Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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 L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2023

LA MAFIOSITA’

QUARTA PARTE


 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
 

LA MAFIOSITA’

PRIMA PARTE


 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Ascesa di Matteo Messina Denaro.

L’Arresto di Matteo Messina Denaro.

La Morte di Matteo Messina Denaro.


 

SECONDA PARTE


 

SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Lotta alla mafia: lotta comunista.

L’inganno.

Le Commissioni antimafia e gli Antimafiosi.

I gialli di Mafia: Gelsomina Verde.

I gialli di Mafia: Matteo Toffanin.

I gialli di Mafia: Attilio Manca.

Gli Affari delle Mafie.

La Mafia Siciliana.

La Mafia Pugliese.

La Mafia Calabrese.

La Mafia Campana.

La Mafia Romana.

La Mafia Sarda.

La mafia Abruzzese.

La Mafia Emilana-Romagnola.

La Mafia Veneta.

La Mafia Piemontese.

La Mafia Trentina.

La Mafia Cinese.

La Mafia Indiana.

La Mafia Nigeriana.

La Mafia Colombiana.

La Mafia Messicana.

La Mafia Canadese.


 

TERZA PARTE


 

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Stragi di mafia del 1993.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: l’Arresto di Riina.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Depistaggio.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Depistaggio. La Trattativa.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Depistaggio. La Trattativa-bis: “’Ndrangheta stragista”. 

Gli Infiltrati.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Delitto di Piersanti Mattarella.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Delitto di Pio La Torre.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Strage di Alcamo.


 

QUARTA PARTE


 

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Concorso esterno: reato politico fuori legge.

La Gogna Territoriale.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Ipocrisia e la Speculazione.

Il Caporalato dei Giudici Onorari.

Il Caporalato dei fonici, stenotipisti e trascrittori.

Il Caporalato della Vigilanza privata e Servizi fiduciari - addetti alle portinerie.

Il Caporalato dei Fotovoltaici.

Il Caporalato dei Cantieri Navali.

Il Caporalato in Agricoltura.

Il Caporalato nella filiera della carne.

Il Caporalato della Cultura.

Il Caporalato delle consegne.

Il Caporalato degli assistenti di terra negli aeroporti.

Il Caporalato dei buonisti.


 

QUINTA PARTE


 

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Usura.

Dov’è il trucco.

I Gestori della crisi d’impresa.

SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le Caste.

Pentiti. I Collaboratori di Giustizia.

Il Business delle Misure di Prevenzione.

I Comuni sciolti ed i Commissari antimafia.

Le Associazioni.

Il Business del Proibizionismo.

I Burocrati.

I lobbisti.

Le fondazioni bancarie.

I Sindacati.

La Lobby Nera.

I Tassisti.

I Balneari.

I Farmacisti.

Gli Avvocati.

I Notai.


 

SESTA PARTE


 

LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La P2: Loggia Propaganda 2.

La Loggia Ungheria.

Le Logge Occulte.

CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Censura.

Ladri di Case.


 

LA MAFIOSITA’

QUARTA PARTE


 

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Dagospia il 18 luglio 2023. Riceviamo e pubblichiamo:

Caro Dago,

credo che siamo l’unica democrazia, e forse l’unico paese al mondo, a perseguire i cittadini per un reato che non c’è nel codice penale. Sembra una commedia di Eduardo ma è proprio così. 

Mi riferisco al cosiddetto “concorso esterno di associazione mafiosa” reato figlio di una interpretazione giurisprudenziale di due articoli del codice penale la cui fattispecie non è descritta da nessuna norma di legge... 

E senza fattispecie definita tutto diventa nebuloso. Un autorevole giudice americano, nel caso specifico, ha ricordato al paese erede di Roma che “nullum crimen sine poena, nulla poena sine lege” nessun reato senza pena, nessuna pena senza legge. 

Dopo il 1992, invece, tutto è cambiato al punto tale che qualche anno dopo il parlamento approvò un insieme di norme costituzionali per far rientrare i processi nell’alveo della normalità giuridica. 

Non a caso quelle norme furono definite “il giusto processo”. Ma i legislatori del tempo si interessarono solo alle norme procedurali e non si accorsero che negli anni novanta alcune procure si erano riappropriate anche di una funzione legislativa inventandosi così il reato di concorso esterno di associazione mafiosa nel silenzio complice di tanti. 

Per questo reato assente nel codice penale furono rinviati a giudizio Calogero Mannino e Giulio Andreotti e senza quella invenzione giurisprudenziale non sarebbero stati neanche processati.

Inutilmente Giovanni Canzio primo presidente della suprema corte di cassazione tentò di indicare il perimetro di questo presunto reato spiegando che questa interpretazione giurisprudenziale poteva esistere sempre quando ci fosse un comportamento utile per compiere un reato. 

Ma al di là delle tecnicalità il dato è tutto drammaticamente politico. Cosa mai dovremmo dire dei parlamenti rimasti in quasi 30 anni ignavi rispetto alla usurpazione da parte delle procure della loro funzione legislativa?

E con il capo coperto di cenere per la irriverenza che stiamo per dire, cosa dovremmo chiedere anche ai presidenti della Repubblica succedutisi in questi tre decenni se non il perché del loro silenzio? La drammatica verità è che quel che diciamo è solo uno dei tanti aspetti del degrado culturale, economico e sociale in cui versa il paese e che alimenta quel fiume carsico di una rabbia che sta pericolosamente crescendo. 

Paolo Cirino Pomicino

«Così il caso Lombardo allontana le ambiguità sul concorso esterno». Il penalista Vincenzo Maiello, ordinario di Diritto penale alla “Federico II” di Napoli e difensore dell’ex presidente della Regione Sicilia, si sofferma sulla sentenza della Cassazione che ha escluso il reato di concorso esterno e di corruzione elettorale con l’aggravante di aver favorito la mafia. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 6 settembre 2023

Con la giusta dose di tecnicismo, con la chiarezza dell’accademico e l’incisività del penalista Vincenzo Maiello, ordinario di Diritto penale alla “Federico II” di Napoli e difensore di Raffaele Lombardo, si sofferma sulla sentenza della Cassazione che ha assolto l’ex presidente della Regione Siciliana dalle accuse di concorso esterno e di corruzione elettorale con l’aggravante di aver favorito la mafia (si veda anche Il Dubbio del 30 agosto).

Professor Maiello, la Suprema Corte ha chiarito diversi punti. Ci può spiegare prima di tutto in cosa consiste il concorso esterno nello scambio elettorale politico-mafioso e quali sono le condizioni della sua rilevanza penale?

Ritengo necessario chiarire quel che spesso resta assorbito nelle pieghe di imputazioni fumose, e cioè che, come ogni reato, anche la tipologia di concorso esterno cui lei fa riferimento si incarna in un “fatto” umano accaduto in un tempo e in un luogo determinato e che, per questo, è suscettibile di prova nel processo. Essa consiste in un accordo elettorale tra un candidato e un sodalizio mafioso, per effetto del quale l’uno promette di favorire, una volta eletto, gli interessi dell’altro, in cambio dell’impegno di questi di procurargli voti. La promessa deve caratterizzarsi in termini di serietà e di concretezza. Di conseguenza, va escluso che possa darsi rilievo alle promesse generiche, riferite a indistinte e mere disponibilità, come, invece, ammette l’improvvida formulazione dell’odierno articolo 416- ter del Codice penale. Tutto questo però non è sufficiente per la configurabilità del reato.

Cosa occorre ancora?

Al patto deve seguire l’evento di rafforzamento dell’associazione. È il vero punto dolente della teoria e della pratica di questa ipotesi di concorso esterno, su cui si contrappongono i suoi differenti modelli ricostruttivi e le relative strategie di accertamento. Accade, infatti, che le Procure quasi mai si fanno carico di provare l’effetto di potenziamento generato dall’accordo e, purtroppo, non di rado, che il diritto delle Corti ratifichi questa impostazione.

Come si valuta, rispetto all’elemento della promessa, il potenziamento dell’associazione?

Andando a verificare se, in conseguenza dell’accordo, la consorteria abbia riallocato le proprie risorse e modificato, eventualmente, la struttura organizzativa, ricompattando una compagine in crisi, ovvero predisponendo nuove linee strategiche e una nuova mappa delle relazioni con le aree della contiguità fiancheggiatrice del mercato. Con parole diverse, è necessario accertare che all’interno del sodalizio il patto ha determinato un mutamento degli assetti, che, in base a massime di esperienza, possa configurarsi come un rafforzamento associativo. Com’è intuibile, siamo al cospetto di questioni complesse che scaturiscono dal fatto che il reato, costituendo deroga alla norma generale di libertà, esige un costume interpretativo che coltiva la dimensione controintuitiva del limite.

La Cassazione ha fatto chiarezza su questi temi?

La giurisprudenza di legittimità si è distinta per aver promosso, al livello alto della nomofilachia, letture garantistiche della fattispecie, che hanno trasformato l’incertezza e l’oscurità delle sue basi legali in asserti ermeneutici conformi ai principi di materialità e offensività. In queste occasioni, la Cassazione non ha avuto tentennamenti nell’affermare il primato del modello costituzionale di diritto penale anche sul terreno, scivoloso, della lotta all’agire mafioso. E tuttavia, non scarseggiano le decisioni che si lasciano guidare da una differente cultura politico- criminale, quella nata all’ombra di una concezione bellica dello ius criminale, che spiana la strada alla spiritualizzazione del reato e a forme di giudizio dove la sommarietà dell’accertamento incrocia la potestatività della decisione.

Sull’argomento sono intervenute due decisioni che hanno definito vicende giudiziarie assai note, quelle dell’ex governatore siciliano Raffaele Lombardo e dell’ex sottosegretario Nicola Cosentino. Possiamo parlare di una divaricazione interpretativa?

Direi proprio di sì. La prima sentenza riafferma con nettezza come gli elementi del reato siano, sul piano della condotta, il patto e, su quello dell’evento, il rafforzamento associativo. Di conseguenza, sancisce che l’eventuale adempimento, da parte del politico, delle promesse non incide sulla consumazione e, perciò, non prolunga nel tempo l’illecito. La seconda, invece, mette al centro della fattispecie la disponibilità del politico a venire incontro alle esigenze dell’associazione e afferma la natura eventualmente permanente del reato. Impiega, cioè, un concetto, quello della messa a disposizione, che la giurisprudenza valorizza rispetto all’intraneità e che, in rapporto, al concorso esterno, intorbida l’accertamento della responsabilità, rendendola confusa e incerta.

Dovrebbe intervenire il legislatore?

Una riforma che ridefinisca i contorni del sostegno associativo punibile è vivamente auspicabile per più di una ragione. La prima, e direi la più importante anche nella proiezione dei significati politico- culturali e ideologici, concerne il bisogno di riportare la fattispecie sui binari della legalità costituzionale. Vi è uno specifico bisogno della democrazia costituzionale di costruire l’incriminazione delle forme di collusione mafiosa come espressione di scelte del Parlamento. Non credo che sia più tollerabile questo vuoto di disciplina.

A quale rimedio può ricorrere il condannato contro una sentenza fondata sull’erronea applicazione della legge penale?

La possibilità che il giudicato di condanna sia viziato da errore interpretativo della legge penale non è contemplata dall’ordinamento vigente. Resta al condannato la possibilità di fare ricorso alla Corte Edu, per lamentare che la sua condanna è avvenuta “a sorpresa”, in violazione, cioè, del principio di prevedibilità. Si tratta, però, di un rimedio che rischia di diventare ineffettivo, visti i tempi di definizione del procedimento a Strasburgo. Per colmare la lacuna, qualche tempo fa ho proposto di riprendere in considerazione l’auspicio, autorevolmente formulato da Franco Bricola, poi ripreso da Gaetano Contento e Alberto Cadoppi, di introdurre nel nostro sistema un gravame straordinario, sul modello spagnolo del recurso de amparo. In Spagna ha una portata molto ampia, essendo destinato a giustiziare i diritti fondamentali. Da noi potrebbe essere limitato ai casi di “eccesso di potere interpretativo”, affidandolo alla competenza di un organo esterno alla giurisdizione ordinaria, quale potrebbe essere la Corte costituzionale, ovvero un organo ad hoc.

Concorso esterno in cattiva fede. Così la politica vile tira il carretto del potere togato sulla guerra alla mafia. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 18 Luglio 2023

Ormai chiunque sostenga la necessità di ristabilire un minimo di certezza del diritto per un reato di invenzione giurisprudenziale è considerato un sabotatore dell’autonomia e della libertà dei giudici

Pochi giorni prima di morire, collegato telefonicamente alla trasmissione “Il Testimone” di Giuliano Ferrara, Enzo Tortora rispose così all’allora presidente dell’Associazione nazionale magistrati Alessandro Criscuolo, che gli chiese retoricamente cosa la magistratura associata avesse mai voluto difendere con quel silenzio sulla macelleria giudiziaria napoletana, di cui era (per lui ingiustamente) accusata: «Volevate difendere la vostra cattiva fede».

Come ha giustamente ricordato Guido Vitiello nella presentazione a Bologna del libro “La giustizia penale di Alessandro Manzoni” di Gaetano Insolera, l’idea di Tortora sugli orrori della giustizia italiana mutò profondamente nel corso della vicenda di cui fu vittima e si fece, potremmo aggiungere, a un tempo più politica e più inconsolabile.

All’inizio Tortora pensava che la giustizia «per pentito dire» fosse semplicemente un prodotto di norme eccezionali, cambiate le quali le cose sarebbero potute tornare alla normalità. Alla fine, forse anche per il modo in cui il risultato del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati fu impudentemente ribaltato in Parlamento nel giro di pochi mesi, Tortora si convinse che fosse vero piuttosto il contrario: le norme eccezionali servivano alla mostruosa normalità della giustizia italiana e alla cattiva fede della magistratura associata, di cui i politici – ricordò sempre Tortora in quella occasione, rivendicando il privilegio di potere «ridere in faccia al dottor Criscuolo» – si erano semplicemente messi a «tirare il carretto».

A proposito del concorso esterno in associazione mafiosa, stiamo assistendo a una dinamica analoga, per non dire identica a quella a cui Tortora, per estremo oltraggio, fu costretto ad assistere nei suoi ultimi giorni di vita: c’è il solito carretto della cattiva fede giudiziaria trainato dal solito corteggio di politici zelanti e impettiti, un po’ interessati a lucrare la rendita dell’intransigenza antimafia, un po’ a scampare il discredito per il sospetto di mafioseria, che colpisce implacabile chiunque sostenga la necessità di ristabilire un minima di certezza del diritto per un reato di invenzione giurisprudenziale, definito eufemisticamente «liquido» o «fluido» dalla dottrina e quindi capace di adattarsi a qualsivoglia scorribanda inquirente o processuale.

Così siamo arrivati al punto che invocare il principio della riserva di legge in materia penale e quindi la necessità che sia il legislatore a stabilire i confini di questo ircocervo del concorso eventuale (art. 110 c.p.) in un reato a concorso necessario, come l’associazione a delinquere di stampo mafioso (all’art. 416 bis c.p.), è considerata una pretesa eversiva, oltre che una prova di intelligenza con il nemico.

Anche invocare il principio di legalità, cioè la subordinazione alla legge dell’attività degli organi dello Stato (magistrati compresi), suona terribilmente sospetto, visto che capovolge il paradigma su cui il concorso esterno di fonda, dove è lo stesso reato, cioè la stessa legge, un prodotto di interpretazione giudiziaria e non solo la sua applicazione al caso concreto.

Per non parlare della richiesta di subordinare anche il concorso esterno in associazione mafiosa ai principi di determinatezza (precisando a quale fatto concretamente verificabile si applichi la norma incriminatrice) e tassatività (obbligando il giudice ad applicare la norma solo quando il caso concreto si riconnetta alla sua fattispecie astratta): anche questo è ufficialmente un affronto all’autonomia e alla libertà del potere togato di perseguire le forme di «contiguità compiacente» con i sodalizi mafiosi, che per loro natura sfuggono a una troppo rigida tipizzazione giuridica. Non si vorrà mica agevolare il contributo che colletti bianchi, burocrati e politici felloni offrono agli interessi della criminalità organizzata, con la scusa dei principi fondamentali del diritto penale?

È chiaro che il problema non è neppure più cosa si possa fare per riportare il concorso esterno in associazione mafiosa nell’alveo della legge, perché è chiaro che non si potrà fare assolutamente nulla, se non contestando innanzitutto il pervertimento morale e funzionale del concetto stesso del sistema penale, da cui consegue la grottesca e ricorrente accusa di diserzione dalla guerra alla mafia, alla corruzione e a ogni forma di malaffare, da parte di un potere togato che tutto dovrebbe fare, in uno stato di diritto, fuorché la guerra a qualcuno o a qualcosa.

Si può capire, rabbrividendo, che tutto questo vada a genio a chi pensa che la traduzione del law and order in Italia non possa che essere una certa fascisteria politico-giudiziaria; è però incomprensibile che la difesa senza se e senza ma del concorso esterno à la carte sia diventato il valore non negoziabile della cultura “progressista”. A meno di non ammettere che la cultura “progressista” ufficiale sia semplicemente una parte, non una alternativa di questa tambureggiante fascisteria.

Riformucce e teatrini. Guerra con le toghe? Macché, è solo ammuina: lo scontro sulla Giustizia è roba da ridere. Politica e giustizia, spalleggiati dai supporter mediatici, mimano una contrapposizione che in realtà serve solo a fi ni interni. Ai tempi del Cav, lo scontro con la magistratura fu una cosa seria. Ma si sa, la storia si ripete due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa. Valerio Spigarelli su L'Unità il 15 Luglio 2023

«La storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa», diceva uno, ormai dimenticato, che sotto la testata de L’Unità ci sta come il cacio sui maccheroni. Frase che calza a pennello per spiegare lo scontro tra la Politica e la Giustizia che, con qualche forzatura, i partiti di governo, l’opposizione “di sinistra” e l’ANM, stanno mettendo in scena. Ognuno spalleggiato dai propri supporter mediatici, i contendenti mimano una contrapposizione che, in realtà, è pura narrazione che serve soprattutto a fini interni.

Il centrodestra, fin qui, sulla giustizia ha combinato solo disastri, replicando lo schema delle leggi cotte e mangiate da dare in pasto all’opinione pubblica in cambio di qualche oncia di consenso – da quella sui rave alla preannunciata legge sulle baby gang – che affligge il sistema penale dalla fine del XX secolo. Ciò nel segno della continuità del populismo giudiziario con il testimone che passa dai Cinque stelle al duo Lega/Fratelli d’Italia. Sempre nel segno della continuità, ma stavolta della politica fintamente garantista dei governi Berlusconi, è parallelamente proseguita la narrazione – anche esposta con eleganza quando il prosatore è il ministro Nordio – sulla necessità di una riforma complessiva, con rituale invocazione della separazione delle carriere e di un intervento sulla Costituzione.

Il tutto, però, da rinviarsi “all’autunno”, mitica stagione delle riforme che il signor B. evocava ad ogni governo che presiedeva, salvo poi impelagarsi nella palude delle leggi ad personam per far contento sé stesso e di quelle securitarie per accontentare la maggioranza silenziosa degli italiani che, sotto sotto, un po’ forcaioli sono da sempre. In attesa dell’avvento della riforma vera si mettono allora in campo riformuccie, come quella che mescola abuso di ufficio, traffico di influenze, intercettazioni, custodia cautelare ed articoli vari. Un mix buono per spaccare l’opposizione e mettere in difficoltà i suoi leader, Schlein in testa contestata dai sindaci del PD, ma che di organico non ha veramente nulla.

Oppure si licenziano norme che sembrano fatte dal mago Silvan, come l’ultimo Decreto Ministeriale del 4 luglio, che impone alla giustizia penale italiana un salto nel futuro telematico da un giorno all’altro, senza però curarsi di verificare che gli uffici giudiziari siano pronti. Con il risultato che, se le cose non cambieranno con l’ennesimo rinvio all’italiana – che pare si stia profilando in queste ore – dalla fine di luglio gli avvocati italiani si faranno il segno della croce al momento di depositare un appello o un ricorso per cassazione perché non sapranno se l’hanno fatto sul serio. Discreto lascito, questo della narrazione tecnologica fatta quasi sempre sulla pelle degli imputati, del governo Draghi e della ministra Cartabia in cerca di soldi europei.

In questo scenario viene bene anche una replica del mitico scontro con la magistratura, che ai tempi del Cav fu una cosa seria – e drammatica dal punto di vista dell’equilibrio dei poteri costituzionali – con le ripetute invasioni di campo del Terzo Potere a cui si oppose una resistenza fatta di ritirate e concessioni da parte degli altri, tutti gli altri, FI e PD per primi, secondo uno schema che vedeva la magistratura, il CSM e l’ANM, come vere e proprie controparti del potere legislativo. Solo che oggi non capita che tre PM si affaccino dalla tv per proclamare la propria opposizione ad una legge; oppure che il capo di una Procura, vestito e calzato in ermellino e tocco durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario, proclami la “resistenza” contro le leggi del parlamento; ovvero che si sputtani in mondovisione il premier in carica recapitandogli un avviso per garanzia mentre sta seduto a tavola coi Grandi della Terra (…che comunque l’hanno già appreso dai giornali del mattino a cui la stessa Procura ha avuto la cortesia di recapitarlo in advance).

No, oggi ci tocca assistere alla riedizione della faccenda a proposito delle imprese di Delmastro o della Santanchè, che sono imbarazzanti quanto inconsistente è il loro paragone con i nefasti del passato. Come è imbarazzante ascoltare gli interventi sul tema della Premier la quale, con inflessione Roma Sud, rivendica prima il contenuto di un “lettera anonima” spedita da Palazzo Chigi e poi, senza soluzione di continuità, proclama che non ha intenzione di litigare coi magistrati su nulla. E qui noi malfidati guardiamo alla separazione di carriere in culla pronta ad essere sacrificata per l’ennesima volta sull’altare della pax giudiziaria con la magistratura. Alla quale magistratura, o per meglio dire alla sua rappresentanza sindacale, l’ANM, a sua volta, non pare vero di poter parlare dell’ennesimo tentativo farlocco di mettergli la museruola per rialzare un po’ la testa dopo anni di rappresentazioni a suon di chat di Palamara che ne hanno offuscato l’immagine.

Alla magistratura associata piace l’idea di poter finalmente trovare un giudice simbolo da mettere sotto tutela rispetto alle aggressioni governative e quindi sollecita prontamente al CSM l’apertura proprio di una “pratica a tutela”. A nessuno gli viene in mente, da quelle parti, di aprire identica pratica a tutela della presunzione di innocenza sulle esternazioni di qualche Procuratore troppo incline alle conferenze stampa; oppure di riflettere seriamente sul fatto che, se le scale del CSM sono state ritenute il luogo più sicuro per incontri tra consiglieri e rappresentanti politici, forse in tema di intercettazioni e trojan qui nel Bel Paese stiamo un po’ più in là dell’accettabile. No, i rappresentanti dei magistrati questo lo negano, perché siamo il paese delle garanzie e le intercettazioni come il trojan sono “irrinunciabili nella lotta contro il crimine”.

Concetto subito raccolto dai governativi che si affrettano a dire che, infatti, loro nulla faranno sul tema nella riformuccia di cui sopra se non garantire ai buoni, cioè a quelli che non c’entrano nulla le cui conversazioni finiscono regolarmente sui giornali e in TV, che ci penseranno loro ad evitarlo. Magari con qualche norma che complicherà la vita ai cattivi, cioè agli imputati e ai loro avvocati, impedendogli persino di ascoltare, leggere o avere copia di tutte le intercettazioni di un processo.

L’apoteosi dell’ammuina si raggiunge poi il consenso tripartisan su Gratteri capo in pectore della procura di Napoli. Qui sono d’accordo tutti, ma proprio tutti, destra, sinistra, centro e pure Renzi, che evidentemente ha questa fissazione da anni, visto che lo voleva fare ministro. No, rispetto ai temi della Giustizia e alla coerenza dei suoi attori aveva proprio ragione Marx, ma non il Karl citato all’inizio, Groucho, quando diceva: «questi sono i miei principi, se non vi piacciono ne ho altri». Sembra il motto della casa, qui da noi, quando si parla di Giustizia.

Valerio Spigarelli 15 Luglio 2023

MODIFICHE AL CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA? Si & No

Il concorso esterno non va modificato: può danneggiare il contrasto alle mafie e creare zone di impunità. Eugenio Albamonte su Il Riformista il 16 Luglio 2023 

Nel Si&No del Riformista spazi al dibattito sul concorso esterno in associazione mafiosa: è giusto modificarlo? Favorevole il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri secondo cui “va definito in maniera più chiara per evitare interpretazioni mutevoli“. Contrario invece Eugenio Albamonte, ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati. Il concorso esterno non va modificato perché “può danneggiare il contrasto alle mafie e creare zone di impunità” sostiene.

Leggi il commento di Eugenio Albamonte: Il concorso esterno, per come viene oggi definito in giurisprudenza, consente di punire una vasta gamma di condotte (non tutte ipotizzabili in astratto) e di sanzionare i soggetti che, pur non essendo stabilmente affiliati al gruppo criminale, garantiscono il loro contributo per realizzarne le finalità illegali. Tali finalità non sono rappresentate solo dalla commissione di singoli delitti o dal controllo di un territorio ma, ad esempio, dal controllo anche monopolistico di attività economiche e delle varie manifestazioni della vita sociale, che viene attuato attraverso i legami del gruppo mafioso con soggetti esterni.

Questo contributo – per quanto accertato in tanti processi – è fornito da professionisti, imprenditori, pubblici amministratori, a volte appartenenti alle forze dell’ordine e persino alla magistratura o all’avvocatura. Persone non stabilmente inserite nell’organizzazione mafiosa ma portatrici di un loro specifico apporto, spesso insostituibile, soprattutto quando non ci sono appartenenti al gruppo criminale che abbiano le stesse competenze.

I soggetti di cui parliamo sono molto preziosi per il gruppo criminale e conseguentemente è importante avere strumenti giuridici adeguati a definire le loro responsabilità penali.

Ovviamente la norma di riferimento non può che essere il 416 bis che è già una norma ampia perché tipizza una vasta gamma di attività in modo però molto puntuale e tassativo. Per definire il concorso esterno si tratta quindi di applicare la stessa tipizzazione a condotte poste in essere da soggetti non affiliati ma che pongono in essere quei determinati contributi di cui si è detto.

Le sentenze che nel tempo si sono susseguite hanno ben definito le varie forme di contributo, applicando le norma già esistenti in materia di concorso di persone nel reato e di associazione mafiosa. Queste due norme, attualmente vigenti combinate dalla giurisprudenza, consentono di punire adeguatamente il fenomeno. A questo punto una tipizzazione dovrebbe essere solo riepilogativa di quanto già definito in giurisprudenza e quindi sostanzialmente inutile. Oppure rischierebbe di essere riduttiva rispetto alla reale manifestazione del fenomeno e allora creerebbe vuoti di tutela e zone di impunità.

Aprire un cantiere normativo su questo delicato settore porterebbe inevitabilmente alcuni soggetti, gruppi, categorie professionali ad esercitare sul legislatore pressioni volte a limitare la possibilità di una loro incriminazione, quanto meno in relazione al più ampio contesto criminale in cui si inseriscono le condotte. Con il rischio di una normazione che, alla fine dell’iter, risulti fortemente ridimensionata rispetto all’attualità e danneggi enormemente il contrasto alle mafie. Eugenio Albamonte 

(ANSA domenica 16 luglio 2023) - "Quello del concorso esterno è uno strumento importantissimo, non a caso individuato proprio da Falcone e Borsellino. È inaccettabile che il problema del ministro della Giustizia non sia la mafia, ma i magistrati e le Procure". Così a Repubblica Fabio Granata, ex deputato e storico esponente della destra siciliana, promotore della prima fiaccolata in memoria di Borsellino. 

Granata ricorda con soddisfazione le dichiarazioni programmatiche di Meloni con "riferimento diretto a Borsellino, un fatto di grande coerenza con la vita e il percorso" della premier. "Poi però è arrivato Nordio che ha fatto esattamente l'opposto. È inaccettabile". Alla domanda se si aspetti le dimissioni di Nordio, Granata risponde: "Penso che questo idillio con Meloni, ammesso che di idillio si possa parlare, non durerà ancora a lungo". Granata, che oggi è assessore alla Cultura a Siracusa, ha rilasciato una intervista anche alla Stampa: "Un ministro della Giustizia come Nordio - dice - offende la memoria di Borsellino".

"Non serve più 'ricordare' via D'Amelio - prosegue - occorre capire ciò che avvenne e perché avvenne. La sinistra vorrebbe equiparare fascismo e mafia, un falso storico. Il governo di destra non ha affatto rotto col berlusconismo. Registro in alcuni settori del governo e di FdI forme di malcelata soddisfazione per l'assoluzione di Mori, De Donno, Contrada e Dell'Utri". 

Per Meloni "ho un grande affetto, la ricordo quando a 15 anni iniziò a venire alla fiaccolata. Ma alla prova dei fatti c'è una forte contraddizione nell'accettare la politica e il linguaggio di un ministro della Giustizia che al centro del suo agire ha una crociata contro magistrati e pm. Non bastano le parole di Mantovano. Un ministro come Nordio offende la memoria di Borsellino, oggi Meloni non potrebbe partecipare alla fiaccolata rappresentando un governo che usa quel linguaggio", conclude Granata.

Stop all'uso politico della giustizia. Il concorso esterno va modificato e definito in maniera più chiara per evitare interpretazioni mutevoli. Maurizio Gasparri su Il Riformista il 16 Luglio 2023

Nel Si&No del Riformista spazi al dibattito sul concorso esterno in associazione mafiosa: è giusto modificarlo? Favorevole il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri secondo cui “va definito in maniera più chiara per evitare interpretazioni mutevoli“. Contrario invece Eugenio Albamonte, ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati. Il concorso esterno non va modificato perché “può danneggiare il contrasto alle mafie e creare zone di impunità” sostiene.

Leggi il commento di Maurizio Gasparri: L’argomento «concorso esterno in associazione mafiosa» non fa parte del programma di governo. Dal 2002 al 2006 ho presieduto la Commissione per la riforma del codice penale con autorevoli accademici, magistrati e avvocati e studiato quanto scritto in materia. Praticamente in unanimità la Commissione concluse che il concorso esterno andava tipizzato con norma ad hoc: non esiste come fattispecie autonoma nel codice, è il frutto di un’interpretazione giurisprudenziale che coniuga l’articolo 110 (concorso) col 416 (associazione).

Ciò ha prodotto estrema incertezza applicativa. Tanto che la Cassazione ha spesso cambiato indirizzo e fatica a trovare una definizione convincente. Le richieste per una norma tipica sono quasi universali nel mondo universitario e forense. Primo fra tutti il professor Giovanni Fiandaca, sui cui testi si sono formate due generazioni di giuristi. Non mi stupisco delle bordate dell’opposizione e nemmeno dalla stampa più critica. Mi sorprende quella di magistrati, tecnici del diritto: dovrebbero sapere che il concorso esterno ormai, per dirla con Churchill, «è un enigma dentro un indovinello avvolto in un mistero».

Fin qui, non sono parole mie, ma una citazione letterale dell’intervista del ministro Nordio al Corriere della Sera. Nordio non intende proporre l’abolizione del concorso esterno in associazione mafiosa, vorrebbe definirlo in maniera più chiara, per evitare interpretazioni mutevoli e cervellotiche. La cosa migliore sarebbe che una persona che collabora con un’associazione mafiosa fosse, a mio avviso, ritenuto parte dell’associazione e quindi sanzionabile ai sensi del 416 bis. Ma se il principio del concorso esterno deve rimanere, che almeno lo si definisca in modo chiaro. In questi giorni ho letto di tutto.

Un imbecille ha scritto su un giornale che se uno fa il «palo» a una rapina fa un concorso esterno. Perché mentre il rapinatore vero e proprio entra nella banca, e casomai con una pistola in mano preleva i soldi, il «palo» sta fuori e quindi sta all’esterno. Si confonde la posizione esterna ai locali della banca con una partecipazione limitata all’azione criminale.

Noi vogliamo combattere la mafia con governo e maggioranza di centrodestra. Siamo stanchi di leggere ricostruzioni second cui Berlusconi e Dell’Utri avrebbero dapprima collaborato e immaginato le stragi del ‘92 della mafia, poi avrebbero pianificato le stragi del ‘93 di Firenze, Milano, Roma e altrove.

Nel finale di Indiana Jones, l’ennesimo della serie, grazie a una macchina del tempo, c’è una battaglia tra alcuni nazisti e Archimede, a Siracusa nel 200 a.C. È più credibile questa battaglia impossibile o immaginare Berlusconi e dell’Utri che ordiscono stragi?

Non ne possiamo più dell’uso politico della giustizia. Non ne possiamo più di accuse incredibili da ascoltare. Né di una interpretazione del diritto piegata ad esigenze politiche. La mafia va combattuta. E nessuno più del centrodestra e di Berlusconi ha agito in tal senso. Rendendo permanente il carcere duro del 41 bis. Rafforzando le normative per il sequestro dei beni delle cosche. Ero capogruppo al Senato del Pdl quando abbiamo varato quelle norme. In piena intesa col governo.

Noi abbiamo agito, gli altri parlato. E questa maratona incessante che vede alternarsi, su televisioni e giornali, magistrati in servizio e in pensione (Spataro, Caselli, Rossi, De Lucia, Albamonte e tanti altri) contro la riforma della giustizia non ci fermerà. Noi abbiamo combattuto la mafia. Noi siamo coerenti con gli insegnamenti di Falcone e di Borsellino. Non prendiamo lezioni da Di Matteo che ha processato per anni e anni il Generale Mori, ed altri eroi della lotta alla mafia poi assolti. E chiediamo a Di Matteo un pubblico confronto su questa vicenda o sull’azione della Procura di Caltanissetta, che prese per colpevoli della Strage di Via d’Amelio di Borsellino e della sua scorta persone che invece non avevano fatto quell’attentato. Siamo stanchi ma determinati. Non ci piegheremo. Maurizio Gasparri

Battaglie riformiste: la riforma della giustizia. Il prezzo della libertà che paga chi prova a riformare sul serio il mondo della giustizia. L’editoriale di Matteo Renzi. La riforma della giustizia è necessaria. La vera separazione delle carriere che serve non è tra Pm e giudici ma tra giudici bravi e giudici incapaci. Questo serve e per questo noi del Riformista lottiamo: garantire un giudice imparziale ai cittadini e non premiare chi sbaglia per incapacità o per ideologia, Matteo Renzi su Il Riformista il 15 Luglio 2023 

Quando ci avviciniamo a riformare in modo serio il mondo della giustizia accade qualcosa che manda tutto all’aria. Che sia un caso oppure no, non sappiamo. E forse neanche importa ai fini del nostro ragionamento.

Ma sta succedendo anche adesso. E proprio quando sembrava che questo Governo avesse le carte in regola per provarci – a cominciare da un galantuomo come Ministro – improvvisamente tutto sembra bloccato.

Prima dei casi Santanchè, La Russa, Del Mastro la partita sembrava avviata nella direzione giusta.

Ma tra quando il Governo ha approvato la riforma in Consiglio dei Ministri e quando la trasmetterà al Parlamento l’esecutivo si è frantumato. Mantovano contro Nordio sul concorso esterno in uno scontro tra i magistrati che siedono al tavolo più importante di Palazzo Chigi. La Lega contro Fratelli d’Italia: Salvini fiuta l’occasione di recuperare la china nei sondaggi e vede in difficoltà l’alleato senior. Per questo gli ex padani attaccano gli ex missini sapendo che entrambi hanno un passato non propriamente garantista. Ma se la partita Lega contro Fratelli d’Italia ci sta, la vera sorpresa è Forza Italia contro… Forza Italia. Eh già perché la timidezza di Tajani sui temi della giustizia non nasce solo dal suo carattere accomodante: nasce soprattutto dalla paura di disturbare il manovratore, cioè la Premier, paura che dalle parti di Forza Italia è diventata ormai la bussola per qualsiasi decisione politica.

Vado controcorrente: per me la riforma serve oggi più che mai. Non mi interessa discutere di singoli temi, pur importanti. L’abuso d’ufficio, la carcerazione preventiva, le intercettazioni, il traffico di influenza, la tipizzazione del concorso esterno. Tutte scelte rilevanti, per carità, ma secondarie rispetto al vero problema. Che è uno soltanto: garantire un giudice imparziale ai cittadini e non premiare chi sbaglia per incapacità o per ideologia.

La vera separazione delle carriere che serve non è tra Pm e giudici ma tra giudici bravi e giudici incapaci.

Questo serve e per questo noi del Riformista lottiamo.

Lo facciamo anche a costo di sacrifici personali. Ieri ho ricevuto l’ennesima condanna alle spese da parte della solita giudice NoVax e No WiFi: la dottoressa Zanda, casualmente di Firenze. Diffamato sui media e insultato in tribunale da una dottoressa che parla di sieri, campi elettromagnetici, complotti internazionali con la credibilità di chi per prima non rispetta le leggi decidendo di considerare il greenpass eversivo e il tampone “una tortura”.

Condannato da una giudice che non rispetta le leggi. Non è magnifico?

Se pensano di fermarmi così significa che non mi conoscono.

Chi non ha paura sa che questo è il prezzo della libertà.

E alla libertà io non rinuncerò mai.

Matteo Renzi

Anche i giuristi in campo contro il concorso esterno. Luca Fazzo il 16 Luglio 2023 su Il Giornale.

È come se a parlare di calcio fosse Bearzot. Davanti a un intervento di Giovanni Fiandaca, giurista palermitano, da decenni il docente di diritto penale più autorevole d'Italia, in genere nessuno osa replicare: se non altro per paura di fare brutta figura. Il problema è che ieri Fiandaca, intervistato da Repubblica, non solo ha detto che sul reato di concorso esterno in associazione mafiosa - sul quale si accapigliano da sempre garantisti e pubblici ministeri, e sul quale la polemica negli ultimi giorni si è fatta rovente - «un intervento è necessario» perché esiste il «principio costituzionale della prevedibilità della distinzione tra condotte lecite e illecite». Fiandaca va più in là, e se la prende con i parenti di vittime eccellenti di mafia - come la sorella di Giovanni Falcone - che in questi giorni vengono intervistati ripetutamente, e utilizzati dai giornali per esorcizzare le proposte di riscrivere il reato di concorso. «Uno schiaffo alla memoria di Giovanni» così Maria Falcone ha definito il progetto di riforma annunciato dal ministro Carlo Nordio. Contro questi interventi Fiandaca ha parole di durezza inusitata: «Il potere di fare leggi - chiede - è forse bloccato dal paradigma vittimario che ferma la libera determinazione di fare leggi scritta nella Costituzione? É forse scritto nella Carta che il parere delle vittime può bloccare il Parlamento?».

Sono parole che ieri fanno irruzione nel dibattito, e che fanno pendere decisamente la bilancia a favore di chi ritiene che il reato così come è scritto non sia difendibile. L'unica cautela di Fiandaca è quella sui tempi: invita a aspettare, a lasciare che il clima sia più sereno, perché oggi «inserire questa modifica aggraverebbe la già grave politico-istituzionale determinata dal conflitto tra politica e giustizia». Ma che la direzione in cui andare sia quella, per Fiandaca è indubbio. E il suo assist viene raccolto al volo da Giorgio Mulè, vicepresidente forzista della Camera, tra i più convinti assertori della necessità di mettere mano al reato: «Il rispetto che si deve ai familiari delle vittime - dice Mulè al Giornale - e il dovere della memoria non possono e non devono mai sovrapporsi a chi fa le leggi. Perché altrimenti verrebbero messi in discussione molti di quei principi in cui le stesse vittime hanno creduto».

Fiandaca è severo anche con un altro argomento assai usato in questi giorni, ovvero il rischio che un intervento legislativo danneggi i processi già in corso: «Il potere del Parlamento - dice -non può essere inibito dal fatto che alcuni processi possano subire influenze da una nuova legge, perché se fosse così nessun reato potrebbe essere cambiato. Capisco i magistrati che vanno in allarme e preferiscono disporre di uno strumento utile e servizievole com'è il concorso esterno nella versione attuale. Ma c'è un'altra anima della giustizia penale che esige di rispettare i principi costituzionali della riserva di legge e della sufficiente determinatezza della fattispecie». È proprio questa «sufficiente determinatezza» che manca, e per questo è necessario mettere mano al codice, non per indebolire la lotta alla criminalità organizzata ma per renderla più netta ed efficace: «La modifica può contribuire a rendere più chiare - dice Fiandaca - e solide le imputazioni accrescendo la possibilità di ottenere condanne in giudizio». Non va fatta subito, insomma, ma va fatta, anche se l'accusa di concorso esterno è oggi per le Procure uno «strumento servizievole». O forse proprio per questo.

Mafia, perché Nordio vuole rimodulare il ‘concorso esterno’. Redazione il 15 Luglio 2023 su Nicolaporro.it.

Il Guardasigilli nuova vittima della macchina propagandistica della sinistra. La sua colpa? Aver affermato che il reato di concorso esterno in associazione mafiosa va “rimodulato”. Martedì scorso, il ministro, partecipando in un dibattito organizzato da Fratelli d’Italia in piazza a Roma, ha paventato la possibilità di rimodulare il cosiddetto concorso esterno in associazione mafiosa. Nordio ha dichiarato che il concorso esterno non esiste come reato nel codice penale, ma è una creazione della giurisprudenza. Ha aggiunto inoltre: “Perché il concetto di concorso esterno è contraddittorio, ecco l’ossimoro, perché se sei concorrente non sei esterno, e se sei esterno non sei concorrente. Ecco, noi non vogliamo eliminare, noi sappiamo benissimo che si può essere mafiosi all’interno dell’organizzazione e si può essere favoreggiatori all’esterno dell’organizzazione, ma allora va rimodulato completamente il reato”.

Ragionando su termini meramente tecnici, il problema è questo: il concorso esterno in associazione mafiosa non esiste come fattispecie autonoma; dunque non è previsto in nessun articolo del codice penale. Piuttosto, la sua creazione giurisprudenziale si basa sull’utilizzo dell’articolo 110, che disciplina il concorso di persone nel reato, al quale viene congiunto l’articolo 416 bis, che riguarda le “associazioni di tipo mafioso, anche straniere”.

Perché parliamo di concorso “esterno”? Perché il sopracitato art.110 viene utilizzato, in questo caso, proprio per indicare il contributo “esterno” all’associazione, ossia quello del soggetto che, pur non essendo parte dell’organizzazione mafiosa, in qualche modo collabora con essa per la commissione del reato. Un esempio di scuola può essere quello del politico locale che, pur non essendo formalmente associato alla mafia, bandisce una gara d’appalto ad hoc per favorire un’associazione mafiosa determinando il rafforzamento economico della stessa.

Qual è il pericolo denunciato da Nordio allora? I reati associativi come l’associazione mafiosa servono già di per sé a punire un “concorso” a quei reati, a vario titolo. Il rischio che una mancata codificazione del concorso esterno può portare è quello di ampliare eccessivamente le circostanze nelle quali il reato viene commesso. Per questo è necessaria una regolamentazione del reato, inserendolo nel codice penale. Tutto ciò nonostante le critiche, per carità, legittime, al ministro, arrivate sia da alcuni quotidiani (La Repubblica e Il Fatto Quotidiano su tutti) sia da ex colleghi entrati in politica, come Pietro Grasso, ex procuratore della Repubblica a Palermo, successivamente procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo e anche ex presidente del Senato.

Dispiace constatare infine come ci sia chi collega la proposta di istituire una nuova fattispecie riguardante il concorso esterno con un tentativo del governo di strizzare un occhio alla mafia. La lotta alla mafia, serve ripeterlo forse, non ha colore politico e come ci sono stati, purtroppo, tanti politici di ogni colore che hanno favorito la mafia, ce ne sono stati anche tanti che l’hanno combattuta. Inoltre, nessuno si aspetta ad esempio che siano riconosciuti onori al governo Meloni se pochi mesi fa uno dei più pericolosi latitanti al mondo come Matteo Messina Denaro è stato arrestato. O che vengano tessute le lodi solo ai vari governi Berlusconi che arrivarono a confiscare la cifra record di venticinque miliardi di euro alla mafia. Non sarebbe corretto.

I meriti vanno sempre spartiti con il lavoro svolto dagli altri governi, oltre che con lo straordinario operato di forze dell’ordine e magistratura. Ma un po’ di coerenza, e un’attenta consultazione dei libri di storia sarebbero forse consigliati a chi parla di favori alla mafia da parte di questo governo. Le critiche sono sacrosante, il rispetto però viene prima di tutto.

Estratto dell’articolo di Virginia Piccolillo per il “Corriere della Sera” Il 14 luglio 2023.  

Ministro Carlo Nordio. Perché vuole porre mano all’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa? Non è voluta da Giovanni Falcone?

«Premetto che questo argomento non fa parte del programma di governo, ma poiché in un dibattito mi è stata chiesta la mia opinione sono ben lieto di ripeterla».

Qual è?

«Tra il 2002 e il 2006 ho presieduto la Commissione per la riforma del codice penale, […] e ho studiato tutto ciò che era stato scritto in materia». 

E cosa ne avete dedotto?

«Praticamente all’unanimità la Commissione ha concluso che il concorso esterno andava tipicizzato con una norma ad hoc, perché non esiste come fattispecie autonoma nel codice, ma è il frutto di una interpretazione giurisprudenziale che coniuga l‘art 110, sul concorso, con il 416 sull’associazione».

E questo cosa comporta?

«Ha comportato un’estrema incertezza applicativa. Tanto che la Cassazione ha cambiato piu volte indirizzo, e ancora fatica a trovare una definizione convincente». 

[…] L’opposizione e suoi colleghi chiedono di mantenere questo strumento utile.

«Non mi stupisco che arrivino bordate dall’opposizione: la politique n’a pas d’entrailles . E nemmeno dalla stampa più critica, che leggo sempre con benevola indulgenza. Mi sorprende che arrivino da magistrati, che da tecnici del diritto dovrebbero sapere che il concorso esterno è ormai, per dirla con Churchill, un enigma dentro un indovinello avvolto in un mistero».

Non teme di favorire la criminalità organizzata?

«La mia interpretazione è anche più severa della loro, perché anche chi non è organico alla mafia, se ne agevola il compito, è mafioso a tutti gli effetti. […]».

Allora cosa critica?

«Che il concetto di concorso esterno è un ossimoro: o si è esterni, e allora non si è concorrenti, o si è concorrenti, e allora non si è esterni. Se si affrontassero questi argomenti con animo freddo e pacato, e non con polemiche sterili, troveremmo una soluzione». 

[…] C’è uno scontro politica-magistratura?

«Dopo le polemiche originate dalle mie prime critiche sull’interferenza della magistratura sul ddl prima di averne letto il testo, ho ricevuto i rappresentanti dell’Anm. È stato un incontro estremamente cordiale dal punto di vista personale, anche se esistono idee diverse sulle riforme da fare. Ci siamo concentrati più sui temi condivisi, come l’efficienza della giustizia e l’implementazione delle risorse, che su quelli dove la pensiamo diversamente».

Pace fatta?

«Il confronto continuerà. […] ». 

Perché l’imputazione coatta di Delmastro è stata vista dal governo come anomala?

«L’imputazione coatta, indipendentemente dal caso attuale, la critico da 25 anni: è un residuo del vecchio codice […] inserito nel nuovo Vassalli per un compromesso […] . […] dopo l’imputazione coatta, in tribunale non arriva, come un tempo, un fascicolo completo di tutte le indagini, ma un fascicolo vuoto, e il giudice deve chiedere al pm di illustrare le ragioni dell’accusa. Ma che farà il pm, se lui stesso aveva chiesto il proscioglimento? Non potrà certo smentire sé stesso. E il processo collasserà con spreco di tempo e tante sofferenze inutili».

[…] Si accelera sulla separazione delle carriere?

«La separazione delle carriere è consustanziale al processo accusatorio voluto da Vassalli, partigiano antifascista pluridecorato, socialista e garantista. Purtroppo, come ho detto, è stato attuato a metà. Essa esiste in tutto il mondo anglosassone, e non mina affatto l’indipendenza della magistratura requirente. Tuttavia richiede una revisione costituzionale, e quindi il cammino è più lungo. Comunque fa parte del programma di governo, e sarà attuata». 

Ma cosa c’entra con l’efficienza della giustizia?

«Separazione delle carriere significa anche discrezionalità dell’azione penale e facoltà del pm di ritrattarla. Tutte cose che in questo momento la Costituzione non consente. Ma se fossero attuate eviterebbero almeno un trenta per cento dei processi che si rivelano inutili e dannosi e rallentano la celebrazione di quelli più importanti e quindi la giustizia sarebbe più celere». 

Da repubblica.it il 14 luglio 2023.

Nel governo è scontro sull’ipotesi di Carlo Nordio di rimodulare il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Ieri a criticare il ministro della Giustizia era stato il braccio desto Giorgia Meloni, Alfredo Mantovano (“La modifica non è in discussione”) e oggi a bacchettare il Guardasigilli e Matteo Salvini, che però si scontra con Antonio Tajani che, invece, difende titolare di via Arenula.  Il leader della Lega è intervenuto sulla questione allineandosi con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio sottolineando che il concorso esterno “non è una priorità. Serve una riforma della giustizia urgente, efficace e condivisa, non contro nessuno, ma coinvolgendo tutti, magistrati compresi, sperando che nessuno sia bloccato dall'ideologia"”.

Ma da FoI Tajani risponde: "La priorità per Forza Italia è la separazione delle carriere. Sul concorso esterno da un punto di vista giuridico credo abbia ragione il ministro Nordio poi si vedrà come procedere. Ne parleremo". E intervenendo all’evento di FdI a Roma, Piazza Italia, ha aggiunto: "Non si tratta di cambiare o rendere più debole la lotta alla malavita organizzata, anzi.  Questa lotta dobbiamo indurirla, utilizzando i migliori sistemi. E leggendo quello che ha detto il ministro credo voglia rafforzare una posizione e non indebolirla". 

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 Sulla separazione delle carriere si fa sentire l’Anm: “Fare dell'azione penale un'azione discrezionale, e poi certamente prima o poi sotto il controllo politico, la vediamo una cosa pericolosa per la democrazia – sostiene il presidente dell'Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, anche lui a Radio Anch’io – La separazione delle carriere è una riforma che apre ad altre, perché dalla separazione dovrebbe poi seguire la discrezionalità dell'azione penale. Un pm separato dalla giurisdizione e quindi fuori da quei meccanismi di compensazione e di controllo che prevede la Costituzione, lo lasceremo da solo o ci sarà qualcun altro che ambirà al controllo sull'azione penale? E quello non potrà che essere il controllo politico".

Mantovano sconfessa Nordio: «Il concorso esterno non si tocca». Il Guardasigilli annuncia una modifica del reato, non la sua cancellazione. Ma toghe e giornali lo hanno già crocifisso. Simona Musco su Il Dubbio il 14 luglio 2023

L’ultima puntata dello scontro tra toghe e politica la scrive il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Che annuncia una rimodulazione del concorso esterno, sbagliando forse i tempi, dato l’avvicinarsi dell’anniversario della strage di via D’Amelio, e scatenando le reazioni della magistratura e dei parenti delle vittime. Tanto che 24 ore tocca al sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, mettere una pezza: «Modificare il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non è un tema in discussione, il governo non farà alcun passo indietro nella lotta alla criminalità organizzata.

Ci sono altre priorità», ha dichiarato il braccio destro di Giorgia Meloni al Fatto. Per poi aggiungere ad Askanews. it che «la giurisprudenza è consolidata», mentre bisognerebbe prestare attenzione alla “recentissima” sentenza della Corte di Cassazione che «mette in discussione il concetto di criminalità organizzata». In maggioranza, dunque, si naviga a vista. E a confermare il senso di disorientamento è anche Ernesto Rapani, senatore FdI e componente della Commissione Giustizia: «Al momento non ci sono modifiche in corso riguardanti il concorso esterno. Questo governo, come dimostrano le ultime operazioni, combatte la mafia in ogni luogo e in ogni modo. Dunque, non ci può essere un governo che dice certe cose, che ha nel programma determinate cose e un componente del governo, ministro della Giustizia, che va contro. Le due cose cozzano fra di loro».

Sul punto, però, Nordio è stato chiaro: il reato «è una creazione giurisprudenziale», «è un ossimoro - ha detto nel corso di un evento organizzato da Fratelli d’Italia -, ma quando di queste cose ne discuti sotto il profilo tecnico ti trovi delle risposte di ordine ideologico, di ordine emotivo. Noi non vogliamo eliminare il concorso esterno, perché sappiamo benissimo che si può essere mafiosi all'interno della organizzazione e si può essere favoreggiatori all'esterno della organizzazione, ma allora va rimodulato completamente il reato, che in questo momento non esiste né come tassatività né come specificità, perché non è il codice.

Poiché il principio di certezza del diritto poggia sulla tassatività della fattispecie in questo caso penale che non è in questo momento strutturata, anche qui il discorso è puramente tecnico. Pensare che si possa fare con questo un favore ai mafiosi in senso hegeliano è vuota metafisica dell’intelletto speculativo». Ma le rassicurazioni di Nordio sulla volontà di non cancellare il reato non hanno colto nel segno. E oltre alle fibrillazioni all’interno del governo sono arrivate le repliche di Salvatore Borsellino e Maria Falcone, che parlano di schiaffo ai due magistrati uccisi dalla mafia. «Depotenziare il concorso esterno vuol dire colpire i nostri martiri, quelli che il governo di destra dice di voler commemorare - ha detto il primo a Repubblica -. E questo è l'ennesimo segnale di un gravissimo attacco all'indipendenza della magistratura e alla ricerca della verità».

Parole ribadite anche da Maria Falcone, secondo cui gli annunci di Nordio sono «un’offesa gravissima: da tanti anni chiediamo una verità completa sulle stragi. Modificare adesso il concorso esterno significherebbe allontanare ancora di più una verità che ci viene negata da trent’anni». E le opposizioni sono già scatenate: il Pd, con Walter Verini, parla di «gravissimi segnali di indebolimento nel contrasto alle mafie, aggiungendo gli attacchi e la delegittimazione della magistratura», mentre secondo Federico Cafiero de Raho (M5S) «sin dagli anni di Falcone la legittimità del concorso esterno ha consentito il controllo penale sulle forme più gravi di complicità alle cosche di importanti esponenti dei circuiti economico finanziari e politico istituzionali, nonché del mondo delle libere professioni - ha dichiarato a Repubblica -. Volete la verità? Il concorso è avversato da questa parte politica».

Estratto dell’articolo di Antonio Bravetti per “La Stampa” Il 14 luglio 2023.

È scontro nel governo sul concorso esterno in associazione mafiosa. Al ministro della Giustizia Carlo Nordio che aveva proposto di «rimodularlo», tira le redini il sottosegretario Alfredo Mantovano: «La modifica non è in discussione». Intanto, perquisizione in casa di Marcello Dell'Utri: la procura di Firenze indaga sui mandanti esterni degli attentati mafiosi di trent'anni fa. I magistrati sostengono che con le stragi del 1993 cosa nostra puntava a indebolire Ciampi per favorire Berlusconi. Una tesi che non convince Matteo Renzi, ai ferri corti con la procura fiorentina: «Siamo oltre il ridicolo».

[…] Le rassicurazioni di palazzo Chigi non fugano del tutto i dubbi del Pd. «Meloni sta con Nordio o con Mantovano?», domanda la senatrice Vincenza Rando, responsabile Legalità del partito. «Nordio è stato sconfessato da Mantovano - osserva il sindaco di Roma Roberto Gualtieri - è incredibile anche solo che si sia parlato di toccare il concorso esterno». 

Per Elisabetta Piccolotti (Avs) «Nordio dovrà cambiare il nome del suo dicastero da ministero della Giustizia a ministero dell'Impunità dei potenti. La nostra opposizione sarà durissima».

In commissione Antimafia è la presidente Chiara Colosimo (FdI) a domandare un'opinione al procuratore di Palermo Maurizio de Lucia. Il magistrato risponde e difende a spada tratta il reato di concorso esterno: «Si è rivelato uno strumento utile, quindi noi possiamo rivisitare l'area di applicazione del reato, ma solo individuando delle fattispecie ulteriormente tipizzate dal punto di vista della legge penale. Immaginare altre forme di riesame o abolizione dell'istituto tout court mi pare davvero davvero difficile».

Alle parole di Nordio era insorta anche l'associazione Libera: «Più che pensare di rimodulare il concorso esterno è necessario difenderlo dagli attacchi interessati e strumentali che periodicamente si manifestano e oggi si ripropongono, con l'obiettivo di dimezzare l'antimafia circoscrivendola all'ala militare dell'organizzazione criminale e tenendo fuori i colletti bianchi complici o collusi». 

Nel frattempo mercoledì sono state perquisite la casa e gli uffici dell'ex senatore Dell'Utri, dove sono stati sequestrati elementi utili all'indagine. Gli investigatori della Dia di Firenze hanno agito su mandato della procura nell'ambito dell'inchiesta sui mandanti delle stragi di mafia del 1993. […]

Sul concorso esterno va in scena il solito schema dell’antimafia. Che si tratti di carcere ostativo, di 41 bis, fino ad arrivare al semplice abuso d'ufficio, lo schema dei sedicenti custodi della memoria antimafiosa è sempre lo stesso: accusare gli avversari di connivenza col nemico. Davide Varì su Il Dubbio il 13 luglio 2023

“Nordio vuole eliminare il concorso esterno in associazione mafiosa!”. Apriti cielo. Le prediche dell'antimafia hanno trovato un nuovo cavallo di battaglia, un nuovo “Moloc” da salvare e tutelare. A modo loro, naturalmente. Dando del collaborazionista a chiunque provi a difendere il nostro traballante stato di diritto.

Che si tratti di carcere ostativo, di 41 bis, fino ad arrivare al semplice abuso d'ufficio, lo schema dei sedicenti custodi della memoria antimafiosa è sempre lo stesso: accusare gli avversari di connivenza col nemico. Una sorta di "concorso esterno" morale, insomma. Un modo come un altro per buttare la palla in tribuna ed evitare di discutere nel merito lasciando spazio solo a visceralità e indignazione. Eppure che la mafia non si sconfigge con la “terribilità della giustizia” - come diceva Sciascia - ma con la fermezza del diritto e dei diritti, dovrebbero averlo capito anche loro signori. Come dovrebbe essere chiaro, in un paese mediamente civile e liberale, che nessun diritto può essere sacrificato in nome di alcuna lotta. Compresa la lotta alla mafia. La sfida è proprio questa: battere la criminalità organizzata senza decimare le nostre garanzie. Perché se così non fosse, sarebbe comunque una sconfitta.

Da Mannino a Femia, passando per Lombardo e Sorbara: tutti gli accusati di concorso esterno in associazione mafiosa e poi assolti. L’ex ministro e leader della DC venne arrestato nel 1992 e si fece nove mesi di carcere e tredici di arresti domiciliari, nel 2001 la prima assoluzione «perché il fatto non sussiste», confermata nel 2010 dalla Cassazione dopo due appelli. Valentina Stella su Il Dubbio il 13 luglio 2023

Sono molti i casi noti e meno noti di persone accusate di concorso esterno in associazione mafiosa e poi assolte. Una delle vicende più conosciute è quella che riguarda l'ex ministro e leader della Democrazia Cristiana, Calogero Mannino. Nel 1992 viene arrestato con l’accusa appunto di concorso esterno. Nove mesi di carcere e tredici di arresti domiciliari, e nel 2001 la prima assoluzione «perché il fatto non sussiste». Decisione confermata definitivamente 14 gennaio 2010 dalla Cassazione, dopo due appelli. Il 6 marzo di quest’anno si è chiusa anche l'odissea giudiziaria lunga più di un decennio per l'ex governatore della Sicilia ed ex leader del Mpa, Raffaele Lombardo: i giudici della sesta sezione penale della Cassazione, infatti, hanno giudicato inammissibile il ricorso della Procura generale di Catania contro la sentenza del 7 gennaio del 2022 che ha assolto Lombardo dalle imputazioni di concorso esterno alla mafia, «perché il fatto non sussiste», e di reato elettorale aggravato dall'avere favorito la mafia, «per non avere commesso il fatto». Nel 2015 fu la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo a ritenere illegittima la condanna per concorso esterno a Bruno Contrada perché all'epoca dei fatti contestati all’ex numero tre del Sisde quel reato non era sufficientemente tipizzato, quindi il processo sarebbe stato celebrato illegittimamente. Sempre a marzo di quest’anno i giudici della quarta Corte di appello di Palermo hanno confermato la sentenza, emessa il 30 giugno del 2016, che scagionava l'ex sindaco di Agrigento nonché ex senatore, Calogero Sodano, dall'accusa di avere stretto un patto con i boss per farsi eleggere nelle varie competizioni elettorali alle quali partecipò. Nel 2012 è stato l’ex ministro delle Politiche agricole, Francesco Saverio Romano, ad essere assolto dall'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, a novi anni dall’inchiesta della Procura di Palermo. Nel 2020 fu assolto dalla Cassazione l'ex senatore Tommaso Barbato, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. La vicenda era quella relativa l’affidamento degli appalti in somma urgenza per la rete idrica campana tra il 2006 e il 2010: secondo la Direzione distrettuale antimafia, ad essere sistematicamente favorite erano le aziende vicine al clan dei Casalesi, sulla base di un presunto accordo tra Barbato, all'epoca funzionario in Regione nel settore della gestione dei servizi idrici, e Franco Zagaria (poi deceduto), cognato del boss Michele Zagaria. Come non ricordare il caso di Marco Sorbara: arrestato il 23 gennaio 2019 nell'ambito di un'operazione anti ndrangheta in Valle d'Aosta, ex consigliere regionale della Valle d’Aosta venne condannato in primo grado per concorso esterno alla 'ndrangheta. Assolto poi definitivamente dalla Cassazione dopo 900 giorni di custodia cautelare tra carcere e domiciliari. Poi c’è il caso di Giorgio Magliocca: «di processi ne ho subiti 39 e in uno ho dovuto conoscere per 11 mesi l’inferno del carcere preventivo. L’accusa, del resto, non lasciava scampo: concorso esterno in associazione mafiosa. In più, l’essere stato collaboratore del ministro Mario Landolfi e poi in Campidoglio di Gianni Alemanno finì per conferire al mio arresto un clamore altrimenti “immeritato” per un 35enne sindaco di un piccolo paese del Casertano. Ma ne sono uscito a testa alta: assolto «perché il fatto non sussiste». Così come non è sussistito nelle altre 38 volte in cui la giustizia si è occupata di me», ha raccontato sul sito dell’Associazione Italiana Vittime di Malagiustizia. Giuseppe Pagliani, riporta il sito Errorigiudiziari.com, «era consigliere provinciale capogruppo del Pdl a Reggio Emilia. Lo arrestarono con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Fu costretto a passare ventitré giorni dietro le sbarre, prima di ottenere la scarcerazione grazie al Tribunale del Riesame. Solo dopo sette anni di processi, l’assoluzione definitiva con formula piena. E un risarcimento per ingiusta detenzione». Sempre lo stesso sito racconta la vicenda di Rocco Femia. «Arrestato da innocente con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Esposto alla gogna mediatica come referente della ‘ndrangheta. Lui, politico locale stimato, professore di liceo, sportivo provetto, soprattutto persona onesta. Condannato due volte, costretto a dieci anni di calvario, 1825 giorni in carcere e quattro processi prima di arrivare alla verità: era innocente». C’è poi la storia di Giuseppe Gravante, ex consigliere comunale di Castel Volturno. Arrestato con l’accusa di aver favorito uno dei clan più potenti e sanguinari della sua zona. Costretto al carcere da innocente. Alla fine, solo alla fine, assolto e risarcito per ingiusta detenzione. L’ultima vicenda, ma solo per questione di spazio, che ci offre il sito creato dai giornalisti Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi è quella di Rocco Commisso, «38 anni, gestore e istruttore di una scuola guida a Siderno, una passione per le arti marziali e una parentela molto stretta con un personaggio molto noto alle forze dell’ordine - è il figlio del boss Giuseppe Commisso, detto “Il Mastro” - , viene arrestato il 12 maggio 2012. Per questo finisce due anni e mezzo in carcere con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Ma è innocente. 

Cosa è il concorso esterno in associazione mafiosa: il reato che non esiste. La rivolta contro il Guardasigilli: il governo lo sconfessa. Piero Sansonetti su L'Unità il 14 Luglio 2023

C’è una vera e propria rivolta contro il ministro Nordio che ha annunciato di volere correggere (ora si dice: rimodulare) la formulazione del reato di “concorso esterno in associazione mafiosa”. In realtà, chi conosce un poco poco il diritto sa perché questo reato non può essere né corretto, né rimodulato e neppure abolito. Per una ragione semplice e paradossale. Il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non esiste. Ora vedremo perché.

Contro il ministro Nordio, ex magistrato, si è alzato un fuoco di sbarramento. Guidato, come era prevedibile, dal giornale dell’Anm (l’associazione dei magistrati) e cioè dal Fatto quotidiano, seguito a ruota dal suo giornale scialuppa, e cioè Repubblica. La quale alle volte riesce persino ad anticipare il Fatto nelle campagne giustizialiste, ma di solito lo segue a ruota. E dietro ai giornali grillini si è mosso mezzo mondo politico e giornalistico. a partire addirittura dal sottosegretario alla Presidenza del consiglio, Mantovano, che ha sconfessato Nordio (in questo governo c’è la gara a quali ministri vnegono sconfessati più spesso…).

Nordio, pacifico magistrato veneto e anche pacifico ministro che al momento non sembra affatto intenzionato a realizzare nessuna riforma della giustizia, solo per aver detto una cosa ragionevolissima è indicato come l’uomo che vuole aprire le porte alla mafia. Ora il problema non è quello di sostenere una polemica politica o giudiziaria. E’ normale che le polemiche si accendano. Il problema vero è che in Italia ormai è passata una idea di lotta alla mafia che non ha niente a che fare con la legalità e con il diritto. Gran parte della politica italiana, in particolare (e tra poco vedremo perché) la politica di sinistra, immagina che la lotta alla mafia sia una sfera autonoma della politica che non ha niente a che fare con la legge e che deve essere invece affrontata con mezzi e regole militari che pongano il fine (la sconfitta di Cosa Nostra) al di sopra della legittimità dei mezzi (il codice penale). E questo è un problema molto serio, perché questo modo di pensare mette in discussione i pilastri essenziali della dialettica democratica, e inquina la battaglia politica.

Provo a spiegarmi meglio. Tutti coloro che oggi polemizzano con Nordio per la sua dichiarazione sul concorso esterno, non portano a sostegno della loro tesi argomenti giuridici ma argomenti politici. Dicono che in questo modo si indeboliscono le forze impegnate per battere la mafia. Non sono in nessun modo interessati a discutere del merito delle leggi e della loro costituzionalità o addirittura della loro legalità. Così non si costruisce un conflitto politico, si costruisce un conflitto tout court di netto taglio qualunquista. Non a caso il capostipite di questa cultura è Beppe Grillo.

Entriamo nel merito della questione. Il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non esiste nel nostro codice penale. Non tutti lo sanno ma, curiosamente, è così. Le Procure sostengono (e hanno ottenuto un parziale via libera da parte della Cassazione) che il reato è una combinazione di altri reati, e precisamente del reato previsto dall’articolo 110 del codice penale (il reato di concorso) con il reato previsto dall’articolo 416 bis (associazione mafiosa). Però esiste anche l’articolo 1 del codice penale, che è il più importante visto che è stato messo in testa al codice, il quale dice testualmente così: “ Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da esse stabilite”. Ora una cosa è assolutamente sicura: il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non è previsto da nessuna legge e nessun articolo del Codice stabilisce una pena per chi lo commetta.

Voi capite che non è un problema piccolo. Ma forse l’aspetto più drammatico di questa faccenda non sta neanche nel fatto che alcune persone siano state condannate per questo reato, ma invece nella circostanza che, in assenza di una precisa definizione giuridica del reato, i magistrati lo interpretano a propria discrezione e lo usano, di solito (diciamo pure: quasi sempre) solo quando non riescono a trovare a carico della persona che hanno preso di mira una imputazione ragionevole e provabile. Se l’inquisito risulta evidentemente privo di responsabilità su altri reati, gli si addebita il reato fantasma.

Qual è il ragionamento che sta dietro questa pratica (ed il motivo per il quale questa pratica piace parecchio a una bella fetta dell’opinione pubblica)? Il ragionamento è questo: un magistrato che raggiunge la convinzione che una tale persona sia mafiosa, e non riesce però a trovare le prove, ha la via d’uscita di attribuirgli il reato di concorso esterno. Non solo, ma l’imputazione di concorso esterno ha il vantaggio di permettere l’arresto, anche molto prolungato, e quindi di consentire fortissime pressioni offrendo la liberazione in cambio di una buona confessione e di una chiamata di correo. Voi capite che se poi l’indiziato è davvero mafioso, è un bel colpo alla mafia, e se invece non lo è si tratta di un piccolo danno collaterale che la società può controllare.

Questo modo di pensare, assolutamente maggioritario prima della rivoluzione francese, e prima di Montesquieu e di qualche altro filosofo forse un po’ troppo liberal, sta tornando ad essere largamente maggioritario. Qualcuno, alla mia citazione di Montesquieu, mi ha fornito una risposta geniale: “ma a quei tempi, e perdipiù in Francia, non esisteva la mafia”. Sembra una battuta ma non lo è. E’ un pensiero profondo. La battaglia per la sicurezza non deve rispondere ai principi fermi del diritto, deve rispondere alle opportunità del momento. La sicurezza è sopra il diritto e uno stato moderno deve fondarsi sulla sicurezza, non sul diritto.

Detto questo, e prima di tornare sull’irriformabilità di una legge che non esiste, facciamo un breve accenno alla natura e all’origine del reato associativo. Siamo, in Italia, poco dopo la metà dell’800. I piemontesi avevano conquistato il Sud ma alcune brigate di ribelli, armati, si opponevano. I piemontesi lio chiamavano i briganti ma non riuscivano a sconfiggerli. Allora furono varate le famose leggi Pica (che mi pare fosse il nome del ministro dell’Interno) che risalgono al 1863, le quali oltre a stabilire varie misure orribilmente repressive, stabilirono che esisteva il reato di associazione (non riferibile necessariamente al compimento di un reato specifico) che permetteva di rastrellare e punire interi villaggi. Diciamo pure: una infamia imperialista. Poi l’Italia ha finito per unirsi davvero, il brigantaggio è finito, la legge è rimasta.

Bene, su questa legge si è innestata la follia – follia persino grammaticale – del concorso esterno, che stabilisce che tu puoi essere colpito anche se non fai parte di una associazione mafiosa perché io -io Pm – penso che comunque la guardi con simpatia. Ora,cerchiamo di essere chiari: Nordio non può abolire questo reato, perché il reato non esiste. Può fare solo una cosa: istituirlo. E questa credo che sia la più grande minaccia per le associazioni della cosiddetta “antimafia militante”. Perché se il Parlamento istituisse il reato dovrebbe dargli dei confini e cadrebbe la discrezionalità dei Procuratori. I Procuratori e i Pm quello e solo quello vogliono: discrezionalità e potere assoluto. Se il concorso esterno dovesse diventare reato vero e proprio perderebbero tutto.

Può diventare reato vero e proprio? Beh, se mantiene questo nome resta in conflitto permanente con la lingua italiana, che esclude che una persona sia esterna ad una associazione e possa essere condannato perchè considerato interno. Nella formulazione “concorso esterno”, a rigor di logica, c’è già la motivazione dell’assoluzione. Però Nordio potrebbe voler trasformare le due sentenze della Corte Costituzionale (una del 1994 l’altra del 2005) in legge. E istituire il reato di concorso esterno. Specificandolo, “modulandolo” e dandogli dei confini. Rendendolo una legge dello Stato e riportandolo nei confini della legalità. Oggi chi adopera quel reato e condanna delle persone commette un atto illegale. Dicono che il reato sia di formazione “giurisprudenziale”.

Ma i reati non lo decide la giurisprudenza, la giurisprudenza li studia. Nella costruzione democratica basata sulla distinzione dei poteri i reati può deciderli solo il Parlamento. Il potere rappresentativo. Nordio ha l’occasione per rimettere in regola le cose e trarre molti magistrati fuori dell’illegalità. Del resto fu un grande magistrato impegnatissimo nella lotta alla mafia, Pierluigi Vigna, che nel 2002 spiegò che quel reato non poteva restare aleatorio e in mano alla discrezionalità dei Pm e che andava codificato. Ed esiste un testo di legge che istituisce il nuovo reato scritto di suo pugno.

Ps. Perché la sinistra finisce sempre per schierarsi coi nemici dello Stato di diritto? Credo essenzialmente per un vecchio riflesso. La tendenza a ripetere formule e slogan del passato. Negli anni 60 fare antimafia non era un mestiere redditizio come è ora. La stampa e la Tv davvero negavano l’esistenza della mafia e coprivano le relazioni pericolose tra mafia e politica. Il Pci fu quasi l’unico partito che tentava di opporsi. E insieme al Pci, piccoli gruppi di magistrati davvero coraggiosi. Che perlopiù, oltretutto (ma questo non si sa) erano fortemente garantisti. Come Cesare Terranova. Oggi gli eredi del Pi ripetono un po’ a pappagallo formule politiche di allora, senza accorgersi che in questo modo fanno un danno e non un favore alla democrazia.

Ps. 2 Intervenire sul reato di concorso esterno in associazione mafiosa è un’offesa a Falcone? Come dice la sorella del giudice Falcone e anche il fratello di Borsellino, che però in quegli anni non erano impegnatissimi sul fronte del contrasto alla mafia. Beh, non è così. Falcone utilizzò l’idea del concorso esterno quando era giudice istruttore, cioè col vecchio codice di procedura, che rispondeva a principi del tutto diversi da quelli del nuovo codice.

Oggi le prove non le raccoglie più il giudice istruttore Falcone è stato l’ultimo grande giudice istruttore), le prove si formano al processo. Esiste un libro che si chiama “Interventi e proposte” e che raccoglie tutti gli interventi pubblici di Falcone nel decennio 82-92. Bene, in uno di questi interventi Falcone spiegò che con il nuovo codice il reato di concorso esterno non era più configurabile. Disse di più: mise in discussione la compatibilità tra muovo codice e reato associativo. Bisogna conoscerlo Falcone, non basta gridare il suo nome.

Piero Sansonetti 14 Luglio 2023

Filippo Facci: tutte le menzogne di Travaglio per colpire Carlo Nordio. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 14 luglio 2023

Quelle che seguono sono parole dette, scritte, stampate e ristampate di Giovanni Falcone sul reato di concorso esterno in associazione mafiosa: «La Legge La Torre (416 bis), studiata per perseguire specificamente il fenomeno mafioso e per porre rimedio alla mancanza di prove, dovuta alla limitata collaborazione dei cittadini e alla difficoltà intrinseca nei processi contro mafiosi di ottenere testimonianze, non sembra abbia apportato contributi decisivi nella lotta alla mafia. Anzi, vi è il pericolo che si privilegino discutibili strategie intese a valorizzare ai fini di una condanna, elementi sufficienti solo per aprire un’inchiesta».

Verrebbe da chiuderla qui, con le parole di Falcone nel libro «Cose di Cosa Nostra» (Rizzoli 1991) che è il longseller sulla mafia più venduto della storia: se non fosse che, oggi, ci sono personaggi che dicono giusto il contrario: «Smantellare il concorso esterno in associazione mafiosa come annunciato da Nordio», ha detto Salvatore Borsellino, di professione fratello e testimonial, «vuole dire sconfessare apertamente la legislazione voluta da Falcone e Borsellino». Questa sciocchezza è stata detta a Repubblica, ma, anche sul Fatto Quotidiano, la morale si riaggiornava nell’editoriale di ieri: «Sta alla Meloni decidere se la sua destra è quella di Borsellino o quella di Berlusconi». Ma è storia vecchia: già il 9 marzo 2012, sullo stesso argomento, Il Fatto titolò «Bocciato Falcone» quando il concorso esterno per mafia fu messo in discussione.

Ma Falcone e Borsellino, per così com’è ora, di quel reato non ne fecero mai uso: ciò che nel resto d’Occidente chiamano «favoreggiamento» (magari aggravato) a cavallo degli anni Novanta fu loro sufficiente a imbastire il Maxiprocesso che inchiodò centinaia di mafiosi grazie a prove imperniate su migliaia di testimonianze e su migliaia di riscontri inappuntabili; il 17 luglio 1987 c’era la firma di Falcone in una delle prime sentenze che prefiguravano il concorso esterno in associazione mafiosa, è vero, e nell’ordinanza del cosiddetto «maxi-ter» il giudice si pose effettivamente «il problema dell’ipotizzabilità del delitto di associazione mafiosa anche nei confronti di coloro che non sono uomini d’onore, sulla base delle regole disciplinanti il concorso di persone nel reato» (Tribunale di Palermo, Ufficio Istruzione, 1987, p. 429) ma, nei fatti, Falcone e Borsellino non si sognarono mai di contestare questo reato da solo, senza un corollario di altre e individuate ipotesi.

GIURISPRUDENZA CREATIVA

Poi sappiamo, i due giudici furono ammazzati e in nome di una molto presunta «continuità», rivendicata dai «caselliani» di Palermo dal 1993, una giurisprudenza creativa fece sommare due diverse ipotesi di reato: il «concorso» previsto dall’art.110 e poi l’«associazione mafiosa» prevista dall’art. 416 bis. La magistratura, in pratica, da sola, ritenne di dover colmare una lacuna legislativa, e creò una configurazione generica le cui applicazioni saranno continuamente riplasmate da varie sentenze della Cassazione: questo a dispetto dei supposti «principi molto rigorosi» con cui le Sezioni unite della Suprema Corte cercheranno più volte di disciplinarla.

Ne venne fuori un mostriciattolo giuridico - si perdoni la necessaria parentesi tecnica- che doveva realizzarsi quando una persona pur non inserita in una struttura mafiosa svolga un’attività anche di semplice intermediazione utile a questa struttura; le sezioni unite della Cassazione, il 5 ottobre 1994, dapprima la misero giù così: il concorso doveva riguardare «quei soggetti che, sebbene non facciano parte del sodalizio criminoso, forniscano, sia pure mediante un solo intervento, un contributo all’ente delittuoso tale da consentire all’associazione di mantenersi in vita». Ergo, il concorrente esterno doveva aver manifestato una chiara volontà di partecipare all’associazione nella consapevolezza di concorrere a programmi criminali. Il semplice supporto (agevolazione, fiancheggiamento, compartecipazione in un singolo reato) perciò non poteva e doveva bastare. Poi ci fu l’importante sentenza Mannino del 2005, che fece giurisprudenza, come si dice: si stabiliva che il «partecipe» fosse colui che risultasse inserito organicamente in un’associazione mafiosa, «da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status», ma con un «concreto, specifico, consapevole, volontario contributo».

L’opposizione a questo non-reato è sempre stata politicamente trasversale da destra a sinistra. L’abolizione del concorso esterno fu proposta nel 1996 dal diessino Pietro Folena, il quale, poi, malvoluto da Valter Veltroni, lasciò il partito s nel 2005. Poi l’ex sindaco meneghino Giuliano Pisapia, da presidente della Commissione giustizia della Camera, fece una proposta di legge «volta a superare l’equivocità giuridica sull’ipotesi definita “concorso esterno in associazione mafiosa”... una nuova figura di reato non prevista da alcuna norma di legge e in contrasto con il principio di tassatività della norma, che è uno dei cardini dello Stato di diritto». Una norma aberrante che poteva essere contestata anche a medici che avevano curato ritenute mafiose, a sacerdoti che le avevano confessate, a vittime di estorsioni che avevano pagato.

L’OFFENSIVA ANTI-CAV

Nel settembre 2003 fu Silvio Berlusconi a criticare il concorso esterno in associazione mafiosa: l’Unità titolò subito «Contro di noi, contro Falcone» con l’annessa intervista a vari procuratori palermitani (Grasso, Scarpinato, Lo Forte, Natoli) che dipinsero le affermazioni di Berlusconi come «gravemente offensive» nei confronti di Falcone. Poi l’abolizione di questo non-reato fu riproposta dalle commissioni Pagliaro, Grosso e Nordio: ma niente da fare, il leitmotive che risuonava era sempre che cancellare quel «reato» significava fare il gioco della mafia. Nei fatti, non utilizzare quel tipo di reato poteva rivelarsi una carta più credibile: in occasione dell’inchiesta su Salvatore Cuffaro, per esempio, il pm Antonio Ingroia voleva imputare il 416 bis, e però Pietro Grasso, allora capo della Procura, propose il favoreggiamento come arma vincente. Ebbe ragione lui. Non mancheranno giudici che pulendosi accuratamente gli occhiali si limiteranno ad appurare che «il concorso esterno», come legge, non esiste e non esisteva.

Accadrà per esempio a un gup di Catania (gup sta a giudice dell’udienza preliminare) che si chiama Gaetana Bernabò Distefano e che decise di prosciogliere l’editore Mario Ciancio Sanfilippo, appunto dall’accusa di concorso esterno, mettendo nero su bianco, in una sola e scarna paginetta, che «il fatto non è previsto dalla legge come reato», perché in effetti nel Codice non c’è. Una banalità rivoluzionaria. E si arriva all’oggi: il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha partecipato a un dibattito e ha detto che sarebbe necessario «rimodulare» il concorso esterno, ripetendo lo stesso concetto in un’intervista a Libero. Il giorno dopo, il Fatto Quotidiano lo ha accusato di «voler salvare pure i politici mafiosi», titolone di prima pagina. Direttori di giornale, eminenti giuristi e uomini di legge intanto attendono acquattati che il concorso venga «rimodulato» per poter dire, e scrivere, che era ora. 

Concorso esterno (e interno). La normale eccezionalità dei processi per mafia e l’intromissione giudiziaria nella politica. Iuri Maria Prado su L’Inkiesta il 30 Gennaio 2023.

Se ricevere voti mafiosi diventa un indizio di mafiosità, allora tanto vale che il suffragio universale sia abolito in alcune regioni d’Italia e che il potere politico sia affidato direttamente alle Procure della Repubblica

Provare a capire qualcosa di un processo per concorso esterno in associazione mafiosa significa perdersi in un labirinto di vaghezze e inconsistenze in cui a ogni svolta capisci solo che ci stai capendo sempre meno. Ovviamente lungo il percorso trovi tanti cartelli segnaletici, “mafia”, “mafioso”, “sodalizio”, e la narrativa è solitamente ben sceneggiata: ma il fatto specifico che si attribuisce all’indagato ha profili sempre incerti e generici, e l’aver favorito “esternamente” un’associazione di stampo mafioso ricomprende attività e comportamenti così disparati da far arrestare mezza nazione, se solo ci si incaparbisse a perseguirla.

La cosa non preoccuperebbe poi tanto – si fa per dire – se questo tipo di processi costituisse un episodico segno di impazzimento del sistema, l’occasione pur grave ma statisticamente contenuta di uno sfogo giudiziario inopinato in una situazione di generale sorveglianza che lo tiene per quel che è: un assurdo che purtroppo può capitare. Come si sa, non è così: e non solo per consistenza statistica, ma per convinzione comune e celebrazione diffusa quel procedere della giustizia penale è diventato canone. E ancora una volta la cosa non preoccuperebbe poi tanto – si fa ancora per dire – se la regola di questo tipo di processi coinvolgesse le ordinarie attività delle persone, i commerci e le imprese, e non invece anche, ormai forse soprattutto, il corso civile e politico del Paese.  

Ora noi non diciamo che ci sia qualcosa che non va proprio in tutti i processi che portano alla condanna del politico di turno che avrebbe stretto un “patto” per ottenere consenso elettorale mettendosi a disposizione per una varietà di presunte intercessioni. È certo tuttavia che le imputazioni non devono essere troppo cristalline se – come spesso capita – occorrono lustri, e una lunga teoria di giudizi contrassegnati da decisioni contraddittorie, per accertare i fatti che avrebbero reso evidente la responsabilità dell’indagato. Ed è certo che se ricevere voti mafiosi diventa un indizio di mafiosità, allora tanto vale che il suffragio universale in quelle regioni d’Italia sia abolito e che il potere politico sia affidato direttamente alle Procure della Repubblica in un onestissimo sistema antidemocratico. 

La questione va oltre il caso di questo o quel determinato politico e della sentenza che lo colpisce: la questione riguarda il rischio che l’attività politica e la competizione elettorale siano sottoposte all’intermediazione giudiziaria, cosa che con l’accertamento dei reati ha molto poco a che fare.

Indottrinamento e proselitismo.

Le Vittime.

La Val D’Aosta.

Il Piemonte.

La Lombardia.

Il Veneto.

L’Emilia Romagna.

Il Lazio.

La Campania.

La Puglia.

La Basilicata.

La Calabria.

La Sicilia.

Indottrinamento e proselitismo.

Antonio Giangrande: L'Antimafia a scuola. Indottrinamento e proselitismo.

«Fatti non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza» Dante Alighieri.

Inchiesta del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Tutto è rito, e l'antimafia è liturgia. “Non ci interessa la retorica, la liturgia ripetitiva. Perché 24 anni dopo Capaci e 24 dopo via D’Amelio, il rischio c’è. Come per certa antimafia da operetta”. Così Mimmo Milazzo, segretario della Cisl Sicilia, il 21 maggio 2016 a quasi un quarto di secolo dalle stragi mafiose. Era il 23 maggio del 1992 quando un’esplosione devastante mandò per aria, sulla A29 nei pressi di Palermo, la Fiat Croma in cui viaggiavano il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro. Quasi un mese dopo a perdere la vita furono, con Paolo Borsellino, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Agostino Catalano. Un’ecatombe. Ma il cui anniversario, sostiene Milazzo, “non può essere una mera occasione formale, dentro e fuori dal palazzo. L’ennesimo show”.

Baciamo le mani. Maria Corleone e i ridicoli stereotipi delle fiction sulla mafia. Giacomo Di Girolamo su L'Inkiesta il 20 Settembre 2023

Le pecore, ciuri ciuri, la riunione della cupola attorno al tavolo di mogano deluxe, il passato remoto in ogni domanda e l’accento che ormai usano solo i venditori ambulanti di granite. Ci sono tutti i falsi luoghi comuni sulla Sicilia e i mafiosi nel nuovo sceneggiato di Canale 5

L’avranno pensata così.

«Facciamo una fiction sulla mafia, tipo Rosy Abate, ma con un’altra protagonista».

«Mafia, onore, Sicilia, donne: funziona sempre».

«E come la chiamiamo?»

«Il nome più comune? Maria».

«Perfetto. E il cognome … un nome che evochi subito Cosa nostra … Reina? No. Bontade, chi se lo ricorda. Ah… Corleone».

«Ecco, Maria Corleone!».

“Maria Corleone” è il titolo della nuova fiction in programmazione in prima serata su Canale 5. Ed è anche il nome della protagonista.Magari è un omaggio al Padrino, dato che il film capolavoro di Francis Ford Coppola compie quest’anno mezzo secolo. Fece conoscere al mondo la mafia e la famiglia Corleone, con un successo così enorme che ancora oggi alcuni stereotipi sono rimasti duri da sconfiggere perché tutto il globo terracqueo dal 1973 è convinto che la mafia siciliana sia esattamente quella cosa lì: l’onore, il rispetto, il tradimento, la famigghia, i cannoli, le ammazzatine. 

A guardare “Maria Corleone”, sembra di stare dalle parti proprio della parodia (forse è davvero così: la famiglia dei “cattivi” si chiama Barresi, quasi come il Barrese rivale di Don Vito nel film di Coppola). Ma intanto è passato mezzo secolo dal Padrino, sono passati quaranta anni dalla Piovra, e dal Commissario Cattani che svelava la mafia al pubblico televisivo, ma la Sicilia e Palermo rimangono sempre uguali, in un certo tipo di racconto. 

Nel mezzo – dalla Piovra a oggi – in Italia e in Sicilia sono accadute cose: ci sono stati attentati, presunte trattative, mafie capitali e quinte mafie, gomorre e suburre, sequestri e confische, carcere duro e papelli, colletti bianchi e latitanti arrestati. Non c’è più un mafioso in giro a pagarlo oro. 

E certo, sono tutti dentro la grande fiction italiana, a parlare un siciliano con l’accento che ormai usano solo certi attori e i venditori ambulanti di granite, con i verbi alla fine («Meno male che tu muto eri..») e il passato remoto in ogni domanda. 

Già la scena iniziale con le pecore a pascolo e un “Ciuri ciuri” rivisitato, dice tutto. Ma meritano menzione il killer con gli stivali da gringo del New Mexico, la riunione della cupola attorno al tavolo di mogano deluxe, con i boss che brindano «all’interporto e agli americani».

E che dire del padre della protagonista, il Don Vito Corleone della situazione, per intenderci, che di fronte alla figlia che gli confessa di aspettare un figlio (da un magistrato, ahi!), le fa una sola, saggia richiesta: «Il mio primo nipote ava a essere un masculo!». E poi c’è anche un figlio ribelle del capomafia che fa capolino, ed è un militante antimafia (si, è quello che ha capito tutto, il genio della famiglia).

Si aggiornano solamente le trame, cambiano i mestieri (il riscatto della giovane siciliana di famiglia mafiosa passa adesso dal mondo della moda), qualche location. In questo caso la sinossi recita: Maria Corleone è una giovane stilista cresciuta in una famiglia mafiosa che, per realizzare il suo sogno, si è trasferita da Palermo a Milano. Una volta rientrata nella sua città natale, per festeggiare l’anniversario di matrimonio dei suoi genitori, Maria rimane coinvolta in un attentato mafioso, durante il quale viene ucciso il fratello gemello Giovanni. Dopo l’attentato, per difendere l’onore della sua famiglia, inizia a collaborare con i boss della mafia, mettendo in pericolo la vita di suo figlio e del suo compagno, il procuratore Luca Spada.

Ah, i funerali del fratello. Si scava una fossa in un prato verde che neanche nelle canzoni di Gianni Morandi, per seppellire il de cuius. In Sicilia, sembra strano lo so, ma abbiamo i cimiteri, con i loculi, tutti belli giusti, in fila, e certe cappelle che sembrano chiese e pure i forni crematori, alla bisogna, ma negli sceneggiati in tv chi muore, finisce sempre nella fossa. Ma, attenzione, qui, sulla cassa, si getta con la mano un pugno di terra. Come nella tradizione del funerale aristocratico, il rito del funerale more nobilium che pure Wikipedia, già alla prima riga, spiega che «è una forma di cerimoniale funebre riservato ai defunti appartenenti a famiglia nobile, e prevalentemente italiano, fatta eccezione per la Sicilia ove non è usato».

Chissà cosa ne pensano a Corleone, nel senso della città. Quando, un anno fa, era stato annunciato il progetto, il titolo provvisorio era Lady Corleone. Il Nicolosi, aveva subito mandato una diffida alla produzione: «Il collegamento inevitabile con la buia pagina di storia corleonese ha suscitato nella comunità un sentimento di indignazione – aveva scritto – perché nuovamente immersa nella condizione di doversi difendere da immagini poco rappresentative della realtà odierna, ma che evocano un tempo ormai remoto. Da molti anni infatti la città è impegnata in una costante attività antimafia».Il sindaco ha ottenuto solo il cambio di una parola del titolo su due. Da Lady Corleone, a Maria Corleone. 

Piccole dispute a parte, Maria Corleone è stata un discreto successo. La prima puntata è stata vista da due milioni e settecentomila persone, dice l’Auditel, ed è stato il programma più seguito, battendo anche lo speciale su Lucio Battisti. 

Negli stessi giorni in cui debuttava la nuova fiction mafia style di Canale 5, in Sicilia scoppiava la nuova appassionante polemica: nei negozietti di souvenir dei traghetti che fanno la spola sullo Stretto di Messina, infatti, si scopre che sono in vendita le magliette del tizio con la coppola, le calamite «minchia, in Sicilia fui», o quelle con il padrino. Dalla Giunta del presidente della Regione, Schifani,  non hanno perso tempo e hanno chiesto alla compagnia di navigazione di rimuovere le vetrine con quei souvenir: «Questi gadget – dice l’assessore alle attività produttive Edy Tamajo – riportano immagini e scritte che risultano lesive della dignità dei siciliani onesti. Non si può accettare l’idea di rappresentare in questo modo una parodia grottesca e di basso profilo, per attrarre i turisti, consegnando loro un’immagine fortemente negativa della nostra Isola, che allude palesemente alla violenza e alla mafiosità. Dopo stragi, vittime e impegno, per isolare la cultura mafiosa, è triste constatare che i  suoi simboli possano diventare protagonisti, sia pure ironicamente, dei vari souvenir che si offrono ai turisti».

I ninnoli sono stati dunque rimossi e messi in magazzino. La vetrinetta si è liberata. Così adesso magari c’è posto per mettere i gadget di Maria Corleone. 

Storie di anarchici montanari e della loro resistenza. Nel libro “Mio nonno Rocco”, l’anarchico di Casalinuovo Rocco Palamara racconta l’epopea della sua gente. Tutto inizia sulle cime dell’Aspromonte e con un’alluvione... Ilario Ammendolia su L'Unità il 19 Settembre 2023 

Rocco Palamara è un anarchico non più giovane ma mai domato. E ci fu un tempo in cui gli anarchici di Casalinuovo-Africo scrissero pagine di autentica Resistenza battendosi come leoni per la Libertà. Non è stato facile. “Stato” e mafia contro gli anarchici. Rocco fu costretto a combattere per la sua vita e la libertà di azione e si difese… anche con la pistola. Il magistrati (e non era una novità) arrestarono Rocco perché ebbe l’ardire di restare vivo, sebbene ferito, difendendosi dai mafiosi con le armi in pugno.

Oggi, Rocco torna a farsi sentire con un bellissimo libro che parla poco di lui (eppur avrebbe avuto tante cose da dire) ma molto del luogo dove tutto ebbe inizio: le cime dell’Aspromonte. Parte dall’alluvione del 1951 quando si aprirono le cateratte del cielo e l’acqua cadde a catenelle sui monti e sulle case; i torrenti diventarono fiumi, i calanchi cascate di fango. Fu il diluvio che determinò la fine d’uno “ordine delle cose” millenario di Casalinuovo come Africo. Due diverse comunità ma un solo Comune, entrambe fondate da briganti. Si sotterrarono i morti, si curarono i feriti ma restarono e si aggravarono i mali endemici che affiggevano da secoli i casalinoviti: la fame, le malattie, la mortalità infantile, l’analfabetismo.

Eppure, dopo l’alluvione, qualcuno tentò ancora di aggrapparsi alle vecchie pietre, ma lo Stato aveva già stabilito (incontrando la volontà della maggioranza dei casalinoviti) che era tempo di portare in marina i paesi della Granconca (Aspromonte). Iniziò l’esodo. Nel suo libro Mio nonno Rocco, il vecchio anarchico di Casalinuovo parte dall’alluvione per risalire alle generazioni che lo hanno preceduto. Parla con passione e partecipazione ai fatti della sua comunità, la sua penna intinta nel fuoco d’un dramma collettivo, scioglie quei fatti ormai lontani e scolpisce un bassorilievo in cui racconta la piccola, grande epopea della sua gente.

Scompone la comunità in famiglie, cerca di raggrupparle secondo la loro storia affiancando ai cognomi le ingiurie con cui venivano indicate le varie “razze”. Avete capito bene: a Casalinuovo le persone venivano classificati secondo la “razza” di appartenenza associando il cognome all’ingiuria con cui erano noti in paese. La razza, anche ad “Africo nuovo”, serve a stabilire la gerarchia e i malandrini, per legittimare il loro potere, non esitavano ad appellarsi ai loro antenati “drittigni” e mafiosi: “Eu sugnu di tali famigghia… e idu cu cazz’è?”: “Io appartengo ad una famiglia onorata (mafiosa)… e tu chi cazzo sei?”. Rocco viaggia nel passato del suo paese ed il viaggio è così lucido da diventare fotografia di una società con le sue guerre intestine, l’immensa povertà che diventava lotta costante contro la natura ingrata e una storia avversa. Quindi descrive le consuetudini, le faide, il senso dell’onore e i grandi sacrifici per la sopravvivenza.

Centomila fotografie e non c’è una sola da scartare perché nel libro non ci sono pagine inutili o banali. Alcune appartengono alla storia della Calabria come l’eroica resistenza opposta dagli africoti e dai casalnoviti ai francesi. Ancora di più quelle sulle origini della ‘ndrangheta a cui il nonno dell’autore non è stato estraneo. L’onorata società nasce come risposta ad uno Stato ingiusto e nemico. Uno Stato che, a volte, diventa esso stesso mafia; per esempio, durante il fascismo, il governo impone una tassa sulle capre che equivale a cento “mazzette” imposte dalla ndrangheta. Tasse così esose da costringere i pastori a svendere le bestie. Rocco nel suo libro descrive come la mafia diventa anche essa potere e tirannide e come non possa questa essere una valida alternativa ad uno Stato ingiusto.

Non fa sconti alla ndrangheta Rocco Palamara, straccia l’aureola di onore e rispetto che circonda molti ndranghetisti e individua dietro una sottile cortina fumogena, la violenza, la prepotenza, l’avidità, la crudeltà, le bugie dei mafiosi. Un capitolo a sé meriterebbe l’assalto popolare alla caserma dei carabinieri del 1945. Agli occhi degli abitanti della Granconca la caserma non è mai stata presidio di giustizia. E non lo era. Le prepotenze dei militari causarono l’assalto condotto dalle donne e dagli uomini del paese guidati da Santoro Maviglia, un ex ergastolano che si converte all’anarchia e poi al comunismo nel carcere.

I carabinieri furono costretti alla resa. Umiliati. La vicenda stranamente non si conclude con la classica repressione, ma con un banchetto a base di carne di capra a spese dei cittadini e con le autorità dello Stato ospiti di onore. La mediazione tra il popolo dei rivoltosi e lo Stato era stata condotta dalla mafia. È ciò peserà sugli equilibri futuri. Come abbiamo detto, il libro di Rocco Palamara parte dalla montagna e scende dapprima nelle due Bova, dove gli alluvionati vengono sistemati in scomodi accampamenti e poi, finalmente, ad Africo nuovo. Un viaggio durato più di un undici anni. Non è possibile in una recensione seguire passo passo tutte le vicende dell’esodo dei casalnoviti, anche se il viaggio è affascinante e mai banale.

Alla fine giunsero tutti al traguardo, ma il viaggio non riesce a cambiarli anche se ci fu un momento in cui da una parte la scuola e dall’altra l’emigrazione in Germania sembrava avesse la meglio sulle antiche tradizioni e sulla stessa mafia. Il padri vogliono i figli “dottore” e le scuole superiori si riempiono di casalnoviti e africoti. I “germanesi” (emigrati in Germania) guadagnano più con il loro onesto lavoro che un capo ndrangheta con le sue malefatte. È un momento di massima crisi dell’onorata società che tuttavia riesce a riprendersi trasformandosi da arcaica in imprenditoriale, stabilendo solidi rapporti con una parte dello Stato. I casalnoviti erano comunisti convinti, (contrariamente agli africoti guidati da uno strano sacerdote: don Giovanni Stilo) e il simbolo della falce e martello univa la comunità o meglio, era la scelta di una comunità che aveva compreso che per arrivare al traguardo dovevano arrivare uniti sulla antiche regole anche se vecchie di secoli. Cedere, seppur alla modernità, significava smembrarsi e naufragare in un mare ignoto.

Le conclusioni facciamole trarre all’autore : Arrivammo “… alla fine dell’avventura, potendo dire di averla avuta vinta su ogni cosa: sul governo che avrebbe voluto rispedirci in montagna; sull’alluvione della quale ci eravamo serviti per liberarci dalla durezza della vecchia vita; sul grande incendio che accelerò la costruzione delle case; sul sovraffollamento e l’emigrazione che avrebbero disarticolato e disgregato altre comunità ed altre famiglie. Avevamo resistito a tutto e, malgrado la ndrangheta, o forse anche grazie ad essa, mantenuta integra la comunità”. Conclude: “…nulla era cambiato nei nostri usi e mentalità. Come se quei due lustri non fossero mai trascorsi. Rimanevamo i montanari di prima con gli stessi pregi e difetti forgiati in secoli di vita vissuta nella nostra vecchia Casalinuovo. Particolari ed antichi” Non resta che leggerlo questo bel libro di Rocco Palamara che dice più cose di venti libri scritti da antimafiosi di professione.

Ilario Ammendolia 19 Settembre 2023

Meritare l'Europa: le voci degli studenti sui temi d'attualità. Siamo figli della nostra storia, degli uomini e delle donne che hanno combattuto e combattono la mafia. La storia della mafia è quella di un attacco al cuore dello Stato. Ma è ancora più potente e struggente la storia di chi ha combattuto e di chi combatte tutt’oggi contro la mafia. Martino Bertocci - studente di Meritare l'Europa su Il Riformista il 19 Settembre 2023 

Una parte del paese fa fatica ad accettare che si parli di identità nazionale. È un tema percepito come di destra e divisivo, quando invece rappresenta ciò che tiene unita la nazione. Definire chi siamo noi italiani è un’operazione complessa: l’identità collettiva, studiata da antropologi e sociologi, si basa su un patrimonio di modelli culturali comuni, ma non si può certo considerare stabile nel tempo e ben definita, bensì soggetta a continui mutamenti e contaminazioni.

Al di là della definizione, credo che ogni cittadino in ogni paese si senta unito all’altro anche per la storia del paese stesso: la nostra identità è fatta dalle storie delle persone che hanno fatto la storia.

Lo spunto per affermare questo nasce dalla scuola di formazione Meritare l’Europa svoltasi a Palermo, quando abbiamo parlato di legalità e mafia. Abbiamo riflettuto e messo in moto idee e pensieri. La storia della mafia è quella di un attacco al cuore dello Stato. Ma è ancora più potente e struggente la storia di chi ha combattuto e di chi combatte tutt’oggi contro la mafia.

Alla scuola abbiamo ricordato coloro i quali sono morti per un’idea, per la nazione, uccisi a pochi passi da dove eravamo, per mano mafiosa. Pensiamo a Falcone, a Borsellino, alle loro scorte, a Piersanti Mattarella, al Generale Dalla Chiesa, a Peppino Impastato e ai molti altri. Sono tutti parte di noi, della nostra identità come cittadini di questa nazione. Noi siamo figli di queste storie, di questi uomini e donne.

Oltre al tema della lotta alla mafia, abbiamo poi fatto una riflessione altrettanto profonda ed emozionante sull’immigrazione, pensando a quel ragazzo giovanissimo che è morto annegato arrivando in Italia e il cui corpo è stato ritrovato con la pagella cucita nella sua giacca. Anche recuperare i corpi annegati fa parte della nostra identità, con anni di civiltà alle spalle, fin dai tempi dei greci, che consideravano di primaria e sacrale importanza dare sepoltura ai morti.

Ce lo insegna Antigone, ma anche Priamo che va a reclamare da Achille il corpo di Ettore. Al di là del mito, pensando a queste cose un brivido corre ancora ora tra le braccia e la schiena. Sono queste storie che rafforzano il senso di comunità e danno senso a quell’insieme. Perché parlano di noi, di chi siamo, cosa siamo stati e di dove andiamo: sono noi stessi. Martino Bertocci - studente di Meritare l'Europa

Liberi di scegliere, un futuro diverso per madri e figli che dicono no alla mafia. Francesca Barra su L'espresso il 24 agosto 2023

Le donne sono centrali nelle organizzazioni criminali. Quelle che decidono di allontanarsene spesso non sanno a chi rivolgersi. Perciò esiste un protocollo per proteggerle e sostenerle, senza necessità che collaborino. La testimonianza della magistrata Alessandra Cerreti

La mafia non è stata sconfitta. Le donne continuano a rivestire ruoli centrali nelle organizzazioni criminali e chi decide di non farne parte o di voler abbandonare la famiglia mafiosa, di smettere di essere schiava, di essere minacciata e obbligata a far rispettare i codici malavitosi e spesso a compiere reati a sua volta, non sempre sa a chi rivolgersi.

Alessandra Cerreti, sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano, è una donna impegnata in prima linea da anni anche con il protocollo “Liberi di scegliere”, un progetto che assicura alle donne e ai minori abusati una concreta e diversa scelta di vita.

«Funziona: il protocollo è operativo dal 2013 e sinora al Sud si sono verificati più di ottanta casi in cui è stato adottato con esiti prevalentemente positivi. È meno noto al Nord, anche se a Milano lo abbiamo già applicato a una donna coniugata con un appartenente a Cosa Nostra siciliana. Se ne parla poco, perché, in generale, si parla meno di mafia, soprattutto al Nord. Il binomio donne e mafia è considerato un sub-tema. Tuttavia, queste ultime non sono sparite: anche nel Milanese, le nostre indagini rilevano vari ruoli delle donne che possono anche essere apicali».

Sono spietate, vendicatrici, vengono reclutate da altri settori criminali, diventano prestanomi e, una volta accertata la loro fedeltà, ambiscono a ottenere un upgrade: diventare un capo mafia. Al Nord le associazioni mafiose operano con modalità a volte differenti: la cellula mafiosa può essere composta da non appartenenti alla famiglia naturale, cosa più insolita nel meridione d’Italia. Hanno più bisogno di trovare soggetti esterni e li individuano in donne dedite al narcotraffico, all’estorsione, alla raccolta dei soldi, con un ruolo di controllo e di disciplina degli adepti. Vengono informalmente affiliate senza bisogno di rituali, con un’investitura di fatto».

Molte donne che hanno deciso di pentirsi o di diventare testimoni di giustizia lo fanno per proteggere i propri figli da un destino già scritto, ma i figli vengono anche utilizzati come ricatto da parte della famiglia per impedire alle madri di allontanarsi, di testimoniare. È l’aspetto più debole, ma al contempo può diventare una forza «perché genera quel desiderio di staccarsi per dare loro un futuro di libertà. Proprio a questo mira il protocollo: un passo in avanti rispetto all’ordinaria protezione dello Stato prevista per collaboratrici e testimoni di giustizia. Aiuta una donna ad andare via anche senza dover dichiarare nulla. Questa è la differenza eccezionale: la proteggeremo anche se non sa nulla o se non vuole parlare. La donna e il minore verranno protetti in una struttura, che li accoglierà con il prezioso supporto di “Libera contro le mafie”, con i medici, gli psicologi, gli insegnanti».

I minori spesso sono in pericolo: subiscono un indottrinamento sui valori mafiosi, vengono utilizzati per recapitare ambasciate al papà latitante e ricevono una contro-educazione senza conoscere un’alternativa. I rapporti tra la famiglia d’origine e il minore saranno ugualmente garantiti, ma protetti, come con i genitori che abusano o maltrattano e, a diciotto anni, una volta acquisiti strumenti culturali adeguati e non più crescendo in una bolla, potranno scegliere con libertà e maggiore consapevolezza. Liberi di scegliere diversamente.

Scuola ed antimafia, scrive Franca De Mauro. Franca De Mauro è figlia di Mauro De Mauro e nipote di Tullio De Mauro, Linguista e Ministro della Pubblica Istruzione. C’è un equivoco che ricorre frequentemente sia all'interno della scuola, e questo è grave, sia all'esterno: cioè che noi insegnanti si faccia educazione alla legalità soltanto quando, per un motivo contingente, affrontiamo un tema, per così dire, monografíco: la storia della mafia, mafia e latifondismo in Sicilia, la vita di Peppino Impastato, di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, di Placido Rizzotto, di Pio La Torre... ahimè, l'elenco potrebbe essere anche più lungo. Ma noi insegnanti, questo è il mio parere, facciamo educazione alla legalità quando facciamo nostre le dieci tesi di educazione linguistica, quando, cioè, insegniamo ai nostri alunni a muoversi da protagonista all'interno dell'universo della comunicazione. Quando insegniamo ad ascoltare e comprendere, a leggere e comprendere, a parlare e scrivere con chiarezza nelle diverse situazioni comunicative e con scopi diversi. Solo allora saranno in grado di scegliere. Perché se ci limitiamo a proporre argomenti antimafia, e non diamo loro il possesso della lingua, noi conosceremo diecimila vocaboli e saremo liberi, loro ne conosceranno sempre mille e saranno schiavi. Saremo sempre noi a scegliere per loro. Sceglieremo, giustamente, un impegno per la legalità, ma saremo noi a scegliere, non loro. E, uscendo dalla scuola, i ragazzi, così come dimenticano immediatamente date, fatti, personaggi, letture, dimenticheranno quanto diciamo sulla legalità. E dovremo registrare di non aver neanche scalfito il consenso sociale verso la mafia, di non avere intaccato la cultura mafiosa. Ma se daremo agli alunni gli strumenti linguistici per capire un articolo di giornale, il discorso di un politico, un volantino sindacale, il telegiornale, la Costituzione, forse il loro impegno per la legalità sarà più concreto e duraturo. La cultura facilita scelte etiche, non le rende immediate, me ne rendo conto: certo 'don Rodrigo aveva più cultura di Renzo, Andreotti più di un operaio che vendeva il suo voto per un pacco di pasta... però se Renzo, se quell'operaio avessero avuto gli strumenti per difendersi da angherie, raggiri, soprusi, per lottare contro l'illegalità... per loro le cose sarebbero andate meglio. In un'epoca in cui le grandi ideologie, l'aggregazione politica non esistono quasi più, in cui la Tv spazzatura è il modello di riferimento culturale per moltissimi, dare agli alunni gli strumenti per comprendere, per smascherare promesse messianiche, ideali di ricchezza facile e veloce, questo diventa la vera scommessa della scuola per la legalità.

Istruzione o Indottrinamento? Scrive David Icke. L‘istruzione esiste allo scopo di programmare, indottrinare e inculcare un convincimento collettivo, in una realtà che ben si addica alla struttura del potere. Si tratta di subordinazione, di mentalità del…non posso, e del non puoi, perché è questo ciò che il sistema vuole che ciascuno esprima nel corso nel proprio viaggio verso la tomba. Ciò che noi chiamiamo istruzione non apre la mente: la soffoca. Così come disse Albert Einstein, “l’unica cosa che interferisce con il mio apprendimento, è la mia istruzione.” Egli disse anche che “l’istruzione è ciò che rimane dopo che si è dimenticato tutto quanto si è imparato a scuola”. Perché i genitori sono orgogliosi nel vedere che i loro figli ricevono degli attestati di profitto per aver detto al sistema esattamente quanto esso vuole sentirsi dire? Non sto dicendo che le persone non debbano perseguire la conoscenza ma – se qui stiamo parlando di libertà – noi dovremmo poterlo fare alle nostre condizioni, non a quelle del sistema. C’è anche da riflettere sul fatto che i politici, i funzionari del governo e ancora giornalisti, scienziati, dottori, avvocati, giudici, capitani di industria e altri che amministrano o servono il sistema, invariabilmente sono passati attraverso la stessa macchina creatrice di menti (per l’indottrinamento), cioè l’università. Triste a dirsi. Molto spesso si crede che l’intelligenza e il passare degli esami siano la stessa cosa.

Giuseppe Costanza ha deciso di parlare perché a suo parere troppi lo fanno a sproposito. C' è un uomo che più di altri avrebbe titolo a dire qualcosa sull'apparizione di Riina junior in Rai e sulla lotta alla mafia in generale. È Giuseppe Costanza, l'autista di Giovanni Falcone negli ultimi otto anni di vita del magistrato, dal 1984 fino al 23 maggio 1992. Costanza era a Capaci, scrive Alessandro Milan per “Libero Quotidiano” il 18 aprile 2016. Di più, Costanza era a bordo della macchina guidata da Falcone e saltata in aria sul tritolo azionato da Giovanni Brusca. Eppure in pochi lo sanno. Perché per quei paradossi tutti italiani, e siciliani in particolare, da quel giorno Costanza è stato emarginato. Non è invitato alle commemorazioni, pochi lo ricordano tra le vittime. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, di essere suo ospite a cena in Sicilia e ho ricavato la sensazione di trovarmi di fronte a qualcuno che è stato più del semplice autista di Giovanni Falcone: forse un confidente, un custode di ricordi e, chissà, uno scrigno di segreti. Che però Costanza dispensa col contagocce: «Perché un conto è ciò che penso, un altro è ciò che posso provare». Un particolare mi colpisce del suo rapporto con Falcone: «Il dottore - Costanza lo chiama così - aveva diritto a essere accompagnato in macchina, oltre che da me, dal capo scorta. Ma pretendeva che ci fossi solo io».

Perché non si fidava di nessun altro?

«Quale altro motivo ci sarebbe?».

Cominciamo da Riina a "Porta a Porta"?

«Mi sono rifiutato di vederlo. Solo a sapere che questo soggetto era stato invitato da Bruno Vespa mi ha dato il voltastomaco. Vespa qualche anno fa ha invitato pure me, mi ha messo nel pubblico e non mi ha rivolto una sola domanda. Ora parla con il figlio di colui che ha cercato di uccidermi. I vertici della Rai dormono?».

Cosa proponi?

«Lo Stato dovrebbe requisire i beni che provengono dalla vendita del libro di Riina. Questo si arricchisce sulla mia pelle».

Lo ha proposto la presidente Rai Monica Maggioni.

«Meno male. Ma tanto non succederà nulla. D'altronde sono passati 24 anni da Capaci senza passi avanti».

Su che fronte?

«Hanno arrestato la manovalanza di quella strage. Ma i mandanti? Io un'idea ce l'ho».

Avanti.

«Presumo che l'attentato sia dovuto al nuovo incarico che Falcone stava per ottenere, quello di Procuratore nazionale antimafia».

Ne sei convinto?

«Una settimana prima di Capaci il dottore mi disse: "È fatta. Sarò il procuratore nazionale antimafia"».

Questa è una notizia.

«Ma non se ne parla».

Vai avanti.

«Se lui avesse avuto quell'incarico ci sarebbe stata una rivoluzione. Sempre Falcone mi disse che all' Antimafia avrebbe avuto il potere, in caso di conflitti tra Procure, di avocare a sé i fascicoli. Chiediti quali poteri ha avuto il Procuratore antimafia in questi anni. E pensa quali sarebbero stati se invece fosse stato Falcone».

Chi non lo voleva all'Antimafia?

«Forse politici o faccendieri. Gente collusa. Ma queste piste non le sento nominare».

Torniamo ai mandanti.

«L'attentato a Palermo è un depistaggio, per dire che è stata la mafia palermitana. Sì, la manovalanza è quella. Ma gli ordini da dove venivano? Ti racconto un altro particolare. Io personalmente, su richiesta di Falcone, gli avevo preparato una Fiat Uno da portare a Roma. E lui nella capitale si muoveva liberamente, senza scorta. Se volevano colpirlo potevano farlo lì, senza tutta la sceneggiata di Capaci. Ricorda l'Addaura».

21 giugno 1989, il fallito attentato all'Addaura. Viene trovato dell'esplosivo vicino alla villa affittata da Falcone.

«Io c'ero».

All'Addaura?

«Sì, ero lì quando è intervenuto l'artificiere, un carabiniere. Eravamo io e lui. Lui ha fatto brillare il lucchetto della cassetta contenente l'esplosivo con una destrezza eccezionale. Poi ha dichiarato in tribunale che il timer è andato distrutto. Ha mentito. Io ho testimoniato la verità a Caltanissetta e lui è stato condannato».

Invece come è andata?

«L'esplosivo era intatto. Lo avrà consegnato a qualcuno, non chiedermi a chi. Evidentemente lo ha fatto dietro chissà quali pressioni».

