consoliamo con la storia. Rileggendo le pagine di quel che accadde intorno al decreto di San Valentino, 1984, quando la reazione intorno alle iniziative del governo Craxi per affrontare l’inflazione spaccò il sindacato. A rimanere isolata nell’intransigenza fu solo l’area più radicale della Cgil. Tutto il contrario di oggi, epoca in cui anche una sigla dalla tradizione riformista come la Uil si accoda al treno degli antigovernativi. Un treno, però, senza meta.

Bonanni: “Noi sindacalisti abbiamo fatto errori. Oggi si pensa troppo a potere e politica”. Edoardo Sirignano su L'Identità il 29 Settembre 2023 

Bonanni: “Noi sindacalisti abbiamo fatto errori. Oggi si pensa troppo a potere e politica”

“Fino a qualche anno fa vigeva l’idea che l’armonia dell’organizzazione veniva garantita dalla libertà d’opinione. Da un po’ di tempo a questa parte, invece, tale patto non formale è venuto meno. Per un’opinione diversa si rischia di essere licenziati o addirittura cancellati dal sindacato. Chi vince, pur avendo il consenso, però, non può pensare di privare gli iscritti della loro libertà o autonomia. Altrimenti le stesse istituzioni vengono meno”. A dirlo Raffaele Bonanni, ex segretario generale della Cisl.

Anche i sindacati, oggi, sono costretti a licenziare. Cosa è cambiato rispetto a qualche anno fa?

Gli iscritti sono calati e quindi anche gli incassi non sono quelli di una volta. Le disponibilità di bilancio sono diverse. Un’altra ragione, poi, è il venir meno di una regola non scritta.

Quale?

Fino a qualche anno fa c’era un codice interno che veniva rispettato da chi aveva scelto di fare una vita diversa. Vigeva l’idea che l’armonia dell’organizzazione era garantita dalla libertà d’opinione. Questa andava di pari passo con una condizione di tutela interna. Da un po’ di tempo a questa parte, invece, tale sorta di patto non formale è venuto meno. Per un’opinione diversa si rischia addirittura di essere licenziati dal sindacato o emarginati. La verità è che nel passato anche gli scontri più cruenti erano protetti da tolleranza e rispetto. Nel sindacato di oggi ciò non accade.

Quali le ragioni del cambiamento?

Le leadership non devono essere imposte, ma devono essere frutto di un consenso. Detto ciò, chi vince, pur essendo rappresentativo, soprattutto in Italia, sbaglia a ritenere che tutto quanto non deciso dal vertice debba essere messo in discussione. Chi sgarra, quindi, paga.

Sono sempre meno, intanto, i nostri concittadini che si iscrivono a un sindacato. Perché?

Le aziende sono sempre più piccole, non sono quelle di una volta. È cambiato il paradigma del lavoro. Si tende a essere più artigiani. Ognuno prende il proprio carico e lo fa nello spazio e nel tempo che ritiene opportuno. Viene meno, pertanto, un rapporto collettivo. Se a tutto ciò, aggiungiamo che le organizzazioni, sia politiche che sindacali, non si sono adeguate ai tempi, capiamo le ragioni della mancanza di adesioni.

Cala pure la fiducia verso le organizzazioni…

Andando oltre la retorica, fare il sindacalista dovrebbe essere una vocazione. Si tratta di impegnarsi in orari straordinari. Nella mia esperienza non esisteva tempo e limite all’impegno.

Come avvicinare le persone a questa professione. Lo Stato può fare qualcosa?

La verità è che il sindacato deve sapersi adattare da solo al contesto attuale. Altrimenti rischiamo di trovarci di fronte a un cambiamento degenerato e sottoposto a poteri statali e politici. Il sindacato deve restare autonomo.

A cosa si riferisce?

Alla Magneti Marelli si impedisce a un’istituzione di poter entrare in uno stabilimento solo perché di un colore politico diverso. In questo modo, però, non si aiutano gli operai. Rispetto a certe battaglie bisognerebbe andare oltre gli steccati.

Autonomia, talvolta, significa per qualcuno non rispettare lo Statuto dei Lavoratori.

Può avvenire che quella morale che doveva esserci all’interno delle organizzazioni, purtroppo, viene meno. Il dissenso, prima, non era punito, ma garantito. Molto spesso, oggi, accade il contrario. Se non ti sottoponi a chi comanda, vai fuori. La libertà di espressione è un lontano ricordo.

In tutto ciò, i giovani vedono le organizzazioni di categoria come un superfluo…

Siamo in una fase di transizione, dove c’è il vecchio che resiste e il nuovo che incalza. Bisogna saper separare bene le forze per contenere il passato e portarlo nel futuro. Per fare questo, occorre innanzitutto cultura. Mi riferisco alla modernità.

A proposito di cultura, il sindacalista, talora, viene indicato, in modo errato, come un peso…

L’Italia, in questa crisi, ha molto più bisogno di sindacato. Menomale che ci sono persone che si alzano la mattina presto e parlano con gli altri. Oggi come non mai, deve esserci qualcuno che regola sulle cose concrete il rapporto tra imprese e lavoratori. Il problema vero è che in questi tempi bisogna essere più forti. Bisognerebbe prendere degli integratori culturali. Non è la società giusta quella dove gli individui non si possono organizzare e non riescono a gestirsi collettivamente con il potere economico.

Spesso, però, sentiamo parlare di scandali, come rubare nelle istituzioni o addirittura prendere in giro chi dovrebbe essere garantito…

Le pecore nere ci sono e ci sono sempre state. Ogni cassetta, purtroppo, ha la sua mela marcia. Detto ciò, non possiamo dire alle persone di non mangiare più mele.

Così la Cgil mi ha cacciata: a casa con due figli dopo 35 anni di lavoro. Rita Cavallaro su L'Identità il 29 Settembre 2023

Si riempiono la bocca con i diritti dei lavoratori e scendono in piazza per il salario minimo, ma nelle segrete stanze della Confederazione se ne infischiano di quei diritti, arrivando perfino a licenziare i dipendenti dalla sera alla mattina. La Cgil di Maurizio Landini sta mostrando, giorno dopo giorno, il vero volto del più grande sindacato italiano, quello che con i suoi 5 milioni di iscritti si definisce il “baluardo contro l’aumento delle diseguaglianze sociali e la precarietà dei contratti”. Peccato che proprio l’era Landini ha aperto una stagione di licenziamenti in tronco, mascherati con la formula “per giustificato motivo oggettivo” e sfruttando perfino il Job Acts. Sta facendo discutere la cacciata di Massimo Gibelli, lo storico portavoce della Cgil messo alla porta dopo quarant’anni nel sindacato. Ma la sua storia è solo la punta dell’iceberg, perché dalle filiali sparse in tutta Italia casi come quello di Gibelli stanno diventando quasi la normalità, insieme a tutta una schiera di denunce per demansionamenti e presunti casi di mobbing. Gente che, comunque, ancora una stipendio a casa lo porta, a differenza di Gibelli&Co, licenziati da un giorno all’altro e sul piede di guerra, convinti ad andare fino alla fine in quella che si prospetta una battaglia in tribunale.

E che molto spesso si rivela un ulteriore dispendio di denaro, perché il sindacato resta irremovibile contro il reintegro e le vertenze vanno avanti per anni, fino alla Cassazione. Come nel caso di Igina Roberti, la cui vicenda non solo ha dell’incredibile, ma è in grado di suscitare lo sdegno dei più, per i tempi e le modalità con cui si è consumata. Igina, infatti, è stata liquidata con due parole, “sei licenziata”, in piena emergenza Covid, il periodo più buio della nostra storia moderna, carico di sofferenze per le persone che finivano intubate, segnato dalla paura di morire, dalle restrizioni, dai lockdown, da un distanziamento sociale che ha pesato sui rapporti umani. Il sindacato che parlava a favore di quelle persone in difficoltà economica, a causa degli esercizi commerciali chiusi o delle aziende fallite, ha fatto ancora peggio quando il 7 maggio 2019 ha convocato Igina nella sede Fillea-Cgil di Taranto per congedarla senza troppi fronzoli. Una donna sola, madre di un figlio di vent’anni, con due familiari disabili si è vista risolvere, dopo 35 anni di servizio, un’assunzione a tempo indeterminato con una semplice comunicazione verbale. “Mi hanno detto che la motivazione del licenziamento era legata alla diminuzione degli iscritti al sindacato, mi hanno chiesto di consegnare immediatamente le chiavi e di non presentarmi il giorno dopo al lavoro”, racconta a L’Identità Igina Roberti, che da allora ha avviato una battaglia legale per la difesa dei suoi diritti. “Per due giorni mi sono recata ugualmente in ufficio, senza poter entrare, perché era stata cambiata la serratura. Solo poi ho ricevuto la lettera di licenziamento. Ho scritto a Landini, non mi ha mai risposto.

Per me è stata una tragedia, perché all’improvviso mi sono trovata senza stipendio, 1.500 euro, e sono finita in strada, non riuscendo a pagare l’affitto. Io e mio figlio ci siano dovuti trasferire a casa di mia madre e mio fratello, che hanno già tanti problemi, e nessuno si è mai preoccupato della mia situazione. Sono l’unica donna licenziata in tronco dalla Cgil”. Alla faccia del “baluardo contro l’aumento delle diseguaglianze sociali”. E alla demagogia della tutela del lavoro si contrappone la presa di posizione della Confederazione, che non solo si è opposta alla reintegrazione di Igina, ma si è rifiutata di raggiungere qualsiasi tipo di accordo. “Se mi avessero pagato almeno i sei anni di contributi che mi mancano per la pensione io avrei chiuso la faccenda, ma non hanno voluto”, ha aggiunto Igina, sottolineando quanto sia stata dura per lei, che nel corso della sua vita ha sempre creduto nei principi portati avanti del sindacato, “vedere l’avvocato dei paladini del lavoro che andava contro una lavoratrice in modo così pesante”.

Tutta colpa del landinismo, secondo la donna, entrata in Fillea a ventun anni e da allora passata attraverso vari segretari. “Una volta credevo in quei valori, l’era più bella è stata quella di Giorgio Cremaschi, una persona in gambissima, ma anche con Epifani non c’erano problemi. Invece questa nuova gestione di Landini è fallimentare, non fa certo gli interessi dei lavoratori”, ha detto Igina. Che non fa mistero neppure di quanto, nella Cgil, la sinistra operi con il consueto sistema delle correnti e dello spoil system. “La cosa che mi ha fatto davvero pena sono i tanti messaggi di solidarietà in privato dei compagni, i quali mi chiedevano però di non far sapere a nessuno che stavano dalla mia parte. Li ho eliminati tutti dalle mie amicizie, perché le battaglie si fanno insieme mettendoci la faccia”.

Gibelli: «La Cgil mi ha licenziato dopo 40 anni, sfruttando anche il Jobs Act». Storia di Claudio Bozza su Il Corriere della Sera l'11 settembre 2023.

«Non capita a tutti di essere licenziati dal sindacato. A me è successo. La Cgil mi ha licenziato il 4 luglio. Per di più sfruttando anche il Jobs act». Inizia così il lungo sfogo di Massimo Gibelli, storico spin doctor della Cgil, e portavoce di leader del sindacato come Sergio Cofferati, Susanna Camusso e l’attuale Maurizio Landini, che, a dire la verità, già nel 2021 aveva cancellato la figura del portavoce con una direttiva che suonava così: «Avendo lo stesso segretario generale l’abitudine e la propensione a intrattenere direttamente i rapporti con la stampa e i media in generale»... Un portavoce era diventato inutile, nello schema landiniano.

Ma Gibelli, pur senza avere più quel ruolo formale, era rimasto dipendente della Camera del Lavoro. Fino al 4 luglio scorso, quando lo spin doctor è stato licenziato in tronco. «Al rientro da un breve periodo di ferie, sono convocato dal segretario organizzativo — racconta Gibelli sulla sua pagina Facebook —. Durante il colloquio mi viene comunicato il “licenziamento per giustificato motivo oggettivo” e consegnata la lettera raccomandata a mano in cui si specifica che “la data odierna, 4 luglio 2023, è da considerare l’ultimo suo giorno di lavoro”. Seguono ringraziamenti e saluti di rito. Ovviamente il licenziamento è stato impugnato e sono ora in corso le conseguenti procedure».

Lo storico portavoce della Cgil, la cui carriera era iniziata al fianco di Fausto Bertinotti 40 anni fa, precisa poi che il sindacato ha «sfruttato anche il Jobs act». «Il diritto del lavoro — scrive ancora Gibelli — è materia complessa e mutevole, risultato del sovrapporsi di innumerevoli leggi e riforme. Il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo è previsto dall’articolo 3 della legge n. 604 del 1966, più volte modificato nel corso degli anni, in ultimo dalla riforma Fornero del 2012 e nel 2015 dal Jobs Act di Renzi. Leggi che furono fortemente contestate dal sindacato».

Gibelli racconta di essersi reso disponibile a ricoprire altri incarichi, «ma la situazione è invece progressivamente peggiorata». «Non so dire — conclude con amarezza — se la scelta della data in cui mi è stato comunicato l’ultimo giorno di lavoro sia stata casuale o ragionata. Per quanto mi riguarda, mio malgrado, voglio pensare, devo pensare, che il 4 luglio, l’Independence Day, possa essere un nuovo inizio».

Estratto dell’articolo di Laura Cesaretti per “Il Giornale” martedì 12 settembre 2023 

Il Jobs Act è «una follia». È «contro i diritti dei lavoratori». Va «abolito». «Abrogato». «Cancellato». Per tutti, tranne che per me. Già: stavolta l’illustrissimo Segretario Generale della Cgil Maurizio Landini, acerrimo nemico dei licenziamenti e della «precarietà», implacabile difensore dei lavoratori che perdono il posto per colpa dei cattivissimi padroni, promotore di un (improbabile, anzi impossibile, ma lui lo annuncia lo stesso) referendum per abrogare la riforma del lavoro firmata dall’odiato Renzi, è stato preso in castagna. 

E che la contraddizione gli faccia assai male lo dimostra lui stesso, sottraendosi con un imbarazzatissimo e muto «no comment» alla troupe tv della trasmissione Quarta Repubblica (Rete 4) che lo incalza: «Segretario, a quanto ci risulta il 4 luglio la Cgil ha licenziato lo storico portavoce del sindacato, Massimo Gibelli. Ne è a conoscenza?»

Landini gira la testa, affretta il passo, non risponde. «Segretario, è stato licenziato con una formula che si ritrova proprio nel Jobs Act, quello che la Cgil vuole eliminare. E lo utilizzate per licenziare i vostri dipendenti?» Landini serra le labbra, non risponde, scappa. 

Del resto che potrebbe rispondere? Le cose stanno proprio così, e a raccontarlo (con un intervento su Huffington Post) è stato lo stesso protagonista, malgré soi, della imbarazzante faccenda. Massimo Gibelli, 64 anni, torinese, provenienza socialista, è entrato in Cgil nel lontano 1983. Ha collaborato con tutti i grandi leader sindacali degli ultimi decenni, da Lama a Del Turco a Trentin. È stato il portavoce […] di Sergio Cofferati […]

Finché alla Cgil è approdato Landini, che ha deciso di licenziarlo. Utilizzando proprio l’immondo Jobs Act: «Oggi, 4 luglio 2023, è da considerarsi il suo ultimo giorno di lavoro», gli è stato comunicato dal segretario organizzativo Luigi Giove. Licenziamento per «giustificato motivo oggettivo». 

Già nel 2021, racconta su HuffPost Gibelli, la segreteria Cgil aveva «deliberato la soppressione della posizione di portavoce del segretario» che lui ricopriva. Motivazione surreale, ma nero su bianco: «Avendo il segretario l’abitudine e propensione a intrattenere direttamente i rapporti con i media». 

Da cui si deduce che Landini è abituato a importunare telefonicamente, per chiedere interviste e sollecitare ospitate tv, a direttori ed editori: immaginabile, vista l’ansia di visibilità del personaggio, ma non proprio usuale.

[…] «Il licenziamento è stato impugnato», scrive Gibelli. La Cgil dovrà dimostrare di non aver potuto ricollocare un dipendente nonostante vanti «5 milioni di iscritti, 12 categorie nazionali, 21 strutture regionali, 102 Camere del lavoro, patronati, Caaf, società di comunicazione, incarichi in enti pubblici, sedi in 3 continenti». […] 

Estratto dell’articolo di Laura Cesaretti per “il Giornale” mercoledì 13 settembre 2023.

Eh no, il portavoce «è un lusso che non possiamo più permetterci». Dopo 24 ore di imbarazzo e fughe dai cronisti, il segretario della Cgil Maurizio Landini tenta di uscire dall’angolo. Il caso del licenziamento ex Jobs Act dello storico portavoce del sindacato, Massimo Gibelli, gli è scoppiato tra le mani, e il capo cigiellino prova a giustificarlo. Ma la toppa non è molto migliore del buco. 

«La questione è molto semplice assicura - la Cgil ha proceduto a una riorganizzazione interna e accanto a me non vedete un portavoce, figura che non esiste più perché è un lusso che non possiamo permetterci: viviamo del contributo degli iscritti e dobbiamo avere attenzione a come spendiamo i soldi».

[…] Del resto il capo Cgil, che dichiara orgoglioso: «Io ragiono ancora in lire», ha rivelato che lui risparmia pure sul caffè: non lo prende al bar, perché «mi rifiuto di pagarlo 3000 lire». Peccato che le cose non stiano esattamente così: lo stipendio di Gibelli gravava sulla Cgil per appena 55mila euro lordi annui. 

La «riorganizzazione» della comunicazione, appaltata da Landini un paio d’anni fa alla srl Futura (di cui Cgil nazionale è socia di minoranza al 48,8% ma di cui garantisce le esposizioni), si è rivelata invece piuttosto costosa. Nel bilancio ufficiale Cgil 2021, alla voce «oneri per il comparto comunicazione», la cifra è di 2.846mila euro. Nel 2022, si registrano 2.710mila euro, di cui 2.141mila per Futura srl.

Nel corso del 2022, si legge, «sono stati effettuati versamenti in conto capitale per euro 2.002.800 per permettere a Futura srl la prosecuzione del proprio consolidamento. In data 23 gennaio 2023 Futura srl ha comunicato che a seguito della perdita di bilancio 2021 ha utilizzato euro 1.089.201 dai versamenti in conto capitale che la società ha ricevuto dalla Confederazione». 

Non solo la Confederazione, ma anche le singole categorie e le segreterie locali contribuiscono generosamente al finanziamento della comunicazione, visto che a Futura srl è stata affidata la gestione dell’intero «ecosistema multimediale» del sindacato: il portale di informazione Collettiva (9mila contatti al giorno, non moltissimi), la radio Articolo 21, i podcast, le edizioni Ediesse, il sito Cgil, i social etc. 

Un massiccio investimento voluto da Landini, che sulla propria visibilità mediatica punta come è noto moltissimo, con criteri che la minoranza della Cgil definisce «più da marketing privatistico che da propaganda sindacale».

[…] 

Ma Landini, quando si tratta di protagonismo politico personale, non bada a spese. Anche se le iniziative hanno poco o nulla a che fare con i compiti del sindacato: basti pensare che nel 2022 la Cgil ha speso 500mila euro circa (in lire, così capisce anche lui, sarebbero 1 miliardo tondo) per finanziare tre manifestazioni per la «pace» e reclamare - si immagina con gran soddisfazione dell’invasore russo - di sospendere immediatamente il sostegno alla lotta di liberazione dell’Ucraina invasa.

(ANSA martedì 12 settembre 2023 ) - "Voglio dire una cosa molto semplice: la Cgil ha proceduto ad una sua riorganizzazione interna e la scelta che è stata fatta è quella di non avere più la figura del portavoce. Nella riorganizzazione questo è un lusso che non possiamo più permetterci.

Non a caso io non ho più nessun portavoce, quindi abbiamo semplicemente fatto una riorganizzazione che va in questa direzione, né più né meno". Così il leader della Cgil, Maurizio Landini, sul tema della cessazione del rapporto di lavoro dello storico portavoce della Cgil, Massimo Gibelli, che ha detto pubblicamente di essere stato licenziato dal sindacato con le regole del Jobs Act.

"Il licenziamento con il Jobs Act non c'entra assolutamente nulla, lui era assunto dal 2012", ha sottolineato Landini, mentre la misura è entrata in vigore solo nel marzo del 2015. "Insisto - ha aggiunto Landini - noi abbiamo previsto una riorganizzazione" nell'ambito della quale "la figura del portavoce non esiste più. Accanto a me di altri portavoce non ne vedete, perché è un lusso che non possiamo permetterci - ha concluso rivolgendosi ai giornalisti presenti - Siamo un'organizzazione che vive sul contributo economico degli iscritti e dobbiamo avere attenzione su come spendiamo i nostri soldi. Non c'è altra operazione che questa".

Maurizio Landini licenzia i suoi? Ma spende 2,7 milioni. Libero Quotidiano il 14 settembre 2023

Non devono essere delle giornate facili per Maurizio Landini. Il segretario della Cgil è finito nel polverone mediatico dopo che il sindacato da lui guidato ha deciso di fare a meno un suo portavoce, Massimo Gibelli. Ma soprattutto perché il licenziamento è avvenuto grazie al Jobs Act, la norma voluta da Matteo Renzi. E che il segretario troppo spesso ha criticato. "La questione è molto semplice - assicura - la Cgil ha proceduto a una riorganizzazione interna e accanto a me non vedete un portavoce, figura che non esiste più perché è un lusso che non possiamo permetterci". Ventiquattro ore di silenzio e imbarazzo. Ma per Landini potrebbe non essere finita qui.

Come riporta Il Giornale, lo stipendio di Gibelli pesava sulla Cgil per appena 55mila euro lordi annui. La pianificazione - per usare un termine caro ai compagni - della comunicazione appaltata da Landini un paio d’anni fa alla srl Futura si è rivelata invece piuttosto onerosa. Nel bilancio ufficiale Cgil 2021, alla voce "oneri per il comparto comunicazione", la cifra è di 2.846mila euro. L'anno seguente si registrano 2.710mila euro, di cui 2.141mila per Futura srl. Nel corso del 2022, si legge, "sono stati effettuati versamenti in conto capitale per euro 2.002.800 per permettere a Futura srl la prosecuzione del proprio consolidamento. In data 23 gennaio 2023 Futura srl ha comunicato che a seguito della perdita di bilancio 2021 ha utilizzato euro 1.089.201 dai versamenti in conto capitale che la società ha ricevuto dalla Confederazione".

Un investimento poderoso voluto da Landini, che sulla propria visibilità mediatica punta moltissimo. Ma il segretario, quando si tratta di protagonismo politico personale, è di manica larga. Anche se le iniziative c'entrano poco con i compiti del sindacato: basti pensare che nel 2022 la Cgil ha circa speso 500mila euro per appoggiare tre manifestazioni per la "pace" e reclamare di sospendere immediatamente il sostegno alla lotta di liberazione dell’Ucraina occupata.

"Lobby nera" di Milano verso l'archiviazione: resterà solo il fango. Dopo oltre un anno di indagini e di fango mediatico, la procura di Milano si appresta a chiedere l'archiviazione per il caso della "Lobby nera". Francesca Galici il 19 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Dopo lunghe indagini - e molte accuse - la procura di Milano si avvia a chiedere l'archiviazione per la cosiddetta "Lobby nera", la presunta organizzazione che coinvolgerebbe esponenti di Fratelli d'Italia e anche della Lega. Il tutto era partito da un'inchiesta giornalistica del sito internet Fanpage.it e ora, a distanza di oltre un anno, il caso si avvia a una conclusione.

Cosa non torna nell’inchiesta sulla lobby nera

L'istanza, una volta vistata dall'aggiunto Maurizio Romanelli, sarà inoltrata all'ufficio gip di Milano. Tra le persone indagate inizialmente dai pm Giovanni Polizzi e Piero Basilone, che nel frattempo è diventato procuratore a Sondrio, c'erano anche l'eurodeputato di Fratelli d'Italia, Carlo Fidanza, e l'esponente della destra radicale milanese, Roberto Jonghi Lavarini. A questi due nomi si erano aggiunti, tra gli altri, anche Chiara Valcepina, consigliere comunale di Fratelli d'Italia, l'eurodeputato leghista, Angelo Ciocca, e il consigliere regionale, ex Lega, Massimiliano Bastoni. Erano in tutto 8 le persone al centro dell'indagine, finite nel calderone mediatico per settimane. Per tutti loro l'accusa è di finanziamento illecito e riciclaggio. Accusa che presto potrebbe essere archiviata.

Nelle indagini erano state effettuate perquisizioni, in particolare a carico di Jonghi Lavarini, Rotunno e Panchulidze. Questi ultimi due sono amici e collaboratori del "Barone nero", soprannome affibbiato a Jonghi Lavarini. In particolare, l'indagine che è stata aperta a seguito dell'inchiesta di Fanpage.it puntava a verificare se le parole dei protagonisti, filmati a loro insaputa dai cronisti di Fanpage, descrivevano realmente un presunto "sistema" di finanziamenti "in nero" che avrebbe funzionato davvero in altri casi.

I video filmati all'insaputa dei presenti erano numerosi, ottenuti grazie a un giornalista di Fanpage che per mesi ha lavorato come "infiltrato" nelle fila della destra lombarda. Tutto il materiale ottenuto da Fanpage era finito al vaglio della procura di Milano, che ha effettuato anche accertamenti col supporto della Guardia di finanza, fino all'istanza di archiviazione.

Dall'intervista di Brando Benifei ad Andrea Bulleri su "Il Messaggero" il 12 dicembre 2022.  

L`immagine dell`Eurocamera esce molto danneggiata da questa storia.

"Per questo bisogna agire subito con la massima severità, a tutela di chi ogni giorno in quelle aule si fa il mazzo per ottenere dei risultati. Bisogna irrobustire le difese democratiche. A cominciare da una stretta sulle cosiddette "porte girevoli": basta con gli ex parlamentari che il giorno dopo si mettono a fare i lobbisti"

Il caso. Flop dell’inchiesta di Fanpage e Formigli, Fidanza è innocente ma intanto è stato lapidato. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 21 Dicembre 2022

Dai neonazi ai soldi sporchi. I video che accusano FdI”, la Repubblica, apertura di prima pagina, 2 ottobre 2021. “La lobby nera non esiste. Formigli-Fanpage erano tutte bufale”. Apertura di Libero, 20 dicembre 2022. Come dimenticare quell’autunno di un anno fa? C’erano state prima la condanna di Mimmo Lucano, e giù polemiche sulla sinistra, poi la “scandalosa” condotta di Luca Morisi a mettere in imbarazzo la Lega soprattutto per il libero consumo di sostanze psicotrope proprio sull’uscio di casa. Ma mancavano solo quarantotto ore alle elezioni amministrative, quelle che avrebbero confermato come vincente la sinistra a Roma e Milano, quando era scoppiato il caso di Carlo Fidanza, eurodeputato di Fratelli d’Italia e uomo forte di Giorgia Meloni a Milano. È la storia che sta evaporando proprio in questi giorni, come preannunciato dal titolone di Libero, con la richiesta di archiviazione da parte della procura.

Che il “caso” non esistesse, che la denuncia del solito Formigli fosse una sciocchezza costruita dai suoi amici di Fanpage, l’abbiamo detto subito, anche se in pochi. Tra questi Pietro Senaldi, che oggi lo rivendica con giusto orgoglio. Ma anche noi del Riformista, nel nostro “piccolo ma buono” avevamo esibito un bel titolo, pur se inquinato da quel po’ di romanesco che noi del nord non apprezziamo. “E mo’ pure i giornalisti con le barbe finte”. Eh sì, perché il famoso caso politico piombato come un missile sulle elezione era il frutto di una stupidata che più demente non si può. Un emissario del blog napoletano si era “infiltrato” a Milano per tre anni nel mondo della destra con il corpo ricoperto di microfoni a caccia di delitti per poi far infliggere le pene. Magari l’intento non era di tipo elettoralistico nelle intenzioni del giornale, ma sicuramente ci ha messo sopra la zampata il caro Formigli con la sua trasmissione del giovedì, mentre si era agli sgoccioli della campagna elettorale. Che cosa di meglio della bomba sulla “lobby nera”?

Le cose sono andate così. Il signor barba finta di nome Salvatore Garzillo, che forse vive a Milano ma sicuramente sa poco della vita politica del capoluogo lombardo, per infiltrarsi nel mondo di Giorgia Meloni va ad agganciare uno che con Fratelli d’Italia non ha più nulla a che fare da tempo, che è stato espulso, e anche condannato a due anni di reclusione per apologia del fascismo. Un tipo particolare, che i giornali definiscono “il barone nero”, si chiama Roberto Longhi Javarini, è effettivamente un nostalgico, ma assolutamente innocuo. Non ci sentiremmo di escludere che nelle serate più allegre con gli amici le sue battute sul fascismo e l’antisemitismo superino l’accettabile, con condimento costante di braccio teso. Ma è uno che vive nel suo brodo. La questione è, che cosa ha scoperto sulla destra milanese di scorretto in tre anni lo spione di Fanpage? Niente, a quel che se ne sa. Anche perché se ci sono video oltre alle immagini mandate in onda l’anno scorso, non sono state rese pubbliche, nonostante le abbia a più riprese richieste la stessa Giorgia Meloni prima di prendere provvedimenti su esponenti del suo partito.

Chi è Carlo Fidanza, l’europarlamentare che si è auto-sospeso da Fratelli d’Italia per un’inchiesta giornalistica

Che cosa c’entra Carlo Fidanza in tutto ciò? È stato letteralmente incastrato in campagna elettorale, perché Longhi Javarini, che evidentemente, come succede, ha comunque mantenuto rapporti amichevoli con i vecchi camerati, lo ha contattato per presentargli colui che si palesava come un imprenditore simpatizzante della destra e che altri non era se non lo spione di Fanpage. Nelle campagne elettorali a volte si è superficiali e distratti, come quando ai comizi ti lasci fotografare non sai bene con chi, e anni dopo ritrovi quell’immagine in una base terroristica piuttosto che a casa di un mafioso. Peggio ancora va con i finanziamenti. Arriva un finto imprenditore che ti offre un contributo elettorale e stai poco attento. Dal video andato in onda su La7 un anno fa la cosa più fastidiosa è sicuramente qualche braccio teso di troppo, qualche battuta antisemita decisamente sconveniente (che giustamente ha fatto indignare la comunità ebraica ) e Fidanza che scherzava. Ma nulla di preciso su finanziamenti illeciti.

Anche perché non ci sono stati. Anzi, quando il signor Barba Finta ha dato un appuntamento a Longhi Javarini in un parco dicendo che gli avrebbe portato una valigia piena di soldi per il partito, all’incontro non si è presentato nessuno. E chissà che cosa c’era in quella valigia. E che cosa avranno registrato quel giorno gli inutili microfoni? A onor del vero qualche imbarazzo di Fidanza è stato registrato, nella famosa serata in cui si scherzava con i saluti romani. Perché, a sollecitazione del finto imprenditore che voleva finanziare una parte della campagna elettorale per le comunali, il parlamentare europeo si era un po’ barcamenato. “Le modalità sono – aveva detto – versare nel conto corrente dedicato. Se invece voi avete l’esigenza del contrario e vi è più comodo fare del black, lei si paga il bar e col black poi coprirà altre spese”.

Stiamo parlando di un aperitivo offerto a una candidata al consiglio comunale! E il direttore di Repubblica vi ha dedicato l’apertura del giornale! La cosa è finita alla Procura di Milano, anche perché il più forcaiolo e grillino del mondo ambientalista, Angelo Bonelli, ha pensato di essere lui il primo a presentare un esposto e a fare finire sul registro degli indagati ben otto persone, alludendo anche a rapporti con la mafia. Tutto in cenere, un anno dopo. E Carlo Fidanza, che senza quell’inciampo magari oggi potrebbe essere ministro, riabilitato. E stiamo a vedere come darà la notizia il quotidiano di Maurizio Molinari.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Lobby nera, smacco a Fanpage: tanto rumore per nulla. Dopo 15 mesi, il pm ha chiesto l’archiviazione per insussistenza del reato per l’eurodeputato FdI Carlo Fidanza. Redazione su Nicolaporro.it il 13 Gennaio 2023.

Doveva essere la prova decisiva, l’elemento cruciale che dimostrava la collisione della destra con il mondo post-fascista. E invece si è trattato dell’ennesimo buco nell’acqua. Vi ricordate dell’inchiesta, portata avanti per tre anni da Fanpage, sui contatti tra Carlo Fidanza, uno degli esponenti di spicco di Fratelli d’Italia, e l’ormai celeberrima lobby nera?

Bene, dopo infinite pagine di giornali, subito pronti a puntare il dito contro Giorgia Meloni, il pm di Milano, Giovanni Polizzi, ha chiesto al giudice delle indagini preliminari l’archiviazione, in quanto non sussistono le prove per sostenere l’azione dell’accusa.

Insussistenza di reato”

Bisogna concludere nel senso dell’insussistenza delle ipotesi di reato formulate perché dalle indagini svolte non sono emersi elementi in grado di confermare quanto emerso dai video“, ha specificato il pubblico ministero, che conclude: “Pur essendo emersi elementi che inducono il sospetto del ricorso a finanziamenti illeciti e la consegna della valigia che avrebbe dovuto contenere il denaro, le risultanze non hanno restituito riscontri convergenti e concludenti per sostenere l’accusa in giudizio”. 

L’obiettivo dell’inchiesta giornalistica di Fanpage, infatti, sarebbe stato quello di scovare un presunto finanziamento illecito ed operazioni di riciclaggio, che andavano a coinvolgere non solo l’eurodeputato di FdI, ma anche Lali Panchulidze, presidente dell’Associazione culturale internazionale ecumenica cristiana Italia Georgia Eurasia, e Riccardo Colato, esponente di Lealtà Azione.

Ma il pm prosegue: “Sul sistema di riciclaggio e illecito finanziamento ai partiti non hanno trovato riscontro nelle indagini svolte sull’attività del commercialista”, Mauro Rotunno, anche lui indagato e che, “a dire dei due, avrebbe dovuto avere un ruolo chiave”. Insomma, il balletto dei detrattori è stato rimandato: l’accusa chiederà l’archiviazione addirittura per insussistenza del reato. Ora, la decisione sulla richiesta del pm sarà al vaglio del gip, anche se la direzione sembra essere già stata delineata.

Fidanza: “Montagna di fango mediatica”

Nel frattempo, Fidanza ha espresso la propria soddisfazione nella serata di ieri sui canali social, attaccando anche il mondo dei media: “Dopo le anticipazioni di qualche settimana fa, la Procura di Milano ha richiesto ufficialmente l’archiviazione per me e gli altri indagati nell’inchiesta sulla cosiddetta e inesistente “lobby nera”. Ovviamente non ho mai dubitato che sarebbe finita così, ma oggi finalmente riemergo a testa alta da quella vergognosa montagna di fango mediatico“.