Falcone aveva sospetti dopo l'Addaura?

«Parlò di menti raffinatissime. Io posso avere idee, ma non mi va di fare nomi senza prove. Attenzione, io non generalizzo quando parlo dello Stato. Ma ci sono uomini che si annidano nello Stato e fanno i mafiosi, quelli bisogna individuarli».

23 maggio 1992: eri a Capaci.

«Ma questo agli italiani, incredibilmente, non viene detto. Quella mattina Falcone mi chiamò a casa, alle 7, comunicandomi l'orario di arrivo. Io allertai la scorta. Solo io e la scorta in teoria sapevamo del suo arrivo».

Cosa ricordi?

«Falcone, sceso dall'aereo, mi chiese di guidare, era davanti con la moglie mentre io ero dietro. All'altezza di Capaci gli dissi che una volta arrivati mi doveva lasciare le chiavi della macchina. Lui istintivamente le sfilò dal cruscotto, facendoci rallentare. Lo richiamai: "Dottore, che fa, così ci andiamo ad ammazzare". Lui rispose: "Scusi, scusi" e reinserì le chiavi. In quel momento, l'esplosione. Non ricordo altro».

Perché la gente non sa che eri su quella macchina?

«Mi hanno emarginato».

Chi?

«Le istituzioni. Ti sembra giusto che la Fondazione Falcone non mi abbia considerato per tanti anni?».

La Fondazione Falcone significa Maria Falcone, la sorella di Giovanni.

«Io non la conoscevo».

In che senso?

«Negli ultimi otto anni di vita di Giovanni Falcone sono stato la sua ombra. Ebbene, non ho mai accompagnato il dottore una sola volta a casa della sorella. Andavamo spesso a casa della moglie, a trovare il fratello di Francesca, Alfredo. Ma mai dalla sorella».

Poi?

«Lei è spuntata dopo Capaci. Ha creato la Fondazione Falcone e fin dal primo anno, alle commemorazioni, non mi ha invitato».

Ma come, tu che eri l'unico sopravvissuto, non eri alle celebrazioni del 23 maggio 1993?

«Non avevo l'invito, mi sono presentato lo stesso. Mi hanno allontanato».

È incredibile.

«Per anni non hanno nemmeno fatto il mio nome. Poi due anni fa ricevo una telefonata. "Buongiorno, sono Maria Falcone". Mi ha chiesto di incontrarla e mi ha detto: "Io pensavo che ognuno di noi avesse preso la propria strada". Ma vedi un po' che razza di risposta».

E le hai chiesto perché non eri mai stato invitato prima?

«Come no. E lei: "Era un periodo un po' così. È il passato". Ventitré anni e non mi ha mai cercato. Poi quando ho iniziato a denunciare il tutto pubblicamente mi invita, guarda caso. Comunque, due anni fa vado alle celebrazioni, arrivo nell'aula bunker e scopro che manca solo la sedia con il mio nome. Mi rimediano una seggiola posticcia. Mi aspettavo che Maria Falcone dicesse anche solo: "È presente con noi Giuseppe Costanza". Niente, ancora una volta: come se non esistessi».

L' emarginazione c'è sempre stata?

«Un anno dopo la strage di Capaci sono rientrato in servizio alla Procura di Palermo ma non sapevano che cavolo farsene di un sopravvissuto. Così mi hanno retrocesso a commesso, poi dopo le mie proteste mi hanno ridato il quarto livello, ma ero nullafacente».

Per l'ennesima volta: perché?

«Ho avuto la sfortuna di sopravvivere».

Come sfortuna?

«Credimi, era meglio morire. Avrei fatto parte delle vittime che vengono giustamente ricordate ma che purtroppo non possono parlare. Io invece posso farlo e sono scomodo. Diciamola tutta, questi presunti "amici di Falcone" dove cavolo erano allora? Ma chi li conosce? Io so chi erano i suoi amici».

Chi erano?

«Lo staff del pool antimafia. Per il resto attorno a lui c'era una marea di colleghi invidiosi. Attorno a lui era tutto un sibilìo».

Tu vai nelle scuole e parli ai ragazzi: cosa racconti di Falcone?

«Che era un motore trainante. Ti racconto un episodio: lui viveva in ufficio, più che altro, e quando il personale aveva finito il turno girava con il carrellino per prelevare i fascicoli e studiarli. Questo era Falcone».

È vero che amava scherzare?

«A volte raccontava barzellette, scendeva al nostro livello, come dico io. Però sapeva anche mantenere le distanze».

Tu hai servito lo Stato o Giovanni Falcone?

«Bella domanda. Io mi sentivo di servire lo Stato, che però si è dimenticato di me. E allora io mi dimentico dello Stato. L'ho fatto per quell' uomo, dico oggi. Perché lo meritava. È una persona alla quale è stato giusto dare tutto, perché lui ha dato tutto. Non a me, alla collettività».

Il presidente Mattarella non ti dà speranza?

«Io spero che il presidente della Repubblica mi conceda di incontrarlo. Quando i miei nipoti mi dicono: "Nonno, stanno parlando della strage di Capaci, ma perché non ti nominano?", per me è una mortificazione. Io chiederei al presidente della Repubblica: "Cosa devo rispondere ai miei nipoti?"».

Questo silenzio attorno a te è un atteggiamento molto siciliano?

«Ritengo di sì. Fuori dalla Sicilia la mentalità è diversa. Devo dire anche una cosa sul presidente del Senato, Piero Grasso».

Prego.

«Di recente, a Ballarò, presentando un magistrato, un certo Sabella, come colui che ha emanato il mandato di cattura per Totò Riina, mi indicava come "l'autista di Falcone".

Ma come si permette questo tizio? Io sono Giuseppe Costanza, medaglia d'oro al valor civile con un contributo di sangue versato per lo Stato e questo mi emargina così? "L'autista" mi ha chiamato. Cosa gli costava nominarmi?».

Costanza, credi nell' Antimafia?

«Non più. Inizialmente dopo le stragi c'è stata una reazione popolare sincera, vera. Poi sono subentrati troppi interessi economici, è tutto un parlare e basta. Noi sopravvissuti siamo pochi: penso a me, a Giovanni Paparcuri, autista scampato all' attentato a Rocco Chinnici, penso ad Antonino Vullo, unico superstite della scorta di Paolo Borsellino. Nessuno parla di noi».

Il 23 maggio che fai?

«Mi chiudo in casa e non voglio saperne niente. Vedo personaggi che non c'entrano nulla e parlano, mentre io che ero a Capaci non vengo nemmeno considerato. Questa è la vergogna dell'Italia».

Non li voglio vedere, scrive Salvo Vitale il 22 maggio 2016. Stanno preparando il vestito buono per la festa. Passeranno la notte a lustrarsi le piume. E domani, l’uno dopo l’altro, con una faccia che definire di bronzo è un eufemismo, correranno da una parte all’altra della penisola cercando i riflettori della tivvù, il microfono dei giornalisti, per inondarci della loro vomitevole retorica su twitter, facebook, e in ogni angolo della rete; loro, tutti loro, gli assassini di Giovanni Falcone, della moglie, e dei tre agenti della sua scorta, saranno proprio quelli che ne celebreranno la memoria. Firmandola. Sottoscrivendola. Faranno a gara per raccontarci come combattere ciò che loro proteggono. Spiegheranno come custodire l’immensa eredità di un magistrato coraggioso; loro, proprio loro che ne hanno trafugato il testamento, alterato la firma, prodotto un perdurante falso ideologico che ha consentito ai loro partiti di rinverdire i fasti di un eterno potere. Li vedremo tutti in fila, schierati come i santi. Ci sarà anche chi oserà versare qualche calda lacrima, a suggello e firma dell’ipocrisia di stato, di quel trasformismo vigliacco e indomabile che ha costruito nei decenni la mala pianta del cinismo e dell’indifferenza, l’humus naturale dal quale tutte le mafie attive traggono i profitti delle loro azioni criminali. Domani, non leggerò i giornali, non ascolterò le notizie, non seguirò i telegiornali, e men che meno salterò come una pispola allegra da un mi piace all’altro su facebook a commento di striscette melense e ipocrite che inonderanno la rete con una disgustosa ondata di piatta e ipocrita demagogia. Domani, uccideranno ancora Giovanni Falcone, sua moglie e la sua scorta. E io non voglio farne parte.

E un altro giorno di Borsellino è andato, scrive Luca Josi per “Il Fatto Quotidiano” il 21 luglio 2015. Stormi di parole alate, visi contriti, rugiada di lacrime. Qualche minuto, una crocetta sopra, e la terra ha continuato il suo giro intorno al sole. Ci si rivede l'anno prossimo per ascoltare nuove cronache sudate di dolore, impregnate di partecipazione e narrazione per "sensibilizzare i cittadini e non dimenticare". Bene. Tra i sacerdoti laici chiamati a celebrare il rito e la liturgia della memoria, la Rai. Sostenuta dal nostro canone per onorare il contratto di servizio con lo Stato la Rai dovrebbe informare gli italiani così da contribuire al loro crescere civile; nello Stato appunto. Molto bene. Parafrasando l'audizione de "La primula rossa di Corleone" alla Commissione Antimafia - quella in cui l'interrogato in merito all'esistenza della mafia, rispose: "Se esiste l'antimafia esisterà anche la mafia" - la Rai certifica l'esistenza dello Stato. Ne è infatti la tv. Benissimo. Veniamo al punto. Ero un imprenditore del panorama televisivo italiano (un gruppo che ha avuto centinaia di dipendenti, ha prodotto migliaia di ore di programmi, ha conquistato cinque Telegatti, premi di ogni genere e tanti altri primati da snocciolare). Per una produzione in Sicilia, davvero poco fortunata, il gruppo è fallito (ma non starò a ricordare il carrozzone di schifezze, angherie e miserie che hanno prodotto questo scempio). C'è solo un punto che vorrei puntualizzare nel giorno successivo alle retoriche per Borsellino. Il 7 giugno 2007 il più stretto collaboratore di un direttore della Tv di Stato mi telefona per raccomandarmi un tizio per la nostra produzione Rai (tra l'altro Educational!): "... un personaggio locale di qui - siciliano - di dubbia provenienza, che comunque pare non faccia molte, come dire, non faccia molti problemi insomma, si accontenta di molto poco e cioè di, di, di, veramente ... insomma pare che sia, che sia tranquillizzante insomma la cosa. Non lo è per le sue tradizioni e per le sue origini, però, non lo so io comunque ti ho avvertito …". Non ho nemmeno bisogno di registrare l'assurdo. L'acuto dirigente fa tutto da sé lasciando il messaggio sulla mia segreteria telefonica (la si può ancora ascoltare su il fattoquotidiano.it: Agrodolce, i raccomandati e uomini in odor di mafia). Dal giorno successivo metto a conoscenza della telefonata i dirigenti competenti. Penso che si tratti ancora del caso di un singolo, ma gli anni successivi mi dimostreranno, ampiamente, che non era così. Incontri successivi e lettere per denunciare la situazione producono il silenzio. Di fronte a tutto questo il mio gruppo, nella mia persona di allora presidente, decide di procedere penalmente verso i protagonisti della nostra distruzione. Il 4 dicembre 2011, dopo la pubblicizzazione della telefonata incriminata il protagonista della stessa risponde così a il Fatto Quotidiano: “Si sa che quando le produzioni vanno in Sicilia, devi sottostare alle regole legate alle tradizioni dell’isola” per aggiungere “ho chiamato Josi, e lui mi fatto una scenata incredibile, dicendo che lui ‘ rapporti con mafiosi non li voleva avere, mai e poi mai”. Il 17 dicembre 2011 sarà la cronaca giudiziaria a confermarne la veridicità di questa interpretazione. Infatti, la DDA di Palermo farà eseguire ventotto arresti all’interno del Clan Porta Nuova. Nel mirino dello stesso, la produzione di Canale 5, Squadra Antimafia Palermo Oggi. Non erano attratti dal contenuto editoriale della fiction, ma dall’opportunità di controllarne i servizi di trasporto, il catering per la troupe e di assumere come comparse parenti e affiliati (oltre all'opportunità di fornire droga all'interno della produzione). Tutto questo avveniva a pochi chilometri dagli stabilimenti del nostro gruppo televisivo con l’aggravante che noi si era capaci di occupare fino a 440 comparse al mese per una prospettiva di diversi anni - le soap opera possono durare decenni - in uno dei distretti a più alta disoccupazione giovanile europea. Il 23 ottobre 2012 - sei mesi dopo dalla messa in onda della fiction Paolo Borsellino - I 57 giorni, per Rai Uno: - la vicenda incontrerà una conclusione tragicamente solare. L'imprenditore "proposto" nella telefonata dall'incaricato Rai verrà arrestato dalla Polizia di Palermo, insieme al fratello, per i reati di estorsione e associazione mafiosa (trattavasi d'imprenditori polivalenti che, oltre a una struttura dedicata alle forniture di servizi per lo spettacolo, diversificavano con un’attività di pompe funebri). La sua compagine era riuscita a infiltrarsi all’interno di un’altra produzione esterna Rai, Il segreto dell’acqua (fiction sul tema della lotta alla mafia). Purtroppo dall'azienda pubblica che impegna gli imprenditori a sottoscrivere corposi Codici Etici e Codici Antimafia non si sono mai registrate riflessioni sulle singolari vicende risultate forse troppo neorealiste. In compenso le fiction antimafia, continueranno a prolificare perché "non possiamo permetterci di abbassare la guardia". Antimafia e magistratura. L’alleanza malsana che Falcone rifiutò. Indagine sui professionisti della patacca che hanno trasformato l’antimafia in una macchietta della giustizia politica, scrive Giuseppe Sottile il 12 Maggio 2016 su "Il Foglio".

Prologo. “Tutto pagato mio”. Quando l’onorevole Salvo Lima varcò la soglia del bar “Rosanero”, i picciotti di don Masino Spadaro, boss della Kalsa e re del contrabbando, formarono – così, spontaneamente – due piccole ali di folla. L’onorevole si inconigliò nel mezzo e salutò prima a destra e poi a sinistra. Raggiunse il banco e ordinò il caffè. “Lei, carissimo onorevole, merita questo ed altro”, declamò cerimonioso don Masino. Ma senza fortuna. Perché l’onorevole continuò a masticare il suo bocchino di madreperla, quello con la molletta interna e la cicca estraibile, senza pronunciare sillaba. Si limitò solo a guardarli, quei picciotti. E guardandoli gli significò che se avevano qualcosa da dire potevano anche dirla. Tanto lui era in campagna elettorale e li avrebbe certamente ascoltati. Figurarsi però se don Masino poteva mai lasciare una simile entratura a Vincenzo Mangiaracina, detto “Scintillone”, pizzicato otto anni prima per tentato omicidio, e appena uscito dall’Ucciardone; o a Filippo Paternò, detto “Cardone”, che nell’aprile del 1989 andò per sparare e fu sparato, e parlava con mezza bocca perché l’altra era praticamente affunata in un nodo cavernoso di osso, muscolo e pelle; o a Lillo Trippodo, detto “Cacauovo” perché prima di ogni tiro, scippo o rapina che fosse, aveva sempre un dubbio da manifestare ma poi puntava la pistola ch’era una meraviglia. “Tutti bravi ragazzi, onorevole”, disse don Masino presentando cumulativamente i picciotti disposti a semicerchio, come gli ami di una paranza. Ma l’onorevole Lima ostinatamente non parlava. Se ne stava appoggiato al bancone, con la tazzina di caffè appiccicata alle dita. Fino a quando, don Masino – e che boss sarebbe stato, altrimenti – non si armò di coraggio e mirò a quello che, per lui, era il cuore del problema. “Mi dica, onorevole: che dobbiamo fare con quei cornuti di Ciaculli che si sono inventati questa minchiata del rinnovamento…”. Il tema, in effetti, era molto delicato. Delicatissimo. “La sbirrame di Leoluca Orlando e padre Pintacuda ha fatto breccia. Ora fanno tutti gli antimafiosi, anche a Ciaculli, ma in realtà sono semplicemente cornuti. Così cornuti che, nei loro confronti, il fango è acqua minerale”. Ciaculli, Orlando, Pintacuda. L’onorevole si cambiò di faccia. Posò la tazzina sul bancone e ringraziò per il caffè. Ma don Masino gli puntò al petto l’ultima domanda: “Sono o non sono cornuti, quelli di Ciaculli?”. L’onorevole si bloccò sulla soglia. Si abbottonò il cappotto, alzò il bavero del colletto, infilò un’altra sigaretta nel bocchino di madreperla e sentenziò: “Gentuzza… Gentuzza e nulla più”.

Svolgimento. Che Dio ce ne guardi. Nessuno qui si azzarderà a definire “gentuzza” gli uomini dell’antimafia, anche se dentro la compagnia di giro ci ritrovi qualche pataccaro, come Massimo Ciancimino, già processato e condannato per avere invischiato in storiacce di mafia dei galantuomini che non c’entravano nulla; o come quel Pino Maniaci, che per anni si è spacciato come giornalista coraggioso ed è finito sotto inchiesta per estorsione: secondo la procura di Palermo sparava fuoco e fiamme ma, sottobanco, prometteva benevolenza soprattutto a chi aveva la compiacenza di allungargli la mille lire. No, nessuno qui si azzarderà a definire “gentuzza” gli uomini dell’antimafia. Perché dentro quel mondo non ci sono solo degli inquisiti sui quali prima o poi dovrà essere detta una parola di verità. Ci sono anche e soprattutto figli che hanno assistito al martirio del padre, come Claudio Fava o Lucia Borsellino o Franco La Torre; o sorelle, come Maria Falcone, che portano ancora negli occhi il terrore di avere visto, su un tratto di autostrada sventrato dal tritolo, il sangue versato dal proprio fratello. No, questi nomi non possono essere trascinati in polemiche da quattro soldi. Nemmeno quando uno di loro – ed è il caso di Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, il giudice assassinato in via D’Amelio – se ne va in giro per Palermo ad abbracciare Massimuccio Ciancimino, il figlio di don Vito, prima celebrato come “icona dell’antimafia” e poi gettato negli abissi chiari dell’inattendibilità dagli stessi pupari che lo avevano offerto a giornali e talk-show come il testimone del secolo, l’unico in grado di rivelare gli intrighi delle cosche e di scardinare finalmente l’impero di Cosa nostra, con le sue ricchezze e i suoi misteri, con i suoi boss e i suoi picciotti, con le sue coperture e le sue complicità. Non chiameremo “gentuzza” neppure quelli che hanno utilizzato l’antimafia per amministrare al meglio i propri affari, per intramare nuove e più sofisticate imposture, per costruire nuove e più spregiudicate carriere; o per meglio aggrapparsi alla grande mammella dei beni sequestrati ai mafiosi – terreni, case e aziende – diventati all’improvviso una immensa terra di nessuno sulla quale hanno mangiato a quattro mani, fino a ingozzarsi, magistrati e cancellieri, avvocaticchi e commercialisti. E non chiameremo “gentuzza” nemmeno i tanti narcisi che pure popolano questo mondo. Non c’è magistrato che non abbia i suoi quattro angeli custodi, non c’è papavero dell’antimafia che non abbia diritto a una sorveglianza, non c’è pentito, vero o fasullo, che non pretenda una tutela particolare. Ah, le scorte. A volte hai il sospetto che siano diventate gli svolazzi del nuovo potere: Rosario Crocetta, il governatore della Sicilia che ha trasformato l’antimafia in una macchietta della politica, può contare su cinque blindate, pagate dalla regione a peso d’oro. Uno spreco? Guai a pensarlo, ma immaginate l’effetto che fa il suo scorrazzare in lungo e in largo per l’Isola con tutto questo fragore o il suo arrivo, a ogni fine settimana, a Gela o a Tusa Marina, dove altri militari sono impegnati a presidiare le sue case. Oppure pensate a quale timore o a quale riverenza vi spingerà, se mai capiterete all’aeroporto di Palermo, la visione di Roberto Scarpinato, procuratore generale del Palazzo di giustizia e Gran Sacerdote dell’Antimafia, scortato all’imbarco per Roma non da uno ma da cinque agenti in borghese. Tre dei quali non lo mollano nemmeno quando tutti i passeggeri sono già dentro l’aereo. Ragioni di sicurezza, si dirà. E sarà anche vero, ma una domanda andrebbe comunque posta: e se la mafia fosse ancora governata da quegli stragisti che rispondevano al nome di Totò Riina e Bernardo Provenzano quanti uomini sarebbero necessari per scortare il dottore Scarpinato? Forse sette, forse sette volte sette. La verità, tanto per andare subito al sodo, è che il Piazzale degli eroi – nel quale sono stati collocati tutti i campioni della lotta a Cosa nostra – rifiuta tenacemente di accettare quello che gli storici più coscienziosi, come Salvatore Lupo, hanno accertato con la forza dei loro studi e della loro onestà. E cioè che, dopo una guerra durata oltre trent’anni, il risultato è che la mafia ha perso e lo stato ha vinto. Una verità semplice ma capace di mandare a gambe per aria non solo il concetto mistico di antimafia ma anche tutte le impalcature – e i privilegi e i narcisismi – che attorno a un tale concetto sono state costruite. Questo spiega perché la tesi del professore Lupo sia stata tanto sbeffeggiata durante una infausta audizione alla commissione parlamentare presieduta da Rosy Bindi. E spiega anche perché una fetta ancora consistente della magistratura palermitana insiste nel portare avanti un processo senza capo né coda qual è quello sulla fantomatica trattativa tra la mafia e alcuni vertici degli apparati statali. Quel processo serve per tenere in piedi il postulato che la storia della Repubblica abbia un doppio fondo, e che dietro ogni verità, anche dietro quella processualmente accertata, ci sia sempre una verità nascosta. Un azzardo, non c’è dubbio. Ma che consente a quei magistrati particolarmente votati alla militanza politica, di chiamare in causa qualunque esponente del potere costituito. Ricordate cosa combinò Antonio Ingroia, procuratore aggiunto oltre che maestro compositore e arrangiatore della Trattativa, pochi mesi prima di presentarsi con una sua lista, Rivoluzione civile, alle elezioni politiche di tre anni fa? Intercettò il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e ci impiantò sopra un casino mediatico di proporzioni tali da fare tremare le colonne del Quirinale. Nel braccio di ferro, Ingroia ha perso e Napolitano ha vinto. Ma il partito dei magistrati che vogliono tenere sotto tiro il potere politico resta ancora forte e agguerrito. Con una aggravante: che questo partito ha saputo anche costruirsi un’antimafia di supporto. L’antimafia di Massimo Ciancimino e di Salvatore Borsellino, tanto per fare un doloroso esempio: dove il fratello del giudice assassinato diventa fraternissimo amico del figlio di don Vito per il semplice fatto che il pataccaro è stato contrabbandato dalla magistratura politicizzata come l’unico grimaldello capace di violare il sancta sanctorum dei segreti mafiosi. Ai tempi di Giovanni Falcone, questa alleanza malsana non si sarebbe stretta. E non si è stretta. Ricordate il caso del falso pentito Giuseppe Pellegriti? Eravamo alla fine degli anni Ottanta e l’antimafia di quel tempo – i leader erano Leoluca Orlando e il gesuita Ennio Pintacuda – si era aggrappata all’indiscrezione secondo la quale il pentito Pellegriti, un delinquentucolo di periferia, avrebbe accusato Salvo Lima, plenipotenziario di Giulio Andreotti in Sicilia, di essere il mandante dell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Falcone andò al carcere di Alessandria. E, dopo avere verificato che Pellegriti sosteneva soltanto cose non vere, lo incriminò per calunnia. Non la passò liscia. L’antimafia di Orlando e Pintacuda – quella che aveva inventato la formula del “sospetto come anticamera della verità” – se la legò al dito e scatenò contro Falcone una offensiva senza precedenti. Fino ad accusarlo di tenere le prove nascoste nei cassetti; o a esporlo, nel corso di un indimenticabile Maurizio Costanzo Show, a una gogna tanto ingiusta quanto feroce. L’antimafia di oggi, quella finita nella polvere con tutti i suoi imbroglioni e i suoi pataccari, si è prestata invece a tutte le manovre giudiziarie, anche le più avventate e le più spregiudicate. E forse anche per questo, alla fine, è rotolata nel burrone profondo dell’irrilevanza. Chi è quell’uomo? – chiede a un certo punto il Signore. “E’ uno che imbratta di tenebra il pensiero di Dio. Parla senza sapere quello che dice”, risponde Giobbe.

La Carlucci e il PdL contro i libri di scuola: “Propagandano il comunismo, vanno cambiati”, scrive "Giornalettismo" il 12/04/2011. Secondo 19 deputati del Popolo delle Libertà, scrive l’agenzia Dire, c’è bisogno di una commissione d’inchiesta per valutarne l’imparzialità. Ma il testo che più si distingue “per la quantità di notizie partigiane e propagandistiche” è, secondo i 19 deputati Pdl, quello di Camera e Fabietti. In Elementi di storia, citano, viene descritta l’attuale presidente del Pd, Rosy Bindi, come la “combattiva europarlamentare” che, ai tempi della militanza nella Democrazia cristiana, sollecitava ad “allontanare dalle cariche di partito” tutti “i propri esponenti inquisiti”. E come viene descritto l’antagonista Berlusconi? Nel 1994, citano ancora i parlamentari dalle pagine del libro di testo, “con Berlusconi presidente del Consiglio, la democrazia italiana arriva a un passo dal disastro”. Secondo gli autori, “l’uso sistematicamente aggressivo dei media, i ripetuti attacchi alla magistratura, alla Direzione generale antimafia, alla Banca d’Italia, alla Corte costituzionale e soprattutto al presidente della Repubblica condotti da Berlusconi e dai suoi portavoce esasperarono le tensioni politiche nel Paese”. L’elenco dei libri “naturalmente potrebbe continuare ancora per molto - conclude il Pdl - ma bastano questi esempi per capire la gravità della questione”.

Dr Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente  

Antonio Giangrande: Basta con la liturgia dell’antimafia di sinistra.

Antonio Giangrande: «Se aprile è il mese dei riti cristiani con la pasqua, maggio è il mese della liturgia dell’antimafia di sinistra.»

Io sono abituato a parlare di argomenti, di cui ho qualcosa da dire. Sulla mafia, per esempio, ho scritto un libro letto in tutto il mondo: “Mafiopoli. Mafia, quello che non si osa dire”. Per me Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono il faro a cui mi ispiro ed il loro esempio è l’oggetto del mio libro. Il mio ricordo a loro va tutti i giorni e non solo nell’anniversario della loro morte. Per molti la data della loro morte è solo l’anniversario degli attentati. Il gesto criminale sminuisce la figura dell’uomo che viene a mancare. Mai dire antimafia è il concetto che divulgo, in qualità di noto autore di saggi sociologici che raccontano di una Italia alla rovescia, profondo conoscitore ed esperto del tema e presidente nazionale di una associazione antimafia. Il mio intento è dimostrare che la mafia siamo noi: i politici che colludono, i media che tacciono, i cittadini che emulano e le istituzioni che abusano ed omettono. Credo che sul tema io sia uno dei principali esperti, anche perché sono presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antiracket ed antiusura riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Una delle tante associazioni a cui viene disconosciuto il ruolo e gli onori che meritano, solo perché non fanno parte del sistema strutturato dalla sinistra, di cui “Libera” è la maggiore espressione.

Anche quest’anno i giornali e le tv, quasi sempre di sinistra, osannano l’evento che corrompe le giovani menti. Se aprile è il mese dei riti cristiani con la pasqua, maggio è il mese della liturgia dell’antimafia di sinistra. A Civitavecchia si sono imbarcati circa 1.500 studenti, gai per aver marinato la scuola, a cui si sono aggiunti altri 1.500 studenti all’arrivo a Palermo. Corrompendo le menti dei giovani si cerca di perpetrare quel credo partigiano, per il quale gli onesti stanno da una parte e i delinquenti dall’altra, Grillo permettendo.

QUALE ANTIMAFIA? Camera dei Deputati. 15 maggio 2014. Alessio Villarosa (Movimento 5 Stelle) accusa la maggioranza di non rispettare (nei fatti) gli insegnamenti di Falcone e Borsellino. "Noi siamo il partito di Pio La Torre e non accettiamo lezioni da nessuno in materia di legalità. Soprattutto da chi è guidato da chi sostiene che la mafia non esiste". Lo ha urlato nell'aula della Camera Anna Rossomando del Pd replicando al M5s in dichiarazione di voto sulla richiesta di arresto per Francantonio Genovese. Tutti i suoi colleghi di gruppo si sono levati in piedi per applaudirla mentre il M5s urlava: "Vergognatevi". "Noi siamo i fondatori della democrazia", ha rivendicato l'esponente democratica citando Pio La Torre, il segretario del Partito comunista siciliano ucciso dalla mafia il 30 aprile del 1982. Il Pd, ha detto Rossomando rivolta al gruppo M5S, "non accetta lezioni da nessuno, soprattutto da chi è andato in Sicilia dicendo che la mafia non esiste, facendo le buffonate attraversando lo Stretto". La presidente della commissione parlamentare antimafia Rosi Bindi (Pd) ha preso la parola in aula, al termine del dibattito sulla richiesta di arresto a carico del deputato democratico Francantonio Genovese, per replicare al polemico intervento di Alessio Villarosa del Movimento 5 stelle. "Vorrei restasse agli atti di questa Camera, nel rispetto del sacrificio della loro vita e dei loro familiari - ha detto Bindi - che nessuno può appropriarsi di Falcone e di Borsellino". Secondo la presidente dell'antimafia, i due magistrati uccisi dalla mafia "sono di tutta la nazione, di tutta l'Italia e da quando abbiamo messo le loro immagini nel parlamento europeo sono di tutta l'Europa". Bindi a capo dell'Antimafia: sfruttò i sindaci anti boss per farsi eleggere alla Camera. Il Pd la candidò in Calabria: ma una volta presi i voti, non s'è più fatta vedere, scrive Felice Manti su “Il Giornale”. A Siderno la stanno ancora aspettando. Eppure a Rosy Bindi la Locride dovrebbe esserle cara, visto che quei voti raccolti alle primarie Pd in Calabria sono stati decisivi per la sua elezione come capolista. Da febbraio invece l'ex presidente Pd i calabresi la vedono solo in tv. D'altronde la Bindi non ha fatto un solo incontro sulla 'ndrangheta durante la campagna elettorale, ammettendo «di non sapere niente di mafia».

Da presidente nazionale di una associazione antimafia è una vergogna non essere invitati ad alcuna celebrazione istituzionale o scolastica dedicata ai martiri della mafia: tra cui Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Questo pur essendo il massimo esperto della materia. Questo perché noi non seguiamo la logica nazionale delle celebrazioni dei due magistrati, specialmente fatta da chi ne ha causato la morte. Perché non ci associamo alla liturgia di questa antimafia che poi è forse solo propaganda.

SVELARE LA VERITÀ SUI MAGISTRATI. Si farebbe cosa nobile, invece, svelare la verità sulla loro morte e disincentivare tutti quei comportamenti socio mafiosi che inquinano la società italiana. Come si farebbe onore alla verità svelare chi e come paga il giro di carovane e carovanieri. In riferimento all’attentato di Brindisi e a tutte le manifestazioni di esaltazione di un certo modo di fare antimafia di parte e di facciata, denuncio l’ipocrisia di qualcuno che suggestiona e manipola la mente dei giovani per indurli ad adottare comportamenti miranti a promuovere una verità distorta su chi e come fa antimafia.

LOTTA ALLA MAFIA CON LA CONOSCENZA. Con l’attentato alla scuola Morvillo-Falcone e la morte di Melissa Bassi Brindisi e Mesagne e l’intero Salento sono diventate tutto d’un tratto terra di mafia e di mafiosi e per gli effetti sono diventate palco promozionale per carovane e carovanieri proveniente da ogni dove, da cui noi prendiamo assolutamente le distanze. Mesagne e Brindisi e tutto il Salento non hanno bisogno di striscioni in sparute manifestazioni o di omelie religiose per fare ciò che deve essere fatto: sia in campo istituzionale, sia in campo sociale. Gli studenti, con la mente vergine e aperta, non devono essere influenzati da falsi pedagoghi catto-comunisti, sostenuti da sindacati e movimenti di sinistra, che inducono a falsi convincimenti di tipo ideologico. La lotta alla mafia è un’altra cosa: è conoscenza senza censura e omertà scevra da giudizi preconcetti. E di questo anche il Santo Padre, Papa Francesco, ne deve essere edotto: non esiste solo un’antimafia clericale-comunista. E Don Ciotti non è l’unico punto di riferimento.

Le vittime di mafia, non hanno bisogno di ricordare, perché la mafia la vivono sulla loro pelle ogni giorno.

Le vittime di mafia non hanno bisogno di front office pubblicizzati e finanziati dalla politica. Le vittime non hanno bisogno di visibilità, a loro basta che l’Ordine Pubblico e la Giustizia funzionino. Che le loro denuncie non siano insabbiate.

Ma a Palermo la liturgia antimafia del 23 maggio non si tocca: e così i vip istituzionali della “Falconeide” hanno ricordato la strage di Capaci riempiendosi la bocca di una parola cruciale: la memoria. La “Falconeide” è un festival della memoria, ma di quella memoria a intermittenza che è tipica dei professionisti della “doppia morale istituzionale”. Dispiace per la buona volontà disinteressata di alcuni: ma finché la memoria istituzionale sarà esclusivo privilegio di defilé mediatici, regolati da star del buonismo televisivo, finché la memoria istituzionale non avrà lo stessa sacralità della verità storica, la “Falconeide” – e le analoghe manifestazioni che fanno spettacolo dell’impegno antimafia – non potrà essere altro che quello che oggi (tristemente) appare: una sfilata di virtuosi dell’ipocrisia di Stato che forse non fanno parte, come sostiene Beppe Grillo, “dello stesso governo che ha ucciso Falcone e Borsellino”, ma di certo sono parte integrante della stessa classe politica senza scrupoli.

Peccato che trattasi, anche quest’anno, di memoria buona solo ed esclusivamente alle passerelle antimafia, come ha rilevato qualche tempo fa il pm Nino Di Matteo che ha toccato con mano le tante amnesie istituzionali nell’indagine sulla trattativa Stato-mafia: “Per tanti, i magistrati sono da onorare solo da morti; siamo stanchi dell’ipocrisia di chi, quando erano in vita Falcone e Borsellino, non esitava a definirli “giudici politicizzati”, mentre, dopo che sono morti finge di onorarli. E’ un falso storico”. E quei “giudici politicizzati” non erano di sinistra, quindi si ricordi bene da vivi da chi erano attaccati: da chi oggi li osanna!!!

CHI PAGA? Tra canti, fiaccole e palloncini, infatti, è stato un vero trionfo dell’ipocrisia istituzionale. E per ultimo, in tempo di spending review , tutti noi dovremmo chiederci: tutto l’ambaradan comunista della nave della legalità che porta in gita gli studenti, la cui estrazione sociale è tutta da verificare, quanto costa alla comunità, quindi a noi stessi, pur distanti da quella ideologia vetusta?

Dr Antonio Giangrande

Scontro fra Alfredo Morvillo e Maria Falcone sul ricordo di Capaci. "Stop agli impresentabili", "Antimafia da passerella". Salvo Palazzolo su La Repubblica il 23 maggio 2023.

La domanda, dirompente, l’ha posta Alfredo Morvillo. «In questa città aver fatto accordi con la mafia viene ritenuto da tutti un fatto disdicevole?», ha scritto sulle pagine di “Repubblica Palermo” il fratello di Francesca, cognato di Giovanni Falcone, in occasione del trentunesimo anniversario della strage di Capaci. Un chiaro riferimento alla giunta di centrodestra del sindaco Roberto Lagalla, sostenuta dagli impresentabili Marcello Dell’Utri e Salvatore Cuffaro, entrambi politici condannati per fatti di mafia. «Troppo spesso i cittadini ricevono dall’alto segnali che invitano a convivere con ambienti notoriamente in odore di mafia»: Morvillo, ex procuratore di Trapani, non ha usato mezzi termini.

Morvillo: "Politica e mafia, Falcone e Borsellino non possono essere celebrati da chi convive con i collusi"

di Alfredo Morvillo21 Maggio 2023

E, ora, le sue parole suonano anche come una critica, neanche troppo velata, a Maria Falcone, la sorella di Giovanni, che durante la campagna elettorale dell’anno scorso si scagliò contro gli impresentabili («La politica non si può permettere sponsor che non siano adamantini, Dell’Utri e Cuffaro non lo sono»), quest’anno invece ha firmato un accordo con Lagalla per realizzare un nuovo museo dell’antimafia. E non accetta critiche. Piuttosto, lancia un appello all’unità: «È il tempo di andare avanti - scrive Maria Falcone in una lettera a “Repubblica Palermo” - di perseverare nella ricerca della verità e al contempo smettere di usare l’antimafia per fare carriera, per fare passerella». E ancora: «È il tempo di non abbassare la guardia e al contempo costruire ponti tra le diverse componenti sociali, pretendere impegni da chi vuole unirsi allo sforzo del cambiamento, senza criticare a priori, magari rianimati da una certa nostrana acida propensione alla presunzione». Parole forti contro chi si «spertica in commenti dottorali», contro chi «gioca a ping pong con la memoria, le cose sono cambiate», scrive la sorella di Falcone.

Maria Falcone: "Basta con l’antimafia di carriere e passerelle. Alla città oggi dico: andiamo avanti insieme"

di Maria Falcone23 Maggio 2023

Così, oggi, sarà il primo 23 maggio del centrodestra in prima fila. A Roma, la maggioranza designerà alla presidenza della commissione parlamentare antimafia Chiara Colosimo, la deputata di FdI contestata da molti parenti delle vittime di mafia per le ombre di antichi rapporti con personaggi della destra eversiva. A Palermo, invece, nella manifestazione ufficiale davanti all’aula bunker, parlerà anche il presidente della Regione Renato Schifani, attualmente sotto processo a Caltanissetta con l’accusa di essere stato una delle “talpe” di Antonello Montante, l’ex leader di Confindustria condannato in appello a 8 anni.

Morvillo ha già fatto sapere che non andrà all’aula bunker: sarà invece nel liceo dove studiò la sorella. Alla manifestazione col ministro dell’Interno Matteo Piantedosi non andrà neanche Giuseppe Di Lello, magistrato dello storico pool antimafia di Falcone e Borsellino. Morvillo ha scritto: «Palermo abbia la coerenza di non partecipare alle commemorazioni, non lo merita la città, non meritano Falcone e Borsellino che il loro ricordo sia macchiato dalla rituale presenza di personaggi che non tralasciano occasione per propagandare la convivenza politico-sociale con ambienti notoriamente in odore di mafia». Maria Falcone difende la sua scelta di un nuovo percorso con questo centrodestra: «Un sostegno che non è regalia, carità, clientele, bensì unità nel lavoro, adesione ad un progetto che mette al centro i giovani e la comunità, occasione per creare spazi nuovi, luoghi di vita e non simulacri di ricordi o peggio altari della memoria da imbiancare solo alla scadenza degli anniversari».

Le Vittime.

L’eroe antisequestri Tripodi ucciso dalla ’ndrina: caso riaperto. Rita Cavallaro su L'Identità il 27 Ottobre 2023

L’Antimafia riapre il cold case sull’omicidio del brigadiere Carmine Tripodi, il carabiniere eroe che lottava contro la stagione dei sequestri di persona in Calabria. Tripodi fu trucidato la sera del 6 febbraio 1985 a San Luca, ancora oggi roccaforte della ‘ndrangheta. Un commando lo attese all’uscita di una curva a gomito, sbarrò la strada alla sua auto ed esplose sette colpi di lupara. Il carabiniere, seppur ferito, riuscì ad estratte l’arma e a rispondere al fuoco, colpendo uno dei sicari, ma venne ucciso e gli assassini infierirono sul suo cadavere. I killer, appartenenti alle cosche delle ‘ndrine locali, sono ancora impuniti, nonostante sarebbero stati tutti individuati. Perché i processi che si sono svolti nel tempo sono finiti con uno stesso copione: assoluzione.

Dopo 38 anni, però, la speranza di poter incastrare i responsabili è una possibilità concreta, grazie alle nuove analisi scientifiche disposte dalla Procura distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, che ha riaperto il fascicolo e ha iscritto quattro persone nel registro degli indagati. Nei giorni scorsi, infatti, i pm della Dda reggina Alessandro Moffa e Diego Capece Minutolo hanno notificato gli avvisi di garanzia ai presunti componenti del commando e disposto accertamenti tecnici irripetibili su alcuni reperti sequestrati sulla scena del crimine, rimasti in tutti questi anni in un cassetto dell’ufficio di Locri. Si tratta di pezzi di indumenti, alcuni sassi e toppe di asfalto sui quali c’è il sangue di uno dei sicari della banda, proprio quello che è stato ferito da uno dei sei colpi esplosi da Tripodi dalla sua arma di ordinanza durante l’imboscata. Gli accertamenti tecnici irripetibili sono stati effettuati ieri dai carabinieri del Ris di Messina, alla presenza dei consulenti di parte, e ora verrà isolato il dna per poter procedere a una comparazione con i profili genetici dei sospettati. Se verrà trovata una corrispondenza, gli investigatori avranno finalmente la prova regina per poter risolvere il cold case della terribile fine di Carmine Tripodi, un uomo che è diventato anche un simbolo della lotta dello Stato alla ‘ndrangheta. Il militare, infatti, è il primo carabiniere ucciso in un agguato dalla criminalità.

La ‘ndrangheta ha voluto ucciderlo non solo per vendetta, ma anche per lanciare una sfida alle forze dell’ordine che, in quegli anni, tentavano di fermare la stagione dei sequestri, una piaga che aveva valicato i confini calabresi e mostrato la crudeltà delle ‘ndrine, che rapivano imprenditori e professionisti e li tenevano in ostaggio in prigioni di fortuna ricavate nei boschi dell’Aspromonte, in attesa di ricevere dalle famiglie riscatti miliardari. Tanto che per mettere freno alle centinaia di colpi portati a segno dai sequestratori fu necessaria una legge, la 81 del 1991, che congelava i beni alla persona sequestrata, al coniuge e ai parenti. Ma per tre decenni, tra gli anni Settanta e il Novanta, San Luca e l’Aspromonte divennero il fortino dei sequestratori. E lì, nel 1980, fu inviato Tripodi, a combattere contro le ‘ndrine e a segnare i primi duri colpi ai criminali. Fu lui a guidare le indagini e ad arrestare i responsabili del rapimento di Giuliano Ravizza, il re delle pellicce Annabella rapito a Pavia il 24 settembre 1981, tenuto prigioniero per tre mesi. Sempre Tripodi gestì il caso Carlo De Feo, l’ingegnere napoletano prigioniero per quasi un anno, dall’83 all’84, finché non fu pagato il riscatto mostre di 4,4 miliardi di lire. Il brigadiere accompagnò De Feo sui luoghi della prigionia e fornì un contributo prezioso alle indagini. Scoprì gli otto rifugi dove era stato tenuto l’ostaggio, individuò le persone e tracciò l’organigramma delle cosche, portando a una quarantina di arresti tra le famiglie della ‘ndrangheta.

L’investigatore di razza andava fermato e la sera del 6 febbraio 1985 la sentenza di morte dei capi venne eseguita. Il nuovo fascicolo punta ora non solo agli assassini, ma anche ai nomi di coloro che pronunciarono quella sentenza.

Rosario Livatino, il killer del giudice di fronte alla reliquia della sua vittima. Accade nel carcere di Pavia: Paolo Amico, condannato per essere stato tra gli esecutori materiali dell'omicidio deciso dalla Stidda agrigentina nel 1990, partecipa alla cerimonia in ricordo del magistrato. Che dal 2021 è stato proclamato beato. Anna Dichiarante su L'Espresso il 29 Settembre 2023  

Il killer medita davanti alla camicia sporca di sangue e ingrigita che la sua vittima indossava nel momento in cui incontrò il suo sguardo in un’estrema, vana, invocazione di pietà. Lui, il killer, si chiama Paolo Amico ed è stato condannato all’ergastolo tra gli esecutori materiali dell’omicidio. La vittima, invece, era Rosario Livatino: il «giudice ragazzino», come l’hanno soprannominato per essere entrato in magistratura presto e per essere rimasto fermo ai 38 anni ancora da compiere. Era la mattina del 21 settembre 1990, quando il commando della Stidda siciliana di cui faceva parte Amico lo intercettò a bordo della sua automobile sulla strada statale Agrigento-Caltanissetta. E la camicia che s’era infilato quel giorno per andare al lavoro è diventata oggi una reliquia, esposta in alcune occasioni anche all’interno di istituti penitenziari: così, nella casa circondariale Torre del Gallo di Pavia, il 30 settembre questi due contrapposti destini s’incrociano di nuovo. 

Livatino è stato proclamato beato dalla Chiesa il 9 maggio del 2021, in virtù sia della sua fede sia dell’abnegazione con cui si occupò, da sostituto procuratore prima e da giudice a latere poi, di indagini e processi a carico della criminalità organizzata agrigentina. La sua reliquia arriva a Pavia per una serie di iniziative dedicate alla sua figura e organizzate dal Centro di solidarietà “Giò Bonomi”, dall’Unione dei giuristi cattolici e da varie istituzioni cittadine. Sono stati i promotori a chiedere che venisse esposta anche in carcere, perché la forza di un simbolo talvolta riesce a smuovere le coscienze nel profondo. Una richiesta accolta con convinzione da Stefania Mussio, direttrice della struttura dal marzo scorso; lei stessa, nel 2017, all’epoca in cui guidava il carcere di Sondrio, fu insignita di un riconoscimento speciale per l’impegno sociale dalla giuria della XXIII edizione del premio internazionale intitolato a Livatino. 

Un momento denso di significato, a cui si aggiunge la presenza di Amico. «L’ho conosciuto a Voghera, dov’era recluso in regime di alta sicurezza e dove io sono stata per un lungo periodo direttrice», ricorda Mussio: «Lì è cominciato il suo percorso trattamentale, incentrato sul lavoro come strumento principale di recupero e di rieducazione, che gli ha permesso in seguito di essere trasferito nel circuito della media sicurezza a Milano Opera. Ora, spero che la possibilità di venire a Pavia con un permesso e di raccogliersi di fronte alla reliquia rappresenti un passo ulteriore verso la revisione critica dei fatti di cui si è reso responsabile». Il killer e la vittima, entrambi possono trasmettere un messaggio alle circa 670 persone ristrette a Torre del Gallo.

La ’ndrangheta incassa 50 miliardi l’anno. Ma c’è ancora una Calabria che ogni giorno resiste. Nella regione più povera d’Italia le cosche continuano a fare affari d’oro grazie ai traffici con tutti i continenti. Ma servitori dello Stato e cittadini combattono. Perché, dice Nicola Gratteri, questa terra può cambiare. Simone Baglivo su L'Espresso il 20 Luglio 2023

La ’ndrangheta arriva a incassare ogni anno oltre 50 miliardi di euro. Mentre la sua terra di origine – la Calabria – rimane la regione più povera d’Italia. L’unica mafia presente in tutti e cinque i continenti del mondo esporta reati come il riciclaggio di denaro, l’estorsione, il contrabbando di armi, la prostituzione. Ma è il traffico internazionale di droga il vero core business. Le ’ndrine, infatti, controllano l’80 per cento della cocaina che arriva in Europa.

Gli ’ndranghetisti, inoltre, maneggiano ormai con cura un’arma silenziosa come la corruzione, che ha consentito loro di lasciarsi strategicamente alle spalle i sequestri di persona o troppi omicidi eccellenti. La mafia calabrese è diventata un nemico meno visibile, sempre più infiltrato, ma non meno letale. L’ultimo rapporto della Direzione Investigativa Antimafia ha certificato come la ’ndrangheta sia «l’assoluta dominatrice della scena criminale». L’Interpol l’ha inserita tra le «minacce per la pace e la sicurezza internazionale».

Eppure, nel luogo di nascita della mafia più potente al mondo, c’è chi non si arrende, cercando di cambiare lo status quo. Non solo cittadini e attivisti antimafia. Ma anche investigatori, magistrati, agenti speciali. Ogni giorno questi servitori dello Stato hanno il coraggio di sfidare un avversario apparentemente imbattibile. Sono in prima linea, sacrificano molto e pagano un prezzo personale alto.

Il viaggio de L’Espresso in una delle zone rosse del crimine organizzato inizia dalla Procura di Catanzaro. Nicola Gratteri, 65 anni a breve, è a capo dell’ufficio ed è uno dei volti più noti tra gli inquirenti anti-’ndrangheta del Paese. «Ci sono mafiosi che cercano di farmi saltare in aria, ma non ho paura di morire perché so di aver fatto tutto il possibile», racconta distogliendo lo sguardo. Durante la sua carriera ha «arrestato migliaia di criminali, distrutto tonnellate di cocaina, sequestrato milioni di beni, demolito interi clan, scoperto i legami con la massoneria deviata».

Da 34 anni, però, non ha una vita normale: vive 24 ore su 24 sotto una scorta di livello massimo. Un provvedimento necessario, viste le continue minacce di morte e gli attentati a cui è scampato. Già nel 1989 fu definito un «uomo morto» da chi crivellò di colpi l’abitazione di sua moglie. Tornando indietro, precisa, rifarebbe tutto. «Valeva la pena provarci, perché con il mio lavoro credo di aver dato speranza e fiducia. Ho dimostrato che è possibile cambiare il destino di questa terra. Le denunce delle tante persone che soffrono per colpa della mafia mi danno la forza per andare avanti. Se mi fermassi, sarei un vigliacco».

Nel più grande processo istruito contro la ’ndrangheta, “Rinascita-Scott”, che si celebra a Lamezia Terme, Gratteri ha chiesto durante la sua recente requisitoria condanne per quasi cinquemila anni di carcere totali nei confronti di 322 imputati. La sentenza arriverà dopo l’estate. «Vogliamo dimostrare che non sono invincibili», dice il procuratore. Che auspica, tra l’altro, l’armonizzazione di una legislazione antimafia europea per distruggere la criminalità organizzata in tutte le sue diramazioni. Nelle prossime settimane, il plenum del Consiglio superiore della magistratura dovrà decidere sulla sua nomina a capo della Procura di Napoli, dopo che in commissione per gli incarichi direttivi il nome di Gratteri ha ricevuto quattro voti su sei.

Da Catanzaro si arriva poi, assieme al Nucleo investigativo dei carabinieri di Locri, in provincia di Reggio Calabria. In particolare, alle pendici dell’Aspromonte, dove sorgono i Comuni di San Luca e Platì, più volte sciolti per mafia e roccaforte di potenti cosche. Qui non è gradito chi fa domande e sentinelle monitorano i nuovi venuti che si muovono per le strade. Le due piccole stazioni dei carabinieri sono veri e propri avamposti militari in zone ad altissimo rischio.

«Siamo un’istituzione della Repubblica e lavoriamo per garantire la sicurezza democratica», afferma Michele Fiorentino, comandante dei carabinieri di San Luca. Un suo predecessore (come successo anche a Platì) è stato assassinato. «Siamo qui perché è la cosa giusta da fare. Abbiamo già vinto tante battaglie e vinceremo sicuramente anche la guerra», spiega prima di mostrare un’area riservata dove si raccolgono e analizzano tutti i dati su boss e fiancheggiatori.

Luigi Di Gioia, comandante dei carabinieri di Platì, guida invece per la prima volta all’interno del bunker sotterraneo dove sono stati arrestati i boss delle famiglie Barbaro e Pelle. In meno di 50 chilometri quadrati sono stati trovati oltre 30 bunker. «La ’ndrangheta si trasforma, ma alla fine sarà sconfitta», dice Di Gioia: «Sarebbe impossibile fare questo lavoro senza tale consapevolezza e senza dedizione alla giustizia». Ivan D’errico, capitano dei “Cacciatori di Calabria”, reparto d’élite dei carabinieri, apre infine le porte della base operativa di Vibo Valentia durante un’operazione top secret. «La nostra complicata missione prevede una conoscenza profonda del territorio per catturare latitanti e individuare nascondigli di armi e droga», racconta mentre è in volo in elicottero.

A Lamezia Terme, l’incontro con la famiglia di una delle molte vittime innocenti della violenza mafiosa. Nel 1991 Francesco Tramonte, un giovane netturbino, venne ucciso con 22 colpi di kalashnikov da un sicario della ’ndrangheta che puntava a ottenere l’appalto per la raccolta dei rifiuti. «Hanno ucciso un semplice operaio, il più basso nella scala sociale», ricorda la figlia Stefania che cerca ancora la verità sui mandanti politici di quell’omicidio. Ma resistere è necessario. Perché arriverà la fine anche di questo fenomeno umano, la mafia, come credeva Giovanni Falcone. E perché bisogna difendere a ogni costo la nostra democrazia. Come fa da sempre la parte più bella della Calabria.

Calabria, la colonia dove gli “eretici” che toccano certi fili rischiano di essere fatti fuori. Emilio Sirianni e Otello Lupacchini. Emilio Sirianni, magistrato in servizio presso la sezione lavoro della Corte d'Appello di Catanzaro, è l'ultimo caso di una lunghissima lista. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 14 luglio 2023

Il dottor Emilio Sirianni, stimato magistrato di Catanzaro, ha toccato i fili dell'alta tensione esprimendo, tra l'altro, giudizi severi sull'operato del dottor Nicola Gratteri sia pure in una conversazione strettamente privata. Non si può! Infatti è stato punito così come era già successo al Procuratore generale di Catanzaro, Otello Lupacchini.

Il potere vero non si tocca. In Calabria nessuno se ne frega per quale partito voti... tanto non cambia nulla. Puoi essere di “sinistra” o di “destra” purché non tocchi la “Santa Sanctorum” che ha la testa a Roma (e oltre) e gli artigli nelle periferie del Paese.

La Calabria non è una semplice periferia, è una colonia dove il potere politico è quasi sempre occupato da ascari di modesta fattura, mentre il potere vero sta altrove. Se comprendi il meccanismo e lo denunci sei perduto, soprattutto se occupi una postazione strategica nei luoghi in cui si decide ogni cosa.

Potrei fare centinaia di nomi per supportare le cose che dico, mi limito a qualcuno. Pochi anni fa è toccato al vescovo di Locri, Giancarlo Maria Bregantini, stimato e amatissimo dal suo popolo. Rigorosamente contro la mafia, denunciò i gravissimi limiti ( e i seri danni) dell'antimafia. Si sentiva fortissimo perché aveva la stima della Calabria migliore e l'affetto di tutti i calabresi ma si sbagliava. Appena toccò i ' fili sensibili' fu ' promosso' arcivescovo e trasferito a Campobasso.

Mimmo Lucano era diventato un personaggio popolare. Certamente non gestibile, e quindi molto pericoloso. Qualcuno ne ha tratto le logiche conseguenze. Mario Oliverio, secondo me, non è stato punito per come ha governato la Regione Calabria, ma perché ha avuto l'ardire, dinanzi agli abusi subiti, di non prostrarsi a terra per baciare la “sacra pantofola” e ne ha pagato la “colpa” con un attacco concentrico dei vari ' poteri uniti' compreso il suo Pd.

Molte volte a eliminare gli ' eretici' ci ha pensato la ' ndrangheta'. Penso all'ex presidente delle ferrovie dello Stato, Vico Ligato, o a Francesco Fortugno vice presidente del consiglio regionale della Calabria, fucilati entrambi sulla pubblica strada.

Altre volte mafia e '”Stato” hanno operato insieme, per esempio con le persecuzioni giudiziarie e le pistolettate contro i giovani anarchici di Africo che hanno messo in discussione il blocco politico - giudiziario- mafioso. Oggi, il più delle volte, i metodi cruenti vengono scartati. Basta la gogna pubblica. Basta l'antimafia. Bastano i processi di regime. La mafia armata interviene solo in casi estremi. Così si vive in una colonia dove la realtà è molto diversa da quella che viene veicolata dai media di regime. Ma l'Italia non lo sa.

Effetto Cartabia: gli imprenditori che patteggiano per mafia potranno lavorare con lo Stato. Stefano Baudino su L'Indipendente il 6 luglio 2023.

Chi decide di patteggiare una pena per associazione mafiosa può continuare indisturbato a fare impresa, a ricevere finanziamenti pubblici e a contrattare con lo Stato, aggirando tutta la normativa di prevenzione antimafia: è l’ultimo effetto prodotto dalla riforma della giustizia targata Marta Cartabia, partorita nell’era del governo di Mario Draghi, ufficialmente attestato da una sentenza del Consiglio di giustizia amministrativa della Regione Sicilia.

Nello specifico, la decisione del Gga – che svolge le medesime funzioni del Consiglio di Stato, ma con la sola competenza sull’isola – riguarda il caso di un imprenditore di Partinico, inserito nel commercio di macchine agricole e industriali, che tre anni fa ha patteggiato una pena di un anno e dieci mesi di carcere per 416-bis con il riconoscimento della sospensione condizionale. Tale condanna aveva comportato l’applicazione di un’interdittiva antimafia da parte della Prefettura di Palermo, con l’automatico divieto per il soggetto di esercitare la professione e quindi partecipare alle gare di appalto. Ma ora i giudici amministrativi siciliani – accogliendo il ricorso del legale dell’uomo e sconfessando una precedente pronuncia del Tar – hanno ribaltato tutto, sospendendo in via cautelare l’interdittiva. Il motivo è da ricondurre al dettato della riforma Cartabia, che ha modificato l’art. 445 del codice di procedura penale in questo modo: “Non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano il patteggiamento a una sentenza di condanna”. Limitando, così, l’efficacia extrapenale della sentenza di patteggiamento, che non può dunque valere a fini di prova “nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità contabile”.

A tal proposito, il Collegio di secondo grado ha citato a sostegno una “costante giurisprudenza”, evidenziando che anche le norme del codice antimafia sono “diverse da quelle penali”, dal momento che disciplinano “istituti di natura esclusivamente preventiva e non punitiva”. Dunque, “la sentenza di patteggiamento, relativa anche a uno dei reati ritenuti ostativi ai sensi del codice antimafia (come il 416-bis c.p.), non può (più) ritenersi equiparata alla sentenza di condanna”. Per il Consiglio, sussistono entrambi i requisiti per l’accoglimento del ricorso: il fumus boni iuris, cioè l’apparente fondatezza della domanda, e il periculum in mora, ovvero il rischio di effetti economici negativi per l’attività.

Si tratta solo dell’ultima macroscopica criticità frutto di una riforma che, nel corso degli anni, ne ha fatte emergere innumerevoli. In primis, con l’introduzione nell’ordinamento della “tagliola” dell’improcedibilità per i processi in appello (dal 2025, potranno durare di base fino a due anni, con una proroga di un anno al massimo) e in Cassazione (un anno di base, con una proroga di sei mesi), che manderà al macero tutti quelli che sforino le soglie temporali previste; poi con la non perseguibilità di gravi reati –  tra cui il sequestro di persona, le lesioni personali dolose, la violenza sessuale e lo stalking – in mancanza di querela da parte della vittima, anche quando sono seguiti da una minaccia messa in atto con l’obiettivo di persuaderla a non querelare l’autore della condotta; infine con il bavaglio al diritto di cronaca mascherato da azione improntata al garantismo e alla difesa della “presunzione di non colpevolezza”, sostanziatosi nella mancata diffusione ai cittadini di notizie di pubblico interesse, nonché con l'”abrogazione tacita” della Legge Severino – norma che prevede l’incandidabilità dei politici raggiunti da condanna -, che diviene inapplicabile per chi decide di patteggiare. [di Stefano Baudino]

Mafia “legalizzata” da Cartabia? Falso: il “Fatto” legge male le norme. In un articolo di Peter Gomez si commenta con durezza un’ordinanza sulle interdittive che, in base alla riforma dell’ex ministra, non possono più essere inflitte sulla base di un patteggiamento. Ma oggi patteggiare sul 416-bis è diventato impossibile. Fabrizio Costarella, Avvocato del foro di Catanzaro, e Cosimo Palumbo, Avvocato del foro di Torino su Il Dubbio il 6 luglio 2023

In un saggio del 1941, Ernst Fraenkel sviluppava, a proposito del nazionalsocialismo, la teoria del “doppio Stato”.

Nel suo scritto, evidenziava come la rottura che il nazismo aveva consumato nei confronti dei principi democratici era dovuta alla evocazione dello stato di eccezione o “di assedio”, che aveva consentito di investire la politica dei cosiddetti “pieni poteri”, secondo l’adagio popolare per il quale la necessità non ha Legge.

Nello stato di eccezione, il potere politico non era più sottoposto al diritto (sub lege), né si esplicava attraverso norme generali (per legem), ma era, al contrario, svincolato dal rispetto della legge ed esercitato mediante giudizi di opportunità.

In questa realtà distopica, che Fraenkel definiva “Stato discrezionale”, non erano i tribunali a controllare l’amministrazione dal punto di vista della legalità, ma era l’autorità di polizia a controllare i tribunali dal punto di vista della opportunità.

Per tale motivo, chiosava l’Autore, la Costituzione (cioè, la fonte da cui promanava il potere pubblico e rispetto alla quale ogni altra istanza era recessiva) era lo stato d’assedio.

Nel nostro Paese, ormai da decenni, la Costituzione è la lotta alla mafia, intesa come obiettivo da perseguire, per ragioni di opportunità politica, non necessariamente sub lege e per legem, nel contesto di un perenne stato di eccezione.

L’evocazione di una “lotta”, perfetta concretizzazione del “diritto penale del nemico”, ha consentito al potere politico la creazione di doppi binari, anche processuali, per la repressione e, soprattutto, per la prevenzione del fenomeno mafioso, dotati di caratteri di peculiare asistematicità rispetto ai principi generali dell’ordinamento. Ma ha anche facilitato la nascita di un fenomeno sociale, quello dell’Antimafia, che, spesso del tutto digiuno di nozioni giuridiche, si risolve quasi sempre nella proclamazione di cahiers de doléances secondo i quali la mafia sarebbe deliberatamente favorita da una legislazione nella migliore delle ipotesi troppo blanda, se non addirittura compiacente. E che, secondo un anacronistico “dagli all’untore”, invoca sempre nuove limitazioni delle libertà, nuove sanzioni, nuovo “terrore”.

Solleticando la pancia del popolo, esasperandone le paure, eccitandone la sensazione di essere in stato di assedio, si è legittimato agli occhi dei cittadini la necessità e, di più, la legittimità di una produzione legislativa e giurisprudenziale che, colpo su colpo, ha attratto alla normativa antimafia situazioni e soggetti che con la mafia non avevano nulla a che fare: i corrotti, gli evasori fiscali, gli stalker, i predatori sessuali e tutta quella congerie di criminali comuni che oggi si vedono processati e sanzionati, specie con riferimento alle misure di prevenzione, come i mafiosi.

Una aggressione ai diritti costituzionalmente protetti degli individui, dettata dalla contingente opportunità politica di mostrare fermezza rispetto ai fenomeni criminali che, in una determinata epoca storica, siano avvertiti come allarmanti: oggi il femminicidio, solo ieri i rave parties, poco prima la corruzione, domani chissà.

Insomma, la materializzazione dello stato di eccezione, sempre figlio (o padre) di regimi autoritari.

In questo milieu di fanatismo intransigente va letta la reazione mediatica ad una recente ordinanza del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana (ord. 209/23), che ha sospeso cautelativamente una informativa interdittiva antimafia (misura di prevenzione non ablativa) resa nei confronti di un imprenditore, sulla scorta della nuova formulazione dell’articolo 445, comma 1-bis del codice di procedura penale.

La “riforma Cartabia”, infatti, ha espressamente normato quello che era un principio ispiratore della riforma codicistica del 2003 che, nell’ottica di incentivare il ricorso a riti deflattivi e premiali, aveva privato la sentenza di applicazione della pena su richiesta (patteggiamento) di effetti extrapenali e, dunque, di efficacia di giudicato nei procedimenti civili, amministrativi, contabili e disciplinari.

Principio rapidamente obliterato da numerose pronunce della giurisprudenza civile e amministrativa, in particolar modo di merito, secondo cui il patteggiamento, “pur non essendo equiparabile ad una sentenza di condanna, presupporrebbe un’ammissione di colpevolezza”.

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa siciliano, recependo la riforma legislativa, ha dunque correttamente dichiarato l’irrilevanza, nel procedimento di prevenzione, di una sentenza di patteggiamento che costituiva l’unico presupposto per l’irrogazione della interdittiva antimafia, la cui efficacia è stata sospesa.

Ma, occasione irripetibile per i “professionisti dell’Antimafia”, quella sentenza penale era stata resa in relazione al delitto di cui all’articolo 416-bis del codice penale.

Da qui, con i registri comunicativi allarmistici tipici dello stato d’assedio, un articolo apparso sul Fatto Quotidiano del 5 luglio 2023, dal significativo titolo “Legalizzare la mafia: grazie al dl Cartabia ce la stiamo facendo”.

Nel denunciare “la logica perversa della riforma Cartabia” e nell’escludere (ma solo per insinuarlo) che il governo Draghi abbia “operato in segreto in favore dei malviventi”, l’autore suggerisce al lettore, sapientemente indotto alla indignazione, che se il mafioso patteggia una pena “non gli succederà niente”, perché potrà liberamente continuare a contrattare con la pubblica amministrazione.

Lo scritto soffre di una generalizzazione e di una certa approssimazione tecnica.

Quanto al primo aspetto, l’ordinanza vituperata interviene sul caso, rarissimo se non unico, di una misura di prevenzione adottata sul solo presupposto di una precedente sentenza di applicazione della pena su richiesta.

Al cittadino era stato, cioè, impedito il libero esercizio dell’impresa (nel che si sostanzia la negazione del diritto di iniziativa economica, costituzionalmente protetto) per essere incappato in un singolo procedimento penale, conclusosi con una sentenza di patteggiamento.

Circostanza che rende, obiettivamente, piuttosto arduo prevedere quella messe di conseguenze criminogene ipotizzate dal quotidiano.

Quanto al secondo aspetto, l’autore non si confronta con la concreta vicenda processuale, né con il dato testuale del novellato articolo 445 del codice di rito penale.

Nel caso trattato dal Consiglio di Giustizia Amministrativa, infatti, l’associazione per delinquere oggetto di pena concordata era cessata ad aprile del 1997, ossia quasi trenta anni or sono!

Già l’elemento temporale consentirebbe di ritenere aberrante la presunzione di perenne mafiosità, che sottende alla volontà persecutoria di espellere dal circuito dell’economia legale un cittadino che ha chiuso i propri conti con la giustizia nel secolo scorso (nel che si sostanzia la tendenziale attitudine criminogena dell’abuso delle misure di prevenzione).

Ma, oltre a ciò, occorre volgere lo sguardo all’assetto normativo attuale, che, da un lato, vieta di concordare una pena superiore a due anni per i delitti di mafia (articolo 444, comma 1-bis del codice di procedura penale, che non consente il patteggiamento “allargato” per talune ipotesi di reato) e, dall’altro, prevede una pena edittale minima di dieci anni di reclusione per il delitto di cui all’articolo 416-bis cp.

È, dunque, matematicamente impossibile oggi patteggiare una pena inferiore a due anni per il reato di associazione mafiosa, mentre lo era nel 1997, quando la pena edittale minima era pari a tre anni di reclusione.

Gridare allo scandalo per l’ordinanza del Consiglio di Giustizia Amministrativa, quindi, è strumentale al mantenimento dello stato di eccezione, perché alimenta il fanatismo popolare distogliendolo dalla costante privazione di diritti fondamentali, frutto di una legislazione di opportunità, propria di una “Stato discrezionale” e non di uno “Stato normativo”, per tornare alle suggestioni di Fraenkel.

Ma il fanatismo dei “pieni poteri”, dello stato d’assedio è l’anticamera dello Stato illiberale.

Chiudiamo allora il nostro intervento con Voltaire: Écrasez l’Infâme. Schiacciate l’infame. Cancellatelo.

Il grande filosofo francese si riferiva al fanatismo religioso ma quello del “diritto del nemico” non è, credeteci, meno pericoloso.

Antonio Giangrande: L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima.

Fino a poco tempo fa nessuno aveva mai parlato di inchini. Poi i giornali, in riferimento alla Concordia, hanno parlato di "Inchini tollerati". Lo sono stati fino a qualche ora prima della tragedia sulla Costa Concordia che ha provocato morti e feriti incagliandosi sulla scogliera davanti al porto dell'Isola del Giglio. Repubblica.it lo ha documentato: nei registri delle capitanerie di porto che dovrebbero controllare il traffico marittimo, emerge che la "Costa Concordia" - così come tutte le altre navi in zona e in navigazione nel Mediterraneo e nei mari di tutto il mondo - era "seguita" da Ais, un sistema internazionale di controllo della navigazione marittima che è stato attivato da alcuni anni e reso obbligatorio da accordi internazionali dopo gli attentati dell'11 settembre (in funzione anti-terrorismo) e dopo tante tragedie del mare avvenute in tutto il mondo. Si è scoperto così che quel passaggio così vicino all'isola del Giglio era un omaggio all'ex comandante della Costa Concordia Mario Palombo ed al maitre della nave che è dell'isola del Giglio. Si è scoperto anche che per ben 52 volte all'anno quella nave aveva fatto gli "inchini". Inchini che fino al giorno prima, fino a prova contraria, erano stati tollerati: nessuno fino ad allora aveva mai chiesto conto e ragione ai comandanti di quelle navi. Nessuno aveva cercato di capire perché passassero così vicini alla costa dove per legge è anche vietato (se una piccola imbarcazione sosta a meno di 500 metri dalle coste, se beccata dalle forze dell'ordine, viene multata perché vietato). Figuriamoci se a un bestione come la Costa Concordia è consentito "passeggiare" in mezzo al mare a 150-200 metri dalla costa. Il comandante Schettino, come confermano le indagini e le conversazioni radio con la capitaneria di porto di Livorno, ha fatto errori su errori, ma nessuno prima gli ha vietato di avvicinarsi troppo all'isola del Giglio. Quando si è incagliata era troppo tardi.

Da un inchino ad un altro. Dopo il 2 luglio 2014 l’anima italica, ipocrita antimafiosa, emerge dalle testate di tutti i giornali. I moralisti delle virtù altrui, per coprire meglio le magagne governative attinenti riforme gattopardesche. Si sa che parlar dei mondiali non attecchisce più per la male uscita dei pedanti italici. Pedanti come ostentori di piedi pallonari e non di sapienza. Lo dice uno che sul tema ha scritto un libro: “Mafiopoli. L’Italia delle mafie”.

Una protesta plateale. Se la Madonna fa l’inchino ai boss, i carabinieri se ne vanno. Se i fedeli e le autorità, civili e religiose, si fermano in segno di “rispetto”, davanti alla casa del mafioso, le forze dell’ordine si allontanano, in segno di protesta. E ne diventano eroi. Tanto in Italia basta poco per esserlo. È successo il 2 luglio 2014, a Oppido Mamertina, piccolo paese in provincia di Reggio Calabria, sede di una sanguinosa faida tra mafiosi: durante trenta secondi di sosta per simboleggiare, secondo tutti i giornali, l’inchino al boss Giuseppe Mazzagatti, i militari che scortavano la processione religiosa si sono allontanati. Tutti ne parlano. Tutti si indignano. Tutti si scandalizzano. Eppure l’inchino nelle processioni è una tradizione centenaria in tantissime località del sud. Certo è che se partiamo con la convinzione nordista mediatica che il sud è terra mafiosa, allora non ci libereremo mai dei luoghi comuni degli ignoranti, che guardano la pagliuzza negli occhi altrui. Gli inchini delle processioni si fanno a chi merita rispetto: pubbliche istituzioni e privati cittadini. E’ un fatto peculiare locale. E non bisogna additare come mafiosi intere comunità (e dico intere comunità), se osannano i singoli individui e non lo Stato. Specie dove lo Stato non esiste. E se ha parvenza di stanziamento, esso dà un cattivo esempio. A volte i giudizi dei tribunali non combaciano con quelle delle comunità, specie se il reato è per definizione nocumento di un interesse pubblico. Che facciamo? Fuciliamo tutti coloro che partecipano alle processioni, che osannano chi a noi non è gradito? A noi pantofolai sdraiati a centinaia di km da quei posti? Siamo diventati, quindi, giudici e carnefici? Eliminiamo una tradizione centenaria per non palesare il fallimento dello Stato?

Dare credibilità agli amministratori locali? Sia mai da parte dei giornali. Il sindaco di Oppido Mamertina, Domenico Giannetta, ha rilasciato un lungo comunicato per spiegare l'accaduto «Noi siamo una giovane amministrazione che si è insediata da 40 giorni e non abbiamo nessuna riverenza verso un boss. Se i fatti e le motivazioni di quella fermata sono quelli ricostruiti finora noi siamo i primi a condannare e a prendere le distanze», spiega Domenico Giannetta, sindaco di Oppido Mamertina. «A quanto appreso finora - spiega ancora il sindaco - la ritualità di girare la madonna verso quella parte di paese risale a più di 30 anni, ma questa - chiarisce Giannetta - non deve essere una giustificazione. Se la motivazione è, invece, quella emersa condanniamo fermamente. Noi - sottolinea - siamo un’amministrazione che vuole perseguire la legalità. Ci sentiamo come Amministrazione Comunale indignati e colpiti nel nostro profilo personale e istituzionale. Era presente al corteo religioso tutta la Giunta Comunale, il Presidente del Consiglio Comunale, il Comandante della Polizia Municipale e il Comandante della Stazione dei Carabinieri di Oppido. Giunti all'incrocio tra via Ugo Foscolo e Corso Aspromonte, nel seguire il Corteo religioso tutti i predetti camminando a piedi svoltavamo a sinistra, circa 30 metri dietro di noi vi erano i presbiteri e ancora dietro la vara di Maria SS. Delle Grazie. Mentre tutti procedevamo a passo d'uomo la vara si fermava all'intersezione predetta e veniva girata in direzione opposta al senso di marcia del Corteo, come da tradizione. Peraltro, nell'attimo in cui i portatori della vara hanno espletato tale rotazione, improvvisamente il Comandante della Stazione locale dei Carabinieri che si trovava alla destra del Sindaco si è distaccato dal Corteo, motivando che quella gestualità era riferibile ad un segno di riverenza verso la casa di Mazzagatti. Sentiamo dunque con sobrietà di condannare il gesto se l'obiettivo era rendere omaggio al boss, perché ogni cittadino deve essere riverente alla Madonna e non si debba verificare al contrario che per volontà di poche persone che trasportano in processione l'effigie, venga dissacrata l'onnipotenza divina, verso cui nessun uomo può osare gesto di sfida. Dal canto nostro nell'immediatezza del fatto, nel dubbio abbiamo agito secondo un principio di buon senso e non abbiamo abbandonato il Corteo per non creare disagi a tutta la popolazione oppidese ed ai migliaia di fedeli che giungono numerosi da diversi paesi ed evitare il disordine pubblico».

Se non vanno bene, possiamo cambiare le regole. Bene ha fatto a centinaia di km in quel di Salerno il clero locale. Meno applausi e più preghiere, affinchè la processione di San Matteo ritorni ad essere «un corteo orante» e non un teatro o un momento «di interessi privatistici», scrive “La città di Salerno”. L’arcivescovo Luigi Moretti annuncia così le nuove “regole” che, in linea con la Cei, caratterizzeranno la tradizionale celebrazione dedicata al Santo Patrono, invitando tutti - fedeli, portatori, istituzioni - a recuperare il senso spirituale della manifestazione. Non sono previste fermate dinanzi alla caserma della Guardia di Finanza, nè dinanzi al Comune. Aboliti gli “inchini” delle statue che per nessuna ragione dovranno fermarsi sulla soglia di bar e ristoranti, visto che «sono i fedeli che si inchinano ai Santi e non il contrario». Nessuna “ruota” delle statue, fatta eccezione per tre momenti di sosta all’altezza di corso Vittorio Emanuele, corso Garibaldi e largo Campo. I militari che sfileranno dovranno essere rigorosamente non armati e le bande saranno ridotte ad un unica formazione. Le stesse statue saranno compattate «in un blocco unico per evitare dispersioni». Nei giorni che precedono la processione saranno organizzate iniziative nelle parrocchie della zona orientale, «che prima erano tagliate fuori dalla celebrazione». Il corteo sarà aperto da croci e candelabri, poi le associazioni, con l’apertura anche a quelle laiche, altra novità di quest’anno. A seguire la banda, le statue, il clero «su doppia fila», l’arcivescovo che precederà San Matteo e dietro i Finanzieri, il Gonfalone del Comune e le autorità con il popolo. Durante la sfilata «si pregherà e verranno letti dei brani del Vangelo». No ai buffet allestiti per ingraziarsi il politico di turno con brindisi e pizzette. «Quelle, se i fedeli vorranno, potranno recapitarle a casa dei portatori», ha ironizzato Moretti. «Ben venga chi vuole offrire un bicchiere d’acqua a chi è impegnato nel trasporto delle statue, ma il resto no, perchè c’è un momento per fare festa ed uno per pregare».

In conclusione sembra palese una cosa. Gli inchini nelle processioni non sono l’apologia della mafia, ma spesso sono atti senza analisi mediatica dietrologica. Molte volte ci sono per ingraziarsi, da parte dei potenti, fortune immeritate. Sovente sono un segno di protesta contro uno Stato opprimente che ha vergognosamente fallito.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima. Si inchina a tutti, per poi, un momento, dopo tradirlo. D'altronde ognuno di noi non si inchina a Dio ed ai Santi esclusivamente per richieste di tornaconto personale? Salute o soldi o carriera?

Ricordatevi che lo sport italico è solo glorificare gli appalti truccati ed i concorsi pubblici falsati.

Dr Antonio Giangrande

Antonio Giangrande: L’ANTIRACKET SALENTO PRESENTATA DA ALFREDO MANTOVANO

LA POSIZIONE DELL’ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE

Antiracket Salento. Arrivano con il progetto Pon sulla Sicurezza 2.4 dall’Unione Europea 1.351.000,00 Euro per il Salento. Un contributo per le province di Taranto, Lecce e Brindisi per l’apertura di sportelli comunali antiracket che raccolgano le denunce. “La nostra terra è meritevole di un sostegno” ha spiegato l’onorevole Alfredo Mantovano a Taranto il 22 giugno 2012 in un incontro con la stampa ed il sindaco di Taranto.

Il dr. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, riguardo agli aspetti trattati da Alfredo Mantovano (ex magistrato, eletto PDL, ex AN) rilascia questa dichiarazione:

«la nostra terra è sì meritevole di un sostegno, ma perché è ritenuta un covo di mafiosi, in quanto così è presentata da chi ha un interesse politico od economico. Per raccogliere le denunce non ci sono già le caserme dei carabinieri, i commissariati o le Procure? Come presidente nazionale, quindi, data la mia esperienza extraterritoriale, ho adottato alcune misure che ho proposte a tutte le Prefetture d’Italia. Suggerimenti divulgabili ed adottabili da ogni ente governativo provinciale, per poterne usufruire ed apprezzare gli aspetti più utili. Il tutto senza alcuna reclame.

L’Associazione Contro Tutte le Mafie:

con Tele Web Italia, la sua web tv nazionale, ospita tutte le web tv locali e dà visibilità gratuita al territorio ed alle aziende che ivi producono per superare la crisi di mercato o il pericolo di usura;

considerando che le vittime del racket e dell’usura non hanno bisogno di visibilità e non vogliono apparire per paura delle ritorsioni, ha predisposto sui suoi siti web associativi uno sportello telematico (VADEMECUM) affinchè le vittime, senza ausilio di intermediari, possano accedere agli strumenti di denuncia e di autotutela più adeguati, previa informazione senza filtri sui benefici di legge, questo perché gli sportelli antiracket aperti a Lecce, Taranto e Brindisi, od in altri posti, pur in apparenza utili, possono sembrare solo strumenti di propaganda politica e di speculazione economica per attingere ai progetti PON o POR;

ha invitato ad una collaborazione reale la Camera di Commercio e le associazioni di categoria attraverso l’accesso ai Cofidi o gli Interfidi per superare l’ostacolo della mancata fruizione di finanziamenti dalle banche, per evitare il fallimento delle aziende o l’accesso al mondo usuraio dei cittadini.

In virtù di tali atti e proposte, quindi, si spera in una collaborazione senza oneri per lo Stato e che non sia solo di stampo burocratico, con la creazione di un Pool informale con il delegato dell’ufficio competente presso la Prefettura territoriale; con il responsabile della locale Camera di Commercio, Industria, Agricoltura ed Artigianato, in rappresentanza delle categorie sociali ed economiche; con il magistrato delegato ai reati specifici; con la presente associazione che telematicamente aiuta i bisognosi sul territorio a trovare una sponda istituzionale per risolvere i loro problemi. Insomma, noi abbiamo bisogno da parte dello Stato di avere un solo nome presso cui convogliare le innumerevoli richieste di aiuto, per ovviare altresì ai disservizi esistenti nel sistema. Quel nome istituzionale, territorialmente, deve garantire: procedibilità della denuncia fondata presentata; immediato accesso ai finanziamenti dei Cofidi e Statali od ai risarcimenti di legge; tempestiva interruzione dei procedimenti giudiziari esecutivi a carico dell’usurato denunciante. Crediamo che la lotta al racket ed all’usura (anche bancaria e di Stato) non debba essere fatta solo di chiacchiere, ma deve essere sostenuta da atti concreti, che a quanto pare nessuno vuole adottare. La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.» Dr Antonio Giangrande

Insalaco, «il piacere dell’onestà» di un sindaco ucciso dalla mafia. Il Corriere della Sera il 13 giugno 2023.

Chi era Giuseppe Insalaco? Un sindaco anomalo di Palermo che si rifiutò di seguire le logiche dei grandi appalti e di sottostare alle logiche dei ras democristiani? Un democristiano di cui, però, diffidava Salvo Lima perché lo considerava «ladro e sbirro»? «Ladro» perché conosceva e frequentava mafiosi come Stefano Bontate e Salvatore Greco; «sbirro» perché conosceva e frequentava prefetti di polizia come Emanuele De Francesco, generali dei carabinieri come Carlo Alberto Dalla Chiesa. Un uomo dei servizi? La più affascinante interpretazione, come ricorda Bianca Stancanelli, resta quella di Leonardo Sciascia che descrisse la sua morte come il culmine di un «dramma in tre atti» il cui protagonista era un democristiano di lungo corso «pirandellianamente calatosi nel piacere dell’onestà» e che per questo era stato punito.

La sindacatura di Giuseppe Insalaco, diventato primo cittadino il 13 aprile del 1984 è durata appena 101 giorni. È stato ucciso in un agguato mafioso il 12 gennaio del 1988. Un omicidio sul quale ancora oggi restano molte ombre (mai individuati i mandanti), anche per le modalità molto strampalate con cui fu eseguita la condanna a morte in via Cesareo (di cui un tratto gli è stato recentemente intitolato). Tocca ancora a Emilia Brandi e ai suoi di autori di Cose nostre calarsi nei misteri della mafia per cercare qualche brandello di verità in quella Palermo degli anni 80 dove Vito Ciancimino regnava sopra ogni altra istituzione: Il piacere dell’onestà (Rai1 e Rai Play). Con la consueta passione indagatrice, Brandi intervista la figlia di Insalaco, Ernesta, l’ex sindaco Leoluca Orlando, la giornalista Bianca Stancanelli, l’ex dirigente della Squadra Mobile Francesco Accordino.

Tra enormi difficoltà, Insalaco cercò di cambiare il corso degli eventi a Palazzo delle Aquile ed è certamente questo che non gli fu mai perdonato. «Mi facevano trovare ogni mattina i mandati di pagamento sulla scrivania — spiegò Insalaco alla Commissione antimafia — confusi insieme alla posta ordinaria. Speravano che non me ne accorgessi, che firmassi quelle delibere insieme alle ricevute. Ogni delibera valeva decine di miliardi». Cercò ma non ci riuscì. 

"Abbiamo ucciso un bravo ragazzo": chi era Michele Fazio, col sogno di fare il carabiniere. Angela Leucci il 6 Giugno 2023 su Il Giornale.

Lella e Pinuccio Fazio girano l'Italia combattendo contro mafia e omertà: nel 2001, il figlio Michele Fazio fu colpito e ucciso durante una vendetta tra clan avversari

Tabella dei contenuti

 L’omicidio e le condanne

 La lotta antimafia

 La piece teatrale

La storia dell’omicidio di Michele Fazio, durante una sparatoria della criminalità organizzata, è una vicenda che fa male anche a decenni di distanza. Una vicenda con un insegnamento: la lotta per la legalità riguarda tutti, l’uomo comune non è qualcosa di scollato, di potenzialmente esente da danni quando si parla di criminalità organizzata. È qualcosa che sanno bene i genitori di questo giovane, che si affacciava alla vita e la cui esistenza, bontà, forza di volontà sono state stroncate da proiettili che non sono certo partiti da soli.

“Michele era sempre solare e sorridente - sono le parole di Lella Fazio a IlGiornale.it - Quando non arrivano a fine mese, lui era ancora un bambino, ma mi diceva: ‘Mamma, non ti preoccupare, ci penso io’. Alla fine della terza media, lui lasciò la scuola, una cosa che non accettai facilmente. Andavo a servizio da alcune famiglie per arrotondare. Così lui trovò un lavoro per aiutarmi. Tutti lo amavano al lavoro. Oggi sto bene economicamente, ma mi manca lui: la felicità è avere i figli accanto, stare bene con loro, dialogare”.

L’omicidio e le condanne

Era una sera d’estate a Bari vecchia, il 12 luglio 2001. Michele Fazio aveva quasi 16 anni: lavorava in un bar per aiutare la famiglia, trascorreva il tempo libero con i coetanei o, d’inverno, era impegnato anche negli studi serali. “Michele era un ragazzo che lavorava la mattina e il pomeriggio andava a scuola - racconta Pinuccio Fazio a IlGiornale.it - Lui aveva un sogno nel cassetto: voleva diventare un carabiniere, perché lavorava in un bar del centro frequentato dalle forze dell’ordine e si sentiva orgoglioso a servir loro il caffè, stimava queste persone. Andava ogni mattina a lasciare il caffè al prefetto Tommaso Blonda e lui lo lasciava accomodare sulla sua poltrona, conoscendo il suo sogno”.

Quella sera Pinuccio Fazio, che lavora per le ferrovie e quindi è spesso lontano dalla Puglia, è a casa, è il suo ultimo giorno di ferie. Ordina le pizze, per mangiarle tutti insieme in famiglia. Ma il figlio Michele quella sera non torna a casa, viene freddato sulla soglia con un proiettile alla nuca, capitando, suo malgrado, nel mezzo di una sparatoria. “Era stato sul lungomare con gli amici - continua Pinuccio Fazio - Prima di uscire mi era venuto a dare un bacio e io gli ho detto: 'Se torni un po’ prima ordino le pizze'. Michele non suonava al citofono, chiamava col telefonino per chiedere che gli fosse aperto il portone. Quella sera c’erano almeno 70 esponenti del clan in cerca di vendetta. Alle 22.40 suonò il telefono di casa e mia figlia, che aveva 13 anni, andò a rispondere: era Michele per dire che sarebbe tornato a momenti. Sentimmo almeno una decina di colpi di pistola. Non avevo mai sentito questi suoni, abbiamo pensato fossero fuochi d’artificio, che a Bari vecchia sono molto diffusi per compleanni e ricorrenze. Ma non erano fuochi d’artificio, erano colpi di pistola. Mia figlia dalla finestra vide Michele da solo, nella piazza deserta, in una pozza di sangue. Non ci credetti subito, ma poi ho iniziato a capire. Ci abbiamo messo una vita per creare una famiglia, dei vigliacchi, degli assassini l’hanno distrutta in una manciata di secondi”.

Quella stessa sera infatti era in atto una vendetta tra clan malavitosi. “C’è chi disse che Michele si era trovato al posto sbagliato al momento sbagliato, ma io pensavo: ‘Un figlio non può neppure tornare a casa dai genitori?’”, aggiunge Lella Fazio. Qualche settimana prima era stato ucciso Francesco Capriati, un omicidio compiuto dal clan rivale Strisciuglio. Un gruppo formato da membri del clan Capriati, in alcuni casi giovanissimi, avevano progettato di uccidere uno qualsiasi degli Strisciuglio. E invece hanno ucciso Michele Fazio, tra l’altro rendendosene conto e pronunciando la frase: “Sim accis o uagnon bun”, abbiamo ucciso un bravo ragazzo.

“Il ragazzino che guidava riconobbe Michele - ricorda Lella Fazio - erano andati a scuola insieme, al calcetto, al catechismo, e Michele gli dava tutto quello che aveva, lo difendeva per via della sua famiglia disagiata. Non disse: ‘Abbiamo ammazzato il ragazzo sbagliato’, ma ‘Abbiamo ammazzato un ragazzo buono’. Michele amava tutti e sapeva perdonare, non accettava discriminazioni”.

Dopo una prima archiviazione del caso, nel 2003, il caso fu riaperto nel 2004 e nel 2005 arrivarono le prime condanne. “Ho provato rabbia - chiarisce Pinuccio Fazio in merito all’archiviazione - Ho chiamato la stampa e con mia moglie abbiamo scatenato un putiferio. Allora le forze dell’ordine sono venute a trovarci, per dirci: ‘Siamo con voi’”. A Francesco Annoscia fu inflitta una pena di 15 anni e 8 mesi di reclusione - che ha già scontato - mentre a Raffaele Capriati di 17 anni. Nel 2016 fu condannato anche chi guidava lo scooter nell’organizzazione dell’agguato, ovvero Michele Portoghese, che sta scontando 7 anni e 6 mesi: all’epoca dei fatti era tra l’altro minorenne, coetaneo della vittima.

“Sono 22 anni che giriamo per l’Italia a raccontare la storia di Michele - dice ancora Pinuccio Fazio - Ogni volta riviviamo quei momenti, ma sappiamo di non doverci fermare. Ognuno può fare la propria parte. All’epoca c’era gente che si era chiusa nell’omertà, e invece le persone hanno poi iniziato a collaborare, ognuno con piccoli gesti”. I genitori di Michele Fazio, come detto, non si sono arresi. Anzi, secondo una parte dell’opinione pubblica, hanno giocato un ruolo fondamentale nel cambiare in meglio il volto di Bari vecchia dal punto di vista della sicurezza.

Da Pinuccio a Lella Fazio, puntualmente, durante questi incontri, arriva l’invito a rifiutare l’omertà. “Il Signore ha preso mio figlio, lo abbiamo accettato - chiosa Lella Fazio - Perché ci aspettava un cammino, e il nostro cammino è questo. Ora il Signore mi dà la forza per andare a parlare con i ragazzi di legalità per dir loro di rifiutare l’omertà. Sono una mamma che dà un consiglio: chi sceglie la mafia non avrà più vita, l’unica strada porta al cimitero. E i mafiosi hanno paura di chi parla. Dobbiamo collaborare con le forze dell’ordine e la magistratura contro la mafia”.

A partire dalla lotta dei genitori di Michele Fazio è nata una piece teatrale, “Stoc ddo - Io sto qua”, che prende il nome da una frase della madre del giovane ucciso. Si tratta di una produzione Meridiani Perduti, di e con Sara Bevilacqua, con la drammaturgia di Osvaldo Capraro. Per il 2023 le date previste per le repliche sono il 18 giugno a Livorno nell’ambito del festival Scenari di Quartiere e l’1 ottobre a Rimini.

“L’opera nasce dalla collaborazione con Capraro - illustra Bevilacqua a IlGiornale.it - Contattò un docente e scrittore barese, Francesco Minervini, che collabora con alcune famiglie che hanno avuto vittime innocenti di mafia in Puglia. Ci ha fatto conoscere Lella e Pinuccio: due persone straordinarie, accoglienti e generose, una famiglia generosa che ha trasformato il dolore in impegno civile”.

L’opera ha superato le 100 repliche in tutta Italia e si chiude sempre con un momento di incontro e riflessione, spesso con Lella e Pinuccio Fazio. “Lella ci ha detto: ‘So che quando io non ci sarò, voi continuerete a far conoscere Michele, farlo vivere ancora’ - conclude Bevilacqua - Per me è un’emozione molto forte, perché la piece parte da una cosa che Lella ha sempre detto, ovvero il desiderio che quando morirà Dio le dia la possibilità di rivedere il figlio. Abbiamo voluto raccontare questa storia dal punto di vista di Lella, una leonessa che non si è arresa mai, che è andata a bussare alle porte dei mafiosi per conoscere i nomi dei colpevoli, che ha deciso di dire a tutti: ‘Io resto qui’, perché non vuole lasciare Bari vecchia di cui è orgogliosa, un luogo in cui da piccola viveva con le porte aperte. Lella e Pinuccio sono fonti di vita e di speranza”.

REATO DI PARENTELA”. La Cassazione: puoi fare impresa pure se hai il nonno colluso. Con la sentenza dello scorso 11 aprile viene scalfito il pregiudizio assoluto che soffoca l’economia del Sud: per la Suprema Corte l’azienda può andare avanti anche se ha tra i suoi familiari una persona ritenuta vicina alle cosche. Errico Novi su Il Dubbio il 2 maggio 2023

È un piccolo spiraglio. Ma può essere l’inizio di un capovolgimento radicale degli stereotipi antimafia. Secondo la Cassazione, l’influenza del crimine organizzato su un’azienda non può essere desunta dalla semplice parentela fra persone ritenute “colluse” e gli amministratori dell’impresa.

Dare per scontato che un imprenditore con familiari “scomodi” sia invariabilmente un prestanome di questi ultimi è dunque arbitrario, anzi illegittimo. È il senso di una sentenza (la 15156 del 2023) depositata dalla prima sezione penale della Suprema corte (presidente Monica Boni, relatore Raffaello Magi) poco meno di un mese fa, l’11 aprile. Vacilla finalmente il “comodo” (per chi vi ricorre) principio della “familiarità” che determina di per sé contiguità o addirittura “intraneità” al sistema criminale, principio in virtù del quale sono sottoposte a sequestro e confisca migliaia di aziende.

Nello specifico, la Cassazione ha accolto il ricorso con cui una giovane imprenditrice calabrese (M. D.), già destinataria di un’interdittiva, reclamava di poter accedere almeno alla cosiddetta “messa alla prova aziendale”: si tratta del controllo giudiziario attivato su volontà dell’imprenditore, istituto introdotto nel 2017. Non siamo insomma di fronte a una rivoluzione dei comunque rigidissimi criteri delle misure antimafia: si tratta di una concessione minima, ispirata al diritto e alla logica. La sentenza 15156 dell’11 aprile ha semplicemente ritenuto di poter accogliere la richiesta di “messa alla prova” nonostante il nonno della titolare, M. S., avesse avuto in passato rapporti con la cosca dei Mancuso. Secondo gli ermellini non si può negare, all’imprenditrice in questione, la possibilità di smentire l’ipotesi di subire, seppur in modo indiretto, l’influenza “per interposto parente” della ’ndrangheta.

Va detto che tale orientamento era già affiorato in qualche precedente decisione della Suprema Corte, in particolare con la sentenza 31831 del 2021, evocata ora nella pronuncia 15156 quando si ribadisce che «il condizionamento stabile delle attività di impresa, in caso di familiari non conviventi ritenuti portatori di pericolosità, non può essere affidato alla presunzione semplice derivante dalla complicità familiare». L’affermazione sembra particolarmente adeguata al caso della sentenza di aprile: la giovane imprenditrice, M. D., si era vista prima applicare dal prefetto l’interdittiva e quindi negare dal Tribunale e dalla Corte d’appello di Catanzaro l’accesso al controllo giudiziario previsto dalla riforma del codice antimafia promossa dall’allora guardasigilli Andrea Orlando (la legge 161 del 2017), la “messa alla prova”, appunto. Tutto perché il nonno della ricorrente, M. S., era stato a propria volta destinatario di misure di prevenzione, per pregresse relazioni con la cosca dei Mancuso.

Ma i magistrati di Catanzaro, sia in primo che in secondo grado (nel 2021 e nel 2022), erano stati del tutto indifferenti a un dettaglio, ampiamente segnalato dalla difesa della giovane imprenditrice nel ricorso in Cassazione: il nonno “scomodo” si era visto revocare le misure antimafia già nel lontano 2014, anche in virtù della propria “collaborazione” con i pm, grazie alla quale erano state condotte operazioni anti-’ndrangheta nel Vibonese e nel Lametino. E la prima sezione penale di piazza Cavour è netta nel far notare come la Corte d’appello non abbia tenuto «in debito conto» la decisione con cui la sezione “Misure di prevenzione del Tribunale aveva ritenuto «cessata la condizione di pericolosità sociale» di M. S., il nonno della ricorrente.

Cade, nella pronuncia della Cassazione, anche l’automatismo per cui un giovane imprenditore meridionale che abbia qualche parente coinvolto, anche solo in passato, in indagini antimafia, è certamente un “prestanome”, una figura di comodo che il parente colluso utilizza per tenere vive attività comunque collegate al crimine organizzato. Non può esserci un pregiudizio assoluto di questa natura, dicono gli ermellini: la Corte d’appello, fa notare la Cassazione, «non basa le proprie considerazioni circa l’assenza di capacità gestionale in capo a M. D. (l’imprenditrice ricorrente, nda) su argomentazioni fattuali, ma desume il dato storco», cioè la «stabile ingerenza di M. S., (il “nonno” ritenuto in passato contiguo ai Mancuso, nda) dalla ipotizzata riproposizione di un modus agendi constatato in occasione di una precedente procedura di prevenzione», che però si era conclusa nel 2018 e riguardava «altre compagini societarie». E in questo modo, la Corte d’appello di Catanzaro, scrive la Cassazione, offre «un esempio di fallacia per generalizzazione». Esattamente l’esiziale approccio che falcidia migliaia di imprese meridionali. E ancora, la presunzione per cui chi ha un parente macchiato dalla più o meno accertata vicinanza alle cosche ne sia senz’altro un prestanome non può di per sé “condannare” un’azienda, nel momento in cui i giudici si basano «su semplici congetture», su «ipotesi fondate su mere possibilità».

È un segnale. Certamente non basta a realizzare un definitivo cambio di rotta della magistratura rispetto ai pregiudizi sulle imprese del Sud. Solo per citare una pronuncia di pochi mesi antecedente, basta ricordare che il Tar di Reggio Calabria, lo scorso 20 gennaio, aveva rigettato un ricorso presentato da un altro imprenditore avverso l’interdittiva inflittale dal prefetto con la seguente motivazione: «L’interdittiva antimafia costituisce una misura preventiva che prescinde dall’accertamento di singole responsabilità penali nei confronti dei soggetti che ne sono colpiti», che «si fonda sugli accertamenti compiuti dai diversi organi di polizia» e che «per la sua natura cautelare e la sua funzione di massima anticipazione della soglia di prevenzione, non richiede la prova di un fatto ma solo la presenza di una serie di indizi, in base ai quali non sia illogico o inattendibile ritenere la sussistenza di un collegamento con organizzazioni mafiose». E proprio per questo, secondo il Tar Calabria, «deve ritenersi esclusa ogni presunzione di irrilevanza dei rapporti di parentela, ove essi, per numero e qualità, risultino indizianti di una situazione complessiva tale da non rendere implausibile un collegamento, anche non personale e diretto, tra soggetti imprenditori e ambienti della criminalità organizzata». Ragionamento in perfetto contrasto con quanto affermato dalla sentenza 15156 della Cassazione. Che però rappresenta un passo avanti impossibile da ignorare per qualsiasi magistrato, amministrativo o penale che sia.

LA SENTENZA A PALERMO. «Il suo collaboratore era tramite coi boss» Assolta l’ex deputata di Iv Occhionero, era accusata di falso. La donna, avvocato di origini molisane, era accusata di aver fatto passare per suo assistente, consentendogli così di entrare nelle carceri senza permessi e di incontrare diversi capomafia, Antonello Nicosia, l'attivista per i diritti dei detenuti diventato solo dopo suo collaboratore. Valentina Stella su Il Dubbio il 6 maggio 2023

“Giustizia è fatta!!! Dedico questa assoluzione ai miei genitori, a mio padre in particolare. Potrei dire tanto... ma preferisco godermi e dedicarmi questo momento di soddisfazione!!! Grazie a chi mi è stato sempre vicino. Ho sofferto tanto per le innumerevoli accuse infamanti prive di fondamento ma oggi sono felice!!”: con questo post su Facebook ieri pomeriggio l'ex parlamentare prima di Leu e poi di Italia Viva, Giuseppina Occhionero, ha annunciato di essere stata assolta dal tribunale di Palermo perché il fatto non sussiste. Il pm della Direzione distrettuale antimafia, Francesca Dessì, aveva chiesto una condanna a un anno e sei mesi per falso. La donna, avvocato di origini molisane, era accusata di aver fatto passare per suo assistente, consentendogli così di entrare nelle carceri senza permessi e di incontrare diversi capomafia, Antonello Nicosia, l'attivista per i diritti dei detenuti diventato solo dopo suo collaboratore. Grazie al rapporto con la Occhionero, estranea alla vicenda, ad esempio, Nicosia faceva da messaggero incontrando boss detenuti al 41 bis come Filippo Guttadauro, cognato di Matteo Messina Denaro. Come ricostruito dall’accusa il 21 dicembre 2018, dopo aver avuto con Nicosia solo contatti telefonici, la deputata arrivò a Palermo e incontrò Nicosia con cui andò immediatamente a fare un’ispezione al carcere Pagliarelli. All’ingresso dichiarò che era un suo collaboratore: circostanza falsa secondo i pm. All’epoca, infatti nessun rapporto di lavoro sarebbe stato formalizzato. Il giorno successivo i due hanno fatto, con le stesse modalità, visite nelle carceri di Agrigento e Sciacca. Nicosia è già stato condannato lo scorso novembre in abbreviato in appello a 15 anni di reclusione per associazione mafiosa.

“Non è mai stato iscritto al Partito Radicale” twittò ai tempi l’account del Partito Radicale, dopo che con lui era stata presa di mira e messa in discussione tutta l’attività dei radicali nelle carceri italiane. Occhionero, parlando davanti ai giudici del suo ex collaboratore, ammise: “Ho sbagliato. Ho sbagliato tutto. Mi sono fidata di lui”. L’ex deputata dopo pochi mesi dall’inizio della collaborazione cominciò a dubitare del curriculum di Nicosia e da lì i rapporti

tra i due si sarebbero incrinati. Occhionero è stata assistita dagli avvocati Giovanni Di Benedetto e Giovanni Bruno e ai cronisti locali ha aggiunto: «Purtroppo questo processo non aveva proprio ragione di essere ed è stato largamente strumentalizzato, trasformandosi in un processo mediatico più che in un processo di tribunale che mi ha doppiamente ferita».

In tal senso ci sono da ricordare le accuse da parte del Fatto Quotidiano e una particolare puntata delle Iene quando ancora la donna non era indagata: come ricordato dalla testata Primonumero, «la deputata è stata sorpresa prima a Termoli e poi a Campomarino, ma si è trincerata dietro il silenzio davanti alle domande incalzanti dell’inviato del noto programma Mediaset sul suo comportamento, o almeno da quello che traspare dalle telefonate e dai messaggi audio che gli inquirenti hanno intercettato» . La situazione però precipitò «quando l’inviato ha seguito la Occhionero a casa, scatenando la reazione dei familiari. Il papà dell’esponente politica di Campomarino ha inseguito la troupe delle Iene con una scopa a mo’ di bastone» mentre la figlia provava «a farlo rientrare in casa, chiedendo che il giornalista e la trasmissione lascino in pace l’intera famiglia che, parole sue, “da dieci giorni non mangia e non esce di casa”». Nelle prossime puntate ricorderanno l’assoluzione di ieri?

La lezione di Peppino Impastato oltre la retorica e gli slogan. Enrico Bellavia su L'espresso l'8 Maggio 2023

Figlio e nipote di mafioso si ribellò alla sua famiglia di sangue. A 45 anni dall’uccisione del militante di Dp la storia di un’esperienza politica esemplare. In un libro il ricordo dei compagni, un ritratto autentico fuori dagli stereotipi

Brutto affare quando la memoria non è che una maglietta. Ristretta dallo stress dei continui lavaggi. La tirano sul davanti esibendo la retorica mentre un refolo di verità gli gela la schiena. Da 45 anni, ormai, nell’ultimo ventennio soprattutto, accade più o meno questo con il ricordo, meglio sarebbe dire i ricordi, di Peppino Impastato, il militante demoproletario, giornalista e consigliere comunale, post mortem, ucciso dalla mafia di Gaetano Badalamenti, sulla ferrovia di Cinisi (Palermo) il 9 maggio del 1978.

Già il giorno esatto del delitto è stato per lungo tempo un favore alla rimozione. Quella, per la grande storia, è la data del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, lo statista, presidente della Democrazia Cristiana, assassinato dalle Brigate rosse dopo 55 giorni di prigionia. E la coincidenza di calendario è stato un inatteso dono per relegare la storia di un assassinio politico-mafioso nel cono d’ombra di un’immane tragedia nazionale.

Impastato, dissero i carabinieri e la procura avallò lesta, era morto nel tentativo maldestro di piazzare un ordigno sui binari: un bombarolo di provincia, in preda ad astratti furori ideologici, vittima del proprio lavoro sporco. Fu necessaria questa messinscena per proteggere movente e mandante. Sebbene tutto - i reperti, i resti, le condizioni del corpo, i testimoni mai ascoltati - cospirasse a smascherare la menzogna, funzionò. E in parte funziona ancora. Anche adesso che giustizia è fatta.

Ma sul delitto e non certo sul depistaggio che ha mandato a vuoto per lustri la macchina della verità. Si deve all’ostinazione dei familiari di Impastato, dei compagni, di Umberto Santino e di Anna Puglisi, la sterzata impressa alle indagini che da Rocco Chinnici ad Antonino Caponnetto, fino all’accusa sostenuta in aula da Franca Imbergamo, portò tra il 2001 e il 2002 alla condanna di Badalamenti e del suo gregario Vito Palazzolo. E sono loro a non rassegnarsi ancora di fronte al galleggiare nell’indistinto dell’indicibile, tra le stanze della procura e quelle della commissione parlamentare antimafia, delle complicità che resero facile la lunga impunità del boss.

Per loro, Impastato è un caso ancora aperto. A dispetto di chi, senza troppe domande, vorrebbe congelarne il ricordo dentro un rassicurante santino dell’antimafia di maniera. Frasi fatte che nulla dicono della complessità dell’uomo. E soprattutto della straordinaria, esemplare, parabola: figlio e nipote di mafiosi che rompe con la famiglia di sangue - «caso unico», dice Umberto Santino - che trascina nella radicale trasformazione la madre e il fratello e contagia un’intera generazione, la stessa che aveva condiviso in uno sforzo autenticamente collettivo le battaglie politiche per la casa, l’acqua, contro l’esproprio delle terre per l’aeroporto e lo sfruttamento dei manovali nell’eldorado edilizio da seconde case che era diventato quel lembo di costa.

Molti dei compagni di lotta si ritrovano a rievocare quei giorni di impegno nel Psiup e in Lotta Continua, da ultimo in Dp, ma anche le divaricazioni, i tentennamenti e le ipocrisie del Pci, in un racconto corale, curato da Pino Manzella, il pittore autore di molte delle immagini che accompagnano la storia della resistenza civile di quel movimento e il percorso successivo all’omicidio.

Il libro “Peppino Impastato. La memoria difficile”, edito da Guerini e associati, tiene insieme, spiega Manzella, «i pezzi di un puzzle che, incastrati uno accanto all’altro, ci consegnano un ritratto di Peppino dalle diverse sfaccettature ma lontano dallo stereotipo dell’eroe che in questi anni gli è stato cucito addosso. E il fatto che molti ricordi coincidano nella memoria dei compagni e degli amici ci dà la consapevolezza di essere molto vicini al vero Peppino». Leader suo malgrado, compagno tra i compagni, animato da una vitalità irrefrenabile, aperto al confronto, gioviale, scherzoso, istrionico quanto rigoroso nell’impegno. Fantasioso nell’azione e nella denuncia ma concreto e puntuale nella denuncia.

Dal circolo di Musica e Cultura a Radio Aut, c’è il ritratto di un uomo votato alla dimensione politica in cui la mafia non è che uno dei volti del potere che fa rima con oppressione, negazione di futuro e di opportunità.

Il libro è il mezzo attraverso il quale si regolano conti di memoria su protagonismi e snodi, si correggono alcune storture entrate nell’immaginario collettivo ma è pure lo strumento con il quale molti dei compagni spiegano con il pudore, e se ne rammaricano, l’assenza di parole, il silenzio, di questi anni. Ritrosie e casi della vita che hanno portato tanti lontano ma con un bagaglio di consapevolezze maturate in quella stagione. Di Cinisi, specchio di un’Italia incline al compromesso, dicono non sia tuttora immune da una mafiosità diffusa. Anche per quel pezzo di società Peppino Impastato è un caso aperto. E non soltanto uno slogan su una t-shirt.

 «Denunciai la ‘ndrangheta ed ero sul punto di farla finita. Poi i carabinieri mi dissero: accenda il televisore, l'incubo è finito». Francesca Angeleri su Il Corriere della Sera il 24 Aprile 2023

La storia dell'imprenditore piemontese Mauro Esposito 

«Io credo fermamente nelle scelte che ho fatto e nella denuncia, però se dovessi consigliare a qualcuno di affrontare questo supplizio, prima gli direi di trattare con i suoi estorsori cercando in loro la pietas cristiana, chiedendo loro quanto costerebbe la sua serenità, quanto dovrebbe pagare per salvare la sua vita e quella dei suoi cari e sono certo che se riuscissero a giungere a un accordo, questo accordo i delinquenti lo onorerebbero. Lo Stato no. Lo Stato promette e poi ti tradisce». Questo estratto, molto duro, fa parte di un’antologia di prossima uscita, La tazzina della legalità, che racchiude le testimonianze di personaggi tra cui Pino Masciari, Klaus Davi, Rositani, Silvis, Suor A.M. Alfieri, Ruggero Pene. Lo scrive Mauro Esposito unico imprenditore piemontese a denunciare, sua sponte, la ’ndrangheta. I fatti sono noti. È già uscita una sua biografia, Le mie due guerre, in cui narra un’epopea atroce tra la malavita organizzata e l’enorme difficoltà di rimettere insieme una vita avendo contro una burocrazia statale senza scampo. Esposito oggi è un uomo provato ma che ha trovato una strada per la rinascita. 

Come sta? 

«Non ho più paura di niente. L’altro giorno mia figlia si è laureata in Ingegneria con il massimo dei voti. Mio figlio ha patito di più. Mi ricordo quando mi supplicava di andare a vivere in Svizzera». 

Adesso è forte, ma prima? 

«Sono stato un uomo distrutto. Per anni non sono riuscito a guidare. Non dormivo. Avevo attacchi di panico continui, tachicardie, flash notturni. Dopo cena, come a una certa ora le zanzare d’estate, tiravo un sospiro di sollievo. Poi ricominciava tutto. All’una prendevo lo Xanax, la mattina gli psicofarmaci. Come molte altre vittime di mafia mi è stata diagnosticata la sindrome da ansia post traumatica da stress per la quale dovrei avere un risarcimento che non ricevo, nonostante lo Stato abbia perso una causa che gli impone di pagarmi».  

Di quella paura ha ancora degli strascichi? 

«Quando i miei figli rientrano, la sera, il momento peggiore è tra la macchina e la porta di casa. Fino a quando non la sento chiudersi non respiro. Gli psicofarmaci però, una mattina li ho gettati via. Grazie all’analisi e a un chiropratico». 

Il momento peggiore? 

«Il 2014. Stavo perdendo tutto, avevo i conti bloccati, le proprietà pignorate, non ci capivo più niente. Andai da un noto avvocato torinese. “Lei è un bancarottiere — mi disse — la smetta di dirmi delle balle. A insinuare della mafia. La colpa è sua”. Mi umiliò. Era sopra Platti, andai nel bagno del Caffè e vomitai. Ero a pezzi. Poi tornai in ufficio con la certezza che la mia vita era chiusa. In quell’istante ricevetti una telefonata dei Ros: “Accenda il televisore, il suo incubo è finito”». 

Cosa stava accadendo? 

«Era partita l’Operazione San Michele che coinvolgeva varie famiglie del Canavese. Io avevo denunciato. Avevo tutti i giornalisti fuori di casa. Chiamai il “principe del foro” che si vergognò al punto che non si fece passare». 

È una vicenda complessa in cui lei punta molto il dito contro lo Stato. Perché? 

«Non ce l’ho con il giudice che mi ha condannato (nel 2013 venne condannato per esercizio abusivo della professione, il magistrato si rifece a una legge di Mussolini — che in verità era stata abrogata — che vietava alle società di ingegneria di lavorare per i privati) voglio credere nella buona fede. Ma quando un giudice sbaglia, dovrebbe essere lo Stato a risarcire. Invece, fa a gara per trovare un vizio formale pur di non pagarti. La mia vicenda è una sequela di errori della Pubblica Amministrazione in ogni sua forma». 

Lei è molto severo. 

«Chiunque abbia a che fare con il sistema della ‘ndrangheta e la denuncia, pagherà con lo Stato un conto salato». 

Non salva niente e nessuno? 

«Devo tutto ai carabinieri, alla Procura della Repubblica, ai giudici penali. Mi hanno salvato la vita. E non solo dalla mafia. E anche a Pino Masciari, a Libera e a Legalità Organizzata». 

Ha pensato mai di farla finita? 

«I giorni successivi la sentenza civile che mi ha visto soccombere contro quei tizi che verranno arrestati pochi mesi dopo per associazione mafiosa grazie alle mie denunce. Era il 23 dicembre, ero alla Parrocchia della Beata Vergine in Crocetta. Vedevo ‘ndrangheta dappertutto, ma non ero pazzo. Avevo bisogno di parlare con qualcuno che capisse cosa mi stava accadendo. Maurizio Corgo era un sostituto commissario e una persona di cui mi fidavo. “Devo riferirle alcune cose”. Mi raggiunse al caffè Piazzi, seppi solo dopo che aveva lasciato sua figlia in macchina oltre un’ora per parlare con me. Ero sull’orlo di buttarmi dal ponte. Al posto della tombola in famiglia era lì che mi rassicurava: “Deve avere fiducia nella giustizia, creda nelle forze dell’ordine”. Me lo ripeté almeno dieci volte». 

Punti di svolta? 

«Renzi premier che prende in mano la questione della legge di Mussolini dichiarando la “mia sentenza” un abbaglio giudiziario. A lui, alla Bonomo, a Stefano Esposito e a Davide Mattiello sarò sempre grato; Milena Gabanelli che mi chiama al telefono, una scintilla. Oggi mi fido moltissimo del sottosegretario di Stato Alfredo Mantovano, uomo di grandissimi valori e di Giacomo Portas che mi ascolta e consiglia come un fratello maggiore». 

La sua vita prima di tutto questo? 

«A colori. Mio padre faceva il benzinaio, io ero riuscito a mettere in piedi una tra le società di ingegneria tra le più quotate al mondo. Avevamo cantieri in Oman, a Dubai. Stavamo addirittura meditando di comprare un aereo, ci sarebbe convenuto tanti erano i voli che prendevamo». 

Ce l’ha ancora un sogno? 

«Vorrei diventare parlamentare per occuparmi delle cose che conosco bene. Il problema non è solo la malavita, tutto nasce dall’inefficienza della burocrazia e dalla mancanza di coraggio di fare le scelte giuste. Che non si fanno perché la politica è un’eterna campagna elettorale e quelle sono cose che poi non ti fanno rieleggere. Mi cercano poco perché la verità non la vuole nessuno». 

Faccia un esempio. 

«Mi appello a due persone che stimo molto, al sindaco Lo Russo e alla vicesindaca Favaro, che ha la delega alla legalità: non ci sono gru in città, i grandi investitori se ne vanno. Il nostro sistema burocratico è irrispettoso e questo è un territorio ideale per far crescere l’illegalità. È folle che non si riescano a ottenere permessi se non in tempi biblici. In un sistema come questo, troverai sempre qualcuno che ti propone una strada alternativa. Sempre più, denunciare è una cosa che si possono permettere solo i ricchi. Le regole prima di tutto deve rispettarle chi gestisce la cosa pubblica».

Estratto dell'articolo di Roberto Marrone per fanpage.it il 23 aprile 2023.

Subito dopo la provincia di Palermo, quella di Trapani in Sicilia si conferma uno dei territori con più beni confiscati alla criminalità organizzata. Per la precisione a oggi ammontano a 327 (per un valore di circa 13 milioni di euro) i beni sequestrati ai mafiosi trapanesi e attualmente in disuso. 

[…] 

ben 121 i beni riconducibili all'ex superlatitante Matteo Messina Denaro, di proprietà non solo di familiari, ma di vari boss locali e di suoi presunti affiliati che hanno permesso il suo mantenimento durante gli anni della latitanza. 

Dopo diversi anni di attesa, saranno 288 sui 327 totali i beni che verranno immediatamente assegnati così come illustrato durante la conferenza stampa. In particolare, toccherà al comune di Castelvetrano, città natale di Matteo Messina Denaro, il numero maggiore di beni confiscati.

Nello specifico toccheranno 109 beni per un valore di 4,5 milioni: 73 terreni agricoli, 3 abitazioni, 3 appartamenti in condominio, 10 locali di deposito, 1 fabbricato in costruzione, 6 terreni, 3 box garage, 8 terreni con fabbricato rurale e 2 altri beni. 

A Campobello di Mazara, dove ha vissuto il boss negli ultimi anni, toccheranno 49 beni (1,8 milioni): 10 appartamenti in condominio, 3 abitazioni indipendenti, 5 magazzini, 1 villa, 1 terreno con fabbricato rurale, 3 terreni agricoli, 2 negozi, 3 box garage, 21 terreni. 

[…] A Salemi invece sono 54 i beni che verranno messi a disposizione, per un valore di 514.576 euro, A Custonaci 52 beni (per un valore di quasi 2 milioni) tra fabbricati, alberghi e pensioni. Castellammare del Golfo riceverà 49 beni (539.988 euro), a Trapani toccheranno 5 beni (23.445 euro), tre terreni agricoli (4.184 euro) andranno a Paceco. Un albergo dal valore di 3,5 milioni andrà al comune di Valderice. Un’abitazione indipendente (56.160 euro) al comune di Partanna. Un terreno agricolo (3.014 euro) a Marsala e un terreno dal valore di 5.782 euro al Comune di Alcamo. 

[…]

Lettera aperta all’assassino di Antonino Lombardo, il Maigret antimafia fatto passare per suicida. Dopo la riapertura delle indagini su input della famiglia del maresciallo, lo scrittore e regista Aldo Sarullo scrive all’omicida: “Confessa e riprenditi la tua vita”. Due perizie escludono che il militare si sia ucciso in caserma. Aldo Sarullo su L’espresso il 29 Marzo 2023

«Tutto parla di omicidio», afferma l’avvocato della famiglia del Maresciallo Antonino Lombardo, Salvatore Traina e il dossier che ha in mano lo dimostra.

Uno gli ha sparato e alcuni altri, pur sapendo, hanno taciuto e probabilmente ne hanno tratto utilità. Questo è il necessario antefatto di questa lettera.

Comincia così la missiva che Aldo Sarullo, scrittore e regista che curò le riprese del maxiprocesso alla mafia scrive rivolgendosi direttamente all’autore del delitto. Perché Sarullo sposa la tesi della parte civile che, sulla base di due perizie, ha fatto riaprire le indagini. Il regista era presente nello studio televisivo di Michele Santoro dal quale Leoluca Orlando, allora sindaco di Palermo e Manlio Mele sindaco di Terrasini, appena dieci giorni prima della morte del militare, avvenuta il 4 marzo del 1995 alla caserma Bonsignore di Palermo, sollevarono dubbi sull’integrità del maresciallo Lombardo. Sarullo assistette al tentativo di intervenire in diretta telefonica del comandante generale dell’Arma Luigi Federici. La sua chiamata però non fu passata.

Con un esposto presentato il 15 settembre dell’anno scorso, l’avvocato Salvatore Traina, legale di Fabio Lombardo, il figlio del maresciallo, ha presentato una corposa richiesta di riapertura delle indagini, poi accolta.

Ha allegato due perizie: una esclude che l’arma del maresciallo possa essere quella che l’ha ucciso. La seconda mette in forse l’autenticità della lettera testamento trovata accanto al cadavere.

Appena pochi giorni fa, il legale ha chiesto la riesumazione del corpo per effettuare l’autopsia che allora non fu fatta e l’accesso alla caserma Bonsignore.

Qui il testo integrale della lettera di Sarullo. 

Scrivo all’assassino e ai suoi complici. Da uomo a uomo.

A te che hai ucciso un uomo o ne hai condiviso o coperto l’assassinio, magari supponendo di agire in nome di valori superiori;

a te a cui così tanto piace che chi ti guarda ti creda con la coscienza pulita, e invece sai che sei un assassino o un suo complice;

a te che sino ad ora sei stato protetto, ma che ora vedi rimesso in discussione il tuo futuro e la dignità, la stima, l’aura morale che ti sei costruito attorno;

a te che ora guardi alla possibilità, anzi, alla certezza che si scopra il tuo crimine e tuttavia rifiuti di crederlo possibile;

a te che dal tribunale della coscienza sei condannato ogni giorno perché ti manca il coraggio di confessare e di liberarti non del delitto commesso,

ma della tua finzione nella società e tra le persone che ti sono care;

a te che non hai la libertà di mostrarti normale perché sei costretto a difenderti da quel tuo crimine sforzandoti di mostrarti eccellente;

a te che, ormai in età avanzata, perderai con la condanna tutto ciò che hai costruito e vedrai fissata tutta la tua vita nel tuo crimine di un solo giorno;

a te che potresti guadagnarti il merito storico di avere saputo dire la verità dopo decenni di tumultuoso silenzio;

a te che, confessando prima di essere riconosciuto colpevole, potresti spostare tutto il senso della tua vita e del ricordo di te;

a te che potresti restare nella Storia come quell’uomo che, dopo aver scelto quel delitto, ha scelto il suo liberatorio castigo.

Accanto a te, da uomo a uomo, io ti prospetto di riprenderti la tua vita perché, con il tuo silenzio, finora l’hai persa anche tu.

Datti aiuto.

Il corteo a Milano e gli irriducibili del giustizialismo. Manifestazione dell’antimafia per la verità, ma i processi hanno già detto tutto…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Marzo 2023

Vogliamo la verità sui delitti di mafia. Il grido sale dal corteo che attraversa il centro di Milano per poi concentrarsi in piazza Duomo, dove la voce dei parenti delle vittime di Cosa Nostra cede la voce, e il palco, ai politici di sinistra invitati da Libera, il cartello di associazioni fondato da don Ciotti. Erano tredici anni che non veniva celebrata questa giornata rievocativa. E sono datate a dieci e anche venti anni fa le grandi inchieste sulla criminalità organizzata al Nord condotte dall’ex responsabile della Dda milanese Ilda Boccassini. Inchieste come “Infinito” o “I fiori di San Vito” con le loro alterne risultanze processuali e la costante, purtroppo inutile, denuncia degli avvocati del fatto che nei processi su reati di mafia regolarmente saltano le regole dello Stato di diritto, quelle che in genere governano i dibattimenti “normali”. Più che politica del doppio binario, veri binari morti, per le garanzie degli imputati. Ma siamo a Milano, e si sa quale sia stato, fino a poco tempo fa, il rito ambrosiano, non solo nelle indagini su Tangentopoli.

L’anno 2023 segna per il capoluogo lombardo l’anniversario di una data tragica, quella della bomba di via Palestro, il 27 luglio del 1993. Non è chiaro se l’associazione Libera e il suo promotore don Ciotti abbiano scelto questa ricorrenza piuttosto che il 1992 con le uccisioni di Falcone e Borsellino, per scendere in piazza. Ma la connotazione tutta politica, con la presenza, non solo quella doverosa del sindaco Beppe Sala, ma in particolare anche quella di Elly Schlein, presente a Milano due volte di fila in pochi giorni, e gli interventi contro il governo, lasciano intravedere qualcosa di diverso. Lo ha ben intuito Silvio Berlusconi che, con la sua proverbiale marcia in più, si è affrettato a prendere posizione, con un’uscita sincera, ma anche opportuna, e forse preoccupata per una certa piega che stano prendendo certe indagini che corrono da Firenze a Reggio Calabria. Così, con le parole che sono patrimonio di tutti, il “pensiero commosso” per le vittime e i loro familiari e “l’omaggio a due figure emblematiche” come Falcone e Borsellino, compare anche il riconoscimento alle forze dell’ordine e alla magistratura “che ogni giorno rischiano la vita per la legalità e la sicurezza di tutti”.

È vero che nel commemorare le due più famose vittime delle bombe mafiose l’ex presidente del Consiglio ha tenuto a distinguere il loro “profondo rispetto delle garanzie e dello stato di diritto”, ma il riconoscimento alla magistratura come corpo in sé, rimane. E va a cadere, non casualmente, sulla manifestazione indetta da Libera, “cartello di associazioni contro le mafie” nato su iniziativa di don Ciotti nel 1994. Non nel 1992 con le sue stragi di Capaci e via D’Amelio, e non nel 1993 con le bombe di Milano Firenze e Roma, ma a pochi mesi dall’insediamento del primo governo Berlusconi. Nasce e diventa da subito un potente partito politico. Il successore naturale della “Rete” di Leoluca Orlando, padre Pintacuda e Nando Dalla Chiesa, con il sostegno forte di un pm di Mani Pulite come Gherardo Colombo. Nemici di Leonardo Sciascia e delle garanzie, cui preferivano il loro credo: “Il sospetto è l’anticamera della verità”.

Il gruppo di Libera si è impadronito del prezioso timbro di ceralacca dell’antimafia nella sua veste più ideologica e furibonda, “contro la mafia e la corruzione”, anticipando di molti anni le degenerazioni giuridiche del Movimento cinque stelle e della legge “spazzacorrotti” voluta dal ministro Bonafede. A questa base teorica di chi guarda la realtà in chiave moralistica per dividere il mondo in buoni e cattivi e poi processando questi ultimi in tribunali speciali, Libera ha accompagnato anche un aspetto economico. Favorendo la dissennata politica delle confische fondate sul sospetto più che sulle responsabilità penali, ha cominciato da subito a rivendicare per sé la primogenitura e il “bollino blu” per le assegnazioni ai propri aderenti degli immobili confiscati. Nel nome dell’antimafia, naturalmente, non dell’interesse commerciale. Abbiamo già raccontato quell’esempio di Buccinasco e del sindaco lapidato perché si era permesso di offrire gli spazi confiscati a diverse associazioni e non a una sola. Mancava poco che qualcuno desse del mafioso a quel sindaco, perché aveva preferito un atteggiamento pluralistico nei confronti di tanti piuttosto che far aprire la pizzeria “antimafia”.

E la storia pare ripetersi, dopo gli attacchi di Nando Dalla Chiesa e Giancarlo Caselli al libro L’Inganno di Alessandro Barbano, che ha stracciato il velo dell’omertà di chi viola costantemente le regole nel nome di un bene superiore e della lotta a una mafia che viene dipinta sempre come eterna e invincibile. E intanto tutti i magistrati “in lotta” (obbrobrio in uno Stato di diritto) contro il crimine organizzato, dal procuratore calabrese Nicola Gratteri alla responsabile della Dda milanese Alessandra Dolci, si affannano a spiegare che non importa se la mafia non spara più, ma che si è trasformata in comitati d’affari. “Operatore economico e agenzia di servizi”, la definisce la dottoressa Dolci. Senza mai spiegare, né lei né i suoi colleghi, perché ancora esista nel codice penale quell’articolo 416 bis che pone l’assoggettamento e il con-trollo del territorio come requisiti fondamentali perché un certo comportamento possa rivelare l’esistenza di un’associazione criminale di tipo mafioso. Ma il retroscena delle manifestazioni “antimafia” sono le inchieste giudiziarie sul passato, sugli anni Novanta.

Che cosa significa, al di là dei sentimenti dei parenti delle vittime, cui va sempre rispetto, quel grido “vogliamo la verità”? Se intendiamo parlare di verità storica, ma anche di verità processuale, dobbiamo dire che sulla mafia di Cosa Nostra, ma anche sulla ‘ndrangheta e sulla camorra, si sa ormai tutto. Giovanni Falcone non credeva nel “terzo livello”, e ha avuto ragione. I processi, da quello contro Giulio Andreotti in avanti, hanno dimostrato i limiti politici e culturali proprio di movimenti come la Rete e Libera. E la natura vera di inchieste come quella che ha portato al processo “’ndrangheta stragista” di Reggio Calabria e le forsennate ( e già fallite nelle tre versioni precedenti) indagini fiorentine su Berlusconi e Dell’Utri come mandanti di stragi. In questo modo non si cercano né verità né giustizia, ma capri espiatori al fine di prolungare all’infinito il ruolo dell’ ”antimafia”.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Cinque libri per ricordare le vittime di mafia, tra lotta e sacrificio. In occasione della Giornata della memoria e dell'impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, ecco cinque libri su storie vere di persone che hanno perso la loro vita a causa della mafia. Gianluca Lo Nostro Andrea Muratore il 21 marzo 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 La Giornata in ricordo delle vittime innocenti di mafia in 5 libri

 Statale 106

 La vendetta del boss

 Pippo Fava. Un antieroe contro la mafia

 Padre Pino Puglisi. Martire di mafia

 Volevo nascere vento

La Giornata della memoria e dell'impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie è giunta alla sua ventisettesima edizione. Dal 2017, la giornata è stata riconosciuta anche dal parlamento con un voto unanime della Camera dei Deputati. Ogni anno nelle città italiane vengono organizzate manifestazioni per sensibilizzare l'opinione pubblica sull'importanza della lotta alla mafia, affinché sia un impegno costante e che tutti sentano il dovere di contribuire alla costruzione di una società libera dalla criminalità organizzata.

La Giornata in ricordo delle vittime innocenti di mafia in 5 libri

La prima vittima innocente in Italia fu il garibaldino Giuseppe Montalbano, ucciso la sera del 3 marzo 1861 a Santa Margherita di Belice, in provincia di Agrigento. Nel corso dei secoli, purtroppo, questo numero ha superato abbondantemente la doppia e la tripla cifra, arrivando a oltre mille negli ultimi anni. In Italia le persone morte in omicidi di mafia ammontano a 1009, di cui 119 donne e 122 minorenni. La loro vita è stata raccontata sui quotidiani, ma talvolta le cronache giornalistiche non approfondiscono a dovere. Se volete conoscere meglio le loro storie, ecco 5 libri da non perdere.

Statale 106

Un tratto di poco più di cento chilometri della Statale 106, tra Reggio Calabria e Siderno, è il cuore profondo dell'impero della 'Ndrangheta. La più impenetrabile e minacciosa delle Mafie nel XXI secolo mantiene la sua roccaforte nella Calabria profonda. Da cui poi si irradia in tutto il mondo, dalla Germania al Canada, dalla Slovacchia all'Australia. Antonio Talia, giornalista d'inchiesta nato proprio in Calabria, ne insegue le tracce in Statale 106, saggio edito da Minimum Fax in cui si insegue la 'ndrangheta attraverso storia, delitti e strategie partendo dal suo territorio di riferimento. Dai sequestri di persona alle guerra tra 'ndrine, da delitti eccellenti come il caso Ligato alla strage di Duisburg che ne mostrò la proiezione europea, passando per la ramificazione a New York e Vancouver tutto ciò che riguarda la 'ndrangheta è decisa nelle sue terre d'origine. E all'ombra della Madonna di Polsi si trovano i segreti piu reconditi di un'associazione criminale pericolosa e poco conosciuta.

La vendetta del boss

Quella di Giuseppe Salvia, il vicedirettore del carcere di Poggioreale ucciso nel 1981 dalla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo perché cercava di contrastare il suo potere all’interno del penitenziario, è una storia di resistenza e tenacia. Culminata in una maniera tragica e che ha svelato il.vero volto della Camorra, "demone" che minaccia da tempo Napoli e la Campania. Antonio Mattone ne parla ne La vendetta del boss spiegando la storia di un delitto che mostrò la faccia feroce della Camorra. E aprì a molti gli occhi sulla ramificazione della criminalità organizzata a Napoli e dintorni, dalle istituzioni agli stessi centri in cui il crimine dovrebbe essere combattuto come le carceri.

Pippo Fava. Un antieroe contro la mafia

Degli undici giornalisti uccisi dalla mafia in Italia, Pippo Fava era quello più “antieroe” di tutti. Il giornalista catanese, perito in un agguato la sera del 5 gennaio 1984, amava e odiava la sua terra, la Sicilia. È qui che lancia la sfida dei Siciliani, la rivista indipendente che riesce in pochissimo tempo ad affermarsi come una delle rare voci di denuncia del fenomeno mafioso. Fava pagò il suo coraggio con la vita trentanove anni fa. “A che serve essere vivi se non si ha il coraggio di lottare?”, è una delle frasi più conosciute dello scrittore siciliano, la cui straordinaria esistenza è stata raccontata da Massimo Gamba nel libro Pippo Fava. Un antieroe contro la mafia, edito da Sperling & Kupfer, con la prefazione dell’ex magistrato Gian Carlo Caselli.

Padre Pino Puglisi. Martire di mafia

Chi era Don Pino Puglisi? Il parroco di Brancaccio, freddato dai killer di Cosa nostra il 15 settembre 1993, credeva nella sua gente. A tal punto da preoccupare la mafia, che con la sua presenza tentacolare decise di stroncare l’impegno di padre Puglisi per la sua comunità. Un punto di riferimento per chi viveva in quel quartiere difficile, dove non era semplice sfuggire all’occhio mafioso che tutto vedeva e tutto controllava. I familiari della vittima, diventato beato nel 2013 per volontà di papa Benedetto XVI, hanno svelato, attraverso fotografie e testimonianze inedite, un lato meno approfondito del parroco palermitano, forse più intimo. Il giornalista Fulvio Scaglione ha raccolto la loro versione nel libro Padre Pino Puglisi. Martire di mafia per la prima volta raccontato dai familiari.

Volevo nascere vento

Vedi, il Mostro non è come Frankenstein. Non è un vampiro né una strega. Il Mostro che sfidiamo noi è ancora più cattivo perché non si vede. È negli angoli delle case. È nelle persone che ci sono vicine. È dove meno ce lo aspettiamo”. A parlare è Paolo Borsellino, il magistrato-simbolo della lotta alla mafia, che si rivolge alla giovane testimone di giustizia Rita Atria. Anche se Atria non ha perso la vita per mano della mafia, l'orrore che l'ha condotta a quel tragico gesto del 1992 è riconducibile al terrore diffuso nella popolazione voluto dalla criminalità organizzata. Rita Atria si tolse la vita ancora minorenne una settimana dopo la strage di via D’Amelio in cui venne ucciso il giudice con il quale aveva deciso di collaborare: Borsellino. Le conversazioni tra i due sono state immaginate nel romanzo Volevo nascere vento di Andrea Gentile. Un libro per ragazzi che riesce a trasmettere la sofferenza umana di un’adolescente di fronte alla banalità di un male chiamato mafia.

Giornata della memoria per le vittime innocenti delle mafie. Sbagliato fare distinzioni: vittime di mafia mai colpevoli. Alberto Cisterna su Il Riformista il 21 Marzo 2023

Si celebra oggi la «Giornata nazionale della memoria e dell’impegno per le vittime innocenti delle mafie». Nel suo nocciolo duro è il ricordo della lunga teoria di 1069 morti che “Libera” aggiorna da 28 anni; l’occasione per rievocare collettivamente la tragica fine di tanti uomini, donne, bambini (i minori sono 115), caduti per mano di altri uomini, donne e talvolta per mano di altri coetanei neppure maggiorenni.

Quell’endiadi «vittime innocenti» segna a tutta evidenza un discrimine, traccia un solco, segna un confine su cui, oggi, bisognerebbe pur sempre riflettere e meditare secondo con uno sguardo meno superficiale e enfatico. Ma perché esistono vittime colpevoli? Sono per caso colpevoli le migliaia di vite sterminate nelle faide, negli agguati, nelle imboscate di mafia? La domanda non vuole essere provocatoria, ma cerca affannosamente un chiarimento se è vero, com’è vero, che a Castelvetrano, patria del boss Messina Denaro, qualcuno solo pochi giorni or sono ha avuto da obiettare sull’intestazione della scuola al piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito a Palermo il 23 novembre del 1993, per indurre suo padre, Santino, ex mafioso a sua volta e collaboratore di giustizia, a fare marcia indietro. Una “vittima” anomala, deve aver pensato qualcuno, essendo quel bambino il figlio di un importante esponente di cosa nostra.

E’ il pretesto, quel dibattito, per tornare su quello spartiacque, su quella divisione che la Giornata di oggi espressamente traccia e declina tra vittime e vittime, tra corpi e corpi, tra sangue e sangue. Distinguere i morti, discernere le responsabilità. Nel corso di una sanguinosa guerra di mafia, un uomo, il cognato di un boss latitante, accompagnava a scuola la nipotina di pochi anni. Era la figlia di sua sorella e lo zio, in mancanza di altri, si incaricava tutte le mattine di passare a prenderla in auto e di lasciarla davanti alla porta dell’istituto che frequentava. Era stato un militare, era un po’ fanatico, aveva una piccola palestra. Venne freddato a colpi di pistola non appena la bambina ebbe varcato l’ingresso della scuola.

Lui è stato censito tra le vittime “colpevoli”, la sua parentela lo ha inchiodato a una irredimibile damnatio memoriae. Non può superare il recinto di quell’ideale giardino dei giusti e non è degno di commemorazione oggi, né di un fugace ricordo. Eppure, è solo uno, uno tra i tanti e tanti casi di uomini, donne, ragazzi trucidati per una parentela, per una frequentazione, per una lontana amicizia. Le mafie non hanno tribunali, né sono (come qualcuno si ostina a dire) una onnisciente Spectre. Uccidono per un sospetto, per uno sguardo sbagliato, per il gusto di terrorizzare l’avversario e di piegarlo, per la paura di una vendetta. Chi cade sotto i loro colpi non per questo non è innocente, non per questo merita di essere contabilizzato tra i “colpevoli”, tra quelli – per essere chiari e duri – in fondo in fondo se la sono cercata e che ora brucino nella Geenna degli impuri.

Molti di coloro che scontano pene rigorose, che vivono negli anfratti carcerari del 41-bis hanno visto cadere parenti, amici, familiari sotto il piombo delle mafie e sanno bene che nulla di male quelli avevano commesso; sanno bene che nelle faide il sangue chiama il sangue; che tante sono state le vittime collaterali di guerre d’odio che, troppe volte, lo Stato non ha saputo evitare e reprimere lasciando che si consumassero mattanze feroci. Uno Stato che stilava bollettini di guerra in cui, per sopire la propria impotenza, si compiva l’ulteriore scempio di incasellare quel corpo martoriato nell’una o nell’altra delle fazioni in lotta, quasi che quella macabra contabilità rendesse meno bruciante il fallimento degli inquirenti. Per fortuna il cupo clangore delle armi mafiose si è diradato, le cosche hanno riposto quasi ovunque i kalashnikov e preferiscono banchettare nei salotti della corruzione sistemica.

Il paese ha un disperato bisogno di verità anche sugli anni della lotta alla mafia; ha necessità di comprendere se, prima o poi, tra le vittime innocenti delle mafie siano da contabilizzare anche tutti coloro che hanno subito ingiusti processi, ingiuste persecuzioni mediatiche, ingiuste condanne in nome della lotta ai clan. Ha bisogno il paese di sapere se questa umanità dolente di accusati, di linciati, di archiviati, di assolti sia da mettere o meno in conto allo stato d’eccezione che le mafie hanno imposto dopo il 1992 e se, tutte quelle vite spezzate, siano il prezzo di una decennale, complessiva inefficienza e, talvolta, connivenza dello Stato con le cosche. Quando il velo sulle mafie è stato squarciato alla falce delle armi mafiose e delle sue bombe, tante volte ha fatto da contraltare (con punti di analoga asprezza e durezza) la scure repressiva delle istituzioni che quella sfida esiziale dovevano vincere a qualunque costo nell’interesse di tutti.

Oggi – non a caso c’è da pensare se si pensa alla concomitante Giornata della memoria – esce nelle librerie il libro che Gaia Tortora (Testa alta, e avanti, Mondadori) ha dedicato al martirio del padre; intanto, non senza polemiche, prosegue il dibattito, a tratti infuocato, sul libro in cui Alessandro Barbano (L’inganno, Marsilio, 2022) ha compendiato alcune delle storie della malagiustizia antimafia. Si sa bene da quale parte stia la verità, chi abbia torto e chi abbia ragione, ma il sezionamento morale delle vittime è operazione da condurre con grande prudenza. La violenza mafiosa ha travolto centinaia di vite innocenti, ma ha anche il torto di aver innescato reazioni dello Stato che non sono rimaste prive di gravi conseguenze per la vita di molte, ma molte, persone.

Ecco il dibattito asfittico e troppe volte retorico tra giustizialismo e garantismo che affligge il paese e gli impedisce di concentrarsi sui nuovi santuari del malaffare, dovrebbe procedere proprio dal rendere il giusto tributo a tutte le vittime, senza discriminazioni e riserve. Papa Francesco ha pronunciato parole memorabili nella parrocchia di Santa Maria delle Grazie al Trionfale; rivolgendosi ai confessori ha detto loro «per favore perdonate tutto, perdonate sempre, per favore: il sacramento della confessione non è per torturare ma per dare pace; perdonate tutto, tutto, tutto, come Dio perdonerà voi», ha ripetuto. Una pacificazione con i mafiosi è improponibile, stolta e irraggiungibile, ma di fronte a chi ha perso la vita la livella della morte dovrebbe operare da saggio monito. Alberto Cisterna

Destini segnati, storie di minori uccisi dalla ‘ndrangheta. Verso il Giorno della memoria. Dai fratellini Facchineri a Marcella Tassone e Paolino Rodà: bambini che hanno pagato per le colpe di padri e fratelli in odore di mafia. LUCIANA DE LUCA su Il Quotidiano del Sud il 19 Marzo 2023.

Colpevoli di essere nati nelle famiglie sbagliate. Sono tanti i bambini che hanno pagato per le colpe di padri e fratelli in odore di mafia. Destini segnati fin dalla nascita, vittime inconsapevoli di un sistema violento che non ha riconosciuto loro neanche le attenuanti generiche dell’età e dell’inconsapevolezza. E, anzi, nei momenti più cruenti di faide sanguinose tra famiglie, considerati addirittura bersaglio privilegiato per infliggere al nemico un dolore più forte o solo una perdita maggiore rispetto a quella subita.

Domenico e Michele Facchineri

«Misero i bambini dei Facchineri insieme alle loro madri, nei pulmini dei carabinieri e li fecero partire la notte di Natale verso luoghi più sicuri, lontani dalla violenza cieca della faida. Qualcuno di loro si salvò ma in tanti, anni dopo, ritornarono a Cittanova e morirono morti ammazzati come i loro padri e i loro nonni». È il tenente dei carabinieri Cosimo Sframeli a raccontare la strage dei bambini, la morte di Domenico e Michele Facchineri, di 9 e 12 anni, vittime innocenti di mafia, avvenuta il 13 aprile del 1975.

I due fratellini, figli di Vincenzo “u zoppu”, stavano portando i maiali in aperta campagna e si trovavano in contrada Salvo del tutto ignari di quanto era già avvenuto poco prima, a breve distanza da loro: quattro uomini a viso coperto avevano appena ucciso lo zio, Giuseppe Facchineri, e ferito la giovane moglie Carmela e il nipote Vincenzo, di 6 anni.

Domenico e Michele camminavano uno accanto all’altro e il più piccolo trovava forza e sostegno nel più grande. Era una domenica di primavera e loro, seppur ancora bambini, dovevano aiutare la famiglia e svolgere compiti che di solito venivano riservati agli adulti. Ad alcune latitudini si è costretti a crescere in fretta e l’infanzia rispecchia solo una condizione anagrafica e non una stagione della vita votata alla spensieratezza. Soprattutto se si porta il cognome dei Facchineri.

«La faida tra la famiglia dei Facchineri con i loro alleati Marvaso, Varone e Monteleone e i Raso con gli Albanese, i Gullace e i De Raco, esplose già negli anni ’60 con l’omicidio di Domenico Geraci, legato ai Facchineri – spiega il tenente Sframeli -. Emerse subito, fin dalle prime battute, che ciò che avremmo dovuto vedere, non avrebbe avuto precedenti. E infatti si fece a gara a chi commetteva l’omicidio più violento. Fu chiaro anche agli investigatori che le regole che fino a quel momento avevano impedito di coinvolgere le donne e i bambini nei fatti di sangue, non erano più osservate. E si aveva paura anche a salutare un vicino di casa o a condividere un pezzo di strada con un parente di qualcuno appartenente a una delle due fazioni. A Cittanova e nei paesi limitrofi, regnava il terrore».

Quel 13 aprile un commando di uomini con il volto coperto e a bordo di un furgone targato Catanzaro, si appostò di prima mattina su via Palermo aspettando che Giuseppe Facchineri uscisse di casa per entrare in azione. I killer avevano con loro sia fucili a canne mozze che alcuni mitra. Appena l’uomo comparve sulla porta di casa, iniziò a piovergli addosso una pioggia di proiettili che non solo lo colpirono mortalmente ma anche alcuni suoi familiari che erano vicini a lui rimasero coinvolti, come la sua giovane moglie e il figlio di suo fratello Michele. Per fortuna la donna e il bambino riportarono solo ferite lievi. Ma l’azione più violenta sarebbe avvenuta di lì a poco perché, complice il caso, Domenico e Michele, nipoti dell’uomo appena ucciso, si trovarono lungo la via di fuga degli assassini dello zio mentre portavano al pascolo un gruppo di maiali. Gli assassini li videro da lontano ma soltanto quando gli furono vicini riconobbero in loro i nipoti dell’uomo che avevano appena ammazzato. Scesero dal furgone e cercarono di prenderli. Un testimone assistette all’agghiacciante scena e pare che Domenico, il più piccolo, alzò subito le mani e si mise in ginocchio, forse li pregò di risparmiarli ma i colpi lo raggiunsero nello stesso istante in cui ricongiunse le mani per darsi forza e per cercare di suscitare pietà in quelli uomini che impugnavano le armi e gliele puntavano addosso. Michele tentò la fuga e cercò di trovare riparo dietro un cumulo di sabbia. Ma fu tutto inutile. Anche lui venne raggiunto dai colpi micidiali del commando che non contento di avergli sparato, lo colpirono anche in testa con il calcio del fucile.

Marcella Tassone

Aveva 10 anni Marcella Tassone quando fu uccisa a colpi di fucile e di pistola. È stata la prima vittima di ‘ndrangheta a pagare per colpe che non aveva. La sua giovane vita fu spezzata il 23 febbraio del 1989 mentre era insieme al fratello Alfonso, appena ventenne, il vero obiettivo dei killer. Ma Marcella poteva essere una testimone scomoda e per questo andava eliminata, messa a tacere. Era nata e cresciuta a Laureana di Borrello, Marcella, nella Piana di Gioia Tauro in Calabria, da una famiglia onesta, non in odore di mafia. Suo padre Salvatore e la madre Maria Catananzi però, avevano ben presto dovuto fare i conti con i problemi che gli davano i loro tre figli maschi, entrati in giri poco raccomandabili. Alfonso, militare di leva a Reggio Calabria a casa per un breve periodo di convalescenza, era stato arrestato e poi rilasciato perché sospettato di aver partecipato all’omicidio di tre persone, tra cui anche un marocchino, avvenuto all’interno di un deposito di sfasciacarrozze a Gioia Tauro cinque mesi prima dell’agguato in cui perse la vita. Era uscito da poco di prigione e il ragazzo, probabilmente, era entrato a pieno titolo nella faida che stava flagellando quel territorio a partire dagli anni ’80. Dei suoi due fratelli, Domenico di 33 anni, il 9 novembre del 1988, era stato ucciso in un agguato mafioso e Giuseppe, all’epoca trentenne, si trovava in carcere.

Marcella, una bambina dai modi gentili e dai grandi occhi verdi, ogni pomeriggio si recava a far visita alla moglie del fratello Domenico, rimasta vedova in giovane età, e poi qualcuno della famiglia andava a prenderla.

La sera del 23 febbraio in televisione trasmettevano il Festival di Sanremo e Marcella volle tornare a casa prima del solito per poterlo vedere insieme alla sua famiglia. Fu Alfonso, a bordo della sua Alfetta, a recarsi nell’abitazione della cognata in contrada Stelletatone per accompagnare la sorella. Ma arrivati in una zona disabitata del paese, in contrada Vecchio Macello, a ridosso di una curva dove si è costretti a rallentare, i killer nascosti dietro un muretto aprirono il fuoco contro i due fratelli. È evidente che qualcuno conosceva gli spostamenti di Alfonso e che sapesse anche della presenza della bambina all’interno dell’auto ma questo non impedì ai killer di entrare in azione e di farlo con una potenza di fuoco impressionante. Varie le versioni sulla morte della piccola Marcella. C’era qui sosteneva che fosse rimasta uccisa dalla pioggia dei proiettili indirizzati verso l’auto e chi, nelle cronache dell’epoca, scriveva che la bambina sia stata finita a distanza ravvicinata da otto colpi di pistola sparati in pieno viso. Quale delle due sia la verità non toglie e non aggiunge niente a un atto di violenza inaudita che scosse l’intera comunità di Laureana di Borrello.

Paolino Rodà

Paolino aveva gli occhi verdi e la pelle chiara come sua madre, morta quando lui aveva appena tre anni. Da quel momento in poi, tutte le donne di casa Rodà gli si strinsero attorno per cercare di colmare quel vuoto. Le zie Ernesta e Domenica ma soprattutto la nonna Caterina, cercarono di darle tutto l’affetto di cui erano capaci e lui le ricambiava senza mai chiedere niente di più rispetto a quanto gli veniva offerto spontaneamente.  

Era un bambino solare Paolino, capace di conquistare tutti, di suscitare una simpatia immediata e di non passare inosservato per quel sorriso tenero, a tratti malinconico, che sfoderava soprattutto quando doveva vincere la propria timidezza.

La sua vita si concluse tragicamente nel primo pomeriggio del 2 novembre del 2004. Paolo, che all’epoca aveva tredici anni, insieme al fratello maggiore di 17 anni, e al padre Pasquale, da Bruzzano Zeffirio dove vivevano, si recarono a Ferruzzano dove la famiglia aveva un podere, degli animali e persino le api. Sul fuoristrada il bambino era seduto sul sedile posteriore. Una volta arrivati a destinazione, Pasquale non fece neppure in tempo a spegnere il motore dell’auto perché una raffica di colpi di lupara investì lui e i suoi figli alle spalle. Paolino non ebbe scampo, morì sul colpo, e anche suo padre Pasquale sarà ucciso da lì a poco.

Quando nel primo pomeriggio la notizia iniziò a circolare in paese, tutti si riversarono davanti all’abitazione dei Rodà. La morte di Paolino destò grande commozione. «Era solo un bambino», ripetevano affrante le persone mentre cercavano di condividere il dolore dei familiari.

Un bambino ricco di passioni e di sogni che comunicava alle zie quando si ritrovavano tutti insieme. Paolino, tra le varie ipotesi di futuro inseriva la possibilità di diventare veterinario o medico, così confidava a Domenica. Mentre con zia Ernesta, che all’epoca non era ancora sposata, ipotizzava, come era naturale alla sua età, ancora altre strade da intraprendere per realizzare tutti i suoi progetti. Il giorno dei funerali di Paolino Rodà la chiesa era gremita di persone. I suoi compagni di classe gli scrissero una lettera nel quale gli manifestarono tutto l’affetto che sentivano per lui. Fu una grande perdita per tutti loro, quel bambino che sorrideva sempre nonostante la vita, fin dalla più tenera età, gli avesse mostrato il suo lato più duro.

La Val D’Aosta.

E il Tg1 di Maggioni ha il coraggio di “sbattere” l’innocente in prima serata. Ieri, nell’edizione di punta del più importante telegiornale italiano, un’intervista a Marco Sorbara, l’ex consigliere regionale della Valdaosta assolto in via definitiva dopo un calvario durato 4 anni e oltre 900 giorni di custodia cautelare. È il segnale che nel racconto della (mala) giustizia qualcosa finalmente comincia a cambiare. Errico Novi su Il Dubbio il 26 gennaio 2023

Prima serata. Tg1 del 25 gennaio. Dopo l’apertura con le news sulla guerra in Ucraina, arriva la “pagina” della giustizia. Prima un servizio da Campobello, nell’ex “regno” di Messina Denaro, con i cittadini mobilitati contro l’omertà. Poi la conduttrice del più importante telegiornale italiano annuncia il focus su un «calvario giudiziario»: un’intervista a Marco Sorbara, l’ex consigliere regionale della Valle d’Aosta accusato ingiustamente di concorso esterno.

«Dopo 8 mesi in carcere e i successivi domiciliari, è stato definitivamente assolto», ricorda ancora la giornalista che introduce il servizio. L’intervista fa emergere tutto: anche la prospettiva del “ristoro” per ingiusta detenzione. «Ma non c’è risarcimento che possa ripagarmi davvero», ricorda l’ormai ex politico, passato per quattro anni da incubo, ritratto anche in una breve clip con sotto braccio la mamma, che si era rivolta, disperata, persino a papa Francesco.

Direte: dov’è la notizia? In una notizia data dal Tg1? Ebbene sì: in prima serata, signori, non si parla così spesso di errori giudiziari. Diciamo pure che non se ne parla praticamente mai. E la tivù di Stato già può essere considerata un gradino più su, considerato che negli approfondimenti Rai capita di veder concesso spazio alle vittime di malagiustizia, più che su altre reti. Ma l’intervista a Sorbara nell’edizione del Tg1 di maggiore ascolto va oltre l’ordinario, e bisogna darne atto alla direttrice Monica Maggioni.

È il segno che qualcosa comincia a cambiare davvero, nella percezione della giustizia, nell’idea finora dominante della magistratura infallibile e degli imputati inesorabilmente colpevoli, persino se assolti, nel prevalere insomma della “dottrina Davigo”. Maggioni ha il coraggio di raccontare una giustizia diversa, la sofferenza di chi ne viene stritolato. Merce rara. Verrebbe da credere, da augurarsi, che mentre gran parte dei giornali impallina Carlo Nordio, il guardasigilli che ha il coraggio di sfidare i suoi ex colleghi e il totem delle intercettazioni, mentre il solito circuito mediatico-giudiziario dà addosso all’ex pm eretico, fuori il messaggio del guardasigilli comincia a passare.

E viene da pensare che un miracolo del genere non potesse realizzarsi se non attraverso il contributo di un magistrato controcorrente, il solo modello a cui l’opinione pubblica avrebbe dato credito. Dopodiché conta l’intuito del singolo, e Maggioni ha avuto il coraggio di sbattere l’innocente in prima pagina, o meglio in prima serata. Qualcosa è cambiato, anche dopo il Tg1 di ieri, mercoledì 25 gennaio.

Marco Sorbara in carcere da innocente: è ora di riflettere sui falsi pentiti. Alfredo Antoniozzi su Il Riformista il 23 Febbraio 2023

Nei giorni scorsi ha fatto clamore l’assoluzione di Marco Sorbara, ex assessore comunale di Aosta ed ex consigliere regionale, dopo ben trenta mesi di custodia cautelare per l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Una sentenza che ha restituito onore a un esponente politico la cui vita è stata interrotta (quella politica di fatto cancellata) fino al punto, per come ha scritto il fratello, di avere meditato il suicidio. Fare finta che nulla sia accaduto dopo tanta sofferenza sarebbe una grave omissione anche per chi, come il sottoscritto, crede nella legislazione antimafia e nella sua triste attualità.

Coniugare garantismo e certezza della pena è il sigillo della nostra carta costituzionale ed è anche la bussola di un grande ministro, Carlo Nordio, rispetto al quale il consenso va oltre il recinto della maggioranza di governo. Ho espresso all’on. Sorbara il sentimento di solidarietà e l’auspicio che possa tornare a fare politica ma è indubbio che non basterà nessun risarcimento economico a restituirgli la serenità che merita. La sua vicenda ripropone la necessità di contemperare giustizia e libertà, i due cardini valoriali del Novecento non sempre conciliabili. Ad esempio, e apro una parentesi, sto per presentare una proposta di legge di modifica degli artt 88 e 89 del codice penale che disciplinano l’infermità e la seminfermità mentale, per garantire sostegno e cure a chi commette un reato senza essere imputabile ma anche per chiedere il rubinetto delle scorciatoie dei disturbi dì personalità aperto dalla Cassazione a sezioni unite nel 2005 e grazie al quale tanti assassini, compreso il killer dì Prati, sono rimasti liberi di uccidere.

Tornando alla legislazione antimafia, essa sì è sviluppata soprattutto dopo le stragi degli anni Novanta, ivi compreso il 416 bis, dapprima reato giurisprudenziale e poi successivamente normato. Voglio ricordare come il grande Giacomo Mancini, segretario nazionale del PSI, più volte ministro, uno degli uomini più importanti del dopoguerra, mio concittadino, dovette subite la calunnia dei pentiti risultando innocente. Anche se durante il governo Andreotti prima e Berlusconi dopo (guarda caso due obiettivi del professionismo antimafia) ci furono norme di forte impatto. Ma se si leggesse la sentenza della Cassazione del gennaio ‘92 che validava definitivamente il maxiprocesso (e dalla quale pare sia nata la stagione delle stragi) si capisce la straordinaria lungimiranza di Falcone, Borsellino, Caponnetto, nel portare nel processo elementi probatori senza trasformare i pentiti in oracoli infallibili. Successivamente, nell’ambito dell’emergenza, mafia e camorra furono decimate al prezzo di concessione della libertà a criminali come Brusca e Ammaturo.

So, da calabrese, quanto sia potente e pervasiva la ‘ndrangheta e come sia stata capace, dall’alto di una potenza economica impressionante, di infiltrarsi dappertutto. E so che non solo non arretreremo di un millimetro nella lotta alle mafie ma la intensificheremo ulteriormente (non cito nemmeno il nostro pensiero sul 41 bis perché sarebbe ultroneo..). C’è, però, la questione posta ultimamente anche dal caso Sorbara che non è di facile soluzione. Prevedere differenze di custodia preventiva per gli incensurati finirebbe per favorire ancora più le mafie che ormai usano persone illibate per riciclare i loro denari. Soluzioni chi scrive non ne ha ma vanno individuate. Il garantismo ha avuto dignità mediatica 40 anni fa con il caso Tortora per poi tornare in auge durante Tangentopoli. Sappiamo tutti che il referendum del 1988, che avrebbe dovuto sanzionare gli evidenti errori giudiziari, nonostante il clamoroso dato elettorale fu stravolto in sede legislativa e mai applicato concretamente.

Certo, per i collaboratori di giustizia vanno previste condizioni più stringenti e fare in modo che le procure attivino, peraltro in nome della legge, che si proceda più spesso con la calunnia dinanzi ad accuse clamorosamente false (e ovviamente dolose) con revoca di ogni beneficio concesso. È giusto che la strada delle riforme sia percorsa con l’ausilio delle forze di opposizione responsabili, quelle slegate dalla logica rivoluzionaria della giustizia che di fatto nacque, il ‘47, con Togliatti ministro. Su questo terreno sfidiamo chi si dichiara riformista a dimostrare di essere tale, recuperando ciò che un grande partito, il Psi, fece nel dopoguerra, pagando a caro prezzo il proprio coraggio.

Nordio è la persona più autorevole per compiere questo passo di giustizia autentica. Che significa presunzione di innocenza, limitazione al massimo della carcerazione preventiva, processi più rapidi e certezza della pena.

Non conosco le motivazioni che portarono all’arresto di Sorbara, né le determinazioni del tribunale del riesame e della Cassazione, né ovviamente le motivazioni della sentenza che tutti aspettiamo. Ci serviranno per capire meglio. E per costruire un Paese che contrasti senza tregua le mafie non rinunciando ai suoi valori costituzionali, né permettendo (almeno sforzandosi al massimo) che un innocente stia in carcere trenta mesi. Lo dobbiamo ai nostri figli

Alfredo Antoniozzi Vice Presidente del Gruppo Parlamentare di Fratelli d’Italia Camera dei deputati

Marco Sorbara assolto, cade il teorema sugli aiuti alla ‘ndrangheta: un incubo durato 909 giorni da recluso. Carmine Di Niro su Il Riformista il 27 Gennaio 2023

Assolto dopo 909 giorni di custodia cautelare, 214 giorni in carcere di cui 45 giorni passati isolamento. È finito così l’incubo di Marco Sorbara, ex assessore comunale ad Aosta e poi consigliere regionale, arrestato ingiustamente il 23 gennaio 2019 per concorso esterno in associazione mafiosa.

Sorbara, esponente del movimento autonomista dell’Union valdotaine, finì al centro del tritacarne dell’inchiesta Geenaa, indagine sulle presunte infiltrazioni della ‘ndrangheta in Valle d’Aosta. Condannato in primo grado a 10 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa e poi assolto in appello “perché il fatto non sussiste” il 19 luglio 2021, la Procura generale di Torino aveva impugnato la sentenza.

La tesi dei magistrati era che Sorbara si fosse messo a disposizione, dall’alto del suo posto di consigliere regionale, di Tonino Raso, ritenuto esponente della locale di ‘ndrangheta. Convinzione non condivisa invece dalla procura generale della Corte di Cassazione, che martedì aveva chiesto l’inammissibilità del ricorso presentato dalla procura generale di Torino contro l’assoluzione in appello. Alla fine, dopo quattro anni di inferno, la quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha assolto definitivamente l’ex consigliere regionale.

Tutta colpa delle comuni origini calabresi con Raso, uomo ritenuto esponente della ‘ndrangheta e amico dell’ex consigliere. Amicizia ma nessuna prova di rapporti che andavano oltre, nessun “arruolamento di Marco Sorbara tra i politici stabilmente “satelliti” del sodalizio attraverso un decisivo appoggio elettorale”, come invece accusava la Procura. Anche perché, analizzando l’attività politica di Sorbara, i giudici dell’Appello non hanno trovato “irregolarità di sorta e men che meno foriere di poter sortire sviluppi in sede penale o di giustizia contabile”.

Libero ‘fisicamente’ dopo l’assoluzione in Appello, Sorbara al Dubbio spiega che il ricorso presentato dalla Procura “era come una spada di Damocle sulla testa, non era una vera libertà”. Libero ma ancora scosso, distrutto da anni di calvario: “Sono completamente distrutto, non mi vergogno a dirlo, perché ho passato anni nella morsa della giustizia, della diffamazione, degli attacchi, a causa di un’accusa devastante, bruttissima”.

Quanto al futuro, per ora non ci sono progetti. Certa invece la richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione. “Ora devo solo pensare a riprendere a lavorare e guadagnare e ripagare i buchi enormi di questi anni fatti di spese e di nessuna entrata, con i conti bloccati. Posso solo dire che la vicinanza di chi mi vuole bene è stata impagabile”, conclude Sorbara.

Nei confronti dell’ex consigliere è arrivata una solidarietà bipartisan. Il parlamentare di Azione Enrico Costa su Twitter, ricordando l’impressionante periodo trascorso in custodia cautelare da Sorbara, scrive: “Sono andati a prenderlo di notte alle 3.15, 45 giorni in isolamento, per 33 non ha visto nessuno. Fiumi di pagine sull’inchiesta. Poche righe dopo l’assoluzione”.

Marco Sorbara ex consigliere Val d’Aosta, oltre 900 giorni in custodia cautelare. Assolto: il fatto non sussiste. Sono andati a prenderlo di notte alle 3.15, 45 giorni in isolamento, per 33 non ha visto nessuno. Fiumi di pagine sull’inchiesta. Poche righe dopo l’assoluzione.

Chi pagherà per questo inutile ricorso? Chi pagherà per la fine della sua carriera politica? Chi pagherà per i quasi mille giorni di carcere ingiusto? Chi pagherà per l’ennesima vita spezzata? Oggi è un giorno della memoria per tutto”, scrive invece l’ex deputata del Partito Democratico Enza Bruno Bossio.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Sorbara, assoluzione definitiva: «È la fine di un incubo, ora posso dirmi davvero libero». L’ex assessore di Aosta non era stato eletto grazie alle cosche di ’ndrangheta. Ma prima di poterlo dimostrare ha dovuto trascorrere 909 giorni in custodia cautelare. Simona Musco su Il Dubbio il 25 gennaio 2023.

Quattro anni dopo un ingiusto arresto, diventa definitiva l'assoluzione di Marco Sorbara, l’ex assessore comunale di Aosta e consigliere regionale, assolto dopo 909 giorni di custodia cautelare. Sorbara era stato condannato in primo grado a 10 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa e poi assolto in appello «perché il fatto non sussiste». Ma la procura generale di Torino aveva impugnato la sentenza, ribadendo la convinzione che il politico, una volta eletto, si fosse messo al servizio di Antonino Raso, ritenuto esponente della locale di ‘ndrangheta. Una convinzione non condivisa dal procuratore generale della Cassazione, che martedì ha chiesto ai giudici di non ammettere il ricorso nei confronti di Sorbara. Per Raso e gli altri tre imputati - l'ex consigliere comunale di Aosta per l'Uv Nicola Prettico, l'ex croupier del Casino de la Vallée di Saint-Vincent Alessandro Giachino e l'ex assessora comunale di Saint-Pierre Monica Carcea - la Cassazione ha annullato con rinvio le condanne, stabilendo che bisogna fare un nuovo processo d'appello.

«Oggi, finalmente, sono davvero libero», commenta al Dubbio Sorbara, visibilmente commosso. Felice, ma anche distrutto, spiega. «Da un lato posso dire che oggi è finito un incubo. Certo, con l’assoluzione in secondo grado ero libero fisicamente, ma quell’assurdo ricorso da parte della procura era come una spada di Damocle sulla testa. Non era una vera libertà. Ho provato molta paura, la paura che pur essendo una persona innocente e onesta potessi continuare a rimanere nel giogo della giustizia. Oggi assaporo per la prima volta, dopo quattro anni, la libertà - racconta -. Dall’altro lato sono completamente distrutto, non mi vergogno a dirlo, perché ho passato anni nella morsa della giustizia, della diffamazione, degli attacchi, a causa di un’accusa devastante, bruttissima». Un dramma morale, ma anche economico, fisico, mentale e reputazionale.

«Ho solo voglia di riprendermi la mia vita - continua -, ma non sarà mai quella di prima. Era perfetta, la mia vita, e ora non sarà più la stessa. Ma voglio ripartire dal 22 gennaio 2019, il giorno prima del mio arresto». I momenti più difficili sono stati la sentenza di primo grado, pesantissima, e il ricorso della procura generale, «perché dopo quell’assoluzione e la certezza di essere innocente non me l’aspettavo. Invece c’è stato. Aspettavo questo momento. Certo avevo paura, certo, perché solo un incosciente non ne avrebbe quando si è consapevoli che ci sono delle persone che per un periodo possono fare quello che vogliono della tua vita. A me lo hanno fatto per quattro anni, ma sapevo che ne sarei uscito. Adesso la mia vita e quella della mia famiglia può ripartire».

Nessun progetto per il futuro e nessuna certezza su un ritorno in politica. «Questa esperienza ha cambiato tutto - spiega -. Per quattro anni non ho avuto progettualità, non ho pensato al futuro. Pensavo solo a questa sentenza. Oggi sto cercando di capire cosa fare da grande. L’unica certezza è che voglio riprendere a vivere». Di certo c’è che chiederà un risarcimento, «ma ci penseranno i miei avvocati - conclude -. Ora devo solo pensare a riprendere a lavorare e guadagnare e ripagare i buchi enormi di questi anni fatti di spese e di nessuna entrata, con i conti bloccati. Posso solo dire che la vicinanza di chi mi vuole bene è stata impagabile».

Quelli trascorsi tra il carcere, i domiciliari e processo sono stati «terribili», aveva dichiarato al Dubbio l’ex politico subito dopo la scarcerazione, anni resi ancora più insopportabili dal sospetto che la sua carriera politica fosse il frutto di un patto scellerato con la ‘ndrangheta, arrivata fino in Valle d’Aosta per avvelenare ogni cosa. Sorbara ha trascorso 214 giorni, di cui 45 in isolamento, in cella, giorni durante i quali ha anche pensato al suicidio. Poi i domiciliari e la lunga attesa della verità. Un’attesa interminabile, nonostante l’assoluzione, stando alle parole dei giudici d’appello, sarebbe potuta arrivare subito: «Analizzando complessivamente le risultanze probatorie afferenti alla condotta intera del Sorbara-politico», si legge nella sentenza, non è stata raggiunta «la prova dell’elemento oggettivo che identifica, per insegnamento del giudice nomofilattico, la modificazione del mondo esteriore dovuta al concorrente esterno nel delitto ex art. 416 bis cp».

Insomma, nel comportamento di Sorbara non c’era nulla che potesse far concludere circa un suo possibile coinvolgimento in attività mafiose. Il sospetto si basava in gran parte sulla sua amicizia con Raso, col quale però avrebbe intrattenuto soltanto un sincero rapporto di amicizia, basato anche sulle comuni origini calabresi. Rapporto che non basta, da solo, a creare quei «presupposti logici» - assenti secondo i giudici - che testimonierebbero il «“previo” arruolamento di Marco Sorbara tra i politici stabilmente “satelliti” del sodalizio attraverso un decisivo appoggio elettorale». Un eventuale sostegno sarebbe peraltro smentito anche dal tenore complessivo delle intercettazioni relative alla campagna elettorale per le amministrative del 2015, dove il nome di Sorbara non compare mai, mentre sarebbero altri i candidati “sponsorizzati”. La sua vera vocazione, secondo i giudici d’appello, era la politica, praticata ben prima della formazione dell’associazione a delinquere scovata dall’indagine. E la sua attività amministrativa è stata passata al setaccio dagli inquirenti «senza che emergessero irregolarità di sorta e men che meno foriere di poter sortire sviluppi in sede penale o di giustizia contabile». Parole che ora trovano conferma anche in Cassazione. Ma solo dopo quattro anni di sofferenze.

«L’accusa di mafia, la galera, la paura e infine l’assoluzione. Ecco la mia odissea giudiziaria». Parla l’ex assessore comunale di Aosta e consigliere regionale Marco Sorbara, assolto in via definitiva dopo aver passato 909 giorni in custodia cautelare da innocente. Simona Musco su Il Dubbio l’8 febbraio 2023

«Provate voi a fare quattro passi per due tutti i giorni. Provate voi a pensare di iniziare una storia con una persona, senza avere paura di farle male. Provate voi a non sentirvi vuoti, a non pesare ogni parola che dite. Io ho passato 1466 giorni da persona non libera. Ancora oggi, stanotte, mi sono svegliato due volte per farmi la doccia, perché sento l’odore del carcere addosso». Marco Sorbara, ex assessore comunale di Aosta e consigliere regionale, ha passato 909 giorni in custodia cautelare da innocente. Per la procura aveva siglato un patto elettorale con i clan di ‘ndrangheta arrivati ad Aosta dal paese di origine di suo padre. Un patto mai dimostrato, senza contropartita. Eppure, prima di arrivare all’assoluzione, l’ex politico si è visto condannare a 10 anni di carcere. «Vorrei che mi spiegassero perché», dice ora che il suo solo sogno è quello di tornare ad essere sereno.

Si è fatto un’idea del perché sia successo tutto questo?

Io vorrei girare la domanda al Tribunale che mi ha condannato in primo grado: perché mi sono stati inflitti 10 anni e 500mila euro di danni? Mi sento ancora tatuato addosso il carcere che ho subito senza motivazione.

C’erano i presupposti per la custodia cautelare?

Sono stato nel 2019 per fatti risalenti al 2015. Qual era il pericolo di fuga? In caso sarebbe bastato darmi i domiciliari o ritirarmi il passaporto. Non potevo reiterare perché non ero più assessore comunale e per quanto riguarda l’inquinamento probatorio come avrei potuto farlo se le accuse risalivano a quattro anni prima? Dalle indagini non è emerso nulla. E non perché siano state fatte male, ma perché non c’era nulla da trovare. Il Riesame, dopo 8 mesi di carcere, mi ha dato i domiciliari: non potevo scendere in giardino o in garage, non potevo parlare con nessuno, solo con mia madre. Per vedere mio fratello ho dovuto chiedere un’autorizzazione, così come per il parroco. In tanti sarebbero voluti venire a trovarmi, ma avevo paura di metterli in difficoltà. Avevo paura che qualsiasi cosa facessi potesse essere fraintesa. Io sono stato accusato di aver avuto rapporti con il ristoratore Antonio Raso (coimputato nel processo, ndr), ma in quello stesso ristorante ci andavano anche i giudici che mi hanno condannato e le forze dell’ordine.

C’entra il fatto che entrambi siate calabresi, secondo lei?

Sì. E quando non sono riusciti a trovare nulla hanno utilizzato una intercettazione ambientale in cui dicevo a Raso che da 20 anni ogni anno andavo a dare gli auguri di Natale ad un amico di famiglia, Bruno, che aveva fatto politica con mio padre. Una persona molto nota ad Aosta. Per il pm si trattava di uno ‘ndranghetista calabrese. Peccato, però, che non si trattasse della stessa persona. Bruno è venuto anche a testimoniare in aula. Sia in primo grado sia in appello non è stata data importanza a questa ambientale, perché era chiara, ma il pm l’ha usata per dire che frequentavo dei criminali.

Le intercettazioni, secondo i giudici d’appello, dimostrerebbero che la ‘ndrina aveva puntato in realtà su altri candidati e non su di lei.

Questa è l’apoteosi: in alcuni passaggi si sente dire a dei presunti affiliati che non mi avrebbero votato, facendo riferimento ad altri tre candidati. Sorbara non c’è mai.

Gli altri politici di cui facevano il nome sono stati indagati?

No. Perché hanno dei cognomi valdostani.

Insomma, vuole dire che il parametro sarebbe la sua calabresità?

Praticamente sì. La sentenza d’appello ha dei passaggi bellissimi: si dice che sono un politico vecchio stampo, non social, ma uno che sta in mezzo alle persone, le ascolta. C’è un’ambientale bellissima in cui dico a una persona: ricordati che se tu ti fidi di un politico che ti promette un posto di lavoro hai sbagliato tutto. Per un posto di lavoro devi darti da fare ed essere onesto. Il politico non trova posti di lavoro, ma deve fare qualcosa per aiutare tutti e dare una mano a chi ha i requisiti. Un altro esempio: mi dicono che ho aiutato la cognata di Raso ad ottenere una casa popolare. Bene, finché sono stato assessore le sono state respinte tre richieste. Il contributo lo ha ricevuto solo dopo che sono finito in carcere.

Dopo il suo arresto in Comune è arrivata una commissione d’accesso: è emerso qualcosa?

Che io non c’entravo nulla. E le dirò di più: l’amministrazione non è stata sciolta. Perché non c’erano tracce di infiltrazioni. La Commissione ha analizzato per sei mesi tutti i punti contestati nell’ordinanza di custodia cautelare, dagli appalti ai posti di lavoro e non ha trovato nulla. In più ci sono fiumi di intercettazioni - 42 faldoni e oltre 72mila pagine che ho letto almeno tre volte - in cui non c’è nulla di nulla.

Lei era accusato di concorso esterno: non serviva la prova di un aiuto concreto al clan?

E non è stato trovato nulla. Ma non c’è neanche una richiesta da parte dei clan. Anzi, succede l’opposto: non volevano votarmi. E da una lettura priva di pregiudizi di quelle intercettazioni si poteva capire che non c’era la possibilità di muovere quelle accuse. Mi dite perché, allora, sono finito in carcere?

Lei è stato intercettato?

Il paradosso è che io sono stato intercettato in una precedente inchiesta, nella quale però non sono nemmeno stato coinvolto: avendo ascoltato le mie conversazioni sapevano che sono una persona onesta.

Si trattava della stessa procura?

Non solo: erano gli stessi pm. Durante l’arringa Sandro Sorbara, mio avvocato e mio fratello, ha smentito il pm, che durante la requisitoria aveva affermato di non essere a conoscenza di quelle intercettazioni. Tutti sapevano che io ero innocente. Quello che mi sta devastando, anche se oggi finalmente sono libero e tutto è finito, è non capire perché mi sia stata rovinata la vita. Quando mi hanno inflitto 10 anni di carcere si sono resi conto che Marco Sorbara non è un nome, ma una persona, che dietro ci sono una famiglia, degli amici, una comunità? Quando andavo in Calabria, nel paese di mio padre, le persone erano orgogliose di me. Oggi ho paura anche a dirlo.

Pensa ancora alla politica?

Disintegrato come sono, l’unica cosa di cui ho voglia è la serenità. Prima di chiedere l’aspettativa per il mio mandato politico ero dipendente della Regione. Ho una paura terribile di tornare. Spero che la mia storia possa servire ai giudici per capire che per colpa di storie come la mia ci sono persone che non credono più nella giustizia. Ci sono giudici che fanno il loro lavoro per bene, rischiando la vita tutti i giorni, e il cui lavoro perde credibilità. E lo stesso vale per i giornalisti: non ci si rende conto del male che si può fare ad una persona. Eppure i magistrati e i giornalisti, oggi, hanno la capacità di uccidere, come un medico che sbaglia ad operarti. Quest’ultimo ti toglie la vita fisicamente, gli altri hanno il potere di togliertela lasciandoti vivo. Che a volte è ancora peggio.

Ha avuto problemi con la stampa?

Un giornalista locale, Piero Minuzzo, di aostacronaca.it, ha fatto un articolo per difendermi nel periodo in cui mi trovavo in carcere. Ed è stato ripreso dall’ordine dei giornalisti per essersi schierato dalla mia parte. Durante il processo sono state diverse le volte in cui sono stati pubblicati articoli con errori sulla mia posizione. Per sei mesi, ma anche di più, sono stato massacrato. Ed anche ora che sono stato assolto su La Stampa è stato pubblicato un articolo con il mio nome a caratteri cubitali nel titolo, come se volessi stangare il Comune per le spese legali. Ciò invece di porre l’attenzione sul fatto che sono stato condannato ingiustamente a 10 anni sulla base di niente e senza attenuanti generiche, salvo poi essere assolto, perché non mi sarei “dissociato” dalla presunta locale. Peccato che fossi innocente: da cosa dovevo dissociarmi? Senza contare che, ad oggi, la presenza della locale non è stata dimostrata.

Parliamo del carcere: 909 giorni di custodia cautelare, 214 in carcere, poi ai domiciliari. Che esperienza è stata?

Devastante. Il carcere per un innocente è terribile. E per come l’ho visto io è terribile anche per un colpevole. Se il carcere ha il fine di reintegrare, far capire ad una persona che ha sbagliato, posso dire che non funziona. Il carcere ti toglie anche la dignità. E non è giusto, che si tratti di colpevoli o di innocenti. I sentimenti che provi, quando entri in carcere, sono due: voglia di toglierti la vita e rabbia, odio. Non c’è una via di mezzo. Questo è successo anche a me: oscillavo tra la voglia di farla finita, specie dopo aver visto mia madre o quando sentivo il mio nome in tv, e la rabbia per ciò che mi era stato fatto. E se si esce in quel momento l’unica cosa a cui si pensa è la vendetta. L’ho visto sul viso di tante persone con le quali ho condiviso questa esperienza. La tv l’ho vista solo dopo i primi 45 giorni di isolamento. Ed era anche buffo, perché magari sentivo un politico usare il termine “onore” ed io pensavo che parole del genere mi venivano contestate.

Come sono stati quei giorni in isolamento?

Invito tutti a fare quattro passi per due e stare 45 giorni così. Avevo un letto in ferro cementato a terra, un piccolo lavandino, solo con l’acqua fredda, e una piccola tazza. L’unica umanità che hai lì dentro è quella degli agenti di polizia penitenziaria. Che sono le vere vittime lì dentro. Molte volte anche loro hanno paura a fare il loro dovere, perché quando vivi in un contesto del genere e hai a che fare con un soggetto come me a cui viene contestato un reato del genere magari hai anche paura a portargli un caffè perché lo vedi dimagrire di 20 chili o di fare una battuta. Per cui sei isolato, annientato. Ho avuto la fortuna di avere la fede. Ho camminato, come un criceto su una ruota. Ho trovato serenità solo dopo 33 giorni, perché ho potuto vedere mia madre.

Com’è stato?

I suoi occhi non potrò mai dimenticarli. Una donna di 79 anni che entra in carcere, viene perquisita dalla testa ai piedi per vedere suo figlio in un mondo assurdo: è devastante.

Cos’è accaduto dopo l’isolamento?

Mi hanno messo in una sorta di corridoio, con 25 celle su ogni lato, che si aprono alle 8 del mattino e si richiudono alle 20. Con i compagni di cella inizialmente hai anche paura di parlare, perché hai letto la tua custodia cautelare e allora non sai cosa possa accadere se hai contatti con qualcuno. Diventi tu lo strano dell’ambiente. Poi esci, ti trovi in una sezione dove tu sei il politico, quello che sta bene. Quello che può parlare con l’avvocato più volte a settimana. Così si genera odio nei tuoi confronti. E tu, che fino al giorno prima eri libero di fare ciò che volevi, non sei più niente. Non si può mettere una persona in custodia cautelare con persone che hanno già una sentenza passata in giudicato. Non si possono mettere dei colpevoli con dei presunti colpevoli nello stesso posto.

Forse sarebbe il caso di dire presunti innocenti, come dice la Costituzione.

Non è un lapsus il mio: io sono entrato dentro e per chi mi giudicava io ero già colpevole. È giusto fare le intercettazioni e le indagini, ma va fatto tutto bene. Le intercettazioni vanno lette per intero e contestualizzate. Sel nel 2011 parlo con una persona incensurata che solo anni dopo diventa uno spacciatore non mi si può dire che allora ho parlato con uno spacciatore: in quel momento non lo era. In più i pm devono avere il coraggio di ammettere gli errori. Non è possibile che sia stato fatto ricorso contro la mia assoluzione: era lampante la mia innocenza. Io ho passato 1466 giorni da persona non libera. Ancora oggi, stanotte, mi sono svegliato due volte per farmi la doccia, perché sento l’odore del carcere addosso. Non riesco ad avere relazioni con nessuno e quando ne ho le disfo in tre secondi. Come fai ad avere a fianco una persona? Hai paura.

Ci ha provato?

Dopo la scarcerazione una ragazza meravigliosa mi è stata vicino, ma ho mandato tutto all’aria. È la prima volta che lo dico. Come faccio a creare un futuro con qualcuno se ho paura di affezionarmi? Non posso più pensare di vedere persone che mi amano soffrire. Cose così ti rendono asettico. Da una parte è bello: se c’è fila non mi arrabbio più, mi si rompe la macchina e non me la prendo. Se vedo qualcuno piangere, paradossalmente, non provo nulla. Ma io non voglio essere così. Oggi sono spento. E voglio solo essere di nuovo il Marco di prima.

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Il Piemonte.

"Una vicenda del genere ti demolisce dentro". Intervista a Stefano Esposito, vittima di un’inchiesta da incubo: “Volevano associarmi alla ‘ndrangheta, ma non nutro vendetta”. Roberto Giachetti su Il Riformista l'11 Novembre 2023

Stefano Esposito, ex parlamentare Pd, nel 2017 finisce coinvolto in un’inchiesta che si trasforma in un incubo.

Raccontaci la tua storia.

«Parto dalle accuse, che avrei volentieri discusso in questi lunghi sei anni e mezzo se ne avessi avuto modo. La vicenda la scopro nel novembre 2017, quando un mio coimputato, Enzo Lavolta, all’epoca assessore all’ambiente nella giunta Fassino, mi chiama chiedendomi chi fosse l’avvocato “tizio” che avrei nominato nel procedimento penale in cui entrambi siamo coinvolti. Cado dal pero, perché nulla avevo ricevuto, e scopro così di essere indagato per turbativa d’asta per una vicenda relativa al Forum mondiale Onu a Torino del 2015. A quel punto chiamo un amico avvocato e chiedo di essere sentito dal Pm Colace, che mi dice che mi avrebbe fatto ascoltare tre telefonate in cui parlavo con un mio carissimo amico, anche lui indagato, Giulio Muttoni, aggiungendo che in caso avesse poi chiesto il rinvio a giudizio avrebbe dovuto richiedere l’autorizzazione al Senato. Ovviamente acconsento all’ascolto delle telefonate, mi sottopongo all’interrogatorio, ritengo di poter spiegare la mia posizione e per me la storia finisce lì. Il 23 marzo 2018, giorno successivo in cui decado da senatore, ricevo un altro avviso di garanzia, con l’accusa di corruzione e traffico di influenze. Da quel momento resto in attesa fino all’ottobre 2020, quando arriva la chiusura delle indagini, e lì scopro di essere stato intercettato indirettamente 500 volte (un caso particolare perché tutte le intercettazioni sono esclusivamente con Muttoni) da febbraio 2015 fino al 21 marzo 2018».

Quindi in un periodo in cui eri senatore in carica.

«Certamente. Di queste intercettazioni ne ho potute ascoltare solo 130, quelle utilizzate, l’accesso alle restanti mi è stato negato e quindi ne ho avuta sintesi da Peagno, il mio avvocato, ma già questo è un primo elemento particolare. A quel punto dico all’avvocato che sarei andato a processo tranquillamente ma abbiamo scelto di attendere l’udienza davanti al Gup, che doveva valutare la richiesta di rinvio a giudizio, per sottoporle la questione. L’avvocato quindi le segnala subito la presenza di queste telefonate e la palese violazione dell’articolo 68 nonché la casualità delle stesse».

La norma infatti dice che comunque, prima di procedere, si deve chiedere l’autorizzazione al Senato.

«Esattamente. Il Gup assicura al mio avvocato che avrebbe risposto all’esito dell’udienza preliminare, ma dopo 6 udienze, in cui ogni volta abbiamo posto la questione che è appunto preliminare producendo memorie su memorie, la dottoressa rinvia tutti a giudizio e non dice nulla sul tema. A quel punto mi rivolgo all’allora Presidente del Senato Casellati, che trasmette tutto alla Giunta competente, dove vengo convocato e lì succede una cosa curiosa. L’ex Presidente Grasso si stupisce, e la Giunta è costretta ad approfondire non essendo mai capitato nella storia repubblicana che un Pm e un Gup di fronte a un’esplicita richiesta di un senatore indagato rifiutassero di rivolgersi al Senato per l’utilizzo delle intercettazioni. La Giunta solleva quindi conflitto di attribuzione, che verrà discusso il 21 novembre davanti alla Corte, chiedendo, senza neanche entrare nel merito, di annullare la richiesta di rinvio a giudizio essendo state violate le prerogative costituzionali. Se la Corte accoglierà si tornerà indietro, richiedendo al Senato l’autorizzazione».

Nel frattempo però si è creato anche un problema di competenza. L’indagine è stata trasferita da Torino a Roma, quindi si ricomincia da lì come voi avevate chiesto fin dall’inizio.

«Io vengo accusato di corruzione perché, nel lontano 2010, all’epoca deputato, decido di comprare casa ma non essendo ricco di famiglia avevo bisogno di 150.000 euro per fermarla, in attesa che mi venisse concesso il mutuo. Quindi mi rivolgo a questo mio caro amico imprenditore chiedendogli in prestito quei soldi, in attesa di restituirglieli una volta ricevuti quelli del mutuo. Facciamo quindi un contratto in cui ho preteso che restasse tutto scritto e lui mi fa un bonifico che restituisco con gli interessi, la prima tranche dopo cinque mesi (130.000) e i restanti 20.000 nove mesi dopo il prestito. L’accusa di corruzione è per aver ricevuto questi soldi con un tasso di interesse di favore, lo 0,83%. Ma avendo io pagato il 3,5% non riesco a capire come sia saltata fuori quella cifra. Ricostruendo col commercialista ci rendiamo conto che loro avevano calcolato il tasso come se avessi restituito tutta la cifra dopo 9 mesi, al che l’avvocato fa notare che, nel sostenere un’accusa di corruzione, poiché il bonifico era stato fatto a una banca di Roma, la competenza sarebbe appunto di Roma. Alla prima udienza del processo il Presidente del collegio ha trasferito – come previsto dalla riforma Cartabia – il tema alla Cassazione, che il 15 settembre ha sancito lo spostamento a Roma. Molti si sono felicitati con me ma così io ricomincio da capo».

Questo racconto è da un lato surreale per molti aspetti ma, dall’altro, dimostra anche come tutto ciò potrebbe capitare a chiunque. Ci si può ritrovare nelle maglie della giustizia con enormi costi materiali e personali e dopo anni si considera quasi una vittoria il ritorno alla casella di partenza.

«Vengo da una famiglia di operai e sono arrivato in politica solo grazie alla mia passione. Una vicenda del genere ti demolisce dentro, ti distrugge la credibilità, la dignità, l’onorabilità. E per sempre. Perché chi pensa che si possa recuperare un danno simile non sa che vuol dire. Gli effetti sono devastanti sulla tua attività professionale, anche se sono stato fortunato con aziende serie attente alle mie competenze e non al mio presunto certificato penale. Ci ho messo un po’ di tempo a tirar su la testa, la mia famiglia, i miei figli più grandi, hanno patito. Quando uscirono le carte del rinvio a giudizio molto l’ho saputo prima dai giornali che le hanno avute una settimana prima. Ho letto cose stupefacenti, che se non ci fosse da piangere bisognerebbe riderne, tutti fatti non veri già dalle carte ma se le dai in un certo modo anche il falso appare vero. Oggi non nutro particolare voglia di vendetta, non credo che a Colace succederà alcunché, in questi anni abbiamo visto come funziona il sistema disciplinare per i magistrati. Ma non sono interessato a questo. Io vorrei lasciare come eredità della mia vicenda il fatto che ad altri non debbano capitare certe situazioni, so che è una pia illusione. Ma la verità è raccontare la genesi di questa indagine, ed è la mia opinione non fatti documentali, perché dalla lettura delle carte ho avuto la sensazione che la vicenda inizi con un’iscrizione contro ignoti per 416 bis e che vi fosse un tentativo di associarmi alla Ndrangheta. Facendo un rewind della mia attività, essendomi occupato di difendere la Torino Lione, mi chiedo se forse ci fosse bisogno di colpire qualcuno. Insieme a me sono stati colpiti altri esponenti torinesi non del Pd, anche magistrati, che si occupavano guarda caso dello stesso tema. Non so se potrò dimostrare questa tesi ma certamente è stato un lavoro scientifico, essendo stato intercettato solo mentre parlavo con Giulio Muttoni. Legittimo, lo dico con sarcasmo, che il Pm possa sostenere come casuali 500 telefonate con un’unica persona a me non sconosciuta, amico da venticinque anni e padrino di battesimo di mia figlia. Oggi mi auguro di poter avere davanti a Roma un magistrato che abbia voglia di ascoltare e leggere insieme accuse che non ha fatto lui. Io a ottobre 2020 pensavo che la questione della violazione dell’articolo 68 fosse una cosa clamorosa, il 21 novembre, quando ci sarà la discussione alla Corte e io sarò seduto lì, potrò dire tranquillamente che quello è il problema minore del fascicolo». Roberto Giachetti

Intercettazioni, pm sotto accusa. Stefano Zurlo il 6 Novembre 2023 su Il Giornale.

Sarà interrogato dal Csm il procuratore che ha spiato senza permesso il senatore Esposito

Il caso Colace arriva ai piani alti della giustizia, mentre i processi istruiti dal pm torinese continuano a perdere pezzi. Domani, Gianfranco Colace verrà interrogato nell'ambito del procedimento disciplinare che lo vede incolpato per le intercettazioni a carico dell'ex senatore Stefano Esposito, uno dei leader della sinistra sì Tav piemontese; il 21 novembre, invece, sarà la Corte costituzionale in udienza a dover dirimere la vicenda quasi incredibile delle conversazioni ascoltate e utilizzate contro Esposito senza chiedere l'autorizzazione a Palazzo Madama. Sono 130 quelle usate, ma sono addirittura cinquecento quelle agli atti del processo contro Esposito e contro l'imprenditore Giulio Muttoni, a sua volta bersagliato da 23.748 intercettazioni, un numero record nella pur ricchissima storia giudiziaria italiana.

Così il 21 novembre la Consulta sarà arbitro del conflitto di attribuzione fra il Senato e la Procura di Torino che naturalmente difende la correttezza di quelle valutazioni, definite occasionali e indirette, perché a dispetto del numero strabordante l'obiettivo dichiarato era sempre Muttoni. Ci si chiede ovviamente, con un pizzico di buonsenso, come sia possibile considerare occasionale l'ascolto seriale di una persona che rapidamente era stata identificata come parlamentare e dunque era coperta dallo scudo dell'immunità. E ci si domanda quali siano stati i costi di quella che in gergo si chiama la pesca a strascico: su Muttoni, le cui aziende nel frattempo sono franate e sono state chiuse, Colace ha aperto nel tempo un grappolo di procedimenti, alcuni collegati a micidiali interdittive antimafia, e in un sistema di vasi comunicanti le intercettazioni di un filone sembrano sorreggere le accuse dell'altro.

Intanto, il processo più importante, quello che vede appunto Muttoni ed Esposito accusati di corruzione e traffico di influenze, è appena stato trasferito per competenza a Roma e dunque il boccino passerà al pm della Capitale che dovrà di nuovo, se lo riterrà, proporre il rinvio a giudizio degli indagati eccellenti. Insomma, a otto anni dalle prime registrazioni disposte a Torino, siamo a zero o quasi.

Un altro filone, quello in cui Esposito e Muttoni sono indagati per turbativa d'asta, è stato dirottato dalla procura generale di Torino su un binario morto: prima, fatto molto raro, l'avocazione, poi nei giorni scorsi la richiesta di archiviazione. Un altro flop.

Ora proprio la debolezza della costruzione (e il trasloco delle carte a Roma) alimenta le chance dei pm e della difesa, rappresentata davanti alla Consulta da Marcello Maddalena, oggi avvocato ma prima di andare in pensione uno dei simboli della magistratura piemontese. «Attualmente - scrive Maddalena - il processo si trova pendente perso la procura di Roma dove è regredito nella fase delle indagini preliminari e dove quindi la Procura di Roma potrà assumere, in assoluta autonomia, tutte le determinazioni del caso».

Insomma, visto che la procura di Roma potrebbe pure chiedere l'archiviazione del fascicolo e dunque buttare nel cestino tutte le intercettazioni, allora per Maddalena «è venuto meno l'oggetto del contendere». E la Consulta potrebbe chiudere l'imbarazzante vicenda senza nemmeno entrare nel merito.

E però c'è da registrare un episodio sconcertante, datato 10 novembre 2017, il giorno in cui Colace all'alba di questo procedimento interroga proprio Esposito. E a sorpresa scopre le carte: «Ci sono queste intercettazioni - in quel momento tre in tutto - che, nel caso in cui ci dovessimo determinare in un certo senso, occorre chiedere ovviamente al Senato l'autorizzazione per l'utilizzazione, altrimenti nei suoi confronti non sono utilizzabili».

Testuale. E invece la procura non ha mai chiesto quell'autorizzazione, non per tre ma per 130 registrazioni. Esposito è finito a processo, la sua carriera è finita, la sua vita è stata devastata. Oggi è Colace a dover rispondere di quei comportamenti.

La Lombardia.

Così un gip scrupoloso ha messo in crisi anni di teoremi antimafia. La vicenda degli arresti chiesti dal pm e non concessi dal gip a Milano ha riacceso una polemica annosa. Tiziana Maiolo su Il Dubbio il 31 ottobre 2023

Dalla Roma di “Mafia capitale” alla Milano del “Consorzio” che avrebbe unificato le cosche storiche di cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra. Visioni di pubblici ministeri e direzioni antimafia che finiscono con il vedere metaforiche lupare ovunque, con un radar così ossessivamente puntato in una sola e univoca direzione, tanto da finire sconfessati dalle ordinanze e sentenze dei giudici. E’ capitato a Roma, quando la procura diretta da Giuseppe Pignatone nel 2014 ha lanciato una bomba che per potenza mediatica ha raggiunto i luoghi più lontani del mondo e ha battezzato la capitale d’Italia come centro mafioso. La cosca è lì, nel cuore dell’Italia, dissero in coro i capitani coraggiosi che si chiamavano Michele Prestipino, procuratore aggiunto, e i sostituti Paolo Ielo, Luca Tescaroli e Giuseppe Cascini, che affiancavano il dottor Pignatone nella fatica delle indagini. Dopo sei anni, e dopo che i giudici dell’appello avevano sconfessato, con un vero appiattimento sula teoria dell’accusa, la lungimiranza dei giudici di primo grado, la cassazione disse parole chiare. Prima di tutto evidenziando quel che dovrebbe essere lapalissiano, e cioè che l’interpretazione del reato la dà la legge, non la fantasia del magistrato, singolo o collettivo che sia. Il “Mondo di mezzo”, stabilì il giudice di legittimità il 22 ottobre del 2019, non era mafia, ma semplice corruzione. C’erano i reati contro la pubblica amministrazione e c’erano i responsabili che li avevano commessi. Ma mancavano i presupposti previsti dall’articolo 416-bis del codice penale, il metodo mafioso nei comportamenti dei soggetti coinvolti e anche quella ”fama” conquistata dall’associazione criminale che produce l’assoggettamento omertoso di una porzione di società. Lucciole scambiate per lanterne, che avevano danneggiato nel mondo la reputazione dell’Italia e della sua capitale, e scaricato come merce avariata e pericolosa nelle carceri speciali i due principali responsabili Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, mentre fiorivano successi editoriali e filmografici di coloro che a quell’ipotesi fantasiosa e infondata avevano creduto, o finto di credere.

Quasi dieci anni dopo il problema dell’interpretazione dell’articolo 416-bis del codice penale si ripropone a Milano, e non c’è bisogno di arrivare alla cassazione. Perché un giudice, quello delle indagini preliminari, forse anche sulla scia di quel fatto così grave di allora, ha dato un primo stop alle richieste della procura diretta da Marcello Viola, avanzate dal capo della Dda Alessandra Dolci con l’ausilio della pm Alessandra Cerreti. Il fatto nuovo non consiste tanto nel fatto che il gip Tommaso Perna abbia accolto solo 11 delle 140 richieste di custodia cautelare (per quanto l’enorme differenza nel numero sia significativa), ma nell’esclusione tassativa dell’esistenza di una sorta di Supermafia che la procura ha creduto di aver individuato a Milano e al nord. Un “Consorzio” nuovo di zecca come associazione, frutto della fusione tra cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra di cui gli stessi procuratori delle Dda delle tre Regioni degli insediamenti storici di queste cosche, Sicilia, Calabria e Campania, avevano mai sospettato l’esistenza. Siamo alle luccioline per lanternone?

Se il gip Tommaso Perna ha studiato anche, cosa di cui è stato accusato dai giornali che si nutrono delle veline dei pm, qualche scritto dell’avvocato Salvatore Del Giudice, ha fatto benissimo, perché sono molto approfonditi. Piuttosto, è singolare il fatto che quegli stessi quotidiani abbiano fatto notare come la figura dell’avvocato, nel processo, sia la parte avversa del pm, dando per scontato che agli scritti di questi ultimi dovrebbe se mai ispirarsi il giudice. Ma resta il fatto che la qualificazione del reato di associazione mafiosa non possa essere accertata se non secondo criteri “legali”. E che perché quello specifico reato esista occorre che l’associazione abbia effettivamente e in concreto in un determinato territorio mostrato la propria capacità di intimidazione. E bisogna accertare anche che di questa capacità la popolazione abbia una tale certezza da sentirsene intimorita e condizionata fino all’assoggettazione “spontanea” alla violenza del gruppo.

Ora, nelle cinquemila pagine stese dalla procura di Milano, che ha avanzato le richieste dopo indagini durate quattro anni, il gip Perna non ha ravvisato gli elementi fondativi che mostrino come la gran parte degli indagati, alcuni dei quali apparteneva o era appartenuto nel passato a qualche associazione di tipo mafioso, abbia avuto la forza di costruire il “Consorzio” unificante delle tre mafie storiche come nuovo soggetto criminale. E che abbiano commesso reati avvalendosi di quella forza intimidatrice che ha posto come condizione per il 416-bis il legislatore quando lo ha introdotto nel codice penale, in seguito agli omicidi di Pio La Torre e del generale Dalla Chiesa.

Situazione in fieri a Milano comunque, poiché la procura ha presentato ricorso al tribunale del riesame. Ma in un’altra regione italiana, la Calabria, potrebbe presentarsi un caso di studio di qualche interesse. La Dda di Catanzaro ha chiuso nei giorni scorsi un’inchiesta su 82 indagati del “clan degli zingari”, qualificando quel gruppo come associazione mafiosa. Non era mai successo che una procura della repubblica indagasse la comunità rom oltre che per reati specifici, in questo capo narcotraffico, estorsioni e detenzione di armi, anche per il reato previsto all’articolo 416-bis del codice penale. Uniformità in questo caso tra le parole pronunciate nella conferenza stampa dell’aprile scorso, in cui al fianco del procuratore Nicola Gratteri sedeva anche il Direttore centrale anticrimine della polizia Francesco Messina, con l’ordinanza del gip Filippo Aragona. Il cui contenuto però lascia qualche dubbio, che potrebbe trovare cittadinanza nei prossimi gradi di giudizio dell’ eventuale processo. Perché il gip usa un particolare linguaggio nello spiegare come questo gruppo di nomadi a partire dal 2017 e dopo aver svolto il ruolo di manovalanza nelle associazioni mafiose dedite in particolare al narcotraffico, si sia reso autonomo. In questa nuova fase, scrive il gip Aragona, “..le cosche mafiose storiche operanti a Catanzaro, Cutro e Isola di Capo Rizzuto hanno conferito ai capi del clan degli zingari doti di ‘ndrangheta…Tale apertura ha determinato le condizioni perché gli zingari progressivamente acquisissero l’expertise necessaria per costituire un gruppo indipendente operante nel settore degli stupefacenti, armi estorsioni e reati contro il patrimonio, avvalendosi della forza di intimidazione mafiosa”. Doti di ‘ndrangheta? Expertise? Saranno sufficienti perché altri giudici che saranno chiamati a decidere, se ci sarà un rinvio a giudizio, confermino l’esistenza di una nuova mafia, quella degli zingari? E solo in Calabria?

«Arresti negati? Penso anche a chi è in carcere preventivo e poi è assolto». Parla l’ex magistrato Massimo Brandimarte: «La patologia risiede nell’alto numero di assoluzioni finali di soggetti già sottoposti a carcerazione preventiva. Un rigetto non significa che l’inchiesta è finita, ma anche andrà avanti senza la stretta necessità di privare qualcuno della libertà». Valentina Stella Il Dubbio il 30 ottobre 2023

Stampa e parte della magistratura in questo giorni non hanno affatto preso bene la decisione del gip di Milano che ha che ha “osato” rigettare la richiesta di arresto avanzata dalla Dda per 140 persone. Ne parliamo con l'ex magistrato Massimo Brandimarte che ci dice: «L’esigenza di arrestare preventivamente qualcuno, non si costruisce su teorie, ma su elementi di fatto, gravi ed evidenti. E’ la legge».

Il gip Perna non ha convalidato 140 arresti chiesti dalla DDA. C'è stata una rivolta mediatica e in una parte della magistratura. E' così anormale negare gli arresti?

Un GIP che respinge una richiesta di misure cautelari restrittive non è affatto un evento eccezionale, nel sistema di garanzie costituzionali. E’ fisiologia processuale. La patologia sta, al contrario, nell’alto numero di assoluzioni finali di soggetti già sottoposti a carcerazione preventiva. Un rigetto non significa che l’inchiesta è finita, ma che andrà avanti, per il momento, senza la stretta necessità di privare qualcuno della libertà. In generale, vale sempre la regola secondo cui l’affermazione della responsabilità penale e, prima ancora, l’esigenza di arrestare preventivamente qualcuno, non si costruisce su teorie, ma su elementi di fatto, gravi ed evidenti. E’ la legge. Poi, stiamo nel campo delle valutazioni ed ognuna di esse merita rispetto.

Il gip ora è sotto la mira della stampa che lo accusa di aver fatto quasi un favore alla mafia ma l'Anm tace. Dovrebbero invece prendere le sua difese?

Ogni giudice indipendente decide secondo scienza e coscienza. E’ una premessa logica ed istituzionale inderogabile. Ovviamente le critiche, da parte dell’opinione pubblica, sono sempre ammesse, visto che la Giustizia è amministrata in nome del Popolo. Ma, quando sono disgiunte dall’approfondimento storico e dalla conoscenza del sistema, finiscono per scadere nel pregiudizio e producono rumore, turbando la serenità di chi è chiamato a giudicare eventualmente in seconda battuta. La legittima preoccupazione nei confronti del fenomeno mafioso, come di qualunque altro evento criminale, non dovrebbe prevalere, emotivamente, sulla forza del diritto, quasi sacrificandola. La magistratura tutta resta un baluardo della legalità. Nessun timore, nessuna paura. Se dovessero servire interventi correttivi sul provvedimento già preso, ci sarà sempre una magistratura a riesaminare. Funziona così. Dunque, non mi pare indispensabile una presa di posizione pubblica di bandiera da parte della magistratura associata su un episodio processuale di natura fisiologica, al di là del clamore suscitato dal numero elevato di soggetti coinvolti nell’indagine.

Crede che i gip in Italia subiscano pressioni dalle procure per assecondare le loro richieste o i copia e incolla avvengono solo per mancanza di tempo?

La responsabilità di chi dispone del potere di richiedere l’arresto, cioè la magistratura requirente, non è pari a quella di chi, invece, dispone del potere diretto di arrestare, cioè la magistratura giudicante, soprattutto il gip. Il nuovo codice accusatorio ( all’americana) ha tolto il potere di arresto diretto al P. M., il quale, forse per una sorta di compensazione psicologica, ha iniziato ad esercitare il potere di richiesta più di quanto non esercitasse, una volta, il potere di arresto diretto. La realtà è che il P. M. appartiene ad un ufficio strutturato gerarchicamente e spesso procede in team. Il gip, invece, è colui che deve decidere da solo ed in solitudine, su richieste talvolta pressanti della procura, sostenute dagli organi di polizia, con uno sbilanciamento di forze evidente.

La separazione delle carriere potrebbe liberare i giudici da questa morsa?

Il coraggio morale e giuridico di chi ha il potere di richiedere un arresto non può essere pari a quello di chi deve disporlo, visto che la responsabilità finale e complessiva ricadrà su quest’ultimo. A quest’ultimo, perciò, deve essere riconosciuto, con dignità ed onestà intellettuale, il maggior peso che grava sulle sue spalle. Disporre un arresto, chiunque sia il destinatario, non è mai soltanto un esercizio di giurisprudenza, ma è sempre anche un momento di coinvolgimento di sensibilità umana. Chi si allontanasse da questa verità, perderebbe i contatti con la realtà quotidiana. Conta poco la mia opinione sull’annosa questione della separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici. Di leggi tese a modificare il sistema processuale, in senso garantistico, se ne son fatte. Il problema resterà sempre quello della loro soggettiva interpretazione, all’interno di una normativa, che, per compromesso, finisce per affidare alla magistratura margini di discrezionalità valutativa maggiori di quanto dovuti. Diceva il ministro francese Tayellerand ai suoi funzionari: “Surtout pas trop de zèle”. Basterebbe questo!

Da adnkronos.com il 25 ottobre 2023.

E' in corso dalle prime ore della mattinata odierna una operazione dei Carabinieri dei Comandi Provinciali di Milano e Varese che sta portando alla esecuzione di 11 ordinanze di custodia cautelare in carcere, al sequestro di beni per un valore complessivo di oltre 225 milioni di euro ed alla notifica dell’avviso di conclusione indagini nei confronti di 153 indagati. 

Si tratta di una complessa attività di indagine coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Milano che ha riguardato un contesto criminale operante prevalentemente nel territorio lombardo, in particolare, tra la città di Milano e la sua provincia, la città di Varese e la sua provincia, formato da soggetti legati alle tre diverse organizzazioni di stampo mafioso cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra, cd. sistema mafioso lombardo, che gestisce risorse finanziare, relazionali ed operative, attraverso un vincolo stabile tra loro caratterizzato dalla gestione ed ottimizzazione dei rilevanti profitti derivanti da sofisticate operazioni finanziarie realizzate mettendo in comune società, capitali e liquidità.

Nelle operazioni, comprensive anche di 60 perquisizioni, sono impegnati più di 600 Carabinieri sull’intero territorio nazionale.

 (ANSA il 25 ottobre 2023. ) Nessun "patto" tra le tre mafie, Cosa Nostra, 'ndrangheta e camorra in Lombardia, così come viene contestato nella nuova inchiesta della Dda milanese, smontata, invece, dal gip di Milano Tommaso Perna che ha respinto oltre 140 richieste di arresti per altrettanti indagati. Il giudice, infatti, ha disposto il carcere solo per 11 persone, ma non per associazione mafiosa e solo per altri reati. La Dda, dunque, ha deciso, comunque, di chiudere le indagini, contestando sempre "l'alleanza" tra le tre mafie e di fare ricorso al Riesame per le richieste di custodia cautelare respinte.

Della "alleanza" tra le mafie in Lombardia aveva parlato, lo scorso agosto, anche il procuratore di Milano Marcello Viola durante un'audizione alla commissione antimafia. Recenti inchieste, aveva detto, "hanno evidenziato accordi stabili e duraturi tra 'ndrangheta, criminalità siciliana e quella di stampo camorristico", fenomeno questo "particolarmente allarmante in quanto" dà solidità a "una rete trasversale" che opera soprattutto nel "settore del riciclaggio". 

Dinamiche mafiose che, aveva spiegato Viola, "definiscono un network che si salda su interessi concreti". La nuova inchiesta, condotta dai carabinieri e coordinata dal pm della Dda Alessandra Cerreti, verte proprio su questo presunto "patto" tra mafie, ma le accuse di associazione mafiosa sono state tutte smontate nell'ordinanza del gip Perna. La Dda milanese ora punta tutto sul Riesame e proverà a portare a processo gli oltre 150 indagati, dopo aver chiuso le indagini con atti notificati oggi, contestualmente all'esecuzione degli 11 arresti.

L'ordinanza del gip era stata depositata nelle scorse settimane e gli inquirenti, però, hanno deciso di ricorrere prima al Riesame e di chiudere le indagini contestualmente all'esecuzione dei pochi arresti accolti dal giudice. Nell'ultima relazione semestrale la Direzione investigativa antimafia aveva scritto, tra l'altro, che in Lombardia i "sodalizi mafiosi sarebbero 'scesi a patti' per assicurare alle aziende affiliate una sorta di rotazione nell'assegnazione dei contratti pubblici, pilotando le offerte da presentare e contenendo anche le offerte al ribasso degli oneri connessi"

Mafia in Lombardia, inchiesta flop. Dubbi del Gip: non regge la tesi della Dda, alcuni nomi noti ma solo 11 arresti su 153 indagati. Felice Manti il 26 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Mafia, camorra e 'ndrangheta si stanno mangiando Milano, come un Hydra a tre teste. Se non è un accordo, come sostiene la Procura (ma non il gip) e come dichiara il pentito Emanuele De Castro, arrestato nel 2019 in Krimisa, è certamente il frutto della pax mafiosa anticipata all'Antimafia dal procuratore capo di Milano Marcello Viola, la cui intuizione sugli «accordi stabili e duraturi» trova conferme investigative nel poderoso Hydra di oltre 1.500 pagine, curato dalla Dda di Alessandra Dolci e dal pm Alessandra Cerreti che avrebbero scoperto «un'unica struttura confederativa», orizzontale e senza capi, di fatto smantellata dai carabinieri del Comando provinciale di Milano.

In Tribunale non è più tempo dei gip copia-incolla di qualche anno fa. Ma anziché guardare il dito («non dimostrato il vincolo associativo tra tutti», manca «il metodo mafioso», scrive il gip Tommaso Perna) e in attesa che sullo scontro interno al Tribunale si pronunci il Riesame, bisognerebbe guardare alla Luna: l'idea che la mafia trapanese di Matteo Messina Denaro, quella di Gela e quella di Catania facesse affari con la potente 'ndrangheta calabrese di Lonate Pozzolo (Varese) individuata da Crimine-Infinito del 2010 e con la camorra romano-napoletana dei Senese, che la Cerreti è riuscita a ricostruire, è una novità assoluta sotto il profilo investigativo che merita di essere comunque percorsa, al netto di alcune sbavature sui inesistenti rapporti con il mondo politico di centrodestra che invece finiscono sull'ordinanza massacrata dal Gip. Che prima fa uscire l'associazione mafiosa dalla porta (più di 140 custodie cautelari sono state respinte al mittente) perché non ne riconosce i presupposti previsti dalla legislazione antimafia consolidata, specie quando si parla di riciclaggio, tratta dei crediti fiscali figli dello scellerato Superbonus 110% e fatture false per operazioni inesistenti, poi è «costretto» a farla rientrare dalla finestra quando spuntano estorsioni, traffico di droga e della possibile lupara bianca che ha inghiottito Gaetano Cantarella, detto Tanu ù curtu o quando i mediatori finiscono al bar San Vito di Campobello di Mazzara nel Trapanese, a pochi metri dal covo di Messina Denaro, per mettere d'accordo due sodali. Alla fine gli arresti saranno «solo» 11 su 153 indagati, i beni sequestrati grazie alle indagini dei Nuclei Investigativi di Milano e di Varese valgono 225 milioni di euro. Lo spessore criminale di alcuni dei protagonisti individuati dalle indagini della Cerreti non sembra pregevole: nelle «cointeressenze multistrutturate» tra «gruppi tra loro disomogenei» ci sarebbero i mafiosi di secondo e terzo piano collegati alle famiglie Fidanzati e Rinzivillo, un uomo considerato vicinissimo a Matteo Messina Denaro e al mandamento di Castelvetrano come Paolo Aurelio Errante Parrino, esponenti della cosca Iamonte della Jonica calabrese e i picciotti della camorra romana dei Moccia di Afragola. Questo «sistema mafioso lombardo» si muove con capitali e liquidità in comune attraverso oltre 54 ditte eterogestite operanti in diversi settori (dall'edilizia alle forniture Covid, dall'e-commerce ai parcheggi nell'aeroporto), considerate centrali di riciclaggio per ripulire la mole di contanti derivanti dal traffico di armi e stupefacenti e dalle estorsioni, aggredire i fondi del Pnrr e smerciare a basso costo crediti d'imposta tramite società con sede a Londra e in Delaware. Quando due soggetti controllano lo stesso territorio, diceva Giovanni Falcone, o si fanno la guerra o si mettono d'accordo. «Qua è Milano! Non ci sta Sicilia, non ci sta Roma, non ci sta Napoli, le cose giuste qua si fanno», dice un indagato. Secondo la Cerreti è l'economia il collante delle tre mafie, è lo «spazio economico» il territorio da presidiare. Certo, manca ancora quella «borghesia mafiosa» che dei boss 2.0 è regista ancora troppo occulto, mentre puzzano di opportunismo politico i contatti (anche solo millantati) dell'indagato Gioacchino Amico con politici, messi nero su bianco nell'ordinanza. C'è la ministra Daniela Santanchè, la sottosegretaria all'Istruzione Paola Frassinetti, la senatrice Carmela Bucalo (entrambe di Fratelli d'Italia) e gli ex azzurri Mario Mantovani e Paolo Romani. Niente di penalmente rilevante da segnalare. Uno sputtanamento inutile ma necessario, pur di oscurare lo scontro tra Dda e Gip.

C’è un giudice a Milano: «Vuoi 140 arresti? Portami le prove...» ll gip Perna ha respinto una corposa richiesta della Dda, convinta di aver individuato una joint venture tra mafia, ’ndrangheta e camorra: «Nessuna prova dell’associazione». Simona Musco su Il Dubbio il 25 ottobre 2023

Fatti troppo lontani nel tempo. Condotte non chiare. Reati riconducibili al singolo e non ad una associazione. E soprattutto nessuna prova della forza intimidatoria espressa sul territorio. È un’ordinanza complessa e paradossalmente inusuale quella firmata dal gip di Milano Tommaso Perna, che ieri ha negato alla procuratrice aggiunta Alessandra Dolci e alla sostituta Alessandra Cerreti l’arresto di 140 persone. Inusuale perché rappresenta uno dei pochi casi “visibili” di non appiattimento del gip alle richieste della procura, che ha già annunciato ricorso al Riesame. Alla fine le misure cautelari sono scattate “solo” per 11 indagati con le accuse, a vario titolo, di porto d'armi, due estorsioni aggravate dal metodo mafioso, minaccia aggravata, traffico di droga ed evasione fiscale. Ma nulla a che vedere con la presunta joint venture tra mafia, ’ndrangheta e camorra nell’hinterland milanese descritta dalla Dda, che indaga sul punto dal 2019. Secondo l’ipotesi accusatoria, infatti, in Lombardia sarebbe attiva una «confederazione mafiosa» totalmente nuova, che affonderebbe le proprie radici nel tentativo della riorganizzazione della locale di ’ndrangheta di Lonate Pozzolo (Varese), come dichiarato dal pentito Emanuele De Castro. Accanto alle ’ndrine ci sarebbero fedelissimi di Matteo Messina Denaro e presunti emissari del clan camorristico dei Senese che, pur nel rispetto dei legami con le cosche d'origine, avrebbero creato una «propria organizzazione», con «un proprio e autonomo programma», «proprie regole e ritorsioni per chi le viola» e che «agisce in modo indipendente rispetto alle singole componenti», capace anche di «contatti con esponenti del mondo politico, istituzionale, imprenditoriale, bancario». Ma di ciò, secondo il giudice Perna, non ci sarebbero indizi sufficienti: «Una volta affermata la natura innovativa, addirittura unica nel panorama storico e geografico della nazione, della consorteria in disamina - si legge nelle oltre 2mila pagine di ordinanza -, sarebbe stato onere dell'organo requirente quello di individuare e tipizzare un’autonoma associazione criminale, che mutui il metodo mafioso da stili comportamentali in uso a clan operanti in altre aree geografiche, ciò al fine di accertare che tale associazione si sia radicata in loco con le peculiari connotazioni descritte, acquisendo, in particolare, la forza d’intimidazione richiesta per l’integrazione degli estremi dell’associazione di tipo mafioso». Tale prova, invece, «è nel caso di specie del tutto assente». E sarebbe stato necessario uno «sforzo argomentativo e dimostrativo superiore a quello che emerge dal complesso degli atti di indagine analizzati».

Perna evidenzia come la tesi della federazione sia rimasta «una mera ipotesi investigativa, non sufficientemente suffragata dagli elementi di prova raccolti». Per un verso, infatti, «i sia pur esistenti elementi indiziari sono stati esponenzialmente elevati al rango di prove, per altro verso, non si è tenuto conto di tutti quelli contrari esistenti, sminuendone la portata, ciò al fine di sostenere un postulato che trova scarsa aderenza con il dato fattuale». La richiesta cautelare, dunque, «si dimostra piuttosto carente sotto molteplici punti di vista»: dalla «individuazione degli elementi a suffragio della dedotta capacità intimidatoria in senso estrinseco» alla «struttura del sodalizio», passando per la «prova della partecipazione al sodalizio e affectio societatis» per finire alla «valutazione degli elementi indiziari di segno contrario». Insomma, non basta la teoria: serve la pratica. E non si possono arrestare centinaia di persone se non ci sono sufficienti indizi.

Il quadro indiziario, infatti, non risulterebbe grave «con riguardo a due dei tre reati associativi contestati, in particolare, l’associazione di stampo di tipo consortile» e l’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti. Cosa che ha «innegabili ricadute sull’intero impianto accusatorio - continua il giudice -, essendo evidente che, una volta venuta meno la prova dell’esistenza dei due sodalizi predetti, ne consegue che le esigenze cautelari vanno valutate sulla scorta di quel che emerge dai singoli reati-fine di cui si è raggiunta la prova, senza potere desumere presuntivamente l’esistenza della pericolosità sociale dei singoli indagati dalla prova della permanenza del vincolo associativo». Affinché si possa parlare di associazione mafiosa, spiega Perna, «è indispensabile» la prova in positivo «della concreta estrinsecazione della capacità intimidatoria». Ma «non è stato individuato alcun atto di intimidazione posto in essere da parte degli odierni indagati nello svolgimento delle più svariate attività economiche ad essi riconducibili». Una circostanza che «desta ancor più stupore se si considera che, nell’ottica accusatoria, il sodalizio di tipo confederativo ipotizzato ha dovuto necessariamente occupare tutti gli spazi della vita politica ed economica della provincia milanese».

Nonostante questa ipotesi, «non si è registrata alcuna forma di violenza o minaccia» e «persino gli episodi estorsivi, così come la disponibilità di armi» oltre che «limitati nel numero e qualitativamente non “gravi”» sono rimasti «per lo più indimostrati». E non c’è nemmeno la prova di «elementi fattuali specifici da cui poter desumere che la collettività di riferimento ha comunque percepito l’esistenza di un gruppo criminale di stampo mafioso, venendo condizionata e soggiogata dalla sua forza di intimidazione latente, implicitamente desunta dal contesto e sopportata con atteggiamento omertoso». Insomma, nessuno si sarebbe accorto di niente. Da qui la conclusione: «Nel bilanciamento tra il pregiudizio (minimo) per la collettività e quello (massimo) per il soggetto attinto dalla misura, si è ritenuto di privilegiare il secondo». Insomma, c’è un giudice a Milano.

Mafia a Milano, politici tirati in ballo senza indizi e suggestioni. Ecco tutte le falle di un’indagine nata male. Non c'è omertà del popolo, perché il popolo non si è minimamente accorto della presenza di un triumvirato mafioso, perché in sostanza non c'è...Tiziana Maiolo su Il Dubbio il 27 ottobre 2023

Ha creato scompiglio il fatto che a Milano un giudice si sia permesso di non accogliere le richieste del pubblico ministero. Non ha ricevuto molti applausi, ma ha conquistato in gran parte la prima pagina della critica il gip Tommaso Perna il quale, concedendo “solo” 11 misure cautelari in carcere su 153 richieste, ha osato violare niente meno che il sacrario dell’Antimafia milanese, quella che fu il regno di Ilda Boccassini e oggi è diretto da Alessandria Dolci. Sconcerto, delusione, persino lo sberleffo di Marco Travaglio che accusa il giudice di aver “copiato” dagli studi giuridici di un avvocato. Ah, la parolaccia! Avvocati! Quelli con la toga sbagliata, che hanno il coraggio di rappresentare la difesa nel processo.

Se tutti coloro che sostengono la necessità di separare le carriere dei pm da quelle dei giudici aspettavano la prova concreta di quanto quella riforma sia urgente, ecco il piatto servito. La dialettica processuale tra le parti è considerata normale se tra i due magistrati colleghi c’è sintonia di pensiero, se quel che il pm chiede, il gip concede. Ma diventa anomalia, se non incidente, nella storia del processo in Italia, se accade il contrario.

Il giudice Perna, a quanto rivela l’informatissimo Luigi Ferrarella del Corriere, ha studiato per mesi le carte dell’inchiesta e l’ipotesi che a Milano e Varese, con le rispettive province, sia nato e operante un nuovo soggetto politico- mafioso, detto Consorzio, frutto dell’unione tra Cosa Nostra, ‘ ndrangheta e camorra. Una novità assoluta, descritta in migliaia di pagine, che hanno indotto, quando il fascicolo milanese ha lasciato il quarto piano del palazzo di giustizia dove ha sede la procura per salire al settimo dove lavorano i giudici delle indagini preliminari, il capo di questi ultimi, Augusto Barazzetta, a distaccare un giudice a occuparsi solo di questo.

Il sorteggio, sistema usuale tranne ai tempi di Mani Pulite quando con un “trucco” denunciato sul Dubbio dal giudice Guido Salvini i pm erano riusciti a concentrare ogni inchiesta nelle mani dell’ unico giudice Italo Ghitti, ha indicato il nome di Tommaso Perna. Il quale, dai primi di aprile, fino a questi giorni, ha studiato il caso. C’è una stranezza, nell’articolo di Ferrarella, uno storico cronista giudiziario che sulla precisione delle notizie non sbaglia un colpo, la citazione proprio del giudice Salvini. «Almeno da gennaio 2023 - scrive - ai piani alti dell’arma alti ufficiali accreditano pubblicamente l’approdo di un importante lavoro antimafia al gip Guido Salvini…». Non è chiaro se si intenda affermare che non solo i pubblici ministeri, ma addirittura organi di polizia giudiziaria, desiderano potersi scegliere il giudice più gradito. Il che in questo caso è veramente singolare, dal momento che proprio questo magistrato ha usato parole molto chiare su questo quotidiano in un intervento di due giorni fa.

Discutendo sul Dubbio del 25 ottobre sulla separazione della carriere, cui il magistrato come tutti gli altri suoi colleghi è contrario, il dottor Salvini ha però operato un distinguo, non solo proponendo di separare la logistica, cioè i palazzi, ma soprattutto creando due diversi Csm. Una frase che lo mette al riparo da qualunque tentazione, di pm o di carabinieri, di considerarlo “avvicinabile”, cioè gradito. «Concordo certamente - ha scritto - sulla necessità di distanziare i pm dai giudici per rendere effettiva l’indipendenza di questi ultimi da tutte le parti del processo e prevenire condizionamenti». Chi vuol prevenire condizionamenti in genere non è “avvicinabile” dunque. Posizione limpida. Quello che non ci è chiaro però è come un magistrato di esperienza, sempre lontano da correnti e pastette, uno che vuole addirittura cacciare i pm in un altro palazzo (ottima idea) per evitare condizionamenti anche con la condivisione del famoso caffè, ancora creda alla mitica “cultura della giurisdizione” del pubblico ministero. Ci dica, il giudice Salvini, se conosce qualche procuratore che abbia seriamente mai cercato le prove favorevoli all’indagato. Usciamo dall’ipocrisia, allora, e collochiamo il pm al posto suo, a quello in cui lo hanno messo gli ordinamenti di tutto il mondo occidentale, da quello anglosassone fino a quello dei Paesi dell’Europa democratica.

Del resto, qualunque cosa significhi quella frase sull’ “approdo a un importante lavoro antimafia”, difficilmente Guido Salvini avrebbe potuto scrivere qualcosa di diverso da Tommaso Perna. Il quale, lo spieghiamo a Marco Travaglio senza l’illusione di poterlo “rieducare”, se ha copiato, lo ha fatto semplicemente riproducendo quel che dice la norma sull’associazione mafiosa e sulla sua esistenza. Ma anche sul concetto di prova, che è cosa diversa dalle “suggestioni” di certe ipotesi investigative. Fondamentale perché un certo sodalizio possa essere considerato associazione mafiosa e ricadere nell’ipotesi dell’articolo 416- bis del codice penale, è che gli indagati nei loro comportamenti “si siano avvalsi della forza intimidatrice che promana dall’esistenza stessa dell’associazione”. E il secondo requisito è la conseguenza del primo, cioè “l’assoggettamento diffuso della popolazione a una condizione di omertà generalizzata”. Tutto questo, scrive il gip, nelle carte non c’è. Non perché non esistano ipotesi di qualche reato, per esempio l’estorsione, ma manca proprio la prova dell’esistenza del vincolo associativo fra le tre cupole storiche. C’è solo qualche relazione personale tra soggetti provenienti dalle tre Regioni storiche degli insediamenti di mafia ‘ ndrangheta e camorra. Ma è soprattutto assente del tutto, conclude il giudice, la consapevolezza e l’assoggettamento della popolazione lombarda. Non c’è omertà del popolo, perché il popolo non si è minimamente accorto di questa presenza. Perché in sostanza non c’è.

Come del resto non esiste la famosa “zona grigia” molto amata dal procuratore Gratteri, ma sempre esclusa da Giovanni Falcone. Pure la responsabile della Dda milanese Alessandra Dolci e la pm Alessandra Cerreti (già pm e gip in Calabria) riempiono pagine a pagine di nomi e cognomi di esponenti politici di Fratelli d’Italia neppure sfiorati dall’inchiesta. Che bisogno c’era? Nessuno. Pure Repubblica vi dedica un intero articolo addirittura a quattro firme. Così come era inutile, anzi vietato dalla legge, battezzare l’ennesima inchiesta fallimentare sulla mafia con il nome di “Operazione Hydra”. Il giudice ha sbattuto la porta in faccia a questi magistrati che “da tanti anni mangiano solo pane e antimafia”, e che non hanno neanche potuto fare la solita conferenza- stampa, lamenta il solito Travaglio. Credeva forse di essere nella vecchia Catanzaro a braccetto del procuratore Nicola Gratteri?

Tutti contro il Gip garantista che ha osato dire no agli arresti. Stampa e magistrati attaccano il giudice che ha negato la misura cautelare per 142 accusati di associazione mafiosa. Muta l’Anm, lo difende solo Roia. Simona Musco su Il Dubbio il 26 ottobre 2023

L’accusa è singolare: il giudice ha fatto copia e incolla. A dirlo sono stati i pm di Milano “bocciati” dal gip Tommaso Perna, che ha “osato” rigettare la richiesta di arresto avanzata dalla Dda per 140 persone. Normale dialettica processuale, verrebbe da dire. E invece no, perché Perna, giovane giudice in forza al Tribunale di Milano, è finito nel ciclone, accusato, addirittura, di spargere “veleni”.

La colpa di Perna, stando agli accurati resoconti della stampa che già poche ore dopo il blitz - scattato per “sole” 11 persone alle tre di notte - pubblicava numerosissimi dettagli dell’inchiesta, sarebbe stata quella di copiare dal blog di un avvocato, Salvatore Del Giudice, parti della sua corposa ordinanza di custodia cautelare. Ordinanza scritta analizzando 5mila pagine di richiesta, consegnate al giudice ad aprile, nelle quali il magistrato non ha trovato indizi sufficienti dell’esistenza di un “triumvirato” mafioso. In effetti, incollando le poche righe incriminate sul web è possibile arrivare al blog al quale Perna avrebbe attinto. Si tratta - questa la seconda critica - di un penalista «senza alcuna competenza sulla criminalità organizzata».

Ma sarebbe bastato andare in fondo alla pagina per scoprire un piccolo dettaglio: l’autore di quello scritto non è Del Giudice (che infatti non firma nulla), bensì - la fonte è citata - «Tribunale Bari sez. uff. indagini prel., 22/05/2019, (ud. 22/05/2019, dep. 22/05/2019)». Insomma, la colpa di Perna è aver cercato riferimenti in altre pronunce giudiziarie (su un blog dove vengono pubblicate sentenze) per argomentare la sua decisione, che, evidentemente, avrebbe dovuto avere i caratteri dell’originalità, come se si trattasse di un’opera letteraria. Un’accusa incredibile, se si considera che, normalmente, il copia e incolla è proprio la tecnica più elogiata, quando si concretizza con la fedele adesione del gip alla richiesta cautelare.