E conclude l’eurodeputato: “Grazie a chi mi è stato vicino e mi ha sopportato in questi lunghi quindici mesi, grazie a voi che non avete mai smesso di sostenermi e grazie anche a chi credeva di affossarmi e invece mi ha reso un uomo più forte e consapevole. Tornerà utile per proseguire la buona battaglia”.

"Niente prove...". Chiesta l'archiviazione sul caso della Lobby nera. Il pm di Milano, Giovanni Polizzi, ha ufficialmente chiesto al gip di archiviare l'indagine della Lobby nera per "insussistenza delle ipotesi di reato". Fidanza: "Fango mediatico". Francesca Galici il 12 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Richiesta di archiviazione per l'indagine della Lobby nera di Milano, aperta nell'autunno 2021 a seguito di un'inchiesta giornalistica del sito Fanpage, per finanziamento illecito ai partiti e riciclaggio a carico, tra gli altri, dell'eurodeputato di Fdi Carlo Fidanza. Nella sua richiesta, il pm di Milano Giovanni Polizzi scrive che all'esito degli accertamenti "bisogna concludere nel senso dell'insussistenza delle ipotesi di reato formulate perché dalle indagini svolte non sono emersi elementi in grado di confermare quanto emerso dai video".

Il fascicolo iniziale era stato aperto a carico di otto persone tra cui anche l'eurodeputato della Lega Angelo Ciocca, il consigliere lombardo del Comitato Nord Massimiliano Bastoni e il consigliere comunale milanese di Fratelli d'Italia Chiara Valcepina. Il pubblico ministero scrive che "pur essendo emersi elementi che inducono il sospetto del ricorso a finanziamenti illeciti e la consegna della valigia che avrebbe dovuto contenere il denaro, le risultanze non hanno restituito riscontri convergenti e concludenti" per "sostenere l'accusa in giudizio". Le parole di Giovanni Polizzi sono piuttosto chiare e indirizzate verso l’archiviazione per mancanza di prove a carico degli indagati.

Le affermazioni di Fidanza e Jonghi, spiega ancora il pm, "sul sistema di riciclaggio e illecito finanziamento ai partiti non hanno trovato riscontro nelle indagini svolte sull'attività del commercialista" Mauro Rotunno, anche lui indagato e che, "a dire dei due, avrebbe dovuto avere un ruolo chiave". Per il pubblico ministero, quanto emerso dall'indagine di Fanpage, che è stata condotta con un giornalista infiltrato nelle sedi dei partiti di Milano, quanto emerso sembra essere "un progetto futuro rimasto ancora in fase iniziale nel momento in cui sono subentrate le indagini".

Ora, la richiesta inoltrata da Giovanni Polizzi dovrà essere valutata dal gip Alessandra Di Fazio. L'istanza di archiviazione riguarda anche Lali Panchulidze, presidente dell'Associazione culturale internazionale ecumenica cristiana Italia Georgia Eurasia, e Riccardo Colato, esponente di Lealtà Azione. Fin dall'inizio, l'obiettivo dell'inchiesta era quello di verificare se le parole dei protagonisti, filmati a loro insaputa dai cronisti di Fanpage, descrivessero un presunto "sistema" di finanziamenti sommersi che avrebbe funzionato davvero in altri casi. Inutile sottolineare la soddisfazione dei protagonisti.

"Dopo le anticipazioni di qualche settimana fa, la procura di Milano ha chiesto ufficialmente l'archiviazione per e gli altri indagati nella cosiddetta e inesistente lobby nera. Ovviamente non ho mai dubitato che sarebbe finita così, ma finalmente riemergo a testa alta da quella vergognosa montagna di fango mediatico", ha scritto Carlo Fidanza in un suo intervento social, nel quale ha ringraziato tutti quelli che gli hanno creduto e lo hanno supportato in questi anni. "Grazie anche a chi credeva di affossarmi e invece mi ha reso un uomo più forte e consapevole. Tornerà utile per proseguire la buona battaglia", ha concluso Fidanza.

Fidanza, niente lobby nera ma la gogna ricomincia. Luca Fazzo il 14 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Archiviata l'inchiesta sui finanziamenti illeciti ora l'accusa è corruzione. "Non c'è stata, vedrete"

Neanche il tempo di incassare un importante proscioglimento, dopo mesi di gogna mediatica, e per l'eurodeputato di Fratelli d'Italia Carlo Fidanza arriva un siluro giudiziario che potrebbe portare alla sua decadenza in base alla legge Severino. La Procura di Milano, la stessa che giovedì aveva chiesto l'archiviazione dell'accusa di finanziamento illecito scaturita da una lunga inchiesta del sito Fanpage, annuncia con un comunicato di essere intenzionata a chiedere il rinvio a giudizio di Fidanza per corruzione aggravata. Nella ricostruzione dell'accusa, a Fidanza spetta il ruolo del corruttore: avrebbe ottenuto le dimissioni di un consigliere comunale del suo stesso partito offrendogli in cambio l'assunzione del figlio come assistente parlamentare a Strasburgo. Il giovane, Jacopo Acri, risulta tuttora sul sito dell'Europarlamento come «assistente locale» di Fidanza. Stando alle intercettazioni, l'obiettivo di Fidanza era rimpiazzare in consiglio comunale il padre di Acri, di cui non aveva grande stima, con il primo dei non eletti, di sua stretta fiducia. Si tratta di Giangiacomo Calovini, anche lui raggiunto ieri dalla richiesta di rinvio a giudizio insieme a Fidanza e Acri senior, nonché all'ex vice-coordinatore regionale di Fdi, Giuseppe Romele, nel frattempo tornato in Forza Italia.

Pezzo forte del teorema d'accusa, un messaggio di Fidanza trovato sul telefono di un indagato: «Abbiamo capito cosa vuole Acri? (...) Se serve per levarlo dai cogl.... sono disponibile a dargli un vitalizio di 1000 euro al mese fino a fine legislatura, magari mettendo sotto contratto non lui ma uno/a che lui ci dice, per agevolare la fuoriuscita». Di fatto, al figlio diciottenne di Acri sarebbe stato garantito un posto fisso fino al 2024 a Strasburgo in cambio della rinuncia del padre a una carica pressoché gratuita come quella di consigliere comunale.

Non un affarone, per Fidanza. Ma l'incongruenza non è bastata a convincere i pm dell'insussistenza dell'ipotesi di corruzione. Nell'atto conclusivo delle indagini si legge che il piano sarebbe stato «perseguito attraverso più riunioni tra gli indagati» a Milano negli «uffici di Fidanza», ma anche a Roma nella sede nazionale di Fratelli d'Italia».

Fidanza, insomma, rimane sulla graticola, a ventiquattr'ore dalla archiviazione sulla fantomatica «lobby nera» guidata dal barone «sovranista nazionalpopolare» Roberto Jonghi Lavarini che avrebbe procurato finanziamenti illeciti all'esponente di Fdi: le registrazioni effettuate dal giornalista che si era infiltrato nell'entourage di Fidanza «non hanno trovato alcun riscontro», hanno scritto i pm. Anche dalla nuova accusa, però, Fidanza si dichiara certo di potersi difendere efficacemente: «Con la stessa serenità che mi ha caratterizzato negli scorsi quindici mesi dimostrerò che non c'è stata alcuna corruzione e tanto meno alcun uso improprio di risorse pubbliche».

Per una curiosa coincidenza l'avviso di chiusura delle indagini a carico di Fidanza ruota intorno allo stesso tema, il mercato degli incarichi di assistenti all'Europarlamento, dell'inchiesta sulla cricca del Qatargate. Ma lì non risulta che la Procura milanese abbia deciso di indagare, limitandosi a fornire assistenza ai colleghi belgi.

Le nuove accuse contro l'europarlamentare. La procura di Milano non molla Fidanza, chiede archiviazione per inchiesta show di Fanpage ma vuole processo per corruzione. Redazione su Il Riformista il 13 Gennaio 2023

Da una parte la richiesta di archiviazione, che cristallizza l’ennesimo nulla di fatto dopo tanta gogna mediatica, dall’altra, poche ore dopo, l’apertura di una nuova inchiesta. La procura di Milano non molla Carlo Fidanza, europarlamentare di Fratelli d’Italia finito a ottobre 2021 nel mirino di pseudo indagine del giornale Fanpage (e rilanciata poi dalla trasmissione “Piazzapulita” di Corrado Formigli su La7), e nelle scorse ore ha chiuso una nuova indagine a aperta nei mesi scorsi per corruzione “per atti contrari ai doveri d’ufficio”. Coinvolti  oltre a Fidanza, anche Giangiacomo Calovini, consigliere comunale dello stesso partito a Brescia, l’ex consigliere bresciano Giovanni Acri e l’ex vicecoordinatore lombardo di Fdi Giuseppe Romele (di recente tornato in Forza Italia).

Ma andiamo con ordine. Nella giornata di ieri, come già annunciato nel dicembre sorso, i pm milanesi hanno chiesto di archiviare l’indagine sulla presunta ‘Lobby nera’. Otto gli indagati, oltre a Fidanza anche l’attuale eurodeputato leghista Angelo Ciocca, la consigliera comunale milanese di Fdi Chiara Valcepina e Roberto Jonghi Lavarini, detto il ‘barone nero‘, espulso tempo fa dal partito. Le accuse a vario titolo erano di finanziamento illecito e riciclaggio. “Bisogna concludere nel senso dell’insussistenza delle ipotesi di reato formulate perche’ dalle indagini svolte non sono emersi elementi in grado di confermare quanto emerso dai video che hanno dato origine al procedimento” l’ammissione del pm Giovanni Polizzi nella richiesta di archiviazione che sarà valutata dal giudice.

Finalmente riemergo a testa alta da quella vergognosa montagna di fango mediatico” ha commentato sui social l’eurodeputato Fidanza. “Dopo le anticipazioni di qualche settimana fa – scrive Fidanza – la Procura di Milano ha richiesto ufficialmente l’archiviazione per me e gli altri indagati nell’inchiesta sulla cosiddetta e inesistente ‘lobby nera'”. Ovviamente, aggiunge, “non ho mai dubitato che sarebbe finita così, ma oggi finalmente riemergo a testa alta da quella vergognosa montagna di fango mediatico”. “Grazie a chi mi è stato vicino e mi ha sopportato in questi lunghi quindici mesi – spiega ancora l’europarlamentare – grazie a voi che non avete mai smesso di sostenermi e grazie anche a chi credeva di affossarmi e invece mi ha reso un uomo più forte e consapevole. Tornerà utile – conclude – per proseguire la buona battaglia”.

LA NUOVA INCHIESTA – Oggi però la stessa Procura fa sa sapere di aver chiuso le indagini, condotte dal Nucleo di polizia economica finanziaria della Guardia di Finanza, per corruzione “per atti contrari ai doveri d’ufficio” a carico dell’eurodeputato di Fidanza, Calovini, Acri e Romele. Nell’ipotesi d’accusa Acri, ex consigliere comunale bresciano, avrebbe lasciato il suo incarico, il 25 giugno 2021, facendo subentrare in Consiglio comunale a Brescia il primo dei non eletti, ossia Calovini, vicino alla corrente politica di Fidanza.

Così come riferisce l’Ansa, secondo l’ipotesi accusatoria, Acri avrebbe ottenuto in cambio l’assunzione del figlio, Jacopo Acri, come assistente dell’europarlamentare Fidanza che sarebbe stato il promotore del presunto accordo illecito per poter assegnare una carica a Calovini, esponente della corrente interna del partito che faceva capo all’eurodeputato. Le ‘prove’ acquisite dai pm milanesi sarebbero i contatti tra Acri padre e la segretaria di Fidanza (non indagata) che si sarebbe attivata per predisporre la documentazione utile per il contratto del figlio come assistente a Bruxelles.

Estratto dell’articolo di Luigi Ferrarella per corriere.it il 14 gennaio 2023.

Un triangolo corruttivo che avrebbe usato istituzioni nazionali e benefit europei come merce di scambio. Un triangolo composto da un consigliere comunale di Fratelli d’Italia a Brescia, Giovanni Francesco Acri, che nel giugno 2021, in cambio dell’assegnazione al proprio nemmeno 18enne figlio dell’incarico di «assistente locale» a Milano dell’europarlamentare Carlo Fidanza a spese del Parlamento Europeo per mille euro al mese fino al 2024, si dimette dal proprio seggio comunale bresciano in modo che Fidanza possa farvi subentrare il primo dei non eletti, Giangiacomo Calovini, bisognoso di quella esperienza amministrativa come prerequisito interno al partito FdI per poi potersi candidare alle elezioni politiche nazionali, nelle quali lo scorso 25 settembre è stato eletto alla Camera.

Per questa ipotesi di reato di corruzione, nella quale l’europarlamentare è il corruttore, l’allora consigliere comunale è il corrotto, l’atto contrario ai doveri d’ufficio sono le sue dimissioni dal Comune a beneficio dell’attuale deputato, e la tangente è l’incarico a suo figlio Jacopo dato dall’europarlamentare, la Procura di Milano è ormai intenzionata a chiedere al gip di processare Fidanza, Calovini, Acri e l’allora vice coordinatore lombardo di Fratelli d’Italia, Giuseppe Romele, come si capisce dalla notifica ora dell'«avviso di conclusione delle indagini», atto che di solito prelude (salvo persuasive controdeduzioni difensive entro 20 giorni) appunto alla richiesta di rinvio a giudizio.

Alla base dell’accusa […] c’è […] quella sorta di auto-confessioni provenienti dai messaggi scritti (durante le travagliate trattative sottese alle dimissioni) proprio da Fidanza e dagli altri indagati, e sequestrati dai pm […]

Come le chat nelle quali si manifesta l’insofferenza di Fidanza per la resistenza passiva di Acri a dimettersi: «Abbiamo capito cosa vuole Acri? Se serve per levarlo dai c... sono disponibile a dargli un vitalizio di mille euro al mese fino a fine legislatura, magari mettendo sotto contratto non lui ma uno o una che lui ci dice, per agevolare la fuoriuscita». Ed è lo schema che viene attuato: con un incarico dato promesso da Fidanza a Calovini per suo figlio.

La soluzione prende corpo […] fino alla scenografica doppia contemporanea firma il 21 giugno 2021 a Milano di due sottoscrizioni tra Fidanza e Acri: da un lato la lettera con cui Acri si dimette da consigliere comunale a Brescia, dall’altro lato il contratto (retrodatato di tre giorni) con il quale l’europarlamentare Fidanza attribuisce all’ancora minorenne figlio di Acri, Jacopo, studente al quarto anno dell’istituto tecnico agrario, l’incarico di proprio assistente parlamentare locale a Milano sino alla fine del 2021, remunerato dal Parlamento Europeo con poco meno di mille euro al mese.

Con una coda, però: e cioè che Acri, non del tutto soddisfatto, fa protocollare da Romele la propria lettera di dimissioni soltanto il 25 giugno, «non prima di avere ottenuto quel giorno la prova della modifica in senso migliorativo del contratto» del figlio, «con estensione della durata dal 31 dicembre 2021 al 31 maggio 2024, e con eliminazione del periodo di prova di tre mesi». […]

La riforma sulle intercettazioni. Inchiesta su Fidanza, per i Pm gli insulti nelle intercettazioni diventano indizi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 24 Gennaio 2023

Quando giovedì scorso alla Camera il deputato Federico Cafiero de Raho ha indossato la toga da procuratore, poi gli ha puntato il dito contro e lo ha sfidato a menzionare casi di violazioni della legge sulle intercettazioni successive alla riforma del 2020, il ministro Nordio ha risposto citando l’ultimo caso conosciuto. E cioè quello del “suo amato Veneto”, con la diffusione di telefonate che riguardavano il Presidente della Regione Luca Zaia, assolutamente estraneo a qualunque indagine penale. Ma il guardasigilli non poteva sapere che, nelle stesse ore, accadevano, quanto meno nelle redazioni di due quotidiani, La Repubblica e Domani, alcuni fattacci che sarebbero stati degni della sua attenzione e magari anche di qualche suo intervento. E che trovavano puntuale pubblicazione sui due quotidiani del giorno successivo, il 20 gennaio.

Era accaduto che nei giorni precedenti la procura della repubblica di Milano avesse depositato, a disposizione delle parti, gli atti di conclusione di un’inchiesta che riguarda alcuni esponenti lombardi di Fratelli d’Italia, l’europarlamentare Carlo Fidanza, il neodeputato Giangiacomo Collavini, l’ex vicecoordinatore del partito Giuseppe Romele e un ex consigliere comunale di Brescia, il medico calabrese Giovanni Francesco Acri. I primi tre si sarebbero adoperati, dopo le ultime elezioni comunali, per fare dimettere il medico, unico eletto di Fratelli d’Italia in consiglio, e far subentrare il primo degli esclusi, cioè lo stesso Collavini, intenzionato a sfruttare il ruolo di amministratore locale come rampa di lancio verso il Parlamento. Operazione riuscita. Ma l’accordo avrebbe comportato un “prezzo”, secondo la Procura, l’assunzione a tempo determinato e per poche centinaia di euro del figlio di Acri come collaboratore di Fidanza. Questo “prezzo” viene considerato corruzione, per cui la Procura, nel depositare gli atti, si accinge a chiedere il rinvio a giudizio di tutti i protagonisti.

Ora, mentre leggiamo che i cronisti dei due quotidiani scrivono tranquillamente di aver “spulciato” le carte dell’inchiesta, un primo chiarimento va dato. Deposito “a disposizione delle parti” non vuol assolutamente dire “pubblico”. Nessuna legge autorizza i pubblici ufficiali a distribuire atti giudiziari con l’alibi che le carte siano ormai in possesso anche degli avvocati. I quali in genere non hanno nessun interesse a rendere pubbliche le situazioni processuali dei propri assistiti. Seconda questione. Per quale motivo i pubblici ministeri hanno depositato intercettazioni che riguardano l’indagato Acri ma non sono rilevanti per questa inchiesta, e addirittura altre che coinvolgono, riportando insulti e minacce nei suoi confronti, una persona del tutto estranea come il ministro Santanché? L’articolo 268 del codice penale, quello voluto dall’ex ministro Orlando e poi modificato dal suo successore Bonafede, lo stesso invocato dal deputato Cafiero de Raho mentre puntava il dito da procuratore verso il ministro Nordio, parla chiaro. “Il pubblico ministero dà indicazioni e vigila affinché nei verbali non siano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone o quelle che riguardano dati personali definiti sensibili dalla legge, salvo che risultino rilevanti ai fini delle indagini”.

Partiamo dunque dall’indagato Acri. E’ sospettato di essersi fatto corrompere e di essersi dimesso da consigliere comunale di Brescia in cambio dell’assunzione del figlio. Tralasciamo per un attimo la fondatezza dell’accusa, siamo solo a un’ipotesi del pubblico ministero. Ma per quale motivo si pubblica un’intercettazione in cui un esponente di FdI lombardo dice in dialetto “Ma Acri l’è un mafius!”. E’ utile questa captazione alle indagini su una presunta corruzione? E’ forse la stessa persona indagata anche per reati di mafia? No, e infatti l’espressione dialettale può essere scherzosa, e in caso contrario sicuramente “lesiva della reputazione”. Perché dunque il pm non l’ha posta tra le carte riservate invece di depositarla tra quelle a disposizione delle parti e inevitabilmente sbattute sui giornali?

E’ chiaro che la legge Orlando-Bonafede, tanto strombazzata in questi giorni da tutti coloro che sono contrari a qualunque intervento sulle intercettazioni, non funziona. Ma se è grave la violazione che riguarda l’indagato Acri, ancora più grave è la parte relativa al coinvolgimento di Daniela Santanché, totalmente estranea all’inchiesta e addirittura vittima nel piccolo scontro politico bresciano. La ministra era coordinatrice regionale lombarda di Fratelli d’Italia, e in quella veste, saputo delle intenzioni dimissionarie di Giovanni Acri, gli aveva chiesto ragione e lo aveva messo in guardia dal cedere a facili promesse. Questioni di partito, denunciate, pare, da una lettera anonima. Quelle che per esempio Giovanni Falcone cestinava, ma non tutti i magistrati sono come lui. Dopo l’intervento di Santanchè cominciano i chiacchiericci. C’è Calovini che racconta alla sua segretaria, la quale, mostrando grande solidarietà femminile, commenta: “Na, che zoccola”.

E poi lo stesso deputato, anche lui dotato di grande sensibilità umana, che in una chat così si esprimere nei confronti della coordinatrice lombarda: “Santanchè sta facendo di tutto per non farmi entrare in consiglio. Quando morirà, perché morirà, cagherò sulla sua bara durante la cerimonia”. Due sole domande, alla fine. Dottor Romanelli, procuratore aggiunto del settore reati contro la Pubblica Amministrazione, vuole per favore spiegare ai cittadini quale è l’interesse pubblico e quale il rilievo per le indagini per cui lei non ha vigilato e ha consentito che fossero resi pubblici l’appellativo di “mafioso” di un indagato per corruzione e non per essere un aderente di Cosa Nostra o della ‘ndrangheta? E quale rilievo per le indagini sapere che una segretaria definisce una parlamentare e oggi anche ministra come “zoccola”, mentre un deputato le getta addosso simili volgarità? E’ sicuro di aver vigilato come le imponeva il codice penale?

E lei, deputato Federico Cafiero De Raho, è sicuro che tutto ciò dimostri che la legge Orlando- Bonafede, che lei ha usato per irridere il ministro Nordio, quasi rimproverandogli di non conoscere le norme esistenti, sia quel che ci vuole per tenere il cittadino al riparo da certi scempi? Lei ora non è più un accusatore ma un legislatore, forse sarebbe ora di abbassare quel ditino teso.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Parla un tassista romano: «Al mese il guadagno può arrivare fino a 7000 euro lordi». Linda Di Benedetto su Panorama il 10 Novembre 2023

Intervista a un tassista della capitale che racconta i trucchi del mestiere e di come le cifre pubblicare dal Mef non corrispondano alla realtà «Le dichiarazioni dei redditi presentate dai tassisti sono inverosimili perché per mia esperienza personale i nostri guadagni si aggirano sui 6-7mila euro lordi mensili, la media dei 1500 euro pubblicata dal Mef non può corrispondere al vero». È questo il commento di un tassista della Capitale dopo la pubblicazione dei redditi dei suoi colleghi pubblicati dal Ministero dell'Economia e delle Finanze le cui cifre raccontano di una forte crisi di questa categoria il cui guadagno medio sarebbe di 15mila euro l'anno lordi. Eppure nelle grandi città i taxi sono introvabili e quelli disponibili hanno file chilometriche di persone ad aspettarli. In tutto ciò c'è da considerare che per acquistare una licenza di un taxi i costi vanno dai 150mila euro fino ad oltre i 250mila, a seconda delle città, per questo risulta difficile credere che a fronte di un costo così elevato ci sia un guadagno cosi irrisorio, che a conti fatti è di circa 40 euro al giorno ossia il costo di una corsa. Un'altra zona d’ombra all’interno della quale si muovono i tassisti, una categoria da sempre al centro di polemiche e di cui abbiamo parlato con un tassista di Roma che ha preferito per ovvi motivi restare anonimo. Come fate ad evadere le tasse? «I tassisti non hanno l'obbligo dello scontrino fiscale ma usano solo il tassametro che nessuno controlla e questo permette di incassare in nero migliaia di euro. Da qui è comprensibile da parte della categoria il rifiuto al pagamento con il POS. I tassisti infatti hanno paura di far utilizzare le carte per il pagamento delle corse e fanno solo un certo numero di ricevute poi dicono che è rotto. Ma secondo me esagerano con questo sistema. Ma non solo per farle capire come funziona le porto l'esempio del mio commercialista che mi consiglió anni fa quando ero ancora un lavoratore a partita Iva in regime forfettario, di dichiarare almeno 28mila euro l'anno per non incappare in controlli fiscali, nonostante guadagnassi il triplo. Un "giochetto" che fanno tutti i tassisti che sono in regime forfettario con la quale non possono detrarre nulla ma in compenso possono dichiarare quello che vogliono, è uno modo per aggirare il fisco». Com'è la mole di lavoro a Roma? «A Roma di media un tassista fa 12 -13 corse al giorno. Solo con una corsa da Termini a Fiumicino ha già incassato 50 euro, per non parlare delle corse delle Ryder Cup, quindi basta fare due conti per capire che sono dichiarazioni false quelle presentate e per niente credibili. Non sono stati nemmeno furbi».

Lei quanto guadagna? «Io pago 2000 euro al mese di licenza ma vivo benissimo. A fine mese mi restano sui 3500 euro puliti. Mentre a Firenze guadagnano ancora di più, invece a Napoli le cifre sono più basse». Lei oggi lavora in proprio? «No, per una cooperativa, che mi paga uno stipendio di 1200 euro al mese. Ma sono io che pago in realtà. In pratica verso alla cooperativa i 1200 euro al mese che poi mi restituiscono tramite bonifico bancario. Oltre a questi soldi verso anche circa 600 euro di contributi per la pensione». E cosa ci guadagna la cooperativa? «Ogni cooperativa ha 100-200 iscritti che le corrispondono 200 euro ciascuno per questo "servizio". Sono tipo delle scatole cinesi dove i titolari per lo più sono tassisti che grazie agli introiti di questa attività, smettono di lavorare. Infatti se lei vede sempre più di frequente aprono cooperative di questo tipo». Perché ha deciso di raccontare tutto questo? «Perché le cifre che sono uscite sui giornali sono troppo taroccate e poi perché ho la certezza di restare anonimo altrimenti sarei linciato dai miei colleghi. È un business dove c'è una gran parte di nero, ma io almeno non sono così spudorato da dichiarare cifre così basse, ne impedisco alle persone di pagare con il POS».

Estratto dell’articolo di Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” il 3 ottobre 2023.

Quando un produttore accorto come David Zard doveva lanciare un nuovo musical, invitava alla prova generale soltanto i tassisti: «Portate chi volete, seguirà rinfresco». Il messaggio implicito era: se lo spettacolo vi piace, parlatene bene ai clienti. 

I tassisti sono una categoria potente, e non solo perché compatta e refrattaria a qualsiasi innovazione, fosse anche solo concedere qualche licenza in più. Sono rimasti tra i pochi a vivere in mezzo alla gente, a parlare con le persone, a far partire i passaparola. Possono bloccare le città; e possono veicolare idee, anche politiche. Meglio non toccarli.

Con questa logica, però, abbiamo distrutto il servizio taxi. A Roma la situazione è drammatica. Code infinite fuori dalle stazioni, a qualsiasi ora, in qualsiasi giorno, con qualsiasi tempo. Code pure a Fiumicino e Ciampino, con corsa ad accaparrarsi lo straniero ignaro e a lasciare a terra l’italiano. Centralini che non accettano prenotazioni, attese infinite al telefono, app che rispondono sempre: «Siamo spiacenti non abbiamo auto in zona». 

A Firenze la situazione non è molto diversa. A Milano e Napoli è appena migliore. Ma la questione non riguarda solo le grandi città: anche a Parma, a Verona, a Padova accade che ci siano code di clienti in attesa del taxi, anziché — come in tutto il mondo — code di taxi in attesa di clienti. […]

La causa è evidente: mancano taxi; Uber di fatto in Italia non è mai arrivato, si appoggia agli Ncc (noleggio con conducente) o addirittura agli stessi taxi, quindi il numero di auto pubbliche resta lo stesso. I tentativi di trovare una soluzione d’intesa con i tassisti sono miseramente falliti. Il governo di destra li protegge; e i sindaci di sinistra hanno paura di metterseli contro. 

Intendiamoci: i tassisti fanno bene a difendere una categoria di artigiani e padroncini dalla proletarizzazione che ne deriverebbe se diventassero dipendenti di una multinazionale. Ma la difesa degli interessi di parte si può giustificare fino a quando non lede gli interessi pubblici e i diritti degli altri. Se una persona non autosufficiente non trova un taxi per andare in ospedale, per un esame o per visitare una persona cara, non c’è interesse di categoria che tenga: occorre intervenire.

Conosco l’obiezione: il problema dei taxi riguarda un’élite, non a caso a Roma protestano i «Vip»: Pippo Baudo, Nancy Brilli, Enrico Montesano. Nulla di più falso; e non solo perché Baudo, Brilli, Montesano sono artisti amati dal pubblico che generosamente espongono la loro immagine per porre un problema che riguarda tutti. 

La domanda di taxi non è fissa. Se i taxi si trovassero più facilmente, anche quando piove o c’è lo sciopero dei mezzi o c’è la partita, più persone li prenderebbero. Invece si è tentato — invano — di risolvere il problema aumentando, anziché il numero delle vetture, il prezzo delle corse; che sono ormai più care che a New York.

In tutte le grandi città del mondo, la presenza dei taxi è misura della forza della classe media, di quel ceto che un tempo si sarebbe chiamato borghesia. La città delle auto pubbliche per eccellenza è Londra; a Madrid e a Barcellona il servizio è efficiente ed economico; anche a Parigi la situazione è molto migliore che in Italia. A Mosca i taxi sono pochi, perché la classe media è debole: i ricchi viaggiano in Suv con autista e scorta; gli altri in metropolitana, che se non altro a Mosca — a differenza che a Roma — funziona. 

La scomparsa dei taxi è poi l’effetto collaterale di un altro fenomeno. Da qualche anno ormai la primavera e l’autunno rappresentano per l’Italia il picco della stagione turistica. Non siamo abbastanza bravi — tranne eccezioni — a valorizzare d’estate le nostre coste come meriterebbero. Ma a maggio e a ottobre, con il Medio Oriente e il Nord Africa non ancora tornati ai flussi del passato, le nostre città sono prese d’assalto. E non sono più nostre.

[…] Hotel che fino a qualche anno fa il ceto medio poteva ancora permettersi hanno ora prezzi proibitivi. C’è un albergo nel centro di Firenze dove su 59 impiegati uno solo è italiano; sono più rappresentate la Mongolia e l’Afghanistan, e tanti ti parlano in inglese non soltanto perché i clienti sono quasi tutti americani, ma perché non sanno l’italiano. Anche nel centro di Milano hanno aperto ristoranti che espongono il menu soltanto in inglese: una cosa che non avviene in nessun Paese del mondo.

[…] Tra i suoi gloriosi primati, Roma ha anche quello di essere l’unica città percorsa sia dalle carrozzelle con i cavalli come a Marrakech sia dai pullman turistici a due piani come a Los Angeles, oltre a tandem, golf-car, monopattini e ogni sorta di veicolo rigorosamente lanciato contromano quando non sui marciapiedi. Da Venezia in giù i nostri centri storici stanno diventando luna park. E nei luna park non esistono taxi.

Taxi, quanto costa una licenza? Non meno di 100 mila euro ma si arriva anche a 300 mila. Storia di Alessia Conzonato su Il Corriere della Sera domenica 13 agosto 2023.

Taxi, quanto costa una licenza? Non meno di 100 mila euro ma si arriva anche a 300 mila© Fornito da Corriere della Sera

Quello delle licenze dei taxi è un mercato molto ristretto, ma su cui si basa l’intera attività del settore. L’intenzione del governo è incrementare le autorizzazioni del 20% — e non oltre — nelle grandi città. Un’opportunità per nuovi conducenti, «con una procedura più celere, certa e semplificata, rispetto all’assetto normativo previgente». A fronte di una serie di una serie di opposizioni, la categoria ha chiesto — minacciando la mobilitazione — l’abolizione della cosiddetta “doppia licenza” o “licenze cumulabili”, che avrebbe consentito di regalare a ogni tassista un secondo titolo da rivendere sul mercato, così da introdurne di nuovi e facendo allo stesso tempo guadagnare. Secondo i sindacati, però, questa misura ha «il vero obiettivo di smantellare il servizio pubblico taxi, per fornire macchine e autisti al servizio del nuovo caporalato gestito dalle multinazionali».

I fattori che contribuiscono al prezzo

Ma quanto costa una licenza per taxi? E’ importante specificare che sono diversi i fattori che contribuiscono alla determinazione del prezzo. Intanto, varia di comune in comune, tiene conto del numero di auto bianche in circolazione in un territorio distinto e anche di alcune condizioni della viabilità: ad esempio, la presenza abbondante di zone a traffico limitato o aree pedonali e la manca di parcheggi. Tutte ragioni che contribuiscono all’incremento di necessità di taxi a disposizione dei cittadini. In molte città italiane influisce anche l’ingente flusso di turisti che arrivano durante il corso dell’anno, con picchi massimi durante specifici periodi, come quello estivo o le festività.

I prezzi

Secondo le direzioni dell’Agenzia delle Entrate, fornite a livello regionale (non esattamente aggiornate all’ultimo periodo, ma una base di partenza per i tassisti che intendono rimettere la propria licenza sul mercato), come spiega Repubblica, si può definire un prezzo medio che si attesta tra i 100 e i 120 mila euro. Nello specifico, a Roma si parte da un valore minimo di 125 mila euro, mentre per Milano la stima è di 115 mila. Solitamente la licenza viene venduta in un pacchetto unico con l’automobile necessaria per il servizio, ma per ammortizzare i costi si stima che siano necessari 15 anni di attività. Ci sono situazioni eclatanti, come Firenze, dove le autorizzazioni arrivano a costare anche 250 mila euro. Questo avviene perché nel capoluogo toscano le auto bianche in circolazione sono soltanto 754. Lo stesso vale per Bologna, dove i taxi sono 722 e gli annunci online per vendere le licenze superano i 200 mila euro. In entrambe le città sono stati messi a bando dei titoli: 70 nella prima e 36 nella seconda, per un valore di 175 mila euro ciascuna.

Eventi internazionali

Se una parte della spesa finisce nelle casse dell’amministrazione comunale, una parte invece torna ai tassisti. Una volta vicino alla pensione o se intenzionato a chiudere dall’attività (ma devono essere passati almeno cinque anni), il titolare della licenza può cederla rivendendola sul mercato. Oltre a Bologna e Firenze, anche grandi realtà turistiche come Roma e Milano stanno generando sempre più preoccupazione. Le due città hanno rispettivamente 7.900 e 4.855 licenze autorizzate sul territorio, ma prossimamente ospiteranno grandi eventi di interesse internazionali che porteranno in Italia viaggiatori da tutto il mondo: è il caso del Giubileo nel 2025 a Roma, ma anche delle olimpiadi Milano- Cortina nel 2026 e, in prospettiva, la possibilità di ospitare l’Expo nella capitale nel 2030. A Milano il sindaco Beppe Sala ha già dichiarato di voler lanciare una gara per distribuire mille nuove autorizzazioni, presto sapremo a quale prezzo.

Il percorso, i costi e lo stipendio medio di un taxista. Dario Murri il 13 Agosto 2023 su Il Giornale.