Non solo. Il tono di Perna sarebbe stato ironico, ironia che trapelerebbe, secondo i critici, dall’aver definito l’ipotesi di un “sistema lombardo” una «assoluta novità nel panorama geografico italiano, ma invero anche mondiale e storico». Che poi era proprio la tesi che avrebbe voluto dimostrare la procura, a quanto pare, stando al giudice, senza portare sufficienti prove. Perna - questa l’idea - avrebbe agito in una sorta di guerra con la procura che in realtà, fanno sapere fonti interne ben informate, è molto blanda rispetto a quella tutta interna alla Dda di Milano, dove l’inchiesta avrebbe provocato più di un mugugno, per usare un eufemismo. Forse complice anche - ma non solo - la richiesta avanzata mesi fa dal capo della Dna Giovanni Melillo di attivare un raccordo con le altre procure. C’è poi un altro dato: sui giornali sono finiti ampi stralci della richiesta di misura cautelare, tecnicamente non pubblicabili - in quanto segreti -, che hanno consentito di scandagliare i rapporti tra gli indagati e i partiti politici. Una violazione che, probabilmente, non verrà valutata dal alcun giudice per le indagini preliminari.

L’eccessiva «attenzione mediatica» riservata a Perna ha spinto il presidente del Tribunale di Milano, Fabio Roia, ad intervenire per difendere il collega. «Il controllo del gip - ha scritto in una nota - lungi dal dover essere classificato come una patologia evidenzia il fondamentale principio dell’autonomia della valutazione giurisdizionale in un sistema organizzativo e tabellare che impone il rispetto del principio del giudice naturale e che, quindi, è indicato secondo criteri oggettivo e predeterminati e non è scelto secondo criteri preferenziali. Un controllo che, in altro provvedimento richiamato come connesso a quello in esame, ha già trovato una iniziale conferma in sede di giudizio di merito con l’assoluzione in esito a giudizio abbreviato o il proscioglimento al termine dell’udienza preliminare degli imputati da analogo associativo (416 bis c.p.). Su queste coordinate di intervento e di rispetto della distinzione dei ruoli, la sezione gip-gup del tribunale di Milano ha inteso operare anche in questa vicenda che ha registrato l’assoluto rispetto delle regole codicistiche e di organizzazione del lavoro giudiziario».

Il riferimento di Roia è ad alcune inesattezze riportate dalla stampa, che hanno utilizzato il precedente dell’indagine “Medoro” del Ros: il gip Lidia Castellucci aveva smontato l’accusa di associazione, ma poi - scriveva ieri Repubblica - l’inchiesta sarebbe «approdata a condanne robuste in assise». Un falso storico, dal momento che stando alla sentenza del giudice dell’udienza preliminare Guido Salvini (dunque non della Corte d’Assise) l’esistenza di una locale di ‘ndrangheta non sarebbe sufficientemente dimostrata, mentre le posizioni dei generi del boss Mancuso sono state stralciate e inviate a Catanzaro. L’unica cosa riconosciuta, per due estorsioni, è stata l’aggravante del metodo mafioso. Che è una cosa ben diversa.

La polemica sembra destinata a proseguire e moltissimo peserà la decisione del Riesame, al quale l’accusa ha già fatto ricorso. Il tutto mentre l’Anm, intanto, rimane muta.

Un buco nell'acqua. L’inchiesta sulla supermafia è un flop, ecco perché. Il Gip stronca l’indagine della Procura di Milano sul patto tra cosche: firmati solo 11 dei 153 arresti chiesti. Frank Cimini su L'Unità il 26 Ottobre 2023

Nella storia del contrasto alle mafie probabilmente si tratta del flop più clamoroso di chi indaga. La procura di Milano aveva chiesto 153 arresti in carcere ipotizzando una collaborazione tra Cosa Nostra, Camorra e ‘Ndrangheta nel capoluogo lombardo. Il giudice delle indagini preliminari ne ha firmato solo 11 spiegando che il reato associativo non c’è e inoltre mancano le prove sulle responsabilità di un cugino di Matteo Messina Denaro, le cui generalità evidentemente dovevano servire per fare titolo sui giornali e sui tg.

L’ipotesi della procura era anche scenografica, spettacolare. I nomi di tre diverse organizzazioni nel corso di riunioni al vertice tra il marzo 2020 e il gennaio dell’anno successivo avrebbero creato un’alleanza in cui le singole componenti davano vita a un’unica associazione all’interno della quale tutto apportavano capitali, mezzi mobili e immobili risorse anche umane, reti di relazione. L’organismo sempre secondo l’accusa avrebbe trovato nell’imprenditore Gioacchino Amico, arrestato, il suo fulcro nell’area milanese, nei pressi di Busto Arsizio e a Magenta.

Era stato ipotizzato un gruppo che, nel rispetto dei rapporti con le cosche di origine avrebbe avuto una propria organizzazione, un proprio autonomo programma, di regole e ritorsioni per chi le violava. Ovviamente la procura nella richiesta di arresto scriveva di contatti con esponenti del mondo politico, istituzionale, imprenditoriale, bancario per ottenere favori, notizie riservate, erogazione di finanziamenti, il tutto per rafforzare la tentacolare organizzazione a tre teste.

Filippo Crea, presunto aderente alla ‘Ndrangheta, in una delle tante intercettazioni che dilagano in una ordinanza di 2050 pagine vantava “un bel pacchetto di voti perché posso portare deputati e senatori”. Gli indagati si muovevano in diversi settori dalla sanità alla gestione dei parcheggi. La montagna però ha partorito il topolino perché alla fine ci sono stati solo 11 arresti con le accuse a vario titolo di porto d’armi, due estorsioni aggravate dal metodo mafioso, minaccia aggravata, traffico di droga, evasione fiscale.

Il gip Tommaso Perna spiega che una volta affermata la natura innovativa “addirittura unica nel panorama storico e geografico della nazione, sarebbe stato onere dell’organo requirente quello di individuare e tipizzare una autonoma associazione criminale che mutui il metodo mafioso da stili comportamentali usati da clan operanti in altre aree geografiche”. La procura avrebbe dovuto accertare che l’associazione fosse radicata sul territorio e avesse acquisito in particolare la forza di intimidazione richiesta per integrare il reato di associazione mafiosa. Insomma invece di chiedere gli arresti i pm avrebbero dovuto continuare a indagare. Non l’hanno fatto. Un buco nell’acqua si. Frank Cimini 26 Ottobre 2023

Toghe contro toghe. I veleni del palazzo di Giustizia di Milano. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 26 Ottobre 2023

Scontro in tribunale sull' Inchiesta delle mafie in Lombardia, . La procura contro il gip che ha smontato le indagini: “Dà pareri con il copia-incolla” da Internet

La frattura nel Tribunale di Milano fra i vertici della Procura e dell’ufficio Gip è ormai sin troppo evidente , e l’atmosfera nei corridoi di via Freguglia è più glaciale del solito. Mai quanto le parole utilizzate nei rispettivi provvedimenti. Due posizioni sul fenomeno mafioso in Lombardia, molto diverse fra quelle utilizzate dei magistrati della Dda e quelle diametralmente opposte da un giudice delle indagini preliminari.

Le affermazioni a dir poco taglienti utilizzate del Gip Tommaso Perna del Tribunale di Milano sull’inesistenza del “sistema lombardo mafioso”, il concetto poco elegante utilizzato per sostenere la “assoluta novità nel panorama geografico italiano, ma invero anche mondiale e storico”, per un teorema che a suo opinione “ha avvolto qualsiasi attività, lecita o illecita che fosse, svolta dagli odierni indagati, in un mantello di cd. mafiosità che è arduo scorgere nelle sue pieghe, se non in via intuitiva“, non possono finire negli archivi della dialettica giudiziaria.

Il Gip Tommaso Perna del Tribunale di Milano

Afronte di una presa di posizione più che discutibile del Gip, è arrivata la replica del sostituto  Alessandra Cerreti, titolare del fascicolo, che ha depositato al Riesame un ricorso avverso all’ordinanza del Gip Perna, all’interno del quale viene contestato ed evidenziato senza tanti giri di parole il metodo “copia e incolla” utilizzato nel passaggio chiave dell’ordinanza cautelare. Si tratta del capitolo 4 della decisione del Gip, dal titolo “Conclusioni sull’associazione mafiosa”, all’interno del quale il giudice Perna esplicita il perimetro, a suo parere, entro il quale poter utilizzare quell’etichetta, sostenendo che “L’associazione mafiosa, come l’associazione semplice delineata nell’art. 416 c.p., integra, dal punto vista strutturale, un reato di pericolo, giacché la sola sua esistenza compromette il bene giuridico tutelato dalla norma (l’ordine e la sicurezza pubblica, nonché la libertà individuale)“.

Ma la pm Cerreti contesta e sostiene nel suo ricorso al Tribunale del Riesame che questo concetto sia stato ripreso, persino nelle virgole e nelle parentesi, da un articolo pubblicato online sul blog dell’avvocato Salvatore Del Giudice, un penalista napoletano che leggendo il suo curriculum non ha alcune esperienza e competenza alcuna competenza sulla criminalità organizzata e sui reati associatici come si evince peraltro dal curriculum presente sul proprio blog . Ma non solo. Nel ricorso della pm Alessandra Cerreti, viene evidenziata un’apposita tabella che comprende altri tredici stralci e capoversi copiati ed incollati nell’ordinanza del Gip Perna. Che riguardano, per esempio, la “concreta estrinsecazione della capacità intimidatoria; per integrare il delitto di associazione mafiosa è necessaria, oltre alla sussistenza del vincolo associativo, un’attività esterna obiettivamente riscontrabile e concretamente percepibile”.

La Procura di Milano contesta anche l’attribuzione ad una sua intuizione originale dell’esistenza del “consorzio”. “È anomalo che tutti gli altri clan, cosche e ’ndrine – sostiene e scrive nell’ordinanza il Gip Perna – si siano limitati ad osservare passivamente la nascita ed espansione di un soggetto così vasto“. ed aggiunge “non risultano infatti, contatti, contrasti, rivendicazioni, malumori» a proposito di “un’associazione dai tratti così innovativi”, l’Hydra che dà il nome all’indagine della Dda “che le associazioni madre hanno accettato di veder nascere“. Mentre la Dda di Milano invece sostiene che la “santa alleanza” delle cosche di ‘ndrangheta operanti nel territorio milanese non è certo una novità.

I sostituti procuratori di Milano applicati alla Dda lo avevano scritto un mese fa al Gip Perna, in una integrazione alla richiesta ignorata, che elencava i “pentiti” che avevano già indicato a verbale ai pm calabresi i teoremi del sistema mafioso. Il pentito reggino Nino Fiume, aveva sostenuto in un verbale del 26 gennaio 2015 che “… tale struttura di vertice, che aveva sede a Milano ed era stata costituita nel 1986-87” confermandolo poi nell’aula del processo Rinascita-Scott. Affermazioni queste allineate e confermate dalle amaloghe dichiarazioni degli altri pentiti di ’ndrangheta Nino Cuzzola e Vittorio Schettini. Un associazione che il pentito pugliese Salvatore Annacondia, uno dei “boss” dell’ ex Sacra Corona Unita definiva essere “la mamma di tutti i gruppi. Una realtà che andava oltre la ’ndrangheta e ricomprendeva ‘ndrangheta, pugliesi, siciliani, campani. Milano e la Lombardia erano la terra di elezione di questo Consorzio“.

Resta da chiedersi a questo punto se anche il Riesame ambrosiano per dirimere la questione, cercherà conforto nel blog dell’ avvocato Salvatore Del Giudice. Ma anche se certa giustizia vuole combattere le mafie o lasciarle proliferare anche nel tessuto economico-finanziario-imprenditoriale lombardo. E se lo chiedono anche i vertici delle forze dell’ordine che indagano quotidianamente. Redazione CdG 1947

Repubblica a lutto, smontata la superinchiesta sulla mafia. “Repubblica” accoglie con sgomento la decisione del giudice Perna, “colpevole” di aver smontato la superinchiesta milanese sulla mafia. Frank Cimini su L'Unità il 27 Ottobre 2023

In un paese in cui praticamente da sempre molti provvedimenti dei gip sono o appaiono dei copia-incolla con le richieste dei pm adesso nel palazzo che fu teatro di Mani pulite fa scandalo che nella motivazione con cui il gip Tommaso Pena ha rigettato 140 richieste di carcere per associazione mafiosa vi sia uno stralcio di uno scritto proveniente da un blog personale dell’avvocato Salvatore Del Giudice. Si tratta di un parere del legale espresso in una sede del tutto estranea all’inchiesta ma che provoca l’indignazione veramente degna di una miglior causa del pm che inserisce la circostanza tra i motivi del ricorso al Tribunale del Riesame.

La questione veniva sottolineata con forza da un pezzo apposito dal quotidiano Repubblica che per questa vicenda di arresti respinti appare praticamente a lutto. Sulla vicenda interviene il presidente del Tribunale di Milano Fabio Roia per ribadire che il controllo del gip sui pm non è patologia ma fisiologia. “Il gip Tommaso Perna – scrive Roia – ha ricevuto numerose critiche e attenzione mediatica nelle ultime ore da vari organi di stampa con accuse di aver interamente copiato alcuni passaggi chiave da avvocati”.

Roia aggiunge che c’è stato un assoluto rispetto delle regole codicistiche e di organizzazione del lavoro giudiziario. In pratica risponde a una frattura e differenza di visioni tra alcuni ufficiali dei carabinieri che hanno condotto l’indagine i quali ritenevano ci fosse un altro gip pronto a confermare l’impianto accusatorio.

Il presidente del Tribunale precisa di parlare a prescindere dal merito della vicenda che sarà oggetto di ulteriori valutazioni nei gradi successivi di giudizio. La procura della Repubblica in un comunicato dà atto al gip di aver riconosciuto il suo lavoro decidendo 11 arresti e il sequestro preventivo di società e beni riconducibili agli indagati per 225 milioni di euro. “Non ha ritenuto di condividere l’impianto accusatorio in relazione all’esistenza di un’unica struttura associativa. La direzione distrettuale antimafia ha già proposto appello al Riesame” conclude il procuratore Marcello Viola.

Il Tribunale del Riesame farà la sua valutazione. Comunque va ricordato che il giudice delle indagini preliminari Tommaso Perna ha esaminato per alcuni mesi le carte a partire dal giorno delle richieste di arresto poi integrate con altra documentazione allegata. I giudici del Riesame dovranno decidere in pochi giorni valutando la posizione di 140 persone. Insomma, almeno al momento, appare più probabile una conferma della decisione del gip che un ribaltamento. DI Frank Cimini 27 Ottobre 2023

Il Veneto.

Cosa Veneta. Report Rai PUNTATA DEL 05/11/2023

di Walter Molino e Andrea Tornago

Dalla Laguna di Venezia alla campagna veronese, un viaggio nel Veneto finito in mano alle mafie.

Dalle tranquille e produttive province di Padova e Treviso al distretto vicentino della chimica, le organizzazioni mafiose si stanno prendendo il Veneto. Le inchieste antimafia degli ultimi anni hanno portato alla luce un territorio in cui si è radicata la criminalità organizzata: nel ricco Nordest Cosa Nostra, 'Ndrangheta, Casalesi si mescolano, concludono affari, si infiltrano negli appalti, si interessano di voti e di amministrazione pubblica, intrattengono rapporti privilegiati con forze dell’ordine, imprenditoria e massoneria.

11 novembre 2023: la lettera dell'avvocato Bruno Barel alla redazione di Report e la nostra nota

Oggetto: Re: Richiesta di immediata rettifica e immediata sospensione di diffusione in ogni forma di notizie false e diffamatorie, in base alla legge sulla stampa Il giorno 5 novembre 2023 Report ha presentato un servizio su come le mafie si stiano infiltrando nel Veneto. La tesi sostenuta è tanto semplice, suggestiva e di impatto quanto gratuitamente diffamatoria: - L’ avvocato del governatore Luca Zaia, il suo uomo di fiducia, quello dei casi più delicati, è l’uomo che promuove le imprese della Ndrangheta in Veneto. Si mettono insieme una serie di fatti veri: - Sono stato il presidente di Numeria di cui sono tuttora socio e di cui sono stato fondatore; - Numeria ha dato degli appalti a un’ impresa della provincia di Padova destinataria di un’ interdittiva antimafia; -Numeria ha addirittura raccomandato Sidem all’ impresa Setten che così l’ha utilizzata quale appaltatrice nei lavori di costruzione del nuovo ospedale pediatrico di Padova. La manipolazione usata per fare apparire vero quel che vero non è avviene attraverso le seguenti manipolazioni ed omissioni: - non si dice che l’ ultimo appalto dato da Numeria a Sidem risale a più di un anno prima dell’ interdittiva antimafia; - a quell’ epoca Sidem era un’ impresa, con sede in Veneto, che lavorava da trent’ anni alla luce del sole per committenti pubblici e privati e con una ottima reputazione per la qualità dei lavori eseguiti; - quando Numeria - più precisamente: un tecnico di cantiere si Numeria - dà buone referenze alla Setten non dice altro che la verità e nessuno sapeva che potevano esserci legami tra la Sidem ed organizzazioni criminali. Quindi questa apparente notizia non lo è affatto: la Sidem dopo avere lavorato per Numeria ha continuato a lavorare per decine di altri committenti e nessuno di questi committenti viene menzionato tranne Setten che viene fatto passare per una vittima di Numeria. Quindi si passa alla manipolazione sulla persona: il responsabile unico è Bruno Barel, l’uomo di fiducia di Luca Zaia. In realtà: - Bruno Barel non ha mai partecipato a nessuna deliberazione per affidare appalti alla Sidem e non ha mia avuto il benché minimo rapporto con personale, soci o amministratori della Sidem. Numeria ha un amministratore delegato che ha affidato - nella sua facoltà individuale per delega - i lavori in questione a Sidem nel 2021 rispettando perfettamente tutta la disciplina in materia. Di un tanto l’ amministratore delegato di Numeria si era assunto la piena responsabilità in un incontro di quasi due ore con i giornalisti di Report: nel servizio l’amministratore delegato di Numeria non viene neppure menzionato. - Men che meno Bruno Barel ha raccomandato la Sidem a chicchessia. Neppure lo ha fatto l’amministratore delegato di Numeria. Pare che un tecnico della Setten abbia chiesto a un tecnico di Numeria se Sidem avesse lavorato bene per Numeria e la risposta era stata la pura verità: aveva lavorato bene. Quindi fino a qui: un’ impresa con cui da trent’ anni lavoravano tutti lavora anche con Numeria, e un tecnico di cantiere ne dà buone referenze quando gli vengono richieste. Una non notizia. La notizia sarebbe stata tale se l’ interdittiva antimafia fosse arrivata prima degli appalti di Numeria ma invece - ripetesi- è arrivata oltre un anno dopo l’ultimo appalto. Che interesse c’ è poi a parlare di Numeria? Decine di altri soggetti hanno dato appalti alla Sidem dopo Numeria ma nessuno viene menzionato da Report se non Setten, “ vittima” di Numeria. Numeria ovviamente non interessa a nessuno al pari di tutti gli altri soggetti che hanno dato appalti a Sidem in questi anni ma il suo presidente sí. Di per sè anche Bruno Barel, che non riveste nessun ruolo pubblico, non dovrebbe interessare più di qualsiasi altro socio o amministratore di società o enti che abbiano dato appalti alla Sidem. Sennonché e l’uomo dei casi delicati per Luca Zaia. A questo punto il dottor Ranucci non resiste e aggiunge un particolare che dovrebbe dimostrare che non stiamo parlando di congetture ma di fatti, la prova delle prove: la confessione! E sventola un documento, un atto di notaio! La forma pubblica dà sostanza alle congetture, quasi una confessione .. notarile! Aggiunge quindi che Bruno Barel - saputo dell’ interdittiva antimafia - corre a vendere le sue quote di Numeria. Senonche’ si tratta di una clamorosa bugia: Bruno Barel non ha mai venduto nessuna azione di Numeria. Avesse letto quell’ atto, Ranucci avrebbe anche saputo che si trattava di una cessione di ramo d’azienda in esecuzione di delibere assunte mesi prima; e comunque quel che Ranucci ha detto è falso. Quindi Vi diffido dal ripubblicare il servizio in qualsiasi forma, anche sui social, in quanto: - è’ stato falsamente rappresentato, esibendo un atto notarile, che Bruno Barel avrebbe venduto azioni di Numeria - perché indotto dall’ interdittiva antimafia alla Sidem - quando invece non ha mai venduto quelle azioni; - è stato strumentalmente rappresentato un rapporto tra il presidente Zaia e Bruno Barel che non esiste in realtà come può essere facilmente verificato confrontando il numero di incarichi che la Regione Veneto ha affidato a Bruno Barel e quelli che ha affidato ad altri avvocati del libero foro; - è stata rappresentata una partecipazione di Bruno Barel nei rapporti tra Numeria e Sidem quando, in realtà, Bruno Barel non vi ha avuto il benché minimo coinvolgimento; - è stata rappresentata un’ attività di Numeria agevolativa dell’ attività di un’ impresa in odore di mafia quando nulla di tutto ciò è accaduto per le ragioni sopraesposte. La presente ai sensi della legge sulla stampa per evitare il protrarsi di una palese diffamazione con gravissimo ingiusto danno reputazionale. Avv Bruno Barel

COSA VENETA di Walter Molino e Andrea Tornago Immagini di Davide Fonda, Cristiano Forti, Marco Ronca e Andrea Lilli Ricerca immagini di Paola Gottardi e Alessia Pelagaggi Montaggio di Andrea Masella, Giorgio Vallati e Sonia Zarfati

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO Luca Zaia, nato a Conegliano (...)

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Persino il presidente Zaia è chiamato a testimoniare al processo Eraclea, l’inchiesta che prende nome dalla cittadina del litorale di Venezia. Secondo la Procura antimafia fin dagli anni ‘90 qui si è radicata una costola del clan dei Casalesi. Nel 2019 vengono arrestati politici, imprenditori, professionisti ed esponenti delle forze dell’ordine. L’attenzione cade su Luciano Donadio. L’imprenditore edile originario di Casal di Principe è il presunto boss dei Casalesi di Eraclea. Questo centro scommesse nella piazza principale del paese era il suo quartier generale. Controllava persino i parcheggi pubblici.

SIMONETTA MARCOLONGO - SEGRETARIA PD ERACLEA (VE) Davanti là nessuno poteva parcheggiare. Il parcheggio era suo. Con il beneplacito dei vigili. Dopodiché succede quel fatto della vigilessa: ordina al nipote di Donadio di spostare la macchina. Lui non lo fa e lei gli dà una multa. Il giorno dopo la macchina della vigilessa viene distrutta. E i suoi colleghi le dicono così impari, ti sta bene. È lo stesso clima di Casal di Principe.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Secondo l’antimafia Donadio era in grado di condizionare la vita politica e amministrativa del ricco litorale veneziano. La notizia arriva anche all’estero e la sindaca è preoccupata per l’immagine della sua città.

NADIA ZANCHIN - SINDACA DI ERACLEA (VE) Avere un’associazione mafiosa mi rovina un territorio. Io ieri mi son fatta una ricerchina, niente, così...ho messo il nome Comune di Eraclea, Nadia Zanchin eccetera. Mi venivano fuori anche i siti tedeschi. Vuol dire che mi rovina l’immagine su Eraclea per i turisti tedeschi.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Dopo tre anni di carcere preventivo, Luciano Donadio è tornato a casa nel febbraio scorso, accolto dai fuochi di artificio.

WALTER MOLINO Ma lei cosa ha pensato quando Donadio è tornato a casa e hanno fatto i fuochi d’artificio?

NADIA ZANCHIN - SINDACA DI ERACLEA (VE) È stata notificata ieri mattina anche una sanzione…

WALTER MOLINO Cinquanta euro.

NADIA ZANCHIN - SINDACA DI ERACLEA (VE) Quello prevede il regolamento.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO I botti per festeggiare li ha fatti Marco Lo Faro, un imprenditore siciliano trapiantato da anni ad Eraclea e in affari con Donadio.

WALTER MOLINO Come le è venuto in mente di fare i fuochi d’artificio per il ritorno di Donadio?

MARCO LO FARO - IMPRENDITORE Lei è del Sud?

WALTER MOLINO Sì.

MARCO LO FARO - IMPRENDITORE Sa bene che al Sud è una cosa giornaliera questa.

WALTER MOLINO Dei fuochi d’artificio o dei fuochi d’artificio quando qualcuno esce dal carcere?

MARCO LO FARO - IMPRENDITORE No, i fuochi d’artificio. Non c’entra perché uno esce dal carcere...Può essere una gioia per qualcuno festeggiare il compleanno del bambino o qualcuno che magari…

WALTER MOLINO Vive un giorno di festa perché sta tornando a casa.

MARCO LO FARO - IMPRENDITORE Esattamente, niente di più, niente di meno.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Chi vuole incontrare Donadio e i suoi amici, a Eraclea sa dove trovarlo.

LUCIANO DONADIO Beviamo solo un caffè ma non si parla di niente.

WALTER MOLINO In silenzio? Vabbè parliamo…

LUCIANO DONADIO In silenzio totale.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Con lui ci sono suo figlio Adriano e l’inseparabile Raffaele Buonanno, tutti condannati in primo grado.

RAFFAELE BUONANNO Sono stato sfortunato perché Casal di Principe è molto popolare.

WALTER MOLINO È molto popolare Casal di Principe, è vero.

RAFFAELE BUONANNO Però a Casal di Principe ci sono avvocati, giudici, ci sono dottori, ci sono tutte persone perbene. Non è che tutte le persone sono brave in Veneto.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO In questo bar, dopo una violenta rissa, un gruppo di skinheads ha dovuto piegare la testa davanti agli uomini di Donadio.

WALTER MOLINO Ma questa storia della rissa che c’è stata qua com’è andata?

LUCIANO DONADIO Non mi deve fare queste domande qua. Se ci tiene…a farmi stare tranquillo.

WALTER MOLINO Gli skinheads sono venuti a calare la testa davanti al boss di Eraclea.

LUCIANO DONADIO E chi è il boss di Eraclea?

WALTER MOLINO Non sia modesto.

LUCIANO DONADIO Buona giornata!

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Sul gruppo di Donadio le indagini sono durate vent’anni: estorsioni, usura, minacce, voto di scambio. Nell’aprile di quest’anno la Corte Suprema di Cassazione conferma l’esistenza di un’associazione mafiosa ad Eraclea. Tra gli imputati che hanno scelto il rito abbreviato l’ex sindaco Graziano Teso, condannato a 2 anni e 2 mesi per concorso esterno.

WALTER MOLINO Me lo spiega come è entrato in contatto lei con Donadio?

EMANUELE ZAMUNER - IMPRENDITORE Donadio è un imprenditore di Eraclea. Ad Eraclea siamo 14 mila abitanti. Conosci tutti quanti!

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Emanuele Zamuner è un carrozziere di San Donà con il pallino della politica e a Donadio aveva chiesto voti per la campagna elettorale del 2016.

EMANUELE ZAMUNER - IMPRENDITORE Ho chiesto voti a cani e porci. Ho chiesto voti anche a lui.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Paolo Valeri si è messo in affari con Donadio per realizzare un impianto di biogas ad Eraclea. Ma prima aveva bisogno di recuperare un credito.

PAOLO VALERI - IMPRENDITORE Lui mi dice che voleva andare a trovare sto qua… gli spacco le corna, gli brucio la casa… discorsi da napoletano.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Questo è il tono con cui Donadio si rivolge al suo interlocutore per discutere il recupero del denaro da investire nel biogas.

LUCIANO DONADIO – INTERCETTAZIONE AMBIENTALE Ti squarto come un porco, cornuto! Hai capito che ti squarto come un porco? Sto figlio di puttana… “Ma io non voglio…” E allora statti zitto!

PAOLO VALERI - IMPRENDITORE C’è la volontà di piantare la bandierina in Veneto. E adesso salta fuori sta moda che deve esserci la mafia anche in Veneto. Hanno ragione i miei paesani: el leon magna el terun.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il capo dell’anticrimine Alessandro Giuliano ha diretto la squadra mobile di Venezia negli anni 2000, e il gruppo di Donadio se lo ricorda bene.

ALESSANDRO GIULIANO - DIRIGENTE SQUADRA MOBILE DI VENEZIA 2004-2009 Noi sulla base di questi elementi ritenevamo esistente ad Eraclea un’organizzazione criminale facente capo a Donadio, ritenemmo di ravvisare una torsione della funzione amministrativa a favore di Donadio.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il 5 giugno però, accade l’incredibile: quella che per i giudici del rito abbreviato è mafia fino in Cassazione, per i giudici del rito ordinario è solo un’associazione a delinquere.

VITTORIO ZAPPALORTO - PREFETTO DI VENEZIA 2018-2023 Il consiglio comunale io ho chiesto lo scioglimento perché è stato eletto con i voti della camorra. Punto.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Vittorio Zappalorto è il prefetto che nel dicembre 2019 ha chiesto lo scioglimento del consiglio comunale di Eraclea per le infiltrazioni mafiose. In Veneto sarebbe stata la prima volta.

NICOLA PELLICANI – COMPONENTE COMMISSIONE ANTIMAFIA 2018- 2022 Il Prefetto dopo aver fatto la relazione l’ha presentata al Comitato per l’ordine pubblico, dove oltre a lui c’erano il Procuratore Capo Cherchi e tutti i rappresentanti delle forze dell’ordine. E all’unanimità hanno detto: sì, questa relazione va bene, ci vuole lo scioglimento.

WALTER MOLINO Le risulta anche nel suo ruolo di commissario della commissione antimafia che possano esserci state delle pressioni politiche per una soluzione di questo tipo?

NICOLA PELLICANI – COMPONENTE COMMISSIONE ANTIMAFIA 2018- 2022 Suppongo che ci siano anche state, forse, delle pressioni, delle pressioni politiche. La relazione viene inviata al Ministero dell’Interno che dopo alcuni mesi risponde rigettando la richiesta. Ed è uno degli unici casi in Italia di rigetto di richiesta da parte del prefetto di scioglimento del comune per infiltrazioni mafiose.

WALTER MOLINO La Ministra Lamorgese era stata Prefetto di Venezia.

NICOLA PELLICANI – COMPONENTE COMMISSIONE ANTIMAFIA 2018- 2022 E poi è stata due volte mi pare Ministro dell’Interno, no?

WALTER MOLINO Prefetto perché da Ministro dell’Interno ha deciso di non sciogliere il comune di Eraclea nonostante la Commissione prefettizia? Vuole rispondere a questa domanda?

LUCIANA LAMORGESE - MINISTRA DELL’INTERNO 2019-2022 Dovete leggervi quelle che sono recenti sentenze del Consiglio di Stato. Per cui ci sono due elementi che devono essere sempre visti insieme, quello oggettivo e quello soggettivo.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO L’ex prefetto Zappalorto voleva sciogliere il Comune per mafia ed era il testimone più atteso al processo. Ma all’ultimo momento la sua audizione viene cancellata.

VITTORIO ZAPPALORTO - PREFETTO DI VENEZIA 2018-2023 Sono l’unico prefetto che potrebbe dire qualche cosa, fra tutti quelli che sono stati sentiti.

WALTER MOLINO Lei aveva chiesto lo scioglimento.

VITTORIO ZAPPALORTO - PREFETTO DI VENEZIA 2018-2023 Io avevo chiesto lo scioglimento e stamattina speravo di poter spiegare perché.

WALTER MOLINO Lei che idea si è fatto sui motivi per cui è stato negato?

VITTORIO ZAPPALORTO - PREFETTO DI VENEZIA 2018-2023 Ah guardi, ho chiesto più volte di…che mi rendessero conto ma mi ha mai detto il perché.

WALTER MOLINO O se si è dato delle risposte sono risposte forse indicibili.

VITTORIO ZAPPALORTO - PREFETTO DI VENEZIA 2018-2023 Sono risposte cui preferisco non credere io stesso.

 WALTER MOLINO FUORI CAMPO Alla fine dell’udienza Luciano Donadio è l’ultimo ad uscire dall’aula bunker.

WALTER MOLINO Ma è vero che lei era così potente ad Eraclea addirittura da piegare l’amministrazione comunale ai suoi voleri?

LUCIANO DONADIO Ha ascoltato anche lei il processo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, quando Donadio è tornato a casa è stato accolto con i fuochi d’artificio. Ora può tranquillamente passeggiare nella piazza della città con 26 anni di carcere sulle spalle, condannato in primo grado per associazione per delinquere, senza l’aggravante mafiosa. Può essere felice la sindaca di Eraclea che può dire ai turisti tedeschi che la mafia non c’è. Però quello di Eraclea merita un ragionamento più alto. C’è stato un corto circuito: due sentenze contraddittorie. Mentre da una parte la Suprema Corte, la Cassazione ha riconosciuto l’aggravante mafiosa nel caso del sindaco Graziano Teso, che scegliendo il rito abbreviato è stato condannato per concorso esterno alla mafia, dall’altra parte, per tutti gli altri imputati che hanno scelto il rito ordinario, c’è stata la condanna per associazione per delinquere, senza il riconoscimento della mafia. Eppure, c’è una sentenza del Consiglio di Stato del 2019 che dice sostanzialmente: “basta il sospetto che un solo voto sia stato condizionato dalla criminalità organizzata e si può chiedere lo scioglimento del Comune per mafia”. È quello che aveva fatto l’ex prefetto Zappalorto e aveva anche tutti d’accordo, aveva la Direzione Distrettuale Antimafia, il procuratore Cherchi, le forze dell’ordine, il comitato per la sicurezza. Tuttavia quando la relazione di 8mila pagine è arrivata sul tavolo di Lamorgese, allora ministra dell’Interno, è stata rispedita al mittente. La Lamorgese ha detto: “Le risultanze dell'accesso non hanno fatto emergere alcuna circostanza che possa attestare quello sviamento dell'azione amministrativa registrato dell'ente oggetto della richiamata sentenza del Consiglio di Stato”. Ecco, secondo l’ex membro della Commissione antimafia, Nicola Pellicani, ci sarebbero state pressioni politiche probabilmente per evitare che Eraclea fosse il primo Comune nella storia del Veneto a essere sciolto per mafia. In realtà avrebbe potuto essere il secondo. Perché già nel 2015 la presidente della Commissione antimafia, Rosy Bindi, aveva chiesto una commissione di accesso agli atti al Comune di Verona. Questo anche in seguito ad un’inchiesta di Report, che ben 10 anni fa aveva illuminato una zona d’ombra: la presenza della ‘ndrangheta a Verona e soprattutto contatti con uomini politici della giunta Tosi. Ecco, tutti avevano negato e si erano indignati. Dopo 10 anni i nodi son venuti tutti al pettine. Tutto ruotava già allora intorno alla famiglia calabrese Giardino. E oggi si è aggiunto anche un tassello: quello di uno spione, che è il primo pentito di ‘ndrangheta che sta facendo tremare il Veneto.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Isola Capo Rizzuto in Calabria: un promontorio affacciato sullo Ionio, l’area marina protetta più grande d’Europa. Il regno delle famiglie Arena e Nicoscia, tra le più 7 potenti cosche della ‘ndrangheta, legate da un patto di sangue nel nome degli affari. Da qui arriva anche la famiglia Giardino. ANZIANO È una persona normale come noi.. non è che sono tanti… Poi sapete com’è l’andazzo che rovina le persone.

WALTER MOLINO L’andazzo o la ‘ndrangheta?

ANZIANO L’andazzo! Io parlo di andazzo.

WALTER MOLINO E la ‘ndrangheta?

ANZIANO Non posso dire ‘ndrangheta.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Questo è il video della spedizione punitiva contro il dipendente di una sala scommesse. Non siamo in Calabria ma nel centro di Verona. L’aggressore si chiama Francesco Giardino. Suo figlio è stato licenziato il giorno prima perché rubava dalla cassa.

KEIBER CASTILLO DE LAS CASAS – IMPIEGATO SALA SCOMMESSE Sono lì dietro al banco, arriva suo padre e mi dice: sei stato tu a dire alla tua capa che mio figlio ha fatto quello che ha fatto? Ho detto: sì, sono stato io. E lì proprio lui ha reagito e ha cercato di darmi un pugno.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Daniela Saccardo è la proprietaria dell’agenzia. Aveva assunto il figlio di Giardino anche se in Questura glielo avevano sconsigliato.

WALTER MOLINO Voi poi siete andati a denunciare questa cosa, no?

DANIELA SACCARDO - IMPRENDITRICE No. Siamo andati a raccontare e poi è uscito tutto questo ambaradan. Non è che eravamo andati per denunciare. Diciamo che abbiamo avuto delle pressioni. Magari se raccontavamo quello che era successo poteva anche essere bruciato il locale.

WALTER MOLINO Verona è la città più ricca del Veneto, è impressionante questa presenza.

NICOLA GRATTERI - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI CATANZARO L’imprenditore ‘ndranghetista veste come noi, mangia come noi, ha solo l’accento calabrese come il mio, però porta tanti soldi. Mettiamo il caso in cui l’imprenditore del Nord sia in buona fede: quando l’imprenditore ‘ndranghetista gli propone smaltimento di rifiuti con ribasso del 30-40%, manodopera a basso costo mi pare che non si possa parlare di ingenuità o di buona fede. Si chiama ingordigia.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Secondo l’Antimafia a Verona si è radicata una locale di ‘ndrangheta. Il capo indiscusso è Antonio Giardino, detto “Totareddu”, che nel marzo scorso è stato condannato in primo grado a 30 anni di carcere. La prima sentenza dibattimentale che riconosce la presenza di un’organizzazione mafiosa sul territorio Veneto.

ALFONSO GIARDINO – IMPRENDITORE Io in Veneto non ho mai visto la ‘ndrangheta. In Veneto parlo. Non lo so in altre parti, a Milano… questo e quell’altro. Di quello che dicono i giornali sembra che c’è. Qua in Veneto non ho mai visto la ‘ndrangheta, non ho mai conosciuto uno ‘ndranghetista qua.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Alfonso Giardino è il cugino di Totareddu. Condannato per estorsione, oggi è indagato dall’antimafia di Venezia per associazione mafiosa.

ALFONSO GIARDINO – IMPRENDITORE Tutti, tutti i calabresi, tutti, tutti, elettricisti idraulici, gente che lavora dalla mattina alla sera, ce li ho amici io, lavoriamo insieme perché facciamo il 110, quello fa l’idraulico, l’elettricista, tutti calabresi, tutti, qua nel Veneto, ce l’hanno a morte! Vanno a controllargli le aziende, le cose, qua c’è gente a Verona che ruba soldi dalla mattina alla sera che cazzo non gli fanno un cazzo.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Alla famiglia Giardino sono riconducibili decine di aziende con sede in Veneto e tutto il Nord Italia che lavorano nel campo della manutenzione ferroviaria e dell’edilizia. ALFONSO GIARDINO - IMPRENDITORE Ma di cosa cazzo parliamo? Siamo diventati ebrei, te lo dico io qual è la verità, Walter! Noi siamo diventati come gli ebrei. C’è un Hitler qua: la politica.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Nell’inchiesta Kyterion della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro è emerso l’interesse delle ‘ndrine calabresi in contatto con i Giardino per la rielezione di Flavio Tosi a sindaco di Verona, come si evince da questa intercettazione telefonica mai ascoltata prima tra due imprenditori crotonesi legati ad Alfonso Giardino.

INTERCETTAZIONE TELEFONICA 7 MAGGIO 2012 LUIGI FRONTERA - IMPRENDITORE Alfonso si è fatto sentire, no

GIUSEPPE PORTA - IMPRENDITORE Alfonso lo sto chiamando e non mi risponde, l'ho chiamato già due volte.

LUIGI FRONTERA - IMPRENDITORE A Verona ha vinto Tosi quello che appoggiavano loro, quindi secondo me sono in festa.

GIUSEPPE PORTA - IMPRENDITORE Ah sì ha vinto quello che…

LUIGI FRONTERA - IMPRENDITORE Sì quello che appoggiavano loro.

GIUSEPPE PORTA - IMPRENDITORE Sono contento, buono, buono.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Alle elezioni comunali del 2012 Alfonso Giardino racconta di aver creduto in Flavio Tosi e nelle promesse del suo assessore calabrese Marco Giorlo: appalti in cambio di voti.

ALFONSO GIARDINO – IMPRENDITORE Quando abbiamo parlato mi ha detto – lui – “Se mi date una mano…vedete se conoscete anche altri calabresi, gente che per il voto… Se mi…ci date una mano vediamo di…” Perché io gli avevo detto che mi interessava fare un centro sportivo qua a Verona, perché sono amante di ‘ste cose qua, di calcio, tennis…queste cose qua. E mi ha detto “Guarda, c’è la possibilità” però sempre in affitto, perché non è che te lo danno in affidamento, no?

WALTER MOLINO Ma poi te l’hanno dato?

ALFONSO GIARDINO – IMPRENDITORE No… WALTER MOLINO Tu però l’hai aiutato con questi voti?

ALFONSO GIARDINO – IMPRENDITORE No, non li ho aiutati.

WALTER MOLINO Però nelle intercettazioni tu a tuo fratello dici...

ALFONSO GIARDINO – IMPRENDITORE Ma non li ho aiutati.

INTERCETTAZIONE TELEFONICA 4 LUGLIO 2012 ALFONSO GIRADINO – IMPRENDITORE L'ha aiutato davvero te lo posso giurare dove, se si trova su quella poltrona si trova per me questo, gli ho trovato non so quanti voti, quanti gliene ho tirati fuori non hai nemmeno idea tu, mi sono massacrato giorni e giorni però vedi ora grazie a Dio è riconoscente, mi ha detto “Io per i Giardino faccio tutto, per i Giardino perché i Giardino a me mi hanno aiutato”.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Marco Giorlo ha sempre negato qualsiasi contatto con la famiglia Giardino e le inchieste sul suo operato di assessore sono state archiviate. Ma non risulta che sia mai stata approfondita la natura dei suoi rapporti con Alfonso Giardino.

WALTER MOLINO Cioè, lui si è impegnato!

ALFONSO GIARDINO – IMPRENDITORE Si è impegnato, insomma…

WALTER MOLINO Cioè si era impegnato, ti aveva promesso questa cosa, e tu ti sei impegnato a trovargli dei voti.

ALFONSO GIARDINO – IMPRENDITORE Allora, che lui si sia impegnato no, non glien’è fregato niente neanche a lui.

WALTER MOLINO Si è impegnato nel senso che te l’aveva promesso.

ALFONSO GIARDINO – IMPRENDITORE Mhm…che aveva fatto delle promesse…sì.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO L’allora sindaco di Verona Flavio Tosi, dopo una puntata di Report che per prima, nel 2014, aveva denunciato la presenza della ‘ndrangheta a Verona, aveva negato che i Giardino l’avessero appoggiato alle elezioni.

FLAVIO TOSI – (REPERTORIO 2014) I rapporti con certi soggetti non esistono, non esistono, qualcuno manco lo conosco. Se qualcuno ha una prova, qualsiasi tipo di rapporti fra Tosi e certi soggetti, non solo porti in Procura ma lo metta sui giornali, in maniera tale che… e non ci sono, non ne so un fico secco! È quello il punto.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO E invece, ecco Flavio Tosi abbracciato con Antonio Giardino, detto “il Marocchino”, il fratello di Alfonso. Nel giugno scorso è stato condannato in primo grado a 6 anni e 8 mesi di carcere. La fotografia è del 29 maggio 2015 quando Tosi è candidato alla presidenza della regione e va a chiudere il suo tour elettorale al bar “Mi Vida” di Sommacampagna, allora riconducibile proprio alla famiglia Giardino.

ALFONSO GIARDINO – IMPRENDITORE Si sono fatti ‘sta foto…madonna, è uscito fuori un putiferio!

WALTER MOLINO Beh, perché comunque Tosi era in campagna elettorale ed è andato a chiudere la campagna elettorale proprio nel bar di tuo fratello. Cioè, è una cosa anche simbolica…

ALFONSO GIARDINO – IMPRENDITORE Ma si è trovato per caso, te lo giuro sui miei figli, non sto scherzando.

WALTER MOLINO Ma non si chiude la campagna elettorale per caso in un bar. Si decide dove si va a chiudere la campagna elettorale.

ALFONSO GIARDINO – IMPRENDITORE Perché conosceva un mio parente. Questo mio parente l’ha portato là quella sera.

WALTER MOLINO Quindi vedi che un legame c’è.

ALFONSO GIARDINO – IMPRENDITORE No, no, no, cioè non è che…io ti dico le cose come sono!

ANDREA TORNAGO Lei ha sempre detto che non ha conosciuto…che non conosceva esponenti della famiglia Giardino.

FLAVIO TOSI - DEPUTATO DI FORZA ITALIA Non ho mai avuto nessun rapporto con quella famiglia, è vero.

ANDREA TORNAGO E com’è che invece lei va a chiudere la campagna elettorale del 2015, quella per le regionali, al bar “Mi Vida” di Sommacampagna?

FLAVIO TOSI - DEPUTATO DI FORZA ITALIA Non sapevo neanche chi fosse il titolare. Un candidato aveva organizzato lì un evento, come si fa in campagna elettorale, e quindi sono andato in quel bar a far campagna elettorale. Non posso conoscere i titolari di tutti i bar.

ANDREA TORNAGO Però c’è una fotografia sua dietro al bancone con Antonio Giardino.

 FLAVIO TOSI - DEPUTATO DI FORZA ITALIA Beh è abbastanza normale, tanti mi chiedono di fare le foto: pizzerie, bar, ristoranti, locali…

ANDREA TORNAGO Però lei non conosceva Antonio Giardino detto “il Marocchino”.

FLAVIO TOSI - DEPUTATO DI FORZA ITALIA No, non l’ho mai conosciuto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il primo marzo scorso c’è stata una sentenza storica: per la prima volta viene riconosciuta la presenza stabile di una locale di ‘ndrangheta a Verona. Il capo mafia sarebbe Antonio Giardino. Ora, premesso che sono ovviamente tutti innocenti fino a sentenza definitiva, però i personaggi che sono emersi in questa vicenda sono grosso modo in gran parte quelli che aveva illuminato Report nell’inchiesta di circa dieci anni fa, quando si era occupata delle anomalie della amministrazione Tosi e aveva illuminato proprio quei personaggi vicini alle ‘ndrine che erano in contatto con i politici della giunta Tosi. Tosi aveva negato di conoscere 12 i Giardino, salvo poi è emersa una fotografia dove si prova che nel 2015 ha chiuso la sua campagna elettorale in un bar proprio di Antonio Giardino, cugino di quell’Antonio detto Totareddu che appunto sarebbe il capomafia. Ora a questa storia si è aggiunto un tassello, un personaggio: Nicola Toffanin, guardia giurata, ex appartenente ai corpi speciali militari, vicino ad ambienti dell’estrema destra, si è messo a un certo a punto a fare lo spione, senza avere la licenza da investigatore privato. E ha spiato per conto di politici altri politici. Poi a tempo perso faceva anche da link, da trait d’union tra ‘ndranghetisti e politici. Ecco oggi è diventato un super pentito, le sue dichiarazioni soprattutto quelle ancora secretate, stanno facendo tremare il Veneto, ma non solo perché il tremore arriva fino a Roma.

NICOLA TOFFANIN - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Mi chiamo Nicola Toffanin. Sono nato come uomo dello Stato, arruolato ancora minorenne nell’esercito italiano nei primi anni ‘80. Poi sono rientrato a Verona dove ho fatto amicizia con Antonio Giardino il Grande, detto “Totareddu”.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Nicola Toffanin è il primo collaboratore di giustizia veneto della ‘ndrangheta. Arrestato nel giugno 2020 nell’operazione Isola Scaligera, inizia subito a collaborare con i magistrati antimafia di Venezia. E racconta la composizione della locale di ‘ndrangheta veronese.

NICOLA TOFFANIN - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Mi è stato chiesto di tenere il profilo più basso possibile per rimanere in una sorta di mondo di mezzo. La maglia che connette la 'ndrangheta con la politica, le forze dell’ordine e la massoneria. Diamo la possibilità̀ all'organizzazione dì crescere ed infiltrarsi nel tessuto economico, imprenditoriale e delle amministrazioni pubbliche. Anche dalla Procura di Verona venivo a conoscenza di tante cose. È proprio per questo che mi hanno dato il soprannome di “Avvocato”.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Toffanin confessa di curare i rapporti delle cosche con l’imprenditoria e la politica. I suoi verbali, omissati e in gran parte ancora secretati, stanno facendo tremare il Veneto, e non solo.

WALTER MOLINO Che personaggio è Toffanin?

BRUNO CHERCHI - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI VENEZIA Uno che lavora sotto molti aspetti, molti campi, che ha molti contatti e che quindi avendo molti contatti ha anche molte informazioni. Devo dire che poi le informazioni che son state date da Toffanin quando ha deciso di collaborare sono state tutte riscontrate.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Ex militare dei corpi speciali, ben introdotto negli ambienti dell’estrema destra, Toffanin fa l’investigatore privato anche se non ha la licenza. Si accompagna a Michele Pugliese, di Isola Capo Rizzuto, detto “il commercialista”, il braccio destro del capo cosca Antonio Giardino. Altro uomo di peso del gruppo è Domenico Mercurio, detto Mimmo, in ottimi rapporti con la politica veneta. Oggi è un collaboratore di giustizia e anche i suoi verbali sono ancora in gran parte secretati. 13 Con loro c’è spesso Francesco Vallone, detto “il Professore”, vicino alla potente famiglia mafiosa dei Mancuso, imprenditore massone di Vibo Valentia, responsabile del Centro Studi Enrico Fermi, con varie succursali anche in Calabria. Per gli investigatori è il diplomificio della ‘ndrangheta. A Verona era in Corso di Porta Nuova e condivideva la sede con l’università telematica Unicusano di Stefano Bandecchi.

WALTER MOLINO Venivano gli studenti?

AVVOCATO VICINO DI CASA Sette-otto, non chissà cosa.

WALTER MOLINO Ah, così pochi.

AVVOCATO VICINO DI CASA Beh ma sono quelle scuole per recuperare gli anni… han tolto l’insegna, lì c’era anche l’Università Cusano.

WALTER MOLINO L’Unicusano aveva sede qui dentro?

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Quando Totareddu ritorna a casa dopo un periodo di ricovero in ospedale, i suoi contatti più stretti vanno a rendergli omaggio. È seguendo le tracce dell’investigatore Toffanin che nel 2020 l’antimafia riesce a documentare l’attività della locale veronese di ‘ndrangheta. Gli inquirenti ascoltano Toffanin vantarsi del suo potere ricattatorio nei confronti dei politici.

INTERCETTAZIONE AMBIENTALE 28 MARZO 2018 NICOLA TOFFANIN Perché Miglioranzi l’ho preso per le palle!

FRANCESCO VALLONE Bravo... ed è giusto che sia così!

NICOLA TOFFANIN Ma non solo lui! ma c'ho anche Tosi per le palle!

FRANCESCO VALLONE In questo momento conta più Miglioranzi che Tosi. Se noi siamo intelligenti ci dà sempre da mangiare! Sempre!

NICOLA TOFFANIN Certo! FRANCESCO VALLONE Capito? Pulito! al massimo tra 10 anni usciamo su Report!

NICOLA TOFFANIN Ma vaffanculo Report!

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Hanno impiegato meno di 10 anni, ma poi Toffanin e Vallone sono finiti su Report. Evidentemente si ricordavano dell’inchiesta fatta nel 2015 quando avevamo denunciato i rapporti fra uomini della ‘ndrangheta e i politici della giunta Tosi. Ora, Toffanin è il super pentito di ‘ndrangheta nel Veneto. È un massone, una guardia giurata, ha fatto da link tra politici e ‘ndranghetisti. Ha messo in contatto politici con Michele Pugliese, il braccio destro di Antonio Giardino, quello considerato dai magistrati il capo della ‘ndrangheta a Verona. E poi li ha anche messi in contatto con Francesco Vallone, un imprenditore calabrese anche lui massone, gestisce una rete di scuole per recupero corsi scolastici e anche un Centro di Formazione Enrico Fermi, a Verona, che per gli investigatori sarebbe il diplomificio della ‘ndrangheta. Però insomma Toffanin a tempo perso fa anche lo spione senza licenza, spia gli avversari di Tosi su mandato di Tosi. Però nello stesso tempo ha catturato nella sua rete anche Andrea Miglioranzi, che è un manager di fiducia di Tosi, è stato messo a capo dell’Amia, la municipalizzata dei rifiuti. E ha offerto Toffanin una mazzetta a Miglioranzi perché fosse disponibile a cedere in appalto dei corsi di formazione all’amico Vallone. Corsi che poi non si sarebbero mai fatti. Ma solo il fatto di aver percepito questa mazzetta ha reso Miglioranzi ricattabile. Ecco è la corruzione il metodo per cui Toffanin può dire: “Abbiamo i politici in pugno”.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO L’uomo che Toffanin dice di avere in pugno è Andrea Miglioranzi, ex bassista dei “Gesta Bellica”, una band nazirock che ha prodotto brani come “Il Capitano”, dedicato al criminale nazista Erik Priebke, il boia delle Fosse Ardeatine. Miglioranzi è introdotto in politica da Flavio Tosi, che nel 2012 lo nomina presidente dell’Amia, azienda di smaltimento rifiuti del Comune di Verona.

MICHELE BERTUCCO - ASSESSORE AL PATRIMONIO COMUNE DI VERONA Andrea Miglioranzi, che è soprannominato a Verona “MigliorNazi”, è sempre stato ai margini della politica fino a quando non è stato reclutato da Flavio Tosi. Flavio Tosi lo fa diventare capogruppo della sua lista in consiglio comunale, lo fa nominare nell’Istituto per la storia della resistenza di Verona, dopodiché Andrea Miglioranzi capisce che la politica gli dà poco e quindi ha cercato e ha avuto spazio nell’ambito delle aziende partecipate del Comune di Verona.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Ed è in quel ruolo che avrebbe incassato mazzette dall’investigatore Toffanin che veste i panni del mediatore per gli imprenditori vicini alla ‘ndrangheta.

INTERCETTAZIONE AMBIENTALE 3 MAGGIO 2018 NICOLA TOFFANIN È contento, gli ho dato 3 mila euro! Adesso l'abbiamo compromesso. Si chiama concussione aggravata, dai 2 ai 6 anni! Con la legge Severino non può più neanche candidarsi.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO È il 3 maggio 2018 e Toffanin ha appena consegnato una busta con 3 mila euro a Miglioranzi. Per i magistrati è la prima parte di una tangente per l’affidamento di 15 una serie di corsi di formazione fasulli al Centro Studi di Francesco Vallone, imprenditore massone di Vibo Valentia, vicino alla potente famiglia mafiosa dei Mancuso.

ANDREA TORNAGO Questi tremila euro che le vengono consegnati glieli dà Vallone, giusto? Vallone è stato condannato a 15 anni per mafia.

ANDREA MIGLIORANZI - PRESIDENTE AMIA 2012-2018 Abbia pazienza…ho un ricorso e non ci aspettavamo una cosa del genere.

ANDREA TORNAGO Com’è che lei aveva rapporti con questa gente che stava nella criminalità organizzata, nella ‘ndrangheta?

ANDREA MIGLIORANZI - PRESIDENTE AMIA 2012-2018 È stato assolutamente casuale, mi creda. Sono una persona perbene e lo dimostrerò. ANDREA TORNAGO Certo, però lei non si era reso conto che Toffanin, Vallone, avevano questo profilo criminale?

ANDREA MIGLIORANZI - PRESIDENTE AMIA 2012-2018 Assolutamente, se no manco ci avrei parlato, mi creda.

NICOLA TOFFANIN - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Il nostro referente in prima analisi era Miglioranzi. Però Miglioranzi è stato per tanto tempo il rappresentante di Flavio Tosi, il suo braccio destro. Io e Francesco Vallone abbiamo fatto conoscere Miglioranzi e Pugliese. Miglioranzi era al corrente della caratura criminale di Pugliese perché io glielo presentai così. Pugliese poteva gestire i voti della comunità calabrese.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Michele Pugliese è il numero due della locale di ‘ndrangheta, affiliato agli ArenaNicoscia, organizza le attività di infiltrazione nell’azienda di rifiuti di Verona. Isola Scaligera è un’inchiesta di mafia che compone un album di famiglia della destra veronese. Toffanin incontrava a Verona anche Maurizio Lattarulo, detto “Provolino”, ex terrorista dei Nar e membro della Banda della Magliana. A metterli in contatto è Paolo Pascarella, in passato collaboratore di Francesco Biava, ex capo segreteria di Gianni Alemanno. Pascarella è stato consulente legislativo della Camera dei deputati e secondo la Polizia si interessava di appalti del Ministero della Difesa in ambito di sicurezza nazionale. Nell’album di famiglia c’è anche Gianmatteo Sole, palermitano trapiantato a Verona, imprenditore della sicurezza insieme alla sorella Angela Stella. Sono gli ultimi datori di lavoro di Toffanin, gli affidavano i compiti più delicati.

WALTER MOLINO Era un suo investigatore?

GIAMMATTEO SOLE - IMPRENDITORE No

WALTER MOLINO Non era il suo investigatore?

GIAMMATTEO SOLE - IMPRENDITORE No. Servizi di sicurezza, fiduciari. Niente, nessuna importanza.

WALTER MOLINO Però gli davate incarichi importanti.

GIAMMATTEO SOLE – IMPRENDITORE No.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Questo è il mandato dell’attività investigativa commissionata da Tosi alla Veneta Investigazioni di Angela Stella Sole. Toffanin deve spiare i suoi avversari politici. Tosi sospettava che dietro alla pubblicazione di questa foto della sua compagna Patrizia Bisinella, candidata a sindaco, insieme a Vito Giacino, condannato per concussione, ci fosse l’altro candidato di destra Federico Sboarina.

WALTER MOLINO Era stata una campagna elettorale molto accesa quella vostra, no?

FEDERICO SBOARINA - SINDACO DI VERONA 2017-2022 Sì, era stata molto accesa…

WALTER MOLINO Fotografie rubate…

FEDERICO SBOARINA - SINDACO DI VERONA 2017-2022 Mah, era stata una campagna elettorale molto accesa…

WALTER MOLINO Con un sacco di spiate.

FEDERICO SBOARINA - SINDACO DI VERONA 2017-2022 Sì.

ANDREA TORNAGO Volevamo chiederle dei suoi rapporti con Nicola Toffanin.

FLAVIO TOSI - DEPUTATO DI FORZA ITALIA E chi è?

ANDREA TORNAGO Nicola Toffanin, considerato la cerniera tra la politica e la ‘ndrangheta a Verona, in Veneto.

FLAVIO TOSI - DEPUTATO DI FORZA ITALIA Non ho neanche presente chi sia.

ANDREA TORNAGO Vi siete incontrati alcune volte nel 2017.

FLAVIO TOSI - DEPUTATO DI FORZA ITALIA Ah, quella vicenda! Una volta, credo di averlo incontrato.

 ANDREA TORNAGO E com’è che lei aveva rapporti con Toffanin? Come vi siete conosciuti?

FLAVIO TOSI - DEPUTATO DI FORZA ITALIA Me l’aveva presentato l’allora presidente dell’Amia, Andrea Miglioranzi.

ANDREA TORNAGO Gli ha chiesto di spiare avversari politici…

FLAVIO TOSI - DEPUTATO DI FORZA ITALIA Era un lavoro di investigazione, e come tale riservato.

ANDREA TORNAGO Avevate una certa confidenza, perché lei lo chiamava “Nik” nei messaggi.

FLAVIO TOSI - DEPUTATO DI FORZA ITALIA Boh. Francamente, ripeto, l’ho visto due volte.

ANDREA TORNAGO Vi scambiate alcuni messaggi che sono agli atti dell’inchiesta…in cui dice “Grazie Nik, domani do un’occhiata”.

FLAVIO TOSI - DEPUTATO DI FORZA ITALIA E si vede che li avete voi agli atti, io gli atti, ripeto, non li ho neanche mai visti e non son mai stato coinvolto.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Report può mostrarvi in esclusiva uno dei messaggi tra Tosi e Toffanin del giugno 2017. L’ex sindaco di Verona, ora deputato di Forza Italia, riceve un ampio dossier con informazioni sensibili su vari esponenti politici. E ringrazia Toffanin, l’investigatore senza licenza legato alla ‘ndrangheta: “Grazie Nik. Domani ci do un’occhiata”.

ANDREA TORNAGO Lei può certificare che quel lavoro di investigazione è stato pagato con i suoi soldi.

FLAVIO TOSI - DEPUTATO DI FORZA ITALIA Assolutamente sì.

ANDREA TORNAGO Anche se Toffanin non aveva la licenza per fare l’investigatore.

FLAVIO TOSI - DEPUTATO DI FORZA ITALIA Io che ne so. Se Andrea Miglioranzi mi presenta una persona e mi dice questo fa questo tipo di attività, glielo commissiono, mi viene dato il lavoro quindi per me fa quell’attività lì.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Secondo l’antimafia, lo spionaggio di Toffanin per Tosi sarebbe stato pagato con i soldi dell’Amia, presieduta da Miglioranzi. Sono tutti accusati di peculato in concorso, per l’uso di denaro dell’azienda pubblica per i dossieraggi politici. Un’imputazione che non risulta essere ancora stata archiviata. Tuttavia, la galassia imprenditoriale di Gianmatteo Sole, il palermitano trapiantato a Verona e datore di lavoro dello spione Toffanin, continua ad allargarsi.

WALTER MOLINO Quando lei poi ha scoperto che lui aveva questo tipo di rapporti anche con la criminalità organizzata?

GIAMMATTEO SOLE – IMPRENDITORE Quando è scoppiato il bubbone! Un bel giorno lo mando a Ferrara…a Parma! Abbiamo un cantiere a Parma. Mi chiama…e trova dove si mettono le microspie qua sotto. Lo vede, qua io ci metto le mani dentro… a me lo vieni a insegnare… trova delle microspie. Mi manda la foto. Quindi lui un anno prima ha capito che era intercettato, sicuramente dalle forze dell’ordine.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Gianmatteo Sole è cresciuto nel Fronte della Gioventù ed è stato consigliere comunale di Alleanza Nazionale a Verona. Dopo una lunga militanza nell’Msi, oggi è vicino a Fratelli d’Italia. A meno di cento passi dal Centro Studi Enrico Fermi di Francesco Vallone, sospettato di essere il diplomificio della ‘ndrangheta, Sole ha aperto il Centro Studi Verona insieme alla sorella Angela Stella Sole e a Michela Seves, che del Centro Studi di Vallone era la segretaria.

WALTER MOLINO Michela Seves era, diciamo, la segretaria di Vallone…

GIAMMATTEO SOLE - IMPRENDITORE No, era molto di più! Perché lui non c’era mai…

WALTER MOLINO Era molto di più…e lei se l’è presa come socio?

GIAMMATTEO SOLE - IMPRENDITORE Perché è una bravissima persona!

WALTER MOLINO Siete in società nella scuola…

GIAMMATTEO SOLE - IMPRENDITORE Perché è una bravissima persona!

WALTER MOLINO Cioè lei non ha nessun imbarazzo, dopo quello che è successo…

GIAMMATTEO SOLE - IMPRENDITORE Le ho dato un’opportunità.

WALTER MOLINO … a mettersi in società con il braccio destro di Vallone?

GIAMMATTEO SOLE - IMPRENDITORE Sì, se lei avesse avuto precedenti penali.

WALTER MOLINO Ma lei non ha paura che un giorno si ritrova come socio occulto Vallone?

GIAMMATTEO SOLE - IMPRENDITORE È possibile.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Francesco Vallone, imprenditore massone calabrese condannato in primo grado a 15 anni per associazione mafiosa. Aveva puntato i corsi di formazione dell'AMIA, la municipalizzata di Verona che si occupa dei rifiuti, glieli avrebbe concessi Andrea Miglioranzi, manager pupillo di Tosi, dietro il pagamento di una mazzetta. Andrea Miglioranzi è stato condannato in primo e secondo grado a 2 anni e 8 mesi per corruzione. Dalle indagini emergerebbe anche che Miglioranzi avrebbe utilizzato soldi pubblici, quindi quelli dell’Amia, per pagare lo spionaggio chiesto da Tosi nei confronti dei suoi avversari politici, avrebbe incaricato l’agenzia Veneta Investigazioni di Angela Stella Sole, sorella di Giammatteo, che avrebbe a sua volta incaricato Toffanin. Sia Giammatteo che Angela Stella Sole stanno investendo in quelle scuole di recupero scolastico, tipo quelle di Vallone, prima che venisse arrestato. E per farlo hanno scelto come socia la segreteria di Vallone, Michela Seves. Alla domanda del nostro Walter Molino a Gianmatteo Sole “Ma non è che poi domani si ritrova come socio occulto Vallone?”, Sole ha risposto, “è’ possibile!”. Certe domande è meglio farsele subito, piuttosto che finire su Report tra 10 anni. Ora passiamo a Vicenza, dove la tela di 'ndrangheta tracciata dal super testimone, ha imbrigliato anche uno chansonnier.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Questa è la sede di Unichimica a Torri di Quartesolo, nei pressi di Vicenza. La più importante azienda chimica nel distretto veneto della pelle: 600 imprese e quasi 3 miliardi di export all’anno, uno dei poli produttivi più ricchi del Paese. Patron di Unichimica è il poliedrico Alberto Filippi: è stato parlamentare della Lega dal 2006 al 2011, politicamente vicino a Flavio Tosi, oggi è anche un apprezzato chansonnier su YouTube.

WALTER MOLINO Buongiorno, mi scusi, sono Walter Molino, sono un giornalista di Report, potrebbe dirmi qualcosa a proposito…

ALBERTO FILIPPI – PARLAMENTARE LEGA NORD 2006-2011 Nooo!

WALTER MOLINO Perché si arrabbia così? Le volevo fare soltanto una domanda.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Lui invece è Ario Gervasutti, ex direttore del Giornale di Vicenza e oggi caporedattore al Gazzettino di Venezia.

ARIO GERVASUTTI – DIRETTORE GIORNALE DI VICENZA 2009-2016 Uno, due e uno tre. Uno si è ficcato qua e uno si è conficcato laggiù. Era la notte del 16 luglio 2018, con la famiglia eravamo appena ritornati da una gita al mare, eravamo a letto e alle due di notte, sotto un temporale ricordo piuttosto violento, i tuoni che abbiamo sentito non erano tuoni da fulmine: erano cinque colpi di pistola. Ho visto uscire dalla sua camera uno dei miei figli che si scuoteva il pigiama dai calcinacci dicendo: ma ci hanno sparato in casa.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO In piena estate la Direzione distrettuale antimafia di Venezia ha chiuso le indagini di un nuovo filone di Isola Scaligera, l’inchiesta che ha accertato la costituzione di una locale di ‘ndrangheta in Veneto. Fra i 43 indagati per associazione mafiosa e altri reati spicca il nome di Alberto Filippi. Sarebbe stato l’ex parlamentare della Lega a ordinare l’attentato intimidatorio nei confronti di Gervasutti.

ARIO GERVASUTTI - DIRETTORE GIORNALE DI VICENZA 2009-2016 Io nel 2010 ero direttore del Giornale di Vicenza, lui si lamentava del fatto che il giornale non dava sufficiente spazio alla sua versione dei fatti rispetto a un contenzioso su un cambio di destinazione d’uso di un terreno di sua proprietà che doveva passare da agricolo a commerciale o industriale.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO A scatenare l’ira di Filippi, secondo gli investigatori, sarebbero stati alcuni articoli sgraditi pubblicati sul Giornale di Vicenza tra il 2010 e il 2011, quando Gervasutti era direttore, a proposito di una speculazione edilizia in quest’area di Montebello Vicentino, di cui Filippi possedeva quasi 230 mila metri quadrati.

WALTER MOLINO Lui pretendeva appoggio anche perché Il Giornale di Vicenza è di proprietà di Confindustria.

ARIO GERVASUTTI - DIRETTORE GIORNALE DI VICENZA 2009-2016 Si sbagliava, perché evidentemente non conosceva la realtà del giornalismo.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Domenico Mercurio collabora con la giustizia dall’autunno del 2020, è stato ai vertici della locale di ‘ndrangheta veronese comandata da “Totareddu” Giardino. È lui a indicare l’ex senatore Filippi quale mandante dell’attentato, che sarebbe stato eseguito dallo zio di Mercurio, Santino.

DOMENICO MERCURIO – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA L’ultimo incarico dato da Filippi di cui sono a conoscenza fu di commissionare a Mercurio Santino un atto di intimidazione nei confronti di un giornalista. Filippi pagò a Santino 25 mila euro da consegnare a fatto compiuto per picchiare o incendiare l’auto a questa persona perché scriveva cose sull’attività di Filippi. Invece di picchiarlo soltanto, spararono alla casa di questo giornalista e venne fuori un casino.

ALFONSO GIARDINO - IMPRENDITORE Mercurio lavorava con la politica. L’unico dei calabresi qua a Verona che ha lavorato con la politica, te lo posso dire io, è stato Mimmo Mercurio.

WALTER MOLINO Tu sai che Santino Mercurio è accusato tra le altre cose di essere andato a sparare dei colpi di pistola contro la casa del giornalista Ario Gervasutti?

 ALFONSO GIARDINO - IMPRENDITORE Santino? No, non sapevo questo.

WALTER MOLINO Questo lo ha raccontato Domenico Mercurio e ci sono state delle verifiche fatte dai magistrati.

ALFONSO GIARDINO - IMPRENDITORE Che compare Santino è andato a sparare?

WALTER MOLINO Ti sembra inverosimile che Santino Mercurio abbia potuto fare questa cosa? ALFONSO GIARDINO - IMPRENDITORE No, quello no.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Pochi giorni fa Alberto Filippi è stato interrogato per 18 ore dai pubblici ministeri dell’antimafia di Venezia e subito dopo ha accettato di incontrarci.

WALTER MOLINO È vero o no che lei aveva dei motivi di rancore nei confronti di Gervasutti?

ALBERTO FILIPPI – IMPRENDITORE E PARLAMENTARE LEGA NORD 2006- 2011 Ma assolutamente no. Capita di poter non essere d’accordo con parecchie persone, non per questo una persona che non concorda a livello professionale o fuori dalla professione qualcosa, poi va da qualche ‘ndranghetista e fa fare un’azione intimidatoria.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Poco prima di cominciare l’intervista uno dei suoi avvocati ci racconta di aver consegnato ai magistrati cinque ore di dialoghi tra Filippi e Mercurio che l’ex parlamentare avrebbe registrato di nascosto e che proverebbero la sua estraneità ai fatti.

CESARE DAL MASO – AVVOCATO DI FILIPPI Sono cinque ore di registrazioni importantissime, importantissime, che diciamo hanno tagliato la testa al toro.

WALTER MOLINO Perché lei registrava Domenico Mercurio?

ALBERTO FILIPPI – IMPRENDITORE E PARLAMENTARE LEGA NORD 2006- 2011 Io avevo subito da parte di un collaboratore di Domenico Mercurio una… una.. ehm… una minaccia.

WALTER MOLINO Che tipo di minaccia?

ALBERTO FILIPPI – IMPRENDITORE E PARLAMENTARE LEGA NORD 2006- 2011 Se non mi paghi dei soldi io ti brucio la casa. Considerato l’importo che era di 7500 euro…

WALTER MOLINO Lei ha deciso di pagare?

ALBERTO FILIPPI – IMPRENDITORE E PARLAMENTARE LEGA NORD 2006- 2011 Assolutamente sì.

WALTER MOLINO Ha funzionato?

ALBERTO FILIPPI – IMPRENDITORE E PARLAMENTARE LEGA NORD 2006- 2011 Questa persona non si è più vista.

WALTER MOLINO A quando risale questa estorsione che lei ha subìto?

ALBERTO FILIPPI – IMPRENDITORE E PARLAMENTARE LEGA NORD 2006- 2011 Proprio mentre Domenico Mercurio era stato incarcerato per l’appartenenza alla ‘ndrangheta.

WALTER MOLINO Lei mi ha detto: ho registrato Domenico Mercurio perché io ho subito una tentata estorsione. Però se lei mi dice che l’estorsione è arrivata quando Mercurio era già in carcere.

ALBERTO FILIPPI – IMPRENDITORE E PARLAMENTARE LEGA NORD 2006- 2011 È successiva.

WALTER MOLINO È successiva all’arresto?

ALBERTO FILIPPI – IMPRENDITORE E PARLAMENTARE LEGA NORD 2006- 2011 È successiva all’arresto.

WALTER MOLINO Lei dopo che Mercurio era in carcere è riuscito a parlare per cinque ore con Mercurio?

CESARE DEL MASO - AVVOCATO Però mi scusi, dobbiamo interrompere… non possiamo… Dottore non possiamo discutere di questa cosa.

WALTER MOLINO Ma sta dicendo una cosa molto grave.

CESARE DEL MASO - AVVOCATO Non possiamo discutere di questa cosa!

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Quello con Filippi non sarebbe l’unico contatto di Mercurio con la politica. Nei verbali finiscono nomi illustri, come quello di Stefano Casali, avvocato veronese cresciuto con Tosi e oggi in Fratelli d’Italia. Casali non è indagato, ma secondo il collaboratore di giustizia Toffanin, Domenico Mercurio gli avrebbe assicurato un pacchetto di voti.

NICOLA TOFFANIN – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Vallone mi riferì che Domenico Mercurio nella tornata elettorale 2012 ha aiutato l’avvocato Casali, di area tosiana. Mercurio è andato da più imprenditori a chiedere voti, e anche a esponenti di ‘ndrangheta, in favore di questo personaggio. E sapevo che il buon avvocato Casali era sicuramente informato che i voti gli sarebbero stati dati dalla comunità calabrese, rappresentata da imprenditori dichiaratamente di connotazione ‘ndranghetistica. L’avvocato Casali è stato eletto.

WALTER MOLINO Forse saprà che c’è questo collaboratore di giustizia, Nicola Toffanin, che nella fase due di Isola Scaligera ha fatto delle dichiarazioni che la riguardano.

STEFANO CASALI - AVVOCATO Non so niente, ma guardi adesso porti pazienza, c’è un convegno, mi lasci per cortesia dedicarmi al convegno. Porti pazienza, sono un relatore. Magari mi potevate magari avvisare, io non lo conosco, non so neanche chi sia. Non so neanche chi sia!

WALTER MOLINO Lei ha conosciuto Domenico Mercurio?

STEFANO CASALI - AVVOCATO Io devo fare un evento, mi lasci…

WALTER MOLINO Mi può solo dire se lo ha mai conosciuto?

STEFANO CASALI - AVVOCATO Ma guardi, mi sta un po’…per cortesia, stiamo facendo un evento importante.

WALTER MOLINO Volevo solo sapere questo e la libero.

STEFANO CASALI - AVVOCATO Ma io non ho niente da dirle. Non so neanche di cosa stia parlando, la prego di…saluto anche il suo operatore, e adesso mi lasci fare il convegno. La ringrazio molto è stato molto gentile, arrivederla.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Dopo essere stato presidente di Agsm–Aim, la multiutility dei comuni di Verona e Vicenza, oggi Casali milita in Fratelli d’Italia. E l’evento a cui ha fretta di partecipare è con il ministro della Giustizia Carlo Nordio, e il presidente della commissione giustizia della Camera, l’onorevole di Fratelli d’Italia Ciro Maschio, dove si parla di limitare l’uso delle intercettazioni.

CARLO NORDIO – MINISTRO DELLA GIUSTIZIA Eliminando la possibilità che vengano trascritte nelle intercettazioni le cose che riguardano i terzi. Cioè: Ciro parla con Stefano…già se Ciro e Stefano sono indagati…no, meglio: già Ciro e Stefano…Pinco…Tizio e Caio, parlano tra loro…ecco, esorcizziamo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Esorcizziamo pure le intercettazioni. Chissà se con la riforma appena approvata il quadro che è emerso a Verona della presenza della ‘ndrangheta sarebbe emerso con la stessa forza. Mentre per quello che riguarda l’avvocato Casali, dopo aver negato, ci ha scritto ammettendo di conoscere lo ‘ndranghetista Mercurio, in quanto è stato proprio un suo cliente a partire dal 2010. Ha specificato che all’epoca Mercurio era “un noto imprenditore neppure sfiorato da sospetti di appartenenza ad associazioni criminali” Ammette anche Casali che Mercurio gli aveva manifestato l’apprezzamento per la sua attività politica. A proposito di politica, Mercurio ha intrattenuto rapporti anche con l’ex parlamentare Filippi. Proprio per questo Filippi, ex parlamentare della Lega, è entrato in un’inchiesta antimafia, accusato di aver ordito un attentato nei confronti dell’ex direttore del Giornale di Vicenza, Ario Gervasutti. Filippi durante l’intervista al nostro Molino ha detto “Guardate che ho lasciato ai magistrati 5 ore di registrazioni audio, colloqui tra me e Mercurio“, e sono colloqui dai quali emergerebbe un’estorsione che l’ndranghetista avrebbe compiuto ai danni dell’ex parlamentare. Filippi si dice estraneo all’attentato al giornalista. Mercurio, che è stato considerato dai magistrati un super teste attendibile, avrebbe mentito in questa occasione dell’attentato al giornalista? Se è così come faceva a sapere Mercurio del contrasto esistente fra l’ex parlamentare della Lega e il direttore del giornale? Ma c’è un altro giallo: come ha fatto Mercurio, dopo che aveva cominciato il suo percorso di collaborazione con la giustizia, ad incontrare l’uomo di cui aveva parlato, che aveva denunciato? Questo è un giallo che deve dipanare la magistratura. Come è un giallo capire perché una società che è stata finanziata dal boss crudele dell’ndrangheta, Nicolino Grande Aracri, si sia infiltrata nel cantiere dove si sta costruendo la più grande opera pubblica in Veneto.

HOSTESS Alzi la mano chi su questo volo è diretto a Cutro per la festa del Crocifisso!

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il Crocifisso di Cutro. Ogni sette anni viene calato dalla sua teca. Trentamila persone affollano le vie del paese in attesa della processione. Dentro la Chiesa i portantini si allineano nell’ordine stabilito.

WALTER MOLINO È un grande onore.

PORTANTINO Si, un grandissimo onore fare questo qua. Siamo 106, 108.

 WALTER MOLINO FUORI CAMPO La processione attraversa le vie del paese che ha dato i natali a Nicolino Grande Aracri detto “Mano di gomma”, uno dei boss di ‘ndrangheta più potenti della Calabria, oggi recluso al 41 bis. Alla fine degli anni ’90 Grande Aracri era l’uomo di fiducia del capobastone di Cutro Antonio Dragone. Nel 2004 lo ha fatto ammazzare e ha iniziato la scalata ai vertici della ‘ndrangheta, con l’obiettivo di estendere la sua influenza nelle regioni del Nord. Nel 2015 l’Operazione Aemilia della Direzione Distrettuale Antimafia di Bologna, che porterà al più importante maxiprocesso per mafia al Nord: centinaia di arresti, oltre duecento imputati per reati di estorsione, usura, riciclaggio, false fatturazioni.

WALTER MOLINO Chi è Nicolino Grande Aracri?

LUIGI BONAVENTURA - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA L’ho sempre considerato un genio criminale. È una delle famiglie di ‘ndrangheta tra le prime che diventa forte al Nord.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Luigi Bonaventura è stato reggente della famiglia Vrenna-Bonaventura di Crotone. È uno dei primi collaboratori di giustizia ad aver parlato delle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Veneto. Oggi è fuori dal programma di protezione.

LUIGI BONAVENTURA - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Lui secondo me fa parte anche di quello che è stato un cambio generazionale, un cambio di vedute della ‘ndrangheta che piano piano diventa sempre più masso- ‘ndrangheta, sempre più coinvolta con certi apparati, di conseguenza ha avuto più possibilità di emergere.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Sono partiti tutti da questa periferia di Cutro. Contrada Scarazze era l’azienda agricola di famiglia, poi è diventato un fortino. Oggi è controllata da Antonio Grande Aracri, uno dei fratelli del boss Nicolino, sorvegliato speciale dopo 20 anni di carcere per associazione mafiosa.

ANTONIO GRANDE ARACRI Qui non ci viene nessuno. Già è tanto che tu sei arrivato fino a qua, che ti ho fatto entrare dal cancello.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO In questi capannoni di Contrada Scarazze si tenevano summit e venivano eliminati nemici e traditori.

ANTONIO GRANDE ARACRI 26 Mio fratello…questo e quell’altro, non mi interessa niente. Non mi interessa, tu continua a registrare…

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Questo è il cantiere del nuovo reparto di pediatria dell’azienda ospedaliera di Padova. Le prime pietre dell’opera pubblica più importante del Veneto. Costerà 590 milioni di euro, finanziati anche con i soldi del Pnrr. L’appalto per la pediatria, del valore di 46 milioni, è stato vinto dalla Setten di Treviso. Ma nel marzo scorso sul cantiere piomba un’interdittiva antimafia.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Trentotto anni fa Sciascia spiegò “la teoria della palma” per spiegare l’espansione della mafia al Nord. Con il riscaldamento climatico le palme crescono anche laddove non crescevano prima. E così anche la mafia ha conquistato il Nord. Uno Stato nello Stato, non ci sono più due sistemi diversi, uno ha infiltrato l’altro. È un sistema che quando serve è rozzo, violento, spregiudicato, ma è capace anche di sedurti con la giacca, la cravatta, la valigetta piena di soldi, di offrirti protezione e canalizzare soprattutto i voti. Nicolino Grande Aracri, un protagonista, un personaggio di enorme spessore criminale, è partito alla conquista del Nord da un paesino vicino Crotone. A Padova si sta costruendo il Nuovo Ospedale: un 590 milioni di euro e si attinge anche dai fondi del PNRR. Si sta costruendo il padiglione di pediatria, 46 milioni di euro di appalto, vinti dalla Setten, una società di Treviso, che però poi quando si è trattato di realizzare la struttura in calcestruzzo si è rivolta alla Sidem, il cui dominus sarebbe Michele De Luca, cugino di primo grado di Grande Aracri. Ma come ha fatto a entrare nel cantiere dell’opera pubblica più importante del Veneto?

WALTER MOLINO FUORI CAMPO L’impresa colpita dall’interdittiva antimafia ha sede nel piccolo comune di San Martino di Lupari, 13 mila anime in provincia di Padova.

WALTER MOLINO Cercavo la signora De Luca.

SEGRETARIA - SIDEM COSTRUZIONI È in riunione, è di là.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Amministratrice unica della Sidem è Giuseppina De Luca, ma secondo la prefettura è solo una testa di legno.

WALTER MOLINO E questo subappalto come vi è arrivato?

GIUSEPPINA DE LUCA - AMMINISTRATRICE UNICA SIDEM COSTRUZIONI La Setten ci ha contattato. Abbiamo fatto il preventivo e il sopralluogo in cantiere e abbiamo preso il lavoro.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO La Setten di Treviso affida un subappalto per l’armatura del calcestruzzo alla Sidem, il cui vero dominus, secondo l’antimafia è Michele De Luca, primo cugino di Nicolino Grande Aracri.

WALTER MOLINO Ma lei non ha mai avuto nessun tipo di contatto, neppure finanziamenti da parte di suo cugino?

MICHELE DE LUCA Ma quali finanziamenti, ma stiamo scherzando? Ascolta: queste parole… Lasciami tranquillo perché non siamo di queste robe qua. Te lo dico già. Noi non viviamo di questa roba, sai?

WALTER MOLINO Lei se lo ricorda suo cugino Michele De Luca?

ANTONIO GRANDE ARACRI (annuisce)

WALTER MOLINO Gli hanno fatto questa interdittiva antimafia perché hanno una parentela con voi.

ANTONIO GRANDE ARACRI Mah… è giusto? È giusto secondo te? Se c’è per esempio un malamente in famiglia, vengono e ci prendono a tutti. Perché? Lui è per i fatti suoi, io sono per i fatti miei. WALTER MOLINO Però se c’è soltanto questa cosa del vincolo…

MICHELE DE LUCA Tu stai venendo già parecchie volte qua…

WALTER MOLINO Le sue aziende non sono mai state nella contabilità di suo cugino Nicolino Grande Aracri?

MICHELE DE LUCA Mai! No!

WALTER MOLINO FUORI CAMPO E invece Report è entrata in possesso di questi pizzini vergati a mano da Nicolino Grande Aracri, che i carabinieri hanno sequestrato in casa sua. Il boss annota una serie di prestiti e finanziamenti per quasi 150 mila euro proprio a favore delle imprese di Michele De Luca e dei suoi fratelli. In un’informativa dei Carabinieri di Crotone emerge che proprio il fratello di Michele, Salvatore De Luca, ha partecipato a un importante summit di ‘ndrangheta.

WALTER MOLINO Suo fratello invece non ha partecipato a un summit di mafia, non ha avuto queste accuse?

MICHELE DE LUCA No.

WALTER MOLINO Non è considerato un affiliato?

MICHELE DE LUCA Ma sta scherzando? WALTER MOLINO FUORI CAMPO Ma com'è possibile che un imprenditore con questo curriculum sia riuscito ad ottenere un subappalto nella più importante opera pubblica del Veneto? Siamo andati a chiederlo alla Setten Genesio, una delle più grandi imprese di costruzioni del Triveneto. È la ditta che ha vinto l’appalto per la nuova pediatria di Padova e che ha ceduto il subappalto alla Sidem. La risposta è stata sorprendente.

GENESIO SETTEN - PRESIDENTE SETTEN GENESIO SPA Non lo so come è avvenuto. Io l’ho trovata in cantiere perché non ho seguito il subappalto e non conoscevo la ditta.

WALTER MOLINO L’ha trovata in cantiere quindi ci sarà qualcuno della sua azienda che ha seguito questa cosa qui. Come siete venuti in contatto con questa azienda?

GENESIO SETTEN - PRESIDENTE SETTEN GENESIO SPA Perché lavorava per un fondo dove noi abbiamo investito dei soldi.

WALTER MOLINO Lavoravano con un fondo in che senso?

GENESIO SETTEN - PRESIDENTE SETTEN GENESIO SPA Lavoravano per conto del fondo a costruire delle case di riposo.

WALTER MOLINO E qual è questo fondo?

GENESIO SETTEN - PRESIDENTE SETTEN GENESIO SPA Numeria…

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Numeria è una società che gestisce fondi immobiliari, punto di riferimento degli investitori che contano in Veneto. È stata fondata nel 2004 dall’avvocato Bruno Barel, principe del Foro di Treviso vicino al Presidente Luca Zaia. Storico consulente della Regione Veneto, a lui sono affidate le cause più delicate.

ANDREA TORNAGO Però è imbarazzante questo fatto, perché questa Sidem è considerata dalla prefettura una ditta dei cugini di Nicolino Grande Aracri.

BRUNO BAREL - PRESIDENTE NUMERIA SPA Il prefetto adotta questi provvedimenti senza motivazione.

ANDREA TORNAGO No, beh, sono motivati.

BRUNO BAREL - PRESIDENTE NUMERIA SPA No dicono in base ad accertamenti fatti, di solito sono molto stringate.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il 15 marzo scorso, il giorno dopo la notizia dell’interdittiva antimafia contro la Sidem di De Luca, l’avvocato Barel cede il ramo operativo di Numeria con tutti i suoi dipendenti.

BRUNO BAREL - PRESIDENTE NUMERIA SPA I fondi sono stati ceduti tutti da due anni a ‘sta parte tutti quanti, e poi abbiamo dovuto smettere anche l’attività di consulenza, quindi per salvare il posto di lavoro a tutti i dipendenti.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Oggi Numeria ha ceduto i suoi fondi immobiliari a un’altra importante società di gestione, Namira, che tra i soci ha anche Paolo Scaroni. Ma si è portata in dote nonostante l’interdittiva antimafia la Sidem del cugino di Nicolino Grande Aracri, che continua a lavorare indisturbata nel cantiere delle residenze per anziani.

ANDREA TORNAGO Quanti lavori avete fatto con Numeria?

GIUSEPPINA DE LUCA Limena, Lavagno…due e adesso stiamo facendo la terza

WALTER MOLINO E questa dov’è?

GIUSEPPINA DE LUCA A Mestre, non andate… già son tutti quanti che si spaventano!

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Questa è la casa di riposo che Namira sta costruendo con la Sidem di De Luca proprio di fronte all’ospedale dell’Angelo di Mestre.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il 15 marzo scorso un'interdittiva antimafia ha colpito la Sidem di Michele De Luca, che non è indagato, lo diciamo chiaramente. La Sidem stava lavorando all’interno del cantiere del nuovo ospedale di Padova e secondo il prefetto Grassi la Sidem era collegata a Nicolino Grande Aracri, che è il cugino di primo grado di Michele De Luca, e anzi lo avrebbe anche finanziato come dimostrerebbero i pizzini che hanno recuperato i nostri Walter Molino e Andrea Tornago. Però come ha fatto una società come la Sidem a inserirsi, infiltrarsi nel tessuto economico imprenditoriale veneto? Attraverso un gestore di fondi immobiliari, il più grande del Veneto, Numeria, fondata da Bruno Barel, avvocato di fiducia di Luca Zaia. Barel appena conosciuto l’esistenza di questa interdittiva si è liberato delle sue quote; tuttavia, la Sidem continua a lavorare tranquillamente nei cantieri gestiti dal fondo, come ad esempio la casa di riposo a Mestre. Siccome i fondi immobiliari hanno acquistato pezzi di metropoli, stanno costruendo o ristrutturando pezzi di metropoli, quante aziende in odore di mafia ci stanno lavorando tranquillamente, perché là la prefettura non può intervenire?

L’Emilia Romagna.

Qualsiasi altra persona sarebbe rimasta schiacciata da questa vicenda". L’odissea dell’avvocato Pagliani, carcere, gogna e… assoluzione dopo 8 anni: “Il pm e i rapporti col Pd”. Paolo Comi su Il Riformista il 5 Febbraio 2023

Qualsiasi altra persona sarebbe rimasta schiacciata da questa vicenda. Se oggi invece posso raccontarla è perché ho avuto i mezzi per difendermi e per dimostrare la mia assoluta innocenza”, afferma l’avvocato reggiano Giuseppe Pagliani, arrestato nel 2015 nella maxi inchiesta ‘Aemilia’ condotta dalla Dda di Bologna. Dopo 22 giorni trascorsi in carcere, e quasi otto anni di processi, Pagliani è stato assolto dall’accusa di concorso esterno per associazione mafiosa perché il fatto non sussiste. Il mese scorso gli è stato riconosciuto un risarcimento di 9200 euro. Tutti devoluti in beneficienza.

Avvocato, torniamo a quel 28 gennaio del 2015.

Si. Venni arrestato all’alba come il peggiore dei criminali. Nel mirino degli inquirenti vi era la cosca di ’ndrangheta dominata dal clan Grande Aracri di Cutro, in provincia di Crotone.

All’epoca lei era coordinatore locale del Pdl e capogruppo presso il Consiglio provinciale di Reggio Emilia.

Insieme al collega di partito Giovanni Paolo Bernini di Parma siamo stati gli unici politici coinvolti.

È la prima grande anomalia dell’inchiesta.

Certo. Il centro destra a Reggio Emilia è sempre stato dal 1945 perennemente all’opposizione. Nessuno ha mai potuto firmare una concessione edilizia né conferire un appalto piccolo o milionario.

Nonostante fosse stato escluso dalla ’stanza dei bottoni’, gli investigatori l’accusavano di avere rapporti di affari con gli esponenti del clan calabrese.

Io personalmente ho solo fatto il mio di consigliere di minoranza, puntando il dito nella piaga nel marciume affaristico all’ombra del centrosinistra. E neppure ero andato a cercare voti a Cutro, a differenza di altri politici di Reggio Emilia.

Che ripercussione ebbe questa indagine?

L’attività principale del mio studio legale è la consulenza commerciale e societaria che, in premessa, necessita di un rapporto preferenziale e di piena fiducia con gli imprenditori, i colleghi, e gli istituti di credito. Grazie al cielo, data l’inconsistenza della gravissima accusa che mi era stata attribuita, la credibilità della stessa non ha minimamente intaccato o condizionato la mia attività. Le accuse infamanti che quotidianamente comparivano sui giornali mi avrebbero obbligato a dover giustificare ad ogni incontro quotidiano con aziende ed imprenditori piccoli e grandi le eclatanti argomentazioni contenute nei numerosi articoli di stampa. Ebbene a differenza di ciò che credevo, nessuno mai dubitato della mia innocenza.

Le indagini erano state condotte dal pm Marco Mescolini, poi promosso da Luca Palamara procuratore di Reggio Emilia.

Il dottor Mescolini ed i suoi colleghi dell’accusa mi hanno fatto perdere sette anni e mezzo di vita, con sofferenze famigliari incredibili, costi economici folli ed obbligandomi a correre da un tribunale all’altro, tranciandomi di netto senza alcun motivo un percorso di appassionato esponente della politica locale, il cui futuro mi vedeva in corsa per incarichi di prestigio a livello nazionale. Io da sempre rimarco che le ingiustizie compiute ed i danni subiti da questo vero e proprio accanimento sono molteplici. Ricordo solo che Mescolini in udienza aveva chiesto per me una condanna a 18 anni di reclusione dopo che il tribunale del riesame aveva annullato l’iniziale ordinanza di custodia cautelare.

Mescolini nel 2021 è stato poi rimosso dal Csm e trasferito a Firenze come sostituto.

Il clamore mediatico ha investito anche fatti occorsi quando il dottor Mescolini era pubblico ministero presso la Dda di Bologna essendo stata tratteggiata la figura di un magistrato che ha a cuore le sorti degli esponenti locali del Partito democratico”. Lo disse Nino Di Matteo.

Parole pesanti.

Il Csm accertò che Mescolini avesse chiesto ai suoi sostituti di non iscrivere nel registro degli indagati il sindaco di Reggio Emilia, e come avesse imposto il rinvio delle perquisizioni in Municipio per “non influenzare” le elezioni comunali del giugno 2019: infatti le perquisizioni erano avvenute quattro giorni dopo la conferma del sindaco Luca Vecchi.

Bernini, anch’egli assolto da ogni accusa, ha chiesto che vengano riaperte le indagini di Aemilia e si faccia luce sugli esponenti del Pd emiliano, mai sfiorati dall’inchiesta. Questa settimana ha avuto un incontro con il procuratore di Bologna Gimmi Amato.

Non penso sia possibile, è passato troppo tempo. Però, chissà…

Paolo Comi

Il Lazio.

Roma.

Ostia.

Roma.

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per “il Fatto Quotidiano” il 9 settembre 2023.

[…] L’altroieri il governo annuncia l’ennesimo giro di vite da grida manzoniana: manette più facili, pene più alte, divieti assortiti fra cui quello credibilissimo di usare il telefono, multe, Daspo, ammonimenti, revoche di patrie potestà e altre trovate “securitarie” (quelle che spacciano per sicurezza nei fatti la rassicurazione a chiacchiere). 

Il tutto riservato ai minorenni: baby pusher, baby bulli, baby gang, baby delinquenti, baby doll, soprattutto se non condannati in via definitiva. Per i maggiorenni, purché ricchi e/o potenti e/o famosi, meglio se pregiudicati e detenuti, la pena massima resta il Parlamento.

O, per i più sfortunati che non possono più entrarci perché condannati a più di 2 anni, la libertà di girare e fare i loro porci comodi. Proprio mentre il governo partoriva la “stretta” per gli juniores, due bei seniores provvedevano a rammentarci come funziona la giustizia all’italiana. Uno è Denis Verdini, suocero del vicepremier Salvini, ex senatore berlusconiano e poi, per coerenza, filorenziano. 

Condannato in Cassazione a 6 anni e mezzo e in appello a 5 e mezzo per due bancarotte fraudolente, dovrebbe essere in galera. Ma nel 2021, dopo appena 91 giorni, il giudice di sorveglianza lo scarcerò d’urgenza da Rebibbia perché era un “soggetto particolarmente vulnerabile al contagio da Covid” e occorreva “tutelare in via provvisoria la sua salute”. Lo stesso contagio lo rischiavano gli altri 1.200 ospiti del carcere, ma non si chiamavano Denis né Verdini, dunque restarono dentro.

Da allora, il nostro eroe è ai domiciliari a Firenze, ma il Tribunale di sorveglianza gli concede di andare a Roma 3 volte a settimana per visite dentistiche (a Firenze, si sa, non esistono dentisti). E lui, già che c’è, nel tragitto incontra il sottosegretario Freni (leghista come suo genero), manager Anas e l’ex deputato e imprenditore pregiudicato Bonsignore. 

Cioè viola le pur generose prescrizioni per infilarsi – sostengono i pm – in nuovi traffici. Uno si aspetta che lo rimettano in carcere, come gli evasi normali. Invece lo indagano, ma rimane a casa sua.

L’altro è Salvatore Buzzi, già ergastolano per omicidio, poi graziato, ricondannato a 12 anni e 10 mesi definitivi per le corruzioni di “Mondo di mezzo”. Secondo calcoli e ricalcoli, dovrebbe star dentro fino al 2028. Invece è uscito dopo un solo anno: la Cassazione ha scoperto che, essendo alcolista, aveva iniziato la riabilitazione proprio sette giorni prima del verdetto definitivo; ergo il suo arresto fu illegittimo, perché non gli diede il tempo di chiedere di andare in comunità. 

Resta da capire cosa debba fare di più un povero delinquente Vip per finire in galera e restarci. A parte tornare bambino.

La questione immorale. Tommaso Cerno su L'Identità il 22 Settembre 2023.

Se non è questa una questione morale da aprire, beh significa che davvero la sinistra ha cambiato le sue parole d’ordine. Dice di sapere bene di aver sbagliato. E lo dice uno che sta in galera. Ma quella Mafia Capitale, su cui poi quella parola mafia è stata così tanto discussa, sembra avere dimenticato l’altro sostantivo: Capitale.

E così Salvatore Buzzi, uscito di prigione per un cavillo e già pronto in cuor suo a tornarci, muove uno j’accuse a quella politica che lo portava a bere la tazzulella e cafè e che poi se l’è data a gambe quando il processo è cominciato. Sissì, parliamo proprio di quel signore che aveva detto al telefono che i migranti fanno guadagnare più della cocaina. E a vedere in che stato sta messo il nostro Paese c’è proprio da credergli. E così in una intervista al giornalista Edoardo Sirignano, il Buzzi si toglie qualche sassolino.

E apre una questione mastodontica su di noi e sui processi. Non tanto quelli fatti, ma forse quelli che non si faranno mai. Porta due esempi che fanno accapponare la pelle. E lo dice così, come parla uno che ormai ha rinunciato a tutto. Dice che quando c’era lui in mezzo a quelle cooperative milionarie il convento era ricco e i frati erano poveri, mentre invece il caso Soumahoro ci mostra che i miliardi sono gli stessi, ma stavolta il frate è in Parlamento mentre povero è il convento. E ci racconta anche come lui si senta vittima di uno straordinario errore giudiziario a rovescio.

Eravamo in dieci imputati, 8 di noi hanno confessato, hanno ammesso davanti al magistrato di avere fatto proprio quello che la Procura ci contestava ma, dice ridendo, siamo stati assolti. Un palese errore della Giustizia. Che forse salvando loro evitava che qualche coperchio in più su quelle pentole piene di soldi che sono la storia di quegli anni oscuri della Capitale si scoperchiasse e mostrasse là dentro la faccia di qualche politico importante, di quella sinistra e di quel Pd che governava Roma, e che come racconta Buzzi improvvisamente non gli telefonava più-

Insomma, leggetevi l’intervista qui a fianco. Che cosa ci dice davvero Salvatore Buzzi. Una cosa banale quanto grave. Noi non abbiamo fatto chiarezza su Mafia e su Capitale.

Noi non siamo arrivati fino in fondo a questo racconto. Noi ci siamo fermati in superficie, quando un pezzo di Paese era contento per avere ottenuto dei colpevoli e forse un altro pezzo di Paese sospirava sapendo di essersela cavata. È proprio al centro di questo ponte tibetano fra una sponda e l’altra della Giustizia, l’accusa che diventa condanna, che bisogna guardare mentre si cammina. Perché se la capitale d’Italia è stata davvero incastrata in un sistema di guadagni facili e di crimini è difficile immaginare che nessuno lo sapesse.

Buzzi: “Corrotto dalla sinistra, intanto Soumahoro è in Parlamento”. Edoardo Sirignano su L'Identità il 22 Settembre 2023.

“Sto pagando per essermi fatto corrompere da quella sinistra che prima mi ha utilizzato e oggi non mi vuole più sentire. Posso dire, però, che nelle mie cooperative il convento era ricco e i frati poveri, non come invece accade in quelle cooperative vicine a Soumahoro”. A dirlo Salvatore Buzzi, qualche giorno fa uscito dal carcere. E’ forse il nome più noto dell’inchiesta che sconvolse Roma, quella Terra di Mezzo che mise sotto i riflettori della magistratura il sistema delle cooperative e i suoi rapporti con la politica. E creò un terremoto nel sistema dell’accoglienza. Buzzi non parlava da anni e accetta di farlo con L’Identità.

Quali le sue condizioni di salute?

Sta un po’ ammaccato perché si è fatto undici mesi e sei giorni di ingiusta detenzione. Lo ha detto la Cassazione, aprendomi la strada a un’eventuale richiesta di risarcimento danni. Trovandomi in una comunità per curarmi dall’alcolismo dovuto alle varie depressioni, non potevo essere arrestato. La normativa non lo prevede. Sono, invece, stato mandato in carcere per un incidente di esecuzione. Sono dovuto arrivare fino in Cassazione per avere ragione. Questo vuol dire che la giustizia con me è stata a dir poco sopra le righe. Avevo diritto a una sospensiva che non mi è stata data, mentre a tutti gli altri diciannove imputati in quel famoso processo è stata concessa.

Qual è la sua giornata tipica?

Sono fuori da pochissimi giorni. Sono stato scarcerato il 6 settembre. Entro pochi giorni andrò in una comunità per curarmi dalle mie dipendenze. La giornata tipica di Buzzi è girare fra comunità, avvocati e salutare amici. È come se stessi vivendo un lungo permesso premio.

Nel libro di Baccolo ha deciso di raccontare la sua verità. Perché ha sentito quest’esigenza?

Ho detto per la prima volta la verità nel 2015, durante gli interrogatori. L’ho ridetta, poi, nel 2017, in occasione del processo. Le varie udienze possono essere ascoltate su Radio Radicale. È tutto registrato. L’ho ridetta nell’appello del 2021. Ho più volte provato a raccontare qualcosa di scomodo, tanto che quattro editori hanno rifiutato il libro di Baccolo. Abbiamo, poi, trovato per fortuna la Bussola che ci ha permesso di pubblicare quanto realmente successo. Il libro è uscito il 6, lo stesso giorno della mia inaspettata scarcerazione.

Buzzi, intanto, è conosciuto per essere l’uomo delle cooperative. Negli ultimi mesi abbiamo visto diversi scandali, come quello legato alla famiglia del deputato Soumahoro. Che idea si è fatto rispetto a tutto ciò?

Le mie cooperative erano amministrate benissimo, tanto è vero che non è stato trovato nessun reato fiscale, nessun omesso versamento di contributi, nessun mancato pagamento di stipendio. Hanno trovato soltanto tante corruzioni, che mi hanno addossato perché ho assunto delle persone su segnalazione dei politici.

Da dove arrivavano queste segnalazioni?

Tutte dalla sinistra. La mia casa madre era quella.

I signori, che a suo dire, prima la chiamavano per pagarle quotidianamente il caffè, adesso sono interessate alla sua salute?

Non mi ha chiamato nessuno di loro. Quando, invece, servivo il mio telefono squillava ogni secondo. Nella sconfitta, purtroppo, ognuno di noi resta sempre solo. Io, però, nemmeno cerco questi signori. Mi è dispiaciuto solo tanto che quelli del Pd non mi abbiano difeso dall’accusa di Mafia. Buzzi ha dato dei soldi, avrà corrotto qualcuno, ci può stare. Come fai, però, a non difendere chi è cresciuto insieme a te dall’accusa di criminalità organizzata? In questo modo avrebbero pure aiutato Pignatone a non fare una bruttissima figura.

Ciò non significa che Buzzi non vuole pagare per i reati commessi?

Io sono l’unico in Italia che ha preso dodici anni e dieci mesi per corruzione. Impossibile trovarne un altro. L’avvocato Amara, che ha corrotto magistrati, ha patteggiato a tre anni e mezzo.

Nonostante questo, però, ammette di aver sbagliato?

Assolutamente! Mi dispiace, però, che altri soggetti, che hanno sbagliato come me, non sono stati nemmeno inquisiti, ma archiviati. Questa è la giustizia in Italia.

Adesso è al governo il centrodestra. Nordio riuscirà a fare la tanto discussa riforma?

No! Vedo un governo, purtroppo, sempre più giustizialista. Mi stupisco di Nordio. Sono quaranta anni che scrive contro le cose che sta facendo. Oggi ha introdotto l’omicidio nautico. Tra poco introdurremo quello con le vacche, con i cani? Già c’è quello colposo, quello stradale. A cosa serve l’ennesima inutile novità? Siamo di fronte a un governo che si esprime sulla sicurezza solo con gli aumenti delle pene. La riforma della giustizia? Volevano eliminare l’abuso d’ufficio e il traffico di influenze, ma poi si sono spaventati con due o tre starnuti del Fatto Quotidiano. Non capisco dove si vuole andare. Nordio è stato un grande magistrato e lo ripeterei mille volte. Fa, però, delle cose che ha sempre criticato quando scriveva sul Messaggero.

In Italia, però, diversi sono coloro che si professano garantisti…

Quello vero lo fa solo Sansonetti. Tutti gli altri sono a senso unico, cioè se toccano l’amico sono garantisti, mentre se a essere colpito è il nemico non lo sono più. Lo abbiamo visto sul caso Soumahoro, pur non avendo niente da condividere con questo soggetto.

Ha conosciuto quelle cooperative?

Per fortuna non avevo niente a che dividere con quel mondo. Tra noi, allora, circolava un detto di Rino Formica, ex ministro socialista degli anni Ottanta: convento ricco e frati poveri, ovvero Buzzi. Lì, invece, accadeva l’esatto contrario: il convento era povero e i frati ricchi. Non a caso quando ci sono stati gli arresti relativi a Mafia Capitale la Cooperativa aveva un patrimonio da 30 milioni di euro, mentre io sono stato trovato con poche cose.

Buzzi, intanto, continua a pagare la sua pena, mentre altri girano tranquillamente?

La moglie di Soumahoro e soprattutto la suocera, artefice di quel disastro, è a piede libero.

Quando ha visto sui giornali tutte queste vicende, come Qatargate, cosa ha pensato?

Eva Kaili è una mia eroina. Accusata ingiustamente, si è difesa, ha fatto il carcere e non gli hanno fatto vedere la figlia. Il tutto mentre il figlio del magistrato che inquisiva faceva affari con la figlia di Arena, eurodeputata socialista, che non ha fatto nemmeno un giorno di carcere. Anche lì ci troviamo di fronte a qualcosa di anomalo. Hanno arrestato Kaili, Panzeri, però, guarda caso, non hanno toccato Arena.

Cosa è cambiato nella capitale rispetto a quello che era il mondo di Buzzi?

A mio parere, non è cambiato nulla. I problemi di Roma sono gli stessi e sempre gli stessi rimarranno. Con queste parole, ho detto tutto.

La vittoria del centrodestra alla Regione Lazio può segnare una svolta?

Spero che Rocca, che ho conosciuto personalmente, riesca a fare riforme utili. Stiamo parlando di una persona molto competente, essendo stato un manager del sociale. La Regione è un mostro di burocrazia, una macchina difficile da governare. Vediamo cosa riuscirà a fare questo presidente.

L’Italia, intanto, vuole sapere la verità sul mondo sommerso di Roma…

Anche io sono ancora curioso di sapere come finisce questo film. Ho ancora quattro anni e mezzo di pena da espiare. Non ho mai contestato la sentenza, anzi la rispetto. Sono curioso di capire se il libro scritto da Baccolo verrà pubblicizzato e soprattutto se la gente sarà curiosa di conoscere quanto è successo. Così si capirà uno bello spaccato dell’Italia…

Può anticipare qualcosa?

Eravamo in dieci imputati, in otto abbiamo confessato e ci hanno assolto tutti. Anche io! Questo vale più di mille dichiarazioni! Perché? È la domanda che dovrebbero porsi tutti quelli che oggi commentano questa storia.

Le accuse di Buzzi i silenzi del Pd i dubbi di Schlein. Rita Cavallaro su L'Identità il 23 Settembre 2023 

Parla Salvatore Buzzi e il Pd romano tace. Perché tanto la narrazione del ras delle cooperative di sinistra, travolto dal terremoto giudiziario di Mafia Capitale, ormai è storia vecchia, minimizzata con un’abile strategia della comunicazione e relegata a livello “cazzaro”. Così, dietro un veltroniano “si scherza, ma anche no”, i dem capitolini continuano ad evitare di affrontare la questione morale che l’inchiesta sul Mondo di mezzo, nel 2014, aveva reso palese con gli arresti illustri, le mazzette, gli affari d’oro sugli immigrati che ormai rendono più della droga. Da sinistra a destra, il sistema corruttivo dei politici a libro paga di Buzzi è stato messo nero su bianco nelle decine di migliaia di pagine del processo che, alla fine, ha fatto cadere l’accusa di mafia e ha lasciato così com’era la Capitale. Con un colpo di spugna, in Campidoglio hanno semplicemente cancellato dalla banca dati degli appalti la cooperativa 29 giugno di Buzzi e hanno puntato su altri cavalli, provenienti sempre dalla stessa scuderia, quella della sinistra.

Che corrono e vincono le corse capitoline finché non arriva un giudice a fermare la gara, perché le irregolarità sono così evidenti da non poter volgere lo sguardo altrove. E allora torna alla ribalta la questione morale, che deve essere difficile da perseguire se ogni due per tre scoppia lo scandalo, se perfino la famiglia del deputato con gli stivali Aboubakar Soumahoro guadagna centinaia di migliaia di euro sulla pelle dei migranti, con un giro d’affari di 65 milioni di fondi pubblici per i centri di accoglienza e più di due pagati da Roma Capitale dal 2016 sui conti della Karibu, la cooperativa della suocera Maria Therese Mukamitsindo, nella cui gestione era coinvolta anche la moglie di Soumahoro, Liliane Murekatete. Uno scandalo che ha campeggiato sui giornali per un paio di settimane, un fascicolo aperto alla Procura di Latina, poche decine di migliaia di euro sequestrati e nulla di più. “La moglie di Soumahoro e soprattutto la suocera, artefice di quel disastro, è a piede libero”, ci ha detto in esclusiva Buzzi, il compagno-corruttore abbandonato da tutti, che guarda con amarezza al doppiopesismo nei confronti del compagno con gli stivali seduto invece in Parlamento. Ma non si tratta di un gesto ad personam, di chi è più bravo o più simpatico al partito, piuttosto di una questione di opportunità. Di fingere che non sia successo nulla, di incedere sulla scia del meme “a mia insaputa” o, male che vada, di negare sempre, anche di fronte all’evidenza, per tutelarsi da possibili coinvolgimenti finanche morali e salvaguardare un partito che già ha fin troppi problemi.

D’altronde le correnti che infestano il Nazareno si riflettono anche nel Pd romano, dove il sindaco è fantasma soltanto per i cittadini, che si trovano con una Capitale allo sbando, ma resta attivo sulla scacchiera dem nella partita per la corsa al potere. Roberto Gualtieri, seppure espressione di una fronda minoritaria rispetto alle altre due anime che seguono la linea della segretaria Elly Schlein, ha un peso importante legato non solo al suo ruolo apicale in Campidoglio, ma anche all’amicizia di lunga data con colui che è considerato l’altro sindaco di Roma, Claudio Mancini. Il primo cittadino, inoltre, è inserito nel polo di Stefano Bonaccini, il maggior competitor di Elly, tanto che sta portando avanti progetti in netta contrapposizione con la visione della segretaria. Primo tra tutti il mastodontico inceneritore per i rifiuti della Capitale, un’opera che Gualtieri deve realizzare a tutti i costi per dimostrare l’azione celodurista all’interno della Federazione romana del Pd e conquistare quello che, fin dall’inizio, è l’obiettivo primario del sindaco, ovvero la completa autonomia del suo ufficio capitolino da quelli che sono i dettami del Nazareno. Un modo per smarcarsi anche dai vecchi compagni delle amministrazioni del passato, quelli che sono sopravvissuti indenni e silenti agli scandali di Mafia Capitale, i cui tentacoli avevano lambito perfino la Regione Lazio guidata all’epoca da Nicola Zingaretti.

La cui posizione venne archiviata nell’inchiesta, nonostante gli attacchi che Buzzi continua a rivolgere all’ex segretario del Pd. Zingaretti, seppure siede in Parlamento, è riuscito a prendere in mano la segreteria romana del partito, che il 12 luglio scorso ha eletto a capo Enzo Foschi, uomo vicino all’ex governatore. Della scuderia di Zingaretti anche Nicola Passanisi, che ha ottenuto l’incarico di tesoriere e che, dopo una serie di attacchi arrivati dalle anime di base riformista del suo stesso partito, poiché aveva assunto anche il ruolo nel cerimoniale della Regione Lazio a traino centrodestra con il presidente Francesco Rocca, si è dimesso. Non per incompatibilità legale o amministrativa, ma perché quel doppio ruolo con un piede a destra e uno a sinistra rappresentava un’inopportunità politica. Restano infine i nodi da sciogliere nei rapporti di forza tra il Pd romano e quello laziale del nuovo segretario Daniele Leodori, uomo forte di Dario Franceschini e di quell’area dem che vede in Elly Schlein il futuro della sinistra.

Mafia Capitale, il ras delle coop Buzzi torna libero: ecco cosa è successo. La scarcerazione è legata ad un provvedimento della Cassazione che definito illegittimo l’ordine di esecuzione del suo arresto. Deve scontare ancora 5 anni di pena. Orlando Sacchelli il 7 Settembre 2023 su Il Giornale.

Il ras delle coop romane Salvatore Buzzi, coinvolto nell'inchiesta su "Mafia Capitale" e in seguito condannato, torna in libertà. Da un anno circa era detenuto nel penitenziario di Catanzaro.

La sua scarcerazione, come riferiscono alcune fonti della difesa, giunge dopo un provvedimento della Cassazione che ha giudicato illegittimo l'ordine di esecuzione di arresto. Da qui la scarcerazione, disposta dalla Corte d'Appello di Roma e della Procura generale.

Le difese hanno trenta giorni di tempo per chiedere al tribunale di sorveglianza di Roma la misura alternativa dell'affidamento terapeutico per Buzzi, che dovrebbe scontare ancora circa cinque anni.

L'arresto era scattato nella tarda serata del 30 settembre 2022, a Lamezia Terme (Catanzaro), eseguendo un ordine di carcerazione emesso dalla Procura generale di Roma dopo che la Cassazione aveva reso definitiva la condanna (a 12 anni e 10 mesi) per associazione per delinquere, corruzione, turbata libertà degli incanti e trasferimento fraudolento di valori.

La Cassazione aveva confermato le condanne a 10 anni di reclusione per l’ex Nar Massimo Carminati e a 12 anni e 10 mesi per Salvatore Buzzi, ex ras delle cooperative.

Una vita turbolenta, poi il riscatto

Nato a Roma il 15 novembre 1955, di umili origini, si mette nei guai ben presto rubando assegni dalla banca in cui era impiegato. Ricattato da un suo complice, Buzzi il 26 giugno 1980 lo uccide a coltellate. Insospettabile, verrà incastrato da una macchia di sangue nella sua auto. Viene condannato a trenta anni di carcere. Dietro le sbarre, detenuto a Rebibbia, compie un percorso di riscatto: si laurea (è il primo carcerato in Italia a raggiungere tale obiettivo) e lavora come bibliotecario. Nel 1984 con altri detenuti organizza un convegno sulla situazione carceraria in Italia. Si mette in luce per un intervento, ricevendo gli elogi di autorevoli esponenti del Pci (Stefano Rodotà e Luciano Violante). Pena ridotta a 14 anni e 8 mesi, continua ad essere attivo nell'organizzazione di eventi sui problemi dei detenuti. Tra condoni, indulto e altri sconti di pena, alla fine trascorre dietro le sbarre sei anni, altri due in semilibertà e un anno e mezzo in libertà condizionata. Nel giugno 1994 ottiene la riabilitazione. Nel frattempo continua a lavorare nel mondo delle cooperative sociali, legate al mondo della sinistra, in cui si è lanciato a partire dal 1985. Si è occupato di business molto reditizzi, quali la raccolta dei rifiuti e l'accoglienza degli immigrati, arrivando a fatturare 60 milioni l'anno. Dal 1994 gli vengono assegnati diversi appalti grazie alle amministrazioni di Francesco Rutelli e di Walter Veltroni.

L'arresto per Mafia Capitale

ll 3 dicembre 2014 Buzzi viene arrestato nell'ambito dell'inchiesta Mafia Capitale. Con lui in carcere finiscono anche Massimo Carminati, considerato il capo del sodalizio, e altre 35 persone. Per gli inquirenti Buzzi tramite la cooperativa "29 giugno" avrebbe distratto ingenti somme di denaro per sé e i suoi sodali. L'inchiesta tentò di fare luce sulle infiltrazioni criminali nella Capitale, tra politica, imprese e istituzioni, attraverso un sistema ben oliato di corruzione volto a ottenere appalti e finanziamenti pubblici dal Comune di Roma e dalle aziende municipalizzate. Condannato a 19 anni di reclusione dal tribunale ordinario di Roma, la corte di appello nel settembre 2018 riduce la pena a 18 anni e 8 mesi, riconoscendogli il reato di associazione di stampo mafioso. La Cassazione il 22 ottobre 2019 ha annullato l'aggravante mafiosa a carico degli imputati, riconoscendo due distinte associazioni "semplici": quella riconducibile a Carminati e quella riferita a Buzzi. Gli sono stati concessi i domiciliari.

«In carcere illegittimamente». Torna libero Salvatore Buzzi. Processo Mondo di mezzo, Buzzi era finito in cella prima che gli atti venissero inviati al magistrato di sorveglianza per valutare la liberazione anticipata: ora servirà un nuovo procedimento. Valentina Stella su Il Dubbio il 7 settembre 2023

«Salvatore Buzzi per un anno è stato illegittimamente in carcere e qualcuno ovviamente dovrà rispondere di questa violazione»: queste le dure parole dell’avvocato Alessandro Diddi in merito alla scarcerazione avvenuta ieri del suo assistito, difeso insieme alla collega Annaisa Garcea. Ripercorriamo la vicenda: il 29 settembre dello scorso anno, l’uomo, condannato nel processo “Mondo di mezzo” e non più “Mafia Capitale”, fu arrestato e tradotto in prigione a Catanzaro dai Carabinieri del Ros, col supporto in fase esecutiva del gruppo Carabinieri di Lamezia Terme (Catanzaro), a seguito di un ordine di carcerazione emesso dalla Procura generale di Roma dopo la pronuncia della Corte di Cassazione, che rese definitiva la condanna a 12 anni e 10 mesi per associazione per delinquere e corruzione. I militari lo andarono a prendere all’una di notte presso una comunità terapeutica dove si era fatto ricoverare per problemi di alcolismo e tutti i tg notturni aprirono con questa notizia: almeno Buzzi, visto che Carminati era in libertà, tornava in carcere, altrimenti tutto quel processo a che era servito? Buzzi al tempo doveva ancora espiare una pena residua di 7 anni e 3 mesi. Rispetto a questa decisione i legali presentarono ricorso in Cassazione.

Come ci ha spiegato il suo legale Alessandro Diddi, «secondo l’articolo 94 del d.P.R. 9 ottobre 1990 Buzzi poteva scontare la pena in comunità terapeutica. La procura generale della Corte di Appello di Roma aveva il dovere di valutare questa situazione invece, in maniera del tutto affrettata, appena arrivò la decisione della Cassazione emise immediatamente l’ordine di carcerazione per il mio assistito, invece di sospenderlo. Alla notizia fu subito dato ampio spazio in tutti i tg della notte. Era necessario far vedere che uno dei due principali condannati – visto che Carminati è libero - andasse in prigione dove aver montato tutto quel processo». Infatti, come leggiamo nella sentenza della Cassazione, «ai sensi dell’articolo 656 cpp, il pubblico ministero, chiamato a curare l’esecuzione delle pene detentive brevi, deve, contestualmente all’ordine di esecuzione, adottare un decreto di sospensione, assegnando al condannato il termine di trenta giorni per valutare la proposizione di richiesta di ammissione ad una o più misure alternative».

Cosa che invece non è avvenuta: «Noi abbiamo fatto ricorso per Cassazione, eccependo la violazione della legge processuale per avere la Corte di Appello omesso di considerare che l’atto impugnato è stato emesso in spregio al disposto dell’art. 656 cpp, che avrebbe imposto, tra l’altro, al pubblico ministero, prima di emettere l’ordine di esecuzione, di trasmettere gli atti al magistrato di sorveglianza al fine di provvedere all’eventuale applicazione della liberazione anticipata». Come sappiamo adesso, «la Cassazione ci ha dato ragione», dice Diddi. La sentenza è del 26 aprile, ma le motivazioni solo di qualche giorno fa, per questo l’uomo ha lasciato il carcere calabrese due giorni fa per tornare da sua moglie a Roma. Intanto però – conclude l’avvocato - «l’uomo per un anno è stato illegittimamente in carcere e ovviamente dovrà rispondere di questa violazione».

Ora il nuovo procedimento in un’altra sezione della Corte di Appello servirà a stabilire se Buzzi potrà continuare a scontare la pena in ambiente terapeutico. La scarcerazione arriva in contemporanea alla chiusura per andare in stampa del libro intervista sulla storia di Salvatore Buzzi curata da Umberto Baccolo dal titolo “Mafia Capitale - La gara Cup del Pd di Zingaretti”, edito da “la Bussola” con contributi di Sergio D'Elia (Nessuno Tocchi Caino), Tiziana Maiolo, Otello Lupacchini e Vittorio Sgarbi.



 

Ostia.

Salvatore Giuffrida per repubblica.it il 7 gennaio 2023.

Montano le proteste a Ostia per Usr-Suburra eterna, la nuova fiction della serie Suburra prodotta da Cattleya per Netflix: le riprese iniziano lunedì fino al 23 febbraio fra l'Idroscalo e Ostia Nuova. Molti chiedono a Netflix di bloccare la "gogna mediatica e facili etichettature su mafia e Ostia": è sufficiente fare un giro sui social o fare un giro per le strade.

 "Dopo il commissariamento per mafia è sempre la stessa storia, siamo ormai etichettati e queste fiction contribuiscono ad alimentare questa immagine che si vuole dare ma è sbagliata", spiega Mattia Petrini, 33 anni, figlio di Roberto titolare dello stabilimento balneare La Nuova Pineta-Pinetina e figura di spicco nel panorama imprenditoriale del litorale. "Non sono io la persona preposta a dire se a Ostia c'è la mafia: noi siamo cresciuti con l'idea che la mafia fa un certo tipo di azioni, che a Ostia sono circoscritte a realtà delinquenziali che ci sono in ogni parte d'Italia".

Sui social l'associazione Il Marforio chiede di stoppare la gogna mediatica della fiction: "la serie tv infanga il nome di Ostia e i suoi cittadini: conosciamo quanto la serie Suburra, e il precedente film di Stefano Sollima, danneggiò l'immagine di Ostia: ci descrissero come un territorio di mafia, in balia di guerre intestine tra clan: la serie televisiva di Netflix romanzò una realtà amplificata all'ennesima potenza per catturare ascolti facili. In una chirurgica operazione di marketing per portare soldi a Netflix, in quasi ogni scena si è messa in atto una macchina del fango contro Ostia e i suoi cittadini. Una gogna mediatica cui nessun sindaco - o sindaca - si è mai opposto".

 Le riprese saranno girate soprattutto fra via dell'Idroscalo e via degli Aliscafi: stesso cast della serie Suburra, tra cui Filippo Nigro e Giacomo Ferrara nel ruolo di Spadino. Del resto Ostia è stata il set naturale di Amore Tossico, film girato nel 1983: erano gli anni delle siringhe ancora sporche di sangue infilzate sulle cortecce dei pini di Ostia e Claudio Caligari, oggi chiamato "il maestro", non lo girò con attori professionisti ma con persone tossicodipendenti di Ostia Nuova, adesso quasi tutti deceduti.

Furono forti negli anni successivi le polemiche sulle facili etichette, ma adesso il film è considerato un capolavoro del cinema neorealista. Dopo il commissariamento per mafia e le inchieste sulle collusioni fra clan, amministratori municipali, politici e colletti bianchi di Ostia, il rapporto fra Ostia e mafia è una ferita aperta. Ma in molti riconoscono il problema e si oppongono alle critiche a Suburraterna.

 "Almeno si muove l'economia - spiega Alberto in un bar del centro - il problema è che a Ostia la mafia c'è perché esiste, non perché girano i film". La politica non chiederà a Netflix di stoppare la fiction. "Il problema di Ostia non sono queste fiction che portano indotto ed economia ma la mala politica che non tiene conto delle esigenze del territorio come rifiuti, trasporto e sanità", spiega Giuseppe Conforzi, capogruppo di Fratelli d'Italia in consiglio municipale.

La Campania.

Mario Landolfi.

Nicola Schiavone.

Luciano Mottola.

Mario Landolfi.

Gasparri: «Condannarono Landolfi solo per non sconfessare un pentito». Secondo il parlamentare azzurro, il politico che aveva fatto parte del terzo governo Berlusconi sarebbe vittima di una sentenza «pro collaboratore di giustizia». Errico Novi su Il Dubbio il 3 novembre 2023

Mario Landolfi, oggi, potrebbe essere una prima linea del governo di Giorgia Meloni. Non è un’ipotesi fantasiosa. Alla premier va riconosciuto l’impegno nel valorizzare le figure che, negli ultimi trent’anni, hanno scritto la storia della destra, prima in An, poi nel Popolo delle libertà e quindi in Fratelli d’Italia: da Ignazio La Russa ad Alfredo Mantovano fino al ministro delle Imprese Adolfo Urso. A Landolfi – che come gli altri è stato parlamentare di lunghissimo corso e che ha ricoperto anche un incarico di titolare delle Comunicazioni nel Berlusconi III – certamente sarebbe stato attribuito un ruolo importante.

Ma Landolfi è stato schiacciato dal tritacarne giudiziario. E dunque escluso irreparabilmente dalla politica. Con un effetto pietrificante pazzesco: perché le controverse vicende penali dell’ex parlamentare hanno origine da un’indagine della Dda partenopea del 2007, in cui vengono ipotizzate nei suoi confronti le accuse di corruzione e truffa aggravate dall’articolo 7, cioè dal fine di agevolare un’organizzazione mafiosa; una traiettoria che si conclude dopo 15 incredibilmente lunghi anni, il 4 marzo 2023, quando la Cassazione dichiara inammissibile l’ultimo ricorso di Landolfi, e ne rende così definitiva la condanna – che però nel frattempo si era ridotta a 2 anni con sospensione condizionale e col beneficio della mancata menzione nel casellario giudiziario – riferita non a un reato aggravato dall’agevolazione dei casalesi, ma al concorso in corruzione semplice di un consigliere comunale di Mondragone. Quindici anni di vita paralizzata, di carriera politica irreparabilmente distrutta, per una vicenda dal rilievo insignificante rispetto al quadro di partenza.

Ma non sarebbe questa incomprensibile stroncatura l’aspetto più significativo nella storia giudiziaria di Landolfi. A pensarlo è Maurizio Gasparri, altro esponente, nel ventennio berlusconiano, di quel drappello di politici di An, e che tuttora è attivissimo come senatore dell’attuale maggioranza. Ebbene, Gasparri è convinto, come si legge in un’interrogazione rivolta lo scorso 12 ottobre dal parlamentare forzista al guardasigilli Carlo Nordio, che «il tortuoso iter logico- argomentativo seguito dai giudici di 1° grado per emettere la sentenza» nei confronti di Landolfi « abbia come fine esclusivo la preservazione della credibilità del collaboratore di giustizia, impegnato come teste anche in altri processi istruiti dalla procedente Dda, nonostante le vistose falle del suo narrato».

Il teste a cui si riferisce Gasparri è il solo accusatore di Landolfi: si tratta di Giuseppe Valente, lui sì condannato per reati aggravati dal fine di agevolare la camorra ed ex vertice del Ce4, il consorzio costituito dai comuni della provincia di Caserta per gestire lo smaltimento dei rifiuti. Valente è stato un teste importante in processi di ben altro peso, nella cronologia della giustizia antimafia campana, a cominciare da quelli nei confronti di Nicola Cosentino. Ebbene, Gasparri ritiene che dietro la sentenza in cui è sopravvissuta una pur minima imputazione nei confronti di Landolfi vi sia un «obiettivo pro collaboratore di giustizia».

La pronuncia a cui fa riferimento l’interrogazione del parlamentare azzurro è quella con cui Landolfi, il 23 dicembre 2019, è stato condannato in primo grado. Si dirà: perché tutto dovrebbe dipendere da quella sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere se poi l’imputato Landolfi si è opposto fino al ricorso in Cassazione? Perché, come sostiene sempre Gasparri nella propria interrogazione, quella sentenza è stata sì riesaminata in Corte d’appello (a Napoli), ma in modo da confermare, nel 2022, il giudizio precedente «per relationem», cioè senza revisione delle prove. In Cassazione, come detto, non c’è stato alcun giudizio neppure sulla tenuta logica delle motivazioni alla base della condanna iniziale, giacché il ricorso di Landolfi si è infranto sul muro dell’inammissibilità.

Di certo, la tesi di Gasparri è molto pesante, ed è chiaro che solo un parlamentare nell’esercizio del sindacato ispettivo può permettersi di avanzare simili supposizioni nei confronti di un collegio giudicante. È impegnativa, la tesi di Gasparri, tanto più se si considera che, a fine interrogazione, il senatore chiede a Nordio di valutare se sussistano i presupposti per promuovere un’azione disciplinare a carico dei magistrati di Santa Maria Capua Vetere.

E quali sarebbero, per Gasparri, i segni che autorizzerebbero a ipotizzare una condotta dei giudici in contrasto con «gli articoli 27 comma 2 (presunzione d’innocenza) e 111 (giusto processo) della Costituzione» , nonché con il principio della «condanna “oltre ragionevole dubbio” ex art. 533 del Codice di procedura penale»?

Nell’ampia esposizione, il parlamentare di FI cita, fra le altre cose, l’inconsueta sequenza che ha segnato l’ultima fase del processo di primo grado a Landolfi: «La sentenza doveva essere emessa il 18 novembre 2019, ma in quella data, dopo sei ore di camera di consiglio, i giudici del Tribunale disponevano l’escussione ex articolo 507 del collaboratore di giustizia Giuseppe Valente, unico accusatore di Landolfi, nonostante già sentito in precedenza e nonostante l’acquisizione al dibattimento di ben 29 verbali di interrogatorio dallo stesso resi sull’identico tema in altri processi» , ivi incluso quello a Nicola Cosentino.

In effetti, è agli atti che il Tribunale ritenne come nella precedente escussione del pentito ci fossero state «più valutazioni conclusive che fatti puntualmente ripercorsi». Il punto è che i fatti non emersero con puntualità neppure dal nuovo esame del teste, compiuto in aula il 9 dicembre 2019. Anche in quel caso, sostiene Gasparri, le dichiarazioni di Valente furono «contraddittorie», segnate da una serie di frasi del tipo «io questo non lo ricordo e credo di non avergliene parlato», «non escludo di averglielo detto», «sinceramente non me lo ricordo». Insomma, la prova della condotta corruttiva di Landolfi non sarebbe venuta fuori. E secondo Gasparri, sarebbe proprio per questo che, nell’estendere la sentenza, si sarebbe deciso di «ignorare» quelle dichiarazioni e di «sostituirle con altre, provenienti dal processo Cosentino», che però, nelle motivazioni della condanna inflitta a Landolfi, risulterebbero, si afferma nell’interrogazione, «“amputate”».

E allora su cosa si reggerebbe la pur contenuta condanna a 2 anni per concorso materiale nella corruzione, risalente all’anno 2004, dell’ex consigliere mondragonese Massimo Russo? In una frase che la sentenza su Landolfi recupera non dall’esame bis, voluto come detto dagli stessi giudici in via eccezionale (il ricorso all’articolo 507 è molto raro, anche perché tende di fatto a riproporre la logica del giudice istruttore), ma appunto dalla testimonianza resa da Valente in un altro processo, contro Nicola Cosentino, in cui il pentito, si legge nella sentenza su Landolfi, disse «“credo ne avessi parlato anche con Landolfi”», ma dopo aver iniziato il periodo con la frase «no, di questa operazione l’unica persona che era informata era Nicola Cosentino. Ci mancherebbe. Perché in termini politici mi rapportavo direttamente con lui». Insomma, la richiesta a Landolfi di raccomandarsi per favorire Massimo Russo sarebbe, nella stessa dichiarazione, prima esclusa dal pentito e poi riproposta in forma comunque dubitativa. Ed è essenzialmente su questo che si basa una condanna per corruzione a carico di Landolfi ormai passata in giudicato. Una condanna che, col dispiegarsi della vicenda processuale per l’incredibile strazio di 15 lunghissimi anni, è costa all’ex ministro la carriera politica.

Nicola Schiavone.

Lo scandaloso caso del prof. Schiavone, un’odissea giudiziaria. Andrea Ruggieri su Il Riformista il 26 Ottobre 2023

Questa storia ha dell’incredibile. Perché, anche se ne sembra il remake, non è ‘Ricomincio da capo’, film in cui il protagonista Bill Murray si trova a rivivere sempre lo stesso giorno, senza progredire. Questa è la storia, per me assai scandalosa, di un professore, Nicola Schiavone, un professionista, un settantenne per bene, incensurato, che per il solo fatto di avere un cognome sbagliato, identico a quello di un boss, e di averlo a Casal di Principe dove appunto alligna il clan col suo stesso cognome, si trova nei guai anche se la magistratura gli ha riconosciuto, facendo indagini su di lui, il titolo di persona per bene.

Accade infatti che nell’aprile 2016, il celeberrimo, famigerato Francesco Schiavone, in arte Sandokan, detenuto nel carcere di Parma, venga registrato mentre è a colloquio con i suoi familiari. Nel chiacchierare con loro, dice che “da zio Nicola pretende un aiuto economico protratto nel tempo”. E chi e’ ‘zio Nicola’..?, si chiedono i magistrati che ascoltano. Forse Nicola Schiavone. Scatta quindi l’iscrizione del professore nel registro indagati per 416 bis. Roba pesante. Seguono necessarie indagini corredate di intercettazioni ed escussioni varie da parte della Dda di Napoli (la più grande d’Italia), per mano di un pool composto da tre magistrati. Tra loro, una certa dottoressa Graziella Arlomede, che concorre pienamente alle indagini stesse: accertamenti bancari, intercettazioni, collaboratori di giustizia, viene setacciato di tutto. Le indagini portano gli stessi pubblici ministeri a chiedere l’archiviazione sul professore perché’ -scrivono- “non c’è elemento in relazione al 416 bis o a altra ipotesi delittuosa”. Tradotto: il professore e’ pulito. Tutto e’ bene quel che finisce bene? Mica tanto. Perché’ la dottoressa Arlomede, nel frattempo, ha creato un procedimento identico a carico di Schiavone, procedimento gemello di quello che porta il pool che la comprende a chiedere l’archiviazione. Una sovrapposizione, quella tra i due procedimenti gemelli, che dura un anno e mezzo. Il reato? Lo stesso per cui ha chiesto l’archiviazione. Gli elementi di indagine? Gli stessi. I pentiti sentiti? Gli stessi. Una cosa folle, ma -si dirà- che porta allo stesso epilogo, no? Manco per niente. Incassata l’archiviazione per il primo procedimento, il professor Schiavone incassa la richiesta di rinvio a giudizio per quello gemello fondato sugli stessi fatti. Come dire che due più due fa quattro oggi, e cinque domani.

E questo, malgrado nel primo procedimento persino il cassiere del clan dei Casalesi avesse detto chiaro e tondo ai magistrati che il professore nemmeno sapeva chi fosse (e non parliamo di un passante, ma della persona che avrebbe dovuto ricevere il pagamento a nome del clan).

Insomma, un pool di magistrati che include la dottoressa Arlomede archivia il professor Schiavone, ma la Arlomede indaga di nuovo il pover’uomo, per gli stessi fatti, indizi e spifferi di collaboratori di giustizia che hanno portato a quella archiviazione e attribuisce al tutto una valenza opposta, su cui poggia addirittura una richiesta di custodia cautelare ai domiciliari, ovviamente cestinata dal Tribunale del Riesame di Napoli e definitivamente stracciata dalla Cassazione. Con il che, logica vuole che ci si domandi: ma e’ normale che una Dda sostenga contemporaneamente due tesi opposte? Sul fatto, e sulla condotta quantomeno bizzarra della dottoressa Arlomede, butterà un occhio il Csm, cui i difensori, increduli, del Professor Schiavone, si sono rivolti. ‘Ricomincio da capo’, a confronto, era una favoletta. Andrea Ruggieri

Luciano Mottola.

Dopo carcere e domiciliari, Riesame annulla tutto. Voto di scambio politico-mafioso, torna libero l’ex sindaco di Melito Luciano Mottola. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 5 Dicembre 2023

Dopo tre settimane in carcere e sette mesi agli arresti domiciliari, torna libero Luciano Mottola, l’ex sindaco di Melito coinvolto nell’inchiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli che lo scorso aprile portò il Gip Isabella Isaselli a firmare un’ordinanza nei confronti di Mottola e di altre 17 persone per scambio elettorale politico-mafioso (416 ter). Dopo le istanze presentate dal legale Alfonso Quarto, Mottola ottiene prima gli arresti domiciliari il 5 maggio scorso, poi il 20 ottobre la seconda sezione della Corte di Cassazione accoglie una nuova istanza presentata dalla difesa, rinviando tutto al Riesame.

Tribunale della libertà (decima sezione) che ieri, 4 dicembre, ha annullato l’ordinanza che disponeva i domiciliari, disponendo l’immediata liberazione di Mottola. In attesa del processo, finisce l’incubo per l’ex sindaco di Melito, nonché giornalista, coinvolto in una inchiesta (condotta dai pm napoletani Giuliano Caputo e Lucio Giugliano, sotto il coordinamento del procuratore Rosa Volpe) dove, nell’ordinanza di custodia cautelare, viene chiamato in causa da terzi, da imprenditori e pseudo politici coinvolti in una campagna elettorale caratterizzata da promesse economiche, posti di lavoro ma soprattutto, così come sempre più spesso accade in ogni angolo d’Italia, da fiumi di parole che lasciano il tempo che trovano.

Adesso sarà il Gip, il 15 dicembre prossimo, a valutare le richieste di abbreviato condizionato avanzate dai legali degli indagati. Mottola, ad oggi, è stato l’unico ad ottenere i domiciliari a tre settimane dal blitz e l’unico a tornare in libertà nelle scorse ore. “Siamo contenti” dichiara al Riformista il penalista Alfonso Quarto che resta concentrato sulle prossime tappe giudiziarie.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Denuncia irregolarità, subisce il 'furto' dei consiglieri, promette campetti di calcio nel rione popolare e finisce in carcere. L’arresto di Luciano Mottola: cosa non torna nell’inchiesta sul sindaco di Melito dove per i pm “tutto è camorra”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 21 Aprile 2023 

Per la Procura di Napoli tutto è camorra a Melito. E poco importa se il clan Amato-Pagano, dedito soprattutto alla droga e alle estorsioni e fortemente ridimensionato nell’ultimo decennio da centinaia di arresti, punta, ‘forte’ dei circa 150-200 voti che millanta di avere a disposizione sui quasi 7mila che hanno decretato l’ultima vittoria, sull’aspirante sindaco sbagliato, che perde al primo turno e non arriva al ballottaggio.

Poco importa se alcuni esponenti della coalizione perdente decidono di appoggiare al ballottaggio il candidato sindaco che già aveva già preso più voti di tutti al primo turno e, per di più, appartiene allo stesso schieramento politico (quello di centrodestra). Poco importa perché, secondo i dogmi giudiziari, il sindaco di Melito “è eletto grazie alla camorra” e la democrazia, nel comune a nord di Napoli di circa 38mila abitanti, è sospesa da anni perché “tu lo sai, quello non ci vuole niente a cadere… tu lo sai come si cade no? Basta che abbuscano due di loro”.

E’ quello che gli investigatori provano a far emerge nell’inchiesta che nei giorni scorsi ha portato in carcere il sindaco Luciano Mottola, 39 anni, eletto nell’ottobre 2021, e altre 15 persone (altre due sono finite ai domiciliari). Scambio elettorale politico-mafioso l’accusa mossa dai pm napoletani Giuliano Caputo e Lucio Giugliano, sotto il coordinamento del procuratore Rosa Volpe, al termine delle indagini condotte dalla Dia del capocentro Claudio De Salvo.

Una vicenda singolare quella di Mottola (che prima di dedicarsi alla politica lavorava come giornalista, salvo poi ritrovarsi massacrato dai media in questi giorni) chiamato in causa da terzi, da imprenditori e pseudo politici coinvolti in una campagna elettorale caratterizzata da promesse economiche, posti di lavoro ma soprattutto, così come sempre più spesso accade in ogni angolo d’Italia, da fiumi di parole che lasciano il tempo che trovano.

Un caso ancora più singolare perché Mottola, così come emerge dall’ordinanza firmata dal Gip Isabella Isaselli, si presenta dai carabinieri della Compagnia di Marano ben due volte nelle settimane che precedono il voto. Una prima il 23 luglio e una seconda l’8 settembre. Nelle denunce Mottola fa riferimento alle pressioni esercitate dal clan nei confronti di alcuni elettori residenti nel rione di edilizia popolare 219. Fornisce nomi di aspiranti consiglieri, appartenenti alla coalizione del candidato sindaco Nunzio Marrone (non indagato perché l’appoggio della malavita lo avrebbe ottenuto il padre a sua insaputa) e che frequentano bar e zone di “competenza” della criminalità organizzata. “I camorristi lo sapete dove stanno” facendo riferimento al rione 219 ritenuto sotto il controllo del clan guidato, secondo gli investigatori, da Salvatore Chiariello (all’epoca dei fatti contestati latitante), Vincenzo Nappi (ammazzato in un agguato nel gennaio 2023) e Giuseppe Siviero.

Lo stesso Mottola, così come anche la candidata del centrosinistra Dominique Pellecchia, prima della presentazione delle liste si vede sottrarre diversi candidati costretti con poca diplomazia (e a malincuore) a sposare il progetto di Marrone, l’aspirante sindaco sul quale avevano puntato i reduci del clan Amato-Pagano, o addirittura costretti a fare campagna elettorale per la coalizione avversaria nonostante fossero candidati nelle liste dello stesso Mottola.

Uno sponsor politico, quello del clan, così efficace che ha visto lo stesso Marrone (appoggiato da Forza Italia, Lega, la Lista del pm anticamorra Catello Maresca e da altre liste civiche) uscire di scena al primo turno, preceduto dalla coalizione di Mottola (Fratelli d’Italia e liste civiche) e di Dominique Pellecchia (Pd, Cinque Stelle e liste civiche).

Ma andiamo con ordine e proviamo a riepilogare, numeri alla mano, i dati delle elezioni dello scorso ottobre 2021, elezioni sulle quali erano accesi i riflettori della procura partenopea, allertata dalla denuncia dell’ex sindaco di Melito Antonio Amente, scomparso in ospedale per colpa del Covid, nell’ottobre del 2020 (un anno prima, ndr), quando l’allora primo cittadino del comune denuncia di essere stato avvicinato da due soggetti in sella a una moto, che gli hanno intimato di dimettersi, altrimenti “vi facciamo cadere”. Sindaco di cui lo stesso Mottola era vice

Al primo turno il candidato sposato dalla criminalità organizzata raccoglie un totale di 4.806 preferenze (26,2%), dietro alla coalizione Pellecchia (6.608 preferenze, 36,1%) e a quella di Mottola (6.910 preferenze, 37,7%). Al ballottaggio Marrone non si schiera apertamente per Mottola ma, con buona pace della camorra e dalla magistratura, chi vota a destra difficilmente al secondo turno cambia idea e passa dall’altra parte. Il risultato finale è il seguente: Mottola ottiene 6.738 voti, Pellecchia 6.351.

Ma l’attenzione di Procura e Dia, ed è qui che già si ridimensiona l’inchiesta e, soprattutto, il dogma della camorra che comanda la politica melitese, è rivolta ad appena due seggi, il 22 e il 24 di via Lussemburgo, ritenuti sotto l’influenza del clan.

Ebbene, numeri alla mano, al primo turno nei due seggi in questione Mottola raccoglie in totale 336 voti, Pellecchia 173 e Marrone 541. Al ballottaggio il trend cambia di poco: Pellecchia scende a 148 voti, Mottola sale a 372. Un margine di 224 preferenze (non il triplo delle preferenze come c’è scritto nell’ordinanza…). Voti persino ininfluenti visto il distacco finale di 387 preferenze rispetto alla rivale del centrosinistra.

Ma lo stesso Mottola, secondo la ricostruzione investigativa, risulta eletto grazie all’accordo con la camorra locale. Accordo che avrebbe ottenuto in vista del ballottaggio quando alcuni consiglieri (Luigi Ruggiero e Antonio Cuozzo, il primo candidato in una civica di Marrone con 256 voti finali, il secondo candidato con Forza Italia con 472 voti) si fanno avanti con persone che sostengono Mottola per trovare un accordo (anche economico) che però non viene cristallizzato nelle intercettazioni ottenute ‘grazie’ a un captatore, un virus spia, un trojan insomma, inoculato sul cellulare di Emilio Rostan, 76enne imprenditore padre dell’ex deputata Michela Rostan e tra gli sponsor elettorali della coalizione Mottola, e su quello di Luigi Ruggiero, il candidato al consiglio comunale che lascia le liste di Mottola per passare in quelle di Marrone e… perdere. Salvo poi ritornare alla carica e sognare un posto nello staff del sindaco, svegliandosi poi quando gli viene spiegato che non è prevista alcuna retribuzione. Lo stesso Ruggiero che chiama più volte in causa anche l’ex sindaco del centrosinistra Venanzio Carpentieri, facendo riferimento a fantomatici incontri in vista del ballottaggio, Incontri dove garantisce appoggio anche alla coalizione guidata da Pellecchia. Insomma candidati spregiudicati e pronti a fare il doppio gioco pur di ottenere qualcosa in cambio.

Quali sono le colpe di Mottola? Aver fatto campagna elettorale che, inevitabilmente, porta a parlare e dialogare con tutti? Andare a denunciare, con nomi e cognomi, alcuni episodi sospetti che avvenivano nelle palazzine popolari? Promettere ai residenti del rione 219 la realizzazione di campetti di calcio nel rione? Questa è politica o camorra? Questa è riqualificazione del territorio o voto di scambio? 

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

La Puglia.

Periodo antecedente l'omicidio di stampo mafioso del ragazzo di etnia rom. Nella relazione dell'antimafia i legami tra la malavita manduriana e le 'ndrine calabrese. La Redazione de La Voce di Mandurisa sabato 15 aprile

C’è ancora Manduria tra le 453 pagine della relazione del ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione investigativa antimafia. La criminalità della città Messapica, secondo la Distrettuale antimafia di Lecce che ha passato “gli appunti” al Ministero, presenta questa volta un consolidato collegamento con le ‘ndrine della ‘ndrangheta calabrese.

Si precisa che la relazione depositata l’altro ieri in Parlamento, si riferisce al periodo antecedente i gravi episodi criminali di stampo mafioso accaduti a Manduria (omicidio del diciannovenne di etnia rom con l’arresto di tre manduriani presunti autori del delitto e l’iscrizione sul registro degli indagati, ma estraneo all’omicidio, del cofondatore della Scu, Vincenzo Stranieri detto “Stellina”.

Riportiamo di seguito le parti della relazione della Dia in cui si parla di Manduria e di manduriani coinvolti in indagini per reati di mafia.

 «Un elemento del gruppo criminale, affiliato al clan Modeo (Walter, ndr) di Manduria , “rappresentava il punto di riferimento nella sistematica fornitura di sostanze stupefacenti nei confronti di taluni trafficanti dimoranti tra le province di Brindisi, Lecce e Taranto nonché in provincia di Reggio Calabria”. Tale soggetto “costantemente affiancato dalla convivente…… risultava in affari, mediante la fornitura di partite di eroina con alcuni personaggi vicini alla ‘ndrina Cua-Ietto-Pipicella, operante in Natile di Careri (RC)”. I profitti ottenuti con il traffico di droga erano stati oggetto delle pretese avanzate dalla frangia mesagnese della sacra corona unita “a titolo di compenso per il traffico di droga nel proprio territorio di competenza”.

A Manduria, prima della sua disarticolazione, operava il clan Stranieri il cui elemento di vertice è ritornato a risiedere in quel Comune dopo un lungo periodo di detenzione190. Riguardo all’operatività delle frange della sacra corona unita nel territorio di Manduria, si richiama il decreto di confisca191, per un valore di 500 mila euro, operato dalla DIA il 23 maggio 2022 a carico di un elemento condannato in via definitiva per associazione di stampo mafioso, traffico di stupefacenti, estorsione, ricettazione, nonché detenzione e porto illegale di armi. Il soggetto figura anche fra gli indagati dell’operazione “Impresa” che nel 2017 aveva documentato l’esistenza di una struttura criminale operante nel tarantino e nel brindisino, costituita da tre distinte ma collegate articolazioni attive nei Comuni di San Giorgio Jonico, Manduria e Sava, nonché capace di relazionarsi con le locali realtà istituzionali e, quindi, di infiltrarsi agevolmente nel tessuto economico-imprenditoriale dell’area»

Quella «mafietta» diffusa che alimenta la grande criminalità. Dalla Sicilia alla Puglia. Nella relazione della Dia, per l’anno 2022, si scopre che la mafia da noi c’è, è viva, fibrilla e si insinua nella pubblica amministrazione e «perfino» nella politica. ROBERTO CALPISTA su La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Aprile 2023.

C’è un tweet, molto provocatorio, lanciato da un giornalista, molto provocatore, all’indomani dell’arresto del boss Matteo Messina Denaro: «Ma è davvero un assassino?».

Travolto dalle critiche ha poi spiegato: «Se in un piccolo paese vive un assassino come Messina Denaro come mai nessuno, e dico nessuno, si è mai preoccupato di denunciarne la presenza? Rispondete alle mia domanda anziché polemizzare come deficienti».

Dalla Sicilia alla Puglia. Nella relazione della Dia, per l’anno 2022, si scopre che la mafia da noi c’è, è viva, fibrilla e si insinua nella pubblica amministrazione e «perfino» nella politica. Mafia foggiana, criminalità barese e sacra corona unita sono i tre macro scenari criminali presenti. E nella «tranquilla» Basilicata lo scenario si caratterizza per la presenza di sodalizi autoctoni a cui si aggiungono manifestazioni mafiose provenienti dalle regioni limitrofe con il Distretto di Potenza che, secondo il procuratore Curcio, quanto a grado di allarme sul fenomeno si colloca subito dopo quelli tradizionalmente controllati dalle mafie storiche, spinte dall’atavico elevato tasso di disoccupazione e dalle difficoltà economiche in cui versano le imprese e le famiglie, terreno fertile per i sodalizi criminali.

Puglia, terra di sole, mare e vento, campagne e paesi bianchi, grandi città e immense contraddizioni. C’è una tesi, molto discussa, ma purtroppo poco discutibile, per cui la criminalità, i sodalizi dei criminali nascono, trovano terreno fertile e nuove leve dove abbondano le ingiustizie. È il vociare popolare, spesso genuino, dell’Antistato che funziona e fa funzionare il territorio meglio dello Stato, senza inutile burocrazia, senza troppe storie, dove o si fa come deciso o ci si fa male. Basta conoscere le pieghe più nascoste delle nostre città, quelle meno visibili rispetto all’ex contrabbandiere, o al guappo di quartiere che sogna di diventare boss e resta invece un personaggio quasi da fumetto. Sono le «pieghe» in doppiopetto, le mille città nelle città. Della «normalità del male», che cozza contro una realtà che non è quella patinata che troppo spesso appare nelle cronache e nelle fiction televisive. Le facce oscure vengono nascoste, o meglio si nascondono nel vivere quotidiano e si confondono con esso, con confini tra il bene e il male che passano attraverso zone d’ombra sempre più ampie.

La Dia (direzione investigativa antimafia), fa il dovere per cui è stata creata: «La Provincia di Foggia è quella che in Puglia manifesta le più efferate forme di violenza e di aggressività al fine di affermare il controllo del territorio nonostante le incisive attività di contrasto delle forze di polizia e della magistratura». E ancora «i clan della sacra corona unita, anche nel Salento, farebbero sistematico ricorso a pratiche estorsive» e al cosiddetto «metodo mafioso ambientale». Mentre «la criminalità barese si conferma la mafia degli affari con avanzate strategie di investimento e spiccate capacità di insinuarsi all’interno degli enti locali condizionando i flussi economici, il libero mercato e l’attività della pubblica amministrazione. La criminalità organizzata a Bari evidenzia una struttura organizzativa di tipo camorristico».

Cancri che appaiono ancora troppo maligni per essere sconfitti e che anzi vegetano li dove al malaffare tangibile si unisce quello del «vasa vasa», del «tutt’apposto?», dei sotterfugi. C’è nefandezza e nefandezza, mafia e mafia. E non solo una non esclude l’altra, ma se unite sono più forti, invulnerabili, inattaccabili. Tavole ricche che generano briciole in grado di sfamare ampie fette della società. Non è la mafia che uccide, che minaccia, che taglieggia, che spaccia. Ma è quella del medico raccomandato dalla politica che viene assunto al posto del collega bravo. È la mafia dei contributi pubblici dati a casaccio, ma con un casaccio accuratamente «pianificato»; degli appalti e dei bandi che premiano i soliti e gettano sul lastrico chi non ha santi cui rivolgersi. È la mafia dei leccaculo che prima o poi qualcosa in tasca se la mettono, o dei concorsi pilotati che escludono spesso chi si prepara spargendo sudore sui testi, o di chi evade le tasse e la fa sempre franca, di chi nasce con il futuro spianato perché c’è sempre un favore da ripagare e se non c’è ci sarà, di chi fa business anche con le iniziative contro la mafia.

Una «mafietta» che è l’ossigeno delle grandi organizzazioni del male. Una «mafietta» talmente diffusa in Italia, e ancora di più nel Sud, che diventa stile di vita, consuetudine, costume per alcuni; rassegnazione per altri. E che quindi non sarà mai vinta.


 

La Basilicata.

Intercettazioni, inchieste antimafia, indagini sulla magistratura: parla il procuratore di Potenza Francesco Curcio. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 30 Gennaio 2023.

Francesco Curcio, classe 1956, un magistrato dalla faccia e dai modi gentili, quando c’è da fare il magistrato, non guarda in faccia a nessuno indagando su politici, imprenditori e magistrati. Dopo averlo criticato (è il nostro lavoro) senza alcuna motivazione preconcetta o astio personale lo abbiamo incontrato ed intervistato.

Francesco Curcio è a capo della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Potenza. Originario di Polla (Salerno), già magistrato della Procura Nazionale Antimafia, è stato in passato sostituto alla procura di Napoli. Ha indagato sulla P4, sulla compravendita dei senatori e su Finmeccanica, ed ha condiviso la titolarità di queste inchieste con il collega Henry John Woodcock. È stato anche titolare di indagini sui vertici dei Casalesi e sui rapporti tra il clan del boss Michele Zagaria e la Banda della Magliana nelle attività di riciclaggio. È stato uno dei pm del processo “Spartacus 3” che nel 2009 si chiuse con 50 condanne, pene per complessivi tre secoli di carcere e la confisca di numerosi beni nei confronti di presunti affiliati al gruppo del clan dei Casalesi.

La sua nomina nel 2018 era stata votato all’unanimità del Plenum del consiglio superiore della Magistratura, ma nel gennaio 2020 il Consiglio di Stato aveva annullato la sua nomina accogliendo il ricorso di Laura Triassi, che successivamente ha preferito farsi nominare a capo della procura di Nola. Insomma Francesco Curcio, classe 1956, un magistrato dalla faccia e dai modi gentili, quando c’è da fare il magistrato, non guarda in faccia a nessuno indagando su politici, imprenditori e magistrati. Dopo averlo criticato (è il nostro lavoro) senza alcuna motivazione preconcetta o astio personale lo abbiamo incontrato ed intervistato.

Adesso Curcio si è candidato alla guida della Procura di Napoli, incarico lasciato vacante lo scorso maggio da Giovanni Melillo salito al vertice della Direzione Nazionale Antimafia . Oltre a lui si sono candidati Giuseppe Amato, oggi a capo della procura di Bologna; Nicola Gratteri (procuratore capo a Catanzaro); Aldo Policastro (procuratore capo Benevento) e Rosa Volpe (procuratore aggiunto), che attualmente mesi è la reggente pro-tempore dell’Ufficio.

Procuratore in questi giorni si discute molto sull’importanza delle intercettazioni. Secondo buona parte della magistratura (e noi siamo dello stesso parere) sono fondamentali per un buon esito delle indagini contro il crimine organizzato, la corruzione politica e l’evasione fiscale. Non trova però che non sia giusto rendere di dominio pubblico intercettazioni sulla vita privata degli indagati, che non hanno alcuna valenza investigativa e tantomeno processuale ?

Ritengo quella sulle intercettazioni e sulla opportunità di restringerne l’ambito applicativo una polemica sciocca e di retroguardia, poiché, piuttosto che considerare l’interesse generale e, soprattutto, l’evoluzione del mondo intero negli ultimi 15 anni,  sembra guardare al passato,  mossa da una animosità determinata da vecchi rancori, da antiche dispute, da non sopiti interessi personali. La verità è che oramai in tutto il mondo la vita, la nostra e, sempre più, quella dei nostri figli e delle nuove generazioni, più che mutata si è rivoluzionata (forse senza che la nostra politica se ne sia accorta) poiché oramai i rapporti umani, sociali ed economici  – o comunque una loro parte essenziale –  le nostre relazioni private e pubbliche,  si svolgono sulla rete. Con  messaggi scritti e vocali sui diversi social,  le relazioni di qualsiasi genere (lecite ed illecite) si sviluppano sul web attraverso conversazioni, indicazioni, ordini, trasmissione di foto e documenti. Gli smartphone e ogni device, sono dunque divenuti  la nostra “scatola nera” e, dunque, “scatola nera” di tutti, anche chi delinque. E non solo, ovviamente di mafiosi e corrotti, o bancarottieri ed evasori, ma, solo per rimanere ad un tema su cui tutti hanno o mostrano di avere una accentuata sensibilità, anche di chi pratica minacce, stalking, violenze sessuali (anche e soprattutto contro minori) che per commetter questi illeciti pure comunica in rete ed utilizza il web. Gran parte di queste condotte illecite si realizzano sulla rete o comunque lasciano traccia sulla rete, passano sui messaggi scritti e vocali, sulle foto e le immagini che i device si trasmettono freneticamente.

Nel settore delle indagini penali, rinunciare ad intercettare questi flussi significa, semplicemente rinunciare a conoscere ed investigare la quasi totalità dei reati che abbiamo indicato e tanti altri ancora. Tanto  varrebbe – e sarebbe più onesto e trasparente – dichiararne apertamente  la non punibilità. E se si sostiene che nel passato sono state pubblicate da alcuni conversazioni non rilevanti e “pruriginose” per finalità anche bieche bisogna anche considerare che la legge, all’epoca, obbligava i pubblici ministeri ad includere nel materiale probatorio depositato alle difese (che dunque diveniva pubblico e pubblicabile) tutte le conversazioni, anche quelle apparentemente private e irrilevanti, sul presupposto – che non condividevo neanche all’epoca – che la difesa avesse diritto ad avere copia in modo libero e senza alcun filtro di tutte le intercettazioni. E verificare se  anche in quelle telefonate private si annidassero elementi a favore degli indagati.  Dal 2020, tuttavia, è entrata in vigore una profonda riforma delle intercettazioni che a mio avviso sta funzionando molto bene. Questa riforma, infatti, blinda le conversazioni irrilevanti e che incidono sulla riservatezza dei soggetti coinvolti (salvo che anche queste conversazioni private forniscano la prova del delitto per cui si procede) non consentendone la trascrizione e la pubblicazione (ma consentendo alle difese di conoscerle)  ma, al contempo, ha regolamentato in modo equilibrato le attività d’intercettazione consentendo agli investigatori di utilizzare in modo efficace questo essenziale mezzo di ricerca della prova. Non è un caso che negli ultimi due anni non si sono rilevate doglianze per la pubblicazione di conversazioni o chat che riguardavano la vita privata di terzi estranei. Penso che in un paese democratico come il nostro in cui (per fortuna) al governo vi è una alternanza politica fra diversi schieramenti  i nuovi governi che si insediano, seppure legittimi portatori di altre idee e valutazioni rispetto al precedente, non possano, sol per questo, buttare al mare tutte le riforme e le leggi fatte dal passato governo,  ma valutare caso per caso in modo pragmatico le cose fatta da chi li ha preceduti e cambiare quelle che hanno dato cattiva  prova, ma mantenere quelle che funzionano, come oggettivamente è la riforma del 2020 sulle intercettazioni.

Dottor Curcio, cosa pensa del rapporto magistratura-stampa“amica” ? Non pensa che forse per restituire il prestigio dovuto alla magistratura, bisognerebbe cercare meno protagonismo mediatico, lasciando parlare la qualità delle indagini e le risultanze processuali ?

Esistono questi fenomeni o sono esistiti. Io personalmente penso che la stampa non debba essere, a priori, amica. Deve rispettare l’istituzione, anche giudiziaria, ma esercitare liberamente il diritto di critica laddove ritenga ci siano errori da parte di chi applica la legge (anche se spesso si confonde la responsabilità di chi fa leggi sbagliate e quella di chi deve applicare tutte le leggi comprese quelle sbagliate).  Ma neppure può esistere una stampa pregiudizialmente nemica. Di nessuno, neanche dei Magistrati.  Sul versante dei nemici “a priori” proprio negli ultimi anni ho notato che  esistono non uno ma più giornali la cui mission editoriale sembra proprio questa : screditare, comunque, la magistratura e meglio ancora i pubblici ministeri. Qualunque cosa facciano. Se fanno bianco bisognava fare nero se fanno nero bisognava fare bianco. Si tratta di una pratica un pò ridicola e provinciale. Ridicola perché è come se si creasse un giornale per screditare tout court i medici, o gli ingegneri, o gli avvocati piuttosto che gli imprenditori italiani, quando chiunque comprende che ci sono medici bravi e medici incapaci, imprenditori che creano ricchezza e lavoro e imprenditori che speculano e basta . Provinciale perché praticata solo da noi per corrispondere ad interessi economici e politici ben definiti che in Italia si sono fra loro coagulati per una serie di circostanze nel corso degli ultimi 30 anni.  Insomma, un giornale non è un partito politico e non deve essere legata a filo doppio ad una corporazione piuttosto che ad uno schieramento politico, perché ciò gli impedisce di svolgere la sua principale funzione : essere libero di stare sempre dalla parte dei cittadini ed essere davvero il cane da guardia della democrazia per difenderla dagli abusi di ogni potere.  Quanto alla seconda parte della sua domanda, che per la verità contiene la risposta, mi trova in perfetta sintonia. La sobrietà deve essere una cifra essenziale della professionalità dei magistrati. Il magistrato può – e talora deve – interloquire con i mezzi d’informazione, ma sempre con misura, garbo ed equilibrio, senza mai debordare, anche in termini di eccessiva presenza sui mass media. Ritengo di attenermi scrupolosamente a questi principi : a parte i doverosi comunicati stampa e talora le conferenze per illustrare in modo trasparente le attività dell’Ufficio all’opinione pubblica, questa, se non erro, è la terza intervista che rilascio in 5 anni di attività da Procuratore della Repubblica.  

Le indagini della Procura di Potenza vedono indagati dei magistrati (ed alcuni dei quali finiti a processo). Cosa si prova nell’indagare, inquisire e chiedere l’arresto (che è poi disposto da un Gip) di un collega ?

Il Magistrato, più di ogni altro professionista o di ogni altro rappresentante delle istituzioni, conosce o dovrebbe conoscere la legge penale ed è, o dovrebbe essere, consapevole del danno che provocano le sue violazioni, del disvalore delle condotte illecite . E’ pagato per fare rispettare la legge penale e deve punire – e punisce – chi la viola. Si capisce, allora perché la commissione di reati da parte dei Magistrati sia  molto più grave di quella commessa da un comune cittadino, ma direi, di più, da qualsiasi altro rappresentante delle Istituzioni. Perché il magistrato che delinque tradisce la stessa ragion d’essere della istituzione che rappresenta. Dunque, è con dolore, ma anche senza esitazioni, perseguiamo con rigore le condotte illecite dei Magistrati, di tutti i Magistrati  a prescindere da qualsiasi altra considerazione(fra i nostri indagati ed imputati ne troverà di ogni idea, estrazione, corrente e funzione). Ciò quando, ovviamente, ne sussistono i presupposti di legge e tenendo conto che molto spesso, le denunce contro i  Magistrati sono strumentali e tendono a colpire coloro – e sono molti –  che fanno il loro dovere fino in fondo, piuttosto che i pochi che commettono reati.      

A Potenza ha aperto recentemente una sezione operativa la D.I.A. che opererà con la D.D.A. da lei coordinata. Come si è evoluta la criminalità in Basilicata, vista dal suo osservatorio privilegiato conseguente alle sue pregresse esperienze antimafia ?

Ritengo che dopo cinque anni di attività in Basilicata, la mia più grande soddisfazione professionale sia stata proprio quella di essere riuscito a convincere tutte le istituzioni coinvolte della necessità di  aprire una Sezione operativa della Dia a Potenza. Questo per una serie di ragioni : in primo luogo è la dimostrazione concreta e non “a chiacchere” che lo Stato in tutte le sue articolazioni (da quelle locali, che hanno appoggiato l’iniziativa a quelle nazionali) ha compreso e preso atto della gravità del fenomeno  mafioso in  Basilicata, gravemente sottovalutato in passato,  che in alcune zone della nostra Regione, per il numero e la gravità dei reati commessi (estorsioni, incendi, traffico di droga, omicidi) ha la stessa intensità che si registra in altre zone del paese  in cui notoriamente il fenomeno si è radicato (Calabria, Puglia, Campania, per rimanere alle regioni limitrofe). E lo dico con cognizione di causa avendo svolto o coordinato indagini che hanno riguardato realtà criminali – come quella dei casalesi o della ‘ndrangheta – di eccezionale gravità. In secondo luogo sono molto soddisfatto perché è stata finalmente creata – ed è destinata ad operare in modo stabile per gli anni a seguire – una struttura efficiente e specializzata in grado di contrastare efficacemente il fenomeno criminale a beneficio dei tantissimi lucani onesti e per bene. Ed i primi risultati già si vedono ( si guardi, ad esempio, all’indagine sugli incendi dei Lidi a Scanzano Ionico).

Quanto poi  alla evoluzione della mafia lucana, faccio notare, in primo luogo, che dopo anni, nel Luglio scorso, un Tribunale lucano, quello di Matera, ha emesso una condanna per 416 bis cp, condannando gli imputati a a secoli di carcere. Dunque parliamo di fatti che non sono ipotesi della DDA o della Polizia Giudiziaria ma di delitti ritenuti provati da un Collegio giudicante, ferma restando  ovviamente, la presunzione di innocenza fino a condanna definitiva.

Più complessivamente, per tracciare un sintetico quadro della criminalità organizzata lucana, sulla base delle nostre indagini, possiamo dire che è possibile identificare tre tipi di organizzazioni criminali diverse fra loro nella nostra Regione. Un primo tipo è presente sul litorale ionico lucano, e si tratta di sodalizi dediti ad estorsioni, alla imposizione di forniture e servizi alle imprese, al condizionamento delle pubbliche amministrazioni (il Comune di Scanzano Ionico è stato sciolto per infiltrazioni mafiose nel 2019), alla monopolizzazione di interi comparti economici che ruotano intorno al turismo, alla ristorazione, al commercio di generi alimentari, all’edilizia I collegamenti di questi gruppi sono sia con le organizzazioni tarantine che con alcune organizzazioni calabresi. Un secondo tipo di sodalizio criminale opera nel Vulture Melfese ed ha stretti collegamenti con la criminalità organizzata di Cerignola e del foggiano. Le attività illecite cui sono dediti sono lo spaccio di stupefacenti, le estorsioni e le imposizioni di servizi nel settore agricolo. Infine le organizzazioni potentine, più evolute, con forti rapporti con ‘ndrangheta di alto livello presente a Cutro ( il sodalizio Grande Aracri con il quale ha gestito attività di scommesse e gioco d’azzardo on line) ed a  Rosarno ( la famiglia Pesce) che sviluppa le sue attività criminali nel grande traffico internazionale di stupefacenti, nel riciclaggio, nel recupero crediti, nelle estorsioni.   

Lei è stato alla Procura di Napoli ma anche alla Direzione Nazionale Antimafia prima di approdare alla guida della Procura di Potenza, Ufficio che, ci spiace ricordare, è stato sempre nell’occhio del ciclone. Cosa l’ha spinta a fare domanda per Potenza ?

Sono nato a Roma, dove ho vissuto circa 30 anni, ho sposato una napoletana ed ho vissuto a lungo a Napoli, ma sono originario di Polla, una paese della provincia di Salerno al confine con la Basilicata, una terra che fa parte della Lucania storica. Siamo lucani. Amministrare la giustizia in una terra che sento mia è stato un onore. Le polemiche precedenti non mi interessano. Sono spesso, non dico sempre,  strumentali. Ricordo per dirne uno, caso esemplare di polemiche inutili : quella contro le indagini svolte dal mio Ufficio nel 2015/2016 sull’ENI. Si diceva “vediamo queste indagini così eclatanti che fine faranno” oppure “hanno prima indagato un Ministro, lo hanno fatto dimettere e poi si è visto che non c’entrava nulla”. Ebbene, nel silenzio generale e nel silenzio di chi aveva sollevato polemiche, i dirigenti dell’Eni coinvolti nelle indagini – ferma restando la presunzione d’innocenza – sono stati in buona parte condannati in primo grado  le accuse hanno retto bene al controllo giurisdizionale, e quanto al Ministro basterà dire che non era mai stato indagato dalla Procura di Potenza (e dunque non poteva essere per questo archiviata la sua posizione) mentre le dimissioni erano state doverosamente rassegnate da questo Ministro per motivi di opportunità politica (evidenziati anche dall’allora capo del Governo Matteo Renzi) poiché dalle indagini risultava che leggi in via di approvazione che rientravano nella competenza del Ministro in questione erano oggetto di attività di “lobbing”  da parte del compagno di quel Ministro. Dunque ancora una volta una polemica senza senso contro i Magistrati. 

Procuratore la sua nomina a Potenza è stata oggetto di un ricorso alla Giustizia Amministrativa da parte della sua collega Triassi. I Giudici Amministrativi a seguito  di questo ricorso hanno censurato le valutazioni del CSM. Vuole spiegare ai nostri lettori meglio la vicenda ?

La questione è molto semplice : il CSM, nell’esaminare i curricula dei molti candidati al posto di Procuratore di Potenza, aveva omesso di specificare che fra i diversi titoli professionali di uno dei diversi aspiranti, la dr.ssa Triassi, a causa della temporanea assenza di un Procuratore Capo (il dott. Colangelo era stato trasferito ad altro Ufficio ed il posto era vacante ) ed in attesa che venisse nominato il nuovo Capo (che sarà l’ottimo collega Gay) era stata Procuratore “facente funzioni” per un certo numero di mesi in quanto Magistrato più anziano dell’Ufficio. All’esito della comparazione dei titoli dei diversi candidati, il CSM mi nominò all’unanimità Procuratore a Potenza. La sola collega Triassi, fra tutti i candidati, fece ricorso ai Giudici Amministrativi. I Giudici amministrativi accolsero il ricorso affermando, non che la Collega avesse più titoli del sottoscritto, ma (giustamente) che il CSM aveva sbagliato a non inserire fra i titoli della Collega lo svolgimento di fatto delle funzioni di Procuratore e dunque non aveva potuto svolgere una comparazione completa fra i diversi aspiranti più precisamente fra il sottoscritto e la collega Triassi. Per tale ragione i Giudici Amministrativi, censurando il provvedimento di nomina, imposero  al CSM di svolgere nuovamente la comparazione fra i titoli della dr.ssa Triassi (comprendendo fra questi, questa volta, anche l’esperienza di facente funzioni della collega) ed i titoli del sottoscritto, che dalla sua parte avevo circa 30 anni di attività da PM  che avevo svolto sia presso le DDA di Roma, Napoli e Reggio Calabria che, per 6 anni, presso la Direzione Nazionale Antimafia. Rappresento questi ultimi 6 anni di attività di coordinamento investigativo a livello nazionale, secondo l’art 12 del Decreto legislativo 160 del 2006  (che regola la materia delle nomine dei magistrati) ai fini della nomina a Procuratore della Repubblica, è funzione equiparata allo svolgimento pregresso di funzioni direttive. Il CSM non giunse a svolgere di nuovo questa comparazione, poiché la collega Triassi preferì legittimamente e liberamente  optare per la nomina a Procuratore della Repubblica di Nola – funzione per la quale a suo tempo ed ancora prima di farla per la Procura di Potenza  la dr.ssa Triassi aveva fatto domanda ed in relazione alla quale, nel frattempo, la Commissione del CSM ( la 5a n.d.a.) che si occupa di incarichi direttivi l’aveva proposta al Plenum del CSM.  In tale modo la Triassi rinunciò  al ricorso per il posto di Procuratore di Potenza e, quindi, come conseguenza  a sottoporre al CSM, per una nuova “comparazione”, i suoi titoli con quelli del sottoscritto. Il CSM ne prese atto e confermò de plano la mia precedente nomina.

Procuratore, lei insieme al suo collega Woodcock siete stati titolari delle indagini della Procura di Napoli sulla famigerata “P4” che hanno visto finire in carcere un vostro collega, il magistrato Papa, all’epoca dei fatti parlamentare di Forza Italia. Molti giornali compreso il nostro (sbagliando e ne facciamo pubblica ammenda)  hanno scritto che erano stati tutti assolti in appello, ma così in realtà non era accaduto. Vuole spiegare ai nostri lettori esattamente come si è concluso quel processo ?

Ancora una volta la questione è semplice :  l’indagine P4, nonostante le molte imprecisioni che hanno contraddistinto la sua rappresentazione mediatica, è stata una indagine importante e fondata. Il suo principale imputato, il dott. Bisignani, patteggiò la pena decidendo liberamente di farlo (e la decisione proveniva non da un minus habens, ma da un uomo la cui  intelligenza, capacità relazionale e di comprensione  della realtà non possono essere messe in discussione). Il che non viene mai ricordato. L’altro imputato , Alfonso Papa, Magistrato e Parlamentare, arrestato per gravi reati contro la PA con autorizzazione della Camera di appartenenza (che, all’epoca, giova ricordare, era in maggioranza dello stesso schieramento politico del Papa) venne condannato in primo grado – dopo un dibattimento durato 5 anni – a 4 anni e sei mesi di reclusione per una serie di delitti contro la PA ( il Papa, nel 2021, è stato condannato, sempre dal Tribunale di Napoli, ancora una volta, ad analoga pena, per altri reati contro la PA, questa volta con aggravante mafiosa). In appello, nel 2019, i reati sono stati dichiarati prescritti. Cosa evidentemente non ascrivibile né a me, né al collega Woodcock che per la verità con molta solerzia avevamo tratto a giudizio Papa – ancora detenuto –  dopo pochi mesi d’indagine, con richiesta di giudizio immediato del settembre del 2011.  Se ci si chiede quale sia la ragione della lentezza dei processi in Italia, e perché un Tribunale ed una Corte, in Italia, in 8 anni non riescano  a concludere un procedimento a  carico non di 100 ma di un solo imputato, se ci si chiede a chi giovi questa lentezza e di chi siano le eventuali responsabilità, il caso Papa lo proporrei come caso emblematico da analizzare. Perchè è dai casi concreti che si comprendono le disfunzioni di un sistema, non dalle teorie astratte. Redazione CdG 1947

La Calabria.

Perseguitati.

Giuseppe Scopelliti.

Vincenzo Ioppoli.

Gennaro Pierino Mennea.

Vincenzo Iaquinta.

Antonio Caridi.

Nicola Comerci.

Gregorio Quattrone.

Antonio Rodà.

Giovanni Ferrari.

Nicola Gratteri.

Francesco Stilo.

Giancarlo Pittelli.

Perseguitati.

I fantasmi del povero Travaglio che vede Silvio dappertutto. Non potendosi citare per nome e cognome colui che non c’è più, ecco che diventa buona il pretesto per chiamare in causa, con il consueto spargimento di mangime avariato, il partito di cui colui che non c’è più fu il fondatore e il leader indiscusso. Tiziana Maiolo su Il Dubbio il 21 novembre 2023

Berlusconi non ha proprio confini del tempo né dello spazio, né della storia e della vita e della morte. Sarà stato quel fazzoletto a ripulire la sedia dove il direttore del Fatto era stato seduto, o sarà forse una di quelle invidiuzze nei confronti dell’uomo di successo che ti provocano un nocciolino che non va né su né giù. Fatto sta che ogni occasione è buona. Si tratti di un gelataio giocoliere che sta portandosi a spasso, dalla Sicilia alla Toscana, pubblici ministeri e giornalisti. Oppure l’occasione sia data, come è accaduto ieri, dalla condanna dell’avvocato Giancarlo Pittelli per concorso esterno in associazione mafiosa. Non potendosi citare per nome e cognome colui che non c’è più, ecco che diventa buona il pretesto per chiamare in causa, con il consueto spargimento di mangime avariato, il partito di cui colui che non c’è più fu il fondatore e il leader indiscusso.

Che cosa c’entra Forza Italia con la sentenza del processo “Rinascita Scott”? Assolutamente nulla. Anche sul piano dell’opposizione politica, come bersaglio è proprio sbagliato. Infatti, nonostante le buone previsioni dei sondaggi che danno al partito una costante crescita, persino nei lunedi sera di uno sempre ostile come Enrico Mentana, non si può proprio dire che Forza Italia sia oggi il centro del dibattito politico e neppure dello scontro con la sinistra. Certo, i suoi deputati e senatori si danno molto da fare per le garanzie e lo Stato di diritto. Ma sul piano giudiziario, nell’attesa della cassazione che dovrà decidere sulle eventuali manette al famoso gelataio, i fatti dicono una cosa sola, le tante assoluzioni nei confronti di Silvio Berlusconi, oltre al dato inoppugnabile che lui non c’è più. E allora che cosa significa quella fotografia di Giancarlo Pittelli con Marcello Dell’Utri e Nicola Cosentino, e quel titolo “En plein di Forza Italia”? Sul piano giudiziario un bel passo falso. Perché occorre ricordare che le persone oggetto del titolo scandalistico, un mezzuccio comunicativo proprio da giornaletto che deve farsi spazio nella concorrenza, sono state le uniche, oltre al senatore Tonino D’Alì, tra i tanti personaggi politici degli ultimi trent’anni di storia, a essere stati condannati per “concorso esterno in associazione mafiosa”, il reato che non c’è. Vogliamo ricordare la storia, da Giulio Andreotti a Corrado Carnevale, fino a Calogero Mannino e Antonio Gava, e Francesco Musotto e Bruno Contrada, fino a Silvio Berlusconi, archiviato cinque volte? E se vogliamo spostare lo sguardo sulla giornata di ieri, come tralasciare il fatto che in un processo con un terzo di assolti, il “buco” che segna il fallimento della Dda di Catanzaro è stato determinato dal crollo del “concorso esterno” nei confronti di una serie di amministratori locali?

E allora, i casi sono due. O Marco Travaglio continua ad avere notti insonni in cui immagina il cavaliere che va a tirargli i piedi, e allora se la prende con Forza Italia come face il lupo con l’agnello. Oppure il problema è proprio nel fallimento politico del reato che non c’è e di una certa concezione dell’antimafia militante, ben lontana dall’esempio di Giovanni Falcone cui ambiva Nicola Gratteri. Quel 60% di assolti nei due processi “Stige” e il 39% di innocenti del “Rinascita Scott” pesano come montagne. E allora bastoniamo un po’ Forza Italia. Tanto non c’è più Silvio Berlusconi con il suo fazzoletto a spolverare quella sedia.

Maxiprocesso Rinascita-Scott: 207 condanne a ‘ndranghetisti, uomini di Stato e imprenditori. Stefano Baudino su L'Indipendente il 21 Novembre 2023

Oltre 200 condanne per un totale di 2.200 anni di carcere e circa 100 assoluzioni. È il devastante bilancio della sentenza di primo grado, pronunciata dai giudici del tribunale di Vibo Valentia, del Maxiprocesso Rinascita-Scott, probabilmente il più importante processo mai tenuto contro un’associazione mafiosa dai tempi del “Maxi” di Falcone e Borsellino. Il processo, istruito dall’ex procuratore di Reggio Calabria Nicola Gratteri, ha colpito potenti elementi della ‘Ndrangheta calabrese, una serie di influenti personaggi delle istituzioni – tra cui le figure politiche di riferimento delle cosche – e vari imprenditori. Tra le condanne di Stato, la più eloquente è quella inflitta a Giancarlo Pittelli, ex parlamentare di Forza Italia, ritenuto dall’accusa un’importante cerniera tra mafia, politica e imprenditoria collusa, per il quale sono stati stabiliti 11 anni di carcere.

Alla sbarra ci sono in tutto 325 persone (438 i capi d’imputazione), mentre in aula sono sfilati 913 testimoni d’accusa e 58 collaboratori di giustizia. Molte sono le cosche mafiose coinvolte nel Maxiprocesso, tra le quali spiccano quelle dei Mancuso e dei Bonavota, che spadroneggiano nella provincia di Vibo Valentia. Ma il grande elemento di novità nel processo, in cui è stato evidenziato l’importante ruolo di collante giocato dalle logge massoniche di Vibo, è la presenza tra gli imputati di ex parlamentari, ex consiglieri regionali, sindaci, uomini dei servizi segreti e delle forze dell’ordine, professionisti e imprenditori. Condannati, fra gli altri, anche il tenente colonnello dei carabinieri Giorgio Naselli (2 anni e 6 mesi), l’avvocato Francesco Stilo (14 anni), l’ex finanziere Michele Marinaro (10 anni e 6 mesi), l’ex appuntato dei carabinieri Antonio Ventura (5 anni e 6 mesi) e l’ex consigliere regionale Pietro Giamborino (1 anno e 6 mesi), inseriti in un calderone di connivenze e complicità illegali. Gli imputati erano accusati a vario titolo di associazione mafiosa, concorso esterno in associazione mafiosa, estorsione, usura, riciclaggio, detenzione illegale di armi ed esplosivo, ricettazione, traffico di influenze illecite, trasferimento fraudolento di valori, rivelazione e utilizzazione di segreto d’ufficio, abuso d’ufficio aggravato, traffico di droga.

La figura di maggiore rilievo presente nella lista dei condannati è sicuramente quella dell’avvocato Giancarlo Pittelli, ex senatore e coordinatore di Forza Italia in Calabria, cui sono stati comminati 11 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo la ricostruzione dei pm Pittelli, membro della massoneria, avrebbe infatti favorito il clan dei Mancuso e l’imprenditore Rocco Delfino – condannato a 5 anni di carcere -, costituendo la “la cerniera tra i due mondi” in una “sorta di circolare rapporto ‘a tre’ tra il politico, il professionista e il faccendiere”. I boss calabresi, infatti, lo nominavano loro avvocato “in quanto capace di mettere mano ai processi con le sue ambigue conoscenze e rapporti di ‘amicizia’ con magistrati”. Pittelli sarebbe stato infatti “l’affarista massone dei boss della ‘ndrangheta calabrese”, con cui si interfacciava tramite “circuiti bancari”, “società straniere”, “università” e “le istituzioni tutte”. In una intercettazione entrata nell’inchiesta, Pittelli aveva peraltro fatto direttamente riferimento a Marcello Dell’Utri – ex braccio destro di Silvio Berlusconi e fondatore di Forza Italia, di cui divenne senatore, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa (pena scontata) – affermando che, ai tempi in cui Forza Italia era in fase di formazione, “le prime persone” che vennero da lui contattate “furono i Piromalli della piana di Gioia Tauro”: mafiosi di altissimo calibro “che Pittelli accostava”, per importanza, “a Luigi Mancuso”, inquadrato tra i boss più potenti su scala nazionale e internazionale. Ricordando che si tratta ancora di una sentenza di primo grado, dopo Dell’Utri (7 anni), Nicola Cosentino (10 anni) e Antonino D’Alì (6 anni), con la condanna di Pittelli si arricchisce dunque il novero degli ex forzisti illustri condannati per concorso esterno in associazione mafiosa.

«Finché indaghi su nomi e cognomi noti della ‘Ndrangheta tutti ti dicono che sei bravo, che hai coraggio. Ma se vai a toccare i centri di potere oliati che si interfacciano con la ‘Ndrangheta e la massoneria deviata allora diventi scomodo. E cominci a dare fastidio». Con queste parole, in un’intervista rilasciata nel corso del dibattimento, il procuratore Nicola Gratteri aveva spiegato la portata del Maxiprocesso “Rinascita Scott”. Secondo il magistrato, la ‘Ndrangheta, «organizzazione solida al suo interno e credibile all’esterno», ha fatto «il salto più importante» nelle relazioni «con la società civile, col potere, con il mondo delle professioni» al fine di far crescere il proprio «capitale sociale»: infatti, «se prima le relazioni esterne col mondo delle professioni e del potere massonico deviato erano viste come una condizione patologica del sistema mafioso, adesso sono diventate una componente fisiologica». Gratteri ha aggiunto che ‘Ndrangheta e massoneria interagiscono «in una logica di mutuo soccorso, in una perfetta sinergia si toccano, si parlano e fanno affari per interessi», aiutandosi a vicenda e mettendo a disposizione il proprio «know how», la loro «rete di rapporti» e «i propri strumenti, che si completano». In attesa di leggere le motivazioni della sentenza, ad oggi possiamo dire che il verdetto di primo grado del Maxiprocesso gli ha dato ragione. [di Stefano Baudino]

La condanna all'ex avvocato. Mezza vittoria per Gratteri, ottiene lo scalpo di Pittelli. La sua condanna puntella un’inchiesta che rischiava di affondare. Il giovanissimo collegio del tribunale di Vibo ha condiviso in buona parte l’impianto accusatorio: 260 condanne su 380 imputati. Paolo Comi su L'Unità il 21 Novembre 2023

Nicola Gratteri ha vinto a metà. La maxi condanna ad 11 anni di prigione per l’ex parlamentare di Forza Italia Giancarlo Pittelli ‘puntella’ una inchiesta che correva il serio rischio di finire in un flop clamoroso.

“Pittelli viene condannato per quello stesso reato rispetto al quale solo pochi mesi fa la Cassazione prima, ed il Tribunale per il Riesame subito dopo, avevano escluso la sussistenza anche solo di indizi gravi di colpevolezza”, ha commentato l’avvocato Gian Domenico Caiazza, difensore dell’ex parlamentare berlusconiano insieme ai colleghi Salvatore Stoiano e Guido Contestabile.

“Tanto basta a far comprendere, a tutti coloro che abbiano la onestà intellettuale di volerlo fare, quanto questa condanna fosse ad ogni costo indispensabile per salvare la credibilità della intera operazione investigativa Rinascita Scott. Sono dinamiche che abbiamo drammaticamente imparato a conoscere in altri clamorosi casi giudiziari, a cominciare da quello di Enzo Tortora”, ha aggiunto Caiazza, ricordando anche che da quei casi giudiziari “abbiamo imparato che, alla fine, l’innocenza dell’imputato verrà riconosciuta, seppure con imperdonabile ritardo, e dopo aver causato danni incommensurabili”.

In attesa dunque del deposito delle motivazioni, l’impianto accusatorio della più “grande inchiesta” nei confronti delle cosche, utilizzando le parole dell’allora procuratore di Catanzaro ora promosso a Napoli, è stato in buona parte condiviso ieri dal giovanissimo collegio penale del tribunale di Vibo Valentia composto dalle giudici Brigida Cavasino, Claudia Caputo, Germana Radice, 6 anni di servizio in 3 quando iniziò il dibattimento: 260 le condanne su 380 imputati.

Pittelli, in particolare, sarebbe stato ‘l’uomo cerniera’ tra cosche e politica che, a leggere il capo d’imputazione, avrebbe messo sistematicamente a disposizione delle cosche ‘ndranghetiste “il proprio rilevante patrimonio di conoscenze e di rapporti privilegiati con esponenti di primo piano a livello politico-istituzionale, del mondo imprenditoriale e delle professioni, anche per acquisire informazioni coperte dal segreto d’ufficio e per garantirne lo sviluppo nel settore imprenditoriale”.

Gratteri durante la requisitoria aveva chiesto per Pittelli 17 anni di prigione, dopo aver stigmatizzato coloro che inizialmente non “avevano creduto in questo processo” dal momento che la quasi totalità dei soggetti coinvolti erano figure di basso profilo e nemmeno lontanamente paragonabili agli imputati del Maxi processo di Palermo.

Oltre a Pittelli, infatti, gli unici imputati di un certo spessore erano il colonnello dei carabinieri Giorgio Naselli, ex comandante del reparto operativo di Catanzaro, il consigliere regionale del Pd Pietro Giamborino, il segretario del Psi calabrese Luigi Incarnato, ed il sindaco di Pizzo e presidente Anci Calabria Gianluca Callipo, quest’ultimo assolto.

Nasselli, per il quale è caduta l’aggravante mafiosa che l’aveva portato in carcere insieme a Pittelli nel dicembre del 2019, è stato invece condannato a 2 anni e 6 mesi per il solo reato di rivelazione nei confronti dell’ex parlamentare.

In deroga alla presunzione di non colpevolezza stabilita dall’articolo 27 della Costituzione, Naselli era stato prima sospeso dal servizio e poi degradato a soldato semplice e questo nonostante la Cassazione avesse stroncato l’accusa di aver voluto agevolare il clan dei Mancuso. Pur a fronte di tale pronuncia il Comando generale dell’Arma era rimasto fermo sulle proprie posizioni e a novembre del 2020 aveva stabilito che Naselli non fosse “meritevole di conservare il grado”.

Sono “prive di pregio le memorie difensive e le relative documentati presentate in quanto non apportano alcun elemento utile a propria discolpa”, fecero sapere i vertici della Benemerita, evidenziando che il colonnello aveva “leso i principi di moralità e rettitudine che devono sempre caratterizzare il comportamento del militare dell’Arma il cui prestigio risulta gravemente compromesso”, essendo “irrimediabilmente pregiudicata quella relazione fiduciaria che deve necessariamente permanere tra amministrazione e dipendente”.

La decisione dell’Amministrazione era stata poi annullata dal Tar che ne aveva criticato la motivazione ‘copia ed in colla’ con il capo d’imputazione indicato nell’ordinanza di arresto del dicembre del 2019. Come accade spesso in questi casi, il provvedimento dei giudici amministrativi si era però perso per strada e Naselli, assistito dall’avvocato Gennaro Lettieri, non era mai stato reintegrato in servizio.

Grande euforia per la condanna di Pittelli, infine, da parte dell’ex sindaco di Napoli Luigi de Magistris che nel 2006, quando era pm a Catanzaro, lo aveva indagato nell’ambito dell’inchiesta Poseidone poi finita in un nulla di fatto. “Il tempo è galantuomo ma le ingiustizie subite dalla criminalità istituzionale non saranno mai riparate”, ha detto de Magistris. Paolo Comi 21 Novembre 2023

Gianluca Callipo, vittima “collaterale” del processo Rinascita, assolto dopo un calvario di quattro anni. Vincenzo Imperitura su Il Dubbio il 21 novembre 2023

Gianluca Callipo, ex sindaco di Pizzo Calabro

Rischiava una pena di 18 anni di reclusione, tanti quanti ne aveva chiesti l’accusa in sede di requisitoria

«Ho tante cose in testa ma voglio aspettare di ritrovare un po’ di serenità, ancora non me la sento di dire quello che provo». A meno di 24 ore dalla sentenza del maxi processo Rinascita Scott che lo ha visto assolto dai reati di concorso esterno in associazione mafiosa e abuso d’ufficio aggravato dalle modalità mafiose, l’ex sindaco di Pizzo Calabro, Gianluca Callipo, preferisce tenere per sé le considerazioni sul suo calvario giudiziario durato quattro anni. Rischiava una pena di 18 anni di reclusione, tanti quanti ne aveva chiesti l’accusa in sede di requisitoria.

Sindaco di una delle perle del turismo calabrese, giovanissimo presidente dell’Anci regionale, considerato astro nascente del nuovo centro sinistra locale, Gianluca Callipo viene arrestato, da incensurato, il 19 dicembre del 2019. All’alba, gli uomini dell’ex procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri, fanno irruzione nella sua abitazione per notificargli l’ordinanza di custodia cautelare in carcere: Callipo è uno dei 334 arrestati di quella che, mentre le operazioni di polizia sono ancora in corso, viene definita la più importante indagine anti ‘ndrangheta della storia. Le ipotesi di accusa formulate dalla distrettuale antimafia di Catanzaro lo bollano come uno dei “colletti bianchi” a disposizione della criminalità organizzata vibonese, tra le più feroci e pervasive organizzazioni criminali che operano in Italia. Più precisamente, si legge nelle oltre 12 mila pagine di ordinanza di custodia cautelare, Callipo viene accusato di essere l’interfaccia pulito delle ‘ndrine di Pizzo e di San Gregorio d’Ippona: uomo di fiducia di boss del calibro di Saverio Razionale (condannato lunedì in primo grado a trenta anni di reclusione nell’ambito dello stesso procedimento Rinascita come componente apicale della “provincia” vibonese) e della “famiglia” Mazzotta, con cui avrebbe tessuto accordi, in cambio di favori, per ottenere il sostegno elettorale necessario a vincere la competizione elettorale cittadina che lo aveva eletto sindaco di Pizzo nel 2017. Di più, Callipo viene anche accusato di abuso d’ufficio aggravato per una storia legata ad un’azienda di cui era stato socio in passato e per l’acquisto, nel settembre del 2017, in seguito ad un presunto accordo con Saverio Razionale e con Gregorio Gasparro, di una delle strutture turistico ricettive più prestigiose in città. Accuse pesantissime che portano, nel giro di una manciata di mesi, anche allo scioglimento del piccolo comune della costa degli dei.

Trasferito in carcere, Callipo non ha mai smesso di urlare la propria estraneità ai fatti che gli vengono contestati. Passeranno sette mesi prima che una sentenza della Corte di Cassazione lo riconsegni alla sua famiglia, smontando pezzo per pezzo le accuse che lo avevano dipinto come l’ennesimo politico al soldo del clan. «Risulta esclusa la gravità indiziaria – scrivevano i giudici di piazza Cavour nella sentenza che nel luglio del 2020 ha riconsegnato Callipo alla libertà – non solo riguardo ad ipotesi strumentali di abuso, ma anche con riferimento alla concreta ricostruzione di un’ipotesi di concorso esterno». Bacchettando il Gip che ne aveva disposto gli arresti poi, i supremi giudici avevano commentato come lo stesso Gip «non ha, se non apoditticamente, individuato gli effettivi contenuti del patto e soprattutto non ha indicato in che modo potessero risultare di per sé idonei alla conservazione e al rafforzamento del sodalizio». Una sentenza che appare definitiva rispetto alle pesantissime accuse che gli vengono mosse ma che non impedisce al giovane ex sindaco di finire ugualmente a processo, bollato come appartenente alla “zona grigia” agli ordini dei clan. Almeno fino a lunedì scorso, quando il Tribunale collegiale di Vibo, in primo grado, lo ha mandato assolto assieme al suo ex assessore in giunta Vincenzo De Filippis e all’ex consigliere comunale Alfredo Lo Bianco.

«In questi lunghissimi 7 mesi ho imparato tante cose – aveva scritto sui social l’ex primo cittadino di Pizzo all’indomani della sentenza di Cassazione che ne disponeva la scarcerazione - e ho rivisto radicalmente le mie priorità. Ho imparato che non basta essere onesti e rispettosi della legge per essere sempre considerati tali. Ho imparato che ogni azione, anche la più rigorosa e ligia al dovere, può essere travisata e diventare una “colpa” da dover spiegare. Ho imparato che c’è un’umanità struggente nei luoghi di sofferenza, e solidarietà, comprensione, professionalità. Ho imparato che la Giustizia è piena di contraddizioni sulle quali non ci fermiamo mai a riflettere, interessati più che altro ad esaltare ciò che coincide con le nostre convinzioni politiche e con i nostri pregiudizi».

Nel lungo sfogo affidato al web, Callipo aveva poi sottolineato l’affrettatissimo scioglimento del piccolo centro marinaro di cui era amministratore: scioglimento che ha portato la città ad essere governata da una terna di commissari inviati dalla Prefettura, fino alle elezioni dello scorso anno. «Nel frattempo, la mia amatissima città, Pizzo, ha dovuto subire l’onta di un sindaco in carcere e ha perso un’amministrazione democraticamente eletta in seguito al precipitoso commissariamento del Comune, senza che neppure fosse disposto un accesso agli atti. Anche questo è un vulnus insopportabile, forse anche più grave della mia vicenda personale, perché riguarda un’intera comunità».

Lunedì, la sentenza di assoluzione disposta dai giudici di Vibo, ha riscritto la storia giudiziaria dell’ennesimo amministratore calabrese finito nel tritacarne mediatico-giudiziario. Ci sono voluti quattro anni. Un’eternità.

DOPO LA SENTENZA. Callipo e l’assoluzione in “Rinascita Scott”: «Incubo che mi ha strappato dai miei affetti e dal mio lavoro». Pubblichiamo il testo integrale del post scritto dall’ex sindaco di Pizzo Calabro dichiarato innocente dal tribunale collegiale di Vibo Valentia al termine del processo di primo grado. Gianluca Callipo (ex sindaco di Pizzo Calabro) su Il Dubbio il 27 novembre 2023

“Male non fare, paura non avere”. L’ho sempre sostenuto con convinzione. Finché non ho avuto paura davvero. Ma nonostante tutto ho continuato a ripetermelo in questi ultimi 4 anni, durante i quali la mia vita è stata letteralmente capovolta.

Ho cercato di crederci con tutte le mie forze anche quando questo assioma ha pericolosamente vacillato dinanzi al timore, sempre più opprimente, che non sempre basta essere nel giusto, ma a volte si è costretti ad avere paura anche di ciò che, in teoria, non dovrebbe mai spaventarci. E me lo ripetevo quasi come un mantra, in cui però credevo sempre meno, quando, nel giugno scorso, ho ascoltato la richiesta di pena nei miei confronti: 18 anni di carcere per reati che non avevo neppure mai immaginato. E più me lo ripetevo, più mi chiedevo come fosse stato possibile finire in questo incubo che mi ha strappato dai miei affetti, dal mio lavoro, dall’altra vita terminata per sempre il 19 dicembre 2019. Sentimenti che mi hanno accompagnato sino a lunedì scorso, quando il Tribunale di Vibo mi ha assolto con la formula più ampia e incontrovertibile.

Dalla sentenza ho atteso qualche giorno prima di scrivere queste poche righe, travolto da emozioni e sensazioni che soltanto chi ci è passato può comprendere fino in fondo. In questi anni, oltre alla consapevolezza di non aver commesso ciò che mi veniva imputato, mi sono aggrappato alla fiducia nelle istituzioni e nella democrazia, convinzioni solidissime che mi hanno sempre accompagnato nella mia breve ma intensa carriera politica, coronata dall’elezione a sindaco, per due volte, della mia amata città, Pizzo. A qualcuno potrebbe sembrare la solita retorica che si usa in questi casi, ma io ci credo davvero. E infatti, alla fine, la Giustizia ha funzionato. Questo, però, non cancella lo sconvolgimento della mia vita, che oggi è un’altra. Un lusso che però non tutti si possono permettere, se non hanno alternative. Ma forse, più di ogni altra cosa, a sostenermi in questi anni è stato l’affetto e la vicinanza non solo della mia famiglia ma anche di centinaia di amici e conoscenti, che non hanno mai avuto alcun dubbio sulla mia innocenza. Sono state queste persone il mio sostegno.

Al pari dei miei avvocati, Armando Veneto e Vincenzo Trungadi, che hanno lavorato alla mia difesa con la loro scienza ma anche con una sintonia umana autentica. Ed è a loro, a voi che non mi avete voltato le spalle, che voglio dire grazie, rompendo il riserbo che ormai domina il mio animo. Mi avete dato la forza di andare avanti in un frangente difficilissimo della mia vita, senza farmi mai mancare affetto e stima, che ricambio dal più profondo del mio cuore.

Ma quale sentenza storica: i giudici hanno stroncato la presunta cupola politico-mafiosa. Rinascita-Scott di Gratteri finisce con 131 assoluzioni, si tratta di vite e carriere spezzate. Undici anni di carcere a Pitteli, simbolo del processo. Tiziana Maiolo su Il Dubbio il 20 novembre 2023

Sentenza storica proprio no, quella emessa nella maxi-aula di Lametia per il processo “Rinascita Scott”. Certo, c’è la bandierina simbolica della condanna a 11 anni di carcere per l’avvocato Giancarlo Pittelli, ma è appunto poco più che una sagoma di cartapesta, e non c’è bisogno di ricordare Enzo Tortora e i tanti condannati al primo processo e poi assolti in appello.

Ma i numeri parlano chiaro: 131 assolti su 338 vuol dire non solo che circa il 39% delle persone arrestate nel famoso blitz del 19 dicembre 2019 era composto di innocenti, ma anche che pm e gip non hanno fatto bene il proprio dovere. Perché è detto e scritto in ogni norma, in ogni riforma, e poi nei congressi e nei convegni che si deve andare a processo solo quando si hanno buone probabilità di arrivare a condanne. Se no, oltre a creare gravi danni alla vita delle persone, si fa anche perdere tempo e denaro. E questa non è giustizia. E quella grande aula di Lametia rischia di somigliare sempre più a un set cinematografico. Inoltre la storia della Dda di Catanzaro non brilla per efficienza, dopo l’ultimo fallimento del processo “Stige”, con il 60% delle assoluzioni tra primo e secondo grado.

L’aspetto più scandaloso di questo processo è quel che è accaduto fuori dall’ aula. Ancora oggi era tutto un tripudio mediatico perché con questa inchiesta sarebbe stata scoperta la saldatura tra ‘ndrangheta e mondo della politica. Ma è proprio questo il punto debole di questo processo. Perché per esempio un personaggio di grande rilevanza politica come Gianluca Callipo, ex sindaco di Pizzo e responsabile regionale dell’Anci, l’associazione dei comuni calabresi, dopo aver scontato in via preventiva diversi mesi di carcere, è stato assolto. E pensare che il 7 giugno scorso il procuratore Gratteri in persona aveva invocato per lui 18 anni di reclusione. E l’ex consigliere regionale Pietro Giamborino invece dei vent’anni richiesti dalla Dda per mafia, ne dovrebbe scontare, qualora la sentenza fosse confermata nei successivi gradi di giudizio, uno e mezzo per traffico di influenze, piccolo reato evanescente. Non è un mafioso, quindi.

Ma non lo è neppure l’avvocato Giancarlo Pittelli, come lui stesso ha detto e ridetto al processo. La sua condanna è legata alla presunta diffusione dei verbali del “pentito” Mantella, su cui, come ricordano i suoi legali Giandomenico Caiazza, Salvatore Staiano e Guido Contestabile “solo pochi mesi fa la Corte di Cassazione prima e il Tribunale per il riesame dopo, avevano escluso la sussistenza anche solo di indizi gravi di colpevolezza”. E’ tutto così scontato, ed era anche così prevedibile la condanna simbolica del fiore all’occhiello di tutta l’inchiesta, che lo stesso avvocato ex ex parlamentare di Forza Italia non se la sente di dare giudizi (“non sono abituato a commentare le sentenze”), se non per lasciare “agli sciacalli di turno”, il compito di “sbandierare le proprie opinioni nelle tv nazionali e locali”.

Ovvio che non allude al procuratore Gratteri, lui non va mai in tv. In molti in questi mesi hanno criticato le modalità di composizione del tribunale e la giovane età, soprattutto professionale, della presidente Brigida Cavasino e delle due giudici laterali Claudia Caputo e Germana Radici. Si è detto che mai avrebbero trovato il coraggio di contraddire la Dda di Catanzaro e colui che fino a poco tempo fa l’aveva presieduta, Nicola Gratteri. Un personaggio di grande visibilità, non cercata ovviamente, un magistrato che viene ospitato spesso e volentieri da giornalisti e conduttrici ossequiosi, e che gira l’Italia con i suoi numerosi libri editi da Mondadori, uno che non ha paura di irridere le riforme. E quando dice nelle conferenze stampa “abbiamo arrestato presunti innocenti”, tutti pensano che le persone cui lui ha contribuito a far mettere le manette siano in realtà tutti colpevoli. Abbiamo visto che non è così, e i 131 assolti di questo processo sono lì a dimostrarlo. Oltre ai tanti dimezzamenti di pena.

Poi, se qualcuno si aspetta il totale degli anni per tutti gli imputati, vada a leggere Travaglio, lì c’è, ma sappia che da queste parti quel totale non lo avrà mai. Perché chi fa quel calcolo per sparare come pallottole titoloni con numeri pieni di zero non rispetta la Costituzione, per cui “la responsabilità penale è personale”. Poi, se si vuol sapere se gli uomini delle cosche sono stati castigati dalla sentenza di primo grado, possiamo guardare le pene più alte comminate, come i 30 anni di carcere per Saverio Razionale o i 28 per Paolo Lo Bianco. E non siamo neanche in corte d’assise, qui non ci sono i reati di sangue, ma è sempre l’articolo 416 bis del codice penale a innalzare le pene.

Il procuratore vicario della Dda di Catanzaro Vincenzo Capomolla non si sbilancia nel commento, come sicuramente avrebbe invece fatto il suo predecessore: “E’ stata dimostrata -dice-la contaminazione che la ‘ndrangheta vibonese esercita sul territorio”. Ma tutto sommato ha in mano solo lo scalpo di Giancarlo Pittelli. E sa bene che in appello, lontano dai riflettori e dalle grida sulle “sentenze storiche”, le carte vengono esaminate con maggiore cura, e che poi la stessa cassazione difficilmente potrà smentire se stessa. Entro due anni si dovrà celebrare l’appello, se no le carceri calabresi si svuotano per prescrizione. Ci sarà da lavorare per i 600 avvocati difensori che in questi anni hanno popolato la maxi-aula di Lametia. Ma anche per la procura “antimafia”, perché la sua teoria sulla “zona grigia” che sostiene la ‘ndrangheta dall’esterno è sempre più traballante.

Più di 300 imputati e 600 avvocati. È Rinascita Scott: farsa o tragedia? Gratteri non ha mai nascosto l’ambizione a essere definito il “Falcone di Calabria” e anche perché, fin da quella notte di quattro anni fa, ha dato l’impressione di aver voluto realizzare quel suo primo progetto, di voler smontare e poi rimontare la Calabria come un lego. Tiziana Maiolo su Il Dubbio il 17 novembre 2023

Lunedì 20 novembre, quando alle dieci del mattino le tre giudici del processo “Rinascita Scott” entreranno nell’aula bunker di Lamezia per leggere il dispositivo della sentenza, troveranno non solo 338 imputati in visibile ansia per il verdetto, ma anche l’attuale procuratore di Napoli, Nicola Gratteri. Il quale ha deciso che sarà presente, perché questo processo è la sua creatura prediletta fin da quel giorno di quattro anni fa, era il 19 dicembre del 2019, quello del blitz più clamoroso e scenografico della Calabria, dopo quello famoso di Platì con i suoi trecento arresti e altrettante, o quasi, assoluzioni. È da quel giorno che si attende, che lo stesso ex procuratore di Catanzaro attende.

L’aula bunker costruita appositamente, per contenere un processo da subito definito Maxi, centinaia di imputati e 600 avvocati, migliaia le pagine delle indagini preliminari, quasi tre anni di udienze e poi le richieste di condanne del giugno scorso lanciate come dardi, da uno a trent’anni di reclusione.

Quasi come se in quest’aula si processassero rapine e omicidi, come se fossimo in Corte d’Assise. Ma tutto è stato di grandi dimensioni, fin da subito in questo processo. Perché il procuratore non ha mai nascosto l’ambizione a essere definito il “Falcone di Calabria” e anche perché, fin da quella notte di quattro anni fa, ha dato l’impressione di aver voluto realizzare quel suo primo progetto, di voler smontare e poi rimontare la Calabria come un lego.

E, sempre dicendo, ma lo ripete ogni volta, che il “Rinascita Scott” era il processo che sarebbe passato alla storia, perché la Dda aveva individuato, oltre alle cosche mafiose del vibonese, la famosa “area grigia” della borghesia mafiosa che, con il proprio concorso, in gran parte “esterno”, aveva rafforzato la ‘ndrangheta e le proprie attività criminose sul territorio. Tesi ardita, per quando non isolata. Un po’ perché quella fattispecie di reato non esiste nel codice penale ma è solo una costruzione giurisprudenziale, e anche perché, da Roma a Milano, abbiamo visto di recente una sorta di ribellione silenziosa di qualche giudice sulla sua applicazione in modo troppo superficiale.

È una delle scommesse di questo processo, soprattutto per la presenza tra gli imputati dell’avvocato Giancarlo Pittelli, brillante legale calabrese ed ex parlamentare di Forza Italia. È piuttosto evidente che il procuratore Gratteri, ma anche il sistema dell’informazione, tiene gli occhi puntati sulla sorte di colui che è considerata da una parte la vittima prescelta per dare lustro a tutta l’inchiesta, e dall’altra, quella dell’accusa, la dimostrazione della collusione tra le mafie e una certa parte della società civile e politica. Riflettori accesi sui due protagonisti, quindi.

Il procuratore Gratteri ha chiesto 17 anni di reclusione per Giancarlo Pittelli, facendosi scudo dell’ennesima civetteria, la scommessa. «In pochi avevano creduto in questo processo», aveva detto, accusando i dissidenti e i perplessi di aver “fatto il tifo” perché non si arrivasse fino alla fine e anche di aver in qualche modo irriso per la loro giovane età le tre giudici che sono chiuse in camera di consiglio dal 16 ottobre. In effetti la presidente Brigida Cavasino è nata nel 1982 e le laterali Claudia Caputo e Germana Radici sono rispettivamente del 1986 e 1987.

Ma non è questo il punto. Il problema è sempre quello della terzietà, e anche la forza dell’autonomia dei giudici a essere distanti dai rappresentanti dell’accusa, soprattutto in un caso come questo, con una presenza così ingombrante come quella di Nicola Gratteri, da un mese procuratore di Napoli. Un capo dell’ufficio il quale, pur disponendo di tre procuratori d’aula come Anna Frustaci, Antonio De Bernardo e Andrea Mancuso, ha voluto snocciolare di persona i numeri delle richieste degli anni da far scontare in caso di condanne.

Ha avuto un tono molto forte il procuratore quel giorno, pareva quasi aver emesso una sentenza. Ed è quello su cui conta, è evidente. Anche perché ultimamente non gli è andata molto bene, con i personaggi pubblici, dall’ex presidente della giunta regionale Mario Oliverio, fino al presidente della stessa assemblea Domenico Tallini, fino a una serie di amministratori del processo “Stige”: tutti assolti. Ha perso nel 60% delle volte, a proposito di scommesse.

Fatto sta che l’ultimo giorno di agosto, quando finalmente, dopo un paio di anni trascorsi tra il carcere e i domiciliari, l’imputato Pittelli ha potuto prendere la parola e spiegare alle giudici chi avessero davanti («non sono stato, non sono e non sarò mai un mafioso» ), il procuratore Gratteri non si è neppure fatto vedere. Un piccolo sgarbo formale che pare in contrasto con l’immagine di capitano coraggioso di cui il personaggio è ammantato sia quando nelle conferenze stampa presenta i suoi blitz sia quando fa conferenze nelle scuole o pubblicizza i propri libri. Ma ci sarà lunedì, forte della recente promozione di carriera. Giancarlo Pittelli resterà a casa ad attendere la sentenza.

Crolla il processo “Stige”: pioggia di assoluzioni in appello.Verdetto ribaltato per 26 imputati, tra i quali ex sindaci funzionari e professionisti. L’allora procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri la definì «la più grande operazione degli ultimi 23 anni». Ma il coinvolgimento della politica non regge. Simona Musco su Il Dubbio l'11 novembre 2023

Decine di imprenditori, ex sindaci, professionisti, funzionari, comuni cittadini assolti da accuse gravissime. Si chiude con un ribaltone il processo “Stige”, «la più grande operazione degli ultimi 23 anni», come fu definita dall’allora procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri subito dopo gli arresti.

La Corte d’Appello di Catanzaro, presieduta dal presidente Antonio Giglio, ha infatti assolto 26 imputati riformando inoltre diverse sentenze di condanna comminate in primo grado dal Tribunale di Crotone, che nel 2021 aveva pronunciato 54 condanne e 24 assoluzioni. Ora la Corte d’Appello ha risicato ulteriormente la tenuta del quadro probatorio, confermandolo solo per quelli considerati organici alla cosca mafiosa dei Farao-Marincola ed escludendo praticamente del tutto un coinvolgimento della politica.

All’alba del 9 gennaio 2018, mille carabinieri svegliarono la provincia di Crotone per mettere le manette ai polsi di 169 persone, tra i quali dieci amministratori pubblici, come il presidente della provincia di Crotone, nonché sindaco di Cirò Marina, Nicodemo Parrilla, eletto, secondo l’accusa, coi voti delle cosche, per le quali si sarebbe messo a disposizione. Parrilla, eletto l’anno precedente con il 62,2 per cento di voti, era prima finito in carcere e un mese dopo spedito ai domiciliari dal Riesame, che ritenne non sussistenti i gravi indizi di colpevolezza per l’accusa di associazione mafiosa.

Parrilla, che è anche sindaco di Cirò Marina, avrebbe conquistato la Provincia facendosi aiutare dagli scagnozzi del clan, capaci di convincere i consiglieri delegati del Comune di Casabona (Kr) a votare per lui. In primo grado era stato condannato a 13 anni, ma ieri la Corte d’Appello lo ha assolto. Ma assieme a lui furono decine gli imprenditori arrestati e portati in carcere, con sequestri di beni e di decine di aziende per 50 milioni di euro. Un’indagine, dunque, che sanciva l’incapacità del territorio di avviare forme di economia legale.

«Le cosche - aveva spiegato Gratteri - controllavano il respiro, il battito cardiaco di tutte le attività commerciali». Un’intera squadra politica, secondo la Dda, si piegava ai voleri della cosca in cambio di voti, mettendo l’attività istituzionale a disposizione del clan. Come il sindaco di Strongoli, Michele Laurenzano, non intraneo alla cosca, secondo le accuse, ma capace di fornire «un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo ai componenti dell’associazione». In primo grado fu condannato a 8 anni, oggi ne è uscito pulito.

L’indagine era già stata messa a dura prova dopo gli arresti, quando Riesame prima e Cassazione poi hanno smontato le esigenze cautelari ritenendo inutilmente oneroso il carcere per molti degli indagati, in particolar modo politici ed imprenditori, punto di contatto, secondo l’accusa, tra le cosche del crotonese e la società civile. L’operazione “Stige” - «da portare nelle scuole di magistratura per spiegare come si fa un’indagine per 416 bis», aveva sottolineato Gratteri - servì infatti a spiegare una tesi ribadita poi successivamente in altre operazioni della Dda: l’economia, nel crotonese, è tutt’altro che libera e in mano, per buona parte, ai clan. Una tesi raccontata associando la Calabria all’inferno, quello rappresentato da uno dei cinque fiumi degli inferi, un «baratro» dove, oltre tutto, «è a rischio la libertà di voto», aveva assicurato l’allora aggiunto Vincenzo Luberto.

Valentino Zito, la vittima del clan scambiata per mafioso. L’imprenditore arrestato nell’ambito dell’operazione “Stige” era sull’autobus mentre rientrava dall’ospedale: ci sono voluti 5 anni prima di essere assolto. Per la Dda aveva fatto affari con il clan grazie al vino. Simona Musco su Il Dubbio il 13 novembre 2023

La notte del 9 gennaio 2018 non è una notte come le altre per Valentino Zito. È una notte di paura e speranza, mentre torna a casa, a Crotone, a bordo di un autobus. Ha passato gli ultimi giorni in ospedale, lontano dalla Calabria, dove il diritto alla salute è un optional. Lo ha fatto per assistere sua figlia, la piccola Marta (nome di fantasia), che ha appena subito un trapianto di midollo. Ha solo cinque anni e non sa niente di quello che sta accadere a suo padre.

A raccontare la sua storia è l’avvocato Francesco Verri, suo difensore assieme al collega Enzo Ioppoli. Zito, socio amministratore dell’omonima casa vinicola, sta per essere ammanettato. Per strada, davanti ad altre decine di persone che, come lui, hanno scelto l'autobus per percorrere mezza Italia, ognuno per le sue ragioni. Zito deve arrivare a Cirò e non sono previste soste prima che il pullman raggiunga la Calabria. Ma ad un certo punto il mezzo si ferma e a bordo salgono i Carabinieri. Cercano proprio lui, i cui occhi sono rimasti incollati al vetro che lo separava da Marta, in un ospedale. Deve scendere, perché, gli dicono degli uomini il cui volto è coperto da passamontagna, è in arresto. Zito attraversa il mezzo con lo sguardo degli altri puntato addosso. Altrove, intanto, a Cirò, mille militari stanno ammanettando mezza provincia, compreso suo fratello Francesco. «Né il papà di Marta né il fratello sono uomini pericolosi - spiega Verri -. In famiglia fanno vino da generazioni. Solo questo. Non rapine». Valentino e Francesco Zito sono finiti nella rete dell’operazione Stige, come il fiume dell’odio che attraversa gli inferi. Crotone è l’inferno, dunque. E loro sono parte di quel fiume. Provano a difendersi dalle accuse, a spiegare la loro posizione, ma non vengono creduti. Secondo la Dda, avrebbero agevolato le cosche di Cirò accettando la richiesta di due presunti capi clan di produrre delle bottiglie di vino per conto loro. Una cosa che i fratelli Zito fanno da anni, anche per la grande distribuzione. Così imbottigliano il vino e lo consegnano come da prassi, emettendo fattura. Ma i due presunti ‘ndranghetisti non pagano. Secondo la procura, tra gli imprenditori e il clan c’è un patto: fanno affari insieme. Sono soci. Ma di fatto si tratta di un vero e proprio furto.

Gli avvocati, spiega Verri, consegnano ai giudici «una valigia piena di documenti, testimonianze, conti». Spiegano che non c’è stata nessuna cointeressenza sulle vendite successive, che le intercettazioni confermano tutto. E la consulenza stabilisce che il vino è stato prelevato, ma ma il conto non è mai stato saldato. Insomma, sono stati costretti a consegnare il vino. Il Riesame, che li ascolta a notte fonda, decide di farli uscire dal carcere, dopo un mese, ma li manda ai domiciliari. Gli avvocati, allora, portano tutto in Cassazione, dove i giudici annullano la misura cautelare senza rinvio per Francesco, con rinvio per Valentino. Che deve tornare davanti al Tribunale della Libertà per sentirsi dire, finalmente, che non c’è gravità indiziaria. Anzi, c’è il rischio, scrivono i giudici, che queste due persone siano vittime. Ci sono voluti sei mesi, ma ora sono due uomini liberi.

«I Carabinieri in quella notte d‘inverno non si sono presi solo loro e il tempo che il papà di Marta dovrebbe passare con Marta - spiega ancora Verri -. Hanno sequestrato anche l’azienda e il vino. I due fratelli sono prigionieri e inoltre, di colpo, non hanno più niente. Ma dopo la sentenza che arriva da Roma anche la società torna libera». L’Incubo è finito, dunque? Non del tutto. Francesco Zito, in udienza preliminare, sceglie il rito abbreviato. Ed esce subito dal processo: prosciolto perché il fatto non sussiste. Dovrebbe bastare per smentire ogni connivenza. Ma no, Valentino, che sceglie il rito ordinario per spiegare ancora meglio alcune circostanze, viene rinviato a giudizio. «In dibattimento portiamo numerosi elementi favorevoli - sottolinea Verri - e riusciamo a dimostrare anche ulteriori circostanze. Ma il Tribunale di Crotone, sorprendentemente, lo condanna a 12 anni di reclusione. Dico sorprendentemente perché il Riesame ha escluso i gravi indizi, l’azienda è stata dissequestrata, il che significa che non c’è il fumus del reato, ma soprattutto la sentenza relativa al fratello, passata in giudicato, ha stabilito che il fatto non sussiste». Il Tribunale condanna tutti i colletti bianchi. E a Valentino Zito tocca affrontare un ulteriore processo, che vede la fine il 10 novembre 2023.

«Abbiamo dovuto aspettare una piovigginosa sera d’autunno per sentire la parola in nome della quale Valentino Zito ha resistito, ha combattuto con i suoi avvocati, non ha mai smesso di sperare - conclude Verri -. Per sentire la parola assolto. La pronuncia la Corte d’Appello di Catanzaro che butta giù una sentenza sbagliata. Il papà di Marta può tornare da Marta senza temere di doverla abbracciare per l’ultima volta prima di rivederla fra dodici interminabili anni. Finalmente dormirà senza svegliarsi di soprassalto e quell’autobus smetterà di fermarsi, nei suoi incubi ricorrenti, in mezzo ai lampeggianti dei Carabinieri».

Il tour calabrese è riemerso dagli archivi del Csm. Difficile dire no a quel giro in elicottero per l’ex vicepresidente del Csm. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 26 Ottobre 2023

La presidente del tribunale di Palmi ha rischiato di perdere il posto per aver fatto fare un giro in elicottero sull’Aspromonte all’allora vice presidente del Csm Giovanni Legnini. L’episodio, pur risalendo al mese di giugno del 2018, è tornato d’attualità questa settimana in quanto Palazzo dei Marescialli doveva esaminare l’attività svolta dalla magistrata nell’ultimo quadriennio ai fini della sua conferma nell’incarico direttivo. L’ordine degli avvocati di Palmi, quell’anno, aveva organizzato un convegno per ricordare la morte del magistrato Rocco Palamara, padre di Luca e artefice della norma sulle estradizioni, originario di Santa Cristina d’Aspromonte. All’evento era stato invitato, oltre a Palamara junior all’epoca membro del Csm, anche Legnini che aveva però espresso il desiderio di effettuare un giro in elicottero che gli consentisse “una migliore conoscenza” del territorio dell’Aspromonte.

Il programma definitivo della giornata aveva così previsto, a margine dei lavori del convegno, un sorvolo delle impervie montagne calabresi e un pranzo con prodotti tipici ai piani di Carmelia, sopra Delinuova, località nota per essere, a parte le bellezze naturalistiche, un covo di latitanti e sequestratori di persona. La presidente del tribunale di Palmi, per esaudire il desiderio di Legnini, si era allora prontamente attivata con il comandante dei carabinieri per ottenere la disponibilità di uno degli elicotteri in servizio presso il Nucleo dell’Arma dell’aeroporto di Vibo Valentia.

Dalle parti della Benemerita avrebbero però sollevato delle ‘difficoltà’ per l’autorizzazione in quanto dal Csm non era giunta una richiesta formale circa l’impiego dell’elicottero. I carabinieri avevano quindi suggerito alla magistrata di rivolgersi direttamente al questore di Reggio Calabria, città dove ha sede il Reparto volo della Polizia di Stato e che ha una grande disponibilità di elicotteri. Per questa vicenda venne successivamente aperto un procedimento penale, per fatti non costituenti reato, senza dunque che la magistrata fosse indagata. “In data 22.6.2018, nel segnalare al questore di Reggio Calabria la presenza il successivo 29.6.2018 in Palmi dei precitati membri del Csm, per partecipare a un convegno, si faceva portatrice di una richiesta del senatore Legnini, il quale desiderava effettuare un giro perlustrativo in elicottero che gli consentisse e consentisse agli altri due membri del Csm una migliore conoscenza del territorio aspro montino” e che “dall’esame degli atti in oggetto del presente fascicolo, (…) non si rilevano elementi tali da ipotizzare, seppure in astratto, l’esistenza di fattispecie penalmente rilevanti…”, scrissero i magistrati di Reggio Calabria.

La nota della Procura calabrese venne trasmessa, come da prassi, al Csm per i profili di incompatibilità ambientale della toga. Il dibattito in Plenum fu molto acceso, in quanto due consiglieri (il laico della Lega Stefano Cavanna e il togato progressista Giuseppe Cascini) contestarono la delibera di archiviazione per incompatibilità ambientale, chiedendo ai colleghi di seguire un unico metro di valutazione. Altrimenti “si perde di credibilità”, disse Cascini che si astenne durante la votazione insieme ad altri cinque consiglieri. Durissimo, invece, fu Cavanna: “Io sono di Genova e non mi sognerei mai di chiedere un’autoblindo per girare sulle colline della mia città”.

Questa settimana, come detto, il tour calabrese in elicottero è riemerso dagli archivi del Csm ai fini della conferma della magistrata. Il Csm, visti anche i precedenti, ha ritenuto di non doverne tenere conto. A favore della magistrata hanno pesato le sue ottime capacità organizzative ed il fatto che difficilmente avrebbe potuto dire no al desiderio di volo del vice presidente del Csm. Paolo Pandolfini

La sentenza. Processo “Miramare”, la Cassazione annulla la condanna: Falcomatà torna sindaco di Reggio Calabria. Annullata la sentenza d’appello anche per gli altri dieci imputati. Redazione su Il Riformista il 25 Ottobre 2023

Giuseppe Falcomatà tornerà a fare il sindaco di Reggio Calabria. La Cassazione ha annullato la condanna a un anno di carcere, con pena sospesa, per abuso d’ufficio emessa lo scorso novembre. È stata accolta la richiesta degli avvocati Marco Panella e Giandomenico Caiazza e la sentenza del processo ‘Miramare’ è arrivata nella serata di mercoledì a Roma. Annullata la sentenza d’appello anche per gli altri dieci imputati, che erano stati condannati a sei mesi.

L’inchiesta “Miramare”

Un processo nato da un’inchiesta sulle irregolarità nelle procedure di affidamento ad un’associazione del Grand Hotel Miramare. Nel 2015, la struttura era stata concessa senza alcun bando pubblico all’associazione “Il sottoscala”, riconducibile all’imprenditore Paolo Zagarella. Il focus dell’indagine ci sono stati i rapporti tra Falcomatà e Zagarella che, in occasione delle elezioni comunali del 2014, aveva concesso gratuitamente al sindaco di Reggio Calabria alcuni locali di sua proprietà per ospitare la segreteria politica.

La corte di Cassazione avrebbe valutato la desistenza volontaria degli imputati che, dopo aver affidato il Miramare all’associazione di Zagarella, avevano revocato l’affidamento. In mattinata, il sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione Roberto Aniello aveva chiesto l’annullamento della sentenza per prescrizione spiegando che il fatto forse andava qualificato in maniera diversa e ci potrebbero essere dubbi sulla ricostruzione della vicenda. Dubbi che, comunque, non potrebbero essere risolti, in quanto il reato in ogni caso sarebbe prescritto.

Per questo si è arrivati all’annullamento che permette a Falcomatà di rientrare a Palazzo San Giorgio. Tra gli altri imputati, oltre al segretario comunale in carica all’epoca, Giovanna Antonia Acquaviva, all’ex dirigente del settore “Servizi alle imprese e sviluppo economico” del Comune, Maria Luisa Spanò, e all’imprenditore Paolo Zagarella, ci sono i sette ex assessori: Saverio Anghelone, Armando Neri, Rosanna Maria Nardi, Giuseppe Marino, Giovanni Muraca, Agata Quattrone e Antonino Zimbalatti. Anche per loro si interrompe la sospensione imposta dalla legge Severino. L’ex assessore Giovanni Muraca entra al Consiglio regionale da dove era sospeso dopo la condanna d’appello. Redazione

Il caso Lucano e la ’ndrangheta alibi di un sistema perverso. Oltre all'ex sindaco di Riace è successo con Carolina Girasole, Mario Oliverio, l'ex vescovo di Locri Bregantini e tanti altri. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 25 ottobre 2023

Sono passate due settimane dalla sentenza di appello su Riace e sono venute meno le prime impressioni che non sempre sono le più giuste, oggi ci sembra giunto il momento di aprire una riflessione per capire i fatti nella sua complessità e che la grande stampa nazionale ha spesso agitato agli occhi dell'opinione pubblica per spiegare lo stato comatoso in cui si trova gran parte del Sud. Per esempio, il giorno in cui viene arrestato Mimmo Lucano, Goffredo Buccini è a Riace.

Il giorno dopo scrive un articolo sulla prima pagina del Corriere della Sera con l'intenzione di spiegare ai suoi lettori cosa ci sia stato realmente utilizzando come chiave di lettura il mio saggio “la ’ndrangheta come alibi” che chiudeva con una intervista a Mimmo Lucano.

È Buccini a dirlo: «Lui stesso Lucano - del resto si è sempre a suo modo “autodenunciato” persino nella scelta del suo eroe di infanzia “Cosimo u zoppu”- un Robin Hood di Riace - e fin da bambino - è l'ex sindaco di Riace a parlare - ne ero affascinato, mi pareva che Cosimo desse un suo originale contributo alla costruzione di una società più giusta”. Lo ha detto Lucano in un'intervista che chiude il libro di un altro ex sindaco calabrese, Ilario Ammendolia. Papà di uno dei computati». Fin qui le parole di Buccini.

Non so perché abbia sentito il bisogno di scrivere “papà di uno dei computati” dal momento che il mio saggio era stato scritto prima, ma ha detto il vero anche se certamente fuori contesto.

Non nascondo però che mi avrebbe fatto piacere se oggi, alla luce della sentenza di appello, Buccini avesse scritto un articolo in prima pagina o almeno un trafiletto per dire che dei diciotto imputati di Riace, escluso Lucano condannato per un reato di lieve entità, sono stati tutti assolti, anche coloro per i quali la procura di Locri, aveva chiesto gli arresti.

Buccini ha dato una lettura dei fatti piuttosto facile, certamente priva di cattiveria, ma sbagliata dal momento che non c'è stato nessun Robin Hood in salsa calabrese. Lucano non ha rubato neanche per distribuire agli immigrati.