Servizio di trasporto alternativo ai mezzi pubblici e a volte all’auto personale, il taxi continua ad essere molto richiesto, soprattutto nelle grandi città e in quelle a vocazione turistica. Ecco come si diventa tassista e quanto si guadagna

Tabella dei contenuti

 Il lavoro di tassista

 Come si diventa tassista

 Adeguamento del mezzo

 Quanto si guadagna

 Costo medio di una corsa

 I guadagni all’estero

 Qualche curiosità

Il decreto Omnibus del Governo, appena firmato dal Capo dello Stato e decisamente poco gradito dalla categoria, concede ai Comuni la possibilità di incrementare del 20% le licenze taxi esistenti per far fronte alle crescenti necessità, soprattutto nelle grandi città e in quelle a vocazione turistica. Quello dei taxi resta però un tema caldo, che richiederà soluzioni più strutturate e sul lungo periodo. Ma quanto guadagna un tassista, in particolare nelle più importanti città italiane? Proviamo a capirlo, esaminando anche il percorso e i costi da sostenere per svolgere questa professione.

Il lavoro di tassista

Con il termine tassista si definisce un conducente professionista che trasporta i clienti da un luogo all'altro della città (o fuori di essa), dietro pagamento di un corrispettivo economico, calcolato da tassametro, in base alla distanza percorsa e ai tempi di percorrenza. Può lavorare in associazione ad una cooperativa di radiotaxi, o può svolgere il servizio autonomamente. Nel primo caso, riceverà le chiamate dei clienti inoltrate dal call center della compagnia o si potrà posizionare nelle aree taxi dedicate ad attendere i clienti. Nel secondo dovrà scegliere i punti strategici dove sostare, in attesa di passeggeri.

Alla base di questo lavoro ci sono fondamentalmente la passione per la guida e per il contatto con il pubblico, oltre ad una grande determinazione, dal momento che ottenere la documentazione per svolgere il mestiere in regola non è semplicissimo.

Come si diventa tassista

Per lavorare come tassista non si deve possedere uno specifico titolo di studio, ma bisogna aver terminato la scuola dell'obbligo.

I requisiti fondamentali per accedere alla professione sono: aver compiuto 21 anni, aver assolto all'obbligo scolastico, essere cittadini italiani o di uno Stato dell'UE, possedere una patente di tipo B, non aver riportato condanne detentive recenti, non svolgere altri lavori in maniera continuativa e non possedere altre licenze simili, possedere un veicolo a norma (o averlo in leasing) per prestare servizio, risiedere nella città in cui si intende operare, o al massimo nel raggio di 50 km.

Una volta verificato se si è in possesso dei requisiti di base, bisognerà seguire un percorso burocratico specifico e conseguire una serie di certificati necessari. Vediamone i vari passi.

Ottenere un Certificato di Abilitazione Professionale (CAP), con abilitazione di tipo KB, conseguibile presso un ufficio di Motorizzazione Civile. Per farlo, sarà sufficiente presentare domanda seguendo le indicazioni riportate sull’apposita pagina web del Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibile e superare l’esame relativo;

Iscriversi alla Camera di Commercio nel Ruolo Conducenti dei servizi pubblici non di linea. Anche qui è necessario presentare domanda e superare un esame di idoneità per ottenere l'iscrizione al ruolo. Tutte le informazioni dettagliate si trovano sulla pagina web dedicata della propria Camera di Commercio di riferimento.

Conseguire la licenza taxi. Ciò può avvenire in due modi: gratuitamente, vincendo il relativo bando di concorso istituito dal proprio Comune di residenza, o tramite l'acquisto diretto (o l’affitto) da un altro tassista. In quest'ultimo caso, la licenza dev'essere stata conseguita da almeno 5 anni, prima dei quali non può essere ceduta. Secondo la legge 21/1992, è possibile comprare la licenza taxi da un tassista che sta andando in pensione, che abbia già compiuto 60 anni, o che abbia, appunto, la licenza da almeno 5 anni. Il prezzo va dai 150 ai 180.000 euro.

Aprire la Partita Iva e presentare quindi una Segnalazione Certificata di Inizio Attività (SCIA) presso il proprio Comune.

Non è obbligatoria, ma può essere utile, l’iscrizione al ruolo di conducenti per auto pubbliche da piazza.

La Carta di Qualificazione del Conducente (CQC) è, invece, un documento abilitativo che si può conseguire sempre presso la Motorizzazione, obbligatorio per chi effettua professionalmente l'autotrasporto di cose o persone su veicoli per cui sia richiesta una patente per categorie C, CE, D, DE. Il tassista può quindi possederla, ma non è obbligatoria e non sostituisce in alcun modo il CAP.

Ottenuti tutti i documenti necessari per lavorare come tassista, si dovrà stipulare le dovute assicurazioni su conducente, passeggeri e taxi, oltre a provvedere al consueto mantenimento dell'auto (revisione, bollo, tagliando, mantenimento).

Per diventare tassista si può anche decidere di seguire un corso di formazione che, oltre a fornire le giuste indicazioni riguardo a strade e regolamenti, aggiorna anche sugli aspetti legislativi del lavoro.

Adeguamento del mezzo

Un taxi è differente da un'auto normale: per fornire questo servizio, il veicolo deve essere dotato di alcuni dispositivi speciali, quali tassametro, radio per taxi, cartello per il tetto, apparecchi per pagamenti Pos, etc. Ciò richiede una serie di modifiche, che ovviamente devono essere conformi alle normative legali vigenti. Poiché si tratta di requisiti molto rigidi da rispettare, sarebbe bene che la conversione da auto normale a taxi fosse effettuata da un'officina specializzata. Tutto questo, naturalmente, comporta una serie di spese importanti, se si considera che il solo tassametro costa intorno ai 300 euro.

Quanto si guadagna

Considerati questi fattori, cerchiamo di capire quanto guadagna un tassista, tenendo presente che, per un mestiere come questo, parlare di stipendio medio è alquanto complicato. Le tariffe variano sensibilmente da città a città e in base al numero di corse giornaliere effettuate. Senza considerare che alcuni dovranno sostenere un investimento iniziale considerevole per acquistare o affittare una licenza, mentre altri la otterranno gratuitamente tramite concorso pubblico.

Il guadagno medio di un tassista nelle principali città italiane può oscillare dai 1.000 ai 4.000 euro al mese, anche se bisogna tenere presente che i fatturati mensili dei tassisti non comprendono solo l’utile derivante dal lavoro ma anche le spese sostenute per mantenere l’attività e il mezzo.

I conducenti non possono guidare più di 56 ore a settimana e il loro tempo di guida totale su un periodo di due settimane non può eccedere le 90 ore. Se necessario, è possibile prolungare l'orario di lavoro fino a un massimo di 60 ore in una settimana. Detto questo, vediamo i guadagni medi in alcune delle principali città, da Milano e Roma.

A Milano un tassista può arrivare a guadagnare anche oltre 4.000 euro al mese. Calcolando circa 8 ore al giorno di lavoro per 24 giorni al mese, per un totale di 10 clienti ogni giorno che percorrono in media 15 km (ad 1,10 euro a km), il guadagno medio al giorno risulta di 165 euro che, moltiplicati per 24 giorni di lavoro, portano ad un guadagno mensile di 3.960 euro, da cui vanno però detratte spese come benzina, manutenzione e assicurazione auto. Non va dimenticato inoltre che molti tassisti pagano eventuali rate per la licenza che nella città meneghina può arrivare anche a 180/200.000 euro.

Il guadagno medio di un tassista a Firenze si aggira tra i 3 e i 4.000 euro al mese. Ma qui l’utile può ridursi ancora rispetto al guadagno complessivo per spese tenuta auto, benzina e per i costi della licenza, che nel capoluogo toscano salgono di molto, rispetto ad esempio a Milano, arrivando anche a 300.000 euro.

A Roma un tassista guadagna mediamente circa 3.000 euro al mese. Nella Capitale un tassista può partire da un fatturato medio netto di circa 1.700 euro al mese per raggiungere i circa 2.5000 euro netti, dopo oltre 10 anni di esperienza. Per conseguire la licenza di tassista a Roma servono circa 150.000 euro.

Spostandoci verso sud, a Napoli lo stipendio medio di un tassista è di 1.800 euro netti al mese, con un costo per la licenza variabile fra i 150 e i 170.000 euro, mentre a Bari un tassista guadagna in media 2.000 euro al mese e la licenza costa intorno ai 100.000 euro.

Costo medio di una corsa

Il costo di una corsa in taxi si compone di vari elementi: un costo fisso iniziale, calcolato tra i 2 i 3 euro, e un altro, eventuale, minimo; in ogni tariffa sono poi calcolati i costi per chilometro, che oscillano tra i 70 centesimi e 1.15 euro, ed altri aggiuntivi da considerare, come quelli per il bagaglio (che non si paga per la prima valigia, ma solo dalla seconda in poi), quelli per il turno festivo e per il notturno, dalle 22 alle 6, che variano da città a città.

I guadagni all’estero

In Francia (i dati si riferiscono a Parigi) la retribuzione di un tassista può partire da uno stipendio minimo di 1.300 euro netti al mese, mentre quello massimo può superare i 3.000 al mese. Spostandosi In Germania (con riferimento a Berlino) la media si attesta sui 2.000 euro, con un minimo di 1.500. Molti sono pagati in base alla paga minima oraria, introdotta nel 2015, e che è pari a 9,19 euro.

A Londra il guadagno medio settimanale di un tassista varia fra le 400 e le 600 sterline, per cui si può arrivare a circa 2.400 sterline al mese. Se andiamo in Svizzera, a Zurigo lo stipendio medio mensile di un tassista, dal secondo anno di occupazione si aggira sui 3.200 Franchi. Negli USA, a New York, il conducente di un yellow cab guadagna in media circa 50 mila dollari all'anno, che per la grande mela è ritenuta una cifra alquanto modesta, considerando anche che una licenza può costare 450.000 dollari.

Qualche curiosità

La parola taxi deriverebbe dalla nobile casata tedesca Thurn und Taxis che nel XVIII secolo, oltre a distribuire la posta in tutta Europa, si dedicò anche al trasporto di passeggeri.

La ragione per cui in Italia i taxi sono bianchi è che nel 1993 una legge ha imposto ai tassisti di acquistare solo auto bianche al momento di sostituire quelle vecchie, fino ad allora di colore giallo: questo ha portato come vantaggio quello di non deprezzare il veicolo, evitando, in caso di vendita, di spendere soldi in riverniciatura per eliminare un colore così caratteristico.

Dagospia mercoledì 9 agosto 2023. LICENZA DI EVADERE – C’È QUALCOSA CHE NON TORNA NEI COSTI ESORBITANTI DELLE LICENZE PER I TASSISTI: VALGONO TRA I 125MILA EURO DI ROMA AI 200MILA DI FIRENZE. CIFRE FOLLI, CONSIDERANDO CHE GLI AUTISTI DICHIARANO ALLO STATO REDDITI RIDICOLI INTORNO AI 10MILA EURO (A ROMA, 6MILA) – ORA ROMPONO LE PALLE PER IL 20% DI LICENZE IN PIÙ NELLE GRANDI CITTÀ, CHE CHIEDONO SIANO RILASCIATE A TITOLO ONEROSO

Fino a 250 mila euro per una licenza ecco perché i tassisti vanno sulle barricate. Estratto dell’articolo di Diego Longhin per “la Repubblica” mercoledì 9 agosto 2023.  

Quanto costa una licenza taxi? In media, considerando le grandi città, oscilla intorno ai 100-120 mila euro. Attenzione, però, la forbice è molto grande. Tra i diversi Comuni il prezzo varia di molto: il valore dipende dal numero di auto bianche in circolazione, se è una città turistica oppure d’affari e pure le decisioni sulla viabilità fatte dalle amministrazioni incidono.

Una Ztl chiusa al traffico per molte ore al giorno, ad esempio, o aree pedonali vaste senza parcheggi obbligano ad un uso maggiore dei taxi. Sono tutti elementi che contribuiscono a definire il prezzo. 

Non mancano gli studi, come quelli fatti dalle direzioni regionali delle Agenzie delle entrate a Roma e Milano. […] Secondo l’Agenzia si parte da un minimo di 125 mila euro a Roma, mentre la direzione della Lombardia ha stimato per Milano 115 mila. In entrambi i casi è necessaria però una rivalutazione che […] porta le cifre intorno a 140-150 mila euro. E se si vanno a guardare gli annunci di messa in vendita sui forum di settore si arriva a richieste che sfiorano i 180 mila euro.

Non mancano i casi limite, come a Firenze, si può arrivare anche a superare i 250 mila euro. A Bologna […] si arriva anche ai 200 mila euro. Possono sembrare cifre da capogiro, ma proprio nei casi di Firenze, dove i taxi sono 754, e Bologna, 722 auto bianche, sono i Comuni ad aver fissato un tetto minimo al di sotto del quale è difficile andare. Nel capoluogo della Toscana sono state messe a bando 70 autorizzazioni, altre 36 per la “capitale” dell’Emilia Romagna. Valore per ciascuna licenza? 175 mila euro.

[…] È la ragione per cui la categoria insiste con il governo Meloni, considerato amico delle auto bianche, sulla necessità che il 20% di licenze in più concesse nelle grandi città debba essere rilasciato a titolo oneroso. «Così salviamo il valore della nostra liquidazione, questo per noi è la licenza », dicono i più vecchi. E aggiungono: «Si tratta di transazioni su cui noi paghiamo regolarmente le imposte e le tasse sulle plusvalenze. Il 23%. Ecco perché l’Agenzia delle Entrate è attenta alle compravendite e ai valori». Vero. Però i soldi che i Comuni prenderanno dalle nuove licenze non andranno tutti nelle casse dell’amministrazione, ma una parte verrà girata agli autisti e alla categoria.

Il tassista può cedere quando va in pensione o se sono passati cinque anni dall’inizio dell’attività. È un mercato, però, molto ristretto. In un anno, nelle grandi città, i passaggi di proprietà sono pochi, nell’ordine di qualche decina. 

Oltre a Firenze e Bologna, al centro della questione ci sono soprattutto Milano e Roma. Le foto delle code nelle stazioni ferroviarie di Termini e Centrale hanno fatto il giro del mondo.

[…] Uno dei punti deboli è il trasporto pubblico, taxi compresi. Il numero delle licenze è di 7.900 a Roma e 4.855 a Milano. A Milano il sindaco Giuseppe Sala ha già deciso di lanciare una gara per mille nuove licenze. Alla fine, considerando il tetto del 20%, saranno un po’ meno. Quale sarà il prezzo? Non è ancora stato deciso e il Comune non si sbilancia. A Napoli le auto bianche sono 2400 e il valore delle autorizzazioni in circolazione è di poco sopra i 100 mila, mentre a Torino le macchine bianche sono poco più di 1.400. Un numero che copre il fabbisogno. Valore? Sotto i 100 mila euro. Difficile che vengano emesse nuove autorizzazioni.

Mettetevi in fila. Anche stavolta hanno vinto i tassisti: dietrofront del governo sull’aumento delle licenze. L'Inkiesta l'8 Agosto 2023

È bastata una minaccia di sciopero e anche l’ultimo tentativo del governo Meloni è andato a vuoto. Sparita la norma sul cumulo delle licenze. Resta la possibilità di aumentarle del 20 per cento, ma la decisione è scaricata sui comuni 

Non sono servite le immagini che hanno fatto il giro del mondo con le lunghe code davanti alla Stazione Termini di Roma e alla Stazione Centrale di Milano. Anche l’ultimo tentativo del governo Meloni di sfidare la lobby dei tassisti alla fine è andato a vuoto. È bastata una minaccia di sciopero delle auto bianche per far fare dietrofront al governo.

Nel decreto asset approvato dal governo nell’ultimo consiglio dei ministri prima della pausa estiva, è scomparso pure il cumulo delle licenze che era nella prima bozza. Lo ha detto in maniera chiara il ministro delle imprese e del Made in Italy Adolfo Urso: «Abbiamo avuto diversi confronti con i tassisti e gli Ncc, in quello avuto con i tassisti ci hanno chiesto di togliere la norma sul cumulo delle licenze, un’opportunità a cui rinunciano. Abbiamo tolto questa norma».

Non sono escluse modifiche a settembre, quando inizierà l’iter per la conversione in legge del decreto. E lo sanno bene anche i tassisti che temono la possibilità che qualche manina infili interventi peggiori dal loro punto di vista. Alessandro Genovese, Ugl Taxi, dice: «Non ho davanti il testo per dare un parere definitivo. Se verrà confermato lo stralcio del comma riguardante il cumulo delle licenze potrebbe essere l’inizio di un percorso positivo, il governo si sarebbe mosso con il piede giusto». D’altronde il governo ha accettato il diktat delle sigle che rappresentano la categoria, tutte ricompattate sul no al cumulo delle licenze, dalla Unica Cgil alla Ugl Taxi. «Ci vogliono imporre di fatto il cumulo delle licenze per i tassisti e ce lo pongono come un regalo. Non vogliamo regali. Per noi è un cavallo di Troia e siamo contrari», rimarcava il presidente provinciale di Roma della Federtaxi Cisal, Carlo Di Alessandro.

Nel decreto, non si fa più cenno nemmeno alle licenze stagionali per 12 mesi più altri 12 per far fronte ad eventi come Giubileo 2025 e Olimpiadi Milano-Cortina 2026. Resta la doppia guida, rimasta nel decreto con la possibilità di richiederla tramite una procedura semplificata in Comune.

Sempre i Comuni, i capoluoghi di regione e le città sede di aeroporti internazionali potranno rilasciare il 20% di licenze in più con procedura semplificata che prevede solo il parere dell’Autorità dei trasporti entro i 15 giorni. Di fatto, il governo ha scaricato le questioni su di loro lavandosene le mani.

In sostanza, il governo rinnova il patto con una categoria, quella dei tassisti, che considera un proprio bacino elettorale. Certo, andranno alle urne anche le migliaia di persone che hanno aspettato un’ora e mezza un taxi a Roma Termini.

Tra qualche mese, l’Autorità Antitrust divulgherà i risultati della sua indagine del primo agosto che contesta il “sistema delle licenze a numero chiuso”. Ne vedremo delle belle.

Estratto dell’articolo di Aldo Fontanarosa per “la Repubblica” l'8 agosto 2023.

I tassisti italiani accolgono la “riforma” del governo Meloni con un silenzio assordante.

Stanno quasi tutti zitti, convinti che Palazzo Chigi, alla fine, non colpirà i loro privilegi. E così — dopo aver limitato i danni della riforma Bersani del 2006 e sconfitto finanche Mario Draghi nel 2022 — di nuovo gli autisti delle auto bianche sembrano cantare vittoria. 

[…] La sensazione […] è che il governo Meloni abbia fatto una scelta politica conservativa. In sostanza rinnoverà il patto con una categorie di persone — i tassisti — che considera un proprio bacino elettorale, così come ha fatto con i balneari proteggendone le concessioni di favore sulle spiagge. Colpisce d’altra parte l’immediata intesa tra i sindacati degli autisti i più agguerriti e l’esecutivo.

Venerdì, nella prima bozza del decreto, il governo puntava sulle “doppie licenze”. Da subito i sindacati hanno posto il veto […]; e i ministri Urso (Imprese) e Salvini (Trasporti) si sono allineati lisciando il pelo alla loro roccaforte di consenso. Certo, andranno alle urne anche le migliaia di persone che hanno aspettato un’ora e mezza un taxi a Roma Termini, a Fiumicino o a Linate. 

Gli anziani, le famiglie con bambini disabili e le donne incinte, a pezzi per il caldo insopportabile di questo luglio. La maggioranza di centrodestra è convinta evidentemente che non perderà troppi voti — già alle europee di giugno 2024 — per l’indisponibilità a liberalizzare il servizio taxi.

Una indisponibilità che prende forma malgrado tanti eventi eccezionali travaseranno migliaia, milioni di persone nelle nostre grandi città. Tra il 25 settembre e il primo ottobre, Roma ospiterà la Ryder Cup di Golf, con 50 mila spettatori attesi ogni giorno. Poi ci sarà il Giubileo del 2025 (con 32 milioni di pellegrini); le Olimpiadi di Milano Cortina del 2026 (1,7 milioni di visitatori); forse l’Expo di Roma del 2030, se assegnato alla Capitale.  Sicuramente il Giubileo del 2033 con addirittura 50 milioni di presenze. Si confida al momento su 7.900 taxi a Roma, 4.855 a Milano, meno di 2.400 a Napoli.

Magra consolazione, entro l’anno […] leggeremo l’ultimo atto di accusa contro le auto bianche. Tra qualche mese l’Autorità Antitrust — garante dei consumatori — divulgherà i risultati della sua indagine del primo agosto che contesta il “sistema delle licenze a numero chiuso”. Condizione di privilegio che scarica sui viaggiatori prestazioni così scadenti. […]

Estratto dell’articolo di Federico Capurso per “la Stampa” l'8 agosto 2023. 

Tutto pur di evitare una rivolta dei taxi. Perché andare allo scontro, per un governo di destra, prenderebbe la forma di un tradimento, una contraddizione storica. Quella delle auto bianche non è una categoria come le altre. Sono voti che Matteo Salvini e Giorgia Meloni blandiscono e si contendono da tempo. E che il leader della Lega, più di chiunque altro, non vuole perdere.

«Io sto con i tassisti» Salvini lo diceva persino quando tiravano bombe carta sotto il Senato per bloccare i tentativi di liberalizzazione del governo Draghi. Ieri sarebbe stato lui - raccontano - a premere in Consiglio dei ministri per eliminare dal decreto la misura più contestata dai rappresentanti dei taxi, con cui sarebbe stata introdotta la possibilità, per chi è titolare di una licenza, di averne una seconda da "affittare" ad altri. Cancellata. Ora le nuove licenze potranno andare solo a «nuovi operatori» ed è così salva la formula "una licenza-un'auto" in difesa della quale anche le sigle sindacali di destra sembravano pronte a scendere in piazza. 

È una prima offerta di pace, ma non basta. Perché in fondo, per i rappresentanti dei tassisti, non c'è «nulla di buono» in questo decreto, se non gli incentivi per l'acquisto di auto non inquinanti che aumenteranno fino a 10mila euro (esteso anche alla categoria degli Ncc). L'aumento delle licenze del 20 per cento nelle città, con procedure semplificate per il rilascio da parte dei Comuni, invece, fa storcere il naso: «Non ce n'era bisogno». 

Anche le licenze temporanee, rilasciate per 12 mesi (prorogabili per altri 12) in previsione di grandi eventi come il Giubileo e le Olimpiadi, sono «inutili», «fanno solo confusione», protestano i sindacati. […] 

Per i sindacati, però, la strada intrapresa dal governo è sbagliata. Non a caso, «la nostra risposta - dicono da Cgil Unica - sarà lo sciopero generale e la mobilitazione. Questo decreto non deve essere convertito in legge». Non esclude di scendere in piazza nemmeno la Uil Trasporti […]: «Incontro surreale. Ho visto il nulla dal governo», allarga le braccia il segretario Marco Verzari. I sindacati di riferimento del centrodestra non restano in silenzio.

«Sono troppe le criticità. E meno male che era un governo amico», dice sconsolato Loreno Bittarelli, presidente di RadioTaxi Italia. Lui che era candidato con Fratelli d'Italia (e non è entrato per un soffio in Parlamento) ora batte i pugni sul tavolo: «Saremo costretti ad agire di conseguenza». 

La trattativa per evitare uno strappo proseguirà nelle prossime settimane. Dal governo inizia già a trapelare il desiderio di concedere una doppia promessa ai tassisti, pur di arrivare a una tregua. Innanzitutto, arriva un'apertura a «interventi migliorativi» del testo, quando arriverà in Parlamento per la conversione. Ma soprattutto, si assicura l'impegno dell'esecutivo per presentare a ottobre un provvedimento più ampio che vada incontro alle richieste della categoria. […]

Estratto dell’articolo di Giacomo Andreoli e Luca Cifoni per “il Messaggero” venerdì 7 luglio 2023.

Sui taxi, in tutta Italia, è sempre più emergenza, con mezzi introvabili o tempi di attesa biblici. Proprio mentre da Nord a Sud è boom di turisti e prenotazioni. Per questo il governo si dice pronto a intervenire, sostenendo con strumenti pubblici l'aumento delle licenze, di competenza regionale e comunale. 

«Ho osservato con attenzione - spiega il ministro delle Imprese Adolfo Urso - quello che accade nelle città e in particolare a Milano e Roma: aspetto dai sindaci di sapere se servono interventi nazionali». Invito subito accolto dall'assessore ai Trasporti della Capitale, Eugenio Patanè. «L'obiettivo - risponde l'assessore - è revisionare la legislazione».

Al primo posto per licenze c'è proprio Roma. Sono in tutto 7.800, a cui se ne aggiungono mille di noleggio con conducente. Nella città, però, c'è solo un taxi ogni 357 abitanti. Nella Capitale a giugno è partita la piattaforma telematica che consente ai titolari della licenza di far guidare il taxi a un altro conducente. […] Al secondo posto si trova Milano. Di licenze ce ne sono 4.900, ma con il bacino aeroportuale si sale a 5404.

In città è da poco scattata la possibilità del doppio guidatore (con la vettura praticamente in servizio 24 ore su 24). Per ora, però, la novità non ha avuto gli effetti sperati: solo un tassista su dieci ha aderito. Secondo Urso il Comune potrebbe dare subito 1000 licenze in più. Per farlo, però, deve arrivare l'autorizzazione dalla Regione Lombardia e il passaggio non è scontato. 

[…] Scendendo più a Sud, nonostante Napoli conti quasi 1 milione di abitanti, il numero di taxi si ferma a poco più di 2 mila. Tra le grandi città, poi, quella che ha meno taxi è Palermo: appena 320 licenze, con i collegamenti che servono quasi solamente il centro e l'aeroporto.

Il ministro Urso […] si è detto disponibile anche a modifiche della legislazione nazionale e ha fatto riferimento alla legge annuale sulla concorrenza. Nel 2022 quando con il governo Draghi il provvedimento arrivò in porto, perse per strada l'articolo 10 dedicato alla riforma. In quel testo, pesantemente osteggiato dai tassisti, al governo veniva data una delega per la riforma di tutto il settore del trasporto pubblico non di linea, che comprende i taxi, ma anche il noleggio con conducente (Ncc) e le forme di mobilità innovative legate alle app. 

Il punto più indigesto era quello relativo alla «promozione della concorrenza, anche in sede di conferimento delle licenze». L'eventuale riassetto normativo nazionale verso una liberalizzazione delle licenze è lo spauracchio di chi oggi ne ha una e teme di vederne diminuire il valore: la possibilità di cederla è considerata dagli interessati come una sorta di liquidazione.

Per questo motivo negli anni scorsi era stata avanzata anche la proposta di forme di compensazione da riconoscere ai titolari. Resta da vedere se l'attuale maggioranza […] vorrà procedere su questa strada. Un'alternativa potrebbe essere l'allargamento dei criteri della "doppia guida" che attualmente è limitata ai familiari (fino al terzo grado). […]

Estratto dell’articolo di Piero Rossano per napoli.corriere.it il 5 Luglio 2023.

«C'è una frangia di noi che si comporta male che si accaparra le corse più "ricche" e rifiuta i passaggi urbani che fanno guadagnare meno soldi». Parola di tassista, ma «pentito». A Napoli è caccia ai turisti. Ma a quelli facoltosi, che hanno come meta località della Costiera Sorrentina se non addirittura Amalfitana o i siti archeologici di Pompei ed Ercolano. 

Succede che una parte della categoria rifiuti le corse cittadine, quelle che fruttano "poche" decine di euro, per accaparrarsi i clienti interessati a tragitti più lunghi. Ed è motivo, questo, di frequenti litigi tra tassisti lì dove i flussi di visitatori sono più significativi. […]

L'uomo sta attento a specificare: «Si tratta di una minoranza». Ma quella «minoranza» è capace di ricavare da una singola corsa fino ad una località delle due Costiera anche 1000/1200 euro. Una cifra spropositata per le tasche di un turista italiano ma, evidentemente, non anche di alcune rappresentanze di quelli stranieri che già da maggio/giugno si sono riversati in gran numero tra Napoli e le località campane di maggior richiamo. Quando, nei percorsi urbani, non attiva il tassametro a suo piacimento. Sono sempre parole sue.

«Un viaggio a Pompei ci fa guadagnare 90/100 euro, verso Sorrento anche 140 euro». Ecco perché nella categoria si fa ormai quasi a botte per intercettare i turisti interessati ad uscire fuori Napoli piuttosto che coloro che chiedono di raggiungere il centro storico. I "grandi affari", ad ogni modo, sono per lo più appannaggio dei cosiddetti mini-van. Prendono su tra le sei e le otto persone, hanno spazio per i bagagli di tutti e la cifra richiesta aumenta in maniera esponenziale fino a superare i 1000 euro.

Il «tassista pentito» addebita in parte a loro i motivi alla base dell'atteggiamento di una parte della categoria, perché «si rompe il mercato», ma riassume le ragioni del malcontento anche con il fatto che «le tariffe sono ferme dal 2017 e non si adeguano al carovita». Un altro motivo dei "rifiuto" delle corse urbane, a sua detta, è «la condizione della viabilità cittadina» […]

Dal “Corriere della Sera” il 2 luglio 2023.

Caro Aldo, il giorno prima della mia partenza ho cercato di prenotare un taxi che mi portasse in stazione: ahimè, la più importante società di taxi di Roma non accetta più prenotazioni da Roma ad un’altra destinazione romana. Incredibile. Giulia Cosmo 

Ero all’ingresso di uno dei padiglioni dell’ospedale San Camillo a Roma. Dovevo accompagnare un paziente per andare alla stazione Termini. Si trattava di una persona che non poteva camminare. Telefono al numero previsto per prenotare un taxi. Mi risponde un disco: all’inizio una cortese voce femminile mi informa su quanto disposto dalle norme sulla privacy, poi arriva la musica, ogni venti minuti riprende il disco. Tutto ciò per oltre un’ora. Ho pensato solo a delle parolacce. Franco Cascia 

Risposta di Aldo Cazzullo 

Cari lettori, sono anni che ci diciamo che in Italia, e in particolare a Roma, mancano taxi. Ma in questi giorni la situazione si è fatta insostenibile. Vi racconto quel che mi è successo. Per 15 giorni sono dovuto andare tutte le mattine dalla Nomentana in centro, nella biblioteca dove abbiamo girato «Una giornata particolare».  

Di solito a Roma mi muovo in scooter, ma la produzione me l’ha vietato: «Metti che cadi, magari non ti fai niente ma ti rovini il vestito che deve essere sempre quello; ti mandiamo noi un taxi». Il problema è che i taxi a Roma non si possono più prenotare. E su 15 mattine l’abbiamo trovato tre volte, dopo aver provato tutti i centralini e tutte le App possibili. Attese infinite e messaggi «spiacenti ma non abbiamo taxi in zona». Io potevo prendere la moto.

Ma chi deve andare in ospedale? Chi deve assistere, che so, un parente al Fatebenefratelli, o in un altro posto in centro dove non si può arrivare con la propria auto? Una persona anziana che deve prendere un treno o un aereo? O che arriva in stazione e deve tornare a casa? Perché a Termini e a Tiburtina si possono contare decine di persone in fila (vedi foto sotto) e nessun taxi. Ma che città è, che Paese è quello in cui non ci sono taxi in stazione? Sulle associazioni di tassisti non possiamo contare.

Una mi ha scritto una verbosa lettera per dire che l’abbondanza di taxi a Madrid — una delle moltissime città al mondo dove il servizio funziona bene — causa un grave problema ambientale. Avrei preferito che mi scrivessero: «Dei problemi di voi clienti non potrebbe importarcene di meno; noi facciamo gli interessi nostri». Ma allora ci devono pensare i sindaci, a cominciare da Gualtieri, e il governo, che alle ragioni dei tassisti è sempre parso molto sensibile, meno a quelle dei passeggeri. E non diteci, vi prego, che la colpa è del traffico. Il traffico c’è sempre stato, a volte anche più feroce di così. Il problema è semplice: non ci sono abbastanza taxi. O volete gettarci nelle braccia di Uber?

Caos taxi a Roma. Roma, i tassisti sono diventati choosy: accettano solo corse più remunerative, stanno alla larga dalla stazione e dagli italiani. Per non parlare delle lotte per il Pos. Ecco l’infausta novità. Giulio Pinco Caracciolo su Il Riformista il 27 Giugno 2023

Roma vorrebbe l’Expo 2030. Una grande occasione di rigenerazione urbana, inclusione e innovazione – si legge sul sito del Campidoglio – un nuovo modo di promuovere la convivenza. Niente di più distante dalla realtà quotidiana attuale della Capitale. Lasciamo stare il problema spazzatura, di cui poco ormai si parla ma che rimane un punto ancora molto critico. Lasciamo stare le linee delle metropolitane con scale mobili rotte, ascensori fatiscenti e acqua dal soffitto. Oppure i mezzi di superficie che fanno ridere. Non tocchiamo il problema delle colonie di cinghiali e gabbiani sono ormai parte della pittoresca fauna capitolina. E non disquisiamo troppo nemmeno delle difficoltà gestionali di una città, con all’interno un’altra città indipendente, una periferia sconfinata, clan, campi rom immensi e un patrimonio culturale sconfinato.

Su una questione però dobbiamo proprio soffermarci. I taxi introvabili e i loro conducenti. Negli ultimi mesi infatti cercare un tassista a Roma è diventata un’impresa impossibile. Prima si trovavano facendo lo slalom tra abusivismo, tariffe improbabili, extra compensi non giustificati e la consueta lotta per il Pos tenuto spento nel cruscotto manco fosse un pezzo di antiquariato – tanto che appena era trapelata la notizia del minimo di 60 euro per il pagamento con bancomat erano già comparsi cartelli di vittoria: “Solo pagamento in contanti”. Adesso però la situazione, se possibile, è addirittura peggiorata.

I tassisti, per utilizzare un termine diventato malauguratamente famoso in Italia, sono diventati choosy. Adesso non vogliono più singoli passeggeri, storcono il naso per disabili e per il trasporto di animali, prediligono agli italiani turisti stranieri confusi su tariffe e percorsi. Ma soprattutto la nuova moda è quella di stare alla larga da Termini perché troppo poco remunerativa. Probabilmente se con una manifestazione potessero spostare la stazione di fianco all’aeroporto, scenderebbero a migliaia in piazza. Si perché la maggior parte di loro va a svolgere il turno in aeroporto, dove le tariffe sono fisse e di conseguenza più alte e quasi nessuno sceglie di stazionare negli scali ferroviari o in altri punti di snodo della mobilità cittadina per evitare di effettuare le corse che generano meno guadagni.

Un passo avanti è già stato fatto: l’assessorato alla Mobilità si è reso conto del problema. E questo non era scontato. Organizzare eventi e presentazioni sensazionali per la candidatura ufficiale a Expo 2030 con gravissimi problemi di trasporto urbano non è il massimo, quindi sta cercando di correre ai ripari tra proposte e piccoli avvertimenti. Per far fronte alla maggiore necessità di taxi in città è arrivata l’ipotesi della “seconda guida”- i tassisti possono indicare un ulteriore autista che tenga in giro l’auto bianca per un turno aggiuntivo, dalle 4 alle 7 ore.

L’auspicio è che ci sia un’adesione almeno al 12 % in modo da avere un impatto simile all’immissione di circa mille nuove licenze, tenendo conto che nella Capitale a oggi sono attive 7.672 licenze. Da qui l’appello del sindaco Gualtieri alla categoria: “C’è questa opportunità della seconda guida, aiutateci a risolvere il problema al meglio”, ha detto. Tenendo conto che le adesioni per la seconda guida sono partite sulla piattaforma dedicata taxi web pochi giorni fa, l’auspicio è che i primi benefici strutturali del provvedimento si possano vedere già a settembre. A quel punto “se il problema si risolverà bene, altrimenti dovremo percorrere altre strade”, ha chiarito Gualtieri.

Il sindaco Roberto Gualtieri, pur chiarendo che l’eventuale immissione di nuove licenze sarebbe un procedimento lungo almeno un anno, sembra non escludere del tutto l’ipotesi, tenendo conto che in vista del Giubileo del 2025 il servizio dovrà essere all’altezza di una Capitale. In un’intervista alla trasmissione televisiva “Agora’” su Rai Tre, Gualtieri ha spiegato che dall’aeroporto di Fiumicino tra gennaio e maggio del 2019 sono state fatte 240 mila corse taxi e nello stesso periodo del 2023 ne sono state effettuate 355 mila.  Il dato del 2023 è determinato dal “forte incremento del turismo internazionale” ma anche “perché ha avuto successo la nostra attività di contrasto all’abusivismo in aeroporto”. E così “essendoci una domanda alta all’aeroporto, i tassisti vanno più lì invece che a Termini, poiché guadagnano di più” e “siccome abbiamo una legislazione del ’93 ormai superata, il sindaco non può sapere dove sta un tassista, non può dirgli dove deve andare a effettuare il servizio”.

In sostanza miglioriamo da una parte e peggioriamo dall’altra. Tiriamo la coperta per coprirci la faccia ma intanto ci scopriamo i piedi. Una situazione davvero surreale paragonandola poi alle capitali europee. Basta fare un salto a Londra, giusto per fare un esempio, per rendersi conto che la situazione è ben diversa. Va bene magari le licenze funzionano in maniera differente etc. etc. ma vi ricordate quando anche in Italia ci siamo azzardati a inserire la comodissima applicazione Uber? Una rivolta.

Anche i disabili protestano per la moria di taxi nella Capitale

Oggi i disabili romani si sono dati appuntamento sotto la lupa del Campidoglio “per protestare contro il disservizio costante dei taxi della Capitale”. “Oltre alla mancanza di taxi che sta affliggendo la nostra città e che crea problemi a turisti e cittadini – spiegano i promotori – per i disabili la situazione è ancora più critica in quanto ben pochi tassisti romani sono disponibili a prendere le corse prenotate dai disabili, e questo non certo per scarsa sensibilità o attenzione dei tassisti verso la disabilità, ma per motivi burocratici ed economici. Il Servizio di trasporto per persone con disabilità viene rimborsato dal Comune con tariffe a volte non congrue e dopo 90 giorni. Quindi i tassisti che accettano una corsa con disabile lo fanno spesso come atto di generosità e altruismo”.

“Il problema dei taxi c’è per tutti, romani e turisti, ma per un disabile o per una persona anziana è veramente una situazione inaccettabile – sottolineano – Restare quasi un’ora in attesa per avere un taxi, anche quando si decide di pagarlo di tasca propria, è un’indecenza. Gli altri magari possono andare a piedi o prendere un autobus, ma chi non vede, è su sedia a ruote, è anziano, o si trova anche temporaneamente in una situazione di fragilità, come fa?”. Giulio Pinco Caracciolo

(ANSA il 16 giugno 2023) - Spedita di notte da un tassista a prelevare 200 euro in contanti, per non pagare col bancomat, dopo che la sua macchina era stata trascinata via dall'acqua per la pioggia. Questa la vicenda di una donna con figlio disabile denunciata dalla giornalista Selvaggia Lucarelli e su cui l'assessore capitolino ai trasporti Eugenio Patanè vuole fare luce. "E' assurdo! Possiamo avere il numero di licenza per adottare le sanzioni del caso?", scrive su Twitter l'assessore Patanè commentando il post in cui Selvaggia Lucarelli.

La giornalista riporta la lettera di una donna, di cui non compare il nome, che si trovava con il figlio disabile a Roma per una visita al Bambino Gesù. La loro macchina, scrive la donna, si sarebbe allagata e la famiglia di quattro persone sarebbe stata soccorsa dal personale del Parco di Veio.

L'assicurazione avrebbe detto alla famiglia di aver trovato un taxi per arrivare a casa, in provincia di Ancona, ma che avrebbe coperto solo 550 dei 750 euro necessari. "Arriviamo a casa distrutti dopo la mezzanotte e il tassista mi chiede 200 euro in contanti" rifiutandosi in sostanza di farsi pagare cl bancomat. Di qui la richiesta dell'assessore di avere il numero di licenza del tassista.

Sebastiano Messina per “la Repubblica il 20 giugno 2023.  

Se abiti a Bolzano e vuoi fare le vacanze all'estero, il passaporto puoi richiederlo solo a gennaio 2024 e lo ricevere – se ti va bene – a Pasqua: ti conviene restare in Italia. Ma non venire a Roma, perché passeresti la prima giornata ad aspettare il taxi. E comunque non venirci oggi perché c'è lo sciopero del trasporto aereo. È la prova che le disastrose campagne dei Meloni Boys sono inutili: basta l'esperienza quotidiana a incoraggiare le vacanze autarchiche. Anzi, a casa propria. 

Dalla rubrica delle lettere di “Repubblica” il 20 giugno 2023.

Caro Merlo, di ritorno in treno da Napoli e, abitando a Montesacro, mio figlio, grande fautore e fruitore dei mezzi pubblici, è sceso a Termini tornando a casa in metro più bus. Io, più comodo, sono sceso a Tiburtina per raggiungere casa in taxi. Chi è arrivato prima? Lui, di circa 40 minuti...Non avevo calcolato la fila lunghissima per prendere i taxi che non c'erano.

Franco Caruso — Roma 

Risposta di Francesco Merlo

Le corporazioni in Italia rendono pesante la vita, dal prendere un taxi al comprare un'aspirina, dall'aprire un negozio al fare impresa, dal bagno in mare alla stipula di un contratto. Si tratti di pescivendoli, che fanno incetta di licenze, o di politici, che si estendono gli stipendi, di balneari, notai, farmacisti o, appunto, di tassisti, le corporazioni sono il filo che ha unito fascismo, regime democristiano e sindacato comunista.

Sono il tratto distintivo del lavoro italiano, la premodernità, la nostra incapacità di misurarci con il mercato. Infatti, nessuno è riuscito a smantellare le rendite di posizione ei privilegi che hanno trasformato tutte queste categorie in famiglie allargate, tribù, cosche, con una grande forza di ricatto economico ed elettorale. 

Le liberalizzazioni, che erano il sogno dell'elettore di centrodestra, furono uno dei tradimenti dei governi Berlusconi e sono state combattute da Meloni e da Salvini più della stessa immigrazione. Credo che alla fine in Italia ci abbiano provato solo Bersani (ministro del governo Prodi) e Mario Monti. Di sicuro, con la destra al governo le corporazioni sono più forti che mai. Ecco, non la fascisteria del saluto romano, ma le corporazioni illustrano quella “eternità del fascismo” che fu denunciata da Sciascia e Pasolini.

I taxi non si trovano: e allora facciamoli guidare ai parenti. Carlo Tecce su L'Espresso il 14 Giugno 2023  

Visto che è impossibile aumentare le licenze, il sindaco di Roma prova ad allungare i turni. Permettendo di coinvolgere anche i congiunti dei titolari, come è stato fatto a Milano. Ma il problema rimane

L’ultima calamità italiana è l’immobilismo urbano. Non l’immobilismo che blocca lo sviluppo, il progresso, le carriere e strozza l’ascesa sociale. Proprio l’immobilismo in senso fisico. Lo stare fermi. A una banchina dei mezzi pubblici. A un cartello dei taxi, che sono pure mezzi pubblici (troppo spesso lo si dimentica), «non di linea» perché il percorso lo indica il cliente e non è prefissato a differenza delle tariffe per km. La pandemia ha restituito un turismo di massa costante e invasivo e non le mirabolanti opere di trasporto magari ecosostenibili per l’ambiente e l’udito.

Allora la polemica è antica: è contro i tassisti, categoria che divide l’opinione (pubblica, anche qui), spesso accusata dei peggiori sotterfugi (e il bancomat non funziona, è vero il contrario, funziona ormai ovunque, per esperienza), certamente dotata di uno spirito corporativo che spaventa la politica nazionale delle debolezze e gli amministratori locali delle esitazioni.

Il tema è talmente attuale - i taxi non si trovano! - e talmente sentito in metropoli come Roma - gli autobus non passano! - che finalmente e timidamente se ne parla. E ne ha parlato finanche il sindaco Roberto Gualtieri. Il governo tecnico di Mario Monti buttò giù con le lacrime di Elsa Fornero la feroce riforma delle pensioni, ma non riuscì a intervenire per davvero sui tassisti. Le licenze sono poche. Falso. A Roma ce ne sono 7.800, a Berlino sono 6.000, a Parigi una ogni mille abitanti. (Provate a fare paragoni sul resto dei mezzi pubblici). Le auto a noleggio con conducente (Ncc) non sono sufficienti. Falso. A Roma quelle autorizzate sono 1.000 e però ne capitano migliaia da ogni comune d’Italia. Vero che a Londra, dove è tutto libero e tutti sono tassisti, a prezzi molto esosi la corsa si fa. Vero che a New York i taxi sono 15.000 per 9 milioni di residenti, ma le Ncc sono 80.000.

Siccome le licenze, dunque il numero dei taxi, sono un tabù perché per i tassisti sono il trattamento di fine rapporto e sono vendute tipo all’asta (sui siti sono quotate tra i 150.000 e i 200.000 euro), i sindaci di Roma e Milano si sono inventati i turni lunghi. L’esperimento parte da Giuseppe Sala. Il taxi collegato a una licenza può circolare più del turno prestabilito con le «doppie guide»: all’autista titolare viene affiancato un parente sino al terzo grado (è servizio pubblico, ma anche familiare!). In questo modo non vengono aumentate le licenze e quindi vengono scongiurate le proteste.

Poiché a Milano il lodo Sala ha funzionato, il romano Gualtieri l’ha adottato con grande entusiasmo e una certa soddisfazione: «Contiamo che si possa avere quasi un raddoppio delle corse aumentando il servizio in punti e orari critici, come di sera nei fine settimana alla stazione Termini. Ci sono luoghi e orari - ha dichiarato - in cui la disponibilità è molto efficiente e altri in cui ci sono criticità. Se arrivassimo al tasso di adesione del 12 per cento, sarà come avere mille nuove licenze a Roma. Non si spalma sull’intero tempo e spazio del servizio, ma soltanto dove c'è necessità e in modo coerente con i picchi di domanda». Se arrivassimo. E anche se partissimo. E vissero tutti felici e in attesa.

La sentenza ha valenza immediata e prevale su normative nazionali. Licenze taxi, Corte di Giustizia europea boccia le limitazioni: “Sono illegittime”, precedente storico a Barcellona. Redazione su Il Riformista l'8 Giugno 2023 

I limiti del numero di licenze per noleggio veicoli con conducente sono illegittime qualora la giustificazione fondamentale sia quella di proteggere la praticabilità economica del servizio: cioè il reddito dei tassisti oppure il valore delle licenze. E’ quanto sentenziato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea che ha ritenuto contraria al diritto Ue la limitazione del numero di licenze per Ncc nell’agglomerato urbano di Barcellona perché “imporre l’ottenimento di una licenza aggiuntiva rispetto a quella prevista a livello nazionale può rivelarsi necessario per la corretta gestione del trasporto, del traffico e dello spazio pubblico nonché per la protezione dell’ambiente”, si legge nella decisione.

La Corte Ue si è espressa in merito al caso sollevato dalla società Prestige and Limousine, titolare di autorizzazioni per la gestione di un servizio di Ncc a Barcellona. L’azienda aveva chiesto, infatti, l’annullamento della normativa locale che impone alle imprese già in possesso di un’autorizzazione per la fornitura di servizi di Ncc in Spagna di ottenere una licenza aggiuntiva al fine di prestare gli stessi servizi a Barcellona. La stessa normativa limita il numero di licenze di servizi di Ncc a un trentesimo delle licenze di servizi di taxi concesse per lo stesso agglomerato urbano.

Una sentenza, quella della Corte Ue, che ha rilevato come il requisito di un’autorizzazione specifica aggiuntiva e la limitazione del numero di licenze costituiscano restrizioni all’esercizio della libertà di stabilimento, poiché il primo limita effettivamente l’accesso al mercato per qualsiasi nuovo arrivato e la seconda restringe il numero di prestatori di servizi di Ncc stabiliti nell’area urbana in questione.

La sentenza della corte europea ed i principi generali che contiene hanno valenza immediata e generale, e prevalgono sulle normative nazionali, comprese quelle locali. Ne consegue che anche il sistema italiano potrebbe esserne riguardato, laddove sia basato su un sistema di limiti quantitativi delle licenze taxi.

I taxi sono spesso troppo pochi per pareggiare la domanda di trasporto e costano tanto. Liberalizzare i taxi per superare il sistema delle licenze e aprire il mercato all’offerta e a costi più bassi. Giuseppe Benedetto,presidente Fondazione Einaudi, su Il Riformista l'1 Giugno 2023 

Nel “Si&No” del Riformista spazio al tema sulla liberalizzazione o meno dei taxi. Favorevole Giuseppe Benedetto, presidente Fondazione Einaudi, secondo cui occorre “superare il sistema delle licenze e aprire il mercato all’offerta“. Contrario Marco Osnato, deputato Fratelli d’Italia, orientato a “combattere gli abusivi preservando la qualità del servizio”.

Qui il commento di Giuseppe Benedetto:

Il ruolo del trasporto pubblico è cruciale anche per definire la qualità della vita nei grandi centri urbani. Si tratta di definire le caratteristiche di un servizio pubblico, che deve esser inteso come servizio pubblico in senso oggettivo, prescindendo dalla natura pubblica o privata del soggetto che eroga tale servizio. Nel servizio di trasporto pubblico urbano in Italia, le componenti che partecipano all’offerta sono: i servizi di rete (autobus, tramvie, metropolitane, ove esistenti, etc.) ed il trasporto effettuato tramite i taxi.

Da tempo in Italia si discute della opportunità di rivedere il regime delle licenze relative ai taxi e favorire una maggior offerta di tale servizio. Il punto di partenza è frutto dell’esperienza quotidiana. I taxi sono spesso troppo pochi per pareggiare la domanda di trasporto, e mediamente costano più dello stesso servizio offerto in altri contesti urbani non italiani. Nella sola Roma il numero di taxi per mille abitanti è di 2.9, mentre, ad esempio, Stoccolma è di 7.8 taxi per mille abitanti (dati 2017). Inoltre si tratta di un mercato caratterizzato da una domanda elastica: alla diminuzione del costo per chilometro cresce più che proporzionalmente la domanda di quel servizio.

Nella determinazione del costo incide anche la necessità, per chi offre il servizio, di ammortizzare il costo della licenza che ha dovuto anticipare per entrare nel mercato. In termine economici la licenza costituisce una barriera all’entrata il cui onere viene trasferito sull’utente del servizio. Ma il regime delle licenze influisce sulla elasticità dell’offerta di taxi sul mercato: l’ammissione di nuovi vettori non segue le esigenze della domanda perché le licenze vengono amministrate da un organo pubblico. Il che spiega perché sia frequente assistere a lunghe code presso i più frequenti punti di prelievo, o perché sia maggiore il tempo di attesa del taxi.

Se questa è la situazione, la risposta liberale non può che essere favorevole ad una maggiore apertura del mercato dal lato dell’offerta, superando il sistema delle attuali licenze. In una parola: più taxi. Le obiezioni che vengono sollevate da chi non ritiene positiva una simile scelta sono legate a due rilievi: a) il costo della licenza penalizzerebbe i tassisti esistenti; b) con maggiori veicoli si ridurrebbe il traffico dei taxi e quindi il reddito disponibile. Alla seconda obiezione è facile rispondere: se la domanda del servizio è elastica, il prezzo per la corsa sarebbe soggetto ad una riduzione, favorita dalla maggiore concorrenza e dal fatto che su quel prezzo non verrebbe più a gravare il costo di ingresso al mercato. Il ragionamento dei contrari a tale liberalizzazione, infatti, è viziato da un pregiudizio fatale: l’idea, errata, che la domanda di taxi sia fissa, mentre l’esperienza economica dimostra il contrario. Quanto alla prima obiezione, ovvero la disparità associata tra concorrenti che hanno pagato e la licenza e in nuovi concorrenti che vi accedono senza, si risolve con meccanismo di compensazione per il valore residuo di quella licenza mediante un beneficio fiscale.

Esisterebbe una terza obiezione: quella che immagina le città a questo punto inondate da auto bianche. Ora, qui si deve esser chiari: come insegnava 250 anni fa Adam Smith dovrebbe esser “evidente che ogni individuo, nella propria condizione locale, può giudicare molto meglio di quanto possa fare in sua vece qualunque legislatore o statista […] L’uomo di Stato che dovesse cercare di indirizzare i privati relativamente al modo in cui dovrebbero impiegare i loro capitali, non soltanto si addosserebbe una cura non necessaria, ma assumerebbe un’autorità che non solo non si potrebbe affidare tranquillamente a nessuna persona singola, ma nemmeno a nessun Consiglio o Senato, e che in nessun luogo potrebbe essere più pericolosa che nelle mani di un uomo abbastanza folle da ritenersi capace di esercitarla”.

Brevemente: saranno i singoli potenziali concorrenti a dover decidere se entrare o meno in quel mercato. E questo, in ogni caso, è assai più efficiente di quanto non possa decidere qualsiasi mezza manica impiegata in un ufficio comunale, che magari nemmeno lo prende il taxi per spostarsi. Se si seguissero queste semplici linee di intervento, si assisterebbe ad una maggior offerta di taxi, ad un minor costo del servizio, e ad un maggior utilizzo di questo vettore come mezzo di trasporto. E tale conseguenza sarebbe anche apprezzabile perché produrrebbe una esternalità positiva: traffico meno congestionato dall’utilizzo di mezzi privati, nella misura in cui diverrebbe più facile e meno costoso utilizzare il taxi. Giuseppe Benedetto / presidente Fondazione Einaudi

Il regime concessorio deve essere migliorato. No alla liberalizzazione dei taxi: meglio combattere gli abusivi preservando la qualità del servizio. Marco Osnato, deputato Fratelli d’Italia su Il Riformista l'1 Giugno 2023 

Nel “Si&No” del Riformista spazio al tema sulla liberalizzazione o meno dei taxi. Favorevole Giuseppe Benedetto, presidente Fondazione Einaudi, secondo cui occorre “superare il sistema delle licenze e aprire il mercato all’offerta“. Contrario Marco Osnato, deputato Fratelli d’Italia, orientato a “combattere gli abusivi preservando la qualità del servizio”.

Qui il commento del parlamentare Marco Osnato:

Quando si discute se e come liberalizzare un settore c’è sempre il rischio di infrangersi contro un muro di approcci ideologici, sia a favore che contro. A ben guardare, in nessun settore il dibattito sulla “struttura del mercato” può essere semplificato in maniera manichea. Ce lo insegna la storia del pensiero economico: Milton Friedman non poteva certo essere accusato di essere nemico del mercato, ma la sua scuola di Chicago è nota anche per aver difeso la legittimità dei profitti acquisiti in assenza di quella chimera chiamata concorrenza perfetta. Qualcosa che non si è mai visto sulla faccia della Terra: perché mai, allora, dovrebbe esistere nel comparto dei taxi?!

Andiamo con ordine. Tanto per cominciare, il nostro è un Paese davvero strano. Si discute da anni se aprire a forme alternative di servizio, come per esempio quella rappresentata da (alcune versioni di) Uber. Eppure, mi sembra che nessun amante della concorrenza abbia mai avuto da ridire sull’esercizio abusivo della professione da parte dei (tanti) signori che ti fermano fuori dalla stazione, mormorando un allusivo “Taxi?” mentre aspetti i servizi di chi – avendo regolare licenza – soggiace a spese e controlli di ogni tipo.

Se si chiede ai veri tassisti perché siano di fatto inerti contro il malaffare, la risposta è sempre la stessa: perché il Comune non fa nulla. Hanno ragione: dovrebbe essere l’ente concessore a intervenire per ripristinare la legalità. Fra i tanti ostacoli fronteggiati dai tassisti regolari, dunque, c’è anche la difficoltà nell’interfacciarsi con le amministrazioni locali (Roma e Milano sopra tutte). Veniamo al nocciolo della questione. Pagare profumatamente una licenza basterebbe, di per sé, a giustificare quello che i paladini della concorrenza tout court definiscono “privilegio”?

Certo che no; non è questo il punto. Se la questione fosse meramente economica, si potrebbe cercare una soluzione come per i balneari: alcuni giorni fa, un esponente della Commissione europea – esprimendo un parere personale – si è detto favorevole a indennizzare gli attuali concessionari che dovessero perdere quanto loro assegnato. La direttiva Bolkestein impone di bandire nuove gare che prevedano regole certe: questo va contemperato, però, con le opportune tutele per una categoria produttiva importante, fondamentale per un Paese a vocazione turistica.

Riguardo alle concessioni dei taxi, tuttavia, gli standard qualitativi – a partire da tariffazione e sicurezza – sono già oggi garantiti, almeno in linea di principio. La disciplina è assai rigorosa, proprio perché la natura stessa del servizio rende l’abusivismo più ‘semplice’ e dunque diffuso. Risolvere integrando gli abusivi nel circuito della legalità è un’utopia, favoleggiata da chi si batte per liberalizzare tutto (a partire dalle droghe leggere) ma non si preoccupa del vero significato della libertà.

Lo scenario alternativo, determinato da un’eventuale liberalizzazione, sarebbe molto deteriore. Non dimentichiamo che Uber opera tranquillamente in Italia, adeguandosi alla disciplina degli Ncc. Resta precluso, invece, il servizio “Pop”: è incompatibile con il ‘controllo qualità’ indispensabile per un servizio di pubblica utilità, così intimamente connesso con la vita e la salute degli utenti.

Dunque cos’ha in mente, di preciso, chi vorrebbe ‘aprire’ il settore? Non è chiaro. E forse il non-detto è determinante: si vuole per caso spingere migliaia di tassisti, strutturati come lavoratori autonomi o soci di cooperative, tra le braccia dei colossi multinazionali? Se qualche autoproclamato liberale fosse a favore di questo scenario, forse dovrebbe rileggere Ronald Coase sull’origine e il significato di un’organizzazione aziendale strutturata.

Bene difendere le imprese. Bene non avere pregiudizi contro le multinazionali, se espandono la libertà di scelta dei consumatori senza diminuirne le garanzie. Ma il regime concessorio deve essere migliorato, a partire da un taglio a tutti quei balzelli che non servono a migliorare il servizio reso. Certo, servirà una disponibilità che spesso la categoria non ha dimostrato in favore di numeri e metodi più attagliati all’epoca in cui viviamo, ma non può essere distrutto tutto diminuendo le certezze tanto per la ‘borsa’ quanto – soprattutto – per la ‘vita’ degli utenti finali. Marco Osnato / deputato Fratelli d’Italia

Estratto dell’articolo di Riccardo Caponetti per “la Repubblica - Edizione Roma” il 24 maggio 2023

I tassisti con partita Iva dichiarano solo una piccolissima parte del loro vero incasso. Un fenomeno esteso in tutta Italia, ma soprattutto a Roma, dove in media — secondo dati governativi diffusi ieri sera da Le Iene — nel 2021 hanno guadagnato 6.240 euro lordi all’anno: ovvero 520 euro al mese, comprese le tasse. La metà di Milano ( 11.411) e Napoli (19.890), molto meno dei colleghi di Bologna (9.642). Meglio solo di quelli di Firenze (5.238).

[…] Perché allora, se gli stipendi sono questi, le licenze dei taxi costano più o meno 140 mila euro? E quanto pagano davvero di tasse i tassisti? Con questo doppio interrogativo si è aperto il servizio di ieri sera […]. Al centro c’è sempre lui, il Pos, che rende tracciabili tutti i pagamenti ricevuti. 

Dunque se per 30 giorni al mese si effettuano transazioni con la carta di credito, mentire allo Stato è impossibile. Ma se si evita di usare, a quel punto diventa facile dribblare le tasse. A confessarlo sono gli stessi conducenti intercettati da Le Iene.

«Pensa che sto mese a dicembre arriverò a guadagnare sui 9 mila euro, ma ho sempre una busta paga di 1.500 » , esordisce un tassista. 

«A Roma io in 42 anni non ho mai avuto accertamenti da parte dell’Agenzia delle entrate. Io dichiaro sempre una busta paga di 1.500- 1.300 euro. Poi […] tutti gli altri soldi che hai incassato sono tuoi, non te li tocca nessuno i contanti. Non si tracciano, capito?».

La strategia è chiara. «Bisogna tenere un conto mentale o scritto, fai come ti pare, ma devi arrivare a incassare con il Pos massimo sugli 800-1000 euro al mese», spiega un terzo tassista. Altro che stipendi da fame o rimborsi spese, l’attività può essere molto redditizia. 

«Adesso ho fatto una corsetta di 8 euro e me li ha dati in contanti, 200 euro al giorno li faccio. C’è gente che si compra casa così eh», puntualizza un’altra persona.

Per questo ha destato scalpore la decisione di un tassista di Bologna, Redsox (Roberto Mantovani), di pubblicare su Twitter ogni giorno i suoi guadagni. […] In totale in due settimane, con 3 giornate di riposo, i suoi incassi trasparenti ammonterebbero già a 5.638 euro: ovvero la metà di quanto in media i suoi colleghi con partita Iva hanno dichiarato per tutto il 2021.

 […]. Il tema del Pos si affianca a un altro problema, segnalato più volte dall’Amministrazione: le truffe. Ovvero la richiesta di prezzi più alti rispetto al dovuto, magari ai turisti. Una possibile soluzione […] l’aveva proposta Alessandro Onorato, assessore allo Sport, turismo, moda e grandi eventi: dei totem agli arrivi o al ritiro bagagli a Fiumicino e Ciampino, su cui digitare la destinazione da raggiungere in taxi, per ricevere un voucher da presentare fuori l’aeroporto a tassista, che non potrà così chiedere una cifra diversa.

Estratto dell’articolo di Riccardo Caponetti per “la Repubblica - Edizione Roma” il 24 maggio 2023

Sconti per chi paga in contanti, un utilizzo calendarizzato delle carte di credito, viaggi fuori città giustificati con motivi personali. Oppure la classica scusa che il Pos «non funziona». Sono questi i principali trucchetti dei tassisti per impedire ai propri clienti di saldare la corsa con un pagamento elettronico, in favore del cash. Contanti non tracciabili. 

Poco importa che ci sia una legge che impone ai commercianti di accettare carte di credito e bancomat per qualsiasi importo e non solo per le spese superiori a 60 euro, la soglia che il governo Meloni inizialmente avrebbe voluto stabilire.

[…] Ieri sera, poi, a denunciare le abitudini di alcuni tassisti sono state Le Iene. «Con la carta sono 45 euro, contanti invece 40», dice un uomo a un turista, che invogliato dallo sconto senza pensarci apre il portafoglio e prende le banconote. 

I clienti ideali sono le famiglie in arrivo dall’estero a Roma. Con loro si può giocare la carta del mal funzionamento del Pos senza problemi. «Eh glielo dici alla gente, specialmente agli stranieri. Gli spieghi “no battery, only cash, sorry”. Tanto se sono famiglie stai tranquillo che montano in macchina e ti pagano con i soldi » , racconta un tassista nel servizio.

Il motivo per preferire i contanti alla carta di credito è noto: i pagamenti con il Pos sono tracciabili e dunque vanno dichiarati. Il guadagno in banconote e quindi potenzialmente in nero, invece, è netto. Inoltre non ci sono nemmeno le commissioni alle banche. Qui si gioca la partita. «Quando tu stai verso il 20 del mese, stacchi il Pos. Avvisi che non funziona e che ti devono pagare in contanti. Glielo spieghi prima di salire in macchina che non funziona il bancomat, se gli va bene montano. Altrimenti se ne cercano un altro» […].

Estratto dell’articolo di Fer. M. Mag. per “il Messaggero” il 17 maggio 2023.

Sanzioni più efficaci, un adeguamento delle tariffe legato all'Istat e quindi più rapido, accesso gratuito allo 060609 e, soprattutto, la possibilità di non perdere, nell'ambito della famiglia, la licenza in caso di morte prematura del familiare. 

Sono queste le principali novità approvate ieri in Assemblea capitolina nella riforma del Regolamento comunale del Trasporto pubblico non di linea ovvero la norma che disciplina i taxi e i noleggi con conducente (Ncc).

Il voto del Consiglio comunale è arrivato all'unanimità di tutte le forze politiche, un po' una novità nel panorama politico cittadino dove voti simili sono una rarità. […] 

«Nel nuovo testo sono state inserite delle norme grazie alle quali potremo definire i turni tramite un'apposita piattaforma web: questo nuovo modello permetterà all'amministrazione di garantire un numero più consistente di vetture nei momenti di picco della domanda.

Tra le altre novità, un iter più agevole per la trasferibilità delle licenze e la gratuità, per i tassisti, del servizio "Chiama Taxi 060609" che diventerà un importante strumento per operatori, cittadini e turisti anche perché sarà integrato con tutte le nuove tecnologie applicate alla mobilità, tra cui la MaaS, Mobility as a Service». 

Ad illustrare la delibera in Aula è stato il presidente della commissione Mobilità, Giovanni Zannola (Pd). La gratuità dell'accesso allo 060609 è importante, ha spiegato, «perché in futuro con un'applicazione unica si potrà accedere a tutti i servizi di trasporto pubblico di linea e non di linea, e sharing. Consentire al mondo del taxi e degli Ncc di accedere gratis a questo servizio non solo ci permette di aumentare l'offerta pubblica ma anche di aumentare il parco delle vetture che garantiranno la mobilità per i disabili».

[…] Soddisfazione è stata espressa anche dai consiglieri della Lista Civica Gualtieri, Giorgio Trabucco ed Elisabetta Lancellotti: «Dopo un proficuo lavoro tra commissione Mobilità, Assessorato e le diverse associazioni di categoria il nuovo Regolamento apporta delle modifiche importanti soprattutto per quanto riguarda le indicazioni in caso di malattia o morte dei titolari di licenza, con un iter semplificato e più agevole per la trasferibilità della licenza, anche in caso di erede minorenne.

Nel precedente Regolamento, nel caso di improvvisa e grave invalidità del titolare si perdeva la licenza, mentre con le nuove indicazioni si dà la possibilità di cederla in eredità, sia se l'erede è minorenne ma anche, in caso di non disponibilità momentanea o definitiva di eredi, di darla a terzi. Lo stesso discorso vale in caso di morte del titolare di licenza, con delle tempistiche e delle modalità di azione che sono ora ben delineate nel Regolamento».

Dagospia il 9 maggio 2023. FLASH! – IL “CUCÙ” DI SEBASTIANO MESSINA: “QUANDO VENGONO A SAPERE CHE VUOI PARLARE, PRIMA SPARGONO LA VOCE CHE TU SEI UN INFAME. POI TI MINACCIANO CON UN MESSAGGIO ANONIMO. E SE NON HAI ANCORA CAPITO TI TAGLIANO LE GOMME DELL’AUTO. SUCCEDE A UN TASSISTA DI BOLOGNA – ROBERTO MANTOVANI – COLPEVOLE DI AVER RIVELATO CHE IN UNA SOLA NOTTE HA INCASSATO 596 EURO, SFIDANDO APERTAMENTE LA BANDA DEI NO POS CHE PRETENDONO L’OMERTÀ SUI LORO GUADAGNI. NON È NECESSARIO ANDARE A PALERMO, PER SCOPRIRE COME FUNZIONA IL METODO MAFIOSO…”

Da iene.mediaset.it il 10 maggio 2023.

I dati sulle dichiarazioni medie dei tassisti intesi come persone fisiche con partita iva delle maggiori città italiane nell’anno 2021 dicono che: a Roma per 3.896 taxi la dichiarazione al fisco è in media pari a 6.239 euro l’anno. A Milano 1.961 vetture avrebbero dichiarato in media 11.410 euro l’anno, a Bologna per 319 taxi la media è pari a 9.642 euro l’anno, a Firenze 366 titolari di licenza dichiarano 5.238 euro l’anno, a Napoli 132 tassisti hanno dichiarato una cifra pari a 10.889 euro l’anno e, infine, a Palermo 211 conducenti dichiarano 5.831 euro l’anno.

Continua l’inchiesta de Le Iene sul mondo dei taxi concentrandosi, questa volta, sul tema dell’evasione. Si è parlato spesso dell’avversione di molti tassisti italiani all’uso del Pos da parte dei loro clienti, denunciata anche da personaggi pubblici nei mesi scorsi sui loro social (Silvia Salis, Carlotta Ferlito, Ema Stokholma, tra le altre). 

Perché è così sgradito l’utilizzo dei dispositivi che permettono pagamenti con carte? E perché molti tassisti sono così contrari alla geolocalizzazione delle loro corse? Nel servizio andato in onda martedì 9 maggio se lo chiedono Nicolò De Devitiis e Marco Occhipinti che hanno provato a comprare delle licenze in vendita tra Roma e Milano, documentando tutto quello che c'è da sapere tra prezzi ufficiali, pagamenti in nero, incassi tracciati e “trucchi” del mestiere per non far risultare parte dei guadagni.

I prezzi delle licenze vanno tra i centoventi e i centosessantamila euro. Ma se un tassista ogni anno in media guadagna quando dichiara - a Roma circa settemila e cinquecento euro e a Milano circa tredicimila euro - com’è possibile che una licenza taxi poi sia venduta a prezzi così alti? 

Il dialogo con il primo tassista interpellato spiega in quanto tempo dall’acquisto della licenza, che nel suo caso è stata messa in vendita per 135 mila euro, si comincia a guadagnare: “Tutte le tasse andrai a pagare intorno a 600 euro. Io quando la presi in lire erano 210 milioni, in tre anni mi ero pagato la licenza, al quinto anno mi ero comprato casa e al settimo anno mi ero comprato un pezzo del garage, poi mi sono comprato un'altra licenza”. 