Se ciò che abbiamo detto è vero e lo è, Buccini dovrebbe domandarsi perché qualcuno ha tramato per distruggere “Riace” lanciando un missile a testata multipla per mandare in galera degli innocenti e dimostrare, una volta in più, che in Calabria non può nascere nulla che non sia ’ ndrangheta o malaffare.

Una tesi diffusa e che lo stesso Buccini nel suo libro “L'Italia quaggiù” sembra condividere quando definisce la Calabria: “... una terra di cui al Paese non importa nulla perché la considera irrimediabilmente perduta... e che al cronista ricorda Valona o Aruba”.

È una brutta Calabria quella che vede Buccini anche se individua qualche speranza, per esempio, nell'impegno di tre valorose sindache impegnate contro la mafia. Anche in questo caso però l'autore avrebbe fatto bene a domandarsi come mai una delle tre sindache antimafia di cui parla nel suo libro, Carolina Girasole, sia stata arrestata, PROCESSATA per intesa con la mafia e, dopo un lungo calvario, ASSOLTA perché completamente innocente.

La stessa cosa è successa a Lucano e in forme diverse a Otello Lupacchini, procuratore generale emerito di Catanzaro, all’ex presidente della Regione, Oliverio, all’ex vescovo di Locri Bregantini, e altri che non nomino ma per non danneggiarli. Ma soprattutto e innanzitutto è successo a migliaia di donne e uomini sconosciuti, spesso senza soldi e senza avvocato, ma che hanno vissuto l' inferno senza ricevere mai, né prima né dopo l'assoluzione, un solo gesto di solidarietà.

Forse per questo lo scrittore Francesco Permunian, zio del sostituito procuratore che ha sostenuto l'accusa contro gli imputati di Riace aveva consigliato al nipote di “fuggire” da Locri. Il dottor Permunian se ne è andato… Altri se ne sono andati, ma non se ne va chi la Calabria ama veramente. Non se ne vanno magistrati coraggiosi.

Non fugge chi ritiene che questa terra bellissima e generosa meriti un destino migliore. Che non avrà, almeno finché ci limiteremo ad esprime solidarietà a singole vittime (considerando ogni storia, una storia a sé) invece di comprendere che bisogna rompere un sistema perverso che genera vittime e carnefici e pretende il sottosviluppo d'una parte importante del Paese.

Dopo 7 anni un pentito racconta la verità sulla fine di Maria Chindamo, uccisa e data in pasto ai maiali. Carlo Macrì il 7 Settembre 2023 su Il Corriere della Sera.

L’inchiesta «Maestrale-Carthago» ha portato all’esecuzione di 84 misure cautelari (29 in carcere, 52 ai domiciliari), chieste dalla Procura di Catanzaro. Gratteri: «Non le era permesso avere un nuovo compagno»

Sequestrata, uccisa e data in pasto ai maiali. E, i resti, triturati da un trattore cingolato per far sparire le tracce. E’ la fine che ha fatto Maria Chindamo, l’imprenditrice agricola di 42 anni, di Laureana di Borrello, scomparsa il 6 maggio 2016 nella campagne di Limbadi, mentre si apprestava ad entrare nella sua proprietà. Quello che il Corriere ha anticipato quattro anni fa, adesso è emerso dalle carte dell’inchiesta «Maestrale-Carthago» che giovedì ha portato all’esecuzione di 84 misure cautelari (29 in carcere, 52 ai domiciliari), chieste dalla procura distrettuale di Catanzaro e ordinate dal giudice distrettuale di Catanzaro.

In manette uno dei presunti killer

Tra gli arrestati avvocati, dirigenti ospedalieri e politici, come l’ex presidente della provincia di Vibo Valentia Andrea Niglia. In manette è finito anche Salvatore Ascone, detto «u Pinnularu», uno dei presunti killer di Maria Chindamo. L’uomo era stato già arrestato e poi scarcerato dal Riesame, perché secondo i magistrati della procura avrebbe omesso il sistema di videosorveglianza installato nella sua abitazione per impedire la registrazione delle immagini della telecamera che era orientata proprio sull’ingresso della proprietà dell’imprenditrice.

La macabra esecuzione

A svelare i particolari macabri dell’esecuzione dell’imprenditrice è stato Emanuele Mancuso, esponente di spicco dell’omonimo clan di Limbadi, diventato collaboratore di giustizia. La donna è stata uccisa esattamente un anno dopo il suicidio del marito Vincenzo Puntoriero, impiccatosi pochi giorni dopo che la coppia aveva deciso di separarsi. Sarebbe stato, inoltre, considerato un «atto imperdonabile» il fatto che Maria Chindamo si fosse fatta vedere in giro con il suo nuovo compagno.

Gli appetiti dei clan

«Non le è stata perdonata la sua libertà, la voglia di essere indipendente e, tre giorni dopo che aveva postato sui social la foto con il suo nuovo compagno, è sparita», ha detto il procuratore Gratteri. Così come non le sarebbe stata fatta passare l’idea di poter gestire da sola lei, donna, i terreni della famiglia del suo ex marito, per i quali le cosche del territorio avevano già pensato di accaparrarsi. Tentativi falliti, perché l’imprenditrice ha sempre tenuto lontano gli appetiti dei clan. Una serie di trame hanno dunque segnato la fine di Maria Chindamo. Il piano per rapire l’imprenditrice fu organizzato nei dettagli. I sequestratori l’hanno attesa davanti al cancello dell’azienda. Sapevano dell’appuntamento che la donna aveva con alcuni operai che dovevano svolgere dei lavori. La donna, forse conosceva i suoi sequestratori (sembra tre), tanto da non insospettirsi di nulla vedendoli davanti al cancello.

L’oppressione delle cosche

Maria Chindamo fu ferita nel tentativo di divincolarsi dalla morsa dei suoi aggressori. Tracce di sangue furono rilevate all’interno del suo Suv e sulle pareti del muro di cinta dell’azienda. L’inchiesta che ha debellato le cosche della zona di Mileto e Zungri, nel Vibonese, ha fatto emergere anche altri particolari di vita quotidiana, che danno il senso dell’oppressione delle cosche sul territorio. I vertici delle famiglie di ‘ndrangheta avevano imposto a tutti i panificatori e rivenditori, l’obbligo di non vendere il pane al di sotto di 2,50 euro.

Maria Chindamo, il fratello: "Vi svelo perché è stata uccisa". Secondo il fratello di Maria Chindamo, chi le ha tolto la vita lo ha fatto anche per vendicare l'ex marito, che si era suicidato. La 44enne era scomparsa nel 2016 in provincia di Vibo Valentia. Linda Marino l'8 Settembre 2023 su Il Giornale.

Maria Chindamo è scomparsa a 44 anni il 6 maggio 2016 dalla sua azienda agricola di Montalto di Limbadi, in provincia di Vibo Valentia, in Calabria, lasciando orfani tre figli: Vincenzino, all’epoca dei fatti 20 anni, Federica, 15, e Letizia, 10. Rapita e fatta sparire dopo le 7 della mattina, la sua automobile venne trovata con lo sportello aperto e il motore ancora acceso, c'era sangue ovunque, ma di lei nessuna traccia. Ieri, la svolta. Nella maxi operazione Maestrale- Carthago, che ha portato all'arresto 84 persone in tutta italia per reati vari, è coinvolto anche Salvatore Ascone, indicato da diversi collaboratori di giustizia come l'assassino della donna.

Nel 2021, il collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso, 30 anni, ha rivelato agli inquirenti di sapere come è morta la donna. Secondo l’appartenente all’omonima famiglia ‘ndranghetista, Maria sarebbe stata uccisa, data in pasto ai maiali, sbranata per venti minuti, e poi, forse, triturata con una fresa. Mancuso sostiene di avere avuto queste rivelazioni da Rocco Ascone, dirimpettaio della Chindamo, l’unico, insieme al padre Salvatore, finora indagato e accusato di concorso nel delitto per aver manomesso l’impianto di sorveglianza della loro villetta.

Quel giorno di maggio, infatti, il dispositivo avrebbe potuto riprendere gli ultimi istanti di vita di Maria Chindamo, ma dalla sera precedente risultava non funzionante. La Cassazione ha stabilito l’assenza di manomissioni, per cui Salvatore Ascone è stato prosciolto, mentre per Rocco, all’epoca dei fatti minorenne, era stata chiesta l’archiviazione. Ieri Ascone è tornato in cella perché gli sono stati contestati alcuni delitti, nonché, appunto, l’omicidio, in concorso con altre due persone, di Maria Chindamo. Lo scorso maggio, la Dda di Catanzaro, nell’ambito dell’inchiesta Maestrale-Carthago, ha stabilito che la morte dell’imprenditrice sarebbe avvenuta per mano mafiosa, perché un clan locale, proprio quello dei Mancuso, avrebbe voluto i suoi terreni. Vincenzo Chindamo, fratello della vittima, pensa che il movente di questo delitto sia complesso: questo è quello che ha detto a IlGiornale.it.

Vincenzo Chindamo, lei crede davvero che sua sorella possa essere stata uccisa perché qualcuno voleva i suoi terreni?

“Non penso sia solo questo. Quale mostro potrebbe uccidere una donna solo perché interessato ai suoi beni, senza mai darle un avvertimento, farle una minaccia? Credo ci sia dell’altro”.

A cosa si riferisce?

"Mia sorella è cresciuta in un ambiente influenzato dalla cultura mafiosa, ma lei amava fare le sue scelte, essere libera. Si era sposata molto giovane, era innamorata di suo marito, avevano avuto tre figli. Nella loro famiglia si respirava serenità, finché un giorno si è accorta di provare dei sentimenti per un altro uomo, così ha deciso di mettere la parola fine al matrimonio. Questa sua scelta è stata molto chiacchierata dalle nostre parti. Mio cognato Nando Punturiero era un uomo buono, perbene, ma fortemente pressato da una famiglia che lo incitava a ribellarsi a questa separazione, finché non ce l’ha fatta più e nel 2015 si è tolto la vita. Ci aveva già provato una volta, ma io l’avevo salvato".

"Data in pasto ai maiali" Dopo tre anni si scopre cosa è successo a Maria

Dunque il movente potrebbe essere legato a suo cognato?

"Credo che qualcuno abbia voluto vendicarlo, e non è un caso che mia sorella sia stata uccisa esattamente un anno dopo il suicidio dell’ex marito. Chi l’ha uccisa potrebbe anche aver voluto fare gli interessi delle cosche locali, che vogliono avere il pieno controllo dei terreni della zona. Dunque penso a un movente misto".

Sua sorella ha lasciato tre figli. Chi si preso cura di loro?

"Sono stato io, e devo dire che è stato difficile, soprattutto con la più piccola, che appena un anno prima aveva perso l’adorato papà. Quella mattina è spettato a me dirle che anche la mamma non c’era più. Mia nipote, l'unica dei tre che vive ancora con me, ha sofferto tantissimo. Oggi è una adolescente che sta costruendo il suo futuro con serenità, anche se a volte nei suoi occhi vedo la malinconia di chi non ha più la propria famiglia. Cerco di darle tutto l’affetto che posso, a volte le do più di quanto non faccia con le mie due figlie, perché lei ha quasi timore nel chiedermi le cose. Le manca la sfrontatezza che di solito i ragazzi hanno con mamma e papà perché, in fondo, io sono solo lo zio".

Che cosa si augura?

"Che i responsabili della morte di mia sorella finiscano tutti dietro le sbarre e paghino il conto con la giustizia. Era una donna solare, creativa, libera. Quando guardo mia figlia Maria Paola, vedo lei. E sorrido".

Estratto dell’articolo di R.I. per “il Messaggero” venerdì 8 settembre 2023.

La ferocia della ’ndrangheta non perdona chi decide di ribellarsi. Come Maria Chindamo, svanita nel nulla a maggio 2016. È stata uccisa e data in pasto ai maiali, con i resti triturati da un trattore cingolato per cancellare ogni sua traccia. Un omicidio «efferato e straziante», è la definizione del Procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri […] 

È la terribile verità che, sette anni dopo, emerge sulla scomparsa di Maria Chindamo, 44 anni. L'operazione "Maestrale-Carthago" ha portato alla disarticolazione delle cosche di ndrangheta di Mileto e Zungri e all'esecuzione di 84 misure cautelari, 29 delle quali in carcere, 52 ai domiciliari e 3 obblighi di presentazione alla polizia giudiziaria. Gli indagati sono in tutto 170 e 200 i capi d'imputazione. 

Maria Chindamo, per chi l'ha massacrata, non avrebbe dovuto permettersi il lusso di rifarsi una vita. E invece lei, madre di tre figli e vedova dopo che il marito, Vincenzo Puntoriero, si era suicidato un anno prima per non avere retto alla loro separazione, doveva essere punita.

Determinata e caparbia, si era rimessa a studiare all'università e intendeva ricostruirsi una vita anche come imprenditrice agricola: aveva deciso di gestire i terreni «di proprietà di quella stessa famiglia - scrivo i pm che riteneva la donna responsabile del suicidio del marito». 

Non le sono stati perdonate «la sua libertà e la gestione dei terreni avuti in eredità e su cui gravavano gli appetiti di una famiglia di ndrangheta. E anche il suo nuovo amore», sottolinea il procuratore Gratteri. E così, tre giorni dopo avere postato sui social la foto con il nuovo compagno, Maria Chindamo è stata fatta sparire.

[…] In carcere, tra gli altri, è finito Salvatore Ascone, accusato di concorso nell'omicidio dell'imprenditrice, perché «unitamente a suo figlio Rocco Ascone, all'epoca minorenne, manometteva il sistema di videosorveglianza installato presso la sua proprietà, limitrofa a quella della Chindamo, in modo da impedire la registrazione delle immagini». 

[…] L'inchiesta, oltre a fare emergere l'interesse di una cosca di ndrangheta del Vibonese per il terreno di cui l'imprenditrice aveva acquisito insieme ai figli la proprietà dopo la morte del marito, ha ricostruito gli «incontrovertibili rapporti» di parentela tra la famiglia Punturiero e la famiglia ndranghetistica dei Bellocco di Rosarno e ha fatto luce anche su altri omicidi e sul sistema che le cosche di Mileto e Zungri avevano instaurato in materia di estorsioni ad aziende e operatori turistici, legami con la politica e la pubblica amministrazione. Arrivando al punto di imporre anche un prezzo minimo di 2,50 euro sotto la quale i panifici non potevamo vendere il loro prodotto. R.I.

Antonio Maria Mira per “Avvenire” venerdì 8 settembre 2023.

La morte di Maria Chindamo, imprenditrice e mamma di 42 anni, rapita e fatta sparire il 6 maggio 2016 dinanzi alla sua tenuta agricola di Limbadi, in provincia di Vibo Valentia, «ci ha impressionato, perché questa donna dopo il suicidio di suo marito, avvenuto un anno prima, ha pensato di diventare imprenditrice, di curare gli interessi della terra, di curare i figli e affrancarsi da quel “modus operandi” e quella mentalità mafiosa. 

Non le è stata perdonata questa sua libertà, questa sua voglia di essere indipendente, di essere donna». Sono le durissime e molto partecipate parole del procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, nel corso della conferenza stampa sull’esito dell’operazione “Maestrale-Carthago” contro le cosche di ‘ndrangheta del Vibonese. 

[…] 

Due le motivazioni dell’omicidio, che si sovrappongono. La famiglia del marito Ferdinando Punturiero, vicina al clan Bellocco di Rosarno, la riteneva responsabile del suicidio avvenuto dopo la separazione. Inoltre ai suoi terreni era fortemente interessata la cosca Mancuso alleata dei Bellocco. E qui si inserisce la figura di Ascone al quale i Mancuso avevano affidato il controllo criminale della località “Montalto” dove si occupava «di acquisire i proventi estorsivi delle compravendite dei terreni e di gestire con metodologie mafiose quel territorio, nonché i rapporti con i proprietari». 

E arriviamo al 6 maggio 2016. L’auto di Maria viene trovata abbandonata davanti al cancello chiuso della sua azienda agricola. L’auto è aperta, con il motore acceso. Unica traccia una vistosa macchia di sangue sulla fiancata sinistra dell’auto. Ma le telecamere di Ascone smettono di funzionare proprio nei minuti dell’agguato. Ora la drammatica conferma. In attesa di identificare esecutori e mandanti. […]

Pure qualche legale tra gli arrestati nel blitz di Gratteri: un grande classico. A un avvocato di Vibo contestato addirittura il concorso esterno, ad altri la truffa aggravata. Antonio Alizzi su Il Dubbio il 7 settembre 2023

Quando mancano pochissimi giorni all’assemblea plenaria del 13 settembre nella quale il Consiglio superiore della magistratura discuterà la pratica relativa alla nomina del nuovo procuratore di Napoli, da Catanzaro spunta una nuova inchiesta antimafia coordinata dal procuratore capo Nicola Gratteri, uno dei tre candidati che hanno presentato domanda per l’ufficio inquirente partenopeo, il più grande d’Italia. Il magistrato di Gerace punta a diventare il successore di Giovanni Melillo, attuale procuratore nazionale Antimafia. L’operazione di ieri mattina quindi è uno dei tanti “biglietti da visita” con cui il favorito si presenta al grande giorno. Un blitz che nelle ore successive alla notizia lanciata dalle agenzie di stampa ha fatto clamore a livello nazionale sia per la vastità dell’indagine che per i contenuti indiziari.

Sono 84 infatti le persone raggiunte da misura cautelare, mentre oltre 600 sono stati i carabinieri utilizzati in Calabria e in altre regioni italiane per eseguire l’ordinanza firmata dal gip distrettuale di Catanzaro Filippo Aragona, al quale il Csm lo scorso febbraio aveva confermato l’applicazione extradistrettuale per altri sei mesi, essendo stato trasferito su sua richiesta presso il Tribunale di Firenze, dove prenderà servizio tra poche settimane.

L’indagine che tratta le dinamiche delinquenziali della ’ndrangheta vibonese ha portato alla luce comunque fatti di sangue del passato, come l’omicidio di Maria Chindamo, commesso a seguito del suicidio di Vincenzo Puntoriero, avvenuto l'anno precedente, l’8 maggio 2015, e l’assassinio di Angelo Antonio Corigliano, ucciso a Mileto il 19 agosto 2013, il cui movente sarebbe riconducibile ad una rappresaglia ordinata per vendicare l’omicidio di Giuseppe Mesiano, presunto elemento di spicco della locale di Mileto perpetrato nello stesso centro il 17 luglio 2013.

Nel corso della conferenza stampa, il procuratore Gratteri si è soffermato sul delitto della Chindamo, raccontando dettagli raccapriccianti su quanto avvenuto il 6 maggio del 2016 a Limbadi, comune in provincia di Vibo Valentia. «La donna è stata punita per la recente relazione sentimentale dalla stessa instaurata, venuta alla luce con la prima uscita pubblica della coppia appena due giorni prima dell'omicidio, oltre che per l’interesse all’accaparramento del terreno su cui insiste l’azienda agricola divenuta nel frattempo di proprietà esclusiva della Chindamo e dei figli minori», ha spiegato il procuratore. La vittima, secondo il racconto di alcuni collaboratori di giustizia, sarebbe stata data in pasto ai maiali e i resti ossei sarebbero stati triturati con la fresa di un trattore, facendo sparire ogni traccia genetica. Ma non è tutto.

Le investigazioni del pool Antimafia coordinato da Gratteri avrebbero consentito di ricostruire le dinamiche, i collegamenti e gli interessi imprenditoriali delle consorterie mafiose nella provincia vibonese, particolarmente attive nel settore estorsioni, attraverso intimidazioni e danneggiamenti ai danni di aziende edili, imprese ed esercizi commerciali operanti nel settore turistico-alberghiero della cosiddetta “Costa degli Dei”.

Dulcis in fundo, le imputazioni che riguardano gli avvocati, uno dei quali, Francesco Sabatino, finito in carcere con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, reato sempre al centro di dispute giuridiche e che ultimamente viene contestato spesso a chi esercita la professione forense, come a voler “macchiare” quel mandato difensivo che nella stragrande maggioranza dei casi rientra nel perimetro fissato dalle norme deontologiche, mentre in rarissime circostanze va oltre il diritto di difesa, con conseguenze che portano fino alla condanna.

Altri legali, implicati nell’operazione antimafia della Dda di Catanzaro, sono invece accusati del reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche nel settore dell’accoglienza dei migranti. Lo studio di Sabatino infine è stato perquisito dai carabinieri ieri mattina. Nella notte, però, i militari dell’Arma avevano bussato alla porta di casa per notificargli il provvedimento. In quel momento erano presenti il penalista e la moglie.

«La nostra regione è oramai la Calabria giudiziaria», penalisti in protesta. Il Coordinamento delle Camere penali calabresi annuncia l’astensione dalle udienze per il 20 luglio: «Giustizia spettacolo, violata la presunzione d’innocenza». Valentina Stella il 12 luglio 2023

«Nel distretto della Corte di Appello di Catanzaro si assiste alla concreta demolizione dei diritti dei cittadini indagati e imputati» : il riferimento a Nicola Gratteri non è esplicito ma il senso è chiaro ed è uno dei motivi per il quale il Coordinamento delle Camere penali calabresi ha annunciato una astensione dalle udienze per il prossimo 20 luglio.

Il documento delle undici camere penali territoriali parte dal fatto che «la nostra regione è oramai divenuta la Calabria giudiziaria delle centinaia di ordini di cattura eseguiti nottetempo, nell’ambito di quei maxiprocessi, meglio definibili processi straordinari, in cui vengono concentrati presunti innocenti in forza di una interpretazione giuridicamente eccentrica, da parte della pubblica accusa, dell’istituto della connessione, che rende tutto (mafiosamente e non teleologicamente) connesso». Inoltre, «la spettacolarizzazione del maxi- processo nella “terra di Calabria” ha raggiunto la più elevata e inimmaginabile vetta con la recente diretta televisiva delle richieste di condanna nel procedimento denominato Rinascita Scott, a reti mediatiche unificate per garantirne l’ascolto da talk show di prima serata, sottoponendo gli imputati alla ulteriore chemioterapica obliterazione, anche e soprattutto sociale, della presunzione di innocenza».

Non dimentichiamo inoltre, come denunciato già in passato, che «le istanze di libertà rivolte da presunti innocenti al più alto Organo di giustizia di merito, il Tribunale di Catanzaro in funzione di giudice dell’appello cautelare, subiscono un’anticamera, prima che ne sia trattato il merito, di molti mesi, con grave, intollerabile lesione del dettato costituzionale della presunzione di non colpevolezza e del principio della minima sofferenza, mentre analoga sorte non veniva destinata, sino a poco tempo addietro, agli appelli cautelari proposti dall’Ufficio di Procura distrettuale».

In ultimo i penalisti calabresi rilevano che «nell’altro ambito che attiene alle domande di riparazione per ingiusta detenzione presentate dalle vittime della giustizia ingiusta, persone depredate della libertà (e della propria vita) a seguito di provvedimenti giudiziari riconosciuti giuridicamente sbagliati, l’attività di monitoraggio condotta dalle Camere penali calabresi e dagli Osservatorio in seno alle stesse ha consentito di appurare dati a dir poco inimmaginabili: dinanzi alla Corte di Appello di Catanzaro giacciono da anni istanze di riparazione per ingiusta detenzione addirittura presentate nell’anno 2021, che sono in attesa di fissazione, trattazione e decisione, configurandosi una situazione grave e intollerabile». Per tutti questi motivi, «ritenuta non più tollerabile la violazione del diritto dell’indagato e dell’imputato» e delle vittime di ingiuste detenzioni i penalisti diserteranno le aule giudiziarie la prossima settimana.

43 arresti in Calabria, Sicilia e Lombardia per un traffico di droga e armi. Fra gli indagati l’ex governatore calabrese Oliverio. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 27 Giugno 2023

Fra gli indagati figurano anche l’ex presidente della Regione Calabria Mario Oliverio (Pds) e l’ex assessore regionale Nicola Adamo (Pd). Nell'ambito della stessa indagine è finito ai domiciliari l'ex consigliere regionale Enzo Sculco.

I carabinieri di Monza, coordinati dalla Dda di Milano, hanno smantellato un’associazione per  delinquere finalizzata al traffico nazionale e internazionale di sostanze stupefacenti e armi, riciclaggio e autoriciclaggio. L’autorità giudiziaria ha complessivamente contestato agli indagati 221 capi d’imputazione. L’operazione è stata eseguita nelle province di Monza Brianza, Milano, Como, Pavia, Reggio Calabria, Catanzaro, Messina, Palermo, Trieste e Udine, dagli uomini del Nucleo Investigativo del Comando Provinciale di Monza Brianza e dei comandi Arma territorialmente competenti.

l’ex presidente della Regione Calabria Mario Oliverio (Pd) 

Fra gli indagati figurano anche l’ex presidente della Regione Calabria Mario Oliverio (Pd) e l’ex assessore regionale Nicola Adamo (Pd). In totale gli indagati sono 123. L’ordinanza applicativa di misura cautelare personale è stata emessa dal Gip Antonio Battaglia del Tribunale di Milano su richiesta della Dda, nei confronti di 30 persone (26 di nazionalità italiana e quattro marocchina). Ai domiciliari, tra gli altri, é finito Enzo Sculco, già consigliere regionale e Giancarlo Devona, che è stato assessore ai Lavori Pubblici a Crotone nella giunta del sindaco Peppino Vallone. Tra gli indagati figurano sono due dirigenti della Regione Calabria: Mimmo Pallaria (ex sindaco di Curinga e attualmente consigliere comunale e direttore generale del dipartimento Forestazione della Regione) ed Orsola Reillo.

Indagati anche Alfonso Dattolo, sindaco di Rocca di Neto, Flora Sculco ex consigliera regionale (con centrosinistra di Oliverio)  che lo scorso gennaio era stata nominata consulente dell’attuale presidente della Regione per il raccordo dell’attività politico-istituzionale con la provincia di Crotone, e gli imprenditori Giovanni Mazzei, Raffaele Vrenna e il fratello Gianni, rispettivamente ex e attuale presidente del Crotone Calcio. Nonchè il boss dell’omonima cosca di Papanice Mico Megna e un nutrito gruppo di affiliati. 

Lo stupefacente proveniva dal Sud America (prevalentemente dall’Ecuador) e dalla Spagna e approdava celato nei container nel porto calabrese di Gioia Tauro per giungere in buona parte a Milano. L’associazione aveva la base operativa nel capoluogo lombardo, dove uno dei principali indagati (una sorta di broker) si occupava di mantenere tutte le relazioni per concludere gli affari di droga, tenendosi comunque in contatto con i complici calabresi indispensabili per l’estrazione in modo sicuro della merce dal porto.

L’inchiesta ha consentito di ricostruire innumerevoli compravendite di stupefacenti per un totale di 3.051 kg di hashish (del valore alla vendita di circa 12 milioni di euro) e 374 kg cocaina (del valore alla vendita di circa 11 milioni di euro). Parallelamente al traffico di droga, è emerso un illecito commercio di armi da fuoco comuni e da guerra (mitragliette Uzi, fucili da assalto Ak47, Colt M16, pistole Glock e Beretta, nonché bazooka e bombe a mano Mk2 ananas). Gli indagati acquistavano le armi da un fornitore monzese, condannato all’ergastolo per omicidio aggravato ed associazione mafiosa, ma beneficiante di periodici permessi premio durante i quali sviluppa le intermediazioni per le armi.

L’indagine della procura distrettuale antimafia “ha disvelato un diffuso sistema clientelare, al centro del quale si pone la figura di Vincenzo Sculco, da tempo implicato nelle dinamiche politico affaristiche della città di Crotone ed in grado di influenzare le istituzioni e di eterodirezionare i finanziamenti verso un gruppo di potere privo di scrupoli“. Questo è il quadro tracciato dagli inquirenti del 73enne esponente politico crotonese, con un passato di leader sindacale in quanto segretario generale della Cisl calabrese, prima ancora che di consigliere regionale. Già nel 2009, peraltro, Enzo Sculco, all’epoca vice presidente della Provincia, era finito agli arresti domiciliari nell’ambito di una indagine della Procura di Crotone per una vicenda di appalti truccati, frode in pubbliche forniture e incarichi elargiti a persone gradite.

“Una sequela indeterminata di reati, funzionali ad accrescere il peso specifico elettorale attraverso incarichi fiduciari, nomine e assunzioni, di matrice esclusivamente clientelare, in enti pubblici, nella prospettiva di ottenere ii voto, nonché affidando appalti anche a imprese i cui titolari avrebbero assicurato l’appoggio elettorale“. Sono quelli contestati dalla Procura distrettuale antimafia guidata da Nicola Gratteri a politici e imprenditori coinvolti nell’inchiesta che oggi ha portato ad arresti eccellenti a Crotone e nel resto della Calabria. Gli inquirenti parlano di un patto stipulato dal leader del movimento I democratici, Enzo Sculco, e l’allora presidente della Regione Calabria Mario Oliverio, del Pd, con il primo che avrebbe garantito sostegno elettorale al secondo in cambia della candidatura della figlia Flora Sculco al consiglio regionale.

Tutto ciò con la partecipazione dell’ex vicepresidente della regione Nicola Adamo. Da questo patto sarebbero appunto derivati una serie di incarichi e appalti elargiti dai politici a dirigenti ed imprenditori di fiducia. In questo modo, spiegano gli inquirenti, sarebbe avvenuta la penetrazione all’interno del Comune di Crotone, con “la individuazione di dirigenti, loro graditi”, “il condizionamento di appalti pubblici, attraverso affidamenti illeciti a imprese gradite a Sculco Vincenzo e Devona Giancarlo“, “l’affidamento di incarichi a soggetti graditi a Sculco e Devona“. E ancora la la penetrazione nella società “Crotone Sviluppo” partecipata dal Comune di Crotone, con la “individuazione da parte dello Sculco di direttori generali, a lui graditi, nonchè dell’amministratore unico”.

Dopodichè “la penetrazione nella Provincia di Crotone, mediante il condizionamento del voto nel 2017, attraverso un accordo promosso da Sculco per far eleggere Parrilla Nicodemo, facendo apparentare i cirotani con i mesorachesi e controllando lo Sculco capillarmente le operazioni elettorali“. Da sottolineare che Parrilla, dopo essere stato eletto presidente della Provincia di Crotone è stato coinvolto e condannato nella maxi operazione antimafia “Stige”. La penetrazione nell’Aterp Calabria, distretto di Crotone, di Mario Oliverio, Giancarlo Devona e Vincenzo Sculco con la designazione a direttore generale di Ambrogio Mascherpa, persona di fiducia di Mario Oliverio ed in precedenza commissario straordinario del predetto ente. 

L’indicazione da parte di Giancarlo Devona Nicola Adamo, Vincenzo Sculco, dell’ex consigliere regionale Sebi Romeo e Giancarlo Devona, “di professionisti, loro graditi, per l’espletamento di incarichi per canto di Aterp, quale quello relativo all’accatastamento di immobili di edilizia popolari nell’area crotonese”. Gli inquirenti della Dda trascrivono ed evidenziano che “a penetrazione nell’Asp di Crotone, mediante la precisa concertazione tra Mario Oliverio, Giancarlo Devona, Vincenzo Sculco, Nicola Adamo, in ordine controllo del predetto ente, attraverso la rimozione dell’allora direttore generale Sergio Arena – persona sgradita a Sculco – e la preposizione di una figura di vertice che assicurasse un segnale di discontinuità con il passato, nella specie Antonello Graziano, soggetto gradito a questo ultimo, persona che avrebbe contribuito a nominare i dirigenti Masciari e Brisinda, legati a Sculco medesimo“.

Ireati contestati comprendono l’associazione di tipo mafioso (22 indagati), l’associazione per delinquere (9 indagati), associazione per delinquere finalizzata alla commissione di truffe aggravata dalle finalità mafiose (3 indagati), la turbata libertà del procedimento di scelta del contraente e poi estorsione, illecita concorrenza con minaccia o violenza, omicidio, trasferimento fraudolento di valori, concorso esterno in associazione di tipo mafioso, turbata liberà degli incanti, corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, falsità ideologica e materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, scambio elettorale politico mafioso, truffa aggravata. 

Tutti gli indagati

ADAMO Nicola, nato 31.07.1957a Cosenza;

ALTAVILLA Euclide, nato a Francavilla Fontana (BR) il 16/08/1978;

ARACRI Francesco, nato a Crotone il 30/01/1961;

ARACRI Giuseppe, nato a Crotone il 09/08/1974;

ARACRI Salvatore, nato a Crotone il 12/02/1953;

ARCURI Rosario, nato a Rocca di Neto (KR) il 08/04/1977;

BASCO Paolo, nato a San Cipriano d’Aversa (CE) il 22/01/1959;

BELLO Giovanni, nato a Parma il 20/06/1964;

BENETTI Mirko, nato a Roma il 13/10/1973;

BENINCASA Francesco Mario, nato a Rocca di Neto in data 01/05/1965;

BENNARDO Francesco Salvatore, nato a Rossano (CS) il 19/01/1958;

BERARDI Giuseppe nato a Cirò (KR) il 28.08.1974;

BOLIC Valentino, nato a Roma il 15.11.1945;

BRUTTO Alessandro, nato a Crotone il 18.07.1969;

CALFA Vincenzo, nato a Crotone il 04.09.1967;

CAMPISANO Giuseppe, nato a Catanzaro il 28.11.1970;

CARIOTI Francesco, nato a Catanzaro il 27.10.1957;

CARRA‘ Filippo, nato a Vibo il 08.10.1964;

CARVELLI Cesare, nato a Crotone l’11.10.1985;

CATERINA Gaetano, nato a Isola Capo Rizzuto il 27.03.1951;

CAVALLO Domenico, nato a Crotone il 24.11.1979;

COLOSIMO Ferruccio, nato a Crotone l’11.01.1978;

CORBISIERI Antonio, nato a Viggiano il 19.03.1978;

CORRADO Andrea, nato a Crotone l’11.03.1988;

COVELLI Alessandro, nato a Catanzaro il 04.04.1984;

COVELLI Rocco, nato a Catanzaro il 12.07.1979;

CRIACO Bonaventura, nato ad Africo il 07.05.1959:

CRUGLIANO PANTISANO Arturo, nato a Crotone il 03.08.1968;

CURCIO Pietro, nato Crotone il 12.07.1984;

DANESE Saverio, nato a Crotone il 03.09.1963;

DATTOLO Alfonso, nato a Rocca di Neto il 23.04.1964;

DATTOLO Santo Raffaele, nato a Rocca di Neto il 13.08.1972;

DE MARCO Francesco, nato a Crotone il 05.09.1971;

DE PASOUALE Giuseppe, nato a Crotone il il 06.10.1986;

DEL POGCETTO Maurizio, nato a Crotone il 31.10.1969;

DELL’AQUILA Giuseppe, nato a Cariati il 02.06.1983;

DESIDERIO Salvatore, nato a Crotone il 28.02.1977;

DEVONA Giancarlo, nato a Crotone il 13.09.1979;

DONATO Aldo Roberto, nato a Soveria Mannelli il 22.08.1954;

FABIANO Maurizio, nato a Crotone il 19.06.1979;

FRESCURA Alessandro, nato a Catania il 24.03.1946;

GALDIERI Valentina, nata a Crotone il 15.09.1981;

GENTILE Sabrina, nata a Crotone il 10.12.1972;

GERMINARA Giuseppe, nato a Savelli il 14.09.1971;

GIRARDI Siro, nato a Treviso il 22.07.1974;

GOKE Mare UIrich, nato a Dusseldroff il 08.01.1966;

GRECO Giovanni, nato a Chiaravalle Centrale il 09.10.1955;

IANNONE Ernesto, nato a Catanzaro il 05.06.1970;

LA ROSA Vincenzo, nato a Catanzaro l’11.03.1958;

LARATTA Artemio, nato a Crotone i 27.05.1975;

LARATTA Pantaleone, nato a Crotone il 18.05.1961;

LUCENTE Maria Luisa, nata a Crotone il 06.02.1979;

LUMARE Roberto, nato a Crotone il 16.05.1984;

LUMARE Salvatore, nato a Dusseldroff il 19.01.1978;

MAIDA Massimiliano, nato in Germania il 30.03.1973;

MALERBA Stefania, nata a Crotone il 16.08.1982;

MANNA Giovanna, nata a Crotone il 20.09.1966;

MANNARINO Salvatore, nato a Cotronei il 17.11.1955;

MARSICO Rodolfo, nato a Miglierina il 02.11.1950;

MARTINO Saverio, nato a Cosenza il 26.02.1971;

MASCHERPA Ambrogio, nato a Cosenza il 08.04.1965;

MASCIARI Francesco, nato a Catanzaro il 18.03.1965;

MAURO Serafino, nato a San Mauro Marchesato il 18.02.1958;

MAZZEI Giovanni, nato a Castelsilano il 18.03.1958;

MAZZEI Salvatore, nato a Crotone il 05.01.1984;

MAZZOTTA Salvatore, nato a Catanzaro il 19.07.1973;

MEGNA Domenico, nato a Crotone il 07.01.1949;

MEGNA Mario, nato a Crotone il 11/05.1972;

MEGNA Pantaleone, nato a Crotone il 23.08.1996;

MEGNA Rosa, nata a Crotone il 10.11.1973;

MONTI Francesco, nato a Crotone il 05.10.1985

MORABITO Paolo, nato a Messina il 25.01.1967;

MOSCOGIURI Enrico, nato a Viggiano il 01.07.1973;

MUNGARI Vincenzo, nato a Crotone il 16.12.1975;

NISTICO‘ Luigi, nato a Catanzaro il 11.06.1965;

OLIVERIO Gerardo Mario, San Giovanni in Fiore il 04.01.1953;

OLIVERIO MEGNA Sandro, nato a Crotone il 03.04.1974;

OUAHID Rachid, nato a Casablanca (Marocco) il 08.06.1971;

PACE Domenico, nato a Crotone il 16.03.1977;

PACE Santa, nata a Crotone il 15.08.1964;

PACENZA Giacomo, nato a Crotone il 21.05.1968;

PAGLIUSO Antonio, nato a Lamezia Terme il 28.04.1989;

PALLARIA Domenico nato a Curinga il 12.01.1959;

PANEBIANCO Salvatore, nato a Umbriatico il 09.02.1969:

PANTISANO Giuseppe, nato a Crotone il 19.03.1985;

PAOLUCCI Massimo, nato a Napoli il 13.12.1959;

PARRILLA Nicodemo, nato a Cirò Marina il 14.09.1959

PEDACE Pantaleone Telemaco, nato a Crotone il 21.01.1971;

PROSPERO Mauro, nato a Peschiera del Garda il 07.06.1960;

PUCCI Giuseppe, nato a Crotone il 21.09.1978;

RACHIELI Salvatore, nato a Cotronei il 05.12.1958;

REDENTE Giuseppe, nato a Siderno il 26.11.1951;

REILLO Orsola Renata Maria, nata a Nicastro il 28.01.1964:

RITORTO BRUZZESE Dario, nato a Crotone il 17.10.1980;

RIZZO Antonietta, nata a Crotone il 31.10.1964:

ROMEO Sebastiano, nato a Reggio Calabria il 07.05.1975;

RUGGIERO Franco, nato a Vibo Valentia il 23.01.1972;

RUSSO Gaetano, nato a Crotone il 15.01.1980;

SANTILLI Nicola, nato a Catanzaro il 21/12/1956;

SAPIA Luigi, nato a Crotone il 03.01.1955;

SCARAMUZZINO Orlando, nato a Crotone il 02.01.1974;

SCERRA Nicodemo, nato a Cirò il 21.11.1977;

SCULCO Flora, nata a Crotone il 09.07.1979;

SCULCO Maria Carmela, nata a Strongoli il 15.08.1962;

SCULCO Vincenzo, nato a Strongoli il 01.06.1950;

SICILIANI Roberto, nato a Crotone il 04.06.1960

SPERLI‘ Teresa, nata a Catanzaro il 13.09.1968;

STRICAGNOLI Carmine, nato a Crotone il 06.03.1971;

STRINI Stefano, nato a Parma il 25.12.1970;

TALARICO Piero, nato a Catanzaro il 10.12.1964;

TORROMINO Santino, nato a Milano il 09.08.1963;

TREMOLITI Giuseppe, nato a Cropani il 13.01.1961;

TURINO Gianfranco, nato a Crotone il 24.09.1973;

VECCHIO Gustavo, nato a Crotone il 04.02.1982;

VELLA Nunzio, nato a Bollate il 19.08.1996:

VELLA Salvatore, nato a Gela il 07.06.1977;

VESCIO Alessandro, nato a Catanzaro il 31.05.1977

VILLIRILLO Giuseppe, nato a Catanzaro il 31.03.1966

VRENNA Giovanni, nato Pagani  il 10.07.1960;

VRENNA Pietro, nato a Crotone il 11.09.1953;

VRENNA Raffaele, nato a Crotone il 20.12.1958:

WIESER Josef, nato in Austria il 16.12.1965;

ZICCHINELLO Tommaso, nato a Crotone il 25.01.1981;

Custodia cautelare in carcere

Francesco Aracri; Salvatore Aracri; Francesco Carioti; Cesare Cervelli; Antonio Corbisieri; Pietro Curcio; Maurizio Del Proggetto; Mark Ulrich Goke; Pantaleone Laratta; Roberto Lumare; Salvatore Lumare; Domenico Megna; Mario Megna; Pantaleone Megna; Rosa Megna; Enrico Moscogiuri; Luigi Nisticò; Sandro Oliverio Megna; Domenico Pace; Santa Pace; Gaetano Russo; Stefano Strini.

Custodia cautelare ai domiciliari

Rosario Arcuri; Giovanni Bello; Giancarlo De Vona; Alessandro Frescura; Giuseppe Germinara; Massimiliano Maida; Salvatore Panebianco; Mauro Prospero; Vincenzo Sculco, Piero Talarico; Gustavo Vecchio; Josef Wieseer.

Le reazioni

“Ringrazio il Ros dei Carabinieri e tutte le forze dell’ordine che questa mattina hanno condotto un importante maxiblitz anti ‘ndrangheta in Calabria. Emerge un quadro preoccupante, con un’organizzazione che avrebbe messo in piedi un ‘diffuso sistema clientelarè per la gestione di appalti pubblici. Ringrazio, in modo particolare, il procuratore Nicola Gratteri per il suo prezioso lavoro, per la sua quotidiana attività contro il malaffare, e anche perchè con queste operazioni ci dà la possibilità di avere – grazie a strumenti che noi non abbiamo e dei quali può invece usufruire l’autorità giudiziaria – elementi conoscitivi utilissimi per portare avanti la nostra complessa azione di governo della Regione». afferma in una nota Roberto Occhiuto, presidente della Regione Calabria, che aggiunge: “Ogni livello istituzionale si deve impegnare, nel rispetto dei rispettivi ruoli, per combattere le pratiche illecite e clientelari: questa battaglia non può essere relegata alla sola magistratura. Nel mio ruolo da presidente di Regione, in questo anno e mezzo, mi sono assunto le mie responsabilità politiche e amministrative, e ho lavorato per voltare pagina. In sanità ho eretto un muro tra politica, commissari e direttori generali delle Asp e delle Ao“.

Occhiuto continua spiegando che “in questi mesi i commissari e i dg – un fatto inusuale in Calabria, e non solo – hanno avuto precise indicazioni dal sottoscritto affinchè scegliessero i propri collaboratori e i vertici delle Aziende in assoluta autonomia, senza ingerenze da parte della politica. Nelle assunzioni – 2.200 in sanità e 700 a tempo indeterminato in Regione – abbiamo dato chiari segnali di discontinuità: niente prove orali per limitare i condizionamenti, commissioni nominate direttamente dal Ministero, priorità ai titoli. Abbiamo premiato il merito, privilegiando la trasparenza e archiviando vecchie cattive abitudini. E abbiamo contrastato con ogni mezzo l’illegalità: dalla gestione dell’ambiente alla depurazione, dalla lotta agli incendi a quella per il mare pulito e contro la mala gestione dei rifiuti. Abbiamo messo in campo – aggiunge Occhiuto – la ‘tolleranza zerò contro il malaffare e contro chi, per piccoli tornaconti personali o di bottega, rema contro la nostra Regione. Sappiamo che non basta, che c’è ancora molto da fare, ma anche grazie alla magistratura migliore possiamo contribuire a costruire una Calabria migliore. Siamo dispiaciuti del fatto che tra qualche mese Nicola Gratteri – che in questi anni ha rappresentato un argine contro la malavita – non potrà più fare il procuratore antimafia a Catanzaro, e auspichiamo – conclude – che il governo possa scegliere una personalità di livello per questo importante e delicatissimo ruolo“.

Il sindaco di Crotone, Vincenzo Voce ha commentato con una nota l’operazione della Dda di Catanzaro che ha portato all’arresto di 43 persone: “Oggi è un giorno di sole che squarcia il buio della notte. Quanto sta emergendo dall’inchiesta della Procura distrettuale – aggiunge il sindaco – mette in luce un sistema che ha soffocato per decenni la città di Crotone. Siamo grati al Procuratore Gratteri, a tutti i magistrati, ai carabinieri ed a tutti coloro che hanno condotto questa delicatissima indagine“. Il sindaco Voce sottolinea anche “la lontananza dell’attuale Amministrazione comunale da quanto é accaduto in passato: Quanto è avvenuto oggi segna un punto di svolta per Crotone. La città, con il voto delle ultime amministrative, ha voluto un cambiamento radicale e noi lo stiamo attuando. Respingiamo tutto quello che puzza di ‘ndrangheta, di corruzione e di malaffare. Lo abbiamo fatto in questi anni, con concreti atti amministrativi, e continueremo a farlo in futuro. La coltre di buio su questa città si sta diradando“.

“Il lavoro che gli uomini delle forze dell’ordine e della magistratura compiono ogni giorno con l’obiettivo di liberare il territorio da ‘ndrangheta e malaffare ha il nostro sostegno, nella salvaguardia dei diritti individuali e delle garanzie costituzionali poste a tutela di ogni indagato. Su questa ferma base ci auguriamo che i soggetti coinvolti nell’odierna operazione, condotta dai Carabinieri del Ros, su direttive della Dda di Catanzaro, possano dimostrare la propria innocenza». Lo scrivono in una dichiarazione congiunta la federazione provinciale del Partito Democratico di Crotone e il Partito Democratico della Calabria, in riferimento all’operazione di stamani che coinvolge, fra gli altri, l’ex governatore Mario Oliverio e l’ex vicepresidente della Regione Calabria Nicola Adamo, entrambi esponenti dei Dem. “Continueremo a vigilare – è scritto – affinchè sia garantita, ai nostri elettori ed ai cittadini tutti, una tenuta etica e morale all’altezza delle loro aspettative”.

I collegamenti tra Catanzaro e Stoccarda

Detta indagine si poi è sviluppata anche nell’ambito di una Squadra Investigativa Comune intercorsa tra la Procura della Repubblica di Catanzaro e la Procura tedesca di Stoccarda, che ha consentito di svolgere, contemporaneamente ed in collegamento, le indagini nei due Paesi, con acquisizione in tempo reale degli elementi indiziari risultanti nelle distinte attività investigative. Eurojust, attraverso il membro nazionale italiano, ha garantito un costante raccordo operativo con l’Autorità giudiziaria straniera coinvolta, oltre che mediante la costituzione della squadra investigativa comune, anche attraverso numerose riunioni di coordinamento internazionale. Le attività investigative, coordinate in ambito internazionale da Eurojust, sono state condotte in cooperazione con la Polizia Federale Tedesca – BKA e supportate da Interpol- progetto I-CAN, e da Europol.

Infine si inserisce l’attività del NOE il Nucleo Operativo Ecologico Carabinieri di Catanzaro, il cui personale ha notificato informazioni di garanzia a carico di diversi indagati, a vario titolo, per i reati di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti, frode nelle pubbliche forniture, altri reati in materia ambientale, turbata libertà del procedimento di scelta del contrante e di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, nonché per reati in materia elettorale. Le attività di indagini per cui si procede riguardano la gestione del ciclo di trattamento dei RSU (Rifiuti Solidi Urbani) nella Regione Calabria. 

Redazione CdG 1947

Una maxi-inchiesta sulla ‘ndrangheta ha investito la politica regionale calabrese. Stefano Baudino su L'Indipendente il 28 giugno 2023.

Clientelismo, appalti pilotati e legami tra ‘ndrangheta e pubblica amministrazione. In Calabria, dove stanno fioccano arresti e iscrizioni nel registro degli indagati per fatti gravissimi, è in corso un nuovo terremoto politico. Il Ros dei Carabinieri, su direttive della Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri, ha arrestato 41 persone: per 22 soggetti l’accusa è di associazione mafiosa, mentre gli altri dovranno rispondere di truffa aggravata da modalità mafiosa, turbata libertà negli appalti, illecita concorrenza con minacce e violenze e molti altri reati. Tra i 123 indagati, insieme ad altre figure chiave della politica regionale, c’è anche l’ex presidente della Calabria Mario Oliverio, eletto col Pd e in carica dal 2014 al 2020, per il quale si ipotizza il reato di associazione per delinquere aggravata dalle modalità mafiose.

«Gli elementi per cui oggi siamo qui comprendono i rapporti con la pubblica amministrazione e la politica regionale che aveva un ruolo attivo, apicale, dominante», ha dichiarato in conferenza stampa il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, illustrando i dettagli dell’operazione insieme al comandante generale dei Ros Pasquale Angelosanto. «Noi oggi abbiamo arrestato 41 presunti innocenti – ha continuato il procuratore – che sono indagati per associazione per delinquere di stampo mafioso, per associazione a delinquere semplice, per tutta la gamma dei reati che riguarda la pubblica amministrazione e tutti i reati di mafia. L’epicentro dell’indagine è la provincia di Crotone con il locale di ‘ndrangheta dei “papaniciari” che ha rapporti sistematici con la pubblica amministrazione, che partono dal 2014 fino al 2020». Gratteri ha espressamente parlato di «una pubblica amministrazione asservita all’organizzazione ‘ndranghetistica, con rapporti diretti con la politica regionale».

Oltre a quello di Oliverio, spiccano nell’inchiesta i nomi di personaggi che, negli ultimi anni, hanno ricoperto importanti ruoli politico-amministrativi, non soltanto in territorio calabrese. Si tratta dell’ex assessore regionale ed ex deputato Nicola Adamo, di 66 anni, dell’ex assessore regionale Antonietta Rizzo, di 59, e dell’ex consigliere regionale Sebi Romeo, di 48. Tutti del Partito Democratico. Coinvolti, tra l’altro, anche due dirigenti della Regione Calabria, Mimmo Pallaria, ex sindaco di Curinga ed attuale consigliere comunale e direttore generale del dipartimento Forestazione della Regione, ed Orsola Reillo. Indagato anche Raffaele Vrenna, ex presidente del Crotone calcio.

Il personaggio fulcro dell’indagine, finito agli arresti domiciliari nel maxi-blitz, è sicuramente Enzo Sculco, ex consigliere regionale calabrese (eletto nel 2005 con la Margherita), ex segretario generale della Cisl regionale, di recente vicepresidente della Provincia di Crotone e grande manovratore politico con il suo movimento “I DemoKratici”. Secondo quanto riportato dal gip nel provvedimento di custodia cautelare, Sculco avrebbe infatti intessuto “accordi volti a consentire la penetrazione di soggetti a lui vicini in enti territoriali e locali, società partecipate dai predetti enti in modo da controllare capillarmente le nomine, assunzioni e le assegnazioni di appalti a imprese a lui gradite”.

Il meccanismo clientelare sarebbe stato messo in piedi da Sculco “in chiave elettorale per il suo movimento e, in particolare, per la figlia Flora Sculco“, anch’essa iscritta nel registro degli indagati. La donna, classe 1979, venne eletta consigliera regionale nel 2014 in appoggio a Oliverio con la lista “Calabria in Rete – Campo democratico”, ottenendo oltre 9mila preferenze; fu rieletta consigliera regionale nel 2020 con il centro-sinistra (elezioni perse dalla sua coalizione) con oltre 6mila voti nella lista dei “Democratici Progressisti”; nel 2021 cambiò casacca, candidandosi con l’Udc a sostegno del forzista Roberto Occhiuto – il quale sarebbe diventato presidente della Regione Calabria -, non risultando però eletta. Il 5 gennaio scorso, Sculco è diventata consulente di Occhiuto.

Il “sistema” di Enzo Sculco, secondo i magistrati, avrebbe trovato appoggio nelle famiglie di ‘ndrangheta della zona “così complessivamente beneficiando di un consistente pacchetto di voti, circostanza questa che gli consentiva di intavolare accordi con Nicola Adamo, Mario Oliverio, Giancarlo Devona e Sebi Romeo – i quali erano pienamente consapevoli della sua potenzialità – per mettere a disposizione detta sua dote elettorale al movimento che avrebbe sostenuto l’Oliverio nelle consultazione regionali da celebrarsi tra il 2019 e il 2020″. Gli inquirenti parlano di “una sequela indeterminata di reati […] funzionali ad accrescere il peso specifico elettorale, attraverso incarichi fiduciari, nomine e assunzioni, di matrice esclusivamente clientelare, in enti pubblici, nella prospettiva di ottenere il voto, nonché affidando appalti anche a imprese i cui titolari avrebbero assicurato l’appoggio elettorale”.

«Lungi da me anche in queste ore atteggiamenti vittimistici o di risentimento che non mi appartengono. Non posso tuttavia non esprimere liberamente una riflessione di amarezza su un sistema giustizia piegato al protagonismo mediatico e per questo pronto a macinare persone, storie, verità, prescindendo da fatti, prove, indizi – ha commentato l’ex presidente della Calabria Mario Oliverio, difendendosi dalle accuse mosse a suo carico -. Prendo atto che il mio nome, per le funzioni istituzionali svolte e per la storia che ho alle spalle, è strumentale a creare attenzione mediatica e magari ad amplificare protagonismi funzionali a scalate carrieristiche. Ho dedicato la mia vita ed il mio impegno politico ed istituzionale nella lotta alla criminalità e per la affermazione della legalità e dei diritti. Non permetterò a nessuno di infangare la mia storia». La partita è ufficialmente aperta. [di Stefano Baudino]

L’amarezza di Oliverio: “Il mio nome usato per il solito protagonismo mediatico”. Parla l’ex governatore della Calabria coinvolto nel maxi blitz della Dda di Catanzaro: “Incredulo e senza parole”. Il Dubbio il 28 giugno 2023

“Rimango davvero incredulo e senza parole di fronte alle contestazioni mosse dalla Procura Dda di Catanzaro nei miei confronti. Anche in questa occasione ho appreso dell'indagine su di me da alcuni giornali nazionali, prima ancora che mi venisse notificata, facendo passare, ancora una volta, che fossi sottoposto agli arresti per reati di mafia. A distanza di circa 4 anni, dopo i ripetuti coinvolgimenti in procedimenti giudiziari sui quali si è pronunciata la Magistratura giudicante con sentenze di piena assoluzione 'perché il fatto non sussiste' ed evidenziando, come ha fatto la Corte di Cassazione, un 'chiaro pregiudizio accusatorio' da parte della Procura di Catanzaro nei mie confronti, confesso di non comprendere la ragione di tanto accanimento”. Reagisce così, con un post su Facebook, l'ex governatore della Calabria Mario Oliverio, indagato nell'ambito dell'inchiesta della Dda di Catanzaro che ieri ha portato all'emissione di 43 misure cautelari (123 gli indagati).

“Lungi da me anche in queste ore atteggiamenti vittimistici o di risentimento che non mi appartengono - aggiunge Oliverio -, non posso tuttavia non esprimere liberamente una riflessione di amarezza su un sistema giustizia piegato al protagonismo mediatico e per questo pronto a macinare persone, storie, verità, prescindendo da fatti, prove, indizi. Anche in quest'ultima vicenda, dalla lettura dell'Ordinanza, mi ritrovo coinvolto in una operazione della Procura di Catanzaro per contestazioni di associazione mafiosa che non mi appartengono e che non a caso lo stesso Gip ha valutato infondate”. “Una indagine - sottolinea - verso la quale dichiaro la mia totale disponibilità a collaborare perché non ho nulla, proprio nulla da temere o da nascondere. Prendo atto che il mio nome, per le funzioni istituzionali svolte e per la storia che ho alle spalle, è strumentale a creare attenzione mediatica e magari ad amplificare protagonismi funzionali a scalate carrieristiche”. “Ho dedicato la mia vita ed il mio impegno politico ed istituzionale nella lotta alla criminalità e per la affermazione della legalità e dei diritti - conclude Oliverio -, non permetterò a nessuno di infangare la mia storia. I polveroni non servono agli onesti né al prestigio ed alla credibilità della stessa Magistratura il cui ruolo è insostituibile e prezioso”. 

Intervista a Enza Bruno Bossio: “Gratteri è senza vergogna, ma pure Occhiuto…” «Mi auguro che Schlein faccia della battaglia per la giustizia giusta un punto centrale alla pari di tutti gli altri diritti» Angela Stella su L'Unità il 29 Giugno 2023

Il blitz della DDA di Catanzaro di due giorni fa solleva diverse questioni: giuridiche, politiche, dell’informazione. Ne parliamo con Enza Bruno Bossio, della direzione nazionale del Partito Democratico.

“Stessi blitz, stesso copione, stessa stucchevole conferenza stampa” ha scritto Tiziana Maiolo. Che ne pensa?

Ha descritto la realtà. Non quella soggettiva, di parte, pregiudiziale. Ma quella suffragata dai fatti che Tiziana Maiolo descrive con esemplare maestria. Le diverse indagini lanciate dal 2018 in poi, dalla Procura della Repubblica di Catanzaro, come anatemi contro gli esponenti più rappresentativi del Partito Democratico calabrese, in particolare il presidente della Regione Calabria Mario Oliverio, sono state smentite da sentenze di proscioglimento e di assoluzione. Ed è ormai nota a tutti, la sentenza della Cassazione che parla di “chiaro pregiudizio accusatorio”. Nonostante ciò, si insiste con lo stesso impianto visto che, al di là delle roboanti dichiarazioni di intrecci tra politica, mafia, affari, l’ordinanza, a proposito dei mostri sbattuti in prima pagina, non tratta null’altro se non criminalizzare riunioni politiche. Non esagera dunque Tiziana Maiolo nello scrivere che “il procuratore non prova vergogna” nel reiterare accuse infondate. La cosa ancora più grave è quando poi si innesta uno strumentale utilizzo politico-mediatico. L’improvvida dichiarazione dell’attuale presidente della Regione Calabria (Occhiuto: “grazie Gratteri, noi in discontinuità col malaffare”, ndr) ne è un esempio luminoso. Egli pensa che assoggettandosi incassi il bottino che la spettacolarizzazione della pubblica accusa gli offre.

Sempre Maiolo scrive: “Il capo della Dda calabrese copre la fragilità delle sue inchieste con il cappello politico”. Concorda?

Non si prendono i titoli del TG nazionali se non metti in mezzo uno o più politici importanti. Badando ovviamente di evitare quelli che possono aiutarti nella carriera.

Si può parlare in Calabria anche di stampa molto allineata con le procure a cui danno voce in maniera esclusiva e acritica?

Il fenomeno c’è ed è abbastanza evidente. In alcuni momenti mi sembra di assistere addirittura ad una competizione, tra alcune testate giornalistiche, a rappresentarsi in termini di fidelizzazione e subalternità nella esaltazione acritica delle tesi della pubblica accusa. Il tema però non è solo calabrese. Anche nel panorama nazionale, a parte qualche lodevole eccezione, a partire dall’Unità, non vedo una capacità di critica e di approfondimento che vada oltre la pubblicazione delle veline delle procure.

Il Procuratore di Catanzaro ha esordito in conferenza stampa: “abbiamo arrestato 41 presunti innocenti”. Catarsi o sfottò nei confronti della legge sulla presunzione di innocenza voluta dalla Cartabia?

Non è la prima volta che Gratteri fa questi show nelle sue conferenze stampa di attacco al parlamento e all’autonomia del potere legislativo. Ma se lo fa, è perché la politica in questi anni lo ha consentito. Del resto è da tempo che non solo Gratteri, ma settori e rappresentanze della magistratura non si limitano ad applicare le leggi ma pretendono di interferire nel procedimento legislativo, gridando poi però alla lesa maestà se si commenta o si critica un loro atto. Ma il fatto più grave è che in questo coro spesso si associno anche i politici, tra cui alcuni del PD. Potremmo definirla Sindrome di Stoccolma.

Il Pd calabrese in una nota scrive: “ci auguriamo che i soggetti coinvolti possano dimostrare la loro innocenza”. Non dovrebbe essere l’accusa a dimostrare la colpevolezza?

Ho colto una piccola positiva novità nella nota del Pd calabrese, che non ripropone il solito refrain della fiducia nella magistratura e fa anche un riferimento alle garanzie costituzionali dell’indagato. Certamente sarebbe stato meglio specificare che l’onere della prova sta in capo all’accusa, anche perché con questa indagine non si tratta più di ragionevole dubbio, ma di azione persecutoria. Per quel che riguarda il Partito Democratico sono anni che mi batto perché il giustizialismo sia estraneo alla nostra linea politica, come ha riproposto Giorgio Gori nel suo intervento in Direzione Nazionale, invocando un cambio di passo affinché, anche dopo l’uscita di scena di Berlusconi, il Pd possa essere il protagonista della difesa dello Stato di diritto basato sull’equilibrio dei e tra i poteri, e sulla piena attuazione dell’art.27 della Costituzione: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. E in ogni caso il Pd dovrebbe imparare a difendere la sua comunità. Non lo ha fatto Zingaretti con Oliverio, non lo ha fatto Letta con Cozzolino. Oggi mi auguro che la Schlein, anche alla luce delle sue conclusioni in Direzione nazionale, dove a tutti noi ha ricordato il nonno radicale, amico di Marco Pannella, faccia della battaglia per la giustizia giusta un punto centrale alla pari di tutti gli altri diritti civili, sociali, umani.

Che ne pensa dell’articolo di Giovanni Tizian ieri sul Domani, il quale scrive che la Segretaria del Pd deve “risolvere il caso Partito democratico in Calabria che, non da ora, ha molte analogie con l’impasto affaristico, politico e criminale emerso in Campania negli ultimi dieci anni”?

Mi dispiace che un giornalista che stimo proponga, oggi, una rappresentazione del Partito democratico calabrese che non esiste. Innanzitutto, con la misoginia alla quale purtroppo non sfugge quasi nessun maschio, mi identifica come moglie di… Dispiace che Tizian abbia rimosso il profilo del mio personale impegno politico, che egli stesso ha avuto modo di apprezzare con inchieste e interviste sulle iniziative di protesta politiche e parlamentari sul Cara di Crotone e sul decreto Minniti, proprio nel 2017. Per non parlare dell’accusa ad Oliverio e Adamo di essere cacicchi come De Luca, dimenticando che mentre per De Luca ci auguriamo corra per il terzo mandato, ad Oliverio il Pd di Zingaretti non ha concesso nemmeno le primarie per il secondo mandato, Nicola Adamo non ha più alcun incarico politico e istituzionale dal 2014. Sarebbe ora che certa stampa, ma anche alcuni settori dello stesso gruppo dirigente nazionale del PD, la smettessero di adagiarsi su una narrazione della Calabria che è molto condizionata da un pregiudizio reputazionale, incominciando a capire cosa sta succedendo davvero in questa terra e quali potenzialità straordinarie offre. Angela Stella 29 Giugno 2023

«Quei blitz servono a emettere sentenze fuori dal processo». Intervista a Gianpaolo Catanzariti, Osservatorio carcere dell’Ucpi, dopo l’operazione della Dda in Calabria: “Conta solo lo stupore iniziale, e offrire la solita narrazione di regione irredimibile e magari infetta per il resto d’Italia”. Valentina Stella su Il Dubbio il 28 giugno 2023

Il blitz della Dda di Catanzaro di due giorni fa solleva diverse questioni, dal piano giuridico a quello dell’informazione. Ne parliamo con Gianpaolo Catanzariti, avvocato e co-responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali italiane.

Ilario Ammendolia ha scritto: «Quasi ogni maxi operazione non è altro che un cocktail preparato da sapienti barman. Alla fine bisogna stupire con gli effetti speciali: la colonna aviotrasportata, le sirene ululanti nella notte i militari in divisa, la conferenza stampa stile Sud America». Non le chiedo di esprimersi sulla vicenda in sé, ma ritiene questa descrizione appropriata in generale?

Credo che Ammendolia abbia descritto bene un quadro oramai usuale e davvero stantio per la Calabria. I maxi blitz offerti all’attenzione mediatica, non solo nazionale, impressionano per i numeri. Forze di polizia impegnate, arrestati, elenchi a 3 o 4 cifre di indagati. Se poi nella pesca a strascico finiscono esponenti della politica, aumenta la giustezza dell’operazione, che rimane tale anche se dopo anni si partorisce un topolino. Conta lo stupore iniziale, la diffusione per giorni o mesi di spezzoni di informative in grado di sollecitare i pruriti collettivi e offrire la solita narrazione di regione irredimibile e magari infetta per il resto d’Italia. Il giusto mix per l’emissione di una sentenza sbrigativa e senza appelli: quella della rete, superficiale ed arrabbiata. Alla fine il processo e la verifica nel contraddittorio delle parti potranno interessare, al massimo, gli avvocati e i loro assistiti. Figuriamoci la sentenza, specie se di assoluzione.

Si può parlare in Calabria anche di stampa molto allineata con le procure a cui danno voce in maniera esclusiva e acritica? Viene meno il loro ruolo di guardiani del potere, compreso quello della magistratura?

La Calabria rappresenta la punta estrema e più arretrata, anche su questo versante. I media spesso sono megafoni delle iniziative giudiziarie e delle tesi dei pm. Hanno abdicato alla loro funzione in una democrazia moderna. Favorire, attraverso una corretta informazione, il controllo pubblico sull’operato di ogni potere, svelandone, come diceva Sciascia, il volto osceno. E quei pochi sulla piazza che coltivano il dubbio, sono additati come espressione di interessi opachi. Eppure senza il dissenso pubblico e isolato di qualche opinionista, non avremmo mai avuto il “caso Tortora”.

Il Pd calabrese in una nota scrive: «Ci auguriamo che i soggetti coinvolti possano dimostrare la loro innocenza». Qualcosa stona?

Ipocrita affermazione, che non riguarda solo il Pd, che spesso si accompagna alla “fiducia nella magistratura”. La nostra Costituzione, almeno fino a quando non verrà cancellato l’art. 27, e i valori di civiltà dell’occidente ci dicono, in maniera inequivoca, che l’indagato e l’imputato non devono dimostrare alcunché. È il pm che deve offrire al giudice le prove granitiche delle sue accuse, vincendo, appunto, la presunzione costituzionale della non colpevolezza. È il segno di come una classe dirigente si sia trasformata negli anni in classe dominante.

Questa visibilità a ridosso della scelta del Csm sul nuovo procuratore di Napoli, potrebbe avvantaggiare il procuratore di Catanzaro?

Non saprei dire se gli effetti speciali di una inchiesta possano condizionare le scelte di un organo di rilevanza costituzionale come il Csm nel conferimento di incarichi direttivi. Di norma si dovrebbe guardare alle conferme finali delle indagini di un pm. Da cittadino mi sentirei più tutelato se si premiasse un pm il cui operato ha offerto risicatissimi margini di errore. Non è solo un problema di credibilità della toga prescelta. È il fondamento della convivenza civile e della sicurezza di una comunità.

Sempre il Procuratore di Catanzaro ha esordito in conferenza stampa: «Abbiamo arrestato 41 presunti innocenti». Catarsi o sfottò nei confronti della legge sulla presunzione di innocenza voluta dalla Cartabia?

È difficile accettare un principio di civiltà. Gli arrestati sono “persone” la cui dignità non può essere cancellata da nessun provvedimento giudiziario quale che sia la condotta criminosa loro contestata. Nemmeno una condanna passata in giudicato può calpestarla. Purtroppo il rispetto della presunzione di non colpevolezza - e non di innocenza - è qualcosa che va praticata e non certo predicata.

A proposito di Cartabia, la sua riforma del processo penale non tocca i processi di criminalità organizzata. Si tratta di un grave vulnus?

Come al solito prevale la logica dell’eccezione che è, per definizione, irrazionalità. E non è solo un deficit della riforma Cartabia. La storia del nostro Paese è infarcita di sbarramenti feroci nel nome della lotta alla mafia. A prescindere.

Appunto, in nome di una certa antimafia, in Calabria si sta rafforzando una torsione dei diritti degli indagati e degli imputati?

Non solo in Calabria anche se la Calabria è da anni un laboratorio giudiziario che poi esporta i suoi esperimenti, facendo risalire al Nord la linea della palma. Le torsioni pericolose di un sistema votato alla belligeranza si espandono sempre più verso settori che nulla hanno a che fare con la criminalità mafiosa. Questa espansione ha svegliato dal torpore anche l’avvocatura oltre che la dottrina. Fino a quando la disciplina emergenziale riguardava poche centinaia di mafiosi e terroristi, erano in pochi a dubitare sulla correttezza della risposta repressiva. Adesso che il doppio binario processuale ha trasformato il processo in un binario unico speciale, il dubbio sulla utilità e soprattutto sulla tenuta costituzionale del sistema emerge in tutta la sua imponenza. Quando le armi di distruzione di massa interessano vaste aree del Paese il numero delle vittime collaterali non può passare inosservato.

Il caso Oliverio. Nicola Gratteri, il procuratore che non conosce la vergogna…La Cassazione ha detto che il Pm ha un “chiaro pregiudizio accusatorio” nei confronti di Oliverio. E lui che fa? Invece di chiedere scusa ci riprova...Tiziana Maiolo su L'Unità il 28 Giugno 2023

Recidivo. Il procuratore Nicola Gratteri ci prova ancora. Stessi blitz, stesso copione, stessa stucchevole conferenza stampa. La giornata di ieri avrebbe potuto essere quella del 19 dicembre 2019 o una delle tante che hanno preceduto o seguito quella che il procuratore di Catanzaro ritiene il suo fiore all’occhiello, il “Rinascita Scott”, il Maxi per eccellenza. Quello che dovrebbe mettere Nicola Gratteri nell‘Olimpo degli eroi nelle terre di mafia con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ma le differenze sono enormi.

Il capo della Dda calabrese copre la fragilità delle sue inchieste con il cappello politico. Perché la sua ambizione, neppur tanto nascosta, è di sfondare sulle pagine nazionali dei quotidiani e nei grandi network, di avere quel riconoscimento politico che, se si eccettua la parentesi renziana, finora gli è stato negato. Ecco perché le sue inchieste fanno sempre acqua da tutte le parti e le sue ipotesi vengono sconfessate dai giudici a diversi livelli, dal gip fino al riesame e la cassazione. Prima di tutto perché sono dei minestroni che nessuna brava casalinga mai oserebbe cucinare. Prendiamo il blitz di ieri. Titolo “Glicine Acheronte”.

Prima osservazione; dopo la riforma Cartabia e la votazione del Parlamento, si dovrebbe ritornare ad “Abate più..” seguito dal numero degli indagati. Basta nomi di fantasia, e lasciamo stare il fiume infernale, per favore. Disprezzo per chi ci governa e chi emana le leggi, manifestato da un magistrato che si esprime anche nella battuta, ormai noiosa e ripetitiva, “oggi abbiamo arrestato 41 presunti innocenti”. C’è poco da ridere, quando si priva qualcuno della libertà. E anche quando chi dovrebbe applicare le leggi approvate dal Parlamento invece le irride, come nel caso della norma sulla presunzione di non colpevolezza. Principio costituzionale.

I numeri di questa ultima inchiesta sono apparentemente contenuti rispetto ai provvedimenti cautelari, ventidue persone in carcere, dodici ai domiciliari e pochi altri con misure meno restrittive. Ma il punto è che gli indagati complessivamente sono 123. Si potrebbe pensare che l’intervento dei Ros abbia raso al suolo un’intera cosca della ‘ndrangheta. E che il procuratore Gratteri e il gip Antonio Battaglia abbiano contestato l’associazione mafiosa e una serie di reati specifici, dall’estorsione fino all’omicidio, perché in genere di questo si tratta in quel tipo di processi. Ma non è così, nelle inchieste del procuratore Gratteri. Perché lui è un grande titolista, e sa che i caratteri cubitali li si conquista solo sparando i nomi dei politici. I due pesci grossi di oggi non sono proprio delle new entry.

Parliamo di Mario Oliverio, ex presidente della Regione Calabria, e di Nicola Adamo, ex deputato del Pd e già assessore regionale. Ora, un magistrato dovrebbe avere almeno il pudore di non accostare storie politiche e istituzionali che possono non piacere ma vanno rispettate con una certa riverenza a imputazioni come omicidio, traffico di sostanze stupefacenti o detenzione e commercio di armi. Non si può, solo per piegare le iniziative giudiziarie alla propria vanità. Non si può mescolare l’abuso d’ufficio, per quanto inserito in un reato associativo, a reati contro la persona o ai traffici internazionali.

Prendiamo il caso del presidente Oliverio. La recidiva è evidente, quella del procuratore Gratteri. Vogliamo ricordare la “grande” inchiesta del dicembre 2018, strombazzata come se fossero stati catturati i principali capimafia di Calabria e se la regione fosse stata finalmente risanata? Il governatore Mario Oliverio indagato per abuso d’ufficio e corruzione, e con lui altri due esponenti di rilievo del Pd calabrese, Nicola Adamo e la parlamentare Enza Bruno Bossio. L’inchiesta fu un vero terremoto politico per la sinistra nella regione, una crisi da cui non si solleverà più. Oliverio non fu più ricandidato, il segretario del partito Nicola Zingaretti gli preferì nel 2020 l’imprenditore del tonno Pippo Callipo, che perse rovinosamente contro Jole Santelli di Forza Italia, cui è seguito Mario Occhiuto, dello stesso partito, attuale governatore.

Il dottor Gratteri recidivo dovrebbe chiedere scusa a Nicola Adamo ed Enza Bruno Bossio, che dopo la gogna dei titoli strillati che piacciono al procuratore furono prosciolti. E anche a Mario Oliverio, quello con la vita politica distrutta dalla via giudiziaria. Do you remember? La procura aveva richiesto gli arresti domiciliari, il gip gli ha gettato addosso un confino al suo paese, San Giovanni in Fiore, provincia di Cosenza, luogo quanto mai adatto per guidare un’intera Regione. Tre mesi di martirio, annullati da un provvedimento della Corte di Cassazione. Chissà se il procuratore di Catanzaro ricorda quella sentenza, quelle parole che dovrebbero bruciargli come uno schiaffo perché accusavano lui e il suo ufficio di “chiaro pregiudizio accusatorio”.

Ma sappiamo che certi procuratori considerano un affronto le sentenze che assolvono e quelle che vanno contro i loro desiderata. Così i nostri eroi di procura anche quella volta indossarono gli elmetti e chiesero per Mario Oliverio la condanna a quattro anni e otto mesi. Che significa, in caso di condanna definitiva, carcere sicuro. Inutile ricordare che l’ex presidente della Regione è stato assolto perché “il fatto non sussiste”. E Nicola Gratteri non ha presentato ricorso. Vergogna? Neanche per sbaglio, solo puro calcolo. E niente scuse.

Anzi, recidivo, con l’inchiesta di ieri. Sa di poterlo fare, perché da parte del centrodestra il governatore Occhiuto si è sperticato in lodi e ringraziamenti al procuratore Gratteri. Sarà sincero o solo opportunista? Nel primo caso vorremmo ricordargli che milita nel partito di Silvio Berlusconi, non in quello di Giuseppe Conte. Nel secondo, beh, nessun commento. Ma solo sapere se ha ringraziato anche chi, dalla lontana Romagna, gli ha arrestato l’assessore Minnella. Non va meglio, sul piano delle garanzie, con il comunicato del Pd, che spera sempre che gli indagati sappiano dimostrare la propria innocenza. Magari non dovrebbe essere il procuratore recidivo a dimostrare la fondatezza della sua ipotesi d’accusa? E di non avere, almeno questa volta, un “chiaro pregiudizio accusatorio”? Tiziana Maiolo 28 Giugno 2023

L'inchiesta. Gratteri di nuovo all’assalto di Oliverio e Adamo: persecuzione infinita. L’impianto accusatorio si fonda sull’esistenza di un presunto “comitato d’affari” che avrebbe organizzato un “diffuso sistema clientelare” per la gestione di appalti pubblici. Bruno Mirante su L'Unità il 28 Giugno 2023 

Catanzaro – C’è un po’ di tutto, come spesso accade nelle ordinanze di Gratteri: l’esecuzione di un aspirante boss avvenuta nel 2014 e le presunte collusioni fra ‘ndrangheta, politica e pubblica amministrazione. C’è il controllo delle cosche calabresi di ristoranti e attività economiche in Germania e Austria e una miriade di appalti nel campo della sanità, delle opere pubbliche, del ciclo dei rifiuti.

La retata è stata realizzata stamattina con i carabinieri del Ros e ha portato all’esecuzione di 43 misure cautelari nei confronti di esponenti politici, dirigenti regionali o presunti affiliati della cosca dei “Papaniciari” guidata dal boss Mico Megna. In totale gli indagati sono 123, tra i quali l’ex presidente della Regione Calabria Gerardo Mario Oliverio e l’ex assessore regionale Nicola Adamo, entrambi ad oggi non rivestono alcuna carica politica o istituzionale. Nelle maglie dell’inchiesta sono finiti anche l’ex parlamentare europeo con Articolo Uno Massimo Paolucci e l’ex assessore regionale Antonietta Rizzo.

Tra gli indagati, Flora Sculco, ex consigliera regionale che a gennaio scorso è stata nominata consulente dell’attuale presidente della Regione, Roberto Occhiuto. Mentre il padre di Flora, Enzo, già consigliere regionale, è finito agli arresti domiciliari. Indagati anche gli imprenditori Raffaele e Gianni Vrenna, rispettivamente ex e attuale presidente del Crotone Calcio. Le porte del carcere si sono aperte invece, per Stefano Strini, l’ex genero del patron della Parmalat Calisto Tanzi, visto che ne aveva sposato la figlia Laura. In particolare, secondo quanto gli viene contestato, Strini avrebbe favorito gli interessi della cosca dei “Papaniciari” in Emilia Romagna e in altre regioni.

Secondo il procuratore capo della Dda di Catanzaro, Nicola Gratteri, dalle indagini “sono emersi rapporti diretti e continui tra esponenti della politica regionale e la cosca di ‘ndrangheta che fa capo a Megna”. “Oggi – ha dichiarato a margine della conferenza stampa, sbeffeggiando la legge e la Costituzione – abbiamo arrestato 41 presunti innocenti, sono indagati per associazione di stampo mafioso, per associazione a delinquere e per tutta la gamma dei reati che riguarda la pubblica amministrazione e per tutti i reati di mafia tranne lo sfruttamento della prostituzione. La Pubblica amministrazione appare asservita alla organizzazione ‘ndranghetistica che ha rapporti diretti con la politica regionale”. Il procuratore ha espresso parole di grande apprezzamento per il lavoro che il Ros sta svolgendo in supporto e in collaborazione alla Dda di Catanzaro, ma non è mancata una nota polemica relativamente alla carenza di organico nelle forze di polizia.

L’impianto accusatorio si fonda sull’esistenza di un presunto “comitato d’affari” che avrebbe organizzato un “diffuso sistema clientelare” per la gestione di appalti pubblici, ed in particolare di quelli banditi dalla Regione Calabria, dello smaltimento dei rifiuti e di una serie di nomine ed incarichi politici. Il presunto sodalizio, sempre secondo l’accusa, era in grado di “condizionare le scelte degli Enti pubblici crotonesi (Comune, Provincia, Aterp e Asp) relativamente a nomine di dirigenti, conferimento di incarichi professionali, appalti e affidamenti diretti”. I pm guidati dal procuratore Gratteri hanno ricostruito gli interessi illeciti degli esponenti della cosca crotonese in Germania e Austria nei settori immobiliare, della ristorazione, del commercio di prodotti ortofrutticoli e di bestiame, dei servizi di vigilanza, security e del gaming attraverso l’imposizione di videopoker alle sale scommesse e la loro gestione tramite prestanomi.

I tentacoli dei Papaniciari hanno interessato le province di Parma, Milano e Verona dove erano stabilmente attivi sodali e imprenditori operanti nel settore dell’autotrasporto, della ristorazione e del movimento terra. Ai domiciliari è finito l’imprenditore austriaco Josef Wieser, di 59 anni, che grazie alla ‘ndrangheta avrebbe ottenuto la creazione di una rete di produzione per la commercializzazione di prodotti ortofrutticoli. I pm hanno accertato, inoltre, che la cosca avvalendosi del supporto di hacker tedeschi, sarebbe riuscita a compiere operazioni bancarie e finanziarie fraudolente sia operando su piattaforme di trading clandestine, sia svuotando conti correnti esteri bloccati o creati ad hoc utilizzando carte di credito estere e alterando il funzionamento del pos. Bruno Mirante 28 Giugno 2023

«Io, vittima di un pregiudizio accusatorio, usato come il mostro da sbattere in prima pagina». Mario Oliverio, assolto con formula piena dopo anni di procedimenti giudiziari, si chiede: «Non è ammissibile che si possa esercitare una sorta di potere di condanna “a morte civile” senza risponderne». Valentina Stella su Il Dubbio il 4 luglio 2023

Ecco la prima intervista a Mario Oliverio, già Governatore della Regione Calabria, dopo che la scorsa settimana ha scoperto di essere indagato sempre a seguito di una inchiesta del Procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Tra le tante cose ci dice: «Non è ammissibile che in un Paese democratico sia consentito di esercitare una sorta di potere di condanna “a morte civile” senza rispondere delle proprie responsabilità. Nessuno paga per l’incalcolabile danno inferto a persone, e nel mio caso anche all’istituzione alla cui guida il popolo calabrese mi aveva eletto».

Come ha saputo di essere indagato?

Come sempre dalla stampa. Per la verità ero nel vigneto, approfittando delle ore fresche della mattina. Tra le 7 e le 8 guardo il telefono e vedo in primo piano La Repubblica on line e apprendo di essere in stato d’arresto: “Ndrangheta, l’ex presidente della Calabria Oliverio tra i 43 arrestati nella maxi operazione antimafia della Dda di Catanzaro – gli indagati sono accusati di vari reati dall’associazione mafiosa a omicidio” a firma di Alessia Candito. Notizia virale che si è diffusa anche nei Tg in cui si affastellano crimini tra cui mafia, omicidio, riciclaggio etc. Una cosa davvero pesante proiettata sui media nazionali con la mia fotografia utilizzata come attrattore mediatico.

Cosa pensa delle contestazioni mosse dalla Procura?

Cosa vuole che le dica? Siamo alle solite. Anche questa volta il Gip ha rigettato la richiesta del Pm di associazione per stampo mafioso e di misure cautelari nei miei confronti. In questo meccanismo infernale hanno un ruolo anche i produttori di fake news. In realtà mi è stata notificata un'informazione di garanzia come indagato. Anche in questo caso la malafede ha alimentato la regia della spettacolarizzazione nella scientifica divulgazione del falso. La notizia del mio arresto e dell’aggravante mafiosa è stata divulgata sapendo che il Gip li aveva rigettati e questo la dice lunga. Perché i giornalisti hanno divulgato questa notizia falsa che “casualmente” corrisponde ai desiderata del Pm? Chi gliel’ha fornita?

Crede che verso di lei ci sia accanimento e pregiudizio da parte della magistratura?

Non vorrei doverlo credere. Purtroppo sono i fatti a confermare questa paradossale propensione da parte della Procura Dda di Catanzaro diretta dal dottor Gratteri. Da oltre quattro anni sono stato tagliato fuori da ogni funzione politica ed istituzionale. Sono stato oggetto di procedimenti giudiziari conclusi da assoluzioni con formula piena perché «il fatto non sussiste». Evidentemente costruiti sul nulla. Si è fatto uno spropositato abuso di intercettazioni nei miei confronti sin dal giorno dopo la mia elezione a presidente della Regione (con dispendio di centinaia di migliaia di euro dei cittadini italiani che pagano le tasse!). In pratica, ho governato una Regione parlando con i miei Assessori, con i Dirigenti e tutta l’azione politica ed amministrativa veniva vagliata in tempo reale da una Procura, che era lì per inseguire fantasmi oliveriani, con l’intento di costruire operazioni giudiziarie! Non semplice abuso di intercettazioni, ma gravissime violazioni ed improprie intrusioni dei massimi organi politici ed amministrativi della Regione, che si volevano (dovevano?) piegare ad un vero e proprio delirio di onnipotenza ed onnipresenza!

Ma allora lei non crede che si tratti di fisiologici errori del sistema giustizia?

A questo punto non si può parlare di “errori giudiziari”. L’errore, intendiamoci, ci può anche stare quando è limitato ad un caso. D’altronde è la stessa Corte di Cassazione ad aver evidenziato «un chiaro pregiudizio accusatorio» verso di me. Purtroppo devo prendere atto di una vera e propria ossessione personale nei miei confronti.

Crede che il suo nome sia servito per dare maggiore mediaticità all'inchiesta?

Mi dica lei. In questi giorni la mia immagine è stata nuovamente proiettata sulle Tv e sui giornali nazionali per accompagnare un’operazione giudiziaria caratterizzata da ‘ndrangheta, omicidio, traffico internazionale, nella quale io da semplice indagato vengo trasformato in un mostro mediatico. I titoli dei giornali e dei Tg, tutti con il mio nome e la mia faccia abbinati alla parola ‘ndrangheta! La mia storia, una intera vita dedicata, con coerenza a contrastare la ‘ndrangheta ed il malaffare, sfregiata con spregiudicatezza e con irresponsabile disinvoltura per fini carrieristici e manie di protagonismo mediatico che certo non fanno bene alla credibilità della magistratura il cui importante, prezioso e delicato esercizio dovrebbe essere improntato a equilibrio, sobrietà, responsabilità e rigore.

Pensa che la stampa calabrese sia asservita troppo alle Procure?

Se fosse solo un problema della stampa calabrese la malattia sarebbe comunque preoccupante, ma circoscritta. Purtroppo negli anni che abbiamo alle spalle la spirale giustizialismo - gogna mediatica ha prodotto populismo e squilibrio tra i poteri con un progressivo indebolimento della politica e dei luoghi della rappresentanza costituzionalmente preposti all’esercizio della sovranità del popolo. In Calabria la situazione è ancora più grave. A prevalere è la paura, purtroppo non solo della criminalità organizzata. Tuttavia anche in questa difficile terra vi sono uomini liberi e giornalisti seri che non sono disponibili a subire il bavaglio per misero opportunismo e, mi creda, in questo contesto assumono una dimensione eroica.

Il Pd calabrese in una nota ha scritto: «Ci auguriamo che i soggetti coinvolti possano dimostrare la loro innocenza». Non dovrebbe essere l’accusa a dimostrare la colpevolezza?

Certo che è l’accusa a dover dimostrare la colpevolezza dell’imputato! Il Pd anche in quest’occasione ha scelto di collocarsi nella platea degli agnostici e qualcuno lo considera già un passo avanti. Persino di fronte alle sentenze assolutorie pronunciate dalla magistratura giudicante con motivazioni chiare ed inequivocabili il Pd ha scelto di nascondersi per non turbare il manovratore. Una linea di rinunzia alla difesa e alla affermazione del principio costituzionale dello stato di diritto. La retorica che «i soggetti coinvolti possano dimostrare la loro innocenza» è un cliché a cui si ricorre per assumere atteggiamenti pilateschi. In sostanza per abdicare al ruolo che dovrebbe essere proprio della politica.

Come commenta la reazione di Occhiuto: «Grazie Gratteri, noi in discontinuità col malaffare»?

Mah! Ci vuole davvero faccia tosta! C’è da rimanere allibiti. Quanta ipocrisia. Prendo atto che Occhiuto è garantista con chi regala le Maserati e fa il giustizialista quando si tratta di allisciare Gratteri. Forse un modo per dormire sonni tranquilli. Occhiuto fa finta di non sapere che l’indagine nei miei confronti è fondamentalmente basata sulla presunzione del reato di associazione per avere tenuto riunioni e incontri con Enzo e Flora Sculco. Fatti naturalmente riconducibili esclusivamente alla sfera politica che nulla hanno a che vedere con il codice penale. Ad Occhiuto vorrei ricordare che, nelle ultime elezioni regionali, Flora Sculco è stata candidata a suo sostegno. Credo che anche con Occhiuto non siano mancate riunioni ed incontri! Anzi, presumo che per il riconoscimento dell’apporto elettorale datogli dagli Sculco, il presidente Occhiuto abbia poi, legittimamente, conferito a Flora Sculco un incarico attribuendole importanti funzioni di rapporto con gli enti locali e con l’intero territorio della Provincia di Crotone…A proposito di discontinuità…ammesso che, come lui dice, ci fosse il malaffare.

Ha fiducia nella giustizia?

Le ripetute sentenze assolutorie con formula piena mi hanno consentito di non perdere fiducia nella giustizia. Tuttavia dopo essere stato buttato e tenuto per anni nella fornace della gogna, devo dire che una sentenza è importante, ma non è sufficiente. Non è ammissibile che in un Paese democratico sia consentito di esercitare una sorta di potere di condanna “a morte civile” senza rispondere delle proprie responsabilità. Nessuno paga per l’incalcolabile danno inferto a persone, e nel mio caso anche all’istituzione alla cui guida il popolo calabrese mi aveva eletto. Penso anche a tanti sindaci ed imprenditori stritolati da un sistema malato che non esita a confondere e a sovrapporre la giusta e necessaria lotta alla ‘ndrangheta e al malaffare, con fatti e persone che nulla hanno a che fare con attività criminose.

Quindi?

È necessario combattere a viso aperto e senza timore una battaglia di civiltà contro questa barbarie e per l'affermazione della legalità e dello stato di diritto. Il Paese ha bisogno di una vera riforma della Giustizia come condizione per proiettarsi nel futuro con fiducia e forza competitiva ed inclusiva. Per questo mi auguro che la riforma annunciata dal Ministro Nordio possa andare in porto. Un Paese normale non ha bisogno di masanielli alimentatori di pulsioni populiste e di gogne giustizialiste, ma di Giustizia con la G maiuscola.

Crede che la Calabria sia un laboratorio dove in nome di una certa antimafia si mettono in atto torsioni dei diritti di indagati e imputati, anche per far carriera all'interno della magistratura?

É evidente! Non sono io a dirlo. Purtroppo è così non da ora. In tal senso parlano i fatti e non solo per la scalata di carriere dentro alla magistratura, ma anche come trampolino per scalate politiche e di potere nelle istituzioni.

Il caso dell'ex presidente della Regione. Oliverio condannato dalla Corte dei Conti, ma per il tribunale il reato non c’è…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 10 Gennaio 2023

Per il tribunale penale di Catanzaro il fatto non sussiste, ma la Corte dei Conti si allinea alla procura di Nicola Gratteri e condanna ugualmente Mario Oliverio per danno erariale. Le telenovelas della Calabria giudiziaria paiono non finire mai. Anche nei piccoli processi, ammesso che sia una cosuccia di tutti i giorni un’accusa di peculato. Bisogna tornare al 2018, quando la Regione Calabria aveva partecipato al Festival dei due mondi di Spoleto per promuovere le bellezze turistiche del proprio territorio, investendo nell’evento 95.000 euro. Per la procura di Nicola Gratteri la cifra in realtà era stata spesa per pagare “una personale promozione politica” del presidente Mario Oliverio e del suo partito, il Pd.

Di lì l’imputazione di peculato, il rinvio a giudizio e il processo, nel quale la rappresentante dell’accusa Graziella Viscomi aveva chiesto quattro anni di carcere. Ma il fatto non sussiste, ha decretato il tribunale, nel processo di primo grado. Quindi l’ipotesi dell’accusa era miserevolmente crollata, il 9 novembre del 2022. Come del resto era finita in niente l’altra inchiesta per corruzione e abuso d’ufficio nei confronti dell’ex presidente della Regione Calabria, quella intitolata “Lande desolate”, quella che aveva determinato un vero capovolgimento politico nella storia della regione. In quel caso si trattava della destinazione di fondi europei. In seguito a un’indagine della Dda di Catanzaro il procuratore Gratteri in un’intervista al Tg1 aveva dichiarato che “con quasi 17 milioni di euro la Regione ha contribuito a ‘ingrassare’ alcune cosche grazie a lavori non eseguiti o eseguiti in minima parte”. E aveva chiesto le manette per Oliverio. Senza però ottenerle, neanche nella forma attenuata di detenzione domiciliare.

Il gip però aveva stabilito per il presidente della Regione l’obbligo di firma al suo paese, San Giovanni in fiore, provincia di Cosenza, così mettendolo comunque in difficoltà per l’esercizio del suo mandato. Il problema divenne immediatamente politico, e il fatto determinò sul piano formale e anche sostanziale, la fine di una brillante carriera. A causa della proverbiale lungimiranza del Pd, a partire da quei giorni il governo della Calabria è passato al centrodestra che, dopo la breve stagione di Jole Santelli, ha saputo riconquistare i voti dei cittadini con le elezioni regionali del 2021 e la nomina di Roberto Occhiuto a Presidente. E intanto il procuratore Gratteri aveva lanciato la propria sfida alle cosche con l’operazione “Rinascita Scott” e la scommessa sulla famosa area grigia che avrebbe tenuto insieme la mafia con i livelli istituzionali e professionali e che sembrava cucita addosso all’avvocato Giancarlo Pittelli, tenuto sequestrato agli arresti per tre anni con l’evanescenza del concorso esterno.

La vicenda di Mario Oliverio è stata paradossale, perché il suo partito non l’ha ricandidato, mentre intanto il procuratore Gratteri, dopo che l’ex presidente veniva assolto perché il fatto non sussiste, non presentava appello. Forse ricordando le parole con cui la Cassazione, mentre annullava la misura cautelare, aveva irriso al modo in cui erano state interpretate le intercettazioni dagli uomini della procura. E anche il giudizio dei periti tecnici dell’Unione europea sulla gestione dei fondi da parte della Regione. Dopo controlli a tappeto su tutte le opere e i cantieri, aveva rilevato che nessuna frode era stata compiuta. Ecco perché la sentenza di assoluzione dopo il primo grado non aveva più avuto seguito. Fatto straordinario, sintomo di vergogna, prima di tutto. Si vergognava la procura di colui che si riteneva invincibile, ma non arrossiva la segreteria del Pd, da Zingaretti a Letta, per la svolta grillina sui processi, che ha di fatto giustiziato molti tra i suoi uomini migliori, non solo in Calabria.

Per quel che riguarda l’accusa di peculato, “La domanda del pubblico ministero risulta sostanzialmente fondata -scrivono i giudici contabili-e merita l’accoglimento integrale, atteso che nella fattispecie ricorrono tutti gli elementi costitutivi della responsabilità erariale”. E condanna l’ex residente della Regione Oliverio, in solido con l’imprenditore Mario Lucchetti e anche la dirigente regionale Sonia Tallarico (che al contrario degli altri due non era stata neppure imputata nel processo penale), a rimborsare alla Regione Calabria circa 90.000 euro, in quanto, secondo una propria valutazione, solo 4.500 sarebbero stati investiti per valorizzare il territorio. Tutto molto arbitrario, naturalmente. Tanto che, come previsto dall’articolo 652 del codice di procedura penale, qualora gli imputati fossero assolti in via definitiva con la formula piena, come accaduto in primo grado, nessun danno verrebbe riconosciuto ai danni della Regione né di altri soggetti. Ma il procuratore Gratteri avrà il coraggio di appellarsi contro le assoluzioni rischiando l’ennesimo flop, o resterà passivo con il rossore della vergogna come già nel processo “Lande desolate”? E il Pd, nel frattempo?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

La mia Calabria come la Berlino occupata, dove ogni maxi blitz è un cocktail ben studiato. Nessuno si deve far venire il dubbio che l’Oliverio odierno sia lo stesso che è stato assolto tre volte negli ultimi mesi, dopo essere stato mandato al confino...Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 27 giugno 2023

Il 26 giugno del 1963 il presidente Kennedy parlando nella capitale della Repubblica Federale Tedesca scandiva queste parole: «Ci sono molte persone al mondo che non capiscono, o che dicono di non capire, quale sia la grande differenza tra il mondo libero e il mondo comunista. Vengano a Berlino!».

Allo stesso modo, dinanzi all'ennesimo maxi blitz di ieri in Calabria, non avrei dubbi a dire: se credete che nella estrema regione del Sud vi sia legalità e rispetto per la Costituzione, lotta alla ’ndrangheta e siano in corso grandi operazioni per la legalità, insomma se credete a tutto questo, venite in Calabria. Quasi ogni maxi operazione non è altro che un cocktail preparato da sapienti barman. Un cocktail in cui si miscela con fantasia tanta ’ndrangheta di paese promossa sul campo a grande Mafia; per esempio i “papaniciari”, trattati come fossero i corleonesi di Totò Reina.

Un omicidio pescato negli archivi ammuffiti, qualche episodio di corruzione - vera o supposta - e quindi un bel cucchiaio di politici: una ciliegina, in questo caso l'ex presidente Oliverio, ed il cocktail è quasi pronto. Bisogna frullarlo con grande energia in modo da non distinguere i singoli elementi. Per esempio nessuno si deve far venire il dubbio che l'Oliverio odierno è lo stesso che è stato assolto tre volte negli ultimi mesi dopo essere stato mandato al confino, privato dei diritti politici e poi prosciolto perché, secondo la Cassazione, l'inchiesta era viziata da un chiaro pregiudizio accusatorio.

Alla fine bisogna stupire con gli effetti speciali: la colonna aviotrasportata, le sirene ululanti nella notte i militari in divisa, la conferenza stampa stile Sud America. Il cocktail è servito. Bevete assetati giornalisti di regime. Bevete a volontà ma non fate domande sgradite. Beva la classe politica calabrese, che salvo qualche eccezione è la più sottomessa, scroccona e incapace di Europa. È il solo modo che ha per salvarsi e non è un caso se nelle inchieste finiscono sempre quei politici, senza protezione o che si son rifiutati di baciare la “sacra pantofola”. Beve la classe dirigente nazionale che si sente così sollevata dalla grave e storica responsabilità di far morire giorno dopo giorno la Calabria.

Kennedy concludeva il suo discorso con le famose parole: io sono cittadino di Berlino. Per me è molto più facile, perché la Berlino occupata, divisa, umiliata e oppressa è la mia Calabria. Io sono calabrese. Altro non posso fare che sentirmi incluso idealmente nella lista di ogni blitz. Da Stilaro, a Plati, da Rinascita Scott ad oggi. Ci sono! Vecchio, disperato, deluso più o meno isolato, con la consapevolezza che la Calabria peggiore non ha trovato e non troverà posto in quelle liste.

E se qualcuno non crede a quanto sto dicendo, ripeto: venga in Calabria. Entri nel “labirinto” e non si limiti a farsi offrire un cocktail col ghiaccio in qualche procura per poi andar via convinto di aver capito tutto. Cerchi di parlare con chi realmente vive in trincea, dia una occhiata al comunicato della Giunta regionale senza dimenticare quello del Pd. Comunicati che aiutano a capire che razza di teatro dei pupi è stato allestito nella mia Regione.

In Calabria si inaugura una caserma dei carabinieri: i cittadini disertano. Davvero sono tutti agli ordini dei boss? Fa riflettere il caso verificatosi nei giorni scorsi ad Africo, dove persino i bambini che hanno accolto le autorità erano di altri paesi. Il nodo è nello Stato percepito come "coloniale". Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 7 giugno 2023

La vigilia del 2 giugno, a festeggiare la Repubblica nei giardini del Quirinale c’erano praticamente tutti quelli che contano nel governo e nello Stato italiano. Due giorni prima, a festeggiare per l’inaugurazione d’una nuova caserma dei carabinieri ad Africo c’era il ministro dell’Interno Piantedosi, il comandante generale dell’Arma, il governatore della Calabria Occhiuto, le massime autorità militari e civili della Regione. Non c’erano, però, i cittadini. Rispetto al Quirinale, Africo è lontana così come l’Aspromonte, la Locride e la Calabria intera. Ma ciò che è successo ad Africo rappresenta una spia luminosa di come lo Stato venga percepito in non poche realtà del Sud.

Il giorno dell’inaugurazione della caserma tutto sembra svolgersi secondo copione, anche se la cerimonia sembra piuttosto sfarzosa: un tappeto rosso steso tra la tenda azzurra delle autorità e l’ingresso della nuova caserma, un centinaio di militari in alta uniforme schierati sull’attenti e pronti a battere i tacchi, i bambini che sventolano le bandierine, la fanfara che suona, un piccolo gruppo di persone sotto il palco. Ma, incredibilmente, i bambini presenti non sono di Africo, perché i genitori non li hanno mandati a scuola, e il “pubblico” non è composto da persone del paese ma da “collaboratori” dei politici presenti, giornalisti, poliziotti in borghese. I cittadini di Africo, se ci sono, si contano sulle dita d’una sola mano.

Le autorità che affollano il palco fanno finta di nulla, anzi innestano il pilota automatico e fanno i loro discorsi parlando della caserma come di una “forte presenza dello Stato”, di “presidio della legalità e della democrazia”, di “baluardo contro la criminalità”.

Hanno recitato la loro parte, rinunciando a capire perché la popolazione di Africo ha rapporti così difficili con lo Stato... E non mi riferisco allo Stato fondato sulla Costituzione di cui parlano i libri di scuola e di cui anche i cittadini di Africo sentirebbero un gran bisogno, ma a quello “effettuale”, che si presenta materialmente con Tribunali, caserme, carceri, piuttosto che ospedali, scuole. È un apparato politico- burocratico di tipo coloniale. Contro tale Stato, gli africoti combattono una guerra antica sin da quando abitavano nel cuore dell’Aspromonte.

Ad Africo vecchia le case erano tuguri, le scuole pollai, mancavano il medico, la strada e l’acqua. Però, c’era una bella e robusta caserma che ancora fa bella mostra di sé, ma non era stata costruita a tutela degli africoti, anzi li abbrutiva e poi li mandava in carcere perché bruti. Una storia certamente vecchia ma per alcuni versi molto attuale. Ora si cercherà di spiegare che tutto ciò è accaduto con la presenza della ’ ndrangheta, che esiste ed è forte anche perché ha fatto comodo a molti. Ma se fosse vero che la ’ ndrangheta con un sol cenno può dare ordini a migliaia di abitanti, non sarebbe una vittoria della mafia, ma una grave, gravissima sconfitta della strategia totalizzante dell’antimafia, incapace di andare oltre le leggi eccezionali per il Sud.

Sono convinto che ci debba necessariamente essere altro, m in questa storia “africota”, che poi è storia dell’Aspromonte, della Locride e della Calabria. Forse, una storia di pastori che, costretti a meditare nei profondi silenzi dei loro monti e delle loro valli, hanno scoperto la terribile verità sul ruolo di pezzi importanti dello Stato nella loro terra. Hanno scoperto il gioco truccato che, nel Sud più che altrove, riconosce ad una minoranza di “tutelati” il diritto di tosare e mungere la restante umanità come si fa con le pecore.

Ora lo Stato deve e può decidere se la nuova caserma sarà una specie di Forte Apache in territorio nemico. Non servirebbe, perché se è vero che non ci può essere Stato senza le pubbliche Istituzioni è altrettanto vero che Questi non può esistere senza popolo. Ed è ancora più vero che non può esistere una lotta vincente contro le mafie senza il sostegno convinto dei cittadini.

Le inchieste giudiziarie in Calabria...Sequestri e 9 anni di carcere, ma l’inchiesta Leonia di Pignatone è un flop. Paolo Comi su Il Riformista il 14 Marzo 2023

In Calabria le inchieste giudiziarie, soprattutto quelle da prima pagina e con molti arrestati, si concludono abbastanza di frequente con un nulla di fatto. Dopo l’iniziale clamore mediatico, infatti, arrivano le assoluzioni. Una di queste inchieste rivelatasi un buco nell’acqua è la “Leonia”, dal nome della società che si occupava agli inizi degli anni 2000 della raccolta dei rifiuti nel comune di Reggio Calabria. Tutti gli imputati, molti dei quali hanno trascorso dai 6 ai 9 anni in custodia cautelare, sono stati assolti dalla Cassazione a novembre del 2021 perché il fatto non sussiste.

Ma facciamo un passo indietro, al 2001 quando la Direzione distrettuale antimafia ipotizzò infiltrazioni della ‘ndrangheta reggina in tutto il sistema della gestione dei rifiuti. Con riferimento alla Leonia, in particolare, i pm ritenevano che tramite la Semac, una azienda gestita dalla famiglia Fontana a cui era stato affidato il servizio di manutenzione dei mezzi per la raccolta dei rifiuti, venisse garantito alle cosche un rilevante sostegno economico. Del fascicolo, inizialmente assegnato al pm Giuseppe Lombardo, per anni non si seppe nulla, fino al 2011 quando a capo della Procura di Reggio Calabria arrivò Giuseppe Pignatone che mise nel mirino Giovanni Fontana, il titolare della Semac. Per la Procura Fontana aveva avuto un ruolo fondamentale nella cosiddetta seconda guerra di mafia di Reggio, quando, a capo di un gruppo “separatista”, si era schierato contro la ‘ndrina dominante dei De Stefano. Fontana era, sempre secondo la Procura, il numero due del gruppo che riuniva i clan ribelli dietro al boss Pasquale Condello, detto «il Supremo».

Nel 2012 arrivarono gli arresti. Finirono in carcere Giovanni Fontana e i figli Antonino, Giuseppe Carmelo, Francesco e Giandomenico. In carcere finì anche Bruno De Caria, direttore della Leonia, accusato di aver favorito le operazioni di infiltrazione della ‘ndrangheta nella società che dirigeva. Le indagini erano state condotte dal Gico della guardia finanza di Reggio Calabria con ampio ricorso ad alcuni pentiti che ‘spiegarono’ come la Semac garantiva alla ‘ndrangheta un flusso di denaro continuo mediante l’acquisto sovrastimato di pezzi di ricambio dei mezzi utilizzati nel comparto rifiuti che, attraverso un sistema di fatture ingigantite, venivano sostituiti dalla stessa senza l’autorizzazione della Leonia, registrando così altissime uscite per l’azienda.

I soldi non andavano tutti ai Fontana: il controllo delle attività economiche legate al settore dello smaltimento dei rifiuti era infatti possibile, grazie all’assenso delle altre cosche che, regolarmente, avrebbero preteso la loro parte. Alla famiglia Fontana vennero sequestrate cinque imprese che operavano nei settori della riparazione e rivendita di autoveicoli, nel commercio al dettaglio di carburanti per autotrazione e nella compravendita di immobili. Inoltre il sequestro riguardò 11 fabbricati, 20 terreni, 43 automezzi e tre fabbricati per un valore complessivo stimato in circa 27 milioni di euro. Parlando del provvedimento di sequestro, Pignatone affermò che “tale provvedimento rappresenta l’epilogo dell’articolata e capillare attività investigativa che ha permesso di accertare un’ingiustificata discordanza tra il reddito dichiarato e il patrimonio a disposizione, direttamente o indirettamente, di Giovanni Fontana e dei suoi familiari”.

In primo e secondo grado le condanne furono pesanti. Giovanni Fontana fu condannato a 23 anni e sei mesi di reclusione; Antonino Fontana a 16 anni e sei mesi; Giuseppe Carmelo e Francesco Fontana a 12 anni e sei mesi; Giandomenico Fontana a 11 anni e sei mesi. Bruno De Caria fu condannato in appello a 10 anni e 10 mesi (rispetto ai 15 anni e 6 mesi del primo grado). L’inchiesta Leonia determinò il 10 ottobre 2012 lo scioglimento e il commissariamento del comune di Reggio Calabria. In concomitanza l’inchiesta con l’allora prefetto di Reggio Calabria chiese al ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri la nomina di una Commissione per far luce su quanto stava accadendo. Paolo Comi

L'inchiesta Leonia. “I Fontana condannati senza prove”, così la Cassazione smontò Pignatone. Paolo Comi su Il Riformista il 15 Marzo 2023

«Le risultanze acquisite nel processo non hanno individuato un solo atto utile ad esteriorizzare il metodo mafioso esercitato da taluno in nome e per conto della nuova associazione Fontana», scrivono i giudici della Cassazione nella sentenza con cui, a novembre del 2021, hanno assolto per non aver commesso il fatto Giovanni Fontana ed i suoi 4 figli dall’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso.

E poi: «Dall’istruttoria dibattimentale in modo inequivoco mai nel periodo dal 2001 al 2012 i Fontana si sarebbero resi protagonisti di alcun episodio di matrice mafiosa. In questo modo hanno deposto all’unanimità i testi. Tutto il processo si caratterizza per la totale assenza di rapporti o contatti tra i fratelli Fontana ed i personaggi appartenenti alle cosche». La Cassazione cancellava così una inchiesta durata 21 anni, rilevando l’assoluta inconsistenza del teorema accusatorio ed il modus operandi della Procura di Reggio Calabria allora diretta da Giuseppe Pignatone. Il ‘meccanismo’ consisteva nell’utilizzare una denuncia a carico di ignoti per svolgere gli accertamenti. Le notizie acquisite determinavano poi l’apertura di procedimenti a carico di noti che, pur non avendo elementi utili, non venivano archiviati, consentendo altre indagini da parte del Gico della guardia di finanza senza alcun rispetto dei termini processuali.

A carico dei Fontana venivano complessivamente aperti 8 procedimenti, con una ‘accurata’ selezione del materiale, evitando elementi idonei a sconfessare l’intero impianto accusatorio. Di fatto un grave pregiudizio per le difese che non avevano la possibilità di conoscere il contenuto dei vari fascicoli e degli atti di indagini a loro favore. Il processo si era caratterizzato, dunque, solo per la presenza di atti meticolosamente selezionati dall’accusa. Le difese si erano accorte di ciò dalle testimonianze della pg da dove emergevano fatti risalenti a dieci anni prima. Il sospetto, allora, è che l’inchiesta giudiziaria, con custodie cautelari durate anni, sia stata utilizzata per fini diversi. Le tempistiche, in particolare, fanno riflettere.

Il 26 luglio 2012 il prefetto di Reggio Calabria aveva inviato all’allora ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri una relazione a sostegno della nomina di una Commissione straordinaria, enfatizzando delle commistioni mafiose all’interno della società Leonia. Tali argomentazioni venivano utilizzate per motivare lo scioglimento del Consiglio comunale il 10 ottobre del 2012, nonostante un solo consigliere fosse indagato per fatti di mafia. A 12 ore dal commissariamento, venivano eseguite le ordinanze di custodia cautelare, avendo ritenuto la Procura che il materiale raccolto fosse completo. «L’indagine porterà lontano perché vi sono coinvolti numerosi personaggi della cosiddetta “zona grigia”. Personaggi le cui proiezioni e le cui relazioni sono a largo raggio. L`indagine è agli inizi, la continueremo. Vedremo attraverso la ricostruzione dei fatti, se ci sono altre responsabilità», disse il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Michele Prestipino.

«Il controllo da parte dei boss della società di smaltimento dei rifiuti, avvenuto attraverso l`acquisizione delle quote private – aveva aggiunto – sta a dimostrare quanto sia forte e quanto sia ancora capace la `ndrangheta di infiltrare attività’ lecite, economiche, essenziali per l’economia cittadina. Tutto questo è potuto avvenire grazie al ruolo ancora una volta di soggetti che non sono mafiosi ma che con la mafia stringono patti collusivi e prestano le proprie capacità professionali all’affermazione e alla realizzazione degli interessi criminali. Siamo ancora una volta di fronte all’operato di quella “zona grigia” di cui tutti parlano». Parole che stridono con quanto scritto nella sentenza di assoluzione della Cassazione che ha escluso l’utilità “di un annullamento con rinvio al fine di sollecitare un nuovo esame di merito, stante l’inefficacia dimostrativa delle prove valorizzare in argomento”. Sarà sufficiente il solo risarcimento del danno per ingiusta detenzione a sanare il dramma patito dai protagonisti di questa oscura vicenda? Paolo Comi

Giuseppe Scopelliti.

«Io, vittima di un contesto politico-mediatico avvelenato, sono libero». L’ex governatore della Calabria, Giuseppe Scopelliti, il 21 ottobre presenterà il suo libro “Io sono libero” in cui racconta la sua vicenda giudiziaria: la condanna, la detenzione, l’umanità dei detenuti, il rapporto con gli agenti e la spinta verso il riscatto. Riccardo Tripepi su Il Dubbio il 15 ottobre 2023

“Io sono libero” è il titolo del libro in cui l’ex governatore della Calabria e sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Scopelliti racconta la sua vicenda politica e giudiziaria. La condanna per falso in bilancio, la lunga detenzione, la solidarietà e l’umanità dei detenuti, il rapporto con gli agenti di Polizia penitenziaria, ma anche la spinta verso il riscatto sono il cuore del volume che ha la prefazione di Gianfranco Fini. 

Il 21 ottobre presenterà il suo libro a Piazza Duomo a Reggio. Cosa prova a ritornare in un luogo che ha celebrato i suoi successi politici in un contesto così diverso? Che accoglienza si aspetta? 

Sicuramente una grande emozione. La piazza, come pure la folla, ha scandito ogni momento del mio percorso politico. Non l’ho mai evitata perché ho sempre creduto che la piazza sia il vero e il più severo giudice per chi vuole avere un confronto non filtrato con il popolo. Oggi la comunicazione si fa attraverso i social, evitando, così, il rischio che la piazza possa essere vuota. Il mio rapporto con la gente, con i miei concittadini, conserva l’approccio di sempre, ed è per questo che mi aspetto un’accoglienza vera e leale, senza pregiudizio. Penso che sia un “incontro” necessario, dovuto. Il racconto di una esperienza che ritengo unica, che voglio condividere con i miei concittadini. 

Come nasce l’idea di affidare a un libro la sua esperienza in carcere. Come ha vissuto quegli anni? 

L’idea è stata di un mio “compagno di cella”, che poi è colui che ha condotto l’intervista da cui scaturisce il libro ( Franco Attanasio ndr.). Inizialmente ero incerto, dubbioso. A distanza di alcune settimane da quella “proposta”, tuttavia, ho capito che il libro sarebbe stato sicuramente il documento più efficace e duraturo cui affidare l’esperienza che stavo vivendo. Ho vissuto quegli anni con una serena rassegnazione e un senso di intima pace, accompagnati da alterni sentimenti di sconforto e di speranza. Ho molto riflettuto in quel periodo e, paradossalmente, ho avuto l’opportunità di “incontrare” me stesso mentre riscoprivo, tra quelle mura, una umanità a me sconosciuta, formata da mille storie, da progetti interrotti, sofferenze silenziose e pianti notturni. Ma ho scoperto anche il significato più autentico di solidarietà e di mutuo soccorso, di assistenza. Il personale della struttura carceraria, inoltre, mi ha consegnato il tratto e l’immagine più vero delle donne e degli uomini che servono lo Stato. 

In che modo è riuscito a conservare equilibrio e forza d’animo in un momento così complicato? 

Pensando ai miei punti certi e fermi, alle coordinate dei miei valori, quelli che ho sempre interpretato e per cui ho vissuto. Sono stato educato alla fede, a cercare la speranza, a sognare, a guardare oltre i muri. Dalla mia finestra potevo osservare un frammento dello Stretto, il mare, il profilo dei monti. Questo “quadro” mutava ogni giorno nei colori, nell’illusione di una nuova prospettiva. Anche la linea dell’orizzonte sembrava cambiare, e in questa proiettavo il mio sguardo sulla libertà, pensando alla mia famiglia, ai miei affetti, alle persone e alle cose che erano rimaste fuori e con cui mi sarei ricongiunto. In quel periodo ho letto molto. I libri contengono il presente e la prospettiva delle vite e delle storie di altri che divengono le tue, e le vivi ampliando la tua condizione, entrando in un mondo che pur non appartenendoti ti accoglie. Non è solo “fantasia”, ma la lettura è un’esperienza edificante. 

Ha descritto uno Stato che le è stato vicino quando le ha concesso la scorta e che poi l’ha aggredita al momento della condanna. Che fiducia ha nello Stato e nella giustizia italiana? 

Avere fiducia nello Stato e nella giustizia per chi come me ha rivestito cariche istituzionali non vuol dire condividerne sempre l’operato. La mia vicenda è senza dubbio “esemplare”, sia per la “severità” della condanna, sia perché resterà probabilmente l’unica. Il clima nel quale tutto è maturato, la feroce atmosfera che ha anticipato la vicenda, prima ancora che entrasse nelle aule di giustizia, ha “avvelenato” il contesto nel quale le cose andavano maturando, fino alla condanna. Una sentenza che è stata definita, da qualche addetto ai lavori, “politica”! 

Ci sono state sentenze che stanno facendo discutere in Calabria. Tra tutte le assoluzioni del Consigliere Creazzo, dei parlamentari Caridi e Siclari o il ribaltamento della prima pronuncia sul sindaco Lucano. C’è qualcosa che non funziona nel sistema giustizia e nel suo rapporto con la politica? 

Il problema è lo sbilanciamento mediatico che interessa le fasi del processo. L’anomalia è proprio lì. Nel nostro ordinamento il processo si compone di più parti e di più livelli: l’accusa, la difesa, il giudice e i tre gradi di giudizio. Tuttavia, l’attenzione, la rilevanza e l’enfasi che vengono assicurate all’accusa, che è soltanto una parte del processo, è di gran lunga prevalente, quando non esclusiva, rispetto alla altre due. In questo “sistema dell’informazione” così deformato e violento l’imputato è già condannato prima che entrino in gioco le altre parti del processo. È un “costume” tutto italiano, che andrebbe assolutamente corretto nel rispetto della presunzione di innocenza su cui, solo a parole, si fa un gran parlare. Si avverte l’indubbia necessità di un intervento di “riequilibrio” da parte del Parlamento. Esso non deve essere, tuttavia, un riequilibrio fra giustizia e politica, bensì fra l’esercizio del potere giudiziario e il diritto di tutti i cittadini di essere valutati seriamente e serenamente.

Cosa non rifarebbe se ripensa alla sua esperienza da Sindaco o da Governatore della Calabria? E di cosa è particolarmente orgoglioso? 

Tutto il mio agire è stato sempre improntato sulla trasparenza e sulla lealtà, sul rispetto per le Istituzioni e per la comunità che mi ha assicurato nel tempo il suo sostegno. La mia azione di politico e di amministratore è stata sempre protesa a incidere efficacemente sul tessuto socio- economico della mia comunità, ad affermare e difendere la cultura della legalità e a contrastare il malaffare, anche quando ciò si è rivelato essere un rischio per me e per la mia famiglia, tanto da dover vivere per 14 anni sotto scorta; protezione che, peraltro, è stata estesa ( unico caso in Italia) anche a mia figlia, allora minorenne. Tutto questo mi rende orgoglioso. Ma la politica, purtroppo, è un mondo complesso, avvezzo al compromesso che talvolta può celare l’inganno, nel quale può capitare che non tutti condividano gli stessi valori, tradendo, così, la fiducia accordata. A pensarci bene, sul tema della fiducia qualcosa non la rifarei.

Lei esclude un suo ritorno in politica, ma la gente continua ad aspettarselo. Potrebbe cambiare idea?

Ho dismesso il mio ruolo dalla politica attiva dimettendomi da presidente della Regione nell’istante in cui lo Stato mi ha delegittimato con la condanna in primo grado. La vita di un politico è fatta di “porte”, di “passaggi”, di percorsi, alcuni dei quali è difficile ripercorrere. La politica oggi è profondamente cambiata, come pure il suo linguaggio, le sue dinamiche. Nonostante ciò, sono felice di vedere molti giovani, alcuni dei quali hanno militato nel Fronte della Gioventù al tempo in cui io ero segretario nazionale, impegnarsi per migliorare la situazione e renderla dignitosa e credibile. Provo un’immensa soddisfazione e coltivo la speranza del domani attraverso di loro. Un domani nel quale le Istituzioni dello Stato, ad ogni livello, si assistano nelle fragilità, tutelino, fino a prova contraria, i loro rappresentanti e camminino insieme per migliorare il nostro Paese.

Vincenzo Ioppoli.

«Avvocato accusato di mafia». Ma l’accusa è di abuso d’ufficio. Il penalista Vincenzo Ioppoli vittima di una mezza fake news. La difesa: anche questa è giustizia mediatica. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 3 ottobre 2023

Nel vortice della disinformazione. Si potrebbe riassumere così la vicenda dell’avvocato Vincenzo Ioppoli. Il nome del penalista del Foro di Catanzaro è stato impropriamente accostato da alcuni organi di stampa a vicende caratterizzate da reati di criminalità organizzata. Una leggerezza che non deve far finire su secondo piano la realtà dei fatti. Ioppoli ha ricevuto una informazione di garanzia, ma per altre vicende. La procura di Catanzaro ritiene che abbia commesso reati comuni. Per la precisione gli vengono contestati un abuso d’ufficio e un falso, perché, quando fece parte della commissione esaminatrice per l’abilitazione alla professione forense, avrebbe ricevuto una segnalazione riguardante una aspirante toga.

«La procura – precisa il difensore di Ioppoli, Francesco Verri - non formula alcuna accusa per reati di mafia né contesta aggravanti di mafia. Né poteva essere diversamente, considerato l’altissimo profilo e la storia dell’avvocato Ioppoli. Purtroppo, però, le notizie ambigue pubblicate su alcuni giornali online, nonostante la segretezza che dovrebbe contraddistinguere la notifica di un avviso di garanzia, lasciano del tutto erroneamente supporre il contrario attraverso l’accostamento di fatti ordinari con un’operazione contro la ‘ndrangheta che non ha nulla a che vedere con l’esame d’avvocato contestato».

Per il tramite del difensore l’avvocato Ioppoli esprime «il proprio sdegno per l’accaduto». «Io provo lo stesso sentimento e lo esprimo con altrettanta forza», afferma Verri. «Nel merito – aggiunge -, l’avvocato Ioppoli si difenderà chiarendo la sua posizione con i magistrati che si occupano del procedimento. Nel frattempo, abbiamo diffidato gli organi di stampa che hanno pubblicato la notizia in modo diffamatorio a rettificarne immediatamente il contenuto».

Verri si sofferma su un altro aspetto della vicenda che riguarda la diffusione delle notizie: «È utile ricordare che esiste anche la diffamazione mediante omissione, che si realizza attraverso una notizia incompleta, una mezza verità. Potremmo definirla una half fake news. Se si parla di una indagine che riguarda una serie di persone accusate di far parte di una associazione criminale e si afferma che è coinvolto un avvocato, la notizia è incompleta. Si sta omettendo un particolare decisivo e cioè che l’avvocato non è indagato per un reato di ’ndrangheta, nonostante sia stato inserito in un contenitore di un certo tipo. Specificare che l’avvocato non è indagato per reati di ’ndrangheta renderebbe invece la notizia fedele». Ma questo, ad avviso del legale, non è l’unico tema. Alcune fughe di notizie, con la violazione della segretezza - non solo della riservatezza - provocano grossi danni e non possono essere tollerate. «Il fenomeno della fuga di notizie – conclude l’avvocato Verri - non è nuovo. Il professor Vittorio Manes, nel saggio intitolato “Giustizia mediatica”, evidenzia un pericolo: quello di rendere inutile la giustizia dei Tribunali. Abbiamo reso la giustizia un simulacro, un evento tardivo, ad una specie di liturgia».

La Camera penale Alfredo Cantàfora di Catanzaro è intervenuta sul caso Ioppoli. «Quando, mesi fa – si legge in una nota -, le Camere penali calabresi hanno denunciato per l’ennesima volta l’erroneo e smodato ricorso all’istituto della connessione tra procedimenti, la magistratura associata e certa stampa consociata hanno reagito con la solita veemente levata di scudi. Volutamente evitando di confrontarsi con la segnalata distorsione del sistema delle garanzie liberali e soffiando sul fuoco della personalizzazione della critica, che è tentazione alla quale l’avvocatura penalista non ha mai inteso cedere e non cederà neanche oggi. Ciò che si voleva, quella volta, evidenziare è, tra le altre cose, l’effetto stigmatizzante che l’essere indagato in un processo di mafia comporta per il cittadino e, quindi, l’inopportunità - ma si dovrebbe dire, meglio, la illegittimità - di attrarre a questi processi soggetti chiamati a rispondere di reati comuni, che non presentano alcun profilo di connessione, se non volgarmente numerica, statistica o “pubblicitaria”, con quelli di criminalità organizzata».

Un ultimo passaggio i penalisti di Catanzaro lo rivolgono al processo “Rinascita-Scott”: «Allora, pur di non ammettere l’errore, ma, si sa, il dogma dell’infallibilità va di moda in certi ambienti, si nascosero tutti dietro il feticcio del processo “Rinascita-Scott”, che, secondo un ragionamento oltremodo illogico, doveva necessariamente essere il vero obiettivo delle Camere penali e che andava protetto a tutti i costi».

Gennaro Pierino Mennea.

Quelle anomalie di un’inchiesta che ha tenuto per 5 mesi un avvocato agli arresti. La Cassazione ha annullato con rinvio l’ordinanza e il riesame ha disposto la liberazione. Intanto la difesa ha evidenziato irregolarità nelle intercettazioni e incongruenze temporali. Tiziana Maiolo su Il Dubbio il 29 agosto 2023

Questa storia dell’avvocato di Catanzaro Gennaro Pierino Mennea, iniziata il 16 febbraio scorso quando alle tre del mattino gli notificavano un’ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari, è la dimostrazione dell’urgenza di alcune riforme sulla giustizia. Quella costituzionale sulla separazione delle carriere tra giudice e pubblico ministero, prima di tutto. Ma anche, con urgenza, quella sulle intercettazioni.

Prima di raccontare la storia, anticipiamo che, dopo i cinque mesi cautelari subiti dall’avvocato, la sua vicenda ha avuto una svolta positiva con una sentenza della Cassazione e la liberazione da parte del tribunale del riesame. Che la Direzione distrettuale di Catanzaro il 31 luglio scorso ha notificato il provvedimento di chiusura delle indagini all’avvocato alle ore 11,27, salvo revocarlo alle 12,39. L’ultima stranezza. Non sappiamo quindi se l’indagato diventerà un imputato o se si procederà all’archiviazione del caso.

L’avvocato Mennea in questi mesi non è stato però con le mani in mano. Il suo difensore Concetta Nunnari ha svolto diverse attività investigative e ha svelato una serie di anomalie sulle modalità dell’inchiesta. Lui ha quindi sporto querela nei confronti del pm della Dda di Catanzaro, Domenico Guarascio, della gip Arianna Roccia, del maresciallo dei carabinieri Nicola Petrera e “chiunque abbia concorso” soprattutto nell’attività di intercettazione, sbobinamento e altre attività connesse alle captazioni. Dove sono state riscontrate numerose irregolarità. Inoltre, in data 27 agosto, è stato presentato un esposto al Csm nei confronti dei due magistrati.

Ed ecco la storia, che risale al 2018, quando il pm della Dda di Catanzaro Domenico Guarascio (noto anche per l’inchiesta Aemilia sulla ‘ndrangheta al nord) indagava nella zona di Cirò Marina su una serie di estorsioni messe in atto da ambienti vicini, secondo l’accusa, alla criminalità organizzata. Tra queste, l’ipotesi che fosse stato vittima di estorsione il dottor Domenico Ceraudo. Questa persona aveva comprato un terreno tramite un’asta e aveva versato un anticipo di 26.000 euro, circa il dieci per cento del valore totale dell’appezzamento. In seguito aveva però rinunciato alla proprietà. Vittima di un’estorsione, sostiene la procura antimafia di Nicola Gratteri. E arresta alcuni esponenti della famiglia Rizzo, che coltivavano le terre e allevavano il bestiame proprio nel podere messo in vendita. Ma anche l’avvocato Gennaro Mennea, accusato di aver partecipato ad alcuni incontri in cui il dottor Ceraudo sarebbe stato sottoposto a minacce estorsive fino a decidere di rinunciare all’acquisto, nonostante avesse vinto la gara. Fino a perdere la caparra già versata. Questa l’ipotesi dell’accusa.

Nei confronti dell’avvocato Mennea viene depositata una relazione dei carabinieri su una captazione in cui è chiara una frase del legale il quale, nell’unico incontro cui aveva partecipato con il sostegno di un perito agronomo, aveva detto alle due parti “sono sicuro che troverete un accordo”. Quale era il problema? Era il fatto che la famiglia Rizzo, che coltivava quelle terre, era all’oscuro del fatto che fossero state messe in vendita e che fosse stata promossa una gara, che in realtà era stata fatta da un Istituto loro sconosciuto di nome Ismea, tramite Bta, la Banca nazionale delle terre agricole. Nell’incontro tra i lavoratori e il nuovo proprietario, con il supporto del perito agronomo e la mediazione dell’avvocato Mennea, il legale si era trattenuto cinque minuti e aveva pronunciato la famosa frase “sono sicuro che troverete un accordo”. Per il resto la relazione dei carabinieri dice che l’avvocato aveva pronunciato frasi incomprensibili.

Ora la parola alla difesa. Punto primo: il dottor Ceraudo, la presunta vittima dell’estorsione, non è mai stato sentito dal pm prima degli arresti. Quando viene chiamato a deporre il 28 febbraio, pur essendo costretto a firmare senza occhiali e senza quindi poter rileggere ciò che gli veniva attribuito, dirà cose sorprendenti. Prima di tutto che la cauzione di 26.000 euro gli era stata da tempo restituita, come del resto risulta dalla determina di Ismea del 14 dicembre 2020. E poi che aveva rinunciato all’acquisto del terreno perché nel frattempo era stato assunto da un’azienda come lavoratore subordinato, e questa qualifica è incompatibile con quella di imprenditore agricolo professionale, come richiesto dal bando di gara di Ismea. Ma questo quadro non risulta dal riassunto, sintetico e impreciso, steso dai carabinieri, ma solo dalla visione (grazie, ministra Cartabia per averne introdotto l’obbligo) integrale della videoregistrazione sulla deposizione del dottor Ceraudo. Che il difensore di Gennaro Mennea, la combattiva avvocata Concetta Munnari, ha ottenuto solo con attività investigative, perché nulla è stato mai concesso dalla gip Roccia, sempre dopo risposta negativa del pm Guarasci a ogni istanza.

Il difensore dell’avvocato Mennea a un certo punto ha anche preparato uno scherzetto alla gip, presentando in successione due istanze identiche ma con due date differenti. Regolarmente respinte, ma senza che la gip facesse notare che la seconda era la fotocopia della prima. E riscrivendo pedissequamente prosa e contenuti già espressi dal pm: “Ceraudo, rassegnato alle logiche di ‘ndrangheta, che imperversano sul terreno in cui vive, accetta e subisce, trattando su di un diritto che invero gli spetta de plano ed infine dovendovi rinunciare, con perdita definitiva della caparra”. Siamo nel 2023 e quell’anticipo di 26.000 euro era stato già rimborsato al dottor Ceraudo nel dicembre del 2020! Distrazione o “appiattimento”? Sintetizzando i diversi passaggi procedurali, che vedono il tribunale del riesame, privo della documentazione scoperta in seguito dal difensore, confermare l’ipotesi dell’accusa, si arriva in Cassazione.

È il 23 giugno scorso e i giudici della Suprema corte annullano con rinvio l’ordinanza, così motivando sui famosi incontri tra le parti: “Dalla lettura dell’ordinanza impugnata risulta però che la presenza del legale fu sporadica - essendo questi intervenuto in occasione del solo terzo incontro e unitamente a un perito agronomo - ed anche occasionale”. E concludono, nell’annullare con rinvio: “Assenti poi sono ulteriori contatti tra la persona offesa e il ricorrente”, né risulta che l’avvocato Mennea abbia avuto alcun ruolo sulla rinuncia del dottor Ceraudo al possesso del terreno. Va anche aggiunto, lo si legge nelle motivazioni dell’avvocato nella sua querela nei confronti di pm, gip e comandante dei carabinieri, che la famiglia Rizzo ha vinto la causa civile nei confronti di Ismea sul proprio diritto a continuare a risiedere su quel terreno.

Dopo la decisione della Cassazione, la gip Caccia ha mutato la custodia cautelare in obbligo di presentarsi al giudice due volte la settimana e il riesame annullerà il 26 luglio l’ordinanza cautelare. Sono passati 5 mesi da quando, quel mattino alle tre, irruppero i carabinieri a casa dell’avvocato Mennea accusandolo di estorsione. A completamento della vicenda è giusto ricordare che il pm e la gip, in totale sintonia (“appiattimento” casuale), avevano descritto l’avvocato Mennea come persona già “imputata” di associazione per delinquere, mentre lui era stato solo indagato e la sua posizione archiviata dal gip di Catanzaro su richiesta del pm Bordonali. Avevano scritto che era pendente un’altra causa per una denuncia, che era invece stata subito archiviata. Avevano sempre negato alla difesa le trascrizioni delle Sit (sommarie informazioni testimoniali) della parte offesa che scagionavano l’indagato. Si erano accontentati di riassuntini dei carabinieri dove pare fossero addirittura aggiunte domande mai fatte.

Infine, tra l’avvocato Mennea e il pm Guarasci c’era stato un altro conflitto: una querela del primo nei confronti del secondo alla procura di Salerno nel 2019, dopo che un altro legale, difensore di un certo signor Macrina e del comandante dei carabinieri del Comune di Borgia, gli aveva riferito che i suoi assistiti erano in rapporti con il pm Guarasci e avevano preconizzato un suo intervento contro l’avvocato Mennea con prove false e inventate. Qualcosa è sicuramente accaduto, ma quattro anni dopo. Intanto il giovane pm della Dda potrebbe diventare procuratore capo di Paola, dove ha presentato domanda per il ruolo vacante da maggio. Ma negli ambienti giudiziari calabresi si sussurra anche che il dottor Guarasci ambisca al posto del suo capo e maestro Nicola Gratteri se questi, come pare probabile, è destinato a dirigere la procura di Napoli, la più grande d’Europa.

Vincenzo Iaquinta.

Vincenzo Iaquinta. Salvo il patrimonio della famiglia dell’ex calciatore: «Il nostro cognome serviva a dare visibilità al processo». Simona Musco su Il Dubbio il 4 agosto 2023

I beni della famiglia Iaquinta sono di provenienza lecita. Soldi versate dalle banche o uscite dalle tasche di Vincenzo, ex calciatore di successo, che poteva permettersi di certo anche di regalare un appartamento ai suoi genitori. A stabilirlo, il 3 agosto scorso, è stato il Tribunale di Bologna, che ha rigettato la richiesta di confisca avanzata dalla Dda relativamente ai beni di Giuseppe, Adele e Vincenzo Iaquinta, ex calciatore della Juventus. Un mondo, il suo, fatto di gol e corse sui campi verdi, stravolto nel 2015 da un’operazione antimafia che ha fatto finire in carcere centinaia di persone, compreso suo padre. Una tela che ha imbrigliato anche lui, il campione del mondo, che nella comunità calabrese dell’Emilia Romagna «è come Gesù bambino», spiegava al Dubbio anni fa il suo avvocato. L’ex calciatore è stato condannato nel processo “Aemilia” ad un anno (in primo grado a due), pena sospesa, per la mancata custodia di due pistole e 126 proiettili, ceduti, secondo il pm, al padre al quale, fin dal 2012, un provvedimento del prefetto di Reggio Emilia ne aveva proibito la detenzione. Ed ora la vita di Vincenzo è totalmente dedicata al padre Giuseppe, condannato perché considerato una figura strategica delle cosche emiliane legate al clan di Cutro. Per i giudici di Cassazione, che hanno confermato la condanna a 13 anni, il suo coinvolgimento nell’associazione mafiosa emergerebbe da una serie di fatti ritenuti significativi: «Il contenuto di alcune intercettazioni, la partecipazione a diversi incontri conviviali e i contatti con altri sodali durante veri e propri summit mafiosi». Secondo la sentenza di primo grado, il cognome Iaquinta era un biglietto da spendere «all'interno del sodalizio criminoso» per ottenere potere. Ma il figlio, che a quelle accuse non ha mai creduto, non ci sta. E ribalta la questione: «Coinvolgere me e mio padre era utile per dare visibilità al processo - racconta al Dubbio -. Ma noi con la ‘ndrangheta non c’entriamo nulla. A noi la ‘ndrangheta fa schifo».

Da Berlino alle aule di Tribunale, Vincenzo Iaquinta non ha mai perso la sua grinta. Dopo la sentenza di condanna in primo grado, davanti al Palazzo di Giustizia, urlò la sua innocenza attaccando la stampa, che aveva dipinto la sua famiglia come parte dell’élite mafiosa. E ora si dice «soddisfatto», perché «abbiamo fatto chiarezza su tutti i movimenti economici della mia famiglia. Ringrazio i miei avvocati per il lavoro divino che è stato fatto, ma anche il Tribunale di Bologna, che ha voluto vederci molto chiaro, chiamando un perito che per sei mesi ha analizzato tutte le carte e ha scoperto la verità». Stando al provvedimento, infatti, le consulenze tecnico - contabili supportano «l’ipotesi difensiva che gran parte delle finanze che hanno permesso di costruire il patrimonio immobiliare della famiglia Iaquinta derivassero dal figlio Vincenzo, calciatore professionista che disponeva, nel periodo di riferimento, di ingenti risorse», nell’ordine di decine di milioni di euro. E anche per il giudice, sono le «lecite provviste» dell’ex calciatore «la fonte finanziaria impiegata per la formazione del patrimonio sequestrato, sia quello personale dei suoi genitori sia quello della società Iaquinta Costruzioni S.r.l., della quale Vincenzo è stato socio per lungo tempo, certamente nel tempo di acquisizione del suo patrimonio immobiliare in questa sede sottoposto a vincolo». Quella di Vincenzo è, però, una gioia a metà: «Mio padre è in carcere ingiustamente e lotterò fino alla fine, perché è innocente. È una roba ingiusta. Questo è il primo passo per aprire qualche spiraglio sulla verità». Anche perché la richiesta di sequestro è arrivata un anno dopo la sentenza d’appello, a ridosso della Cassazione, un fatto sospetto secondo l’ex calciatore. «Hanno analizzato i conti dal 2004 ad oggi. E tutti i fondi derivavano da me o dalle banche. Non c’è una virgola fuori posto. La Dia è però venuta a fare il sequestro preventivo due mesi prima della Cassazione. Perché non si è presentata nel 2015? Forse perché così sarebbe emersa l’innocenza di mio padre - sottolinea -. Non è possibile che sia considerato un mafioso quando i suoi beni sono di provenienza lecita. E anche io sono stato tirato in mezzo per fare scena: non posso finire in un processo per ‘ndrangheta per aver spostato armi dichiarate. Era tutto un modo per avere un cognome eclatante. Un cognome che ha dato luce a questo processo, a livello mediatico. Ci hanno sempre sbattuti in prima pagina. Mio padre sta pagando ingiustamente». E per provarlo Iaquinta ha incaricato l’avvocato Andrea Saccucci di portare la questione a Strasburgo, davanti alla Cedu. Giuseppe Iaquinta si trova ora in carcere a Sulmona, dove il figlio si è recato la scorsa settimana assieme alla moglie e ai figli, dopo più di un anno dall’ultima visita. «Siamo scoppiati a piangere, non vedeva i nipoti da quattro anni - racconta Vincenzo -. Non vedo l’ora di dargli questa notizia». Il Tribunale ha però disposto per Giuseppe Iaquinta la sorveglianza speciale per cinque anni, con obbligo di soggiorno nel territorio del Comune di Reggio Emilia, provvedimento sospeso fino al termine della detenzione. Una decisione motivata dalla sua condanna per 416 bis, che ne conferma la pericolosità. «Quando sento dire che mio padre è pericoloso - conclude il figlio Vincenzo - vado fuori di testa. Ma sono sicuro che la verità prima o poi verrà a galla. E questo provvedimento mi dà ancora più forza per cercarla».

«Grande soddisfazione» è stata espressa anche dai professori Vincenzo Maiello e Tommaso Guerini, che assistono Giuseppe Iaquinta. Si tratta di «un provvedimento corretto ed equilibrato, che restituisce a Giuseppe Iaquinta la sua storia di imprenditore, sgombrando il campo da qualsiasi ipotesi di arricchimento illecito e con il quale il Tribunale di Bologna ha dimostrato una grande sensibilità per il rispetto delle garanzie difensive, non sempre comune nel procedimento di prevenzione. Ora si accendano i riflettori sulla enormità della condanna subita da Giuseppe Iaquinta per partecipazione a una cosca di 'ndrangheta. La decisione del Tribunale della prevenzione di Bologna, che restituisce tutti i beni sequestrati alla famiglia Iaquinta, certificando la legittimità della loro formazione, rende ancor più ingiusta quella affermazione di responsabilità, svelando in termini di maggiore chiarezza come essa scaturisca da cervellotici e fumosi ragionamenti, contrari ai fatti e distanti dalle regole della logica». Gli avvocati Tommaso Rotella, che assiste Vincenzo, e Roberto Ricco, che assiste Adele, esprimono a loro volta il loro plauso per questa decisione: «Abbiamo apprezzato il lavoro del Tribunale, che ha voluto approfondire ogni minimo movimento e questo rende il provvedimento ancora più chiaro ed incontestabile».

Il caso dell'ex calciatore. Intervista a Vincenzo Iaquinta: dal Mondiale vinto alla persecuzione giudiziaria del padre. «I nostri soldi sono di provenienza lecita. Mio padre non è un mafioso e io lotterò per la verità». Annalisa Costanzo su L'Unità il 5 Agosto 2023

«Anche in questo caso, provata la fonte della provvista da parte di Vincenzo Iaquinta, il bene va allo stesso restituito, insieme alla restituzione al predetto della quota parte della somma vincolata a titolo di sequestro». Così il tribunale di Bologna, sezione specializzata nelle misure di prevenzione, nella giornata del 3 agosto 2023, ha rigettato la richiesta di confisca avanzata dalla Direzione distrettuale antimafia di Bologna relativamente ai beni di Giuseppe, Vincenzo ed Adele Iaquinta.

«Questa decisione – commenta Vincenzo Iaquinta – è stata una liberazione, perché il tribunale di Bologna, insieme ai miei avvocati, ha fatto un grandissimo lavoro. Sono soddisfatto, abbiamo fatto luce almeno sulla questione economica: abbiamo dimostrato che i soldi che entravano nella nostra famiglia erano tutti di provenienza lecita». Il tribunale delle Misure di Prevenzione ha sciolto la riserva in seguito all’udienza del 13 giugno 2023, ed ha conseguentemente disposto la revoca del sequestro e la restituzione dei beni alla famiglia Iaquinta.

La storia che vi raccontiamo (ma che ancora non è giunta a conclusione) è quella di uno degli eroi di Berlino, Vincenzo Iaquinta, il calciatore che nel 2006 contribuì (anche con un gol) a portare la nazionale italiana sul tetto del mondo, con la vittoria del campionato mondiale. Una storia di dolore e ingiustizia – «quanto fango gettato addosso», dice Iaquinta all’Unità -, che ha segnato e cambiato per sempre la vita fatta di allenamenti, fatica, calcio e famiglia dell’ormai ex calciatore. Giuseppe, il padre di Vincenzo, prima di essere coinvolto nell’operazione “Aemilia” – il più grande maxi-processo in Emilia Romagna contro la ‘ndrangheta -, era un noto imprenditore edile di Crotone che fin dalla gioventù, come tanti calabresi, aveva 16 anni quando insieme al fratello maggiore si è trasferito nel nord Italia alla ricerca di fortuna. Vincenzo, invece, giocava a calcio. Era l’idolo dei ragazzini. Il suo viso per anni ha campeggiato sugli album delle figurine.

Ha vestito, tra le altre, le casacche dell’Udinese prima e della Juventus dopo, siglando circa 90 gol nel campionato di serie A. Ha vestito anche la sognata maglia azzurra, quella della nazionale italiana, collezionando 40 presenze. Tanto il padre quanto lo stesso calciatore sono stati coinvolti nell’indagine del 2015: Vincenzo in appello è stato condannato ad un anno, con pena sospesa, per la mancata custodia di due pistole (regolarmente dichiarate) e 126 proiettili, ceduti al padre e la spiegazione è tanto semplice: «io ero sempre a Torino – spiega il calciatore- a lavorare, nel 2014 mia sorella mi chiese se poteva andare a vivere a casa mia dove io custodivo regolarmente le due pistole e mio padre in quell’occasione, a mia insaputa, ha preso le armi e le ha portate a casa sua. Un’ingenuità». Nulla di più.

Il padre, invece, è stato condannato in via definitiva a 13 anni: nonostante non abbia mai commesso un reato specifico, secondo l’accusa è comunque una figura di rilievo vicino alle cosche emiliane legate alla ‘ndrangheta di Cutro. Ad accusare Giuseppe Iaquinta ci sono delle intercettazioni, la partecipazione a diversi incontri conviviali, ma anche alcuni pentiti. Quella di giovedì del tribunale di Bologna è una sentenza che lascia l’ex campione del mondo soddisfatto e «contentissimo», ma «a metà», ripete come un mantra: «Il mio cuore ancora piange, perché mio padre è in carcere e quello non è un posto per lui. Mio padre non è un mafioso e io griderò la sua innocenza fino alla morte». Trattiene a stento le lacrime Vincenzo, che durante il calvario giudiziario che ha visto coinvolto lui e soprattutto il padre ha patito anche la grave perdita della madre.

Un dolore nel dolore per lui, ma «con questa sentenza – si fa forza – si apre qualche spiraglio, perché si inizia a vedere giuridicamente che mio padre con la ‘ndrangheta non c’entra proprio niente. Abbiamo dimostrato che tutti i soldi che giravano in famiglia sono soldi leciti, sono soldi che mio padre ha avuto dalle banche, che mio padre ha avuto da me. Io ho guadagnato giocando a calcio e quindi questo mi ha dato grande soddisfazione: avendo la possibilità economica, posso regalare un appartamento a mia mamma o non posso?», si chiede l’ex calciatore, perché tra le altre cose ha dovuto chiarire anche questo, ovvero di aver usato i soldi guadagnati con il suo lavoro di campione per regalare un appartamento ai genitori.

«La procura pensava – dice- che mia madre, non avendo reddito, non potesse permettersi un appartamento, invece il tribunale, con la nomina di un Ctu e con i nostri avvocati, ha fatto un grandissimo lavoro: hanno analizzato i conti dal 2004 in poi e abbiamo dimostrato che tutti i soldi erano leciti». Soddisfazione per la sentenza del tribunale delle misure di prevenzione l’hanno espressa anche gli avvocati della famiglia Iaquinta. «Si tratta di un provvedimento corretto ed equilibrato, che restituisce a Giuseppe Iaquinta la sua storia di imprenditore, sgombrando il campo da qualsiasi ipotesi di arricchimento illecito e con il quale il Tribunale di Bologna ha dimostrato una grande sensibilità per il rispetto delle garanzie difensive, non sempre comune nel procedimento di prevenzione», hanno commentato il professor Vincenzo Maiello e il professor Tommaso Guerini, che assistono Giuseppe Iaquinta.

Apprezzamento per il lavoro del tribunale è stato espresso anche dagli avvocati Tommaso Rotella, che assiste Vincenzo Iaquinta, e Roberto Ricco, che assiste Adele Iaquinta la sorella dell’ex bomber. Vincenzo, come ogni altro figlio che ne ha la possibilità, ha semplicemente aiutato i propri genitori e adesso è impegnato a gridare al mondo l’innocenza del padre: «Lui attualmente si trova a Sulmona, sono stato a trovarlo lo scorso martedì ed è stata veramente dura, era da tanto che non lo vedevo; ogni settimana facciamo la videochiamata, ma vederlo dal vivo è diverso, ci siamo messi a piangere. Ho portato con me anche i miei figli, che non vedeva da parecchio tempo. È un posto bruttissimo il carcere e io lotterò fino alla fine perché venga fuori la verità. Fatta chiarezza sulla faccenda economica, adesso devo dimostrare che mio padre è innocente al 100%».

Della ricerca della verità Vincenzo ha fatto una missione di vita, mettendo così da parte quelli che erano i suoi sogni, i suoi progetti per il futuro e soprattutto il suo lavoro. «Per mia scelta sono fermo lavorativamente perché questa faccenda mi ha un po’ bloccato. Quando ti ritrovi in questo vortice tra avvocati, udienze, non sei mentalmente sereno e tutte queste cose non mi hanno dato la possibilità di fare la cosa che mi piaceva nel mondo del calcio, ma per scelta mia comunque».

E dal giorno della sentenza di rigettato della richiesta di confisca «che sento quel peso sullo stomaco come se fosse un po’ più leggero. Sentirsi gettare del fango addosso di queste brutte cose di ‘ndrangheta che noi assolutamente non abbiamo mai fatto parte di questa cosa, soprattutto mio padre, e ti senti male. Ti senti male perché hai anche i figli, la gente pensa male di te e tu sai invece che tutto questo non è vero e ti senti sempre una cosa sullo stomaco, è impressionante, non lo so descriverla». Gli obiettivi di Vincenzo Iaquinta, l’eroe di Berlino, adesso sono concentrati su Strasburgo, dove i suoi avvocati hanno fatto ricorso per vedere riconosciuta l’innocenza di suo padre che da anni è rinchiuso in una cella. E, intanto, il processo “Aemilia” in questi anni ha “brillato” anche per la presenza del cognome Iaquinta. Annalisa Costanzo 5 Agosto 2023

Antonio Caridi.

Le motivazioni del processo. “Antonio Caridi non è della ‘ndrangheta”, assolto l’ex senatore che è stato 18 mesi in carcere. L’ex politico Antonio Caridi «non fa parte dei “riservati” della ‘ndrangheta. Nel vasto materiale probatorio non vi sono elementi di prova». Scrivono i giudici. Annalisa Costanzo su L'Unità il 3 Agosto 2023

Assolto perché il fatto non sussiste. Ma soprattutto perché «non vi sono elementi di prova per poter affermare che il Caridi fosse consapevole dell’esistenza della massoneria segreta o struttura riservata, e che la stessa si adoperasse per il mantenimento di Scopelliti e di Sarra Alberto in ruoli istituzionali strategici e funzionali agli interessi della criminalità organizzata». A scriverlo è il Tribunale di Reggio Calabria, nelle motivazioni della sentenza “Gotha”, emessa a luglio 2021, con la quale sono state condannate 15 persone e pronunciate altrettante assoluzioni.

Tra gli assolti c’è l’ex senatore Antonio Stefano Caridi, che per le accuse mosse dalla Dda fu arrestato quando era parlamentare in carica e ha trascorso in carcere 18 lunghi mesi. Ingiustamente. Nelle 112 pagine, sulle 7600 complessive, in cui illustra la singola posizione di Caridi, il giudice Silvia Capone esordisce ricordando: «che secondo l’impostazione accusatoria, Caridi, come Sarra Alberto, avrebbe fatto parte della componente riservata della ‘ndrangheta, con il ruolo dell’uomo di mezzo, preposto ad assicurare, una volta introdottosi nei gangli istituzionali – del Comune prima, della Regione poi, e infine del Parlamento della Repubblica – grazie al consenso elettorale raggiunto attraverso uno scambio elettorale politico mafioso, il perseguimento costante degli interessi della ‘ndrangheta, condizionando la gestione della cosa pubblica in favore degli interessi particolari degli accoliti».

Ma per il Tribunale di Reggio Calabria, «il vastissimo materiale probatorio sin qui passato in rassegna non consente di condividere il teorema accusatorio». La Corte evidenzia come «non vi sono elementi pertanto, tratti dalle intercettazioni, per poter affermare che il Caridi prendesse parte alla struttura riservata della ‘ndrangheta, diversamente, per quanto si è visto, da Alberto Sarra, il quale sin dalle elezioni regionali del 2000 aveva lamentato esplicitamente con Romeo che i De Stefano non lo avevano votato poiché gli avevano preferito Scopelliti consentendo a Fiume di procurargli i voti con il metodo mafioso, così mostrando di appartenere allo stesso circuito criminale del Romeo».

Nel 2016, quando scattò il blitz, Caridi era un senatore della Repubblica italiana e per il suo arresto è stato necessario il via libera del Senato. Era un mercoledì, esattamente il 2 agosto 2016, quando da Palazzo Madama arrivò l’ok alla richiesta di arresto nei confronti dell’allora 46enne senatore di Gal, trasmessa dai magistrati dell’antimafia di Reggio Calabria. Un voto lampo e segreto col quale ben 154 senatori espressero parere favorevole alle manette, mentre furono 110 quelli contrari e 12 gli astenuti. Quel giorno Caridi uscì dall’aula in lacrime, dopo aver ribadito la propria innocenza: «Non c’è un fatto – aveva detto – che dimostri questa infamante accusa. Mi si accusa di aver avuto da sempre l’appoggio delle cosche eppure si dimenticano le tornate elettorali in cui non sono stato eletto oppure ho raccolto un numero di voti inferiore ad altri». Si sentiva «tradito dalla politica», disse a Il Dubbio.

Oggi, le motivazioni dell’assoluzione, giunte a distanza di sette anni da quel caldo agosto 2016, spazzano via ogni dubbio: «Gli atti esaminati – si legge nelle carte del tribunale – depongono sempre per una estraneità del Caridi alla struttura riservata». Difeso dagli avvocati Valerio Spigarelli e Carlo Morace, l’ex senatore aveva militato anche in Forza Italia ed era finito sotto inchiesta con l’accusa di fare parte di una associazione segreta, capeggiata dall’ex parlamentare del Psdi, Paolo Romeo, condannato a 25 anni. Un’associazione che, stando all’indagine, aveva l’obiettivo di condizionare la politica di Reggio Calabria e di agevolare le cosche De Stefano e Gullace, in cambio del loro sostegno elettorale. Ma per i giudici, le vittorie elettorali di Caridi erano «il frutto della propria attività politica, a cui in nessun modo aveva preso parte il Romeo».

Sette anni di accuse sulla base di un’unica conversazione, captata nell’aprile del 2002, quando Romeo prima e Giuseppe Valentino dopo estendevano a Caridi il disegno di costituzione degli uomini a disposizione della ‘ndrangheta all’interno delle istituzioni. “Una conversazione, scrivono oggi i giudici, attinente esclusivamente a temi di natura politica. Ricorso al Caridi per trarre utili in favore delle consorterie o degli accoliti e l’impegno del politico in tale direzione”.

Caridi nel 2016 fu arrestato per volontà della maggioranza dei senatori. Che probabilmente non avevano letto una riga delle 4000 pagine presentate due giorni prima dai Pm per chiedere la cattura. Era evidente il fumus persecutionis a chi avesse letto quelle pagine. Chissà come si sentono oggi quei 154 parlamentari che per pigrizia o per pregiudizio e con piena colpa, hanno lasciato per 18 mesi un loro collega innocente in fondo a una cella. Andranno, uno ad uno, a chiedergli scusa? Annalisa Costanzo 3 Agosto 2023

«Caridi spregiudicato, ma non è mai stato un mafioso». Le motivazioni della sentenza Gotha: l’ex senatore ha passato 18 mesi in carcere prima di essere assolto. Simona Musco su Il Dubbio il 2 agosto 2023

«Mi hanno fatto passare l’inferno, ma alla fine la verità è venuta fuori». Esattamente sette anni dopo essere uscito in lacrime dal Senato, che aveva deciso di autorizzarne l’arresto, l’ex senatore Antonio Caridi ha potuto leggere le motivazioni della sua assoluzione nel maxi processo “Gotha”. Motivazioni che escludono in toto la possibilità che ci sia stato un accordo con i clan, che pur votandolo non avrebbero ottenuto da lui alcun favore. «Il vastissimo materiale probatorio - si legge nelle motivazioni depositate oggi - non consente di condividere il teorema accusatorio» secondo il quale Caridi, ex senatore di Forza Italia, «avrebbe fatto parte di una componente riservata della ‘ndrangheta, con il ruolo dell’uomo di mezzo, preposto ad assicurare, una volta introdottosi nei gangli istituzionali - del Comune prima, della Regione poi ed infine del Parlamento della Repubblica - grazie al consenso elettorale raggiunto attraverso uno scambio elettorale politico-mafioso, il perseguimento costante degli interessi della ‘ndrangheta, condizionando la gestione della cosa pubblica in favore degli interessi particolari degli accoliti». Parole messe nero su bianco dal Tribunale di Reggio Calabria, che a luglio 2021 ha pronunciato 15 condanne e 15 assoluzioni. Tra queste quella di Caridi, che però ha trascorso 18 mesi in carcere prima di essere dichiarato innocente, dopo il voto del Senato che accordò alla Dda di Reggio Calabria l’arresto del politico.

Le accuse

L’ex senatore – difeso dagli avvocati Valerio Spigarelli e Carlo Morace - era finito sotto inchiesta con l’accusa di fare parte di una associazione segreta, capeggiata dall’ex parlamentare del Psdi, Paolo Romeo, condannato invece a 25 anni, con l’obiettivo di condizionare la politica cittadina e per avere agevolato le cosche De Stefano e Gullace, in cambio di sostegno elettorale. Con Caridi, sono state assolte altre tredici persone, tra i quali l’ex presidente della Provincia Giuseppe Raffa (Fi). Condannati, invece, oltre a Romeo, indicato come capo e promotore dell’associazione segreta; anche l’avvocato Antonio Marra; Marcello Cammera (2 anni); il sacerdote Giuseppe Strangio (9 anni e 4 mesi); Giovanni Zumbo (3 anni e 6 mesi); Antonio Barbieri (3 anni e 4 mesi); Domenico Cartisano (20 anni); Francesco Chirico (16 anni), cognato del boss Paolo De Stefano; Vincenzo Delfino (5 anni); Antonino Gioè (16 anni e 6 mesi); Domenico Giustra (2 anni); Francesco Minniti (2 anni e 8 mesi) e Paolo Richichi (3 anni e 6 mesi). L'arresto di Caridi era stato votato dal Senato esattamente sette anni fa, il 2 agosto 2016, una decisione presa col voto segreto e appoggiata da 154 senatori favorevoli alla richiesta avanzata dalla Dda di Reggio Calabria, contro i 110 contrari e 12 astenuti. Un voto preceduto da ampie polemiche e scontri, nonché dalla dichiarazione d’innocenza dello stesso Caridi - che poi si definì al Dubbio «tradito dalla politica» -, che aveva condensato su due pagine il proprio pensiero. «Io sono e mi dichiaro innocente e sono sicuro che questo mi verrà riconosciuto in sede giudiziaria», aveva affermato in aula. Negando di aver mai avuto rapporti «o stipulato patti con la ‘ndrangheta», né di aver mai partecipato ad associazioni segrete. «Non c’è un fatto – aveva evidenziato - che dimostri questa infamante accusa. Mi si accusa di aver avuto da sempre l’appoggio delle cosche eppure si dimenticano le tornate elettorali in cui non sono stato eletto oppure ho raccolto un numero di voti inferiore ad altri».

Le motivazioni della sentenza

E a dargli ragione, ora, c’è una sentenza, arrivata sette anni dopo l’arresto e due anni dopo la sua assoluzione, secondo cui sono rarissime le conversazioni con l’avvocato Paolo Romeo, ritenuto dal Tribunale di Reggio Calabria «grande stratega della criminalità organizzata», e circoscritte alle elezioni comunali del 2002. E la conclusione del Tribunale è che «gli importanti risultati politico elettorali già raggiunti dal Caridi alle precedenti elezioni fossero stati il frutto della propria attività politica, a cui in nessun modo aveva preso parte il Romeo». Il teorema accusatorio si basa su un’unica conversazione, quella del 20 aprile 2002, quando Romeo prima e Giuseppe Valentino dopo estendevano a Caridi il disegno di costituzione degli uomini a disposizione della ‘ndrangheta all’interno delle istituzioni. Ma in quella conversazione, attinente esclusivamente a temi di natura politica (l’accordo preelettorale tra l'Udc, Forza Italia ed An per la spartizione delle cariche fiduciarie), emergeva solo il timore di Caridi di cosa pensasse degli accordi proposti da Romeo il candidato sindaco, cioè Giuseppe Scopelliti, «secondo la più che legittima considerazione (non espressa dal Caridi) che certamente al sindaco sarebbero toccate le nomine assessoriali e di vicesindaco, e che in quell’accordo appariva come un illustre assente». Argomenti, scrivono i giudici, «che consentono di affermare che sino al 2002 Caridi Antonio Stefano era stato un battitore libero, estraneo ai disegni di Paolo Romeo. Certo nel corso della stessa conversazione il Romeo non usava mezzi termini per far comprendere al Caridi che Scopelliti Giuseppe era solo uno strumento nelle sue mani in quella fase politica - continua la sentenza -, che ove non avesse assecondato i disegni del Romeo sarebbe andato a casa, circostanza alla quale il Caridi non replicava alcunchè, aderendo pertanto alla proposta politica del Romeo nello stringere l’alleanza politica. Tuttavia la natura esclusivamente politica degli argomenti impiegati nella conversazione in questione, sia da parte del Romeo, sia da parte del Valentino, esclude di poter affermare che il Caridi venisse messo al corrente della vera finalità e natura del disegno del Romeo. Non si rinvengono, oltre a quella appena citata, ulteriori conversazioni dirette tra Paolo Romeo e Antonio Stefano Caridi». E mai ritorna il nome di Caridi, «se non per commenti assolutamente neutri e di natura esclusivamente politica». Non vi sono elementi pertanto, tratti dalle intercettazioni, per poter affermare che il Caridi prendesse parte alla struttura riservata della ‘ndrangheta».

Contatti con la ‘ndrangheta, ma nessun patto scellerato

Certo, l’ex senatore, secondo quanto scrivono i giudici, sarebbe stato un «politico spregiudicato, che in occasione delle competizioni elettorali non disdegnava di coltivare rapporti e frequentazioni con soggetti delle più importanti consorterie criminali per chiare finalità elettorali». Ma se le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia confermano il sostegno elettorale tributato a Caridi da parte delle famiglie criminali, «in ordine alla intraneità dell’imputato alle singole consorterie i riferimenti sono tutti generici e privi di circostanze specifiche idonee ad individuare il ruolo specifico che il politico avrebbe svolto all’interno delle singole famiglie criminali».

Nonostante i «rapporti» con soggetti intranei ai clan reggini, che «si cimentavano nella campagna elettorale per il procacciamento dei voti in occasione delle varie competizioni elettorali», in nessuna delle conversazioni «è mai emerso un accordo di scambio elettorale politico mafioso, né il ricorso al Caridi per trarre utili in favore delle consorterie o degli accoliti e l'impegno del politico in tale direzione». Tant’è che anche la conversazione captata in casa del boss di San Luca Giuseppe Pelle, in occasione delle regionali del 2010, fa emergere l’assenza di un patto di scambio politico mafioso: Pelle e Antonio Talarico, infatti, dialogavano circa quella che poteva essere la strategia migliore per intrattenere rapporti con Caridi, concludendo che sarebbe stato necessario interporre nel rapporto un imprenditore: «Non è che si deve avvicinare con forza - si dicevano i due -, si deve avvicinare con un imprenditore, non con forza, eh. Una volta che poi c’è il filo diretto che si può andare piano piano, piano piano». La conversazione, dunque, «non lascia dubbi», scrivono i giudici: «Alcun accordo esplicito di scambio politico mafioso elettorale era stato concluso tra il Pelle ed il Caridi», in quanto altrimenti «la famiglia mafiosa non avrebbe avuto bisogno di elaborare una strategia per presentare al Caridi le richieste di favori. Peraltro veniva escluso che si dovesse operare con la forza, e cioè con il metodo della intimidazione violenta tipico della ‘ndrangheta, ritenendolo con evidenza inappropriato per le finalità del rapporto con il politico, e non è dato sapere, se anche rischioso per il timore che il Caridi potesse denunciare». E quanto alla condotta agevolatoria che Caridi, da consigliere comunale prima, da assessore comunale e regionale poi, ed infine da senatore, avrebbe posto in essere per favorire le consorterie, «non si rinvengono elementi di prova utili a suffragare il costrutto accusatorio».

Nicola Comerci.

Il caso dell'imprenditore. Il dramma di Nicola Comerci: per Cafiero de Raho “contiguo alle cosche”, oggi assolto nel silenzio. Per i giudici non è un bancarottiere fraudolento. Finì in manette nel 2016 e Cafiero De Raho, all’epoca procuratore di Reggio, e altri vertici istituzionali gongolavano in conferenza stampa: “Contiguo alle cosche”. E ora? Tiziana Maiolo su L'Unità il 6 Giugno 2023

L’imprenditore Nicola Comerci è stato assolto dal tribunale di Vibo Valentia. Non è un bancarottiere fraudolento. Nessun commento, nessuna conferenza stampa, in questi giorni in Calabria.

Eppure sette anni fa, quando erano state eseguite le ordinanze di custodia cautelare nei confronti di un’intera famiglia, e poi in seguito un sequestro di beni per tre milioni di euro, che poi erano diventati cinquanta, erano mancate solo le trombe e i trombettieri perché tutti sapessero, come aveva dichiarato Federico Cafiero De Raho, allora procuratore capo della repubblica di Reggio Calabria, che, attraverso indagini patrimoniali, la polizia era arrivata a definire “un quadro che attesta come il soggetto fosse un uomo contiguo alle cosche Mancuso e Piromalli”.

Il “soggetto” è un noto imprenditore del settore turistico-alberghiero, proprietario tra l’altro del resort Blue Paradise, il villaggio turistico che darà poi il nome all’operazione di polizia giudiziaria. L’indagine era stata avviata in piccolo, una decina di anni fa. Il punto di partenza, nel marzo del 2016, era stato il fallimento della società Inox Form srl che aveva accumulato un debito con il fisco di oltre tre milioni di euro. Data la consistenza del debito, la procura della repubblica di Reggio aveva incaricato la Guardia di finanza di approfondire le ragioni che avevano portato al dissesto.

Era così emerso il fatto che la Inox era in rapporti economici con un’altra società, la Insieme, che le aveva affidato la gestione del villaggio turistico Resort Baia di Tropea (già Blue Paradise). In definitiva, secondo la Guardia di Finanza, quella che appariva come una normale transazione di affari di un gruppo che dà a un altro la gestione di un ramo d’azienda, nascondeva un affare truffaldino. La Inox sarebbe stata intestata a un mero prestanome e avrebbe svolto il ruolo di “bad company” destinata al fallimento. Di qui l’arresto del colpevole della truffa, Nicola Comerci, mandato ai domiciliari insieme alla moglie, i due figli e altre due persone. Imputazione, bancarotta fraudolenta e bancarotta documentale.

C’era bisogno di ostentare le manette? Probabilmente no, tanto più che le misure cautelari erano state in gran parte annullate venti giorni dopo dal tribunale del riesame. Ma evidentemente il procuratore Cafiero De Raho aveva ritenuto, come capita a chi svolge indagini nelle terre inquinate dalle mafie, che quella bancarotta fosse la spia di ben altro. Tanto che, pochi mesi dopo, arrivano le fanfare e le conferenze stampa in grande spolvero. Altro che i tre milioni di euro sequestrati per coprire il debito di una piccola società con il fisco. “Reggio, sgominato impero economico. Tra i beni il resort Blue Paradise”, annunciano siti e quotidiani locali nel novembre del 2016.

E qui i milioni di euro, il valore dei beni confiscati a Nicola Comerci ammonta a 50. Nelle foto si vedono quattro autorevoli vertici istituzionali, visibilmente soddisfatti per il successo dell’operazione. Il questore Raffaele Grassi, il quale spiega come l’attività dell’anticrimine retta da Aldo Fusco, abbia sempre seguito tre principali direttive, per cui oltre alla cattura dei latitanti e l’individuazione delle cosche, un particolare impegno sia stato sempre attribuito all’aggressione dei patrimoni illeciti. E il procuratore Cafiero de Raho aveva sottolineato, con un argomento in verità un po’ scivoloso, come “non ci fosse sostanzialmente un’indagine sotto il profilo penale del Comerci, eppure siamo riusciti a stilare un quadro che attesta come il soggetto fosse un uomo contiguo alle cosche Mancuso e Piromalli”.

Era stato poi il procuratore aggiunto Gaetano Paci a delineare il profilo dell’imprenditore, sottolineando la sproporzione economica dei suoi successi. Persino nel mondo della comunicazione Nicola Comerci si era dimostrato un vincente. Proprio nel suo resort infatti la Rai aveva girato la fiction ”Gente di mare”, un successo degli anni 2005-2007. C’erano state polemiche, perché si era detto che un altro imprenditore avesse fatto alla produzione Rai un’offerta economicamente più conveniente. E poi, quando Comerci aveva deciso di abbassare le proprie richieste, si era detto che era stato qualcuno della cosca Mancuso a suggerirglielo.

In ogni caso, se è vero che proprio Giovanni Falcone diceva “segui il denaro” per capire dove c’è puzza di bruciato, cioè di presenza mafiosa, non è detto che sempre dove c’è fumo ci sia arrosto. Tanto che nel 2021 la Corte d’appello di Reggio Calabria disponeva la revoca della confisca dei beni della famiglia Comerci perché non reggeva il sospetto della contiguità con le cosche Mancuso e Piromalli. La vicenda però si era complicata con un secondo arresto, reso drammatico con la morte per infarto della sorella subito dopo aver assistito all’evento. E in seguito c’erano stati due diversi interventi di annullamento della cassazione.

Sette anni di eventi contraddittori, arresti e confische, cui seguivano annullamenti. Sette anni di giudici contro pubblici ministeri e di giudici contro giudici. E si arriva alla sentenza di assoluzione di questi giorni, dopo sette anni di vicende giudiziarie che somigliano stranamente a una fiction come quella in cui la Rai fu costretta, si dice, a girare le scene in un luogo invece che in un altro. Perché il caso ha voluto che il tribunale di Vibo Valentia che ha assolto Nicola Comerci dall’accusa della bancarotta del 2016 sia presieduto da quella stessa giudice Tiziana Macrì, cui un’impugnazione del procuratore Nicola Gratteri aveva impedito di presiedere il maxiprocesso Rinascita Scott, tuttora in corso a Lamezia, dove si attendono le richieste dei rappresentanti dell’accusa.

Il motivo dell’incompatibilità era quanto meno discutibile: la dottoressa in passato nella veste di gip aveva autorizzato una proroga di intercettazioni nei confronti di un imputato. Certo, incompatibilità. Ma se esaminiamo la giurisprudenza dei tribunali presieduti da questa giudice, comprendiamo anche come il suo rigore e la sua attenzione nel non confondere i sospetti con gli indizi e le prove, la rendano alquanto “sospetta” in certi ambienti. E del resto la questione delle incompatibilità in una regione come la Calabria dove c’è grande carenza di magistrati viene a volte gestita un po’ a spanne.

Come nel caso di quella giudice che ha trattato prima una causa civile in cui era coinvolto l’avvocato Francesco Stilo e poi è stata accettata come sostituta proprio sullo scranno dove Stilo è imputato e dove la presidente Macrì era stata dichiarata incompatibile. Ha potuto amministrare la giustizia altrove, e anche assolvere Nicola Comerci dal sospetto di aver messo in piedi una “bad company” per truffare lo stato. Tiziana Maiolo 6 Giugno 2023

Gregorio Quattrone.

Il dramma di Francesco Gregorio Quattrone, punito perché pericoloso innocente. Francesco Gregorio Quattrone su il Riformista il 14 Aprile 2023

Riceviamo e pubblichiamo la lettera di in imprenditore calabrese, protagonista – come tanti altri nella sua regione e in altre regioni del sud Italia – di una storia di “guerra alla mafia” che con la terribilità con cui viene condotta può provocare, come spesso accade in ogni guerra senza quartiere, “danni collaterali” o vere e proprie vittime innocenti.

Sono Quattrone Francesco Gregorio, un imprenditore reggino, considerato dalla giustizia un innocente pericoloso. Da molti mesi continuo a combattere, senza arresa e pacificamente, contro un sistema che ha permesso una strage dei miei diritti. Sono “innocente”, perché così si chiama un soggetto assolto con formula piena, ma punito perché colpevole di quell’innocenza. Controsenso, il sistema delle misure di prevenzione ha permesso che, con le stesse prove che hanno raccontato la mia innocenza e portato al conseguente giudicato penale assolutorio con formula piena, per gli stessi fatti, vi fosse la confisca di tutti i miei beni. Il mio dramma giudiziario è la riprova di come un siffatto sistema di prevenzione su base presuntiva sfiguri il processo penale, e deturpa le garanzie.

Quale essere ritenuto pericoloso socialmente, sono ancora prigioniero – e vittima – in una cornice che contorna un giudizio che pure ha escluso la partecipazione mia all’associazione mafiosa, imputazione questa ultima che aveva fatto scattare all’epoca il sequestro e la conseguenziale confisca dei beni miei e della mia famiglia. Mi chiedo: come si può decapitare l’onestà e l’innocenza di un uomo, prima riconosciuto estraneo al reato e, poi, punito per il medesimo fatto, con la sottrazione di ogni suo bene?

Mi hanno distrutto la vita, hanno presunto – ipotizzato – una provenienza illecita dei miei beni, frutto di anni di sacrificio. Una mia sala ricevimenti l’hanno paragonata a un’immobile di lusso. Così hanno emergere la sperequazione. All’epoca dei fatti era un semplice capannone adibito a sala ricevimento, costruito in economia e a debito, le foto lo dimostrano. La mia sala ricevimenti era tra le più gettonate, con orgoglio e fierezza posso dirlo e dimostrarlo. Il servizio che offrivo era perfettamente in linea con un costo onesto e mai esagerato, le prenotazioni per eventi non mancavano mai. E, man mano che andavo avanti con il lavoro, saldavo i debiti che avevo assunto per rifinire il capannone e migliorarlo nel corso degli anni. Guadagnavo solo sul mio lavoro, posso provare ogni cosa.

Al momento del sequestro mi è stato detto: “Quattrone, quanto ha in tasca adesso?” Io risposi: 372 euro! “Beh, mi dissero, dovrà vivere con quelli; da ora in poi, non ha più nulla!” Così la legge giustiziò la mia onestà e innocenza. Mi hanno dilaniato l’anima, deturpato la mia vita, ma io lotterò fino alla fine dei miei giorni, perché la mia innocenza emergerà; anche in punto di morte urlerò l’ingiustizia. Non ci sarà mai pace finché l’innocenza viene calpestata. Non accetto questa ingiustizia, non mi fermerò mai. Adesso la giustizia giusta ha le carte in regola – attraverso le prove asseverate già depositate – per vincere, perché quando un errore viene sanato, vince lo Stato di diritto, l’innocente non va punito.

Sono vittima di un quadro probatorio totalmente estraneo alla mia persona, ma ora si comprende dove fu l’equivoco e ci sono le basi per poter riaprire il caso. Ho composto un nuovo collegio difensivo e il 19 aprile 2023 sarò in aula presso la Corte di Appello di Catanzaro quando prenderà il via l’esame della mia istanza di revocazione della confisca dei beni. Nonostante i problemi di salute non smetterò mai di arrendermi all’ingiustizia. Mi oppongo a un sistema che punisce innocenti, perché l’errore più grande che si possa fare è tagliare le mani sporche di onestà. Francesco Gregorio Quattrone Imprenditore

Antonio Rodà.

Tre anni in carcere, Antonio Rodà assolto da ogni accusa di mafia: “Chi mi ridarà quei giorni?” Antonio Lamorte su Il riformista il 7 Aprile 2023

Antonio Rodà ha passato tre anni, tre mesi e dodici giorni in carcerazione preventiva. Era accusato di far parte di un’associazione mafiosa. È stato assolto, dal tribunale di Locri, insieme con altri sei imputati, lo scorso 24 marzo, da ogni accusa. La vicenda di Rodà è stata raccontata dal quotidiano Il Foglio. “Io so solo che avevo 66 anni, oggi ne ho 70, chi mi ridarà gli anni che non ho potuto vivere e trascorrere con la mia famiglia?”.

Rodà, calabrese di origini, ma da trent’anni a Sansepolcro, in provincia di Arezzo, era un imprenditore nel settore florovivaistico. È stato arrestato il 12 dicembre 2019. “Vennero a prendermi a casa alle tre e mezza del mattino – ha raccontato – mi stavo preparando per andare al lavoro, al mercato. Le forze dell’ordine hanno pensato che io mi fossi tenuto pronto perché sapevo che mi avrebbero arrestato. Semplicemente nella mia vita ho sempre solo pensato a lavorare”. La difesa, degli avvocati Lucio Massimo Zanelli e Francesco Calabrese, valuterà la richiesta di indennizzo qualora la sentenza non dovesse essere impugnata dalla procura.

L’arresto venne annunciato in una conferenza stampa. Secondo quanto ricostruito dal quotidiano, l’uomo aveva avuto contatti, per motivi di lavoro, con alcuni corregionali che erano finiti nel mirino della Direzione distrettuale di Reggio Calabria per possibili legami con la ndrangheta. “La domanda che mi facevo costantemente in carcere era: perché? Perché sono qui?”. Quando era in carcere si è iscritto all’università in scienze gastronomiche, si teneva impegnato coltivando un terreno. La sua attività commerciale è stata tenuta in vita dai familiari ma danneggiata fortemente dalla vicenda.

Il caso in esame deve far riflettere la politica sul fatto di considerare prioritaria una riforma in ordine all’utilizzo da parte della magistratura delle misure cautelari detentive, quale forma idonea a combattere ogni tipo di associazione a delinquere”, ha commentato allo stesso quotidiano il legale Zanelli.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Giovanni Ferrari.

Carcere Opera, ha un tumore, perde sangue e teme minacce dagli ’ndranghetisti. La compagna di Carmine Multari: «I farmaci non sono adeguati alla terapia». È in attesa di giudizio a Opera ed è recluso insieme ai detenuti definitive. DAMIANO ALIPRANDI su Il Dubbio il 6 marzo, 2021

«È entrato in carcere con le sue gambe e ora è in carrozzina. Aveva tutti i suoi denti e ora ha perso il conto di quelli che non ha più, tra l'altro spariti dalla sua cella dopo una perquisizione». A segnalare il caso all’associazione Yairaiha Onlus è la compagna di un detenuto malato oncologico recluso a Opera. Ultimamente gli fuoriesce il sangue dal naso e dalla bocca con il sospetto che sia dovuto dalla terapia che sta facendo. Non solo. A ciò si aggiunge che è un detenuto in attesa di giudizio, ma è recluso in una sezione dove ci sono tutti condannati definitivi. Si professa innocente, dice di non appartenere al clan della ‘ ndrangheta e si sente minacciato. Il risultato è che vive, volontariamente, come se fosse a un 41 bis: 24 ore su 24 non esce dalla propria cella.

Carmine Multari, dimesso dall'ospedale dopo il Covid è ritornato a Opera

Parliamo di Carmine Multari, un caso seguito da Yairaiha Onlus e che del quale si è già occupato Il Dubbio quando, una volta dismesso dall’ospedale perché ricoverato per aver contratto il Covid 19, è ritornato nel carcere di Opera nonostante il suo complesso quadro clinico. La compagna ha denunciato che Multari non è mai stato seguito adeguatamente né dal centro clinico dove era prima di contrarre il Covid né ora dove si trova nel primo reparto del carcere milanese di Opera. «La notte passata ha perso sangue dalla bocca e dal naso ma nessuno sembra ascoltarlo quando dice che i farmaci non sono adeguati a quella che dovrebbe essere la sua terapia. Gli stanno distruggendo il corpo», racconta con preoccupazione la compagna. Il processo in corso si celebra presso il tribunale di Vicenza. Per questo ha chiesto di essere trasferito nel carcere vicino, ma anche perché c’è l’ospedale che lo aveva in cura e operato. Ma sta avendo difficoltà nonostante il parere positivo del Gup.

La preoccupazione si fa più concreta quando il detenuto ha appreso che tra i medicinali che gli vengono somministrati vi sarebbe un farmaco “salvavita”. Ma ad oggi non è stata comunicata alcuna patologia tale da mettere a rischio imminente la sua vita. Il suo legale, l’avvocato Lorenzo Manfro, anche alla luce dei fenomeni di sanguinamento tanto dal naso quanto dalla bocca, ha chiesto con urgenza di avere una copia della cartella clinica aggiornata per poterla girare al medico di fiducia esterno alla struttura e capire effettivamente le sue condizioni di salute.

Multari teme di incontrare affiliati alla 'ndrangheta

Ma, com’è detto, a questo si aggiunge un altro grande problema. Lo stesso Multari ha inviato alle autorità competenti, dal Dap ai giudici dell’udienza preliminare, una missiva che ha come oggetto la dichiarazione del divieto di incontro con la popolazione detenuta. Premette che si reputa estraneo alle accuse contestategli, ossia di essere membro delle cosche “ndranghetiste”. Denuncia che nella struttura del carcere di Opera sono presenti detenuti definitivi, condannati perché appartenenti / affiliati a cosche della ‘ ndrangheta. Multari sottolinea che ai sensi dell’articolo 14 dell’ordinamento penitenziario, la sua ubicazione non è quello dove è ubicato, poiché la legge prevede una separazione dai detenuti definitivi da quelli giudicabili. «Oggi – si legge nella lettera di Multari - sto vivendo nell’ansia e nella paura di ripercussioni da parte della popolazione detenuta». Per questo chiede espressamente il divieto di incontro con l’intera popolazione detenuta poiché teme per la sua vita. Contestualmente chiede di essere trasferito per motivi di ordine e sicurezza in altro istituto penitenziario. «Nel caso che non diate corso alla mia richiesta e nel caso in cui mi succeda qualche aggressione tutte le A. G. destinatarie della presente sarete chiamati a risponderne penalmente nelle dovute sedi giudiziarie», conclude la missiva indirizzata alle autorità competenti.

L’associazione Yairaiha Onlus ha segnalato il caso alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e al garante nazionale delle persone private della libertà. Segnala che, appunto, le condizioni attuali sono «assolutamente peggiorate non solo sotto il profilo della salute per mancanza di cure adeguate ma sembra che anche le condizioni di detenzione abbiano superato quel limite imposto dall'articolo 27 della nostra Costituzione». Per questo invita le autorità a voler intervenire affinché la dignità e la tutela dei diritti della persona vengano garantiti anche in condizioni di detenzione.

 DILLO AL DUBBIO. Quel giorno in cui anche io finii indagato col mio assistito

Era detenuto all’epoca dei fatti, «l’accento calabrese» la prova regina. Poi fui io a pagare per una telefonata...

Giovanni Ferrari, avvocato del Foro di Ascoli Piceno, su Il Dubbio il 12 marzo, 2023.

Tempo fa Il Dubbio si era occupato del caso di un mio cliente, Carmine Multari, da me assistito per la fase di legittimità davanti alla Corte di Cassazione. Era stato pubblicato questo articolo: “Carcere Opera, ha un tumore, perde sangue e teme minacce dagli ’ ndranghetisti”. La sentenza di primo grado, resa dal Tribunale di Vicenza, ha condannato ad oltre 14 anni di reclusione il Multari, cui erano contestate per una serie di estorsioni, aggravate dal c. d. metodo mafioso (metodo che tra l’altro avrebbe attuato con una particolare condotta, ovvero parlare col suo spiccato accento calabrese), alcune di esse commesse nell’ottobre del 2004.

Nel riconoscere la contestata aggravante, si legge nella sentenza: “Sul punto, non può essere trascurata la circostanza che l’imputato abbia uno spiccato accento calabrese - come riferito dai testi escussi e come apprezzato direttamente dal Tribunale nel corso delle udienze dibattimentali — che rende immediatamente evidente la sua provenienza geografica e che, quindi, connota e accresce l’attitudine intimidatrice delle sue parole: infatti, alla luce delle modalità peculiari assunte dalle sue azioni illecite, la chiara identificazione dell’imputato come un soggetto originario della zona in cui è radicata la ‘ ndrangheta può certamente reputarsi idonea a ingenerare nelle persone offese appartenenti ad un contesto regionale diverso da quello calabrese il sospetto di trovarsi davanti ad una persona in qualche modo vicina a tale organizzazione di tipo mafioso”.

Multari, tuttavia, si è sempre dichiarato innocente, totalmente estraneo ai fatti. E tra l’altro, essendo cresciuto in Veneto, il suo accento non può affatto dirsi spiccatamente calabrese.

La Corte di Appello di Venezia ha confermato però la sentenza del Giudice di prime cure e la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso per Cassazione. Si è ancora in attesa del deposito delle motivazione. Successivamente alla notifica dell’ordine di esecuzione, è emerso che il Multari non poteva aver commesso alcuni dei fatti lui contestati, ovvero quelli asseritamente commessi nel 2004. L’imputato era, infatti, nel 2004 detenuto per altra causa. Il certificato di detenzione parla chiaro: dal 2003 al 2005 è stato detenuto ininterrottamente per altra causa e non può, con assoluta certezza, aver commesso quei fatti. Si tratta della ennesima vicenda di errore giudiziario del quale è stata immediatamente notiziata la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Vicenza, competente per l’esecuzione.

Appresa la notizia della recente condanna di un Collega di Roma, considerato un vero principe del foro, un galantuomo, e per molti un vero e proprio Maestro, al quale va tutta la mia solidarietà, sono rimasto basito per l’ennesimo episodio di attacco agli avvocati, in un clima ormai irrespirabile nel quale il sospetto nei confronti della nostra categoria si concretizza in un vero e proprio attacco alla democrazia. E il ricordo è andato subito al giorno in cui, anche io, sono stato iscritto nel registro degli indagati insieme al mio cliente, per un fatto commesso durante l’esercizio della professione, dalla Procura di Latina. La mia posizione è stata archiviata dopo otto mesi di “indagini”; otto mesi nei quali ho vissuto un incubo, pur essendo certo della mia totale estraneità alle contestazioni.

Contestazioni che sono state vissute da me come un vero e proprio atto di “ritorsione”: per ragioni di opportunità sono stato costretto a rinunciare al mandato conferitomi. E il mio cliente ha riportato una condanna ad una pena di un anno e otto mesi di reclusione per resistenza a P. U.

Questi sono, a grandi linee, i fatti. Domenica 23 maggio 2021 venivo svegliato da un mio cliente alle 8.18, dal quale ricevevo tre chiamate su whatsapp. Non facevo in tempo a rispondere, ma alle 8.21 lo richiamavo. Mi rispondeva personalmente, in preda al panico, dicendomi che in casa sua erano entrati - non si capiva bene chi - almeno una decina di persone. Vista la situazione concitata, le urla che provenivano e le richieste di aiuto, decidevo di registrare la chiamata whatsapp, che - è bene ribadire - aveva ad oggetto una conversazione tra me e il mio cliente.

Ad un certo punto, la telefonata veniva interrotta, e non ricevendo più notizie, sapendo che la sua ultima residenza era stata nel Comune di Amaseno (Fr), contattavo la PS e i Carabinieri del luogo, fino a chiamare anche quelli di Latina. Spiegavo l'accaduto, mostrando preoccupazione perché non avevo ben capito se era stato tratto in arresto. Tutti i Carabinieri con cui ho interloquito mi hanno detto che non erano a conoscenza di nessun arresto nei suoi confronti. In tarda mattinata mi arriva la telefonata da parte della Questura di Cisterna di Latina, la quale mi avvisa che il mio cliente era stato arrestato per resistenza a P. U., nell'occasione di un controllo presso la sua abitazione a seguito di una chiamata della compagna del mio assistito, per asseriti maltrattamenti in famiglia. Il giorno seguente, il 24 maggio (giorno tra l’altro del mio compleanno) mi recavo a Latina, per celebrare l’udienza di convalida davanti al Tribunale in composizione monocratica, Giudice dott. ssa Bernabei.

Nel corso dell’interrogatorio Il mio assistito negava di aver opposto resistenza, ed al contrario affermava di essere stato in preda ad attacchi di panico, di essere stato aggredito da più persone e soprattutto schiaffeggiato in particolare da un operante che si era fatto refertare per delle lesioni. Nel porre le domande ad uno degli operanti che aveva effettuato l’arresto, chiedevo a questi se gli risultava che il mio assistito avesse chiamato il suo difensore. L’operante, davanti al Giudice, in effetti ricordava di aver assistito a quella chiamata ( poi interrotta).

Il Giudice da una parte convalidava l'arresto ed emetteva ordinanza di obbligo di presentazione alla Pg e rinviava al 5 luglio 2021; dall’altra, però, volendo ben comprendere i fatti, accoglieva la richiesta di rito condizionato all’ascolto e alla trascrizione della telefonata intercorsa tre me e il mio assistito, conferendo all’uopo incarico peritale al fonico trascrittore. Con ciò, il giudice riteneva necessaria ai fini del decidere l’acquisizione della prova; ma soprattutto la riteneva lecita, in quanto avvenuta registrazione di una conversazione tra presenti. Il giorno successivo il mio cliente si faceva nuovamente refertare all’Ospedale di Aprilia.

Cosa è accaduto subito dopo? Essendo emerso nella convalida di arresto che avevo registrato - legittimamente - la telefonata tra me e il mio cliente, sono stato immediatamente indagato per i reati di cui agli artt. 617 e 617 bis c. p. Tutto ciò nonostante un Giudice avesse accolto la mia istanza di giudizio abbreviato condizionato al deposito della registrazione della telefonata. È una triste storia che non ho mai reso pubblica, di cui ne sono a conoscenza solo i miei difensori di fiducia ed alcuni colleghi della Cpr.

Nicola Gratteri.

Possibile che non esista un giornalista al mondo in grado di fare vere domande a Gratteri? Si faccia intervistare dal “Dubbio”. Le garantiamo la massima correttezza (ci mancherebbe altro) ma finalmente potrà dare risposte che migliaia (forse molti di più) di persone aspettano da anni. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 16 novembre 2023

Gratteri ritorna in Calabria, a Portigliola, un comune del quale ci siamo occupati qualche tempo addietro quando il consiglio comunale democraticamente eletto, è stato sciolto per mafia. I cittadini sono scesi in piazza in difesa della loro libertà di scegliere i propri amministratori, in nome della Democrazia e della Costituzione. Niente da fare. In una ' regione canaglia' i cittadini non contano nulla.

I commissari si sono insediati al Comune ma il loro ' lavoro antimafia' sembra impalpabile, invisibile, sembra inesistente. Ad un tratto... il classico colpo d'ala e la ndrangheta è stesa: Gratteri viene nominato dai commissari, “cittadino onorario” di Portigliola. Le cosche avranno pensato ad una fuga in Aspromonte. Inconsapevoli che il dottor Gratteri appena qualche giorno fa, ha dichiarato dalla Gruber che chi, come Lui, ha “combattuto i criminali nella giungla colombiana o sulle montagne dell' Aspromonte non può temere i penalisti di Napoli”.

Quindi niente da fare, ma a parte la battuta una cosa è certa: la cittadinanza onoraria a Gratteri è stata conferita da tre anonimi funzionari estranei alla comunità, mai eletti, e contro i cittadini di Portigliola che nessuno ha consultato. Alla faccia della sovranità popolare.

Lo storico evento verrà tramandato alle future generazioni con una targa marmorea, rispettando le tradizioni del Regno del due Sicilie. Intanto, mentre la banda suonava, poco distante da Portigliola, i giudici della Corte di appello fanno a pezzi la grande inchiesta di Gratteri denominata “Stige”: tra primo e secondo grado il 60 degli imputati vengono assolti. Stige va a raggiungere le sue molte sorelle che hanno fatto una fine peggiore.

In tutto questo, lo scandalo più grande è opera dei più importanti giornalisti che, in questi giorni, intervistano Gratteri con la lingua sul pavimento. In occasione del suo ultimo libro, il cittadino onorario di Portigliola sta facendo il consueto giro delle sette chiese su tutti i canali televisivi e su tutti i grandi e piccoli giornali.

Invano si aspetta una sola domanda su Stige? Anzi sulle cento inchieste che come Stige hanno avuto l'effetto di far crescere esponenzialmente la ndrangheta e rovinare la vita a migliaia di innocenti.

Ad una domanda della Gruber, Gratteri ha risposto che Lui è abituato a mangiare “pane e veleno”. Probabilmente ad infastidirlo è qualche timida critica (e per quanto ci riguarda mai di carattere personale) tra un mare di “olè” che si alzano ad ogni sillaba che pronuncia.

Ora a parte il fatto che il veleno fa male e che un magistrato “avvelenato” fa disastri, vorrei fare io qualche domanda a cui certamente Gratteri non risponderà: Quanto veleno dovrebbe avere in corpo un innocente incarcerato ingiustamente nella inchiesta Stige o in altre simili?

Quanto gli amministratori e i cittadini di Portigliola? Quanto i calabresi, non ancora storditi dalla martellante propaganda di regime, quotidianamente calpestati dalla ndrangheta e che passano per “canaglie” grazie ad una narrazione interessata e falsa? Eppure sono certo che costoro si siano liberati dal “veleno” trasformandolo in civile impegno democratico. Rifletta il dottor Gratteri nel suo esclusivo interesse, non accetti più una cittadinanza onoraria da chi non ha alcuna legittimità democratica per conferirla.

È una mortificazione per i cittadini; una inutile forzatura antidemocratica. E soprattutto ci pensi prima di rilasciare l'ennesima “intervista” senza domande. Non è di questo che avrebbe bisogno. Magari si faccia intervistare da 'Il Dubbio”. Le garantiamo la massima correttezza (ci mancherebbe altro) ma finalmente potrà dare risposte che migliaia (forse molti di più) di persone aspettano da anni.

(ANSA venerdì 10 novembre 2023) "Quando sento onorevoli che vanno nelle scuole a dire che la marijuana non crea dipendenza, è difficile combattere questo fenomeno dl punto di vista della prevenzione". Lo ha detto Nicola Gratteri, nuovo procuratore di Napoli e grande esperto di lotta alle mafie: intervenendo a "Giù la maschera", su Radio1, parla dei rischi per i giovani delle nuove droghe, controllate dai narcotrafficanti. 

"Ieri a un convegno a Napoli ho detto, lasciate perdere magari per un anno la giornata della legalità nelle scuole, e mandate i ragazzi nelle comunità a parlare coi giovani drogati, per farsi raccontare le loro storie, i loro drammi. Vale più questo di tante conferenze con grandi esperti". "

Chi si fuma uno spinello, si mette in macchina e passa col rosso, a quel punto non diventano più fatti suoi, ma fatti nostri. La legalizzazione delle droghe leggere? Pensate che l'80% dei tossicodipendenti nel mondo occidentale è cocainomane, e un grammo di cocaina costa 60 euro. Mentre un grammo di marijuana costa 5 euro e i tossicodipendenti da questa sostanza sono il 7, 8%", ha aggiunto. Quindi quale sarebbe il mancato guadagno per le mafie se la legalizzassimo?

"Ormai la droga viaggia anche sui social, e quindi diventa un problema che scavalca gli Stati, la politica. Siamo deboli dal punto di vista normativo. Noi sequestriamo mediamente il 10% della droga che arriva in Italia; se un corriere è incensurato, qualche viene trovato con 50 chili di marijuana resta in carcere al massimo cinque mesi. Va creato un sistema giudiziario forte, serio, proporzionato al danno. 

Finché sarà conveniente delinquere, lo si farà e questo vale per tutti i reati", secondo Gratteri. "C'è uno spaventoso aumento del consumo di droghe sintetiche, perché costano poco - ha detto ancora il procuratore a "Giù la maschera"- Io posso collegarmi con i siti indiani, vietnamiti, cinesi e compro tutto quello che mi occorre per preparami una pasticca e venderla davanti alle discoteche.

Come il Fentanyl che ha effetti devastanti, sta uccidendo migliaia di giovani negli Usa, vien detta la droga degli zombie, fa perdere ogni facoltà cognitiva. C'è poi in Bolivia la cocaina rosa, inodore, quindi difficile da cogliere per i cani. Per non parlare della Cina, che controlla anche i respiri, ma che sta avendo un grandissimo consumo di droga fra i giovani, il problema è grave come quello degli Stati Uniti".

Il Csm ha deciso: è Nicola Gratteri il nuovo procuratore capo di Napoli. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 13 Settembre 2023

Il magistrato dopo oltre 30 anni trascorsi sempre in prima linea nella lotta alla 'ndrangheta, lascia la procura di Catanzaro, che dirigeva dal 2016 ed andrà a guidare l'ufficio inquirente più grande d'Italia.

di Anna Leone

Il magistrato Nicola Gratteri lascia Catanzaro e passa alla guida della Procura di Napoli, dopo oltre 30 anni in prima linea nella lotta alla ‘ndrangheta, salendo al vertice dell’ufficio inquirente più grande d’Italia e d’Europa, con 112 pubblici ministeri in pianta organica e 99 in servizio, competente su un territorio di quasi un milione e mezzo di abitanti. Gli aspiranti erano cinque: oltre a Gratteri, Amato e Volpe correvano anche il procuratore di Potenza Francesco Curcio e quello di Benevento Aldo Policastro.

Nella delibera approvata dal plenum del Consiglio Superiore della Magistratura viene evidenziato di Gratteri in particolare “l’indiscusso valore” e l'”assoluto rilievo dell’esperienza professionale maturata“, nonchè “prestigio di cui gode negli ambienti giudiziari e forensi, l’impegno e la passione spesi in modo costante nel lavoro giudiziario”. Secondo il plenum del Csm “l’esercizio ultratrentennale di funzioni inquirenti e requirenti nella materia del contrasto alla criminalità organizzata” di Gratteri, “palesa l’esistenza di una conoscenza vastissima e profonda dei fenomeni criminali e degli strumenti investigativi più efficaci”. 

A essere determinante per la maggioranza dei consiglieri del plenum del Csm è stato il curriculum del magistrato: 140 latitanti arrestati in tutte le operazioni condotte, alcuni anche nella lista dei 30 più pericolosi. In mattinata era anche arrivata il consenso di Matteo Renzi , attuale leader di Italia Viva, che a suo tempo lo voleva nominare ministro di Giustizia, venendo “bloccato” dal Quirinale a guida Pd (Giorgio Napolitano): “I politici non devono mai valutare le scelte del Csm…”, ha dichiarato a L’aria che tira su La7, “io lo volevo ministro della giustizia, se ora diventerà procuratore di Napoli auguri”. 

Magistrato dal 1986 ha sempre svolto funzioni in uffici giudiziari calabresi: prima come giudice al tribunale di Locri, dove, dal 1991, ha iniziato la sua carriera di pubblico ministero, ruolo svolto poi anche alla Procura di Reggio Calabria (di cui nel 2009 è diventato procuratore aggiunto), fino all’incarico direttivo di capo dei pm di Catanzaro svolto dal 2016 a oggi.

Nel suo curriculum sono numerose e rilevanti le indagini antindrangheta condotte, tra cui spiccano quella sulla strage di Duisburg del 2007, e la maxi-inchiesta, in anni più recenti, denominata ‘Rinascita Scott’. La sua esperienza nel contrasto alla criminalità organizzata viene definita “ampia e profonda“, soprattutto nella sua dimensione nazionale e transnazionale, motivo per cui vive sotto nutrita scorta sin dal 1989.

Nel 2009 è stato nominato procuratore aggiunto a Reggio Calabria. Nel giugno 2013 l’allora presidente del consiglio Enrico Letta lo nominò componente del corpo di esperti per l’elaborazione di proposte in tema di lotta alla criminalità organizzata. Nel febbraio 2014 il governo Renzi lo indica come ministro della Giustizia, ma alla fine prevalse l’indicazione Andrea Orlando (Pd), forse a seguito di un mai smentito ostracismo dell’allora presidente della Repubblica  Giorgio Napolitano (Pd) . Il 27 febbraio 2014 la senatrice Rosy Bindi, in qualità di presidente della Commissione parlamentare antimafia, annunciò la sua nomina a consigliere della Commissione, che Gratteri accettò compatibilmente col suo ruolo in procura. Nell’agosto 2014 Renzi nominò Nicola Gratteri alla guida della commissione per l’elaborazione di proposte normative in tema di lotta alle mafie. 

Nicola Gratteri ha ottenuto 19 voti, prevalendo sugli altri due candidati proposti dalla 5a commissione ( incarichi direttivi) : 5 voti sono andati a Giuseppe Amato, attuale procuratore di Bologna, e 8 a Rosa Volpe, attuale procuratore aggiunto a Napoli. In favore di Gratteri hanno votato, tra gli altri, il vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli, e il procuratore generale della Cassazione, Luigi Salvato.

A favore di Gratteri sono andati i voti di tutti i consiglieri laici di di centrodestra: Isabella Bertolini, Daniela Bianchini, Felice Giuffrè e Rosanna Natoli tutti espressione di Fratelli d’Italia; Enrico Aimi, di Forza Italia, e Claudia Eccher della Lega; di Michele Papa del Movimento 5 Stelle ed Ernesto Carbone, di Italia Viva-Azione; del gruppo dei membri togati (cioè magistrati) di Magistratura indipendente, di Antonio Laganà togato di Unicost che ha votato in controtendenza al suo gruppo che ha preferito votare pere Amato, e dell’indipendente Andrea Mirenda. Per il procuratore di Bologna Giuseppe Amato hanno votato gli altri 3 togati di Unicost, la prima presidente della Cassazione Margherita Cassano e l’indipendente Roberto Fontana. Gli 8 voti per Rosa Volpe sono stati quelli del gruppo “sinistrorso” di Area (ancora una volta perdente ed ininfluente nelle decisioni che contano nel Csm) , di Domenica Miele, togata di Magistratura democratica, e del consigliere laico Roberto Romboli in quota Pd. Nel dibattito che ha accompagnato la votazione finale non sono mancate le critiche dei “consiglieri” del Csm perdenti, rivolte al nuovo procuratore di Napoli e al suo modo di operare. Qualcuno si meraviglia ? Noi no. Almeno Gratteri fa il magistrato, non il “politico” sotto mentite spoglie usando la toga.

La politica ha accolto con favore la nomina di Gratteri, dalla destra alla sinistra. L’onorevole Michele Schiano, coordinatore di FdI per la provincia di Napoli, ha esternato la propria soddisfazione: “Una ottima notizia. Si tratta di un magistrato dalla carriera esemplare, caratterizzata da un incessante impegno contro la criminalità organizzata“. Anche il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi si è espresso sulla stessa linea: “La sua esperienza, il suo senso delle istituzioni e il suo impegno saranno essenziali per garantire la sicurezza della nostra città“. Redazione CdG 1947

Ermes Antonucci per “Il Foglio” – Estratto mercoledì 13 settembre 2023.

[...] sarà Nicola Gratteri il nuovo procuratore capo di Napoli, l’ufficio requirente più grande d’Italia con oltre cento sostituti. [...]  

Al plenum Gratteri dovrebbe contare sui voti dei sette togati di Mi e del blocco composto dai laici di centrodestra, ben disposti a scegliere un magistrato noto per il suo “pugno duro”, e dal renziano Carbone (d’altronde fu Renzi a proporre la nomina, poi fallita, di Gratteri come ministro della Giustizia del proprio governo nel 2014). 

[...] 

“Ampia e profonda è l’esperienza maturata da Gratteri nel contrasto ai fenomeni di criminalità organizzata, nella sua dimensione nazionale e transnazionale”, si legge nella relazione favorevole alla nomina del procuratore di Catanzaro, predisposta dalla togata Mazzola, che sarà illustrata in plenum. 

Oltre sessanta pagine di celebrazione della carriera di Gratteri, in cui non manca l’elencazione delle inchieste dal grande impatto mediatico coordinate dal pm calabrese nel corso degli anni: operazione “Primavera”, “Trovador”, “Crimine”, “Revolution”, “Stige”, “Buongustaio” (sempre alla faccia della presunzione di innocenza). 

A sorprendere, ma in fondo non più di tanto, è l’assoluta assenza di riferimenti alle tante inchieste show portate avanti da Gratteri tra Reggio Calabria e Catanzaro e finite con un buco nell’acqua: la maxi operazione contro la ’ndrangheta compiuta nel 2003 a Platì, nella Locride, con 125 misure di custodia cautelare (alla fine solo in otto vennero condannati); l’operazione “Circolo formato” del 2011, con l’arresto di quaranta persone, tra cui il sindaco di Marina di Gioiosa Ionica e diversi assessori (gli amministratori locali poi vennero assolti); 

l’operazione “Quinta Bolgia” del 2018 sulla criminalità organizzata, che portò agli arresti domiciliari anche Giuseppe Galati, cinque volte parlamentare ed ex sottosegretario nei governi Berlusconi, poi archiviato dal gip; l’inchiesta del dicembre 2018 che sconvolse la politica calabrese, con le accuse di corruzione e abuso d’ufficio contro l’allora presidente della Regione, Mario Oliverio, poi assolto da tutte le accuse. 

Visto che cane non mangia cane, il riferimento a questi flop è assente anche nelle relazioni predisposte in favore delle nomine degli “avversari” di Gratteri. Il documento stilato dal consigliere togato D’Auria in favore di Amato si spinge a muovere alcune timide critiche al profilo professionale di Gratteri, ma con effetti paradossali. 

Al procuratore di Catanzaro, per esempio, viene contestato di pretendere dai magistrati la presenza fisica in ufficio. Sentito dal Csm, infatti, Gratteri, ha dichiarato: “Se tu fino adesso sei stato abituato o hai deciso di arrivare alle 10.30 di mattina, se vado io a Napoli tu non vieni alle 10.30 di mattina, tu devi arrivare alle 8.30 del mattino e poi ti riposi la domenica. Cioè se tu vuoi fare procura devi venire la mattina e te ne esci la sera, a meno che non sei in udienza”.

Insomma, Gratteri non viene criticato per i tanti innocenti finiti ingiustamente in carcere in questi anni o per le conferenze stampa show lesive del principio di presunzione di innocenza, ma perché pretenderebbe maggiore impegno dai colleghi magistrati. Uno spettacolo insensato che solo il Csm è in grado di offrire al paese.

Nicola Gratteri: «Ho fatto arrestare anche amici d’infanzia. Mia moglie non ha chiesto il trasferimento e non mi seguirà a Napoli». Elvira Serra su Il Corriere della Sera giovedì 19 ottobre 2023
Il nuovo procuratore capo di Napoli: «La vita con la scorta? Non faccio il bagno al mare da 25 anni». Lo stipendio: «Guadagno 7.400 euro al mese, ma questo lavoro non si fa per i soldi. Il successo più grande?

Aver ridato la speranza ai calabresi»

Il 20 ottobre, a mezzogiorno, Nicola Gratteri, 65 anni, presterà giuramento al Tribunale di Napoli e si insedierà a capo della Procura più grande d’Italia, con nove aggiunti e 102 sostituti.
Quando ha visto il primo morto ammazzato?

«Facevo le medie a Locri, spesso da Gerace ci andavamo in autostop. Durante uno di quei viaggi vidi dei morti a terra. Poi li ho visti anche vicino a scuola».

Ha fatto arrestare suoi compagni di classe?

«Sì, molti studenti erano figli di capimafia. Feci arrestare anche il mio compagno di giochi in campagna, quando andavo dagli zii, perché aveva un arsenale di armi».

Qualcuno le è rimasto impresso?

«Con un amico giocavamo sempre a pallone davanti a casa mia, in uno spiazzo di terra battuta, con vetri, chiodi. Quando tornavamo a casa dovevamo stare attenti a non zoppicare sennò erano botte, perché il gioco era tempo perso, bisognava solo studiare e se avanzava tempo andare nei campi ad accudire gli animali, mucche, capre, pecore, galline, conigli, tacchini, tutto quello che c’è in una piccola fattoria».

Cosa successe?

«Lui era emigrato a Torino con la famiglia. Molti anni dopo lo ritrovai su un veliero davanti alle coste di Miami con un carico di 800 chili di cocaina. In carcere mi impressionò la faccia, era bianco come la carta: le prigioni americane non sono come le italiane. “Mi sono rovinato la vita”, disse. Risposi che poteva ripartire da zero, bastava che collaborasse. Non collaborò».

Nicola Gratteri, a sinistra, nel 1995, quando era procuratore aggiunto a Reggio Calabria
Fece arrestare anche il presidente della Corte d’Assise di Catanzaro, Marco Petrini.

«No, non sono stato io. Quando l’indagato è un magistrato della stessa Corte di Appello, la Procura manda gli atti alla Procura presso la Corte di Appello più vicina. In quel caso era Salerno. A seguito delle nostre intercettazioni, furono loro a completare le indagini e a emettere l’ordinanza di custodia cautelare».

Le dispiacque?

«Il dispiacere c’è per tutti. Ma noi siamo pagati per applicare la legge».

Com’erano i suoi genitori?

«Semianalfabeti. Mia madre aveva conseguito la terza elementare, mio padre la quinta. Lei casalinga, lui camionista: aveva un piccolo Tigrotto con mio zio Nicola e mio nonno. Non ci sono più da una decina d’anni. Ho fatto in tempo a farli preoccupare per me, ma erano orgogliosi. Di tutti e 5 i figli: una ha insegnato all’università all’estero, un altro è professore ordinario di medicina legale, poi ci sono io, uno è odontotecnico, la piccola è insegnante».

Cosa vuol dire vivere sotto scorta? Ormai sono quasi 35 anni, dall’aprile del 1989.

«È pesante. Ci sono giorni in cui si soffre di più, viene la sindrome da soffocamento a non poter fare una passeggiata da soli, non poter andare in bicicletta, non uscire in moto. Penso di non fare un bagno al mare da 25 anni».

Quante persone la proteggono?

«Otto-dieci fisse: di più non è possibile. A questi si aggiungono quelli che quando mi sposto fanno i controlli, le bonifiche, portano i cani per sentire l’esplosivo. È abbastanza asfissiante. Mi costa tantissimo sul piano psicologico, bisogna avere nervi d’acciaio».

È mai andato dallo psicanalista?

«Ci vado ogni domenica: il mio psicanalista è l’orto, lavorare la terra, piantare zucchine e cetrioli, in questo periodo cavoli, broccoli, bietole, raccogliere le olive. Domenica scorsa sono stato 12 ore sul trattore per trinciare l’erba».

E sempre qualcuno a guardarla.

«Uno? Tutti! Sono circondato».

Che rapporto ha con la scorta?

«Sono come fratelli, figli. L’addestramento in Sardegna, ad Abbasanta, è durissimo: gli istruttori consigliano di non fare il servizio per più di quattro anni perché è molto logorante. Io ho ragazzi che stanno con me da 14 anni».

Dove trova la forza di fare questa vita?

«Nella convinzione che quello che faccio serve, è utile alla collettività. La libertà non è andare in bici o farsi un bagno al mare. La libertà è stare anche per un anno sotto una pietra, fermo, immobile, ma poi poter dire quello che si pensa e guardare tutti negli occhi».

Quand’è l’ultima volta che ha pianto?

«Io non piango, cerco di controllare le emozioni, mi fermo un attimo prima. Devo essere sempre lucido, non posso permettermi il lusso di lasciarmi andare. Anche per la responsabilità verso chi lavora con me. Il mio telefono è acceso 24 ore su 24».

Paura per sua moglie e i suoi figli?

«Certo, paura per tutti. Pure loro hanno la scorta. Hanno cercato di sequestrare uno dei miei figli, avevano programmato di simulare un incidente stradale per ammazzare l’altro».

Sono arrabbiati con lei? Non le hanno mai chiesto: perché non hai scelto un altro lavoro?

«All’inizio sì, ora cominciano a metabolizzare e capire che ho fatto cose importanti. Assieme ai miei colleghi abbiamo reso la Calabria, la nostra terra, più libera. Soprattutto abbiamo messo nella testa della gente il tarlo che si può cambiare. Infatti le denunce sono aumentate».

È andato alla loro laurea?

«Di uno sì, dell’altro no, non era possibile in quel momento. Per anni con mia moglie, quando i miei figli facevano le recite a scuola, noi le facevamo a casa. Lei mi raccontava per filo e per segno come erano vestiti, cosa avevano fatto, e quando tornavo e protestavano, “non sei venuto!”, io replicavo “ma sì che c’ero, ero in fondo e non mi hai visto!”».

Fanno i magistrati?

«No, sono tutti e due medici. Stanno facendo la specializzazione: uno in dermatologia e uno in chirurgia plastica ricostruttiva».

Di cosa è più orgoglioso?

«Sul piano morale, di aver ridato la speranza ai calabresi. Sul piano pratico, di aver costruito fisicamente la nuova Procura, la più bella d’Italia, in un convento del Quattrocento che stava cadendo a pezzi. Avevo iniziato a pensarlo il 16 maggio 2016, il giorno in cui mi sono insediato a Catanzaro. Sono andato a Roma a fare la questua e ho trovato i sette milioni e mezzo che servivano. È stata la prova che la Calabria non è la regione delle incompiute. E poi abbiamo costruito l’aula bunker più grande al mondo».

Domani comincia a Napoli. C’è chi già scommette su quanto durerà.

«Ma io ho un carattere molto forte. Per anni ho mangiato pane e veleno. Sono allenato al sacrificio, a qualsiasi tipo di stress».

Sua moglie non la seguirà: non aveva chiesto il trasferimento perché non credeva che avrebbe ottenuto l’incarico.

«È vero: a settembre non ha fatto la domanda di trasferimento perché, ha detto, “siccome ti bocciano sempre è meglio che rimango dove sto”. Insegna matematica a Locri».

Le è dispiaciuto di più non diventare ministro della Giustizia nel 2014 o procuratore nazionale antimafia nel 2022?

«Non sono attaccato alle poltrone. Per me è importante servire lo Stato. Non è retorica, ma mentre cammino nei corridoi della Procura se trovo luci accese in una stanza e non c’è nessuno io le spengo: e chi le ha lasciate accese sa che sono passato. Certo, bisognerebbe capire chi ha detto a Napolitano che non potevo fare il ministro: Renzi mi aveva dato carta bianca».

Se deve fare un regalo a sua moglie fa «bonificare» il negozio?

«Io non entro mai in un negozio. Anche per un caffè, entra prima uno dei miei, paga, e poi arriviamo noi e consumiamo. Altrimenti c’è sempre qualcuno che te lo vuole offrire».

Non ne ha mai accettato uno?

«Una volta con mia moglie, eravamo fidanzati, entrai al bar con la scorta e c’era il capomafia del paese con la sua scorta che voleva assolutamente offrirmi il caffè. E io: ma no lasci stare, che poi trovo delle cose su di voi e vi faccio arrestare. Lui insistette. Cinque mesi dopo nel carcere di Palmi il caffè gliel’ho offerto io».
È vero che ha rifiutato i biglietti per lo stadio che le aveva fatto recapitare De Laurentiis?

«Ho detto ai miei di ringraziare, ma non sono mai entrato in uno stadio, quindi ho chiesto di restituirli».
Avrebbe potuto regalarli.

«Chi deve andare alla partita paga il biglietto. Un magistrato guadagna bene».

Lei quanto guadagna?

«Io guadagno 7.400 euro».

E vale la pena fare questa vita per quei soldi?

«Quando ho iniziato guadagnavo un milione 350 mila lire al mese. Questo lavoro non si fa per i soldi. Se uno pensa di fare il magistrato e invidia chi ha la Ferrari doveva fare il concorso per notaio. Siamo privilegiati: guadagniamo tre volte lo stipendio di un impiegato».

Torniamo a Napoli. Quali sono le priorità?

«Intanto devo entrare in Procura e lo farò domani. Per prima cosa devo ascoltare tutti. Io faccio 4-5-10 riunioni in un giorno. Arrivo alle otto, esco alle 20, mangio sulla scrivania, non mi alzo finché non ho preso una decisione, mettendo a disposizione la mia esperienza».

Come ha preso la lettera della Camera Penale che le ha fatto «gli auguri più sinceri», ma avrebbe «preferito un profilo diverso, meno operativo militare»?

«Mi dispiace per loro che non hanno studiato le mie cose, la mia vita, non si sono informati da persone oneste su chi sono. Anche una corrente di magistrati ha sollevato obiezioni. Ma se a Catanzaro, dove sono da 7 anni, nessuno ha fatto domanda di trasferimento un motivo ci sarà. Eppure ci sono giovani da Lombardia, Emilia-Romagna, Umbria, Marche».

I detrattori dicono che tutta la Calabria ha 2 milioni di abitanti e Napoli da sola 3 milioni.

«E quindi?».
Sarà in grado di gestire numeri così diversi?

«I miei predecessori venivano tutti da Procure più piccole di quella di Catanzaro».

L’hanno già chiamata il sindaco Gaetano Manfredi e il governatore Vincenzo De Luca?

«No, e perché? Loro fanno il loro lavoro, io faccio il mio. Capiterà di incontrarci».
Nicola Gratteri martedì con gli studenti universitari al festival Uman di Trento (foto Edoardo Meneghini)
A Napoli un’emergenza è la criminalità giovanile. Immagino provi amarezza, visto il suo investimento sui giovani. Non a caso ci stiamo vedendo a Trento, dove era in programma un incontro con gli studenti universitari.
«Se hanno meno di 18 anni è competente la Procura dei minorenni. Con la quale vorrò confrontarmi, così come mi confronterò con le altre procure circondariali, per vedere se si possono applicare protocolli e buone prassi».
La preoccupano i rioni bunker?

«Non esiste un posto dove non si può entrare. Nei bunker sotterranei lunghi chilometri abbiamo catturato dieci latitanti, grazie alle tecnologie e a fantastici uomini ragno».

Scrive tutti i libri con Antonio Nicaso: il prossimo, «Il Grifone», uscirà il 7 novembre per Mondadori e sarà il numero 23.

«Ho conosciuto Nicaso quando stavo preparando il concorso in magistratura e davo ripetizioni agli studenti a Caulonia. Abbiamo gli stessi valori. È emigrato in Canada perché in Calabria non riusciva a diventare giornalista, c’era sempre qualcuno più bravo di lui. Fratelli di sangue ce lo volle pubblicare solo Pellegrini Editore, tutti i grandi lo avevano rifiutato. Vendemmo 50 mila copie. Dopo ci volevano tutti».

Oggi è più potente la mafia, la ’ndrangheta o la camorra?

«La ’ndrangheta: è la più ricca e riesce a importare l’80 per cento della cocaina che arriva in Europa. Cosa Nostra da almeno 25 anni compra la cocaina dalla ’ndrangheta».

Cosa pensa di film e fiction a tema?

«Posso dire che Il Padrino è un capolavoro di musiche e immagini, ma quella famiglia non è mai esistita. E invece nell’immaginario collettivo siamo cresciuti con l’idea delle mafie che hanno un’etica e dei valori. Chi si sente uomo di cultura, deve porsi la domanda: ma l’effetto di questi film qual è? Se davanti alle scuole vediamo i ragazzini muoversi come i killer del film che hanno visto la sera prima, abbiamo creato danni e nessuna coscienza».

Indagherebbe di nuovo Lorenzo Cesa, la cui posizione nell’inchiesta poi fu stralciata?
«C’erano delle intercettazioni, poi dalle indagini abbiamo appurato che non c’erano stati contatti. Io non ho la sfera di cristallo».

Non si è pentito nemmeno della prefazione al libro negazionista di Bacco e Giorgianni?

«Sì, ha ragione, quello è stato un mio errore. Sono stato superficiale a fidarmi a fare la prefazione su un abstract. Ho chiesto scusa».

Avesse una bacchetta magica e potesse svegliarsi senza scorta, cosa farebbe?
«Mi comprerei una motocicletta. Quando ero ragazzo amavo tutti i motori».

Gratteri a Napoli, le chat dei pm s’infiammano: «Meritiamo rispetto».  

Nicola Gratteri, capo della procura di Catanzaro

Le parole che trapelano da una delle tante chat di gruppo tra toghe sono di fuoco. «Io ho il massimo rispetto per i colleghi degli altri Uffici - afferma un magistrato partenopeo -, ma pretendo rispetto per chi lavora a Napoli, sia che lavori in Direzione distrettuale antimafia o alla procura ordinaria». Simona Musco su Il Dubbio il 13 settembre 2023

«Sto leggendo e rileggendo il testo dell'audizione di Nicola Gratteri e sono francamente sorpreso ed arrabbiato…». Le dichiarazioni del procuratore di Catanzaro davanti alla V Commissione circolano nelle chat, passano di mano in mano, suscitano riflessioni. Tra i pm di Napoli, soprattutto, ma anche tra i colleghi di altre procure, specie se dal capoluogo campano ci sono passati e ci hanno lasciato un pezzo di cuore.

«L’audizione di Gratteri ha fatto aumentare molto le perplessità tra molti dentro il consiglio e soprattutto fuori, a cominciare da Napoli», dice un consigliere del Csm poco prima della nomina. E il fastidio per quello che molti hanno definito paternalismo è palpabile anche in aula, durante un plenum che ha rappresentato il punto di non ritorno nella discussione sul ruolo del procuratore. Non c’è magistrato che non ripeta che la colpa è della riforma del 2006, che ha trasformato il capo dell’ufficio in un vero e proprio sovrano. Quindi c’è poco da stupirsi: l’unica differenza tra Gratteri e gli altri è l’onestà di ammetterlo.

Le parole che trapelano da una delle tante chat di gruppo nelle quali le toghe si scambiano opinioni sono di fuoco. «Io ho il massimo rispetto per i colleghi degli altri Uffici - afferma una toga partenopea -, ma pretendo rispetto per chi lavora a Napoli, sia che lavori in Dda o alla procura ordinaria». A parlare è gente d’esperienza, gente che la toga la indossa da un pezzo e che ha superato i limiti previsti per la permanenza in antimafia. Gente che ha dovuto fare una scelta: lasciare Napoli e continuare a lavorare in Dda o rimanere, ma occupandosi di reati ordinari. Una scelta che anche Gratteri ha dovuto fare: non volendo tornare a fare il muratore, ha preferito rimanere architetto, per citare una sua metafora.

Ma c’è chi ha optato per la scelta opposta e che ora non ci sta a sentirsi definire «depresso». E che si tratti di una semplificazione, di uno stile linguistico, poco importa. «I magistrati meritano rispetto anche se hanno fatto esperienza lontano dalla Calabria», continua una toga, che considera specifico il discorso di Gratteri: se si parla di uffici con almeno 90 magistrati, di quale potrebbe parlare se non di Napoli o Roma? «Pretendiamo rispetto da chi si accinge a dirigere un ufficio così grande», continuano i colleghi del nuovo procuratore.

Sono messaggi che raccontano - in parte - il clima dell’attesa, l’accoglienza che al magistrato calabrese potrebbe essere destinata al suo arrivo a Napoli. Dove le toghe sperano di mantenere la «democrazia interna», per garantire «l'autonomia diffusa del pm, diversa dalla posizione della polizia giudiziaria, i cui vertici possono, loro sì, spostare con facilità marescialli e colonnelli». Cosa che anche Gratteri, di fatto, ha dichiarato di poter fare, ma coi magistrati, come dimostra il caso del pm invitato a chiedere il trasferimento per evitare un parere negativo. Magistrato che si trova nel distretto che ora il procuratore si troverà a guidare e col quale, dunque, avrà di nuovo a che fare. E c’è chi si chiede se il Csm abbia mai verificato cosa ci sia scritto, in effetti, nel parere che lo ha portato a diventare capo di un ufficio, ma lontano da Catanzaro. Metodi «non accettabili - continua la toga -. Se un sostituto lavora male, lo si invita a far meglio ed altrimenti lo si scrive nel parere».

Il timore, ora, è che la procura si trasformi in una sorta di caserma. I pm sono chiari: i controlli sul lavoro dei magistrati vanno fatti, ma senza il «populismo degli orari». Ciò che conta è la qualità del lavoro, anche perché c’è chi è costretto a lavorare da casa, magari per carichi familiari pesanti. I giudizi sono i più disparati: chi parla di «ipertrofia dell’io», chi di paternalismo, chi di assolutismo. Un quadro che vede il procuratore come un «re comprensivo finché non ci sia qualcosa che lo infastidisce». Insomma, un potere «non controllato da nessuno» e con «un inquietante complesso di superiorità». La vera rivoluzione è «la sobrietà», dice qualcuno. Ma c’è chi preferisce andare oltre gli slogan e guardare fatti concreti, invitando i detrattori a considerare, comunque, i «risultati eccezionali» raggiunti da Gratteri e lo stravolgimento di «soporifere, quando non grigie, consuetudini e deleteri equilibri» prima vigenti a Catanzaro. Un uomo «animato da generosi intenti nel suo essere brutale, che sa creare un positivo clima di gioco di squadra che moltiplica le forze in campo. Mi piacerebbe solo che nel ribadire il modello di dirigente che ci piace - conclude una toga -, si premettesse forte e chiaro che comunque non si mette sullo stesso piano il valore di chi lavora con impegno e determinazione per gli altri con chi invece lavora per soprattutto per se stesso e la sua benedetta carriera».

Gratteri, amato all’estero, temuto in patria. Storia del magistrato ‘contro’ che vive sotto scorta da 34 anni.  Giuliano Foschini su La repubblica il 14 Settembre 2023  

Ha sempre lamentato l’ostracismo delle “correnti” che non gli avevano mai permesso di “uscire” dalla sua Calabria 

Di Nicola Gratteri, il nuovo procuratore di Napoli, il magistrato italiano più famoso al mondo, si sono dette e raccontate molte cose (in ordine sparso): “Il primo uomo nella lista nera della mafia”; “L’uomo che ha sequestrato più cocaina al mondo”, “Se fosse un film, sarebbe già tutto scritto: ogni cosa nella sua vita è già accaduta”; ma anche “L’avversario del garantismo”, “il magistrato dei processi persi”.

All’estero è indicato come un mito, sull’onda emotiva della storia tragica di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, lui minacciato di morte sin dal 1989 quando dissero alla sua fidanzata: «Non sposare un uomo morto». E, con frequenza regolare, intimidito dai clan calabresi: per questo ha il sistema di scorta più imponente del Paese, ma ciò nonostante non sta fermo un attimo, gira per conferenze, piazze, soprattutto scuole e quando gli chiedono se ha paura, lui risponde che «S, parlo spesso con la morte, ma questo è il mio mestiere». Piace da impazzire agli americani perché sembra un personaggio dei loro film, è temutissimo in Sud America dove dà la caccia ai latitanti e ai corrotti.

Amato e odiato

In Italia, invece, come spesso accade è amato e odiato: è un riferimento per moltissimi come dimostrano i successi dei suoi libri, sempre bestseller, o le visualizzazioni suo social (ha numeri da influencer: il racconto della cattura di Roberto Panunzi, uno dei più importanti broker di coca al mondo, su Tik Tok è un caso da milioni di visualizzazioni). Ma la politica, e anche un pezzo della magistratura, non ha mai nascosto i mal di pancia: non piaceva per nulla alla “sinistra calabrese”, è stato al centro di attacchi violentissimi di Forza Italia, nove anni fa Matteo Renzi lo scelse come ministro della Giustizia ma l’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, disse “no”, perché Gratteri era un magistrato in servizio, e sarebbe stato un precedente pericoloso, una motivazione che però è sempre sembrata una giustificazione. Chi non gli vuole bene dice: «I suoi processi sono sempre un flop», raccontando in realtà una non verità, perché è vero spesso nelle maxi indagini (Gratteri lavora con fascicoli maxi, con centinaia di indagati) alcuni ne escono assolti ma è altrettanto vero che le inchieste dei suoi pool sono state tra quelle (come quelle dei gruppi che hanno lavorato con Pignatone, Prestipino, Lombardo, Musolino solo per citare alcuni dei grandi pm antimafia) che hanno avuto il merito di raccontare la ‘ndrangheta al mondo e di metterla in ginocchio.

Ostentatamente “contro”

Molti colleghi non hanno sempre apprezzato questo suo voler esserci sempre (cosa che alcune volte gli ha provocato degli scivoloni: una prefazione, per esempio, a un libro no vax per cui ha chiesto scusa) e ostentatamente “contro”. Lui ha sempre lamentato, viceversa, l’ostracismo delle “correnti” che non gli avevano mai permesso, a suo dire, di “uscire” dalla sua Calabria. Ora, invece, questo è accaduto: Gratteri aveva tentato senza fortuna di diventare procuratore a Milano, ha pensato di guidare la Direzione nazionale antimafia, ma sarà ora a Napoli, l’ufficio più grande d’Italia. Ed ecco perché non è più importante capire cosa è stato Nicola Gratteri. Ma cosa sarà da questo momento in poi, da quando cioè la politica (il centrodestra ha votato compatto per lui, anche i “garantisti” di Forza Italia) ha fatto da ago della bilancia al Consiglio superiore per mandarlo in Campania in un momento particolarmente delicato: Gratteri è sempre stato lontanissimo dai partiti («ha arrestato tutti», sorrider un pm che per anni ha lavorato con lui). Ma non è un mistero che alcune delle sue idee piacciano a una certa destra. Le carceri sono sovraffollate? «Costruiamone delle nuove». Liberalizziamo la droga leggera? «Non se ne parla nemmeno».

Il Governo su Caivano, il nuovo campo di gioco del procuratore, si gioca buona parte della reputazione e sulla lotta alla mafia la premier Giorgia Meloni, e il suo sottosegretario, Alfredo Mantovano, che tanto stima il magistrato calabrese, ha sempre promesso nessun passo indietro. Forse, per questo, ieri erano felici della nomina di Gratteri. Quello dei cento passi, in avanti.

Gratteri, il pm anti ’ndrangheta che divide politici e colleghi. «Al lavoro senza orologio». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera mercoledì 13 settembre 2023. 

Estraneo alle correnti e conosciuto anche all'estero. «La cosa importante è il coinvolgimento di tutti»

«Mi criticano perché vado troppo in televisione o vado troppo a fare convegni e conferenze e io rispondo: “Voi avete la barca e io non ce l’ho, voi andate in barca ad agosto e io vado a parlare nelle scuole o a presentare libri”. Ognuno col suo tempo libero fa quello che vuole». Quando lavora, invece, «dal lunedì al sabato io sono allenato a fare cinque-sei-dieci riunioni in un giorno, entro la mattina alle 8,15 ed esco la sera, mangio pure in ufficio e mentre mangio c’è quello che viene a parlarmi e io gli dico “Dì tu che poi ti rispondo”, per abbattere i tempi. La Procura è questa, non puoi lavorare con l’orologio, io non ce l’ho».

Parlava così Nicola Gratteri, nel maggio scorso, al Csm che doveva scegliere il procuratore di Napoli, e ieri l’ha nominato a grande maggioranza: il fronte laico-togato di centro-destra compatto (Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia insieme a Magistratura indipendente) più qualche voto sparso. In quelle frasi c’è l’autoritratto del pubblico ministero anticrimine (e non solo antimafia) più noto d’Italia; per via delle indagini svolte sulla ’ndrangheta in oltre trent’anni di lavoro, ma anche per i libri pubblicati a una media di uno all’anno, le interviste e le apparizioni in tv.