Ma già a partire dal pagamento c’è qualcosa che non va: “Te dico subito che 30 non devono manco figurà, perché tanto, dovunque vai, è così. Almeno 100mila euro netti me li fai pigliare, me li dovresti dare contanti, come ho fatto io ai tempi”.  

Un secondo tassista, che ha messo la sua licenza in vendita per 140.000 euro, fa capire come si fa a recuperare, fuori dalla legalità, un investimento così importante: “Ci sono i contanti, non è che tu devi per forza scrivere che hai incassato 80 euro. I trucchetti sono questi, tu dichiari una cifra, diciamo congrua, non è che puoi dire che non hai incassato niente, quindi devi comunque dichiarare e decidi che stai sotto i 20mila euro, poi, paghi un tot percento.” Il terzo tassista spiega come fare con tutto il resto dei soldi incassati oltre il totale dichiarato: “Se tu cominci a fare tutto bancomat, bancomat e bancomat, cioè non è che puoi dichiarare 80 euro al giorno.”

Un altro tassista aggiunge qualche dritta: “Guarda stammi a sentire, ma che rimane fra di noi, tu in genere al mese vai su 5-6mila euro se lavori normalmente, cioè ti fai 3 giornalieri e 2 notturni poi te ne puoi stare a casa due giorni e tiri su 5-6mila euro al mese, però devi cercare di pigliare i contanti, nel senso poi la gente può pagare pure con il pos però quando tu stai verso il 20 del mese stacchi il pos, gli dici che non funziona e ti devono pagare in contanti, li avvisi prima di salire in macchina e loro devono darti i contanti, capito? Se gli va bene montano se no ne cerca un altro. Te fai il nero.” 

In tutto a Roma l’inviato ha provato a comprare cinque licenze da tassiti diversi e tutti hanno ammesso di incassare al mese di più di quanto dichiarato in media in un intero anno. A Milano invece come funziona?

Il primo tassista incontrato spiega: “Io la vendo a 160 questo è un bel lavoro, perché sei autonomo, più lavori, più guadagni. Lo ammortizzi in 4 anni, sotto i 2mila netti non ci vai, lavorando poco, 5 giorni a settimana. Allora il mio turno è 8-18 ho iniziato sta mattina da malpensa, adesso senza sbatti ho 230 euro in tasca se tu fai un turno tipo 12-22 guadagni molto di più di quello che posso guadagnare io. Se tu hai voglia compri una macchina di un certo tipo ti fai il culo eccetera 8mila-9mila.

E un altro tassista milanese aggiunge: “Se parliamo di incassi 300 euro al giorno li fai, però non devi fare la mattina dalle due alle tre a mezzanotte, l’una. È il turno più redditizio perché hai la notturna dalle 9. Un anno sono arrivato a incassare 90mila euro. poi dopo si dichiarava un po’ più della metà. Poi, spiega anche come non lasciare traccia per possibili accertamenti del fisco: “...perché hai 300 euro di benzina, più fatture metti li e piu devi dichiarare perché io non metto mai lì le fatture del gommista, del lavaggio macchina me la lavo io con la canna non me ne frega un cazzo… il gommista cambio gomme, cazzo volete da me? cioè io cambio le gomme ma non lo dichiaro, non mi interessa. 6mila euro li porti a casa, lavori 25 giorni al mese. il fisco vive e lascia vivere.

Insomma, se si vuole essere lasciati in pace dal fisco meglio non documentare benzina, lavaggio e cambio gomme. 

A Roma e a Milano la storia sembra essere sempre la stessa, incassi alti, dichiarazioni basse, Pos da usare fino ad un certo giorno del mese, e poi solo pagamento in contanti. 

Dopo una serie di casi documentati di scuse di vario tipo addotte da tassisti romani per giustificare il mancato utilizzo del Pos (“Sorry madame, i finish the battery” o anche “Sorry sir the pos is broken”) Le Iene incontrano un tassista che, in creatività, supera i suoi colleghi.

Prelevato i turisti a Fiumicino e arrivato a destinazione non solo chiede il doppio della tariffa prevista ma s’inventa una scontistica del tutto particolare: “It’s less price, whit the card 45, the cash 40”. Con la carta il pagamento è di 45 euro, con i contanti diventa 40 euro, cinque euro in meno. Il tassista fugge via senza dare spiegazioni alla Iena che conclude “Sembra solo a noi o c’è qualcosa che non torna?”.

Da iene.mediaset.it l'1 febbraio 2023.

È andato in onda ieri sera (martedì 31 gennaio, ndr.) a “Le Iene” il servizio in cui Nicolò De Devitiis e Marco Occhipinti sono tornati a occuparsi del “Taxi selvaggio” a Roma. 

Il video documenta come funziona la “cricca” dei tassisti di Fiumicino che, noncuranti di telecamere di sorveglianza, squadra vettura dei vigili e personale ADR con fratini gialli, ha architettato un sistema per selezionare i turisti «polli da spennare» a cui praticare tariffe fuori legge, creando un disservizio per i clienti italiani che non è possibile ingannare con la stessa facilità.

Così raccontano a Le Iene i loro colleghi onesti stufi di lavorare ogni giorno con prevaricazioni e minacce. I tassisti furbetti si posizionano sul lato destro della fila facendo scorrere alla loro sinistra i loro colleghi regolari per poter così selezionare i turisti da caricare sulla propria vettura, senza rispettare la fila dei clienti e quella dei taxi.

I filmati da Le Iene documentano come la fila dei taxi scorra in maniera totalmente irregolare e che basterebbe poco per la Società degli Aeroporti di Roma o del Comune porre fine a questa sorta di racket. La cosa incredibile è che dopo i servizi sul taxi selvaggio all’aeroporto internazionale di Ciampino, durante la commissione Mobilità di Roma Capitale, l’assessore competente Eugenio Patanè abbia parlato dell’aeroporto di Fiumicino come modello a cui ispirarsi per risolvere, una volta per tutte, il problema del taxi selvaggio. 

E invece Le Iene documentano che anche un importante manager della Nike, arrivato a Roma per lavoro, resti a piedi perché i taxi nella notte preferiscano scegliere turisti a cui chiedere 300 euro, quando la tariffa prevista dal comune per raggiungere il centro di Roma è pari a 50. 

Ma non solo: anche per andare nella vicina Fiumicino viene chiesto il doppio della tariffa prevista, 50 invece di 26 euro, calcolati sulla tariffa chilometrica massima consentita. E ancora, il video mostra anche tassisti furbetti che cercano di fare car sharing molto particolare: invece di mettere insieme clienti che risparmierebbero per fare la stessa tratta, si mettono insieme persone che non si conoscono tra loro e che pagano ognuno la tariffa per intero raddoppiando irregolarmente l’incasso del conducente.

Nonostante l’ADR abbia fatto un percorso per facilitare il raggiungimento dei taxi regolari, una volta superate le porte scorrevoli al passeggero capita di imbattersi in un tassista abusivo che chiede 140 euro per andare a Roma, salvo poi scappare a gambe levate quando si accorge che a seguirlo non ci sono più i malcapitati turisti ma la Iena De Devitiis pronta a chiedere spiegazioni. Ciliegina sulla torta, se vuoi andare a Ostia, che è lì vicino all’aeroporto, capita anche che, dopo numerosi rifiuti da parte dei conducenti in fila, finalmente il cliente riesca a trovare un tassista disposto al servizio dovuto per legge solo perché la scena è filmata dalla telecamera de Le Iene.

Estratto dell'articolo di Edoardo Izzo per lastampa.it il 10 marzo 2023.

Provocazioni, intimidazioni, minacce, ronde e inseguimenti su strada nella notte. Conducenti di Ncc, alle volte donne, affiancati e intimoriti, perché la piazza è dei tassisti e nessuno può permettersi di avvicinare i clienti fonte di denaro. Siamo nel cuore di Firenze, a piazza della Repubblica, in pieno centro storico.

 Ad essere aggredito dai conducenti dei Taxi, in questo caso, Mesut Basatemur, ma tutti lo conoscono come «Zaza». È il responsabile della 'Destination Tuscany', una società di trasporto privato e, personalmente, in 11 mesi ha trasportato circa 15 mila turisti. Non è italiano, ma originario del Kurdistan turco. E questo diventa motivo di attacco.

«Tornatene al tuo Paese, ci togli lavoro», gli urlano alcuni tassisti che lo seguono, bloccano l'autovettura e lo filmano con gli smartphone. «Sono stato intimidito diverse volte. La sera di un mese fa, un tassista in particolare, mentre facevo scendere i passeggeri, mi ha seguito, insultato pesantemente e mi è venuto vicino per aggredirmi», racconta a La Stampa l'imprenditore di 32 anni.

 [...]  Anche perché il 32enne ha provato a denunciare alle forze dell'ordine questi episodi, «ma mi è stato risposto che possono fare poco», racconta. In effetti esistono ben due denunce fatte dall'uomo agli investigatori datate 24 febbraio e 7 marzo 2022. In entrambi i casi, si legge negli atti visionati da chi scrive, l'uomo ha denunciato di essere stato avvicinato dai tassisti e di aver ricevuto insulti e minacce.

«Ti ho detto martedì scorso di non venire più a Firenze. Ti ripeto che non voglio più vederti a Firenze»: questa la frase, riportata nella denuncia, che il conducente del Taxi avrebbe detto a Mesut Basatemur il 23 febbraio, giorno prima della denuncia formale depositata ai carabinieri della Legione Toscana. Il tassista si era prima posizionato dietro alla vettura Ncc e, dopo aver scattato alcune foto alla targa, si sarebbe affiancato al 32enne rivolgendogli quella frase. 

 [...] Il 7 marzo del 2022, infatti, Basatemur viene nuovamente raggiunto da un tassista - alto circa 1 metro e 80, vestito sportivo con delle Nike ai piedi - che, «con fare minaccioso mi diceva: Devi andare via da Firenze, non devi prendere clienti da qui che mi stai rubando il lavoro!». L'uomo era con alcuni clienti e, per evitare di accrescere la tensione, era anche disposto a cedere la corsa.

 [...]  E un altro episodio analogo è avvenuto sempre questa notte. Questa volta la vittima è una donna: Barbara Nerone, 38 anni, dipendente della stessa società di Ncc. «Mi trovavo nella zona della stazione di Firenze, ero sola in auto e stavo svolgendo semplicemente il mio lavoro - racconta -. Stavo all'incrocio, ferma al semaforo per svoltare a sinistra e un tassista mi ha sorpassato a destra tagliandomi la strada e bloccandomi. Poi ha cominciato ad urlare e ad offendermi». L'aggressione verbale è poi proseguita. «Ti faccio vedere quello che faccio», dice uno dei tassisti alla donna sempre più spaventata.

 «Al semaforo successivo ha continuato, questa volta minacciando di seguirmi ed ho deciso di riprendere con il mio telefono, registrando un video - spiega -. Nonostante ciò, ha continuato e come se nulla fosse: mi ha seguito insieme ad altri suoi colleghi. Ho avuto paura e ho avvisato un mio collega per chiedergli aiuto ed intanto sono arrivata a Piazza Santa Maria Novella, dove mi aspettavano dei clienti».

Qui la 38enne è stata accerchiata da diversi Taxi. La donna è stata insultata pesantemente. «Nel frattempo - racconta Barbara - sono rimasta in contatto con il mio collega indicandogli il luogo della mia prossima fermata. Ripartita hanno continuato a seguirmi per circa 100 metri, dopodiché si sono divisi ed hanno preso altre strade». Una ronda che, secondo l'operatrice Ncc, avviene praticamente ogni sera. [...] 

Da iene.mediaset.it l’1 febbraio 2023.

È andato in onda ieri sera (martedì 31 gennaio, ndr.) a “Le Iene” il servizio in cui Nicolò De Devitiis e Marco Occhipinti sono tornati a occuparsi del “Taxi selvaggio” a Roma.

 Il video documenta come funziona la “cricca” dei tassisti di Fiumicino che, noncuranti di telecamere di sorveglianza, squadra vettura dei vigili e personale ADR con fratini gialli, ha architettato un sistema per selezionare i turisti «polli da spennare» a cui praticare tariffe fuori legge, creando un disservizio per i clienti italiani che non è possibile ingannare con la stessa facilità.

Così raccontano a Le Iene i loro colleghi onesti stufi di lavorare ogni giorno con prevaricazioni e minacce. I tassisti furbetti si posizionano sul lato destro della fila facendo scorrere alla loro sinistra i loro colleghi regolari per poter così selezionare i turisti da caricare sulla propria vettura, senza rispettare la fila dei clienti e quella dei taxi.

I filmati da Le Iene documentano come la fila dei taxi scorra in maniera totalmente irregolare e che basterebbe poco per la Società degli Aeroporti di Roma o del Comune porre fine a questa sorta di racket. La cosa incredibile è che dopo i servizi sul taxi selvaggio all’aeroporto internazionale di Ciampino, durante la commissione Mobilità di Roma Capitale, l’assessore competente Eugenio Patanè abbia parlato dell’aeroporto di Fiumicino come modello a cui ispirarsi per risolvere, una volta per tutte, il problema del taxi selvaggio.

E invece Le Iene documentano che anche un importante manager della Nike, arrivato a Roma per lavoro, resti a piedi perché i taxi nella notte preferiscano scegliere turisti a cui chiedere 300 euro, quando la tariffa prevista dal comune per raggiungere il centro di Roma è pari a 50.

 Ma non solo: anche per andare nella vicina Fiumicino viene chiesto il doppio della tariffa prevista, 50 invece di 26 euro, calcolati sulla tariffa chilometrica massima consentita. E ancora, il video mostra anche tassisti furbetti che cercano di fare car sharing molto particolare: invece di mettere insieme clienti che risparmierebbero per fare la stessa tratta, si mettono insieme persone che non si conoscono tra loro e che pagano ognuno la tariffa per intero raddoppiando irregolarmente l’incasso del conducente.

Nonostante l’ADR abbia fatto un percorso per facilitare il raggiungimento dei taxi regolari, una volta superate le porte scorrevoli al passeggero capita di imbattersi in un tassista abusivo che chiede 140 euro per andare a Roma, salvo poi scappare a gambe levate quando si accorge che a seguirlo non ci sono più i malcapitati turisti ma la Iena De Devitiis pronta a chiedere spiegazioni. Ciliegina sulla torta, se vuoi andare a Ostia, che è lì vicino all’aeroporto, capita anche che, dopo numerosi rifiuti da parte dei conducenti in fila, finalmente il cliente riesca a trovare un tassista disposto al servizio dovuto per legge solo perché la scena è filmata dalla telecamera de Le Iene.

Le concessioni balneari sono un vero e proprio privilegio feudale. Come ricorda la Ue, l’utilizzo della proroga di quelle per gli stabilimenti viola il principio della libera concorrenza, consolida rendite di posizione e la discrezionalità delle scelte della pubblica amministrazione. Francesco Fimmanò su L'Espresso il 10 luglio 2023

Il faro acceso da Bruxelles sulle proroghe alle concessioni balneari riguarda per l’ennesima volta un nervo scoperto del nostro Paese, che non riesce a liberarsi da incrostazioni che nessun governo ha la forza di combattere, tanto da rappresentare un’area anomala di continuità istituzionale. Un giorno sono le cave di Massa Carrara e l’altro le torbiere, poi le spiagge, il demanio fluviale, le acque minerali e termali e poi ancora i porti e gli aeroporti, ma la questione rimane sempre la stessa. Un Paese moderno non può far sopravvivere privilegi feudali.

Lo strumento della concessione amministrativa ha avuto uno sviluppo abnorme nel secolo scorso ed è ancora oggi presente in modo massiccio in settori rilevanti. Produce spesso gravi distorsioni del gioco della concorrenza: il concessionario gode di una posizione dominante o privilegiata, anche se la pubblica amministrazione è titolare di poteri di direzione che le consentirebbero un’influenza decisiva sull’attività.

Il quadro diventa intollerabile quando la concessione è affidata alla totale discrezionalità dell’amministrazione o quando i privilegi del concessionario degenerano a causa di opinabili proroghe, ingiustificate esclusive, durate sine die (talora persino perenni), rinnovi indiscriminati o canoni risibili. In un ordinamento che si è dotato di rigorose normative antitrust, seppure in ritardo rispetto allo Sherman act risalente al 1890, l’ampiezza e la invasività paleocapitalistiche del modello concessorio, sono ormai fuori dal tempo.

Tutti i governi sanno bene che è fondamentale per il sistema economico limitare l’impiego di queste concessioni, individuando i settori in cui sono ancora necessarie per l’esistenza di ragioni di riserva a favore dello Stato o di pubblici poteri e quelli in cui non lo sono più in quanto è sopravvenuta la liberalizzazione, e quindi convenzioni ed autorizzazioni possono tranquillamente prenderne il posto, purché non si finisca come per i taxi a Roma.

In particolare, nella prospettiva dell’efficace utilizzo delle risorse del Pnrr, il tema del rapporto tra concessioni e concorrenza si pone in modo ancora più pressante. Eppure, nel Piano nazionale di ripresa e resilienza si legge testualmente che «la tutela e la promozione della concorrenza sono fattori essenziali per favorire l’efficienza e la crescita economica e per garantire la ripresa dopo la pandemia. Possono anche contribuire a una maggiore giustizia sociale. La concorrenza è idonea ad abbassare i prezzi e ad aumentare la qualità dei beni e dei servizi …e si tutela e si promuove anche con la revisione di norme di legge o di regolamento che ostacolano il gioco competitivo…». La predica è giusta, il pulpito per quanto vediamo lo è assai meno.

Se da un lato v’è la giusta necessità di salvaguardare chi ha realizzato e realizzerà investimenti importanti, dall’altro non si può nascondere che nel settore esistono aree di vera e propria “manomorta” caratterizzate da privilegi ottocenteschi che, al di là della legittimità, costituiscono un problema enorme sul piano dello sviluppo. Rendite di posizione che impediscono gli investimenti produttivi e che talvolta raggiungono l’apice nell’attribuzione della gestione dell’attività a soggetti diversi dallo stesso concessionario. Quest’ultimo si limita al godimento dei frutti attraverso forme mascherate di subconcessioni e locazioni. In molti porti italiani, ad esempio, la situazione è imbarazzante: intere aree sono appannaggio di novelli vassalli e valvassori.

La giurisprudenza ha ripetutamente stigmatizzato come i principi di non discriminazione, trasparenza e pubblicità devono condurre al rispetto della par condicio. Ed essere soddisfatti con un efficace meccanismo competitivo per il rinnovo delle concessioni in scadenza. In modo che dal confronto delle istanze emergano le ragioni della scelta operata in favore di quel concessionario o dell’altro, in applicazione del criterio guida della più proficua utilizzazione del bene per finalità di pubblico interesse.

Occorre prestare massima attenzione alla casistica nell’utilizzo dello strumento della proroga. Che deve essere funzionale a evitare posizioni di privilegio ingiustificato, anche attraverso la verifica della permanenza dei requisiti del concessionario, dell’attuale consistenza dei beni concessi e della rispondenza tra stato dei luoghi e stato autorizzato. D’altra parte, il dovere di disapplicare la norma interna in contrasto con quella europea, riguarda pacificamente non solo i giudici ma anche la pubblica amministrazione.

La proroga indiscriminata a beneficio di tutti i concessionari si pone in antitesi rispetto alla disciplina della concorrenza, violando il diritto comunitario ed in particolare la direttiva che porta il nome di Frits Bolkestein. L’economista e politico olandese, commissario per il mercato interno quando presidente era Romano Prodi, in verità non pensava certo alle spiagge italiane, perché le concessioni balneari non riguardano servizi ma beni. L’ordinamento europeo muove da una prospettiva giustamente diversa, in quanto la tutela dell’equilibrio economico dell’impresa non può giustificare una deroga astratta e generalizzata al regime di concorrenza tra gli stessi operatori, favorendo la creazione di rendite di posizione.

In quest’ultima puntata della storia infinita della “manomorta”, è ineccepibile (una volta tanto) il richiamo di Bruxelles all’Italia a legiferare in modo da «assicurare la parità di trattamento, promuovere l’innovazione e la concorrenza leale e proteggere dal rischio di monopolio delle risorse pubbliche». Occorre tenere a mente che la concessione delle spiagge va considerata un’eccezione rispetto alla generale e gratuita utilizzabilità, per cui tutti i bagnanti hanno pari diritti, a cominciare da quello inviolabile dei bambini a scavare (non autorizzati) con quelle meravigliose palette colorate che rimangono una delle cose più belle della nostra esistenza.

Estratto dell’articolo di Maria Elena Vincenzi per “la Repubblica – ed. Roma” il 4 giugno 2023.

«Questo stabilimento lo abbiamo letteralmente costruito con le nostre mani, la sera veniva un amico di papà che faceva il carpentiere e ci dava le dritte su come fare. Così anche la strada per arrivarci: l’abbiamo fatta con le alghe. 

Era la spiaggia proprio di fronte a casa nostra, ci tenevamo le barche prima che nel 1955 papà ottenesse la concessione, pensi che l’abbiamo bonificata tutta noi: era piena di bombe. Lui voleva un altro tratto di costa, più avanti, ma glielo hanno soffiato e così è andato a Roma a protestare. Ha preso l’ammiraglio per il cravattino. Avrebbero dovuto arrestarlo. E invece… Due anni dopo è arrivata la concessione. Ed è iniziata la nostra storia». 

Maurizio Mastino ha 77 anni. Suo padre Ignazio, prima di morire, lo ha indicato come delfino tra i suoi 10 figli. E oggi qui, in questo storico stabilimento e ristorante di Fregene, tutti lo chiamano “Highlander” o, più semplicemente, “zio”. È lui a mandare avanti tutto, affiancato, ormai, dalla terza generazione. Suo fratello Renato, memoria storica di questo posto, è in pensione e viene solo a salutare.

[…] Quanto pagate per la concessione?

«Per tanti anni abbiamo pagato circa 40 mila euro, da qualche anno, a seguito di una sentenza, molto meno. […] paghiamo quanto ci viene chiesto. E lo paghiamo da 60 anni, regolarmente. Abbiamo continui controlli, ci prendiamo cura di questo posto come se fosse casa nostra. Anzi, lo è. Io alla mattina il caffè non lo prendo a casa, lo prendo qui». 

Avete pensato a cosa farete se la proroga non dovesse essere concessa?

«Io forse manco sono tanto triste. Ormai la mia vita l’ho fatta. Ma non lo trovo giusto. Per me, per la mia famiglia, per quello che abbiamo dato a questo posto e a Fregene. Mi chiedo perché il presidente Mattarella si sia interessato a questa vicenda e chi lo abbia informato. Ho il dubbio che non sappia bene come funzionano le cose negli stabilimenti. Dopodiché se proprio ce ne dobbiamo andare, lo faremo con dignità».

[…] Da quanto è aperto Mastino?

«L’inaugurazione fu nel 1961. Pensi che per costruire la struttura ci aiutava tutto il paese e non solo. A pompare l’acqua veniva Giuliano Gemma che così si faceva i muscoli». 

Di personaggi famosi se ne sono seduti tanti qui.

«Il mio preferito era Flaiano. Era uno di famiglia. Lo abbiamo portato noi all’ospedale il giorno in cui è morto. Poi veniva Moravia con quel suo cane odioso. Noi avevamo un gabbiano che stava sempre qua, si chiamava Filippo. Beccava il cane di Moravia in continuazione.

Ci sono venuti tutti. Da Fellini a Gassman, passando per Gian Maria Volonté. Veniva Soraya, si metteva sempre in un tavolo in fondo. Quando la gente, finito di mangiare si alzava e si accorgeva che c’era lei, tornava a sedersi. Alain Delon giocava a calcio sulla spiaggia: qui un tempo si faceva notte […] Ricordo Klaus Kinski che tirava i resti del cibo ai paparazzi. Ma gli avanzi eh, la roba buona se la mangiava lui». 

[…] C’è qualcuno che non le è piaciuto?

«Woody Allen. Mangiava gli spaghetti alle vongole con il cappuccino. E poi è uno stronzo, si può dire?».

Tutte le concessioni delle spiagge rendono allo Stato meno degli affitti della galleria del Duomo di Milano. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 20 aprile 2023 

Per oltre diecimila lidi il ricavo effettivo è di 43 milioni di euro, meno di quanto incassa il comune di Milano dagli affitti della Galleria. In compenso, le proroghe alla Bolkestein possono fare saltare i miliardi dell’Ue

Gli affitti sono un mercato strano. Se sono pubblici, ancora di più. La galleria Vittorio Emanuele di Milano, secondo fonti del Comune, ha incassato poco meno di 53 milioni di euro di canoni nel 2021. Per quest’anno si punta a quota 60 milioni di euro. Ragionevole. Il lusso si paga.

Anche negli stabilimenti balneari il lusso, quando c’è, si paga. Ma i conti, alla fine, non tornano. L’Espresso ha potuto consultare i dati ufficiali dell’Agenzia del demanio per il 2022. Ecco i principali. L’anno scorso, segnato da spiagge affollatissime e ottimi risultati per il settore, lo Stato italiano ha richiesto 107 milioni di euro di canoni, in linea con il 2021 nonostante un tasso di inflazione a due cifre. I 107 milioni sono una cifra che include la cantieristica e il diporto nautico, con gli ormeggi e il turistico ricreativo, che insieme rappresentano la fetta di canone maggiore.

Le sole concessioni balneari valgono 55,163 milioni di euro per 10556 permessi ossia una media di 5226 euro richiesti per lido a partire da un canone minimo di 2698 euro all’anno.

Se sembra poco, rispetto a un fatturato annuo di 15 miliardi secondo le stime di Nomisma, bisogna considerare che dei 55 milioni pretesi dalle casse pubbliche i gestori hanno versato effettivamente 43,4 milioni di euro con un tasso di morosità del 20,3 per cento che presenta un andamento costante rispetto alle stagioni precedenti.

In altre parole, i 4615 metri quadrati calpestabili della Galleria di Milano rendono molto di più degli 8300 chilometri di costa italiana, in larga parte occupati da sdraio, lettini, ombrelloni, bar e ristoranti.

Altri numeri trapelati dal Demanio appaiono curiosi. Delle oltre 10 mila concessioni balneari, soltanto 274 superano il canone annuo di 20 mila euro. Al primo posto della classifica, con grande distacco, c’è la società Bibione spiaggia, monopolista della località adriatica veneziana nel comune di San Michele al Tagliamento, al confine con Lignano Sabbiadoro e il Friuli-Venezia Giulia.

Da sola, Bibione spiaggia vale oltre l’1 per cento dei canoni nazionali con un contributo annuo di 597 mila euro per 411 mila metri quadrati di arenile. L’azienda, una sorta di public company di oltre duecento piccoli soci fra i quali il Comune, la diocesi e gli albergatori, si vanta a buon diritto di essere la concessionaria più grande d’Europa e ha fatturato 10,7 milioni di euro nel 2021 per 407 mila euro di utile nell’ultimo bilancio disponibile, con 6 milioni di presenze all’anno.

Dietro questi paradossi contabili, continua da anni una battaglia politica che oggi mette a rischio i fondi del Pnrr. Oltre a un probabile mancato introito, incombe una procedura di infrazione alle leggi della concorrenza prima avviata, poi sospesa con promessa di ravvedimento da parte dell’Italia e infine riaperta quando Bruxelles si è accorta che i politici italiani hanno a cuore i gestori di spiagge come poche altre corporazioni.

La lotta del governo Meloni contro la direttiva Bolkestein, che impone le gare per gli stabilimenti, è l’ultima puntata di una telenovela alla quale partecipa uno schieramento di forze ad angolo giro. Dopo il piagnisteo sulle famiglie italiane buttate sul lastrico dall’invasore straniero, l’ultimo pretesto è che mancherebbe una mappatura generale sulle concessioni. È la più classica delle fake news. La mappatura esiste. Si chiama Sid, sistema informativo del demanio marittimo, e andrebbe tutt’al più aggiornata come hanno fatto alcune regioni per conto proprio, per esempio il Lazio che ha reso disponibile online il who’s who delle concessioni e che ha avuto i problemi maggiori nella lotta contro gli abusi dei gestori privati.

L’altro appiglio per sfuggire alla Bolkestein è la scarsità del bene, che per i fautori dello status quo non esisterebbe nel caso delle concessioni balneari.

Giorgia Meloni, per adesso, non ha preso posizione in modo netto. La premier si trova già in difficoltà con le milestones, le scadenze imposte dall’Ue per concedere le rate del Pnrr. La prima dell’anno, a fine marzo, ha scatenato polemiche sui progetti in ritardo. Ce n’è un’altra a fine giugno e una terza a fine dicembre. Figurarsi che effetto avrebbe su Bruxelles una smentita retroattiva alla legge sulla concorrenza del 2022 che è una delle condizioni indispensabili al versamento dei fondi. Un lido varrà bene una messa ma non la rinuncia agli aiuti europei, anche perché ci sono segnali di insofferenza da parte dell’elettorato.

Alle elezioni del 25 settembre 2022 i candidati pro-balneari hanno incassato una piccola débâcle con la bocciatura del forzista Massimo Mallegni, imprenditore balneare di Pietrasanta da due generazioni. Mallegni, a fine marzo, è stato sostituito anche nel ruolo di coordinatore della Toscana da Marco Stella. Si è chiusa l’avventura alla Camera anche per un altro imprenditore delle spiagge versiliesi, il democrat Umberto Buratti di Forte dei Marmi.

La leghista Elena Raffaelli, socia dei bagni Carlo 87 e Vittorio 88 a Riccione, è stata piazzata dal suo partito al quarto posto del proporzionale, dove non poteva vincere. Silurata alle politiche, si è dovuta accontentare di guidare la segreteria provinciale dei salviniani.

Sempre in Toscana, nelle liste di Fdi ha ottenuto la conferma alla Camera Riccardo Zucconi da Camaiore. E per la quinta legislatura in fila ha vinto il seggio in Senato Daniela Garnero Santanchè, fondatrice del Twiga a Marina di Pietrasanta, canone annuo 2022 pari a 17950 euro virgola due centesimi. Una volta nominata ministro del turismo del governo Meloni, Santanché ha ceduto la quota del Twiga in possesso della sua Immobiliare Dani per 1,4 milioni di euro a Flavio Briatore e al proprio compagno Dimitri Kunz Asburgo di Lorena. Il rappresentante legale di Immobiliare Dani, Mario Cambiaggio, è rimasto amministratore delegato di Twiga srl.

Per evitare il sospetto di conflitto di interessi, Giorgia Meloni ha trasferito la delega sulle concessioni balneari dal ministero del turismo al ministero per la protezione civile e le politiche del mare, guidato da Nello Musumeci, già presidente della Sicilia, l’unica regione italiana che tiene per sé i dati sui lidi senza partecipare al Sid. Lo spacchettamento non è bastato a frenare l’ubiquità di Matteo Salvini che, da ministro delle infrastrutture, e dei porti, pretende voce in capitolo sulle concessioni marittime.

Sul fronte leghista, oltre al vicepresidente del Senato Marco Centinaio, il nuovo difensore della fede balneare è il monzese Massimiliano Romeo, consulente di pratiche automobilistiche e capogruppo salviniano a palazzo Madama. L’ex consigliere regionale della Lombardia, assolto dalla Cassazione lo scorso novembre per le spese pazze della regione, ha chiesto per conto del partito la proroga delle concessioni addirittura fino al 2025 contro il dicembre 2024 che era stato infilato nel decreto Milleproroghe nonostante le perplessità del presidente Sergio Mattarella.

Il caos degli interessi e delle competenze è ben lontano dal tranquillizzare l’Unione europea dove Paolo Gentiloni, commissario agli affari economici di Bruxelles, si è più volte e con chiarezza espresso a favore delle gare.

La situazione di incertezza generale è moltiplicata dalle reazioni dei tribunali, ordinari o amministrativi. Durante il governo di Mario Draghi, la battaglia all’interno dell’esecutivo di larghe intese che aveva Fdi all’opposizione era stata durissima. Draghi aveva portato a casa il risultato con un compromesso, l’ennesimo, che spostava le gare dalla fine del 2023 alla fine del 2024. La sesta sezione del Consiglio di Stato ha stroncato le velleità di rinvio e ha riportato l’ultimatum alla fine dell’anno in corso.

A questo verdetto vanno aggiunte le sentenze e le inchieste sparse per il litorale della penisola. Gli scontri tra la giustizia e i concessionari non hanno colpito soltanto il Lazio. I bagni Liggia a Genova Sturla, sequestrati dalla Procura nel 2019 perché la proroga della concessione contrastava con la Bolkestein, sono tornati al gestore Claudio Galli. Lo ha deciso il Tar ligure lo scorso novembre dopo che nell’estate 2022 la gestione è stata affidata all’ospedale pediatrico Gaslini, con parte dell’arenile messa a disposizione dei dipendenti e dei bambini ricoverati.

Altri comuni potrebbero impugnare le proroghe pro-balneari in nome della norma europea mentre si prepara la solita estate tranquilla con prezzi in aumento, dipendenti pagati male e canoni più che abbordabili. Vuoi mettere il Lido Marisa con la Galleria di Milano?

Estratto dell'articolo di Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 14 marzo 2023.

«L’hotel Cala di volpe, a puro titolo di esempio, versa quale canone demaniale 520 euro all’anno...». E meno male che i clienti non leggono le denunce degli ambientalisti del Grig, il Gruppo intervento giuridico!

 Una coppia di stranieri, per dire, ha lasciato tra i commenti messi online dall’albergo, della catena Mariott, parole estasiate per il lusso e la bellezza del posto, ma santo cielo, «ci è stato consegnato un menu che mostrava un prezzo di 250 dollari a persona per il pranzo a buffet. Che shock pensare a 500 dollari per il pranzo!». Fate voi i conti.

[…] non incoraggia leggere sull’ultimo rapporto di Legambiente che «nel Comune di Arzachena ci sono 41 stabilimenti balneari con canone annuale inferiore a 1.000 euro, mentre degli altri 23 non esistono dati». E parliamo della Costa Smeralda.

 Perché, se andiamo a prendere la mappa interattiva Flourish coi canoni annui basati sui dati ufficiali forniti dal ministero delle Infrastrutture (anzi, da allora le concessioni sono salite di oltre il 12,5%) c’è da avere i brividi. Basti dire che quelle segnate in giallo con «affitti» superiori ai 10.000 euro, fatti salvi un po’ di «bagni» sparsi soprattutto sul litorale alto Adriatico, la Riviera ligure e quella toscana, sono un’assoluta rarità.

 Per il resto una massa lungo tutta la costa peninsulare di pallini verdi (dal 1.000 a 5.000 euro) e, in Sicilia, un diluvio di pallini viola: «Marsala, Stabilimento balneare pubblico, Dato non disponibile. Canone annuo: 0 euro».

[…] Possibile? Spiega Legambiente che secondo il Sistema informativo demanio marittimo (S.I.D.) le concessioni balneari nel 2019 erano 10.812. Da allora, nonostante il Covid, sono salite ad almeno 12.166. Più quelle delle tre regioni autonome marine: Friuli, Sicilia e Sardegna. E sono talmente tante che è occupato dai «bagni» quasi il 70% delle spiagge in Liguria, Emilia-Romagna e Campania, e quasi il 90% in luoghi come Pietrasanta, Camaiore, Laigueglia e Diano Marina dove «rimangono liberi solo pochi metri, spesso agli scoli di torrenti in aree inquinate».

[..] «Dal 2016 al 2020», accusa la Corte Dei Conti, «la media dei versamenti totali rilevata, pari a 101,7 milioni di euro, risulta inferiore alla media delle previsioni definitive di competenza pari a 111 milioni di euro». Un ottavo di quanto lo Stato dovrebbe incassare, secondo lo stesso proprietario del Twiga Flavio Briatore. Si intende: quando ce la fa a incassare.

 Una tabella del S.I.D. (ne pubblichiamo a parte un estratto, dati 2020) mostra come lo Stato, a prescindere che poi giri i soldi a questa o quella regione, questo o quel comune, ottiene spesso molto meno di quanto dicano i canoni. C’è chi rastrella la metà, chi un terzo, chi un quarto.

[…] A farla corta: sul fronte delle concessioni balneari e della cocciuta insistenza nel tentativo di una parte della destra (e non solo) di rinviare ancora e poi ancora e ancora la messa a gara dei vecchi contratti come chiede la «direttiva Bolkestein» dell’Ue del 2006, recepita obtorto collo (con proroghe a catena) nel 2010 dall’ultimo governo Berlusconi ma mai digerita, la situazione è sempre più pesante.

 Al punto di unire tra quanti non ne possono più di nuovi rinvii anche sindaci di opposti schieramenti. Come lo storico braccio destro di Berlusconi a Olbia Settimio Nizzi (che fu addirittura contestato da democratici e grillini locali per la scelta «testarda» di incaponirsi sul tema) e il sindaco di sinistra di Lecce Carlo Salvemini, il primo a fare ricorso contro la famosa proroga al 2035.

Ricorso perso al Tar ma stravinto al Consiglio di Stato, che a novembre del 2021 stabilì il divieto di nuove proroghe. Tesi confermata il 1° marzo scorso per metter fine a un andazzo di una parte della maggioranza governativa che pareva teorizzare che forse, chissà, nonostante quel verdetto... Macché. Parole definitive: ogni nuova proroga «si pone in frontale contrasto con la disciplina di cui all’art. 12 della direttiva n. 2006/123/CE, e va, conseguentemente, disapplicata da qualunque organo dello Stato». Fine. […]

Estratto dell'articolo di G. A. S. per il “Corriere della Sera” il 14 marzo 2023.

Sempre della stessa idea e cioè che i canoni demaniali siano troppo bassi? «Sicuro!», risponde Flavio Briatore che quattro anni fa, nel pieno delle polemiche sulla maxi-proroga ai balneari, disse che il canone giusto per il suo Twiga sarebbe stato di 100mila euro l’anno. Anzi, adesso parla di mezzo milione.

 «Ma lasci perdere il Twiga. Ha 150 dipendenti, è una struttura molto grande... Diciamo invece che l’80% dei bagni è l’unica entrata per la famiglia. Dove tutti lavorano sei mesi, padre, madre, figli, cognati e poi chiudono...».

 Anche in Francia c’erano resistenze fortissime, ma poi è prevalso l’interesse di tutti: più il Comune incassa, più ha soldi da spendere per tutti i cittadini.

«Giusto. Però cos’è successo a Saint Tropez? Tre grandi gruppi si sono messi d’accordo e si sono presi tutte le spiagge. E han buttato fuori tutte le imprese familiari. Certo, al demanio abbiamo sempre pagato poco o niente. Credo che lo Stato ne ricavi cento milioni l’anno...».

 Anche meno.

«Ecco. Dovrebbe prendere 800. O più. Ma è tutto sfalsato. A partire dal potere in mano ai concessionari. Questi devono sparire. Sono tizi che a volte hanno avuto decine di anni fa delle concessioni, vai a sapere come, e oggi troppo spesso le sfruttano senza lavorarci e senza produrre niente. Zero».

 […]  L’anno scorso quanto ha fatturato il Twiga?

«Dieci milioni di euro. E sarebbe giusto che di concessione, dicevo, ne pagassi cinquecentomila»

 E gli altri?

«L’ho detto anche alla Daniela (Santanché, ndr ), che era mia socia prima di diventare ministro. Non parlo per me: io non posso fare un centesimo di nero perché ho tutti gli occhi addosso. Ma in generale io partirei dal valore della zona, perché una cosa è Catanzaro Mare e un’altra Portofino. Poi farei un tot a ombrellone. A contare gli ombrelloni non è che ci vuole un genio. Pochi mesi e la mappatura si fa». […]

Norma in forte contrasto con le direttive europee. Stabilimenti balneari, stop alle concessioni: il Consiglio di Stato boccia la proroga del governo Meloni. Redazione su Il Riformista il 10 Marzo 2023.

Governo Meloni bocciato sui balneari. Il Consiglio di Stato interviene ancora una volta e assesta un duro colpo all’esecutivo guidato dalla leader di Fratelli d’Italia, bloccando la proroga automatica delle concessioni balneari perché “in contrasto” con l’articolo 12 della direttiva europea.

Lo ribadisce il Consiglio di Stato nella sentenza in cui accoglie il ricorso contro la decisione del comune di Manduria di prorogare fino al 2033 le concessioni demaniali marittime. Sentenza numero 2192 del primo marzo, depositata ieri, che boccia la norma inserita in Parlamento al decreto Milleproroghe, diventato legge, che allunga gare e concessioni al 31 dicembre 2024, allungabile “per ragioni oggettive” a fine 2025.

La proroga automatica delle concessioni demaniali marittime in essere si pone in frontale contrasto” con varie direttive europee “e va, conseguentemente, disapplicata da qualunque organo dello Stato” scrivono in giudici amministrativi, aggiungendo che anche le nuove norme inserite nel Milleproroghe del 24 febbraio scorso vanno “disapplicate”.

Nel Milleproroghe del governo Meloni, l’esecutivo rinvia la messa a gara delle concessioni delle spiagge pubbliche, in aperto contrasto con le indicazioni europee di seguire la direttiva Bolkenstein, una scelta in aperto contrasto anche con le precedenti sentenze del Consiglio di Sato del 2021 che fissavano la scadenza delle proroghe delle concessioni esistenti al 31 dicembre 2023, rinviata di un anno dal governo col Milleproroghe.

Sulla vicenda, il 24 febbraio scorso, era intervenuto anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che sottolineava “specifiche e rilevanti perplessità” di quelle norme volute con forza soprattutto dalla Lega e da Forza Italia, ma alla fine avallate pure da FdI. Ricordava quanto affermato dalla Corte di Giustizia europea che “ha ritenuto incompatibile con il diritto europeo la proroga delle concessioni”. E rivelava di essere stato sul punto di rinviare il decreto in Parlamento, senza convertirlo in legge se questo non avesse messo a rischio altre norme: “Tutto questo potrebbe giustificare l’esercizio della facoltà attribuitami dall’articolo 74 della Costituzione”. Perché quelle norme sui balneari “oltre a contrastare con le definitive sentenze del Consiglio di Stato, sono difformi dal diritto dell’Ue, anche in considerazione degli impegni in termini di apertura al mercato assunti dall’Italia” con il Pnrr.

Fratelli di Bolkestein. Come funzionano le concessioni balneari nel resto d’Europa. Matteo Fabbri su L’Inkiesta il 3 Marzo 2023.

Spagna e Portogallo si sono attirate, come l’Italia, una procedura d’infrazione, ma nel resto dell’Unione si sono messe in moto le riforme per recepire la Direttiva e le gare si fanno. A dodici anni dalla sua entrata in vigore, è ora di smettere di perdere tempo

Dal 2006 ad oggi in Italia si sono succeduti dieci diversi governi di vari schieramenti politici più o meno europeisti ma tutti straordinariamente in difficoltà di fronte al recepimento di una direttiva europea nata con l’idea di liberalizzare i servizi in Europa e che, nel nostro Paese, si è arenata sulle concessioni delle spiagge: la Bolkestein.

Il sistema italiano delle spiagge è sempre stato caratterizzato da concessioni molto lunghe, alla scadenza delle quali seguivano rinnovi automatici o diritti di insistenza. Questo meccanismo ha garantito una certa stabilità ai circa trentamila imprenditori coinvolti e permesso investimenti a lungo termine, impedendo però l’ingresso di nuove imprese nel mercato.

Una storia italiana

La Bolkestein ha stabilito che le concessioni demaniali devono essere messe a gara, garantendo la concorrenza tra tutti i potenziali concessionari. Trasparenza e imparzialità sono i principi cardine della normativa che hanno imposto un ripensamento della normativa italiana. O almeno avrebbero dovuto farlo.

Sì, perché in realtà il legislatore italiano non ha mai recepito la Direttiva e come naturale conseguenza sono arrivate due procedure d’infrazione, l’ultima delle quali recentissima. A queste si aggiungono la sentenza della Corte di Giustizia dell’Ue del 2016, ma soprattutto quella del Consiglio di Stato nel 2021, che in maniera perentoria hanno indicato le gare come unica soluzione percorribile.

Palazzo Spada ha aggiunto anche che in caso di mancato intervento da parte del legislatore italiano, tutte le concessioni sarebbero andate a gara dal primo gennaio 2024. Insomma, non sono più possibili ulteriori rinvii, è necessario intervenire e bisogna farlo entro la fine del 2023. Tutto risolto dunque? Non esattamente.

Nel 2022 il Governo Draghi aveva avviato un percorso di riforma incentrato sulle gare. A una maggiore concorrenza si sarebbero aggiunte la tutela per il concessionario uscente attraverso il riconoscimento degli investimenti e la realizzazione di un equo rendimento del capitale investito, così come previsto dalla Direttiva stessa.

Poi però a Draghi è mancata la fiducia del Parlamento e da ottobre è Giorgia Meloni a guidare il Paese. Fratelli d’Italia si è sempre schierata dalla parte degli operatori contro le gare e poco più di un anno fa la allora leader del partito di opposizione dichiarava in aula che avrebbe provato in tutti i modi a bloccare la riforma.

Un film già visto

Nell’ultimo anno però è cambiato il mondo: la Meloni di Governo ha avviato un processo di “europeizzazione” delle sue posizioni e anche sulle concessioni demaniali sembrano essersi ammorbidite le barricate degli anni dell’opposizione. Su spinta degli altri due partiti di maggioranza, l’esecutivo ha approvato all’interno del milleproroghe una proroga di un anno delle concessioni in scadenza a fine 2023, giustificandola con la necessità di avere tempi adeguati per il riordino del settore.

Un film già visto, tanto che Mattarella ha firmato il Decreto con riserva, sollevando perplessità proprio rispetto alla compatibilità della misura con il diritto europeo. Alle dichiarazioni del Colle hanno fatto eco quelle della Commissaria al mercato interno Sonya Gospodinova che ha definito le proroghe proposte dall’Italia «preoccupanti».

Questa volta non sono più ammessi tentennamenti e Meloni dovrà necessariamente assumersi la responsabilità di riordinare un settore che da diversi anni vive senza certezze. «Il governo terrà conto del richiamo del Quirinale», ha dichiarato il ministro agli affari europei Raffaele Fitto dopo gli accorgimenti chiesti dal Presidente Mattarella. Come lo farà è difficile da prevedere.

Ma l’Italia non è l’unico Paese ad aver avuto qualche inciampo nel recepimento di questa Direttiva in tema di spiagge.

Le procedure d’infrazione contro Spagna e Portogallo

La Commissione europea ha recentemente avviato una procedura d’infrazione nei confronti della Spagna. Nel Paese iberico le spiagge sono definite «libere» e quindi non sono soggette a concessioni ma ad una mera autorizzazione. Le autorizzazioni amministrative per svolgere le attività a scopo di lucro (come il noleggio di lettini e ombrelloni) devono essere oggetto di bando pubblico così come stabilito dalla Ley de Costas.

Un’altra caratteristica del sistema spagnolo è che la linea di demarcazione del demanio marittimo è stata spostata verso l’interno solo qualche decennio fa. Ci sono quindi terreni che erano privati sui quali sono stati costruiti manufatti che da un giorno all’altro, quando il governo ha deciso di riappropriarsi di quelle porzioni di spiaggia, sono diventati demanio pubblico.

Questa manovra ha originato una serie di contenziosi ai quali lo Stato spagnolo ha posto fine concedendo una concessione di settantacinque anni ai privati proprietari divenuti concessionari. Una situazione differente da quella italiana, dove non ci sono gare e dove non è cambiata la demarcazione dell’area demaniale.

La procedura d’infrazione nei confronti della Spagna è arrivata per motivazioni diverse: «La legge spagnola sulle coste prevede la possibilità di concedere “concessioni” (autorizzazioni) per la costruzione di strutture permanenti (ad esempio ristoranti, aziende agricole, industria della carta o chimica, ecc.) nel cosiddetto “demanio pubblico marittimo terrestre”, al di fuori dei porti, senza una procedura di selezione aperta e trasparente. Essa prevede inoltre la possibilità di prorogarne la durata fino a settantacinque anni, anche in questo caso senza una procedura di selezione. Tale norma viola la direttiva sui servizi».

I correttivi richiesti da Bruxelles riguardano le aree destinate alla ristorazione o altre attività (non al noleggio di ombrelloni e lettini) e la durata dei cosiddetti «indennizzi» di settantacinque anni.

Ad aprile dello scorso anno la Commissione europea ha avviato una procedura d’infrazione anche nei confronti del Portogallo ritenendo che la legislazione portoghese, che conferisce ai titolari di concessioni balneari esistenti un diritto di preferenza nelle procedure di gara per il rinnovo, non fosse compatibile con la Bolkestein. Secondo la Commissione, un diritto preferenziale a favore degli operatori storici determina una distorsione della concorrenza.

In particolare, viene contestato il diritto di precedenza in fase di rinnovo della concessione (che comunque impone al concessionario di pareggiare l’offerta più alta) e la durata massima di settantacinque anni stabilita discrezionalmente dalle amministrazioni. Anche in questo caso, così come per la Spagna, ciò che la Commissione evidenzia è il mancato rispetto della concorrenza relativamente alle concessioni che hanno ad oggetto opere stabili di non facile rimozione.

I Paesi dove le gare si fanno

Esistono diversi Paesi che, ormai da tempo, adottano i principi della Direttiva. In Francia, ad esempio, una normativa orientata alla tutela dell’ambiente e alla concorrenza, prevede che il rilascio e il rinnovo delle concessioni siano subordinate a gare pubbliche trasparenti. La durata delle concessioni di spiaggia non può superare i dodici anni e ogni occupazione o utilizzo del demanio pubblico comporta il pagamento di un canone, il cui ammontare deve tener conto dei vantaggi di che il concessionario ricava dall’utilizzo dello stesso.

Tutela dell’ambiente e concorrenza sono anche i principi su cui si basa il sistema greco. Le gare avvengono in tutti i casi in cui si renda necessaria una concessione demaniale, attraverso procedure di selezione che garantiscano imparzialità e trasparenza. Non devono essere alterate le caratteristiche morfologiche della costa o della spiaggia e l’amministrazione ha il diritto di recedere unilateralmente qualora verifichi delle irregolarità sotto questo aspetto.

In Croazia il «permesso di concessione» è valido solo per cinque anni e include diverse attività tra cui il noleggio di ombrelloni e lettini. Il Maritime domaine and seaports act che regola il demanio marittimo croato dal 2002 dedica un intero titolo alla procedura di rilascio delle concessioni. L’articolo 17 è piuttosto chiaro: la concessione volta allo sfruttamento economico del demanio marittimo deve essere rilasciata sulla base di una gara pubblica. Così come accade anche in Bulgaria.

Basta perdere tempo

L’Europa chiede che le norme nazionali assicurino la parità di trattamento degli operatori, senza alcun vantaggio diretto o indiretto per alcuno specifico operatore e che «promuovano l’innovazione e la concorrenza leale, prevedano un’equa remunerazione degli investimenti effettuati e tutelino dal rischio di monopolio delle risorse pubbliche a vantaggio dei consumatori e delle imprese». Trasparenza e imparzialità sono principi sui quali Bruxelles non scenderà a compromessi e da questi bisognerà ripartire per riformare un settore che vive nell’incertezza ormai da troppi anni. E l’incertezza, si sa, è nemica degli investimenti.

Il Governo Draghi lo scorso anno aveva compiuto «un primo passo importante» e la coalizione Meloni, nonostante le promesse elettorali, dovrà proseguire sulla strada indicata dall’ex Presidente della Bce. L’alternativa, con una procedura d’infrazione in corso, sarebbe una multa salata che comunque non risolverebbe la situazione. Sono passati diciassette anni dall’entrata in vigore della Direttiva ed è controproduttivo continuare a perdere tempo. Anche perché Bruxelles questa volta non farà finta di niente.  Lo hanno detto in tutte le salse.

Quanto guadagna un farmacista? Contano esperienza, mansioni e categorie. Professione complessa e di grande responsabilità, può presentare differenze retributive fra pubblico e privato, Nord e Sud, o per anzianità lavorativa e livello di esperienza. Dario Murri il 27 Luglio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Formazione e mansioni del farmacista

 Come si determina il guadagno

 I guadagni in Europa

Riferimento importante, dai quartieri delle città alle comunità più isolate, i farmacisti sono professionisti sanitari che si occupano della distribuzione di medicinali, prodotti per la salute e il benessere, oltre a svolgere, come vedremo, altri importanti servizi, come la somministrazione di vaccini, supporto che si è rivelato molto importante durante l’emergenza pandemica. Ma vi siete mai chiesti quanto guadagnano? Sono molti i fattori che concorrono a determinarne lo stipendio, così come diverse sono le tipologie in cui può essere declinata questa professione, dai farmacisti proprietari ai dipendenti, dai neolaureati a quelli con lunga esperienza. Cerchiamo dunque di conoscere meglio questa figura professionale, partendo da percorso di studi e mansioni.

Formazione e mansioni del farmacista

Secondo l'OCSE sono quasi 100.000 i farmacisti in Italia (almeno come qualifica professionale), anche se a praticare la professione sono circa 73.500; 1,24 su 1.000 abitanti, per chi ama le statistiche. Nel nostro Paese è presente una farmacia ogni 2.952 abitanti (siamo in linea con la media europea, che ne stima una ogni 3.275), per un totale di più di quasi 20.000 esercizi, di cui oltre 18.000 privati (dati Federfarma 2022).

Per diventare farmacista è necessario conseguire la laurea a ciclo unico, a scelta fra due percorsi simili, anche se con qualche differenza: il corso di laurea in Farmacia e il corso di laurea in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche. Entrambi prevedono l'acquisizione di 300 crediti universitari e hanno una durata di cinque anni, incluso il tirocinio, necessario per ottenere l'abilitazione all’esercizio della professione, della durata di 900 ore, per un periodo totale di 6 mesi. Dopo laurea e tirocinio, bisognerà superare l'Esame di Stato, solitamente fissato in due sessioni per anno.

L’attività principale di questo professionista, consiste nel vendere farmaci da banco e con ricetta medica, oltre a confezionare farmaci rispettando la posologia dei componenti, le richieste specifiche e le caratteristiche del paziente (i cosiddetti “preparati galenici”). I farmacisti sono inoltre veri e propri esperti dei farmaci, incaricati di consigliare i pazienti sui prodotti farmaceutici più indicati per loro, in virtù della profonda conoscenza acquisita dei principi attivi e degli eccipienti, e sono tenuti a verificare le ricette elaborate dai dottori, oltre a tenere registri su farmaci venduti con le rispettive quantità. Possono anche vendere integratori, alimenti dietetici, dispositivi medici e prodotti cosmetici. Fra gli altri servizi, possono effettuare la misurazione di pressione, altezza e peso, e alcune attività di screening sanitario, come i test per il colesterolo e il diabete e quelli per le intolleranze alimentari. Tra le competenze di questa figura rientrano anche la somministrazione dei vaccini, come quello antinfluenzale o quello contro il Covid.

Come si determina il guadagno

Tra gli elementi che più incidono nel determinare lo stipendio dei farmacisti, come per molte altre professioni, c’è l'esperienza. Lo stipendio di un farmacista a inizio carriera è mediamente di circa 1.300 euro, che raggiunge un massimo di 1.600 tra i 4 e i 20 anni di servizio, per attestarsi sui 1.800, superati i 20 anni di attività. La retribuzione varia anche in funzione del tipo di farmacia, del luogo in cui si trova, delle responsabilità del farmacista, secondo quanto stabilito dal CCNL di categoria. Nelle farmacie municipalizzate, ad esempio, lo stipendio va dai 1.350 euro di un dipendente di sesto livello fino ai 2.325 dei dipendenti di livello Q; in quelle private urbane, invece, per un dipendente inquadrato nel primo livello super, lo stipendio parte dai 2.255 euro.

Entrando più nel dettaglio, il livello 1 corrisponde al farmacista collaboratore dopo 24 mesi di servizio, dal secondo al sesto livello sono inquadrati rispettivamente i lavoratori di concetto, i coadiutori di farmacia, i contabili e i cassieri, i fattorini e infine gli addetti alle pulizie. Il livello Q1 corrisponde poi al ruolo di direttore, il Q3 al farmacista con più di 2 anni di anzianità che gestisce uno o più servizi all’interno della farmacia. Introdotto di recente, il livello Q2 inquadra un ruolo intermedio, per riconoscere una maggiore remunerazione ai farmacisti con funzioni suppletive.

I farmacisti impegnati nei turni di notte ricevono una retribuzione più elevata rispetto ai colleghi in servizio durante il giorno. La retribuzione per una notte di lavoro in farmacia è in media di circa 120 euro netti.

Come detto, per i farmacisti dipendenti, lo stipendio è determinato principalmente dal tipo di contratto e dall’esperienza. Dopo 20 anni di attività professionale, si può arrivare a guadagnare più di 1.800 euro netti al mese. Il discorso cambia se si è proprietari di una farmacia: lo stipendio medio di un titolare è di circa 6.000 euro, che possono arrivare a 10.000 e oltre per chi possiede importanti farmacie situate nelle zone centrali di grandi città.

Va però tenuto presente che il farmacista titolare deve considerare diverse voci di spesa, relative a locale (affitto o mutuo), utenze, tasse e imposte, manutenzione, e ancora, gestione della Partita Iva e versamento dell’imposta sul valore aggiunto, con aliquote al 4%, 10% e 20% per i prodotti farmaceutici. Ci sono poi il costo di commercialista ed eventuali altri consulenti, acquisto delle merci, stipendi dei dipendenti, servizi di assistenza e assicurazione e per la vigilanza. Spese cui vanno aggiunte quelle una tantum o sporadiche per arredo locale, camici, apparecchiature di laboratorio, sistemi di sicurezza come telecamere a circuito chiuso e allarmi.

Differenze di stipendio anche fra farmacie e parafarmacie. Qui lo stipendio medio è di circa 1.200 euro netti al mese, contro i circa 1.300 delle farmacie.

Il farmacista può percepire uno stipendio più o meno elevato anche in base alla regione in cui lavora, al costo della vita (le regioni del Nord Italia risultano più care rispetto a quelle del Sud) e al volume d'affari delle farmacie della regione in questione. Per fare un esempio, il guadagno di un professionista del settore in Lombardia supera in media del 10% quello di un collega del Lazio.

Per la categoria dei farmacisti d’ospedale, il salario di base ammonta a circa 3.308 euro al mese (dati Indeed 2022), cifra che può oscillare fra i 2.557 ai 3.462 euro mensili e che rappresenta lo stipendio medio dei farmacisti dipendenti all'interno delle farmacie di ospedali e ospedali pediatrici, cliniche private e pubbliche, residenze per anziani e comunità dedicate alle persone con disabilità o tossicodipendenti, che presentino una struttura sanitaria al proprio interno. Anche in questo caso, lo stipendio effettivamente percepito da chi svolge questa funzione sanitaria può variare anche molto, in base ai diversi fattori descritti precedentemente.

I guadagni in Europa

Dopo aver visto quanto guadagna un farmacista in Italia, volgiamo lo sguardo oltreconfine, per conoscere le retribuzioni dei colleghi in alcuni dei principali paesi europei, nominalmente e geograficamente. In Francia, ad esempio, lo stipendio mensile netto è compreso tra 2.800 e 3.000 euro, mentre chi esercita la professione in Germania percepisce uno stipendio di circa 2.900 euro mensili. In Svizzera i farmacisti a inizio carriera guadagnano un minimo di 3.250 franchi svizzeri al mese, pari a 2.700 euro, cifra che nel giro di cinque anni può superare i 3.500. Spostandoci nel Regno Unito, un farmacista londinese guadagna circa 3.000 sterline al mese (pari a circa 3.500 euro), anche se tale cifra va parametrata al costo della vita di una delle città più care al mondo.

Il ricordo dei martiri dell’avvocatura. «Hanno difeso i diritti sacrificando la vita». Mercoledì, alla Camera, un convegno sulle figure di Ambrosoli, Croce e Fragalà. Giuseppe Bonaccorsi su Il Dubbio il 24 settembre 2023

«È un incontro volto a ricordare tre avvocati che hanno sacrificato la loro vita per la difesa di un diritto». Così si è espressa l'avvocata Isabella Maria Stoppani, del Foro di Roma, presidente nazionale dell'Anai (associazione nazionale avvocati italiani).

Mercoledì prossimo, 27 settembre, la coordinatrice dell’associazione modererà, nella sala dei gruppi parlamentari della Camera dei deputati, il convegno sul tema: “Autorevolezza e martirio nell'Avvocatura. Testimoniante ancora vive”. «È un incontro – ha esordito la Stoppani - organizzato da numerosi avvocati dalla sezione di Palermo dell'Anai, col suo presidente avvocato Carmelo Belponer, che, col supporto dell'onorevole Carolina Varchi, hanno portato avanti l'idea per non far dimenticare alcune figure di avvocati molto importanti per l’alto valore del loro sacrificio, dall'avvocato Giorgio Ambrosoli, che sarà ricordato dal figlio Umberto, all'avvocato Fulvio Croce sino ad arrivare al ricordo dell'avvocato Enzo Fragalà, trucidato a Palermo».

«Lo scopo principale del convegno – ha aggiunto - è quello di ricordare in particolare a tutti gli avvocati alcuni colleghi che hanno sacrificato la loro vita per il rispetto delle regole della professione in vario modo, come avvenne per l’avvocato Croce, che venne assassinato dai brigatisti per aver accettato la difesa d’ufficio dei capi storici delle Brigate».

La presidente Anai ha aggiunto che in effetti gli avvocati martiri in Italia non sono purtroppo solo tre, ma molti di più, «ma – ha aggiunto – pur avendo concentrato l’attenzione soltanto su tre figure storiche, durante l’incontro il discorso sarà ampliato al ricordo di altri martiri che nell’esercizio della loro professione sono stati trucidati anche semplicemente per aver difeso un cliente scomodo, fra virgolette, o per essersi opposti a situazioni di malcostume o di mafie di varia natura. E con alcuni di questi martiri che erano per di più coscienti di rischiare la vita nell’esercizio della professione, come l’avvocato Ambrosoli.

Quindi l’obiettivo del convegno – ha aggiunto Stoppani - vuole essere non una spinta per gli avvocati a sacrificare la propria vita, ma ricordare quelli che sono i principi fondamentali del nostro codice deontologico e della nostra professione».

Infine la presidente Anai ha aggiunto che «il convegno vuole anche ricordare ai giovani che svolgere la professione di avvocato oggi non significa fare soltanto soldi, ma tutelare e difendere uno dei diritti fondamentali della nostra Carta».

Il convegno, che si terrà dalle ore 15 sino alle 18, sarà aperto dai saluti dell’onorevole e avvocata Carolina Varchi e dall’avvocato Francesco Greco, presidente del Consiglio nazionale forense. Seguiranno le relazioni dell’avvocato Umberto Ambrosoli su “Giorgio Ambrosoli. Un esempio di libertà, responsabilità e professionalità”; dell’avvocato Enrico Maggiora, presidente della fondazione dell’avvocatura torinese che porta il nome di Croce sulla figura di “Fulvio Croce: grandezza e dovere di un eroe dell’avvocatura” e, infine, dell’avvocata Marzia Fragalà su “Enzo Fragalà – Ricordo di un avvocato che lottava per la verità”.

Le conclusioni del convegno saranno del professor avvocato Giulio Prosperetti, giudice della Corte costituzionale. L’incontro si svolge col patrocinio del Consiglio nazionale Forense.

Da Ambrosoli a Croce e Fragalà: quegli avvocati “martiri” nel nome del diritto. Il Coa di Torino ha voluto esporre i volti di Fulvio Croce e altri tre avvocati eroi alle fermate dei bus. Alla Camera l’evento per ricordare i tre legali uccisi che hanno sacrificato la propria vita per l’esercizio della difesa. Giuseppe Bonaccorsi su Il Dubbio il 2 ottobre 2023

«Sono convinta della necessità di ricordare». Queste le parole della deputata di Fratelli d’Italia Carolina Varchi durante l’apertura del convegno “Autorevolezza e martirio nell'avvocatura” che si è svolto alla Camera dei deputati, organizzato dalla Anai nazionale e dalla sezione di Palermo col presidente Carmelo Belponer.

Ricordare - ha puntualizzato la parlamentare che è anche vicesindaca di Palermo - tre figure illustri dell’avvocatura italiana che hanno sacrificato la propria vita per non aver voluto fare un passo di lato e far così valere un diritto fondamentale della Carta costituzionale, quello alla difesa. Varchi ha quindi parlato degli avvocati Giorgio Ambrosoli, Fulvio Croce e Enzo Fragalà, considerandoli pilastri dell’ordinamento forense e ha aggiunto di essere profondamente convinta che servano incontri di questo genere «perché un popolo senza memoria è un popolo che non ha futuro».

Il convegno ha visto la partecipazione di molti avvocati e anche di esperti come Giulio Prosperetti, giudice della Corte costituzionale, che hanno messo in risalto nelle loro mille sfaccettature, le vite, sia lavorative che personali, di quelli che oggi vengono considerati eroi dell’avvocatura e figure che fino alla fine sono stati coscienti del loro ruolo fondamentale nella difesa di un diritto a tal punto da sacrificare per questo la propria vita. Ad apertura dei lavori a portare il saluto del presidente del Consiglio nazionale forense, Francesco Greco, impegnato in incontri istituzionali, è intervenuto il consigliere nazionale Antonino Galletti. 

A parlare di Giorgio Ambrosoli, «esempio di libertà responsabilità e professionalità», è stato il figlio, l’avvocato Umberto Ambrosoli del Foro di Milano, che ha messo in risalto la figura del padre, cosciente del suo importantissimo ruolo di commissario liquidatore della Banca Privata italiana e delle attività finanziarie del banchiere Sindona. «Partiamo dalla parola martirio – ha esordito -. Si tratta di una parola complicata, testimone della propria fede e nel caso in specie, testimone dei propri valori, di quelli per i quali ci sono state figure che hanno voluto ispirare la loro vita sino a sacrificarla». «Il 12 luglio 2023 – ha continuato Ambrosoli – si è tenuto a Bergamo un convegno in occasione dell’anniversario della morte di mio padre. Tra i presenti Eugenio Fusco, procuratore aggiunto alla procura di Milano. Da tanti anni il magistrato si dedica a indagini in ambito economico. Fusco ha detto: “Giorgio Ambrosoli è stato anche un illuminato arguto preparatissimo avvocato, personalmente mi sentirei di aggiunge il padre delle moderne indagini in materia di criminalità economica. Ambrosoli è stato un innovatore nel metodo delle indagini nel settore dell'economia e della finanza così come Giovanni Falcone lo è stato per le indagini su Cosa nostra”». 

Nell'intervento Ambrosoli ha ricordato come il padre, occupandosi di procedure concorsuali, abbia «allargato le sue conoscenze all’economia, alla finanza, essendo capace di leggere i bilanci con le lenti del giurista, diverse da quelle di chi è avvezzo ai numeri, ma non anche ai codici». Toccante, poi, la lettera che l’avvocato trucidato inviò alla moglie quando si rese conto di rischiare la vita, letta in Aula dalla moderatrice del convegno, l’avvocata Isabella Maria Stoppani, presidente Anai. Una missiva con la quale Ambrosoli fa coraggio alla consorte scrivendole: «Qualunque cosa succeda sono certo che saprai fare benissimo...».

Il ricordo dell’avvocato Fulvio Croce sul tema “Grandezza e dovere di un eroe dell’avvocatura” è stato fatto con dovizia di particolari dall’avvocato Enrico Maggiora, presidente della Fondazione “Fulvio Croce”. Prima di lui ha preso la parola la presidente dell’Ordine di Torino, Simona Grabbi che ha dedicato tanto tempo a far conoscere la figura del collega trucidato e ha ricordato molti particolari di quel periodo storico in cui Croce si trovò ad affrontare l’emergenza storica del primo grande processo contro le Br «in cui – ha ricordato – la prima mossa assolutamente sottile, meditata da fine menti giuridiche degli imputati fu quella di revocare il mandato ai difensori di fiducia». E Croce si ritrovò ad essere nominato difensore di ufficio cosciente di cosa stava accadendo e di cosa rischiasse. Grabbi ha anche ricordato un episodio molto delicato in cui gli avvocati difensori d’ufficio minacciati ad un certo punto presentarono un esposto alla magistratura. «La Procura di Bologna chiese il rinvio a giudizio, ma il tribunale emiliano il 4 aprile del ’77, 24 giorni prima dell’omicidio di Croce, assolse i brigatisti dalle minacce perché motivò che non si trattava di minacce gravi».

Maggiora, invece, oltre a parlare del ruolo dell’ex presidente dell’Ordine degli avvocati, ucciso brutalmente dalle Br, ne ha dipinto anche i tratti privati, ricordando la ritrosia del legale nel mettersi in mostra: “Non si fa l’avvocato – recitava uno dei suoi motti- ma si è avvocati”, perché chi indossa la toga non la abbandona mai. Raffigurato anche quel delicato periodo storico in cui si mosse Croce, che si trovò davanti a un tragico destino ed ebbe «il coraggio di svolgere il proprio dovere, abbracciando in maniera convinta il suo ruolo, senza ergersi su un piedistallo…Quindi – ha puntualizzato Maggiora - non è vano ricordare il sacrificio di un uomo che ha tenuto alto il valore del diritto alla difesa e che non ha fatto un passo indietro, pur avendo la piena consapevolezza di quello che lo stava aspettando. È per questo motivo – ha concluso Maggiora - che credo che la celebrazione di oggi debba portarci a considerare Fulvio Croce non solo il presidente del consiglio dell’Ordine di Torino, ma il presidente di tutti noi avvocati».

La terza figura di avvocato ucciso, ricordata al convegno, è stata quella di Enzo Fragalà, legale del foro di Palermo, per più legislature deputato nazionale, che sacrificò la propria vita per garantire il diritto alla difesa di un pentito di mafia nonostante la criminalità lo avesse più volte invitato a rinunciare. A condividere il proprio ricordo la figlia del legale ucciso, l’avvocata Marzia Fragalà del Foro di Palermo, che emozionata ha detto che quando suo padre venne ucciso aveva appena svolto l’esame da avvocato. 

Nel corso dell’incontro sono stati ricordati altri avvocati uccisi, come Serafino Famà, trucidato dalla mafia catanese. E anche tutti quelli “ammazzati dai loro clienti”, come ha puntualizzato a chiusura della commemorazione il giudice della Corte costituzionale Giulio Prosperetti. Ricordando i suoi 45 anni di carriera legale, Prosperetti ha detto di essere pianamente convinto che «la giustizia cammini sulle gambe degli avvocati e noi dobbiamo riaffermare questo principio».

Giustizia, ai giovani chiedo “Preferite un caffè o diventare avvocati?” Tra la provocazione e la proposta: una giovane studentessa di “Meritare l’Europa” ci parla delle difficoltà del percorso di studi in giurisprudenza. Marzia Amaranto su Il Riformista il 10 Settembre 2023 

Una provocazione? No, è la realtà che vivono ogni giorno centinaia di giovani avvocati, tra il difficile e agognato desiderio di raggiungere la professione dei loro sogni e lo scontro con la realtà fatta di formazione lacunosa, dal punto di vista pratico della professione e retribuzione per la quasi totale maggioranza assente.

Il percorso di studi in Giurisprudenza è un corso di studio dalla durata “ufficiale” di cinque anni, ma “ufficiosa” in media di 7-8 anni. Un lungo periodo fatto di sacrifici. Qualcuno potrebbe dire che è importante avere basi solide, per costruire dapprima la propria vita e dipoi carriera lavorativa dei sogni. Non quando si studiano più di 30 esami solo teorici e neppure uno di tutti questi si avvicina alla pratica.

Conseguito il titolo, inizia il gioco della “roulette russa”. Se da un lato è difficile trovare uno studio legale che formi seriamente un praticante, dall’altro lato è un lasso di tempo ampio di lavoro e formazione, privo di retribuzione, seppure sia proprio la nostra carta costituzione a sancire all’art. 36 il diritto di ogni lavoratore. Purtuttavia dalla piaga dello sfruttamento non scampa nessuno, per la maggior parte di questi giovani una giornata di lavoro vale poco più di un caffè.

E allora perché non provare a risolvere almeno in parte tali problematiche provando a riformare lo studio presso la facoltà di giurisprudenza, immaginando di trasferire il praticantato nell’università, mediante la realizzazione di laboratori pratici, fatti di vera e propria pratica, dal quarto anno accademico con la collaborazione costante di studi legali convenzionati negli più svariati ambiti della materia giuridica con esame finale. In seguito, il giovane laureato potrebbe decidere di iscriversi presso un albo apposito relativo al ramo di specializzazione dell’attività forense conseguita. In questo modo si evitano i “tuttologi” e si otterrebbero giovani professionisti specializzati e non più adatti solo a far fotocopie. Marzia Amaranto

E adesso chi difende gli avvocati? Simone Di Meo su Panorama il 31 Agosto 2023

E adesso chi difende gli avvocati? (Di giovedì 31 agosto 2023) avvocati sempre più in difficoltà: non solo devono far fronte a fatturati in calo vertiginoso, sono colpiti da provvedimenti - spesso paradossali - dei loro stessi organi disciplinari. «I consigli distrettuali» dicono, «sono diventati come tribunali dell’Inquisizione». E c’è il sospetto che certe misure incomprensibili siano funzionali per una competizione scorretta. Gli avvocati italiani sono sull’orlo di una crisi di nervi. E non solo per i margini di fatturato sempre più esigui (la media nel 2021 è stata di 18 mila euro all’anno contro i quasi 20 mila del 2013) o per le prospettive di carriera che si assottigliano (nel 2022 hanno detto addio alla Cassa forense 2.650 under 35); compressi come sono in un mercato che vede la concorrenza spietata di 240 mila iscritti all’Albo. No, i legali hanno un problema di convivenza e di condotta. Quasi un ...

Accondiscendenti e succubi. L'avvocatura e i giudici. L’avvocato è controparte, non deve compiacere i giudici. Il Cnf ritiene inammissibile e passibile di censura che un avvocato, in calce a una propria istanza, scriva: “Si confida nella Giustizia (se ne esiste ancora un barlume!)”. Iuri Maria Prado su L'Unità il 5 Agosto 2023

Non si creda che l’avvocatura sia estranea al degrado della giustizia italiana. Spesso vi assiste, inerte. A volte vi partecipa e lo determina, complice. E questo si deve anche, forse soprattutto, a un maledetto pregiudizio, che profondamente impregna la cultura (l’incultura) di tanti operatori di giustizia: avvocati compresi, appunto.

Essi credono – l’ho sentito ripetere un mare di volte da eminenti e accreditatissimi professionisti – che il loro ufficio consista nel “contribuire” all’attività giurisdizionale, in buona sostanza in una collaborazione a scrivere la giustizia emessa in nome del popolo italiano. Micidiale fraintendimento, e gravido di formidabili aberrazioni. Funzione dell’avvocato, infatti, non è (non sarebbe) collaborare con la giustizia che giudica, o a cui fa appello, il proprio assistito: funzione dell’avvocato è invece (sarebbe) porsi sempre e per definizione come “controparte” di quella giustizia.

Perché si tratta sempre e in ogni caso del potere pubblico con cui l’avvocato può tutt’al più confrontarsi, interloquire, coltivare contraddittorio, ma non mai confondersi. Corollario di questa esigenza è che l’avvocato si astenga in modo intransigente dall’assumere verso il potere giudiziario i comportamenti di compiacenza curtense invece invalsi presso molti, e in modo vergognosamente disinibito presso le rappresentanze dell’avvocatura corporata. Ecco perché non sorprende – ma comunque dispiace – che il Consiglio Nazionale Forense (cioè “l’organismo apicale istituzionale dell’Avvocatura”: urca), ritenga inammissibile e passibile di censura il fatto che un avvocato, in calce a una propria istanza, scriva questa frase blasfema: “Si confida nella Giustizia (se ne esiste ancora un barlume!)”.

Evidentemente non è chiaro alla corporazione avvocatesca che nessuno, tanto meno l’avvocato, ha il dovere di confidare nella giustizia. Evidentemente non è chiaro alla burocrazia forense che chiunque, compreso l’avvocato, ha tutto il diritto di diffidarne, e di protestare come vuole e dove vuole le ragioni della propria diffidenza. Salvo credere che sia obbligo diffuso, e dunque anche dell’avvocato, dimostrare “rispetto della funzione giudicante” (hanno scritto così in questa decisione del Consiglio Nazionale Forense: hanno scritto così, santa madonna!).

E allora facciamo una lezioncina di diritto liberale alla giustizia dell’avvocatura corporata (ne ha bisogno): quel rispetto si dimostra non contestando il potere del giudice di emettere una decisione, non contestando il fatto storico che una decisione sia stata emessa, non contestando il fatto che la decisione abbia un certo contenuto: ma non si dimostra inchinandosi a baciare la pantofola del potere che fa giustizia; non si dimostra trattando la decisione di giustizia come un monito oracolare; non si dimostra omaggiando il sussiego, la pompa, la supponenza mandarina del funzionario pubblico che si fa forte del potere di giudicare.

Questo avvocato, destinatario dei provvedimenti di sanzione del Consiglio Nazionale Forense, ha poi reagito in modo intemperante a una decisione che non gli piaceva. Ha scritto così: “La circostanza che mi ha fatto girare i coglioni è stata la motivazione del provvedimento”. E questo modo di dire, secondo il giudice disciplinare, si collocherebbe tra quelli che recano “disonore all’Avvocatura e alle Istituzioni forensi in generale”. Per carità, va benissimo. Uniformiamoci a un timorato criterio da collegio confessionale. Ma la corporazione avvocatesca vorrà prendere nota del fatto che a disonorare l’avvocatura (noi la A maiuscola non la usiamo, per decenza) milita piuttosto l’abitudine allo strafalcione, all’italiano da liceale zuccone, all’analfabetismo che spesseggia tra i portatori di impeccabili grisaglie convenuti ai convegni in cui si celebra il “dialogo” tra potere togato e casta giudiziaria.

A svergognare l’avvocatura non è l’avvocato cui girano i coglioni e lo scrive, né la legittima sfiducia verso la “funzione giudicante”, ma la schiena incurva delle burocrazie forensi davanti alla prepotenza della signoria togata. Vediamo di intenderci, dunque. Non abbiamo fiducia nella giustizia, e ci fa girare i coglioni. È chiaro?

Iuri Maria Prado 5 Agosto 2023

Le Sezioni Unite scandiscono il ruolo dell’Avvocatura nella realizzazione dello stato di diritto e della giurisdizione

Da Presidenza AIAF su aiaf-avvocati.it il 13 dicembre 2022

Interessante sentenza delle Sezioni Unite civili della Cassazione, che analizza il ruolo dell’Avvocatura nella realizzazione dello stato di diritto e della giurisdizione. Nella pronuncia n. 36057/2022, depositata lo scorso 9 dicembre, si pone l’accento su un ventaglio di requisiti implicito nel dialogo tra giudice e avvocato per la realizzazione della giustizia: lealtà, fiducia, collaborazione.

L’esercizio della giurisdizione, si legge nel provvedimento, non può avere luogo senza la reciproca e continua collaborazione tra avvocati e magistrati, che si deve fondare sul principio di lealtà; per cui, ove il professionista tradisca questa fiducia, potrà certamente essere chiamato a rispondere, in altra sede, del suo operato infedele.

Ma non si deve trarre dall'esistenza di possibili abusi, che pure talvolta si verificano, una regola di giudizio che abbia come presupposto una generale e immotivata sfiducia nell'operato della classe forense.

Nel provvedimento viene ribadita la centralità del diritto di difesa, riconosciuto dall'art. 24 Cost. e dall'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Tale diritto, come più volte rammentato sia dalla Corte costituzionale che dalle Corti europee, per poter essere concretamente esercitato, impone che gli ostacoli di natura procedurale impeditivi al raggiungimento di una pronuncia di merito siano limitati ai casi più gravi, nei quali non è possibile assumere una decisione diversa.

Tutto ciò sulla base dell'indiscutibile affermazione secondo cui il processo deve tendere per sua natura ad una decisione di merito, perché risiede in questo l'essenza stessa del rendere giustizia.

Deve poi aggiungersi, precisano le Sezioni Unite, che l'art. 111, settimo comma, Cost., prevede che il ricorso per cassazione costituisca uno strumento «sempre ammesso» contro le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale; il che è in armonia con il ruolo di supremo giudice che la Carta fondamentale attribuisce a questa Corte.

Non bisogna dimenticare, si legge in sentenza, la centralità del ruolo che il difensore gioca, in favore del proprio cliente, per consentire che il diritto di difesa venga realmente esercitato.

Nel caso in esame il problema analizzato dalle Sezioni Unite riguardava il requisito della specialità della procura come condizione per la proposizione del ricorso per cassazione: esso è integrato, a prescindere dal contenuto, dalla sua collocazione topografica. Nel senso che la firma per autentica apposta dal difensore su foglio separato, ma materialmente congiunto all'atto, è in tutto equiparata alla procura redatta a margine o in calce allo stesso.

L’avvocato cambia recapito ma non informa il Coa: scatta la sanzione. L’omessa o tardiva comunicazione dei propri dati aggiornati costituisce un illecito disciplinare. La sentenza del Cnf. Tiziana Roselli su Il Dubbio il 16 giugno 2023

L’omessa o tardiva comunicazione scritta al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati (Coa) dei propri recapiti professionali e dei successivi eventi modificativi costituisce un illecito disciplinare, sanzionato con la censura, secondo l’art. 70 del Codice Deontologico Forense. Sebbene le condizioni di salute psicofisica dell’incolpato non costituiscano di per sé una giustificazione per l’illecito disciplinare, possono influire sulla relativa sanzione disciplinare.

Questo richiamo è stato ribadito dal Consiglio Nazionale Forense nella sentenza n. 269/2022, mediante la quale, pur confermando la responsabilità disciplinare dell’incolpato, ha deciso di rimodulare la sanzione in considerazione della patologia che lo affliggeva. In particolare, la sanzione sarebbe stata ridotta da una censura a un avvertimento.

I fatti

La vicenda ha avuto inizio nel 2012 con due denunce presentate presso il Coa di Roma. Nel 2015, il procedimento è stato trasferito al CDD di Roma, che nel febbraio 2016 ha approvato i capi di incolpazione, riguardanti l’omissione di emissione di documenti fiscali e l’omessa comunicazione scritta al Coa di Roma dei recapiti professionali.

Il CDD ha accertato che l’incolpato non aveva comunicato all’Ordine di Roma la modifica del suo indirizzo professionale, nonostante avesse sollevato la questione in una e-mail nel febbraio 2014. Il CDD ha anche evidenziato una raccomandata a mano inviata dall’avvocato nel maggio 2014, in cui si lamentava dell’indirizzo non aggiornato dell’incolpato. Nell'udienza del maggio 2018, il CDD di Roma ha dichiarato la prescrizione dell’azione disciplinare per il primo capo di incolpazione, mentre per il secondo capo ha ritenuto integrata la condotta contestata e ha inflitto la sanzione disciplinare della censura.

L'avvocato ricorrente ha impugnato la decisione del CDD innanzi al Cnf. Nel ricorso, ha sostenuto che non gli era mai stato contestato il secondo capo di incolpazione e che l’omissione della comunicazione al Coa di Roma era giustificata dalla sua grave malattia che gli impediva di lavorare.

La sentenza

La decisione del Cnf ha portato a una riformulazione della sanzione imposta, tenendo conto della condizione di salute dell’imputato. Nonostante i motivi addotti da questi siano stati considerati infondati, il Consiglio ha preso in considerazione la patologia di cui l’imputato soffre e ha deciso di riformulare la sanzione. Nella motivazione della sentenza, si è sottolineato che le prime obiezioni presentate dall’imputato non hanno alcun merito, poiché nel fascicolo disciplinare sono emerse prove a sostegno dell’accusa. Inoltre, il Consiglio ha stabilito che le condizioni psicofisiche dell’imputato non possono costituire una giustificazione per l’illecito deontologico. In base al Codice Deontologico Forense, è stata comminata la sanzione edittale dell’avvertimento.

L’avvocato dimentica di presentare appello? Scatta la sanzione. La decisione del Cnf sul tema della responsabilità disciplinare connessa all'inadempimento del mandato legale. Tiziana Roselli su Il Dubbio il 26 giugno 2023

Il Consiglio nazionale forense torna ad affrontare il tema della responsabilità disciplinare connessa all'inadempimento del mandato legale, in particolare per la mancata o tardiva presentazione dell'appello. Tale pronuncia, riportata nella sentenza numero 13/2023, ha ribadito che rappresenta una chiara violazione dei doveri professionali l’omessa, ritardata o negligente esecuzione di atti correlati al mandato o alla nomina, quando derivi da non scusabile e rilevante trascuratezza degli interessi della parte assistita (articolo 26 del Codice deontologico forense).

Nonostante la pronuncia (che ha condannato il professionista coinvolto), il Cnf ha dichiarato l'azione disciplinare prescritta. Tale decisione si basa sui tempi di prescrizione definiti dalle norme vigenti, che impediscono l'avvio di azioni disciplinari dopo un determinato periodo di tempo.

Nel caso specifico, l'avvocato incriminato era stato sanzionato dal Consiglio distrettuale disciplinare (Cdd) di Bologna a seguito di un procedimento disciplinare, poiché aveva violato il codice deontologico non presentando l'appello contro una sentenza emessa dal tribunale di Piacenza, che nel frattempo era divenuta irrevocabile. Questo nonostante avesse ricevuto l'incarico da parte del suo cliente.

L'argomento trattato nella pronuncia del Consiglio nazionale forense evidenzia l'importanza della responsabilità degli avvocati nell'adempimento dei loro doveri professionali e nella tutela degli interessi dei loro clienti.

L'obbligo di presentare l'appello tempestivamente, quando appropriato, è una componente essenziale della pratica legale che richiede la massima attenzione e impegno da parte degli avvocati.

La sentenza del Cnf, sebbene abbia dichiarato prescritta l'azione disciplinare nel caso specifico, sottolinea l'importanza di adottare un approccio professionale rigoroso e una corretta gestione dei mandati affidati, al fine di evitare conseguenze disciplinari e preservare l'integrità della professione legale.

Compensi agli avvocati e restituzione degli atti: il Cnf fissa le regole. La documentazione legata a un incarico legale non può essere trattenute, e le cifre richieste non possono essere sproporzionate: il richiamo ai principi deontologici della professione in due sentenze del Consiglio nazionale Forense. Tiziana Roselli su Il Dubbio il 20 giugno 2023

Nell’ambito forense, l’importanza dei compensi e della restituzione degli atti viene messa in primo piano dal Consiglio Nazionale Forense, evidenziando l’aspetto deontologico che va al di là del consenso del cliente. Secondo il Cnf, è fondamentale che gli avvocati evitino di condizionare la restituzione dei documenti legati a un caso al pagamento del proprio compenso.

Dunque il Cnf ha emesso due sentenze di grande rilevanza, delineando le regole deontologiche che gli avvocati devono rispettare in merito ai compensi richiesti e alla restituzione degli atti.

Sanzionato il compenso eccessivo

Nello specifico nella sentenza n. 1/2023, il Cnf sottolinea che un avvocato che richieda compensi eccessivi e sproporzionati rispetto alle prestazioni effettuate viola i doveri di correttezza e probità. Anche se può esserci stato un accordo contrattuale o l’accettazione del cliente di effettuare il pagamento, l’illegittimità di tali compensi rimane un’importante questione deontologica. Il Consiglio afferma la necessità di valutare la proporzionalità dei compensi, indipendentemente dalla validità di un patto di quota lite. Tale valutazione deve considerare i limiti di un compenso adeguato al caso specifico, evitando richieste palesemente eccessive rispetto a tali limiti.

Obbligo di restituzione degli atti di causa

La sentenza n. 11/2023 riguarda, invece, l’obbligo di restituire gli atti processuali da parte degli avvocati. Il Cnf chiarisce che gli avvocati non hanno il diritto di trattenere gli atti e la documentazione legata a un incarico legale, né possono condizionare la loro restituzione al pagamento delle spese e degli onorari. L’obbligo di restituzione è regolato dagli articoli 2235 del Codice Civile, 33 del Codice Deontologico Forense e l'articolo 66 del R.d.l. n. 1578/33.

Nel caso specifico affrontato nella sentenza n. 11/2023, il Cnf ha respinto il ricorso presentato da due avvocati che avevano subordinato la restituzione dei fascicoli al pagamento dei compensi da parte dei clienti. Il Consiglio ha confermato la decisione del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Brescia che aveva inflitto loro la sanzione disciplinare della censura. Secondo il Cnf, l’invito a saldare la parcella prima del ritiro dei documenti viola l'articolo 33 del Codice Deontologico Forense (articolo 42 nel codice precedente).

Le sentenze emesse richiamano l’attenzione sull’etica professionale degli avvocati. La richiesta di compensi proporzionati e la tempestiva restituzione degli atti costituiscono elementi essenziali per preservare l’integrità e la fiducia nella professione legale. Il Cnf sottolinea l’importanza di valutare con attenzione i limiti di un compenso adeguato a ciascun caso specifico e di rispettare gli obblighi di restituzione degli atti, indipendentemente dal pagamento delle spese. Queste decisioni consolidano i principi etici espressi dal Consiglio e promuovono una pratica legale trasparente e responsabile, tutelando gli interessi dei clienti e l’immagine della professione forense.

Società tra professionisti, paletti agli avvocati: non possono esercitare. Il documento del Consiglio nazionale dei commercialisti: ai legali è precluso esercitare la professione in una forma societaria diversa dalla società tra avvocati. Tiziana Roselli su Il Dubbio il 21 giugno 2023

Il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ha emesso un documento (PO 51-2023) che conferma la preclusione per gli avvocati riguardo alla partecipazione come soci professionisti nelle società tra professionisti (Stp). Questo annuncio giunge in sintonia con quanto affermato in precedenza dal Consiglio nazionale forense, che ha recentemente espresso un parere in conformità a quanto già affermato in precedenza nel parere n. 64 del 25 maggio 2016.

In sostanza, gli avvocati possono far parte di una Stp, ma non come professionisti. Possono partecipare come soci di capitale, ma solo entro i limiti del terzo del capitale sociale. Questo significa che in una Stp multidisciplinare, l'oggetto sociale non può comprendere l'esercizio dell'attività forense. Inoltre, non è possibile costituire una Stp multidisciplinare se non è presente almeno un professionista per ciascuna delle professioni elencate nell'oggetto sociale.

Si conferma, quindi, che l'unica forma societaria utilizzabile dagli avvocati per l'esercizio della professione forense è la società tra avvocati (Sta) disciplinata dalla legge 247/2012. Nonostante la legge 183/2011 in materia di Stp non imponga limitazioni sulla tipologia delle professioni che possono essere organizzate nella forma della Stp, gli avvocati sono preclusi dall'esercitare la loro professione in una forma societaria diversa dalla società tra avvocati.

D'altro canto, i dottori commercialisti possono essere soci professionisti in una Sta multidisciplinare, permettendo alla società di esercitare sia l'attività forense che quella dei dottori commercialisti. Gli avvocati possono anche far parte dell'organo amministrativo di una Stp, ma senza assumere un ruolo di amministratore esecutivo. Inoltre, è permesso unirsi in uno studio professionale associato multidisciplinare, che includa sia avvocati che dottori commercialisti.

È importante evidenziare che queste limitazioni non sono direttamente imposte da norme di legge, ma sono il risultato di un'interpretazione che suggerisce che la legge 247/2012 impedisca implicitamente agli avvocati di esercitare la loro professione in forme societarie diverse. ll documento Cndcec evidenzia un aspetto interessante riguardante la multidisciplinarietà "paritaria" nelle Stp. Se nessuna delle professioni svolte dalla Stp ha un ruolo predominante, la società deve essere registrata presso tutti gli ordini professionali dei soci. In una Stp multidisciplinare, nessuna professione può avere precedenza sulle altre, a differenza di quanto richiesto dall'articolo 8, comma 2, del decreto 34/2013, che richiedeva l'iscrizione della Stp presso l'ordine professionale prevalente.

Assegni scoperti? Per l’avvocato scatta la sanzione disciplinare. Per il Cnf l’emissione a vuoto ha rilevanza disciplinare anche in assenza di una previsione esplicita nel codice deontologico. Ecco la sentenza. Tiziana Roselli su Il Dubbio il 5 giugno 2023

Nella sua recente sentenza n. 264/2022, pubblicata il 18 maggio 2023, il Consiglio nazionale forense ha affermato che l'emissione di assegni senza provvista ha rilevanza disciplinare, anche in assenza di una previsione esplicita nel codice deontologico.

I fatti

Nel caso preso in esame, due avvocati sono stati coinvolti in un procedimento penale. Nello specifico gli avvocati, in concorso e previo concerto tra loro, si sono appropriati indebitamente di somme di denaro destinate al pagamento delle forniture di carburante per la sua attività imprenditoriale ed hanno emesso assegni a vuoto.

Anche se il procedimento penale si è concluso con un'assoluzione, tuttavia l'emissione di assegni senza fondi è comunque riconosciuta come un illecito disciplinare. Secondo l'articolo 653 del codice di procedura penale, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione ha valore di giudicato nel procedimento disciplinare dinanzi alle autorità pubbliche per quanto riguarda la constatazione che il fatto non sussiste o non costituisce reato o che l'imputato non l'ha commesso.

Pertanto, nel procedimento disciplinare, considerando che le accuse riguardano esclusivamente l'emissione degli assegni che sono rimasti impagati e successivamente protestati, le valutazioni sul comportamento possono e devono riguardare solo l'emissione di tali assegni. Alla luce delle prove raccolte sia nel procedimento penale che in quello disciplinare, non vi è alcun dubbio sulla veridicità dell'emissione dei titoli. Di conseguenza, la responsabilità disciplinare dell'avvocato può solo essere confermata.

I motivi

Nonostante l'inadempimento causato dall'emissione di assegni senza fondi costituisce un comportamento illecito comune, va comunque fatto rientrare nel quadro disciplinare, anche in assenza di una specifica sanzione prevista. Ciò è dovuto al fatto che, secondo il principio della tipicità tendenziale degli illeciti deontologici, tale comportamento è comunque idoneo, per la sua modalità e gravità, a compromettere il rapporto di fiducia con il difensore a causa della stretta connessione con l'adempimento dei suoi doveri professionali.

Il Cnf ha dunque confermato la responsabilità disciplinare dell’avvocato, sospeso dalla professione per tre mesi a seguito della denuncia disciplinare presentata al Consiglio Distrettuale di Disciplina di Bologna. Tuttavia, considerando la carriera forense e il contributo sociale fornito dallo stesso durante la sua vita professionale, il Consiglio ha deciso di ridurre la sanzione inflitta, trasformandola in una censura.

Bernardini de Pace: «Piango con i clienti e li abbraccio. L’assegno più alto ottenuto? 100mila euro al mese, netti. Di Totti non parlo». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 18 Maggio 2023

L’avvocato matrimonialista: «Lasciai mio marito perché ogni mercoledì scommetteva e perdeva soldi»

Avvocato Annamaria Bernardini de Pace, il primo divorzio che ricorda?

«Il mio. Mi ero sposata col mio professore di Diritto Romano nel ‘70, a 22 anni. Ero uscita di casa con una dote di 60 milioni di lire e, follia massima, scelsi la comunione dei beni».

Perché follia? Che fine fece la sua dote?

«Avevamo avuto due figlie, io cercavo una casa più grande e scoprii che non avevamo più soldi perché lui aveva comprato una scuderia di cavalli e passava i mercoledì a scommettere e perdere soldi. Io ero innamoratissima e rimasi così delusa che decisi di lasciarlo all’istante, solo che non potevo mantenere le bimbe, perciò tornai all’università, mollata con cinque esami, mi laureai e poi divorziai. Senza chiedere una lira».

Suo marito come la prese?

«Le dico solo che feci 18 esami fra il ‘76 e il ‘78 e lui telefonava ai suoi colleghi per farmi bocciare».

Nel ’68 dei movimenti di contestazione giovanile, lei aveva vent’anni: come le era venuto in mente di sposarsi e fare solo la mamma?

«Ho sempre fatto il contrario di quello che facevano tutti. Mio padre mi aveva educata alla libertà anche come coraggio di pensarla diversamente dagli altri. Così, fra amiche tutto sesso e rock and roll, io per avere “la prima volta” aspettai i 21 anni. Ed ero quella che manifestava con le femministe, ma aveva un marito molto fascista, che accettavo per rispetto della libertà altrui. Dopo, però, ho dormito per quindici anni con un comunista».

Che bambina è stata?

«Cresciuta presto. Sono la più grande di quattro fratelli, papà era pretore, mamma insegnava e usciva alle otto, io, a quattro anni, andavo all’asilo portando con me i tre più piccoli. A sei, preparavo il pranzo per tutti. Ero molto responsabile. E mi sono sentita molto amata da papà, mentre i rapporti con mia madre erano più difficili».

Difficili perché?

«Per gelosia: eravamo tutte e due innamorate dello stesso uomo, cioè mio padre. Una volta, le risposi male e lei mi tagliò in un sol colpo le due trecce. Continuò a punirmi anche da grande perché non voleva che divorziassi: per lei, bisognava avere un solo uomo. Per cui, quando poi ebbi un compagno mi vietò di usare la sua casa di Porto Cervo».

I suoi modelli femminili quali erano?

«Il primo, ridicolo, Cenerentola, perché vidi il film con papà, e quando lei pianse, lui disse: vedi come piange bene? Non è sgraziata».

E lei piange?

«Sempre. Se vedo C’è posta per te e se i clienti mi raccontano i loro problemi».

Lei, che ha la fama di essere la divorzista più feroce d’Italia piange con i clienti?

«Piango e li abbraccio tutte le volte che percepisco il bisogno di calore umano».

Però ha fama di essere arrogante e burbera.

«Lo sono. Ma perché preferisco dire la verità, per cui sono diretta e non ipocrita».

Alla fine, fa la matrimonialista per reazione al suo divorzio?

«Semmai per un trauma infantile. I miei erano autorevoli e autoritari e io ero ribelle. Da noi, a tavola, si doveva mangiare tutto e a me, facevano schifo i piselli. Un giorno, al quarto “non li voglio”, papà mi diede uno schiaffo. Lì è nato il mio spirito di difesa dei bambini. Nei divorzi, mi pagano gli adulti, ma difendo i bambini. Ho mandato via dei clienti perché usavano i figli contro il coniuge».

Una a cui rinunciò fu l’attrice Rosanna Schiaffino nel burrascoso divorzio da Giorgio Falck.

«Fu una causa importante, vincemmo ai massimi: ottenemmo la casa di Milano e un assegno notevole. Quando si trattò di seguire l’affidamento del figlio, preferii farmi da parte».

Con Francesco Totti perché si è fatta da parte?

«Di questo non parlo».

Qual è il divorzio celebre più sanguinoso che ha seguito?

«Quello di Romina Power e Al Bano. Si erano conosciuti giovanissimi, si erano amati tantissimo, poi erano emerse le differenze tra la mentalità americana e quella del Sud Italia. Però, furono bravi a preservare i figli».

Perché, da Francesca Fagnani, a Belve, ha detto che c’è chi la vuole morta?

«Perché spesso ricevo minacce dai coniugi dei miei clienti. Ho pure trovato una bomba sulla porta di casa. Da anni, esco soltanto accompagnata».

In 40 anni di professione, come ha visto cambiare la giurisprudenza sui divorzi?

«Il principio del tenore di vita fu introdotto grazie a una mia battaglia negli anni ‘80. Poi, due anni fa, è stato tolto dalla Cassazione, giustamente, perché le donne non sono più il sesso debole. E, ai miei inizi, il tradimento era considerato motivo di addebito di colpa, qualcosa di sconvolgente. Oggi, invece, è una cosa di cui non frega niente a nessuno. Anzi, io ho introdotto il principio del tradimento “per legittima difesa”, che piace molto».

A quanto ammonta l’assegno più alto ottenuto?

«A centomila euro al mese. Netti».

Si può dire che fu lei a innescare Tangentopoli?

«Io e Antonio Di Pietro. Difendevo la moglie di Mario Chiesa: lui voleva tagliarle l’assegno. Trovai conti per 50 miliardi di lire, intestati a persone le cui iniziali componevano sigle di partiti, tipo Dc, Psi… E portai tutto in Procura, dove c’era un’indagine aperta. Il primo a essere arrestato fu Mario Chiesa. E io ebbi minacce, finii sotto protezione».

Ora, è l’avvocato della premier Giorgia Meloni?

«Ho scritto solo una lettera, ho protetto una bambina di cui era stato pubblicato il volto e che non poteva andare a scuola perché era stalkerizzata dai fotografi».

Chi fu il suo primo cliente famoso?

«Ornella Vanoni, ma su una causa, vinta, per diritto d’immagine. All’inizio mi occupavo di quello e soprattutto di contratti musicali. Passai ai divorzi grazie a Indro Montanelli: vide una mia lettera nella posta dei lettori del Corriere, mi offrì una rubrica sul diritto di famiglia e mi suggerì di specializzarmi in quello».

L a cosa di cui va più fiera?

«Essermi fatta da sola e pagare trenta stipendi al mese. E avere due figlie stupende».

Riscriverebbe la lettera al «genero degenerato»?

«Giuro che non era rivolta a mio genero Raoul Bova. L’avevo mandata al Giornale l’anno prima, quando lui e mia figlia Chiara non stavano ancora divorziando. Slittava dall’estate precedente».

Dopo il marito fascista e il compagno comunista, al momento, è single?

«Non ho nessuno in casa da 15 anni, però ho una serie di amanti, fidanzati, prospettive e decido io il quando e il come. In ogni caso, li scelgo solo più giovani. Un vecchio come me sarebbe insopportabile».

Ha 75 anni, quando andrà in pensione?

«Riposarmi non fa per me. Sono una che non si ferma mai e non si lamenta mai. Ho affrontato tredici operazioni, non mi chieda per cosa, e non mi sono mai lamentata».

Il tailleur, i contanti e il real estate. Bernardini de Pace: "Il mio timore? Le tasse". L'avvocato specializzata in diritto di famiglia racconta il rapporto con i soldi e come gestisce i propri risparmi: tra investimenti immobiliari molto azzeccati e acquisti on line clamorosamente sbagliati. Dino Bondavalli l'8 Maggio 2023 su Il Giornale.

Annamaria Bernardini de Pace, avvocato 

“Vuole parlare di investimenti? Allora questa sarà l’intervista più breve della sua vita, perché tra le tasse che verso e i costi della vita non mi avanza più nulla da investire”.

Esordisce così Annamaria Bernardini de Pace, avvocato che ha fatto del diritto di famiglia il proprio campo di specializzazione al punto da diventare il legale matrimonialista più celebre d’Italia. Di fronte alla richiesta di un’intervista sul suo rapporto con i soldi e su come gestisce i propri risparmi, risponde con una battuta. Poi, però, si concede con grande cortesia e disponibilità. Tanto da rilevare anche dettagli molto personali e divertenti. 

Davvero versa così tanto al Fisco? 

"Io pago 700 mila euro di tasse all’anno, e lo faccio con un sistema fiscale che non mi consente di scaricare praticamente nessuna spesa. Ho sei studi, venti persone da pagare e oltre un milione di spese non scaricabili: cosa vuole che mi resti?" 

Non vorrà dirmi di essere povera…

"In realtà ogni volta che ci sono da pagare le tasse temo di non avere soldi a sufficienza. Detto questo, sono una persona che quando vede una cosa che le piace se la compra senza troppo pensarci. Tuttavia so bene anche cosa significhi essere senza soldi." 

Davvero?

"Quando mi sono separata da mio marito, che era il mio professore all’università e che non voleva che studiassi, né che lavorassi, mi sono ritrovata con due figlie da mantenere e gli studi in legge da completare. In quel periodo vendevo vestiti per Edy Campagnoli e per cinque anni non sono andata dal parrucchiere e non mi sono comprata un vestito perché non potevo permettermelo." 

E poi? 

"Ho completato l’università, dando tutti gli esami che mi mancavano in due anni, e ho cominciato a fare l’avvocato a 35 anni. È stato un percorso difficile, ma ho lavorato così tanto che non me ne sono praticamente accorta." 

Qual è stato il suo primo acquisto una volta raggiunta la stabilità economica? 

"Era la fine degli anni Ottanta, intorno a metà del 1989, e mi sono comprata un tailleur da riunione di quelli che si usavano allora e che per me era sinonimo di successo." 

Per lei quindi il successo va a braccetto con il denaro? 

"Direi più che altro che i soldi sono sinonimo di persecuzione da parte del fisco. Certo, come si diceva negli anni Settanta, è meglio piangere sul sedile posteriore di una Rolls Royce che su una 500." 

Con i primi risparmi cosa ha fatto? 

"Con i primi guadagni che ho messo da parte ho comprato una casina a ciascuna delle mie figlie: due bilocali in via Passione a Milano, che hanno ancora oggi e che per loro costituiscono un reddito." 

Non male. 

"Erano gli anni Novanta e si potevano ancora fare acquisti immobiliari a quotazioni sensate. Oggi quelle due case valgono almeno 10 volte quello che le avevo pagate. Anche la casa che mi sono comprata da grande a Milano, a 50 anni, vale sicuramente almeno il doppio rispetto a vent’anni fa." 

Quindi qualcosa è riuscita a risparmiare. 

"Di fatto tutto quello che ho risparmiato l’ho usato per comprare case. Gli affari che ho fatto sono la casa al mare, la mia e soprattutto quelle delle mie figlie." 

Sembra chiaro che il suo bene rifugio sia il mattone. 

"Mi sarebbe piaciuto che fossero i diamanti, ma in effetti è il mattone. Anche oggi continuerei a investire in case perché mi sembrano l’investimento meglio riuscito. La Borsa e la finanza, invece, mi sembrano giochini per uomini che non hanno altro da fare per cui non ci metterei molto del mio."

Altre passioni? 

"Ho una passione per le opere d’arte, che ho acquistato soprattutto tanti anni fa, quando ancora il sistema fiscale lo consentiva. Mi piacciono molto Mimmo Rotella ed Ercole Pignatelli, due artisti di cui sono collezionista grazie a quanto ho potuto comprare i passato. In realtà ho comprato un’opera di Pignatelli anche pochi giorni fa, ma l’ho fatto per beneficenza." 

Non è mai stata tentata di investire in Bitcoin o NFT? 

"Faccio delle lunghe discussioni con i miei nipoti, che sono fissati con i Bitcoin, ma a me sinceramente fanno orrore perché mi sembrano tutta una finzione. A me piacerebbe avere ancora solo il denaro contante, perché con le carte di credito non riesco nemmeno a rendermi conto di quanto spendo in una giornata." 

Che rapporto ha con i soldi? 

"Un rapporto molto estemporaneo. Di certo non intenso, lungo e passionale. Diciamo che li incasso e li spendo, li incasso e li spendo." 

Fa tanto shopping? 

"Andare per vetrine mi piace, ma non ho molto tempo per farlo. Se mi capita di andare a Milano o a Forte dei Marmi faccio volentieri un giro. Altrimenti mi diverto moltissimo a fare shopping online. Ho cominciato durante il lockdown e poi ho mantenuto l’abitudine, per cui compro parecchio. È molto divertente perché ti portano a casa qualsiasi cosa, anche se a volte capita qualche svarione." 

Cosa intende? 

C’è stato un episodio che non posso raccontarle, se non in confidenza. 

Mi dica. 

Lei però poi non lo scriva. 

Intanto mi racconti. 

Una volta ho comprato una specie di panciera di quelle che promettono di far dimagrire, ma evidentemente ho sbagliato qualcosa nel prendere le misure o la tabella di conversione delle taglie era sballata. Sta di fatto che quando è arrivata a casa era il doppio di me. Alla fine, però, restituirla era così complicato che me la sono tenuta. 

È molto divertente: me lo faccia scrivere. 

Se proprio la diverte così tanto, lo faccia. Però se deve scriverne, lo faccia con levità. Almeno quello.

L’avvocato barese Piero Lorusso sotto processo a Roma per frode e stalking. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'8 Maggio 2023

In un procedimento per stalking contro una ex compagna di Lorusso, la giudice Paola De Nicola così descrive l’avvocato: "Come risulta essere nello stile Lorusso, questi non ritiene di accettare le decisioni giudiziarie e continua a persistere e insistere con altre denunce, tenendo inutilmente impegnato il tribunale civile e penale, visti gli esiti riportati, con condotte che non possono che definirsi “obiettivamente persecutorie” sotto il profilo giudiziario"

L’ultima vicenda giudiziaria a carico dell’ avv. Piero Lorusso  nato a Bari 56 anni fa, raccontata ieri dal CORRIERE DELLA SERA nella sua edizione online è quella rivela l’imbarazzante figura di un avvocato che intraprende centinaia di cause contro i suoi ex clienti e nello stesso tempo è indagato o imputato a sua volta in decine di casi collegati. 

E’ stata notificata qualche giorno fa la fissazione del processo, con citazione diretta a giudizio, nei confronti di Lorusso e della sua (ex) moglie Laura Totino che come scrive il CORRIERE DELLA SERA, “come si legge negli atti della Procura di Roma: “perché Lorusso dopo aver sporto numerose querele pretestuose nei confronti di M. T. (un suo ex cliente, ndr) ed avviate altrettante azioni legali tutte concluse con sentenze di assoluzione, venendo condannato in via definitiva per il reato di calunnia ed al pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva (nel 2013 e poi altre sette volte, ndr) di 80.835 euro, trovandosi sottoposto a pignoramento di un appartamento in largo Messico, si sottraeva con l’ausilio della Totino all’adempimento degli obblighi giudiziari, con un atto simulato e fraudolento ai danni dei suoi creditori, trasferendo lo stesso appartamento alla figlia minore per mezzo dell’accordo di separazione personale dalla Totino, già sua procuratrice nelle medesime cause perse“. 

A scandagliare le passate inchieste sull’avvocato  questo non è il primo escamotage di Lorusso di sfuggire alle sentenze e sequestri giudiziari. Lo stesso appartamento di largo Messico, con un altro in via del Governo Vecchio e un terzo a Bari oltre a una palazzina a Ostuni, sono al centro di una inchiesta del pm Alessandro Di Taranto in quanto l’ avvocato Lorusso, per sfuggire a 1,8 milioni di debito con l’Erario, ne ha attribuito le proprietà alle sue figlie in ragione dei 2.200 euro di mantenimento mensili, autodenunciando il proprio ritardo nei pagamenti. 

Secondo il pm Di Taranto, questa operazione sarebbe un atto “fraudolento, in considerazione della sproporzione del vantaggio attribuito alle figlie e alla circostanza che gli stessi immobili rimanevano nella disponibilità dell’imputato“. Lorusso ha ceduto invece, sempre allo scopo di sottrarli ai debitori, i crediti di alcune cause vinte ad un’altra parente, sua madre Maria Maglio , ed un altro magistrato, il pm Francesco Paolo Marinaro della procura di Roma indaga sull’ipotesi di reato di “riciclaggio” e “ricettazione“.

Per anni Lorusso si è accreditato come esperto in anatocismo, anche presso società del settore, sostenendo cioè di poter aiutare i suoi (numerosissimi) clienti contro le rate troppo alte dei mutui. Ha però perso tutte o quasi queste cause, condotte “con imperizia“, a giudizio dei Tribunali civili che le hanno valutate. L’avvocato ha poi provato a rifarsi sui suoi clienti. Chiedendo parcelle da decine di migliaia di euro, accollando loro spese non verificate, insistendo per pagamenti arretrati già effettuati. Infine denunciando loro e chi li difende. Sono decine e decine di cause intentate e molte sentenze a lui sfavorevoli parlano di “liti temerarie”.

In un procedimento per stalking contro una ex compagna di Lorusso, la giudice Paola De Nicola così descrive l’avvocato: “Come risulta essere nello stile Lorusso, questi non ritiene di accettare le decisioni giudiziarie e continua a persistere e insistere con altre denunce, tenendo inutilmente impegnato il tribunale civile e penale, visti gli esiti riportati, con condotte che non possono che definirsi “obiettivamente persecutorie” sotto il profilo giudiziario“. Lo stesso giudice, come anche l’avvocato di alcuni dei suoi ex clienti, Nicola Nanni, ha invano segnalato il suo caso al consiglio di disciplina dell’Ordine forense.  

Resta da farsi a questo punto una semplice domanda: ma che fine hanno fatto tutti gli esposti contro Lorusso al Consiglio di Disciplina dell’ Ordine di Bari? Redazione CdG 1947

Denunciava i suoi clienti, l'avvocato Piero Lorusso a processo per frode e stalking. Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 7 Maggio 2023

Il legale si accreditava come esperto in anatocismo, ma dopo aver perso le cause chiedeva spese esorbitanti. 

Separati formalmente nella vita ma presunti complici nell’impedire un pignoramento immobiliare. Se davvero il diavolo è nei dettagli, l’ultima vicenda giudiziaria a carico di Piero Lorusso è quella che più di tante rivela la complessa figura di un avvocato che porta avanti centinaia di cause contro i suoi ex clienti e a sua volta è indagato o imputato in decine di casi collegati.

Già condannato per calunnia

E di qualche giorno fa la fissazione del processo, con citazione diretta a giudizio, a carico suo e della (ex) moglie Laura Totino «perché Lorusso — si legge negli atti della Procura — dopo aver sporto numerose querele pretestuose nei confronti di M. T. (un ex cliente, ndr) ed avviate altrettante azioni legali tutte concluse con sentenze di assoluzione, venendo condannato in via definitiva per il reato di calunnia ed al pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva (nel 2013 e poi altre sette volte, ndr) di 80.835 euro, trovandosi sottoposto a pignoramento di un appartamento in largo Messico, si sottraeva con l’ausilio della Totino all’adempimento degli obblighi giudiziari, con un atto simulato e fraudolento ai danni dei suoi creditori, trasferendo lo stesso appartamento alla figlia minore per mezzo dell’accordo di separazione personale dalla Totino, già sua procuratrice nelle medesime cause perse».

A rileggere le passate inchieste sull’avvocato nato a Bari 56 anni fa, non il primo escamotage di questo genere. Lo stesso appartamento di largo Messico, con un altro in via del Governo Vecchio e un terzo a Bari oltre a una palazzina a Ostuni, sono al centro di una inchiesta del pm Alessandro Di Taranto perché Lorusso, per sfuggire a 1,8 milioni di debito con l’erario, ne ha attribuito le proprietà alle figlie in ragione dei 2.200 euro di mantenimento mensili, autodenunciando il proprio ritardo nei pagamenti. Un atto «fraudolento, secondo il pm, in considerazione della sproporzione del vantaggio attribuito alle figlie e alla circostanza che gli stessi immobili rimanevano nella disponibilità dell’imputato». A un’altra parente, la mamma Maria Maglio, e sempre per sottrarli ai debitori, Lorusso ha ceduto invece i crediti di alcune cause vinte e un altro pm (Marinaro) indaga sull’ipotesi di riciclaggio e ricettazione.

«Per le cause perse si rifaceva sui clienti»

Per anni Lorusso, anche presso società del settore, si è accreditato come esperto in anatocismo, sostenendo cioè di poter aiutare i suoi (numerosissimi) clienti contro le rate troppo alte dei mutui. Ha però perso tutte o quasi queste cause, condotte «con imperizia», a giudizio dei Tribunali civili che le hanno valutate. L’avvocato ha poi provato a rifarsi sui suoi clienti. Chiedendo parcelle da decine di migliaia di euro, accollando loro spese non verificate, insistendo per pagamenti arretrati già effettuati. Infine denunciando loro e chi li difende. Sono decine e decine di cause intentate e molte sentenze a lui sfavorevoli parlano di «liti temerarie». In un procedimento per stalking contro una sua ex compagna, il giudice De Nicola così descrive l’avvocato: «Come risulta essere nello stile Lorusso, questi non ritiene di accettare le decisioni giudiziarie e continua a persistere e insistere con altre denunce, tenendo inutilmente impegnato il tribunale civile e penale, visti gli esiti riportati, con condotte che non possono che definirsi “obiettivamente persecutorie” sotto il profilo giudiziario». Lo stesso giudice, come anche l’avvocato di alcuni dei suoi ex clienti, Nicola Nanni, ha invano segnalato il suo caso al consiglio di disciplina dell’Ordine forense.  

Donne, giovani e meridionali: ecco l’avvocatura dei redditi dimezzati. I dati del rapporto di Cassa Forense e Censis sulla professione: la maggior parte dei guadagni per le avvocate e gli under 50 non basta ad attenuare i gap. Al Sud introiti inferiori al 50% rispetto al Nord. Massimiliano Di Pace Il Dubbio il 14 aprile 2023

Un fatturato complessivo da 14 miliardi di euro nel 2021, dal quale, dedotti i costi, sono stati ottenuti 9,5 miliardi di redditi, che, suddivisi per i 240mila avvocati, hanno dato luogo ad un reddito medio di poco superiore ai 42mila euro annui, e a un fatturato medio annuo che sfiora i 63mila euro.

Sono questi i dati più importanti che vengono evidenziati nel capitolo sul reddito degli iscritti a Cassa forense, contenuto nel Rapporto 2023 sull’Avvocatura, realizzato insieme con il Censis. L’osservazione delle tabelle 11, 14 e 20 del Rapporto rafforza poi la consapevolezza che nell’avvocatura permane una evidente discriminazione reddituale fra i suoi componenti, che dipende da tre fattori: il genere, l’età, la localizzazione territoriale.

Il primo gap è quello di genere, come denuncia chiaramente la tabella 20, dove si segnala che nel 2021 il reddito medio delle avvocate, pari a 26.686 euro, è stato meno della metà di quello dei loro colleghi uomini, che hanno goduto di un reddito medio pari a 56.768 euro.

Insomma, in media tra uomini e donne che esercitano la professione forense vi è stata nel 2021 una differenza reddituale annua di circa 30mila euro (30.082), che diventa ancora più amplia, se si considera il volume d’affari medio, che nel caso degli uomini è stato di 86.695 euro, quasi 2,5 volte superiore a quello delle donne, che si sono fermate ad un fatturato di 36.900 euro.

E l’aumento del reddito nel 2021 rispetto all’anno precedente, percentualmente maggiore per le donne (+13,2%) rispetto a quello degli uomini (+11,5%) non può certo rappresentare una consolazione.

Il secondo motivo di discriminazione reddituale è l’età, come salta subito agli occhi scorrendo i dati della tabella 11.

Qui il gap è ancora più clamoroso, con un rapporto che si attesta sull’1 a 5, se si confronta il reddito della fascia di età più giovane degli avvocati (quella sotto ai 30 anni) con quello della classe di età compresa tra 60 e 64 anni. Infatti, i primi hanno potuto contare nel 2021 su un reddito di poco superiore ai 1.000 euro al mese, ossia 13.824 euro l’anno, mentre i secondi hanno potuto guadagnare oltre 5mila euro mensili, arrivando il reddito annuo in media a 62.719 euro.

Va detto che anche in altri settori lavorativi, come quello del lavoro subordinato, sia pubblico, sia privato, si registrano notevoli differenze tra lo stipendio di un giovane impiegato rispetto a quello di un manager o di un direttore di un ente pubblico, ma quello che colpisce è che, mentre nelle aziende e nelle pubbliche amministrazioni le posizioni apicali sono poche, e quindi si tratta di casi isolati, che non influenzano sensibilmente i valori medi dei redditi delle varie classi di età, nel caso dell’avvocatura il differenziale riguarda l’intera comunità di professionisti con un specifico intervallo di età. Inoltre, la tabella 11 segnala che solo nella fascia di 35-39 anni il reddito medio diventa superiore ai 2mila euro al mese, e che bisogna aspettare i 45 anni per superare la soglia dei 3mila euro mensili, e i 50 per oltrepassare la quota di 4mila euro al mese. E, analogamente a quanto osservato per il gap di genere, il fatto che nel 2021 le fasce di età fino ai 49 anni hanno visto crescere il reddito con una percentuale a due cifre, a differenza dei professionisti più anziani, non è certo sufficiente per pensare che questo gap generazionale sia in sensibile riduzione.

Il terzo elemento che influisce sulla capacità di generare reddito è, come detto, la localizzazione geografica del professionista forense. Come evidenzia la tabella 14, un avvocato che opera nel Nord Italia mediamente percepisce un reddito più che doppio rispetto a un collega che si trova nel Meridione o nelle Isole (Sicilia e Sardegna). Infatti, i primi riescono ad ottenere dalla professione forense in media 60.138 euro (dato del 2021), mentre i secondi 25.229 euro. In posizione mediana si trovano gli avvocati che operano nelle regioni centrali, il cui reddito si attesta a 47.317 euro (sempre nel 2021).

Ma al di là delle differenze di reddito dovute al genere, all’età e alla collocazione geografica, quanti sono gli avvocati che guadagnano poco e tanto? Premesso che è difficile definire quando un reddito sia basso, tanto più in contesto di alta inflazione quale quello attuale, si potrebbe comunque tentare di usare come riferimento lo stipendio medio di un quadro, che nelle grandi aziende italiane si aggira intorno ai 50.000 euro l’anno. Ebbene, se questo benchmark fosse corretto, allora si potrebbe affermare che solo 40mila avvocati su 240mila, ossia meno del 17% dell’intera comunità professionale, potrebbero essere considerati remunerativamente soddisfatti.

Infatti, secondo i dati della tabella 13 del Rapporto risulta che 22.849 professionisti forensi hanno guadagnato nel 2021 un reddito compreso tra 50.300 e 100.700 euro, e 16.869 avvocati hanno ottenuto un reddito superiore ai 100.700 euro. Gli avvocati che hanno guadagnato nel 2021 un reddito compreso tra lo stipendio minimo di un impiegato appena assunto e un quadro, ossia tra 19.267 e 50.300 euro, sono stati 74.057, mentre quelli che hanno guadagnato meno di 19.267 euro sono risultati essere addirittura 95.182, ovvero circa il 40% dell’intera categoria forense.

Insomma, c’è molto da fare per introdurre equità reddituale nel composito pianeta dell’avvocatura.

Dalla difesa al banco degli imputati: l’avvocato robot già finisce nei guai. Uno studio legale americano lancia una class action contro la start-up DoNotPay, famosa per il suo chatbot che utilizza l’intelligenza artificiale per aiutare chi non può permettersi di pagare un avvocato: “Ha esercitato la professione senza una laurea”.Tiziana Roselli su Il Dubbio il 15 marzo 2023

Ebbene sì, sembra proprio che l’avvocato robot, quel genio dell’intelligenza artificiale, abbia già avuto il piacere di sperimentare il lato oscuro della giustizia. Nonostante fosse stato progettato per aiutare gli esseri umani nella loro battaglia legale, ora si trova al centro di una class action presentata dallo studio legale Edelson - con sede legale a Chicago - per aver esercitato la professione legale senza una laurea. La denuncia sostiene che il chatbot non ha le conoscenze o la supervisione necessarie per offrire assistenza legale ai suoi clienti, mettendo così in dubbio la validità dei servizi offerti da DoNotPay.

La prima battuta d’arresto dell’esperimento di Joshua Browder, CEO di DoNotPay, si è registrata verso la fine di gennaio ad opera dei procuratori di Stato che hanno minacciato di reclusione l’uomo dietro la società che ha creato il chatbot. Il rischio di passare sei mesi in prigione ha fatto desistere Browder dal portare in aula il suo avvocato robot. Sicuramente nell’intraprendere un progetto di questa portata, Browder aveva già messo in conto che ci sarebbero state forti reazioni avverse, ma qualche sorpresa si è palesata.

Da dove è partita la class action

La causa è stata intentata sotto il nome di Jonathan Faridian. Questo avvocato spiega di aver utilizzato DoNotPay per redigere diversi documenti legali: un reclamo per discriminazione sul lavoro, un deposito in tribunale per controversie di modesta entità e per redigere vari documenti legali. Il risultato, secondo Faridian, non è stato soddisfacente. Al contrario, lo descrive come “scadente”.

Tuttavia, il fondatore di DoNotPay non si è lasciato intimidire dalla battaglia legale ed ha replicato con un duro appello contro l’avvocato Jay Edelson, definendolo simbolo di tutto ciò che è sbagliato nella legge e accusandolo di fare soldi a spese dei consumatori. Nonostante la sfida rappresentata da Edelson, Browder assicura di non arrendersi e di continuare a lottare per i suoi clienti.

Tutti contro DoNotPay

Oltre alla denuncia da parte dello studio legale Edelson, anche i pubblici ministeri dell’Ordine degli avvocati di Stato hanno agito contro DoNotPay per “pratica non autorizzata della legge”. Questo è stato contestato in quanto il servizio intende portare l’assistenza legale ai consumatori che altrimenti non avrebbero i mezzi per accedere a questo tipo di servizio, ma ci sono regole e leggi che disciplinano la pratica legale che devono essere rispettate. Portare un avvocato robot in una stanza fisica potrebbe essere considerato una pratica non autorizzata della legge in alcuni stati e potrebbe comportare sanzioni che vanno fino a sei mesi di carcere.

C’è poi un altro aspetto da considerare: nessun giudice sarebbe disposto ad aspettare pazientemente mentre il litigante attende le istruzioni dell’avvocato robot.

Domani si elegge l'ufficio di presidenza, le parole dello storico civilista. Avvocati, l’allarme di Massimo Di Lauro: "Non vorrei che al tavolo del Consiglio ci fossero degli affamati". Ciro Cuozzo su il Riformista il 23 Febbraio 2023

"Non vorrei che attorno a questo tavolo ci fossero degli affamati, questo da vecchio avvocato non mi piacerebbe". E’ quanto auspica Massimo Di Lauro, civilista esperto in materia fallimentare e societaria, alla vigilia del primo Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli che venerdì 24 febbraio è chiamato a eleggere l’ufficio di presidenza dopo le elezioni delle scorse settimane dove è stata registrata una percentuale di astensione preoccupante.

Di questo e di tanti altri aspetti dell’avvocatura partenopea il Riformista ne ha parlato con uno dei legali più esperti del foro di Napoli. Di Lauro ha fatto più volte parte del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, svolgendo negli anni ’80 anche il ruolo di segretario durante uno dei tanti mandati di Alfredo de Marsico. "Probabilmente uno dei più grandi avvocati del Novecento" precisa Di Lauro.

Avvocato innanzitutto che idea si è fatto dopo le recenti elezioni del COA Napoli?

Il dato più sconcertante, e sul quale occorre avviare subito una profonda riflessione, è relativo all’astensione. Un collega su due non è andato a votare e questo. Non si è mai verificato un tasso di astensionismo così alto. Come numero di iscritti siamo secondi solo all’Ordine di Roma anche se negli ultimi anni in tanti decidono di cancellarsi dall’ordine.

Come mai?

In questo momento l’avvocatura attraversa una crisi economica devastante. Pensi che 500 avvocati si sono cancellati dall’ordine di Napoli, andando a iscriversi altrove. Altri, invece, appena raggiunta l’età pensionabile, hanno preferito cancellarsi dall’Albo perché la committenza è scarsa e le condizioni economiche del Mezzogiorno sono assolutamente precarie rispetto a quelle del Nord.

L’astensionismo quindi è dovuto anche a questo?

La domanda che ci dobbiamo porre è un’altra: un avvocato su due non è andato a votare per mancanza di fiducia nell’istituzione forense? Se questo fosse vero sarebbe molto grave anche perché a mio avviso l’istituzione forense deve essere credibile e questa credibilità si ottiene facendo soprattutto due cose: tutelare la categoria ma anche sanzionarla quando va fuori binario, cosa che non sempre è avvenuta nel recente passato.

Richiamare tutti dunque ai valori etici della professione…

Oggi siamo di fronte a una vera e propria sclerotizzazione dell’etica professionale. A mio avviso un professionista non deve andare alla caccia affannosa di incarichi perché così perde la propria dignità: se l’incarico lo ha bene ma non deve farsi amici gli amministratori per ottenere questo. Il COA deve sanzionare soprattutto le violazioni deontologiche che sono plurime. Gli avvocati non devono pensare alla professione come uno strumento per arricchirsi, perché così tradiscono il mandato, devono lavorare liberi, solo così possono sbarcare il lunario.

Altri obiettivi che dovrebbe perseguire il nuovo Consiglio?

Un altro compito che attende l’Ordine è il richiamo in servizio della cultura forense perché, dispiace doverlo dire, bisogna tornare a formare seriamente i giovani avvocati con corsi seguiti sul serio e non come vanno in scena oggi, dove spesso si arriva, ci si allontana per poi ritornare alla fine per firmare. I corsi di formazioni servono per arricchire la professionalità e vanno seguiti bene, va stroncato dunque questo abuso. E poi c’è dell’altro…

Prego…

Va disciplinata questa lagna corporativa degli avvocati contro il bavaglio del diritto alla difesa. E’ un diritto che c’è ed è lo stesso avvocato che deve farsi valere. Se sta parlando e il giudice lo interrompe bisogna reagire e pretendere la parola perché è un diritto sancito dalla Costituzione. Perché una avvocatura forte è la garanzia di una democrazia giusta che tutela i più deboli e garantisce la parità di trattamento a tutti i cittadini.

Cosa si aspetta dal nuovo ufficio di presidenza?

Che si all’altezza di questo compito anche perché si ripartirà dalla vicenda delle quote non pagate. Sono in corso indagini che accerteranno cosa è realmente accaduto ma le quote non sono state pagate perché, così come hanno spiegato i consiglieri uscenti, molti avvocati erano in difficoltà e hanno sostenuto prima altre spese: dai dipendenti a luce, gas e fitto. Purtroppo la situazione attuale è critica e la crisi non guarda in faccia a nessuno.

Prevarrà il buonsenso e il rispetto dell’Istituzione o immagina beghe interne?

Mi auguro che non stiamo preparando l’ennesimo banchetto per accaparrarsi le cariche più ambite, lo vorrei escludere perché se così fosse sarei molto deluso. Spero che trovino unità di intenti per esprimere un ufficio di presidenza all’altezza della situazione e che pensi a disegnare nuove prospettive di lavoro, a tenere alto il livello del dibattito e ad avere uno scatto di dignità e di orgoglio, altrimenti non si volta pagina.

Teme banchetti e poltrone?

Non vorrei che attorno a questo tavolo ci fossero degli affamati, questo da vecchio avvocato non mi piacerebbe. Ci vuole un ufficio di presidenza non un presidente. Ci sono tante cose da fare ma, ripeto, ci vuole uno scatto di dignità altrimenti l’avvocatura napoletana ne uscirà lacerata sia moralmente che umanamente.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 12 gennaio 2023.

Al Parlamento europeo a parlare dei diritti dei macrolesi in incidenti stradali. A Roma in un sit-in di protesta con molti invalidi sotto l'Autorità di vigilanza sulle assicurazioni. In tv e sui giornali come esperto del settore. E del resto Raffaele Gerbi, 56 anni, romano, fondatore di uno studio di consulenza e mediazione, va comprensibilmente fiero di poter vantare «le 5 posizioni di maggior valore mai liquidate in Europa dalle compagnie assicurative ai gravi invalidi di incidenti stradali per la necessità di essere assistiti per tutta la vita».

 Ma i giudici di Milano ordinano di sequestrargli in via preventiva fino a 40 milioni di euro (30 a lui, e il resto a 12 coindagati e società a lui riconducibili) perché l'accusano d'aver truffato proprio quel genere di vittime vulnerabili in almeno 20 maxi transazioni con le assicurazioni negli ultimi tre anni, facendosi retrocedere sino al 70% dei 68,5 milioni di danni liquidati dalle compagnie ai suoi clienti.

Una «truffa» - se è corretta la qualificazione del gip Cristian Mariani sul lavoro della Gdf e del pm Carlo Scalas con l'aggiunto Laura Pedio - ancor più insidiosa perché paradossalmente alla luce del sole, attraverso l'asimmetria informativa nei «patti di quota lite». Sono accordi con i quali un legale o un consulente propone al cliente un obiettivo di risarcimento rispetto al caso concreto (ad esempio 500.000 euro) sotto il quale si assume tutti gli oneri e spese, in cambio del poter invece incamerare tutta o gran parte della somma eventualmente ottenuta in più nella transazione. Il punto, però, per gli inquirenti che valorizzano intercettazioni e testimonianze di 8 famiglie di invalidi, è che il cosiddetto «gruppo Gerbi», nel momento in cui ad esempio prospettava a un cliente mezzo milione di realistico risarcimento, gli taceva che (sulla base dei parametri e delle prassi transattive con le compagnie) il realistico risarcimento sarebbe potuto essere (e in effetti finiva poi davvero per essere) di 4 o 5 milioni.

In questo che la Cassazione chiama «silenzio malizioso» (e che celava anche il fatto che Gerbi già ottenesse correttamente dalle compagnie il pagamento dei connessi suoi onorari professionali pari in genere al 10%) risiederebbe la truffaldina induzione in errore di così vulnerabili vittime di incidenti. Le quali, sfruttate nella «condizione di minorata difesa per le lesioni psicofisiche gravissime» e per «l'essere sprovviste di conoscenze giuridiche», avrebbero quindi riportato perdite patrimoniali «di straordinaria gravità per le loro vite bisognose di interventi chirurgici e assistenza perpetua»: perdite pari alla «macroscopica differenza tra quanto in concreto percepito dalle vittime a titolo di risarcimento del danno e quanto invece sarebbe loro spettato senza quegli svantaggiosi patti di quota lite», fatti loro sottoscrivere al buio da quella che gli inquirenti qualificano «associazione a delinquere».

 Coordinata per il gip da Gerbi, sotto il quale per la GdF c'erano procacciatori di clienti in Lazio e Campania, curatori delle pratiche, e due bancari a gestire i conti fatti aprire alle vittime in Fideuram e Bper (dove sono in corso un'indagine interna di Intesa e un'ispezione di Bankitalia).

In questa inchiesta la Procura (ieri in conferenza stampa per la firma con il presidente del Coni Malagò di un protocollo sui reati dei tesserati sportivi) non ha invece ravvisato l'«interesse pubblico» normativamente necessario per comunicare il sequestro, operato addirittura a metà dicembre e già confermato dal Tribunale del Riesame. Qui i difensori (tra cui Astolfo D'Amato, Mattia Di Mattia, Vinicio Nardo, Daniele Ripamonti, Gianluca Tognozzi) per contestare l'accusa di truffa hanno prospettato l'assenza di trucchi nei patti di quota lite proposti ai clienti, patti a loro avviso anzi assai migliorativi dei target ventilati ai clienti da precedenti avvocati; rimarcano che i bonifici di retrocessione a Gerbi di parte dei risarcimenti fossero firmati dai clienti; e ritengono l'imputazione sovrapponibile a quella per la quale il 15 giugno 2022 un altro gip, Carlo Ottone de Marchi, aveva negato misure cautelari. Rigetto superato, per il gip Mariani, dalle perizie medico-legali svolte nel frattempo, le quali escludono frodi con le compagnie e attestano effettività delle lesioni e congruità dei risarcimenti trattati da Gerbi.

Dagospia il 13 Gennaio 2023.RETTIFICA! L’AVVOCATO DEGLI INVALIDI RAFFAELE GERBI, SOTTO INCHIESTA PER TRUFFA, SCRIVE A DAGOSPIA  

Massimo rispetto per l’attività giudiziaria in corso.  

Vorrei sottolineare come tutte le somme erogate dalle compagnie assicurative ai miei assistiti fossero congrue rispetto ai danni da questi effettivamente patiti, così come riscontrato dagli stessi consulenti nominati della procura di Milano.  

Non deve essere sottaciuto che i precedenti professionisti avevano previsto importi di risarcimento del danno in favore degli infortunati inferiori di circa 10 volte rispetto a quanto da me ottenuto.

In relazione ai rapporti tra lo studio ed i danneggiati questi sono stati sempre cristallini e puntualmente contrattualizzati. Tutti i miei assistiti erano consapevoli degli importi corrisposti ai professionisti che li hanno patrocinati. La sottoscrizione dei patti di quota lite è ovviamente precedente rispetto alla valutazione medico legale del danno, avvenuto l’accertamento della entità del danno gli stessi hanno sempre avuto contezza degli importi liquidati, peraltro accreditati sui loro conti correnti.

 È talmente evidente la mia estraneità ai fatti contestati che verrà certamente dimostrata dai miei avvocati.

Da Verdi a Joyce tutti i precedenti. Notaio vive da 7 anni in albergo, la scelta di Sergio Cappelli: “Taglio i costi e sono coccolato”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 12 Gennaio 2023

Non è certo il primo a decidere di vivere in una stanza d’albergo, certo è che la sua è una decisione quantomeno singolare. Sergio Cappelli, notaio napoletano preferisce una stanza in albergo a 4 stelle nel centro storico di Napoli rispetto al suo grande appartamento che ha lasciato a Chiaia. Noto anche come Mr.Kind per le attività benefiche che svolge, da 7 anni vive al Majestic, pochi fronzoli e lo spazio di una stanza. “Sono accudito e coccolato, ho un ottimo rapporto con tutto il personale, quando torno trovo il portiere di notte per scambiare quattro chiacchiere… So che potrei avere gli stessi servizi in una casa mia, ma qui mi sento un uomo libero”, ha raccontato intervistato dal Corriere.

Quando amici e conoscenti mi spingono a cercare un’altra sistemazione, rispondo sempre di no. Al Majestic mi sveglio contento”, dice. Si racconta che il notaio fino a 7 anni prima vivesse in una grande casa di rappresentanza a Chiaia dove ospitava anche una collezione di arte contemporanea e dove dava memorabili feste. “In quella casa sono stato felice, ma nella vita esistono stagioni diverse, ora qualcosa è cambiato, sette anni fa cercavo una situazione più rassicurante, una tana. Pensavo in realtà che sarebbe stata una scelta momentanea, invece mi sono trovato così bene che non ho più cambiato”, ha raccontato.

Nella sua famiglia c’è anche un altro precedente, uno zio che negli anni ’70 decise di vivere all’albergo Paradiso. E lo stesso notaio sgrana i nomi dei personaggi che hanno fatto la storia che pure decisero di vivere in albergo. Giuseppe Verdi ad esempio che ha vissuto al Grand Hotel et de Milan per 20 anni. “Addirittura è morto lì e si dice che quando era ammalato i milanesi ricoprirono le strade di fieno per attutire il rumore degli zoccoli dei cavalli e non disturbare il maestro”, racconta Cappelli. E ancora James Joyce che visse a lungo in albergo a Trieste, o Proust a Parigi.

Una scelta stravagante e non da tutti: “Ma è anche vero che qui non pago bollette, non devo occuparmi di manutenzione e riparazioni, insomma taglio certi costi”, ha spiegato il notaio a cui piace la dimensione raccolta. Per vivere ha scelto il Majestic per uno motivo preciso: “C’è un personale efficientissimo, a partire dal signor Giuseppe. Poi sono in pieno centro della città. Infine, l’edificio è stato progettato dall’architetto Gino Aveta proprio nel 1957, anno della mia nascita. Era scritto nelle stelle”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.