Un magistrato conosciuto in tutto il mondo non solo per le inchieste che lo hanno portato in ogni continente, per i blitz da decine o centinaia di arresti, per i maxi-sequestri di droga, ma anche per la sua attività di conferenziere. Oltre trent’anni di lavoro serrato in Calabria — prima a Locri e Reggio Calabria dove divenne procuratore aggiunto, e dal 2016 come procuratore di Catanzaro — che gli hanno garantito popolarità e stima, e ora gli consentono di entrare nel club delle «grandi Procure», quelle che contano. E che però gli sono pure valsi attacchi dall’interno e dall’esterno della magistratura. Ai quali lui ha sempre risposto a tono. 

«Ci sono diffamatori di professione, ma ci sono anche migliaia di persone a cui abbiamo dato speranza, e ora la gente denuncia. Io ho due o tre giornali che mi diffamano quotidianamente — ha detto ancora al Csm —, ma c’è una certificazione del 2022 dove si attesta che non c’è nessuna ingiusta detenzione, dal 2016, attribuibile alla Procura di Catanzaro. Ovviamente non posso rispondere ad avvocati, indagati o imputati agli arresti domiciliari che chiamano in Parlamento e dettano interrogazioni parlamentari».

Parole che hanno suscitato la protesta di alcuni deputati (di Italia viva, +Europa e Forza Italia), rimasta senza effetti nell’aula del Csm. In cui ha prevalso, traslato dalla maggioranza di governo, il significato legalitario e per certo securitario della nomina. In relazione al contrasto alla criminalità nelle sue varie forme (tornata d’attualità in questi giorni a Caivano), e per le idee più volte espresse dal neo-procuratore sulle carceri o altre questioni, o per i giudizi poco teneri sulle correnti della magistratura, alle quali è sempre stato estraneo. «Simbolo» della lotta al crimine e «vera essenza di servitore dello Stato che ha sacrificato la propria libertà personale», l’hanno definito i sostenitori laici e togati. Sottolineandone le «attitudini» non solo alle indagini antimafia ma pure in quelle sulla pubblica amministrazione; e a Napoli e in Campania dove da anni governano Giunte appoggiate dalla sinistra, al centrodestra non può certo dispiacere un procuratore abituato a guardare in tutti i cassetti.

La sinistra giudiziaria, raccogliendo qualche preoccupazione proveniente proprio dalla Procura (e dall’avvocatura, in verità), ha paventato il rischio di affidare l’ufficio inquirente più grande d’Europa (9 aggiunti e 102 sostituti) a un «capo-padrone» uso ad allontanare investigatori e collaboratori non graditi. Sebbene lui stesso abbia spiegato al Csm di sapere e volere fare il gioco di squadra: «La cosa importante è il coinvolgimento di tutti, se dobbiamo lavorare un punto di incontro sull’indagine lo troviamo, l’importante è che tutti devono lavorare. L’unica cosa che non consento è che nell’ufficio ci sia un venti per cento di magistrati che non lavora, che qualcuno arrivi in ufficio alle 10 di mattina, o che arrivi martedì mattina e se ne vada giovedì pomeriggio. Questo non lo consento a nessuno».

Sembra di sentire la premier Giorgia Meloni quando ha detto ai suoi parlamentari: «So chi di voi lavora e chi no, chi sostituisce i colleghi in commissione e chi sta sempre con il trolley in mano, quando voi avete fatto una cosa io ne ho già fatte due». Invece è il nuovo procuratore di Napoli.

Notizia “rivenduta” 4 anni dopo: l’astuto comunicatore Gratteri. Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro

A poche ore dalla sua quasi certa nomina a procuratore di Napoli, il pm ha presentato l’ultimo maxiblitz in Calabria con l’orribile caso di Maria Chindamo, del quale però erano già emersi tutti i macabri dettagli. Tiziana Maiolo su Il Dubbio l'11 settembre 2023

Quel che ha colpito di più, nella conferenza stampa del dottor Nicola Gratteri in seguito al blitz del 7 settembre, quello che potrebbe essere il suo ultimo da procuratore di Catanzaro, sono state le sue parole di vanto per aver risolto il caso di un orribile delitto di sette anni fa. Maria Chindamo, imprenditrice agricola di Laureana di Borrello, era scomparsa il 6 maggio 2016 nelle campagne di Limbadi, in provincia di Vibo Valentia.

Il procuratore Gratteri, proprio alla vigilia della sua possibile “promozione” a capo del prestigioso ufficio di Napoli (la riunione del Csm che dovrebbe decretarla è in programma per domani), racconta con tono sicuro come lui e i suoi uomini hanno risolto il caso. “La donna è stata punita per la recente relazione sentimentale dalla stessa instaurata, venuta alla luce con la prima uscita pubblica della coppia appena due giorni prima dell’omicidio, oltre che per l’interesse all’accaparramento del terreno su cui insiste l’azienda agricola divenuta nel frattempo di proprietà esclusiva della Chindamo e dei figli minori”. Seguono particolari “raccapriccianti” (secondo il racconto dei cronisti e del nostro Antonio Alizzi) sul corpo della vittima dato in pasto ai maiali dopo che le ossa erano state triturate con la fresa di un trattore.

Questa notizia e il suo tragico caso “risolto” ha avuto la meglio in generale nei titoli dei giornali, sul fatto che anche questa volta, insieme a presunti boss e picciotti, la retata ha coinvolto la solita altrettanto presunta “area grigia” di politici e avvocati. Perché in questa occasione il procuratore di Catanzaro ha voluto sottolineare – proprio nei giorni in cui più tragico è l’allarme per i femminicidi con cui uomini più capaci di odio che di amore puniscono le donne dopo l’abbandono – la tragedia di una donna la cui emancipazione, dopo il suicidio del marito, non veniva perdonata.

Caspita, che storia. E che bravi gli investigatori ad averla risolta, se pure sette anni dopo i fatti. Un dubbio però viene alla mente – oltre a quello “secondario”, per cui non ci sono stati ancora processi né condanne, visto che siamo sempre alla fase delle indagini preliminari: ma questa storia, presentata con così tanta enfasi, non l’abbiamo già sentita? E il nome del “pentito” da cui ha origine, Emanuele Mancuso, non ci era forse già noto? E l’uomo arrestato come sospetto omicida, Salvatore Ascone, detto “u pinnularo”, non l’abbiamo già visto in manette?

Un po’ di memoria degli amici calabresi dell’associazione “RiformaGiustizia” e un po’ di archivio, e voilà. Anche noi qui a risolvere un altro tipo di “caso”. Ecco il Corriere della Sera dell’11 luglio del 2019 e la firma del giornalista Carlo Macrì, che giustamente ne fa menzione nella sua cronaca del 7 settembre scorso. Titolo: “Maria Chindamo? Uccisa, triturata e data in pasto ai maiali”. Sommario: “Le ammissioni di un pentito sulla fine dell’imprenditrice agricola scomparsa nel maggio 2016 a Vibo Valentia davanti alla sua azienda. Punita per non aver voluto cedere i suoi terreni”. Si racconta tutta la storia del suicidio del marito, del fatto che l’imprenditrice avesse un nuovo compagno, ma si sottolinea soprattutto l’avidità del presunto assassino nei confronti delle terre che Maria Chindamo non voleva cedere.

L’emancipazione della donna e l’omicidio come punizione “morale” saranno sottolineati solo quattro anni dopo nella conferenza stampa del procuratore Gratteri. Non ci sono risparmiati però, nello stesso identico modo, i particolari “raccapriccianti” su ossa triturate e il corpo della donna dato in pasto ai maiali. Ecco, questa non è la storia di un caso risolto, ma di manipolazione dell’opinione pubblica. Uno dei tanti.

Caro Gratteri, ora chiederà scusa a quegli innocenti ingiustamente accusati? Lettera aperta al procuratore di Catanzaro, che nell’intervista rilasciata alle “Iene” ammette di non essere infallibile e di poter commettere errori “come il medico e l’ingegnere”. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 18 aprile 2023

Signor Procuratore,

Ho letto la sua intervista alle Iene della scorsa settimana e rispetto alle cose che Ella solitamente dice, (e sempre e rigorosamente senza alcuna possibilità di confronto), mi è sembrato di scorgere una flebile luce in fondo al tunnel. Infatti ad certo punto dell’intervista a Luigi Pelazza, Lei ammette «...non mi sento di dire che tutto quello che ho fatto è giusto... Sbaglia il chirurgo, sbaglia l’ingegnere e può sbagliare anche il magistrato». Ovviamente subito dopo, tende ad autoassolversi - «importante è aver lavorato sempre in buona fede» - ma già ipotizzare che possa aver sbagliato è un notevole passo avanti. Lo dico senza alcun sarcasmo, ma in qualche momento ho pensato che Lei si credesse infallibile.

Comunque sia c’è da dire che il medico o l’ingegnere che sbagliano, solitamente devono dimostrare quantomeno la propria buona fede in un processo. E non sempre la buona fede basta. Lei no! Eppure di errori ne ha fatti tanti.

Mi ero messo a contare le vittime dei suoi errori e ne ho contato parecchie centinaia, forse un migliaio. Parlo di errori certificati da suoi colleghi magistrati con le loro sentenze. E per alcuni di questi, neanche con tutta l’indulgenza del mondo, è possibile dare per scontata la buona fede. Lei lo sa meglio di me: molte vittime dei “suoi” (?) errori hanno avuto la vita sconvolta e tante sue “retate” hanno avuto ricadute rovinose su bambini innocenti e su anziani genitori che hanno visto il loro piccolo mondo crollare a pezzi sotto la clava della “giustizia”.

Anche volendo Lei non potrebbe sanare le ferite inferte a così tanti innocenti, ma una cosa la potrebbe ancora fare e non sarebbe poco. Lei potrebbe chiedere scusa alle vittime delle sue superficiali inchieste e chiedere perdono ai loro familiari che hanno pagato prezzi altissimi. Non sarebbe un atto di debolezza da parte sua ma di umanità.

C’è qualcuno, ed io tra questi, che da molto tempo sta cercando disperatamente di difendere la Costituzione dall’assalto condotto contro di Essa in nome d’una falsa antimafia e d’una molto presunta legalità. Forse Le chiedo l’impossibile domandandole di ristabilire un minimo di verità in una terra oppressa, oltre che dalla ‘ndrangheta, dall’impostura e dalla menzogna sistematica. Lo abbiamo fatto a nostro rischio e pericolo e senza mai ricorrere ad insulti ed offese personali.

Ora potrebbe essere il suo turno. A Lei non è chiesto di umiliarsi come altri sono stati umiliati ma solo di chiedere scusa alle tante vittime dei suoi gravi errori giudiziari... e sarebbe questo un atto di vero coraggio e di grande forza.

Lo faccia Signor Procuratore, non ignori questo appello firmato materialmente da me ma idealmente siglato con la sofferenza di centinaia di innocenti.

Il procuratore contro la riforma. Gratteri e l’ossessione per la Cartabia: “Un regalo ai boss mafiosi”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 25 Gennaio 2023

Il procuratore di Catanzaro la spara subito grossa: la riforma di Nordio sulle intercettazioni è “un regalo alla mafia”. Sono ossessionati, qualunque progetto di cambiamento sulla giustizia è come il bacio sull’anello di un mammasantissima. Poteva mancare Nicola Gratteri nella galleria dei magistrati contro? Non è mancato. Anche lui, come tutti i suoi colleghi più famosi, quelli in attività, quelli in quiescenza e quelli transitati in Parlamento, pare avere un orizzonte prioritario, quello di combattere i “colletti bianchi”. Travestito da lotta alla mafia.

Il ragionamento rasenta l’assurdo: poiché gli uomini della criminalità organizzata non sparano più, ma si sono trasformati in comitati d’affari, hanno bisogno di professionisti, di gente istruita. Non solo della famosa “borghesia mafiosa”, ma degli uomini inseriti nel mondo della finanza come nella pubblica amministrazione. Ecco perché, paradossalmente, sembrerebbe più importante intercettare un consigliere comunale che un capo mafia. Ed è anche come dire che la mafia non c’è più. Sarebbe infatti interessante verificare oggi, alla luce di questa nuova realtà, come viene applicato, in Sicilia come in Calabria, l’articolo 416 bis del codice penale, quello che definisce l’associazione mafiosa, quello che vincola il reato alla forza di intimidazione e al controllo del territorio. Che ha evidentemente poco a che fare con gli ambienti finanziari e i comitati d’affari.

Ma sulla base di questo tipo di ragionamenti, e il fatto non è casuale, non si può toccare nulla dal codice penale. Dobbiamo stare fermi a quello di Mussolini? È ormai evidente che l’articolo 268, quello sulle intercettazioni che impone al pubblico ministero di vigilare perché non si usino captazioni e spiate per lo sputtanamento dei nemici politici, pur modificato dalla buona volontà del ministro Orlando nel 2017 e ritoccato da Bonafede nel 2020, serve a poco. Occorre quindi intervenire prima di tutto sui reati, circoscrivere i più gravi e per tutti gli altri usare diversi mezzi di ricerca della prova, meno invasivi della sfera personale. Ma cascano le braccia, ad ascoltare il procuratore Gratteri elencare un numero di reati infinito, per la ricerca dei quali le intercettazioni sarebbero indispensabili. Perché non pare sufficiente garantire che si spierà all’infinito quando ci si trovi davanti al sospetto di gravi fatti di mafia e terrorismo. Occorre aggiungere -e il ministro ha già concesso qualcosa sul punto- i reati connessi o ancillari, o satelliti.

Si dice “corruzione”, prima di tutto. E ci viene in mente subito quella filosofia moralistica grillina che ha ispirato la famosa legge “spazzacorrotti” del ministro Bonafede, per fortuna ormai lontano ricordo, dopo gli interventi della Corte Costituzionale e del nuovo Parlamento. Quella norma metteva sullo stesso piano le responsabilità di un boss come Matteo Messina Denaro o di un terrorista islamico con quelle di un esponente della pubblica amministrazione. Il solo dire “mafia terrorismo e corruzione” tutti insieme, è un errore in termini. Sul piano logico e politico, ma soprattutto su quello giuridico. Come si fa a tenere insieme reati associativi con l’ipotesi che prevede un comportamento individuale? E mescolare i delitti contro la persona con quelli verso il patrimonio? E poi, dalla narrazione di questi magistrati, e buon ultimo per ora Nicola Gratteri, sembra sempre che il mafioso lo si scopra attraverso indagini su corruzione, abuso d’ufficio, peculato e via dicendo. Se non ci sono più le aggressioni, gli incendi e le estorsioni, allora vuol proprio dire che non c’è più la mafia.

Il procuratore di Catanzaro, nelle svariate interviste cui si è concesso nella giornata di ieri, non è parco di esempi. Intercettate, intercettate, pare dire. Cita l’emissione di fatture inesistenti, e dà per scontato che, spiando la persona sospettata di aver commesso quel reato si trovi sicuramente un mafioso. E poi immagina quel mondo, purtroppo diffuso, in cui si concedono finte consulenze, il travestimento perfetto per le tangenti da dare a pubblici ufficiali. Questi reati, secondo l’alto magistrato, non sarebbero individuabili senza le captazioni. Ma sono tutti mafia? Oppure, sono reati comunque gravi come quelli di criminalità organizzata e terrorismo? L’elenco è lunghissimo, perché comprende l’intero codice penale nella parte in cui punisce i reati contro il patrimonio. Si va dai reati fiscali alla bancarotta. E via elencando. E allora lo si dica con chiarezza, senza nascondersi dietro l’alibi della lotta alla mafia. Si dica che lo strumento delle intercettazioni ormai ha sostituito qualsiasi altro tipo di indagine, a parte il ricorso ai “pentiti”. Ma non lo si può dire, perché significherebbe ammettere una grande caduta di professionalità di magistrati e forze dell’ordine. E temiamo che questa sia in gran parte la realtà.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il Gratteri-pensiero: la giustizia si fa solo con il carcere. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Gennaio 2023

Così non si faranno più i processi”. Ha ragione a vantare la propria coerenza, il procuratore Nicola Gratteri. Lui la riforma Cartabia l’ha buttata nel cestino da subito: pollice verso in toto, punto. E ora che i suoi colleghi, dopo aver ottenuto dal governo un rinvio di due mesi perché le procure “soffocavano” per il surplus di lavoro, lamentano di nuovo di non farcela ad applicarla, lui può sedersi placidamente nell’arena di Floris e lanciare il proprio “ve l’avevo detto, io”. Addirittura irride: quando tutti avevano paura persino a pronunciare il nome di Draghi, io avevo avvertito il pericolo di quelle norme.

È il classico magistrato contro-riformatore, il procuratore Gratteri, uno di quelli che non vorrebbero mai cambiare niente, forse in altri tempi, prima di innamorarsi dei blitz con centinaia di arrestati, avrebbe apprezzato una carriera con progressioni per anzianità. Infatti non gli è piaciuto il fatto che una legge voluta dall’ex premier Matteo Renzi lo obblighi a abbandonare la toga a 70 anni. E propone che su base volontaria si possa abbandonare i palazzi di giustizia a 75 anni. Si porta avanti con il lavoro, visto che lui è un giovincello di 64. A lui della riforma Cartabia, ma anche del precedente e attuale governo, sulla giustizia non piace proprio niente. Si era un po’ illuso sulla figura di Giorgia Meloni, sperava che in lei sarebbe emersa la parte più forcaiola, con l’avvento al governo. Ma già la scelta del guardasigilli Carlo Nordio pare intollerabile.

Uno che proprio ieri al question time ha definito un “intollerabile fardello di dolore” il numero di suicidi nelle carceri raggiunto quest’anno. Uno che vuole investire sulla salute dei detenuti. E che aggiunge, quasi fosse un contraltare, “trovo irrazionale che lo Stato spenda centinaia di milioni all’anno per intercettazioni inutili quando non troviamo i soldi per pagare il supporto psicologico ai detenuti”. Uno così non può proprio piacergli. Infatti il suo punto di vista su ogni tipo di intrusione nella vita altrui è all’opposto. Le intercettazioni costano cinque euro al giorno, ha detto martedì sera nell’arena di Floris. E poi sarà anche vero, come ha detto il ministro, che il mafioso non parla al telefono, ma se uno chiama un altro e gli dà un appuntamento, a noi questo basta per avviare l’indagine. Semplice, no? Attenti a non darsi mai appuntamenti per telefono, meglio usare un piccione viaggiatore, in fondo le intercettazioni costano solo cinque euro al giorno, no?

Il narcisista Gratteri continua a paragonarsi a Falcone e Borsellino, ed evoca i due giganti contro la Cartabia

Certo, sommando e moltiplicando tanti biglietti da cinque euro si arriva a quei 170 milioni all’anno di cui ha parlato il ministro Nordio al question time, per definire certe intercettazioni come “fallaci e ingannevoli”. Forse il procuratore Gratteri e tanti suoi colleghi dovrebbero leggere le sentenze in cui i giudici irridono chi ha ascoltato e interpretato certe conversazioni. Per esempio attribuendo serietà a battute scherzose. E se Carlo Nordio lamenta come nei giorni scorsi in Veneto sino state rese pubbliche conversazioni tra persone non indagate, in spregio a qualunque norma anche rispetto a quelle emanate dal governo Draghi, nelle ore precedenti Nicola Gratteri aveva rilanciato il suo sberleffo di quando, dopo il solito blitz, aveva ingaggiato un corpo a corpo con i giornalisti, prima convocando poi annullando poi riconvocando la conferenza stampa e aveva detto sghignazzando: “oggi sono stati arrestati 200 innocenti”. Innocenti secondo la Costituzione, certo. C’è poco da ironizzare. Ma lui rinnova la tiritera, anti-Cartabia, contro la norma sulla presunzione d’innocenza che tutela il diritto alla non colpevolezza prima della sentenza definitiva.

Non si sottrae, l’alto magistrato, neppure sull’attualità, che vede di nuovo i procuratori all’assalto dell’entrata in vigore, all’interno del pacchetto Cartabia, di quella norma che estende le previsioni di reato attivabili a querela della parte offesa. Il lamento va dal procuratore generale di Napoli Luigi Riello, fino al segretario di Area, la corrente di sinistra del sindacato magistrati, Eugenio Albamonte. I quali non si turbano del fatto che l’indubbia riduzione del carico di lavoro che la scelta comporta sia richiesta dal Pnrr e dall’impegno di ridurre l’arretrato dei fascicoli penali del 25% entro il 2026. Bastano gli slogan, per quelli non occorre affaticarsi. L’Europa, afferma con sicurezza il procuratore di Catanzaro, ci ha chiesto di accelerare i processi, non di non farli. Come se non esistessero già una serie di reati procedibili a querela di parte. Come se questa procedura non fosse già prevista nel codice. Ma c’è il solito equivoco, per cui pare che non ci sia la possibilità di fare giustizia se non con lo strumento del carcere. Immaginiamo che cosa succederebbe se il governo pensasse anche aa un piano di depenalizzazioni, cosa che, con grande contraddizione, chiede anche il sindacato delle toghe. Sarebbero le prime a scendere in piazza contro.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Gratteri choc: “Sa la differenza tra un politico e un mafioso?” Libero Quotidiano l’11 gennaio 2023

"Mediamente un politico è presente sul territorio 4-5 mesi prima delle elezioni, il capomafia è presente sul territorio 365 giorni l'anno...": è questa la differenza principale tra le due figure, secondo Nicola Gratteri, ospite di Giovanni Floris nello studio di DiMartedì su La7. Il Procuratore della Repubblica di Catanzaro ha spiegato che il mafioso "anche se dà risposte viziate, drogate, clientelari, dà comunque risposte. Lo abbiamo visto soprattutto durante il Covid".

Nel periodo della pandemia, ha continuato Gratteri, "mentre i politici erano impegnati a trasformarsi in esperti virologi in queste trasmissioni, il mafioso dava risposte a famiglie che da tre generazioni vivono in nero, che guadagnano massimo 30-40 euro al giorno. Il mafioso portava loro le borse della spesa, dava loro 200 euro... Per noi che abbiamo uno stipendio sicuro sono poco o niente, per loro erano ossigeno".

"Quindi quando il politico arriva sul territorio, che non è il suo il più delle volte, deve andare dal mafioso...", è intervenuto il conduttore. E l'ospite ha risposto: "Noi abbiamo notato che gli accordi col diavolo si fanno gli ultimi giorni prima di votare. Quando il parlamentare ha paura di non farcela, è disposto a fare i patti col diavolo".

Francesco Stilo.

La Cassazione chiede la liberazione per Francesco Stilo, il legale finito nel mirino di Nicola Gratteri. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 26 Aprile 2023 

Finalmente anche per l’avvocato Francesco Stilo, come già per il suo collega Giancarlo Pittelli, si è mossa la corte di cassazione, che ha annullato con rinvio l’ultimo provvedimento del tribunale di Catanzaro che lo manteneva agli arresti. Rivalutate, ha detto, se non sia il caso di restituirgli la libertà. Cose da non credere, ma la magistratura calabrese, ben allineata con il pensiero del procuratore Nicola Gratteri, sta mantenendo il legale ancora ai domiciliari dopo tre anni e mezzo dal famoso blitz del 19 dicembre del 2019, che ha dato origine al processo “rinascita Scott” con circa 350 imputati.

Da due anni, dal gennaio dl 2021 nell’aula-bunker di Lamezia, quella che avrebbe dovuto dare al dottor Gratteri lustro e gloria fino a farlo ricordare ai posteri come il Falcone di Calabria, si sta celebrando un processo che consiste soprattutto in una sfilata di “pentiti”. Crollata miseramente ormai l’ipotesi politica di un maxiprocesso che dovrebbe sconfiggere la saldatura tra ndrangheta e “zona grigia” di politici, imprenditori, uomini dello Stato e massoneria. Resta sollo il radicato convincimento di una parte della magistratura che qualunque avvocato nelle regioni del sud assuma la difesa di persone accusate di delitti legati alle cosche mafiose, sia complice del proprio assistito. E l’imputazione impalpabile del reato che non c’è, il famoso concorso esterno, è sempre fondata sulla comunicazione tra avvocati e assistiti.

Che cosa si imputa all’avvocato Francesco Stilo? Il fatto di aver “oltrepassato i limiti del corretto esercizio della professione”, di essere uno “disposto a tutto”, insomma. Cioè di aver tenuto conto, nell’elaborazione della linea difensiva con il proprio cliente, anche delle deposizioni dei “pentiti”. Cioè di quelle dichiarazioni che spesso sono a disposizione di chiunque, visto che dilagano nelle pagine dei giornali, diffuse in violazione del segreto investigativo, chissà da chi. Ma è un chiodo fisso. Si rimproverano al legale le “cattive frequentazioni” di persone che vanno e vengono dal suo studio, come se un penalista che opera in Calabria, piuttosto che in Sicilia, dovesse incontrare solo oxfordiani colti e ben vestiti. Si accusa il legale di aver svolto il ruolo di “ponte” tra i suoi assistiti carcerati e quelli ancora liberi. E persino di aver intimidito alcuni testimoni. Il tutto naturalmente senza prove, solo qualche chiacchiera tra malavitosi rilevata con le intercettazioni.

Ma c’è un altro problema. Sono passati tre anni e mezzo dagli arresti e due dall’inizio del processo. Francesco Stilo ha trascorso un anno in diversi istituti di pena nei momenti peggiori in cui imperversava l’epidemia da coronavirus, rischiando la vita, a causa delle sue precarie condizioni di salute, che purtroppo sono peggiorate per l’insorgere di una grave forma di leucemia. Che si è aggiunta a una seria deformazione dell’aorta, all’ipertensione, alla perdita di quaranta chili, a un quadro psichico che ha alle spalle due tentativi di suicidio. Nel frattempo anche le carte processuali non sono più le stesse. Tanto che gli uomini della Dda di Catanzaro paiono costretti a una sorta di gioco dell’oca. Ogni volta che sorge il sospetto anche di una piccola incrinatura nella montagna di accuse che costituiscono la sostanza dell’accusa, ecco spuntare all’orizzonte un nuovo “pentito”, o uno antico cui viene rinfrescata la memoria. E nuovi faldoni entrano nell’aula, alla faccia del processo “tendenzialmente” accusatorio, quello in cui la prova dovrebbe formarsi, nella dialettica tra le parti, nel corso del dibattimento.

Così a Lametia è capitato che il 15 aprile scorso una massa enorme di nuove carte sia stata depositata da parte dell’accusa. E da oggi le difese degli imputati inizieranno le controdeduzioni. Si prevede così che agli inizi di maggio inizieranno le requisitorie dei pm. Una passeggiata, con circa 350 imputati! Ma l’importante è che ci si renda conto che la fotografia del primo giorno, quella del primo gallo che ha cantato, quella che ha prodotto gli arresti, può essere cambiata. E’ il caso dell’avvocato Francesco Stilo. Nei suoi confronti, per esempio, come rilevato nel ricorso dei suoi difensori, tra cui la sorella Paola Stilo, il “pentito” Andrea Mantella ha limitato le accuse agli anni precedenti il 2012.

Un altro collaboratore di giustizia, Raffaele Moscato, ha detto in aula di non conoscere “alcun fatto illecito commesso da Francesco Stilo”, e un altro ancora ha escluso tassativamente che il legale abbia mai minacciato testimoni. La Corte di cassazione ne ha tenuto conto e ha chiesto che il tribunale di Catanzaro rivaluti se davvero esistano ancora esigenze cautelari che impediscono il ritorno del legale alla libertà. Ne terranno conto i magistrati al processo? Oppure siamo ancora fermi con l’orologio bloccato al 19 dicembre 2019?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Germana Radice, il giudice che ha già condannato Stilo non si astiene. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Febbraio 2023

L’avvocato Francesco Stilo, imputato nel processo “Rinascita Scott”, ha ricusato una delle tre giudici che compongono il tribunale. Il motivo è semplice, la dottoressa Germana Radice, che dovrà decidere l’innocenza o la colpevolezza dell’imputato Stilo Francesco, contemporaneamente, nella sua veste di giudice civile, compie atti a lui non favorevoli in una causa attivata quattro anni fa dallo stesso avvocato per un risarcimento danni nei confronti dell’Asp di Vibo Valentia per una diagnosi ospedaliera sbagliata.

È incompatibile e potrebbe anche essere prevenuta. Se vogliamo aggiungere la ciliegina sulla torta di questo pasticcio, quando nell’aula del maxiprocesso l’avvocato Paola Stilo, difensore del fratello, ha preannunciato anche un possibile ricorso al Csm perché valuti in via disciplinare la mancata astensione della giudice, è insorta la pm Annamaria Frustaci della dda accusando la legale di “intimidazione”. Quando si dice il coraggio. Cominciamo con il chiarire che l’avvocato Francesco Stilo sta soffrendo moltissimo per una carcerazione per concorso esterno in associazione mafiosa che dal 19 dicembre del 2019, giorno dell’arresto, lo ha costretto a un vero peregrinaggio in diverse carceri italiane nonostante le gravi condizioni di salute e lo mantiene tuttora ai domiciliari per il reato inesistente.

È malato di una leucemia mieloide, ha gravi problemi cardio vascolari e di ipertensione, un’infiammazione cerebrale che gli ha portato gravi difficoltà di deambulazione, un ematoma aortico che ha condotto l’avvocato poco tempo fa a un ricovero urgente per problema emorragico e infine la perdita di trenta chili. E lasciamo perdere i problemi psichici di chi è costretto tra l’altro a dedicare una parte della giornata all’assunzione di medicinali, tanto da autodefinirsi ironicamente “polifarmacia”. Un fascicolo sanitario ben più corposo di quello giudiziario. Ma nel 2015, quando comincia questa storia che pare non avere mai fine e in cui si arriva al paradosso di essere accusati di intimidazione nei confronti dei magistrati se si osa rivendicare i propri diritti, Francesco Stilo era semplicemente un avvocato calabrese che viveva in modo normale la propria vita e svolgeva la propria professione di avvocato famoso e brillante.

Fu in quell’anno che ebbe un grave incidente d’auto che cominciò a cambiare la sua vita. Fu ricoverato in gravi condizioni all’ospedale di Tropea, da cui uscì con una diagnosi che lui ritenne insufficiente e inadeguata alle gravi conseguenze, come il rischio di emorragie che lo avevano trasformato in malato cronico in continuo allarme per la vita. Per questo motivo aveva avviato una causa civile al tribunale di Vibo Valentia, competente anche sul territorio di Tropea nei confronti della Asp di Vibo Valentia e del suo broker assicurativo. Veniva denunciata una “colpa medica” e richiesto un risarcimento del danno subito. Il presidente del tribunale nominava come perito medico-legale il professor Antonio Di Virgilio, un cardiochirurgo di grande esperienza.

Il luminare accertava che effettivamente l’ospedale di Tropea aveva mostrato imperizia nell’attività diagnostica per non aver saputo riconoscere la patologia di ematoma aortico che si era rivelata gravemente invalidante per il paziente. La causa civile, iniziata nel 2018, è ancora in corso. Due nuovi fatti si sono però in seguito inseriti. Il primo è l’arresto di Francesco Stilo del 19 dicembre 2019. Il secondo è stato il mutamento della composizione del tribunale civile, in cui era nel frattempo arrivata la dottoressa Radice, colei di cui oggi è stata avanzata la richiesta di ricusazione. Lo scenario a quel punto è cambiato radicalmente, sia in sede civile che penale. Nella sua veste di giudice istruttore la giudice ha nominato un nuovo perito che ha rovesciato la diagnosi.

Nel frattempo, con grande stupore, l’avvocato Stilo al momento dell’arresto scopriva di essere in carcere anche con l’ipotesi di corruzione per aver manipolato la causa civile in complicità con un cancelliere che lavorava nell’ufficio del presidente del tribunale e con il professor Di Virgilio. Così la situazione si ribalta, e la Asp di Vibo con il suo broker assicurativo diventano le vittime invece dei colpevoli, tanto che si costituiscono parti civili nel processo “Rinascita Scott”. Ma mancava ancora l’ultimo colpo di scena.

Quando, dopo tafferugli e ricusazioni varie che facevano spostare in altri collegi pezzetti di processo, dovette lasciare per motivi di salute la giudice Gilda Romano, nel maggio 2022, ecco arrivare come sua sostituta proprio la collega Radice. La quale pare non porsi alcun problema di astensione per il suo ruolo di Giano bifronte. Eppure è la stessa che ben conosce l’imputato Stilo, anche se in altra veste e in altro ruolo. Quello in cui proprio lei, come giudice civile, ha già dimostrato di non dargli credito e ha nei fatti già anticipato un giudizio di colpevolezza nei suoi confronti. Non si è astenuta, ma viene ricusata. Deciderà la corte d’appello di Catanzaro.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura

Giancarlo Pittelli.

(di Alessandro Sgherri) (ANSA venerdì 24 novembre 2023) - Nuovi guai giudiziari per l'avvocato penalista ed ex parlamentare di Forza Italia Giancarlo Pittelli. Dopo essere stato condannato in primo grado lunedì scorso a 11 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa nel maxi processo Rinascita Scott, stamani è stato posto ai domiciliari dai finanzieri del Comando provinciale di Catanzaro. 

A chiamarlo in causa la Procura dopo il fallimento di una società della quale è ritenuto l'amministratore di fatto. Bancarotta fraudolenta, accesso abusivo a un sistema informatico e indebita compensazione sono i reati contestati a vario titolo a Pittelli - per il quale i pm avevano chiesto il carcere, non concesso dal gip - e ad altri sette indagati.

Il gip ha anche disposto due sequestri nei confronti della società At Alberghiera, relativi a due diversi casi di bancarotta fraudolenta: 650mila euro e 824mila euro, per un totale di 1.474.404,54 euro e di un terreno a Stalettì. La vicenda riguarda un terreno edificabile nel Comune di Stalettì sul quale sarebbe dovuta sorgere una struttura turistica. 

Il terreno era di proprietà della At Alberghiera amministrata, tra il 2006 al 2018, da diversi amministratori, Salvatore Domenico Galati (56), Monica Albano (44) e Caterina Concolino (64), quest'ultima moglie di Pittelli, tutti indagati. In realtà per l'accusa, a gestirla era lo stesso Pittelli.

Nel 2018 la società era in liquidazione e, nonostante l'esistenza di un debito di 1.043.852,97 euro con la Regione Calabria (derivante dall'anticipo di un contributo pubblico ottenuto nel 2005 per la realizzazione di un complesso alberghiero), il terreno fu ceduto alla società Sarusi srl, amministrata poi dalla collaboratrice/segretaria dello studio legale di Pittelli, Rita Tirinato - anche lei indagata - e, secondo gli inquirenti, costituita ad hoc e anch'essa riconducibile all'ex parlamentare. 

Inoltre At non avrebbe richiesto la restituzione di un credito di oltre 800mila euro vantato nei confronti di un'altra società, la Cromar Immobiliare, anche questa fallita, pur in presenza del debito verso la Regione. Riguardo al debito, agli atti dell'inchiesta c'è una conversazione intercettata tra il commercialista Francesco Saverio Nitti - indagato - e Pittelli nel corso della quale il primo dice: "Lascia stare che adesso ti inseguono perché anche se è cancellata la società comunque è aggredibile, lascia stare che questi 800.000 euro non sappiamo la Regione Calabria che fine farà fare". "Possibile che dopo 7, 10 anni si svegliano di nuovo?" risponde Pittelli.

Colloquio che, secondo i pm, ha permesso di far emergere un dato importante: "La necessità di vendere il terreno alla nuova società costituita (Sarusi srl) e di mettere successivamente in liquidazione la At Alberghiera nasce dall'esistenza di un debito della società verso la Regione per un finanziamento ricevuto e non restituito".

Nell'inchiesta sono indagati anche Antonio Marchio (34), liquidatore della At e il notaio Sebastiano Panzarella che ha rogato l'atto di compravendita del terreno dalla At alla Sarusi srl "nella consapevolezza dell'esistenza di un debito verso la Regione". 

La richiesta del provvedimento cautelare nei confronti di Pittelli è stata firmata dai Pm della Dda Irene Crea, Annamaria Frustaci, Antonio De Bernardo e Andrea Buzzelli e dall'allora procuratore Nicola Gratteri ora capo della Procura di Napoli. La vicenda della bancarotta, infatti, è emersa dalle pieghe della maxi inchiesta Rinascita Scott. 

Estratto dell’articolo di Lirio Abbate per “la Repubblica” venerdì 24 novembre 2023.

Ha svolto un ruolo di cerniera tra la massoneria e la ’ndrangheta, rafforzando alcuni clan calabresi nei loro affari illeciti, attraverso i quali si sono arricchiti e sono diventati ancora più potenti.

È questa la figura tracciata dai magistrati di Catanzaro dell’avvocato Giancarlo Pittelli, ex parlamentare di Forza Italia, penalista di fama, massone dichiarato. I giudici lo hanno condannato a undici anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Pittelli era uno degli imputati eccellenti del processo più importante mai celebrato in Calabria contro la ‘ndrangheta: “Rinascita Scott”.

Istruita da Nicola Gratteri e dai pm Antonio De Bernardo, Anna Maria Frustaci e Andrea Mancuso, l’inchiesta ha portato i carabinieri il 19 dicembre 2019 all’arresto di 334 persone. Durante i due anni e mezzo del dibattimento, i magistrati hanno delineato la figura di Pittelli, portando in aula prove e documenti relativi al suo coinvolgimento con i boss, descrivendo «una vischiosa ragnatela fatta di grandi e piccoli favori, di clientele, di corruzioni », attraverso «i legami massonici ». Un sistema che, secondo quanto è emerso, ha sostenuto la candidatura alle elezioni politiche di Pittelli nel 2006. E in precedenza, come ha raccontato un collaboratore di giustizia, furono le logge massoniche a sostenere la sua l’elezione in parlamento nel 2001.

Da ex democristiano, ha militato nel Ppi per poi approdare al Polo delle libertà. Il penalista calabrese è ricordato ancora oggi per le sue gesta parlamentari: fu autore della corposa proposta di riforma dei codici penale e di procedura penale con altri due avvocati […]

Chiedevano, tra l’altro, l’avviso di garanzia immediato, la possibilità di far scattare le manette solo nel caso di reati gravissimi e l’inutilizzabilità delle sentenze passate in giudicato. Una legge che avrebbe reso impossibile nel 2002 tutti i processi e le indagini antimafia. E non solo quelle.

Gli indagati sarebbero stati subito informati delle inchieste a loro carico rendendo inutili intercettazioni, pedinamenti e l’utilizzo di infiltrati. Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia non avrebbero avuto alcuna valenza se non in presenza di riscontri «di diversa natura». […] con la nuova legge Pittelli, si sarebbe messa in dubbio l’esistenza stessa della mafia: in ogni dibattimento, senza tenere conto delle sentenze del passato, sarebbe stato necessario dimostrare che in Sicilia e in Calabria operano organizzazioni di tipo verticistico denominate “Cosa nostra” o ‘ndrangheta.

[…]

Allora tutto venne bloccato. Il processo “Rinascita Scott” che vede imputato l’ex parlamentare presenta però — vedi le coincidenze della vita — tutti quegli elementi d’accusa che la sua proposta di legge voleva modificare: sentenze, intercettazioni, pedinamenti e dichiarazioni di collaboratori, che invece adesso hanno condotto alla condanna di Pittelli. 

[…] 

Bancarotta fraudolenta a Catanzaro: arresti domiciliari per l’avvocato Pittelli. Il legale calabrese travolto da una nuova inchiesta della procura che per l’ex senatore aveva chiesto la custodia in carcere. Il Dubbio il 24 novembre 2023

Arresti domiciliari per l' ex senatore di Forza Italia ed avvocato Giancarlo Pittelli, già condannato lunedì scorso ad 11 anni nell'ambito del processo "Rinascita-Scott" contro i clan del Vibonese, indagato per più ipotesi di bancarotta fraudolenta patrimoniale, in quanto amministratore di fatto di una società già in liquidazione e, successivamente, dichiarata fallita nel 2022. La procura di Catanzaro aveva chiesto il carcere.

Il provvedimento è stato eseguito dalla Guardia di Finanza di Catanzaro nell'ambito dell'ordinanza emessa dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Catanzaro, su richiesta della Procura della Repubblica. Contestualmente, il gip Chiara Esposito ha disposto il sequestro preventivo di un terreno edificabile nel comune di Stalettì (CZ), e di denaro per circa 1,5 milioni di euro, quale profitto del reato ipotizzato.

Secondo l'accusa, l'indagato, in concorso con altri, avrebbe distratto l'unico bene della società di cui era amministratore di fatto, ossia il terreno: quest'ultimo, contestualmente all'avvio della liquidazione, veniva ceduto ad altra società appositamente costituita, anch'essa riconducibile all'indagato, nonché il corrispettivo della cessione del predetto bene. Le indagini hanno portato alla luce altri gravi indizi su un ulteriore episodio di bancarotta fraudolenta consistente nella mancata richiesta di restituzione di un credito di oltre 800.000 euro vantato dalla societa' fallita nei confronti di un'ulteriore societa', anche quest'ultima poi dichiarata fallita, pur in presenza di un debito, verso la Regione Calabria, di oltre un milione di euro. Debito derivante dall'anticipo di un contributo pubblico ottenuto nel 2005 per la realizzazione sul terreno sequestrato di un complesso alberghiero, finanziamento poi oggetto di rinuncia e mai restituito.

A carico di un altro indagato è stato disposto il sequestro preventivo, anche nella forma per equivalente, della somma di circa 77.000 euro in relazione all'ipotizzato reato di indebita compensazione di debito IVA, in quanto il debito IVA, in capo alla società fallita, sarebbe stato illecitamente neutralizzato con crediti riconducibili alla nuova società appositamente costituita. L’avvocato Pittelli è difeso dal professore Astolfo Di Amato e dal penalista Guido Contestabile.

Dagospia venerdì 24 novembre 2023. “E ORA COME LA METTIAMO?” – “IL FATTO QUOTIDIANO” SI DIVERTE A METTERE IN FILA I TITOLI DEI GIORNALI GARANTISTI SU GIANCARLO PITTELLI, IL PARLAMENTARE DI FORZA ITALIA CONDANNATO A 11 ANNI PER CONCORSO ESTERNO - GLI ARTICOLI DI TIZIANA MAIOLO, PRIMA SUL “RIFORMISTA”, POI SUL “DUBBIO” E IL “PRINCIPE DEI FORCAIOLI”, PIERO SANSONETTI – “MEMORABILE IL TITOLO ‘PITTELLI-GRATTERI 3 A ZERO’; ‘NESSUN INDIZIO LO PUÒ COLLEGARE ALLA ‘NDRANGHETA”

Estratto dell’articolo di Vincenzo Iurillo per “il Fatto quotidiano” venerdì 24 novembre 2023.

E ora come la mettiamo? Diciamo a chi per anni ha cantato la canzone stonata dell’innocenza certa di Giancarlo Pittelli. A chi ha accusato il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, di perseguitare ingiustamente l’ex parlamentare di Forza Italia. A chi ha scritto e pubblicato che “l’avvocato tenuto prigioniero per tre anni dalla Procura di Catanzaro è innocente, non è un mafioso, è una vittima”, mentre “le accuse cadevano al Riesame come foglie di un carciofo”. 

I virgolettati provengono da un paio di articoli di Tiziana Maiolo sul Riformista, […] che fino all’avvento alla direzione di Matteo Renzi – l’ex premier avrebbe voluto Gratteri ministro di Giustizia, va ricordato – si è speso molto per proclamare l’innocenza di Pittelli e per tratteggiare Gratteri come un sadico torturatore di anime candide.

Memorabile il titolo “Pittelli-Gratteri 3 a zero” (Il Riformista 25.10.2022), quando la partita era ancora lontana dalla conclusione e forse i gol dovevano passare al vaglio del Var. 

Eppure, forti di qualche provvedimento favorevole alla scarcerazione di Pittelli, il quotidiano ha continuato a mandare in edicola giornali infarciti di frasi come queste: […] “Intercettazioni male interpretate, se non manipolate” (Tiziana Maiolo – Il Riformista 25.10.2022); “Nessun indizio lo può collegare (Pittelli, ndr) a una cosca della ’ndrangheta” (Tiziana Maiolo – Il Riformista 7.2.2023). Maiolo poi emigra a Il Dubbio, il quotidiano degli avvocati, per continuare la sua battaglia […].

Raccontandone così la sua deposizione in aula: “Io, mafioso? Mai. Non avete le prove”. E l’assenza di Gratteri ad ascoltarlo come “un gesto di glaciale noncuranza” da parte di colui che ambiva a diventare “il Falcone della Calabria” (Tiziana Maiolo - Il Dubbio 7.9.2023).

L’ex parlamentare di Rifondazione comunista e di Forza Italia per la verità non è stata l’unica a cantare questi ritornelli. Le sue parole sono quasi affettuose rispetto a quelle del sottosegretario Vittorio Sgarbi durante una puntata di Quarto Grado del 3 febbraio 2020: “Se Gratteri ha arrestato oltre 300 persone e in un mese ne sono state liberate 90 […] Gratteri deve andare in galera”.

Gratteri, non Pittelli. Pochi mesi dopo Sgarbi è andato a Nuoro a trovare Pittelli in carcere, per poi dichiarare di averlo trovato “visibilmente gonfio, depresso, psicologicamente provato: condizioni di salute oggettivamente incompatibili con la detenzione”, annunciando un esposto al Csm contro Gratteri “per abuso di potere e violazione dei diritti umani” (Gazzetta del Sud, 27.8.2020). […] 

Ma il Principe dei Forcaioli […] è forse stato Piero Sansonetti. La sua linea da giornalista e direttore del Riformista prima, e de L’Unità poi (entrambi editi dall’imprenditore Alfredo Romeo), è stata sempre la stessa: massacrare Rinascita Scott e il procuratore che l’ha avviata. […] “Gratteri si accanisce contro Pittelli: non gli bastano due anni e mezzo di torture, senza prove lo vuole ancora in prigione” (Piero Sansonetti – Il Riformista 22.2.2022). “Rinascita Scott, il delirio di Gratteri: il pm chiede pena da killer per Giancarlo Pittelli” (L’Unità, 9.6.2023). Ultimo pezzo firmato da Maiolo. Fissazioni. Invece chi su Pittelli ci aveva visto lungo è Luigi de Magistris. Ex pm a Catanzaro, i suoi guai iniziarono proprio quando cominciò a indagare sul senatore. “Il tempo è galantuomo – commenta ora – ma le ingiustizie subite dalla criminalità istituzionale non saranno mai riparate”.

Più che Pittelli hanno scelto di arrestare di nuovo un simbolo. Giancarlo Pittelli, avvocato penalista del foro di Catanzaro, imputato nel processo "Rinascita Scott". A pochi giorni da Rinascita scott, l’avvocato è finito in cella per una vicenda del 1984. Tiziana Maiolo su Il Dubbio il 24 novembre 2023

Potrebbe ripetere il reato di “bancarotta fraudolenta patrimoniale”, per questo questa mattina la guardia di finanza ha posto agli arresti domiciliari l’avvocato Giancarlo Pittelli. Sono passati pochi giorni dalla sentenza che ha condannato il legale calabrese a undici anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Ma il provvedimento eseguito ha origine in una data precedente, il 19 ottobre, quando partiva dalla Dda di Catanzaro l’ordinanza con la richiesta di custodia cautelare in carcere nei confronti dell’avvocato.

Non è secondaria la data, perché la richiesta è, a quanto pare, l’ultimo, o uno degli ultimi atti firmati dal procuratore Nicola Gratteri, che si insedierà proprio il giorno successivo e con grande soddisfazione al vertice della Dda di Napoli. Lasciando nei vecchi uffici un fascicolo con una richiesta molto pesante per una vicenda antica, che si è sviluppata nel corso di molti anni e che ha origine nell’acquisto, da parte dell’avvocato catanzarese, di un terreno edificabile in zona marina addirittura nel 1984. La giudice per le indagini preliminari Chiara Esposito riceve l’ordinanza proprio nei giorni in cui il tribunale di Vibo è riunito in camera di consiglio per il processo “Rinascita Scott”, da cui uscirà un mese dopo con una sentenza che, se pure abbia condannato l’avvocato Pittelli, assurto fin dal blitz del 19 dicembre 2019, a simbolo della famosa “area grigia” della saldatura tra le ‘ndrine e la politica, non ha del tutto soddisfatto l’accusa e il procuratore Gratteri.

Se un terzo abbondante degli imputati viene assolto, il processo non è più “maxi”, nulla di paragonabile quindi a quello istruito in Sicilia dal giudice Giovanni Falcone, che con quella storica sentenza definitiva del 30 gennaio 1992, chiuse in via definitiva la stagione stragista dei corleonesi di Cosa Nostra. Quel che è accaduto il 20 novembre 2023 nella grande aula costruita appositamente a Lamezia non è stato, al contrario, nulla di storico. Soprattutto perché, a parte la condanna di Pittelli, che però è un “simbolo” e in quanto tale sembra sempre rivestire un ruolo particolare, i politici e amministratori locali accusati di concorso esterno in associazione mafiosa sono stati quasi tutti assolti. Non si può non notare quindi il fatto che l’ordinanza di custodia cautelare eseguita ieri porta la data del 20 novembre, il giorno della sentenza del processo “Rinascita Scott”.

Non riusciamo a immaginare quali sarebbero stati i commenti, e soprattutto la reazione del diretto interessato, se quel giorno lui fosse uscito assolto dall’accusa più infamante, quella di avere in qualche modo aiutato la mafia. Che immagine avrebbe dato la giustizia nel veder uscire da quell’aula in manette, sia pure virtuali, un uomo appena assolto? Chi avrebbe risparmiato il procuratore Gratteri dal sospetto di volersi accanire proprio sull’imputato più prestigioso, famoso avvocato ed ex senatore? Non è andata così e questo nuovo arresto non ha nulla a che fare con la ‘ndrangheta. Ma porta pur sempre le firme di uomini e donne della Dda di Catanzaro che l’hanno richiesto, Irene Crea, Annamaria Frustaci, Antonio De Bernardo, Andrea Buzzelli. E Nicola Gratteri.

Si tratta di una storia un po’ complicata nella quale l’avvocato Pittelli non solo si dichiara estraneo all’accusa, dice di non aver visto una lira o un euro, ma addirittura si sente vittima. Tanto da aver denunciato una persona, l’architetto Crovella di Torino, per truffa, reato poi andato in prescrizione. Al professionista torinese l’avvocato Pittelli avrebbe ceduto le quote della società dopo che nel 2003 la società At, proprietaria del terreno da lui acquistato nel 1984, aveva goduto di un decreto di finanziamento per la costruzione di un albergo. All’epoca l’avvocato era parlamentare, era quindi stato costretto a fidarsi di una persona che evidentemente non lo meritava. E a lui il legale attribuisce anche la responsabilità di quell’anticipo di 800.000 euro ottenuti dalla Regione. Comunque sono fatti che terminano nel 2018 e che l’avvocato Pittelli, come sostengono i suoi difensori, gli avvocati Guido Contestabile e Astolfo Di Amato, si apprestava a risolvere quando lo hanno arrestato quel 19 dicembre 2019 per l’inchiesta “Rinascita Scott”. Tutte questioni che comunque, pur nella sua singolare posizione di arrestato (ma a che cosa servono le manette per timore di reiterazione del reato?) Giancarlo Pittelli avrà occasione di spiegare martedì prossimo, quando si svolgerà il suo interrogatorio.

"Trescava con i mafiosi". Gli 11 anni a Pittelli (Fi) ultimo regalo a Gratteri. Si chiude l'inchiesta dell'ex procuratore. L'ira dei legali: "Verdetto per salvare il processo". Felice Manti il 21 Novembre 2023 su Il Giornale.

«Lascio agli sciacalli di turno il compito di imperversare, così come hanno fatto in questi 4 anni, sulle televisioni nazionali e locali». Chi pensava che la condanna a 11 anni per concorso esterno in associazione mafiosa avrebbe fiaccato la sua tempra è rimasto deluso. L'ex parlamentare di Forza Italia Giancarlo Pittelli non commenta la sentenza del processo di primo grado «Rinascita-Scott», figlia dell'inchiesta su 338 persone finite alla sbarra contro i clan della 'ndrangheta del Vibonese, fortemente voluto dall'allora procuratore antimafia Nicola Gratteri, oggi a Napoli, che ha smantellato i clan Mancuso di Limbadi, Lobianco, Pardea e Barba di Vibo Valentia, Accorinti di Zungri e Bonavota di Sant'Onofrio. Per lui la Dda aveva chiesto la condanna a 17 anni. «Sono sempre stato abituato a non commentare le sentenze, continuerò a farlo», dice l'avvocato, già al centro di molti misteri italiani come David Rossi e Mps e sfiorato in passato da alcune indagini finite in nulla, vedi l'indagine Why Not del 2006 su una presunta lobby masso-mafiosa.

L'impianto accusatorio non ha retto fino in fondo. Il Tribunale ha complessivamente inflitto oltre 2.000 anni di carcere su 4.000 richiesti, con 134 capi di imputazione venuti meno. Solo un anno e 6 mesi di carcere, a fronte di 20 anni richiesti, per l'ex consigliere regionale del Pd Pietro Giamborino. Assolti invece l'ex consigliere regionale Luigi Incarnato, l'ex consigliere comunale di Vibo Alfredo Lobianco, l'ex assessore comunale di Vibo Valentia Vincenzo De Filippis e l'ex sindaco di Pizzo Calabro, Gianluca Callipo. Pesanti le condanne contro alcuni agenti e ufficiali delle forze dell'ordine considerati infedeli: 10 anni e sei mesi nei confronti dell'ex ufficiale dei carabinieri Michele Marinaro della Dia, cinque anni e sei mesi al carabiniere Antonio Ventura, due anni e sei mesi all'ex comandante provinciale di Teramo Giorgio Naselli e 4 anni a Filippo Nesci, ex comandante della Polizia municipale di Vibo Valentia.

Mastica amaro l'ex pm di Catanzaro ed ex sindaco di Napoli Luigi de Magistris: «Il tempo è galantuomo, ma le ingiustizie subite dalla criminalità istituzionale non saranno mai riparate. Quando indagai su di lui - ricorda l'ex pm cacciato dalla magistratura - l'allora procuratore capo della Repubblica di Catanzaro, di cui Pittelli era avvocato ed amico caro, mi revocò l'indagine e il Csm mi obbligò a non fare più il pm».

I legali di Pittelli (Giandomenico Caiazza, Salvatore Staiano e Guido Contestabile) accostano il loro assistito a Enzo Tortora e già annunciano ricorso, visto che a loro dire la condanna dell'ex senatore era indispensabile per salvare la credibilità della intera operazione investigativa «Rinascita Scott e di conseguenza dello stesso Gratteri: «Pittelli viene condannato per lo stesso reato escluso solo pochi mesi da Cassazione e Riesame, persino dei soli gravi indizi di colpevolezza».

Caiazza “difende” Pittelli: «Condannato per un reato già escluso da Cassazione e Riesame».Uno dei difensori dell’avvocato di Catanzaro commenta il provvedimento di primo grado emesso dal tribunale collegiale di Vibo Valentia. Giandomenico Caiazza (uno dei tre difensori di Giancarlo Pittelli) su Il Dubbio il 20 novembre 2023

L'avvocato Giancarlo Pittelli viene condannato per quello stesso reato rispetto al quale solo pochi mesi fa la Corte di Cassazione prima, ed il Tribunale per il Riesame subito dopo, avevano escluso la sussistenza anche solo di indizi gravi di colpevolezza. Tanto basta a far comprendere, a tutti coloro che abbiano la onestà intellettuale di volerlo fare, quanto questa condanna fosse ad ogni costo indispensabile per salvare la credibilità della intera operazione investigativa Rinascita Scott.

Sono dinamiche che abbiamo drammaticamente imparato a conoscere in altri clamorosi casi giudiziari, a cominciare da quello di Enzo Tortora; e da quei casi giudiziari abbiamo anche imparato che, alla fine, l'innocenza dell'imputato verrà riconosciuta, seppure con imperdonabile ritardo, e dopo aver causato danni incommensurabili. Questo sarà, da subito, il nostro ancora più determinato impegno, questa la nostra certezza.

La sentenza sull'ex avvocato. Intervista a Gian Domenico Caiazza: “Pittelli condannato ad ogni costo, lo abbiamo imparato con Tortora…” Parla l’avvocato di Pittelli: “Condannato per un reato rispetto al quale pochi mesi fa Cassazione e Riesame avevano escluso la sussistenza anche solo di indizi gravi”. Angela Stella su L'Unità il 21 Novembre 2023

Ieri è arrivata la sentenza di Rinascita Scott. Undici anni di reclusione è la pena inflitta dal Tribunale di Vibo Valentia ( Presidente Brigida Cavasino, Claudia Caputo e Germana Radice a latere) all’avvocato ed ex parlamentare di Forza Italia Giancarlo Pittelli, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Per lui la Dda aveva chiesto la condanna a 17 anni. Ne parliamo con uno dei suoi legali Gian Domenico Caiazza che lo assiste insieme ai colleghi Salvatore Staiano e Guido Contestabile.

Avvocato la prima reazione a questa condanna?

L’avvocato Giancarlo Pittelli viene condannato per quello stesso reato rispetto al quale solo pochi mesi fa la Corte di Cassazione prima, ed il Tribunale per il Riesame subito dopo, avevano escluso la sussistenza anche solo di indizi gravi di colpevolezza. Tanto basta a far comprendere, a tutti coloro che abbiano l’onestà intellettuale di volerlo fare, quanto questa condanna fosse ad ogni costo indispensabile per salvare la credibilità della intera operazione investigativa Rinascita Scott. Sono dinamiche che abbiamo drammaticamente imparato a conoscere in altri clamorosi casi giudiziari, a cominciare da quello di Enzo Tortora; e da quei casi giudiziari abbiamo anche imparato che, alla fine, l’innocenza dell’imputato verrà riconosciuta, seppure con imperdonabile ritardo, e dopo aver causato danni incommensurabili. Questo sarà, da subito, il nostro ancora più determinato impegno, questa la nostra certezza.

Come si fa a spiegare ad un lettore non tecnico la contraddittorietà di quello che lei ha appena affermato?

Lo capiremo dalle motivazioni. È difficile da capire anche per un tecnico, un giurista, un avvocato.

Secondo Lei ha pesato nella decisione la giovane età del collegio giudicante?

Non voglio fare questo tipo di valutazione. Certamente è un dato oggettivo che si tratti di un collegio di magistrate giovanissime alle quali è stato affidato un compito molto gravoso rispetto ad una vicenda di straordinaria complessità. Ricordiamo che la Dda guidata allora dal procuratore Gratteri aveva ricusato la giudice titolare in quanto, come gip di Catanzaro, aveva autorizzato la proroga di un’intercettazione nell’ambito dello stesso procedimento. La ricusazione sarebbe stata più sensata se fatta da un difensore e non in maniera anomale dalla Procura così come è avvenuto. Sta di fatto che il pm ha ottenuto che la magistrata più esperta fosse fatta fuori dal processo.

E la pressione della stampa sempre pronta a dare spazio alle parole dell’accusa dentro e fuori l’aula del Tribunale?

Capiremo meglio anche questo quando leggeremo le motivazioni della sentenza. Che su questo processo, sul suo esito e specificatamente sulla sorte di Giancarlo Pittelli si giocasse la partita dell’intera credibilità dell’inchiesta e ci fosse una pressione anche mediatica enorme non ci sono dubbi.

Come ha accolto Pittelli la decisione?

Giancarlo Pittelli ha avuto una vita distrutta da queste vicende. Non poteva essere ottimista date tutte le circostanze. Angela Stella 21 Novembre 2023

«Io mafioso? Mai, non avete prove». La verità di Pittelli. Processo Rinascita-Scott, nell’aula bunker di Lamezia Terme l’avvocato respinge l’accusa di concorso esterno. Gratteri snobba l’udienza. Tiziana Maiolo su Il Dubbio l'1 settembre 2023

Non dovrebbe essere lì, non dovrebbe indossare l’abito dell’imputato ma la toga del grande avvocato, quale è sempre stato. Invece è chiamato a dare spiegazioni: “Non sono stato, non sono e non sarò mai un mafioso”. Questa volta è lui in persona, a dirlo, l’avvocato Giancarlo Pittelli, nell’aula bunker di Lametia e davanti a tre giovani donne giudici che dovranno decidere se l’imputato eccellente del maxiprocesso “Rinascita Scott” sia stato responsabile, a margine della sua attività di famoso penalista, di “concorso esterno in associazione mafiosa”.

In aula non c’è il principale accusatore di Pittelli, il procuratore Nicola Gratteri. Un gesto di glaciale noncuranza. Anche perché il capo della Dda di Catanzaro aveva voluto invece esserci la sera in cui lesse tutte le richieste di condanna, precisando che solo a pochi, in particolare i “pentiti”, lui riteneva dovessero essere concesse le attenuanti generiche. A tutti gli altri no, e stiamo parlando di 343 imputati, compresi quelli incensurati. Il tono del procuratore quella sera era da 25 aprile 1945. Aveva preso la parola con tono solenne: “Sono le 18.30 del 7 giugno 2023”, aveva declamato, sottolineando con enfasi la gravità del momento, quasi fosse quello della sentenza e non invece “solo” delle richieste di una parte processuale. Diciassette anni di carcere per l’avvocato ed ex parlamentare Pittelli Giancarlo, neanche fosse molto più di un rapinatore, addirittura un omicida o uno stupratore seriale.

Ma per il procuratore Gratteri pare arrivato il momento del trionfo, dopo quella notte del blitz di quattro anni fa, e poi le conferenze stampa, l’evocazione continua del temine “maxiprocesso”, con l’aula bunker di Lametia fatta costruire appositamente. E il sussurro costante con il riferimento a Giovanni Falcone e a quel processo che trent’anni fa segnò una svolta nel contrasto alla Cosa Nostra dei sanguinari corleonesi.

A questo aspira il procuratore Gratteri, a essere ricordato come “il Falcone di Calabria”. Chissà se sarà così. Intanto nei rami collaterali di questo processo, molti di quelli che allora furono arrestati si sono persi cammin facendo, tante sono state le archiviazioni, e le assoluzioni, compresi i 7 su 20 del rito abbreviato. E poi non è detto che la nuova generazione cui appartengono le tre giudici (meno di dieci anni di anzianità in tre), la presidente Brigida Cavasino e poi Claudia Caputo e Germana Radice, sia portatrice della stessa cultura giuridica dei padri. Magari saranno più attente anche alle ragioni della difesa. Nicola Gratteri pare quasi far loro un appello, quando dice che “in pochi avevano creduto in questo processo, per la mole degli imputati, per il collegio dalla giovane età, c’è stata una sorta di tifo perché questo processo non si celebrasse, ma si è svolto con serenità e se ci sono stati momenti di tensione è normale, è il sale del processo”.

Serenità, quando ti vogliono condannare a diciannove anni di carcere? “Io non sono stato, non sono e non sarò mai un mafioso”, parole che si appoggiano sul silenzio delle tre giudici, in un’atmosfera surreale perché manca il grande protagonista di un corpo a corpo che, dalla notte del 19 dicembre del 2019, ha visto contrapposto questo procuratore, con uno stile un po’ da pm all’americana, non solo agli uomini delle cosche di ’ndrangheta, ma anche a quella che l’accusa ha definito la “zona grigia” di amministratori pubblici, professionisti e massoni, di cui Giancarlo Pittelli sarebbe stato una sorta di capo. La cerniera tra questa società civile e i clan.

Eppure, il fatto che l’avvocato Pittelli non abbia in alcun modo favorito le cosche non è solo lui a dirlo, quando afferma di non essere mai stato un “mafioso”. Ci sono fior di sentenze, quelle che, dopo tre anni di tormenti, di carcere durissimo, di peregrinazioni e poi di domiciliari, gli hanno ridato almeno quel soffio di vita che si chiama libertà. Due pronunce della Cassazione e poi un’ordinanza del Tribunale di Catanzaro certificano il fatto che “nessun indizio” collega Giancarlo Pittelli alla mafia. La Suprema corte per ben due volte aveva dovuto chiarire quali fossero i presupposti per la configurazione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa e come fosse indispensabile il nesso di causalità tra un determinato comportamento e la volontà di favorire la criminalità mafiosa. Al nesso si deve inoltre accompagnare un comportamento che si concretizzi in aiuto “concreto, specifico, consapevole e volontario”. Lo ha detto e ribadito l’avvocato Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere penali, che ha svolto un intervento di quasi un’ora e mezzo. Ha martellato a lungo sul vero punto debole dell’accusa, lo stesso rilevato dalle sentenze di diverse sezioni della Cassazione e dall’ordinanza del Tribunale di Catanzaro: non esiste un solo comportamento dell’avvocato Pittelli che possa essere inteso come finalizzato a favorire la ’ndrangheta. Il nesso non c’è. La Procura confonde un banale spunto di indagine con la prova provata, la congettura con la logica. La voce del legale si alza appena, senza retorica, ma con la forza della legge, e anche della giurisprudenza della Cassazione a sezioni unite.

Nel mezzo delle tante nebulosità dell’impianto d’accusa nei confronti del legale calabrese, dall’adesione alla massoneria (mai negata, ma quella legale e trasparente) alla fama di “aggiustatore” di processi (senza che mai fosse stato indicato quale processo e come sarebbe stato “aggiustato”), emerge un unico fatto. Ed è falso. L’avvocato Pittelli avrebbe rivelato al suo assistito Luigi Mancuso il contenuto di verbali segreti del “pentito” Mantella. Perché possiamo tranquillamente affermare che si tratta di un falso? Perché la difesa ha potuto dimostrare, e lo certificano le conseguenti pronunce della Cassazione e l’ordinanza del Tribunale civile di Catanzaro, che quelle notizie erano state già pubblicate su un quotidiano e un sito social.

Giancarlo Pittelli, da bravo imputato ma anche da avvocato, nella sua deposizione spontanea ha smontato punto per punto anche tutto il contorno costruito attorno al nucleo centrale. A partire da un appunto da lui redatto in diverse fasi, che sembra quasi la preparazione di una linea difensiva, dopo che un suo amico giornalista lo aveva preallertato con molto anticipo del fatto che la Procura di Catanzaro stava indagando su di lui.

Ma è la logica inoppugnabile dell’arringa dell’avvocato Caiazza a dare il colpo decisivo, e anche a disvelare come la fragilità delle “prove” portate con pervicacia insensata fino all’aula, abbia condotto la politica di Gratteri e dei suoi collaboratori della Dda su un binario morto. Non è un caso che la pubblica accusa abbia dedicato due intere udienze solo per cercare di impallinare i giudici che avevano dimostrato l’estraneità di Giancarlo Pittelli rispetto alle cosche. Perché temono che le tre giovani colleghe possano arrivare alle stesse conclusioni. Assolvendo Gian Carlo Pittelli per l’inesistenza dei fatti, cioè la formula più ampia, come ha chiesto l’avvocato Caiazza.

Quei 17 anni chiesti per Pittelli sono figli di un clima di terrore. La richiesta di pena nei confronti dell’avvocato ed ex parlamentare è abnorme e farebbe pensare a fatti di sangue. E invece è accusato di concorso esterno. Ilario Ammendolia su Il Dubbio l'8 giugno 2023

Circa 40 anni fa sono stato chiamato come giudice popolari alla Corte di Assisi di Locri. Il primo processo riguardava un signore accusato di tentato omicidio. Apparteneva ad un clan molto conosciuto nella Locride.

Durante il dibattimento vennero fuori alcuni dubbi sulla dinamica dei fatti, per cui chiesi di poter sentire il ferito. Fu in quel momento che appresi che, in realtà, l'uomo era morto dopo qualche settimana di degenza in ospedale ma non per le pallottole che gli avevano forato il corpo in più punti ma per altra causa. Almeno così era scritto.

La richiesta del pm era stata di sette anni e mezzo di detenzione. Ho riflettuto molto su tale sentenza (piuttosto mite) che accettai per la mia radicata convinzione che, in genere, ci sarebbero mille modi, tutti onorevoli, e tutti più efficaci per contrastare il crimine e redimere i responsabili di reati (quando è possibile) piuttosto che l'infame sistema carcerario.

Alla luce di quanto ho detto bisogna guardare le richieste di pena avanzate nella requisitoria dei pm al processo "Rinascita Scott" che ritengo siano state concepite più per stupire e far rumore che per la reale gravità dei reati che sono appena accennati nella requisitoria.

Da quanto sono riuscito a capire per gran parte degli imputati ci sarebbe una specie di associazione "anagrafico-chiacchierona" in cui molto si parla ma svaniscono (o quasi) i cadaveri, le coltellate, le pistolate, i sequestri di persona, gli assalti alle banche. Insomma il reato diventa molto meno visibile e importante delle chiacchere telefoniche o delle parole dei pentiti. È giustizia sommaria. Soprattutto ingiusta verso centinaia di persone "senza nome" che rischiano di pagare prezzi altissimi alla giustizia spettacolo. Ciò premesso, chiedere 17 anni di carcere per l'avvocato Giancarlo Pittelli di 70 anni - senza una sola goccia di sangue a suo carico - significherebbe infliggergli di fatto il carcere a vita.

Così come i 18 anni di carcere chiesti per Gianluca Callipo, ex sindaco di Pizzo, per cose che somigliano molto più a reati amministrativi che a disegni di una consorteria mafiosa, mi sembra una crudeltà. Callisto Tanzi credo abbia avuto 12 anni di carcere, i responsabili del crack delle banche molto meno.

La differenza sostanziale è che Pittelli, Callipo e centinaia di persone coinvolte in Rinascita Scott, vivono al Sud. In particolare in Calabria, dove lo "Stato" e soprattutto alcuni potentati locali che occupano posti chiavi all'interno di esso hanno avuto carta bianca per rispondere allo sfascio sociale ed istituzionale, instaurando un clima di terrore. Manca Robespierre con le sue insane passioni, i suoi folli sogni di purezza, ma si intravede l'ombra della ghigliottina che ricorda un passato oscuro per l'umanità. 

Le richieste dei pm. Rinascita Scott, il delirio di Gratteri: il pm chiede pena da killer per Giancarlo Pittelli. Il procuratore di Catanzaro è baldanzoso come se avesse già vinto, si accanisce sull’avvocato calabrese perché gli serve a tenere in piedi il castello di carta della sua maxinchiesta. Tiziana Maiolo su L'Unità il 9 Giugno 2023

Si comporta come se avesse vinto la causa, il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri. “In pochi avevano creduto in questo processo”, dice con soddisfazione. Ma siamo solo alle sue richieste , che evidentemente lui confonde con sentenze di condanna. Tre settimane hanno impiegato i suoi sostituti della Dda, Anna Frustaci, Antonio De Bernardo e Andrea Mancuso, per cuocere a fuoco lento la posizione di ogni imputato.

Ma i numeri degli anni di carcere ha voluto spararli lui personalmente. E sono vere pallottole, se si pensa che questo processo, che infatti si svolge in tribunale e non in corte d’assise, non è chiamato a giudicare omicidi né stragi. Ma, se misurassimo i 17 anni chiesti per l’avvocato Pittelli, i 15 per il suo collega Francesco Stilo, gli 8 per l’ex capitano dei carabinieri Giorgio Naselli, e li paragonassimo alle richieste di un qualunque pm, magari lo stesso Gratteri, in un qualunque processo per omicidio, scopriremmo che viene considerato meno grave l’assassinio rispetto al concorso esterno. Spetterà alla Presidente Brigida Cavasino e alle giudici Claudia Caputo e Germana Radice dimostrare il contrario. E avere il coraggio di assolvere quando manchi il nesso di causalità tra un comportamento e il risultato compiacente nei confronti della mafia.

Gli imputati sono 343, ma il “Rinascita Scott” pare diventato il processo a Giancarlo Pittelli. E’ la sua figura quella che sostanzialmente consente al procuratore Gratteri di mantenere in piedi il teorema sulla base del quale questo processo è nato, fin dal blitz del 19 dicembre 2019. Per questo l’avvocato Pittelli non può uscire da quest’aula. Eppure il punto centrale, quello che dovrebbe dare sostanza all’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, è crollato da tempo.

Ci sono due provvedimenti della corte di cassazione e uno del tribunale del riesame di Catanzaro ad attestarlo. Infatti nel corso di questi due anni e mezzo i rappresentanti dell’accusa si sono affannati a introdurre fatti nuovi, che poi nuovi non erano perché giravano sempre intorno allo stesso quesito (che nella mente del procuratore Gratteri sarebbe invece prova incrollabile): l’avvocato Pittelli, attraverso la diffusione ai propri assistiti di notizie riservate, ha agevolato la cosca? Tutti i provvedimenti attraverso i quali il legale, dopo oltre due anni di custodia cautelare, prima in carcere e poi al domicilio, ha riguadagnato la libertà. lo hanno escluso.

Non solo, ma anche le risposte di diversi giudici ai quesiti degli avvocati Caiazza, Contestabile e Stajano sulle sussistenza di indizi di colpevolezza, sono state univoche. Questi indizi non esistono. Perché occorre dimostrare, e ovviamente questo è compito dell’accusa, che l’avvocato con il suo comportamento abbia rafforzato in modo significativo l’attività e anche i bilanci della cosca mafiosa. Giancarlo Pittelli era stato intercettato mentre parlava con un suo assistito. Insieme commentavano il “pentimento” di un altro imputato, fatto di cui già avevano parlato un giornale locale e anche un sito. Pure c’è voluta la ricerca certosina dei legali perché si potesse arrivare alla conclusione che l’ex senatore non stava violando un segreto investigativo e men che meno che fosse in possesso dei verbali di interrogatorio del collaboratore.

Anzi, nella conversazione diceva esplicitamente di non aver visto nessun verbale. Pure per mesi quell’intercettazione e la deduzione di quale fosse stato il ruolo di Giancarlo Pittelli parevano fondamentali per attribuire all’avvocato addirittura un ruolo non solo di difensore ma di ”consigliori” di un’intera cosca mafiosa. Poi si aggiungeva evanescenza a evanescenza, perché, sempre lui, aveva detto del solito “pentito”, “pare che accuserà il fratello”. Una previsione? Uno svarione? Certamente una stranezza perché proprio negli stessi giorni in cui la Dda continuava a intercettare il legale e i suoi assistiti, quel collaboratore di giustizia stava scagionando il proprio fratello dalla responsabilità di un certo delitto. Capiterà però che alcuni mesi dopo, messo alle strette, chiamerà in correità proprio il congiunto.

Ma sono sufficienti questi “indizi”, per definire “consigliori” di mafia uno degli avvocati più famosi della Calabria ex senatore della repubblica? Esaminiamo dunque gli argomenti tecnico-giuridici con cui prima la cassazione (e persino il procuratore generale) e poi il tribunale di Catanzaro hanno demolito l’imputazione di concorso esterno in associazione mafiosa. “La Suprema Corte -scrive per esempio il tribunale di Catanzaro- richiamando i consolidati principi elaborati dalla giurisprudenza, che ha disegnato il concorrente esterno come il soggetto che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell’associazione e privo dell’affectio societatis, fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, sempre che questo esplichi un’effettiva rilevanza causale e quindi si configuri come condizione necessaria per la conservazione e il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione e sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima”.

In che modo “concreto, specifico, consapevole e volontario” il contributo dell’avvocato Pittelli sarebbe stato determinante per rafforzare una cosca mafiosa? Parlando di verbali mai visti o riferendo notizie lette sui giornali? Saranno “giovani”, come ha detto il procuratore Gratteri, le tre giudici che dovranno decidere questo processo, ma la scommessa è se avranno la stessa autonomia che avrebbe avuto la loro collega più esperta Tiziana Macrì che oggi sarebbe la Presidente di quel tribunale se il procuratore Gratteri non l’avesse subito ricusata. Tiziana Maiolo 9 Giugno 2023

Pittelli torna in libertà, esulta il Comitato a sostegno del legale. Il Quotidiano del Sud il 17 Marzo 2023

Torna in Libertà Giancarlo Pittelli, il legale coinvolto nell’operazione Rinascita Scott scarcerato in attesa di giudizio

L’avvocato ed ex parlamentare di Forza Italia, Giancarlo Pittelli ha lasciato definitivamente gli arresti domiciliari. Lo rende noto il comitato per Pittelli e associazione Riforma Giustizia in una nota. I componenti del comitato scrivono che «dal 19 dicembre 2019 fino ad oggi il noto penalista e politico calabrese Giancarlo Pittelli ha vissuto una condizione indegna di uno stato di diritto. Privato della libertà personale, costretto per lunghi periodi anche alla detenzione in carceri speciali, sottoposto alla pubblica gogna e additato per anni come esponente di spicco della cosiddetta ‘massomafia’».

Nella nota il comitato ricostruisce gli ultimi eventi ricordando che «già a gennaio, dopo oltre tre anni, era emerso che gli indizi di concorso esterno in associazione mafiosa, raccolti dagli inquirenti nella indagine Rinascita Scott, erano labili e insufficienti a tenerlo in custodia cautelare», dichiarano Enrico Seta (presidente), Enza Bruno Bossio (segretario), Umberto Baccolo (portavoce) di Associazione Riforma Giustizia già Comitato per Pittelli.

PITTELLI TORNA IN LIBERTÀ, SODDISFATTO IL COMITATO A SOSTEGNO DEL LEGALE

«Oggi anche i giudici del riesame del processo Mala Pigna accolgono l’istanza degli avvocati difensori. Lo Stato – denuncia ancora la nota del comitato pro Pittelli – si ricorda dopo tre anni di Giancarlo Pittelli e gli restituisce la condizione di uomo libero, secondo giustizia e secondo i principi della Costituzione italiana».

Rispetto a quest’ultima decisione, quindi, il gruppo che da subito ha convintamente difeso il legale ed ex parlamentare ha espresso «la soddisfazione e la gioia di tutti coloro che hanno creduto sin dall’inizio in una battaglia civile di verità».

Nell’attesa del giudizio di merito, infine, il Comitato ha espresso «una forte amarezza per la lunga sospensione del principio costituzionale di presunzione di innocenza e per la ridicolizzazione che tale principio ha subito agli occhi di una cittadinanza sempre più perplessa e allarmata».

L'odissea dell'avvocato. Stop alla custodia cautelare, Pittelli è finalmente libero. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 18 Marzo 2023

Giancarlo Pittelli è da ieri un uomo libero. Libero di varcare la soglia di casa, dopo tre anni e tre mesi di custodia cautelare, libero di difendersi finalmente ad armi pari con l’accusa del procuratore Nicola Gratteri. Colui che lo accusava nelle conferenze stampa di far parte di quell’ “area grigia” di professionisti e massoni che agevolavano le cosche, la “borghesia mafiosa”. “Sereno come sono sempre stato – le sue prime commosse parole – sicuro del fatto che prima o poi emergerà la verità in ogni sua sfaccettatura”.

È stata un’ordinanza del tribunale del riesame di Reggio Calabria, dove l’avvocato catanzarese subiva una “coda” del concorso esterno in associazione mafiosa per cui viene processato a Catanzaro, a togliergli definitivamente le manette, ad accogliere la richiesta di revoca della custodia cautelare presentata dai suoi avvocati Guido Contestabile, Salvatore Staiano e Gian Domenico Caiazza. Amaro, pur nella soddisfazione, il commento del Presidente nazionale delle Camere Penali. “Finalmente viene ridata dignità a Giancarlo Pittelli. Ma è uno scandalo che abbia dovuto subire tre anni di carcere preventivo. Ora potrà affrontare i suoi processi da uomo libero”.

È bello poter uscire di casa, poter rivedere gli amici, passeggiare, andare al ristorante. Ma la più grande soddisfazione a Giancarlo Pittelli era arrivata il mese scorso, quando un altro tribunale, la seconda sezione penale di Catanzaro, dopo due incoraggianti sentenze della cassa zione, era stato lapidario con l’ordinanza in cui annullava la custodia cautelare dell’avvocato nel processo Rinascita Scott. Così i giudici valutavano il comportamento dell’avvocato: “Tale condotta non è qualificabile come concorso esterno in associazione mafiosa, per carenza dell’elemento oggettivo della fattispecie del nesso causale tra condotta contestata e aiuto concreto al sodalizio, richiesto indefettibilmente per la configurabilità del delitto ex art. 110-416 bis del codice penale”. Pittelli non è un mafioso, avevano scritto sulla roccia i giudici. Ben altro occorre, avevano stabilito, perché ci sia un nesso di causalità tra un determinato comportamento e l’attività delle cosche.

Principi che gli uomini della Procura di Catanzaro e a maggior ragione il dottor Gratteri dovrebbero ben conoscere. E vengono i brividi a rivedere le immagini di quel 19 dicembre del 2019, con un blitz di centinaia di persone in tutta la Calabria, e la conferenza stampa che ne era seguita, in cui dai toni pareva che, con la cattura di un famoso avvocato, l’antimafia calabrese avesse azzerato il vertice assoluto della ‘ndrangheta.  Il processo Rinascita Scott è da tempo un’anatra zoppa. Governato da un tribunale le cui componenti sono incompatibili e già più volte ricusate, vive solo grazie a piccoli drappelli di “pentiti” vecchi e nuovi, interni e anche esterni che spuntano come funghi. Del resto è sempre stato così in questo tipo di inchieste, quando il teorema accusatorio si sta sgretolando, arriva qualche nuovo o vecchio “pentito” di complemento a dare l’aiutino. Ma servirà a poco, perché la prossima tappa per Pittelli sarà la più piena assoluzione da ogni accusa. Perché il fatto non sussiste.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Giancarlo Pittelli è un uomo libero: «Sono stati anni terribili». Giancarlo Pittelli, avvocato penalista del foro di Catanzaro, imputato nel processo "Rinascita Scott". Il Riesame annulla i domiciliari. Per il penalista rimane il divieto di esercitare la professione per un anno. Simona Musco su Il Dubbio il 17 marzo 2023

«Sono stati anni terribili. Spero che ci sia un giudice che comprenda le mie ragioni». Dopo oltre tre anni in custodia cautelare, Giancarlo Pittelli non vuole aggiungere di più. E si limita a queste parole, poche ore dopo essere stato rimesso in libertà dal Tribunale del Riesame di Reggio Calabria, che ha revocato gli arresti domiciliari oltre tre anni dopo il suo primo arresto, avvenuto nel dicembre 2019. I giudici reggini hanno accolto oggi l'appello presentato dagli avvocati Gian Domenico Caiazza, Guido Contestabile e Salvatore Staiano contro l'ordinanza del Tribunale di Palmi, che l'8 febbraio scorso aveva rigettato l'istanza contro gli arresti domiciliari imposti all’ex parlamentare di Forza Italia nell’ambito dell'inchiesta “Mala Pigna”, nella quale è accusato di concorso esterno con la cosca Piromalli di Gioia Tauro. Un provvedimento che fa il paio con la decisione del Tribunale della Libertà di Catanzaro, che nelle scorse settimane aveva bocciato la tesi della Dda guidata da Nicola Gratteri - che lo aveva fatto arrestare nel 2019 - annullando la misura cautelare legata al processo “Rinascita Scott”, nel quale è imputato per rapporti con le cosche del Vibonese. Per Pittelli, ora, rimane solo il divieto di esercitare la professione di avvocato per un anno.

Per conoscere le ragioni della decisione di oggi toccherà attendere le motivazioni del provvedimento. Quel che è noto, adesso, è quanto deciso dal Riesame di Catanzaro, che si era pronunciato dopo l’annullamento con rinvio disposto dalla Cassazione. E secondo i giudici, allo stato dei fatti non emergerebbero indizi in grado di supportare la tesi che il penalista abbia svelato notizie coperte da segreto in relazione ai verbali del pentito vibonese Andrea Mantella e che, dunque, abbia trasmesso notizie coperte da segreto al clan Mancuso. Secondo i giudici del capoluogo calabrese, infatti, gli elementi valorizzati dalla procura, pur dimostrativi «di una condotta opaca di Pittelli e difficilmente catalogabile come professionale, e della sussistenza di legami, connotati anche da una certa frequenza, con Marinaro, agente della Dia dal quale, secondo il costrutto accusatorio, avrebbe reperito le informazioni secretate», allo stato degli atti «e salvo più approfondita istruttoria dibattimentale, si arrestano al mero sospetto, non potendo affermarsi che i verbali e le informazioni in ordine alla collaborazione di Mantella fossero nella disponibilità di Pittelli o che Pittelli avesse gli strumenti e si fosse effettivamente attivato, tramite le proprie conoscenze per reperirli».

Secondo i giudici, dunque, «la messa a disposizione del Pittelli non ha dispiegato alcun contributo concreto alla consorteria, trattandosi appunto, per come acclarato nei precedenti provvedimenti giudiziali, di una sorta di millanteria per far considerare dai propri assistiti come cruciale il suo ruolo, alla luce delle sua conoscenze ed entrature. Tale condotta non è qualificabile come concorso esterno in associazione mafiosa, per carenza dell’elemento soggettivo della fattispecie del nesso causale tra condotta contestata e aiuto concreto al sodalizio, richiesto indefettibilmente per la configurabilità del delitto ex art 110-416bis cp».

Ad esultare per la decisione del Riesame di Reggio Calabria è il Comitato per Pittelli e associazione Riforma Giustizia. «Dal 19 dicembre 2019 fino ad oggi il noto penalista e politico calabrese Giancarlo Pittelli ha vissuto una condizione indegna di uno stato di diritto: privato della libertà personale, costretto per lunghi periodi anche alla detenzione in carceri speciali, sottoposto alla pubblica gogna e additato per anni come esponente di spicco della cosiddetta “massomafia” - si legge in una nota -. Già a gennaio, dopo oltre tre anni, era emerso che gli indizi di concorso esterno in associazione mafiosa, raccolti dagli inquirenti nella indagine “Rinascita Scott”, erano labili e insufficienti a tenerlo in custodia cautelare. Oggi anche i giudici del Riesame del processo “Mala Pigna” accolgono l’istanza degli avvocati difensori. Lo Stato si ricorda dopo tre anni di Giancarlo Pittelli e gli restituisce la condizione di uomo libero, secondo giustizia e secondo i principi della Costituzione italiana. Esprimiamo la soddisfazione e la gioia di tutti coloro che hanno creduto sin dall’inizio in una battaglia civile di verità. Rimane una forte amarezza per la lunga sospensione del principio costituzionale di presunzione di innocenza e per la ridicolizzazione che tale principio ha subito agli occhi di una cittadinanza sempre più perplessa e allarmata».

Il caso dell'avvocato. Onore a Giancarlo Pittelli, colpito da violenza inaudita. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 7 Febbraio 2023

Dopo tre anni e due mesi di privazione della libertà personale, con la umiliazione feroce addirittura del carcere di Badu ‘e Carros per molti mesi, e la distruzione di una intera vita pubblica e privata costellata di successi, riconoscimenti e responsabilità anche politiche, il Tribunale del Riesame di Catanzaro riconosce finalmente la insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza che avevano fino ad oggi legittimato l’accusa a carico dell’avvocato Giancarlo Pittelli, per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa.

Onore alla onestà intellettuale e alla indipendenza di questi giudici, innanzitutto, in un contesto tutt’altro che semplice. Ma onore soprattutto a Giancarlo Pittelli, colpito dalla peggiore delle violenze possibili, cioè quella di una accusa ingiusta. Chissà quando si riuscirà finalmente a comprendere che non può accadere nulla di più drammatico a un essere umano, che essere travolto e distrutto da un’accusa infamante ed ingiusta. Mi auguro che Giancarlo Pittelli sappia trovare la forza per riprendersi quella vita che gli è stata così immotivatamente ed oltraggiosamente distrutta.

Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane

Il calvario dell'avvocato. L’arresto di Pittelli fu illegale, ma Gratteri l’ha ‘torturato’ per 3 anni e mezzo. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 7 Febbraio 2023

Giancarlo Pittelli non è un mafioso, nessun indizio lo può collegare a una cosca della ‘ndrangheta. Lo afferma un’ordinanza del tribunale del riesame di Catanzaro che annulla ogni misura cautelare nei confronti dell’avvocato calabrese. Ma allora questi tre anni di privazione della libertà? E le conferenze stampa del procuratore Gratteri sulla “zona grigia” e la cricca di professionisti che favorivano dall’esterno le cosche? Polvere al vento che fa a pezzetti l’intero processo “Rinascita Scott”, fondato proprio sul teorema della saldatura tra i boss della ‘ndrangheta, la massoneria e la rete dei professionisti.

La “borghesia mafiosa” di cui si è parlato anche di recente dopo l’arresto a Palermo di Matteo Messina Denaro. Il teorema-Gratteri è a pezzi. E del resto lo stesso processo sta languendo nell’aula bunker di Lamezia, luogo inutilmente segnalato da cartelli anche in mezzo al nulla in modo che lo conoscano anche i turisti. Che tutti sappiamo che lì si sta smontando la Calabria come un lego. Nel sogno di un procuratore. Ora qualche cosa di altro si sta smontando. Il tribunale giudicante, prima di tutto, con i suoi componenti ricusati e in parte dimissionari per palesi conflitti di interesse. Nei giorni prossimi parleremo della situazione di cui è vittima un altro avvocato imputato, Francesco Stilo, gravemente malato e ancora ai domiciliari, che viene processato nell’aula penale da una magistrata che lo sta giudicando in contemporanea anche in sede civile.

E l’ordinanza di ieri sull’avvocato Pittelli, è piombata come una vera bomba in quell’aula di Lamezia, in cui il tribunale aveva comunque già ridotto la misura cautelare nei confronti dell’ex parlamentare, trasformando la detenzione domiciliare in semplice obbligo di dimora nel comune di residenza. Ora è caduto anche quell’ultimo limite alla sua libertà. Manca solo una “coda” reggina perché l’ex parlamentare di Forza Italia possa varcare la soglia di casa. L’ordinanza della seconda sezione penale del tribunale di Catanzaro ricostruisce puntigliosamente tutto il complicato iter processuale che ha portato alla decisione di ieri e ogni comportamento dell’avvocato Pittelli. E la conclusione è netta: “Tale condotta non è qualificabile come concorso esterno in associazione mafiosa, per carenza dell’elemento oggettivo della fattispecie del nesso causale tra condotta contestata e aiuto concreto al sodalizio, richiesto indefettibilmente per la configurabilità del delitto ex art. 110-416 bis c.p.”. I giudici del tribunale del riesame non negano il fatto che a volte qualche legale che assiste imputati di reati di mafia possa aver travalicato il proprio ruolo di puro difensore.

Ma non è il caso dell’avvocato Pittelli. È il caso di legali che per esempio abbiano contribuito a falsificare il bilancio di una società. Atti concreti di sostegno. Ma qui assistiamo a una vicenda kafkiana e che era palesemente infondata da subito. Ma il legale è stato catturato in una sorta di labirinto procedurale che si sarebbe trasformato in ingiustizia se lui stesso non avesse avuto gli strumenti tecnico-giuridici e culturali per ribaltare la situazione. Per questo i suoi legali, gli avvocati Gian Domenico Caiazza, Guido Contestabile e Salvatore Staiano non si sono limitati a contestare la custodia cautelare, ma anche nell’ultima istanza del 22 novembre scorso hanno presentato ricorso per mancanza di indizi di colpevolezza. Consapevoli del fatto che, se certamente il carcere, anche quello a domicilio, è violenza e sofferenza, è importante per il loro assistito anche potersi guardare ogni giorno allo specchio e camminare a testa alta nelle strade della propria città. Anche quando la strada è lunga.

E l’ultimo anno, il 2022, quando ne erano ormai passati tre da quel dicembre 2019 del blitz e degli arresti, è stato una corsa a ostacoli nelle procedure. L’istanza di scarcerazione per mancanza di indizi dell’aprile, e una prima risposta secca e negativa del tribunale di Vibo Valentia. Poi si torna alla carica con un ricorso in appello, cui il tribunale della libertà replica con un’ordinanza talmente mal motivata che i giudici del riesame di ieri hanno avuto facile gioco a demolirla. L’avvocato Pittelli era descritto come “…non solo e non tanto un professionista cui affidare le strategie difensive, ma un consigliori, un soggetto introdotto ampiamente in ambienti irraggiungibili dalla cosca che assume un preciso ruolo di aiuto che rivendica a sé con grande abilità”. Affermazioni che si basavano sul nulla, in quanto, ormai sfogliati e caduti a terra come i petali di una margherita i primi indizi, tutti basati su una telefonata e la sua interpretazione, non era rimasto che il teorema, cioè la lettura del reato inesistente, il concorso esterno.

Per quei giudici il comportamento dell’avvocato Pittelli, che cercava di dare al suo assistito informazioni sulla deposizione di un pentito commentando in realtà solo notizie già uscite in organi di stampa, era tipico del mafioso “esterno”. Di colui cioè che “…intende fare pesare non solo le sue competenze di affermato difensore, ma anche quelle di uomo capace di accedere nelle istituzioni per ivi attingere elementi conoscitivi utili alla cosca”. Si lascia quasi intendere che sia stato avvicinato, se non corrotto, qualche magistrato. Parole allusive, nella loro evanescenza. Sarà la cassazione, in due successivi interventi, ad aprire la strada che ha portato all’ordinanza di ieri che fa crollare qualunque indizio di colpevolezza. E siamo arrivati all’ottobre del 2022, ormai sono quasi tre anni che Giancarlo Pittelli è agli arresti. La Suprema Corte interviene sull’imputazione di concorso esterno, e lo fa con cognizione di causa appellandosi alla copiosa giurisprudenza esistente da quando il reato è stato “inventato”, se pur mai collocato nel codice penale.

Ricordano i giudici come, perché il reato si realizzi, non è sufficiente che il comportamento dell’imputato si concretizzi in un aiuto “concreto, specifico, consapevole e volontario”, ma anche che esista un reale nesso di causalità tra l’azione e il risultato, e che l’agire “si configuri come condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione”. Si ritorna alla famosa telefonata e alle intuizioni dell’avvocato Pittelli sul comportamento di un “pentito” di cui parlava già la stampa. La cassazione annullava con rinvio l’ordinanza che definiva l’avvocato come “consigliori” e depurava di parecchi petali l’ipotesi dell’accusa sposata dal tribunale di Vibo. Altri mesi passano, e quando il 1 febbraio scorso è fissata l’udienza del tribunale del riesame, ecco un piccolo colpo di scena.

La procura di Nicola Gratteri deposita improvvisamente nuovi atti, la deposizione dell’ennesimo ”pentito”, un signore di nome Cortese pronto a raccontare che 13 anni fa il suo legale Pittelli lo avrebbe fatto assolvere comprando i giudici. Immediatamente una velina viene fornita a giornali locali e al Fatto, che si limita a una breve notizia. Non ci credono neanche loro. Anche perché non risulta si sia aperto un fascicolo in procura contro i fantomatici giudici corrotti. Ma è chiaro che si è cercato di mettere una zeppa tra i piedi di chi stava per decidere. Non è servito a evitare che il tribunale del riesame si pronunciasse in questo modo, lapidario: “nel caso in esame, la messa a disposizione del Pittelli non ha dispiegato alcun contributo concreto alla consorteria..”. Cioè l’avvocato tenuto prigioniero per tre anni dalla procura di Catanzaro è innocente, non è un mafioso, è una vittima.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

«Su Pittelli solo mero sospetto»: il Riesame "boccia" la tesi della Dda di Gratteri.

Giancarlo Pittelli, avvocato penalista del foro di Catanzaro, imputato nel processo "Rinascita Scott"

Il Tribunale della Libertà annulla la misura cautelare emessa a carico del penalista nell’ambito dell’inchiesta Rinascita-Scott. Per l’ex politico rimane comunque la misura decisa nell’inchiesta “Mala Pigna”. Valentina Stella su Il Dubbio il 6 febbraio 2023

«Dopo tre anni e due mesi di privazione della libertà personale, con la umiliazione feroce addirittura del carcere di Bad ‘e Carros per molti mesi, e la distruzione di una intera vita pubblica e privata costellata di successi, riconoscimenti e responsabilità anche politiche, il Tribunale del Riesame di Catanzaro riconosce finalmente la insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza che avevano fino ad oggi legittimato l’accusa a carico dell’avvocato Giancarlo Pittelli, per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa»: così l’avvocato Gian Domenico Caiazza ha annunciato la revoca della misura cautelare per l’ex parlamentare di Forza Italia, imputato nel processo "Rinascita Scott" per concorso esterno in associazione mafiosa ed altri reati.

«Onore alla onestà intellettuale ed alla indipendenza di questi giudici, innanzitutto, in un contesto tutt’altro che semplice. Ma onore soprattutto a Giancarlo Pittelli - ha proseguito il penalista che lo assiste insieme ai colleghi Salvatore Staiano e Guido Contestabile -, colpito dalla peggiore delle violenze possibili, cioè quella di una accusa ingiusta. Chissà quando si riuscirà finalmente a comprendere che non può accadere nulla di più drammatico ad un essere umano che essere travolto e distrutto da un’accusa infamante ed ingiusta. Mi auguro che Giancarlo Pittelli sappia trovare la forza per riprendersi quella vita che gli è stata così immotivatamente ed oltraggiosamente distrutta», conclude il presidente dell’Ucpi.

È stata dunque annullata l’ordinanza del Tribunale di Vibo del 14 aprile dello scorso anno relativa al rigetto dell’istanza di revoca degli arresti domiciliari nei confronti di Pittelli. Smontate pertanto le accuse della Dda di Catanzaro. La decisione di ieri arriva dopo un annullamento con rinvio ad opera della Corte Suprema di Cassazione. Spiegano i giudici che «la misura cautelare degli arresti domiciliari è stata oggetto di successiva modifica con sostituzione della misura in atto con quella non custodiale dell’obbligo di dimora, con provvedimento del Tribunale di Vibo Valentia del 19 dicembre scorso».

Permane tuttavia «l’interesse alla trattazione dell’appello», anche per «l’interesse della difesa alla verifica della sussistenza o meno dei gravi indizi di colpevolezza per una eventuale azione di riparazione per ingiusta detenzione». Punto centrale la presunta rivelazione da parte dell’ex senatore dei verbali ancora secretati del pentito Andrea Mantella.

Nel merito, il Riesame ha stabilito che, allo stato degli atti e dell’istruttoria del processo Rinascita-Scott, non emerge che Giancarlo Pittelli abbia disvelato notizie coperte da segreto in relazione ai verbali relativi alla collaborazione nel 2016 del collaboratore di giustizia vibonese Andrea Mantella. In tal senso, quindi, dagli atti non emerge che Pittelli abbia trasmesso notizie coperte da segreto al clan Mancuso.

Per il Tribunale del Riesame, infatti «difetta la gravità indiziaria della asserita prestazione di ricerca delle informazioni contra ius e dei verbali non discoverati di Andrea Mantella. Tale vulnus non viene superato dalle allegazioni della Procura, che pur dimostrative di una condotta opaca di Pittelli e difficilmente catalogabile come professionale, e della sussistenza di legami, connotati anche da una certa frequenza, con Marinaro, agente della Dia dal quale, secondo il costrutto accusatorio, avrebbe reperito le informazioni segretate, in realtà, allo stato degli atti – scrivono i giudici del Riesame – e salvo più approfondita istruttoria dibattimentale, si arrestano al mero sospetto, non potendo affermarsi che i verbali e le informazioni in ordine alla collaborazione di Mantella fossero nella disponibilità di Pittelli o che Pittelli avesse gli strumenti e si fosse effettivamente attivato, tramite le proprie conoscenze per reperirli».

Sul punto appaiono rilevanti due aspetti sottolineati dalla difesa. Innanzitutto, il tenore della conversazione del 12 settembre 2016 con Giovanni Giamborino. Difatti «Pittelli affronta il tema della collaborazione di Mantella in modo confidenziale, con frasi che non preludono al disvelamento di segreti, ma piuttosto traspare l’immagine di un avvocato che, raccolte le informazioni sulla vicenda, anche da fonti notorie come il giornale, voglia dar luce alla propria importanza nella vicenda per supportare gli assistiti, finanche millantando la possibilità di reperire notizie ancora segrete sui fatti. Ma vi è di più. Nella conversazione del Giamborino con Ceravolo del 31.10.2016 il primo afferma che nessuno ha a disposizione i verbali delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia relativamente alle parti omissate, con la conseguenza logica che tale dato non è in possesso neanche di Pittelli. Ciò è confermato anche dalla conversazione tra Pittelli e Giamborino del 19 novembre 2016, allorquando Pittelli afferma, con riferimento a Mantella: “Io non posso dire quello che dirà questo, perché non lo sappiamo ancora". Ebbene, tale frase – rimarcano i giudici del Riesame – letta nell’intero contesto intercettato, a parere del Collegio conferma che i verbali non solo non sono in possesso di Pittelli al mese di novembre 2016, ma per di più non si fa neanche minimamente cenno alla possibilità di reperirli con le illecite ingerenze ed entrature dell’avvocato».

Infine per quanto concerne «il manoscritto rinvenuto in sede di perquisizione, il Tribunale del Riesame di Catanzaro ritiene che lo stesso, quand’anche dimostrativo di una illecita fuga di notizie in favore di Pittelli, tuttavia non prova il disvelamento, in assenza di altri elementi indiziari, di notizie riservate alla cosca Mancuso da parte dell’avvocato, essendo emerso, piuttosto, anche in ragione della informativa del Marinaro, un interesse dell’imputato ad avere notizie di indagini a suo carico e non per contribuire alla sopravvivenza o rafforzamento del sodalizio».

In pratica per il Collegio «la messa a disposizione del Pittelli non ha dispiegato alcun contributo concreto alla consorteria, trattandosi appunto, per come acclarato nei precedenti provvedimenti giudiziali, di una sorta di millanteria per far considerare dai propri assistiti come cruciale il suo ruolo, alla luce delle sua conoscenze ed entrature. Tale condotta non è qualificabile come concorso esterno in associazione mafiosa, per carenza dell’elemento soggettivo della fattispecie del nesso causale tra condotta contestata e aiuto concreto al sodalizio, richiesto indefettibilmente per la configurabilità del delitto ex art 110-416bis cp». Per l'avvocato resta comunque la misura cautelare in quanto detenuto nell’ambito dell'altra inchiesta “Mala Pigna”.

La Sicilia.

Perseguitati.

Nuccia Albano.

Giuseppe Nicosia.

Antonio D’Alì.

Salvo Riina.

Mario Ciancio Sanfilippo.

Enzo Fragalà.

Paolo Ruggirello.

Antonino Giordano.

Bruno Contrada.

Raffaele Lombardo.

Totò Cuffaro.

Marcello dell’Utri.

Perseguitati.

Francesco Marcozzi, Rosalba Emiliozzi per il Messaggero il 27 giugno 2023.

Della sua vita avventurosa e difficile dice che «c'è stato sempre da remare». E lui, abruzzese che ama le traversate dell'Adriatico in pattino (si prepara per la decima, con partenza ancora da decidere), sa bene cosa significa remare duro. Del resto Gabriellino Fioravante Palestini, 77 anni, deve la sua fama al fisico. 

«Nel 1964 racconta - arrivò a Giulianova il regista di Cinecittà Paolo De Paulis che, una volta inquadratomi decise di girare alcuni suoi Caroselli, tra i quali quello in cui interpretavo l'Uomo Plasmon che incide sul marmo il nome della ditta e quel nomignolo ha segnato un po' tutta la mia storia». 

(...)

Dopo l'esperienza in Germania «venni ingaggiato come guardia del corpo nel night di un miliardario israeliano che commerciava diamanti» racconta. Poi, man mano, la sua vita si fa sempre più rarefatta. Inizia a lavorare in un giro di bische clandestine.

L'AMICIZIA Ma l'incontro, dice lui, che segna la sua esistenza, è quello negli anni Ottanta con il boss Gaspare Mutolo, che fu detenuto prima a Sulmona e poi a Teramo. Dell'amicizia si seppe quando Palestini organizzò, quattro anni fa, una mostra a Giulianova con i quadri di Mutolo. E nel libro "Ci sentivamo cavalli di razza" è Mutolo a dire: «Decisi di portare Gabriellino nei miei viaggi in Sicilia e di presentarlo ai capi mafia, seppe entrare subito nelle loro grazie, restarono tutti affascinati dai suoi modi educati e gentili».

Fu così che l'Uomo Plasmon conobbe personaggi del calibro di Stefano Bontade e Rosario Riccobono. Conferma Palestini: «Con Mutolo diventammo amici fidatissimi». E Gabriellino per recuperare il denaro guadagnato e perso nel corso della sua vita, accettò di portare un carico di droga dalla Thailandia alla Sicilia. Nell'83 venne fermato al canale di Suez in Egitto con 250 chili di eroina e 25 di morfina. Lo bloccò l'Fbi americana «che, da tempo - ricorda Palestini - aspettava la partenza di questa nave». 

Quell'uomo dal fisico possente venne condannato a 25 anni di carcere duro ma, per buona condotta, ne sconterà venti. Palestini ricorda quegli anni bui come «un'esperienza, è stata una scuola. Ho visto di tutto: i fondamentalisti che hanno ammazzato Sadat, le perquisizioni delle guardie che diventano pestaggi. A me, mai. Mi hanno sempre rispettato». 

(...) «Un giorno - rivela - arrivarono, per interrogarmi, i giudici Giovanni Falcone e Giuseppe Ayala. Feci di proposito scena muta, ma Falcone mi disse: "Fioravante, è vero che sei arrivato al top delle cose. Ma tu sei fatto di un'altra pasta". Una cosa così ti cambia la vita. Ti porta sulla retta via».

Tornato a Giulianova, la sua città, ha lavorato come gestore dell'unica pompa di carburante all'interno del porto ed ha ripreso il suo hobby preferito: remare e fare traversate dell'Adriatico in pattino. Ne ha fatte diverse. Anche quest'anno riprenderà la rotta Sebenico - Giulianova avendo ancora come compagno di avventura l'ex procuratore della Repubblica di Teramo, Gianfranco Jadecola, 77enne anche lui.

Nuccia Albano.

L'intervista all'assessora alla Famiglia Regione Siciliana Nuccia Albano. Report rai. PUNTATA DEL 29/10/2023 di Claudia Di Pasquale

L’assessora Nuccia Albano intervistata da Report conferma di essere la figlia dello storico boss Domenico Albano.

Nuccia Albano è l'assessora alla Famiglia della Regione Siciliana. Eletta deputata dell’Ars lo scorso 25 settembre 2022 nelle fila della nuova Democrazia Cristiana di Totò Cuffaro con 5.968 voti, è stata poi nominata nella giunta il 15 novembre 2022. Laureata in medicina nel 1977, è la prima donna medico legale della Sicilia. Si è occupata anche dell’autopsia di Giovanni Falcone e di quella di Libero Grassi. Solo pochi giorni fa ha inaugurato la sede della nuova Democrazia Cristiana a Borgetto, suo paese d’origine. La nostra inviata Claudia di Pasquale l'ha raggiunta a un importante evento, che si è tenuto all’istituto comprensivo statale “Sperone-Puglisi” di Palermo, a cui ha preso parte anche la commissione antimafia dell'Ars.

Le abbiamo chiesto se fosse la figlia di Domenico Albano, storico capomafia di Borgetto, che avrebbe protetto e sostenuto il bandito Salvatore Giuliano, accusato della strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947. La dottoressa Albano ha confermato la parentela, ha spiegato di essere venuta a conoscenza di questi fatti solo da grande, e ha ribadito di non potere rinnegare suo padre e la sua storia. Quest'ultima affermazione ha scatenato la reazione dell'opposizione, che ne ha chiesto le dimissioni, non perché sia figlia di un boss deceduto ormai da tempo, ma per la possibile ambiguità delle sue parole.

L'assessora Albano ha, quindi, diramato un comunicato in cui ha corretto il tiro: "Lo ribadisco con il cuore di una figlia che non è cresciuta con il proprio papà, non lo rinnego come padre, e non vedo come una figlia potrebbe rinnegarlo, ma la mia scelta di vita ha sempre preso le distanze dal fenomeno della mafia. Ho sempre lavorato all'insegna della giustizia e della trasparenza, valori che ho trasmesso ai miei figli e ai miei nipoti".

INTERVISTA A NUCCIA ALBANO di Claudia Di Pasquale

CLAUDIA DI PASQUALE Oggi è un giorno importante, c’è la commissione antimafia in questa scuola e in questo quartiere difficile. Ci spieghi perché è importante esserci.

NUCCIA ALBANO - ASSESSORE DELLA FAMIGLIA DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO REGIONE SICILIANA È importante perché le istituzioni devono avere cura prima delle periferie. Io sono solo da un anno insediata in questo assessorato ed è stato diciamo prioritario il mio interesse per questo problema.

CLAUDIA DI PASQUALE Assessore è da 1 anno che è in giunta, questa esperienza come le appare, come la sta vivendo? Lei non aveva mai fatto politica se non ho capito male.

NUCCIA ALBANO - ASSESSORE DELLA FAMIGLIA DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO REGIONE SICILIANA No no io sono medico legale di punta da oltre 40 anni ho esercitato questa professione e l’ho voluto fare per spirito di servizio perché io ancora esercito.

CLAUDIA DI PASQUALE E lei ha fatto l’autopsia di Falcone e Libero Grassi e di chi altro? Perché come dire…

NUCCIA ALBANO - ASSESSORE DELLA FAMIGLIA DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO REGIONE SICILIANA Noi abbiamo avuto la guerra di mafia, quindi non le enumero le centinaia di autopsie che ho potuto fare dal 78.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei oggi è in giunta con Cuffaro in giunta rappresenta…no?

NUCCIA ALBANO - ASSESSORE DELLA FAMIGLIA DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO REGIONE SICILIANA Sì, rappresento la Democrazia Cristiana. Io sono stata sempre una democratica cristiana perché incarna i valori in cui credo.

CLAUDIA DI PASQUALE Ho visto che avete inaugurato ora la sede della Democrazia Cristiana nuova? A Borgetto proprio, nel suo paese

NUCCIA ALBANO - ASSESSORE DELLA FAMIGLIA DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO REGIONE SICILIANA Nel mio paese, sì.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti giorni fa? Pochi giorni fa

NUCCIA ALBANO - ASSESSORE DELLA FAMIGLIA DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO REGIONE SICILIANA 8, 10 giorni addietro.

CLAUDIA DI PASQUALE Assessore io le devo fare una domanda un po’ delicata, a me risulta che lei sia figlia di tale Domenico Albano. È corretta questa informazione?

NUCCIA ALBANO - ASSESSORE DELLA FAMIGLIA DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO REGIONE SICILIANA Certamente sì, non posso rinnegare mio padre. Mio padre quando è morto io avevo 13 anni.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Domenico Albano era il boss di Borgetto ai tempi della banda di Salvatore Giuliano noto per la strage di Portella della Ginestra del primo maggio 1947 che provocò secondo fonti ufficiali 11 morti e 27 feriti gravi.

CLAUDIA DI PASQUALE Per Domenico Albano, s’intende il capomafia di Borgetto che protesse Salvatore Giuliano?

NUCCIA ALBANO - ASSESSORE DELLA FAMIGLIA DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO REGIONE SICILIANA Guardi io ero solo una bambina, di questi fatti ne sono venuta a conoscenza da grande. Non rinnego la storia di mio padre e non ho avuto nessuna refluenza né io né la mia famiglia. Quindi adesso vorrei chiudere e vi ringrazio.

CLAUDIA DI PASQUALE Non se la prenda è giusto chiarire, cioè secondo me da un punto di vista storico è anche interessante le devo dire.

NUCCIA ALBANO - ASSESSORE DELLA FAMIGLIA DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO REGIONE SICILIANA Chiuda il microfono. CLAUDIA DI PASQUALE Io sono una giornalista, non chiudo il microfono.

NUCCIA ALBANO - ASSESSORE DELLA FAMIGLIA DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO REGIONE SICILIANA Che cosa devo spiegare, volete buttare ombre sulla mia vita? Non c’è. Quindi queste sono provocazioni al solito di Report. No no no perché adesso lei deve portare questo scoop.

CLAUDIA DI PASQUALE Secondo lei non ha nessun rilievo pubblico questa cosa?

NUCCIA ALBANO - ASSESSORE DELLA FAMIGLIA DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO REGIONE SICILIANA Ha rilievo pubblico? CLAUDIA DI PASQUALE Secondo me sì

NUCCIA ALBANO - ASSESSORE DELLA FAMIGLIA DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO REGIONE SICILIANA Perché sono mafiosa?

CLAUDIA DI PASQUALE Io non ho detto assolutamente questo, le ho chiesto se lei era la figlia di Domenico Albano.

NUCCIA ALBANO - ASSESSORE DELLA FAMIGLIA DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO REGIONE SICILIANA E allora? Ok la ringrazio.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Le colpe del padre non possono e non devono ricadere su quelle dei figli o delle figlie. In questo caso l’assessora Nuccia Albano ha una vista specchiata: è stata la prima donna medico legale in Sicilia e ha realizzato l’autopsia sul corpo di Giovanni Falcone. Detto questo, però, dopo la nostra intervista è scoppiata la polemica; l’opposizione ha chiesto le sue dimissioni non tanto perché è la figlia di un boss, quanto perché ha detto di non rinnegare la storia del padre. Dopo le polemiche ha diramato una nota Nuccia Albano nella quale ha corretto leggermente il tiro; ha detto “non lo rinnego come padre, ma la mia scelta di vita è distante dalla mafia. Ho sempre lavorato all'insegna della giustizia e della trasparenza, valori che ho trasmesso ai figli e ai miei nipoti". E, a proposito di trasparenza, se chi l’ha candidata avesse raccontato questa storia nella sua completezza si sarebbe trasformata in un meraviglioso esempio di come la legalità è più forte del contesto del male.

Giuseppe Nicosia.

L'arresto spettacolarizzato con tanto di elicottero. Giuseppe Nicosia, il calvario assurdo di un sindaco innocente. Nel procedimento Exit Poll l’allora primo cittadino di Vittoria (Ragusa) veniva imputato di voto di scambio elettorale politico mafioso. Oggi dopo 6 lunghi anni l’inferno è finito, ma resta un processo inutile ed evitabilissimo di cui nessuno avverte l’esigenza di chiedere scusa, anche solo per salvaguardare la credibilità delle Procure. E nessuna di queste pagherà per gli erroricommessi. Davide Faraone su Il Riformista il 17 Ottobre 2023 

È opportuno evidenziare la consistente attività svolta dal Nicosia Giuseppe, sia in qualità di Sindaco sia in qualità di avvocato, di contrasto alla criminalità…”. E’ questo uno dei passaggi della sentenza di assoluzione nel procedimento denominato Exit Poll, nel quale a Giuseppe Nicosia, allora sindaco di Vittoria, importante Comune della provincia di Ragusa, veniva affibbiata l’imputazione di voto di scambio politico mafioso e varie imputazioni di corruzione elettorale riguardanti le elezioni comunali del 2016.

E’ meglio iniziare dall’epilogo e dalla conclusione di questa paradossale vicenda giudiziaria, per poter meglio rappresentare le ragioni del grottesco errore giudiziario, che ha avuto inizio con l’arresto di Nicosia, sindaco di Vittoria negli anni 2006-2016, con l’accusa di “voto di scambio politico mafioso” e messo ai domiciliari. Accusa gravissima ed infamante, basti pensare a quella che era stata la sua vita, la sua attività professionale e politica, prima che tutto crollasse sotto i colpi della malagiustizia. Durante il mandato amministrativo si è scontrato in più occasioni con l’imprenditoria privata gravitante attorno al sistema dei rifiuti e delle discariche, con la burocrazia regionale e con alcuni esponenti politici. Non so se abbia avuto un ruolo maggiore quest’ultimo aspetto o l’odio della criminalità nell’alimentare l’indagine che lo ha visto calunniosamente accusato da falsi collaboranti. È stato dimostrato nel processo che i primi accusatori avevano precedentemente subito “offese e torti” istituzionali e professionali, con propalazioni che sono state ritenute in sentenza non adeguatamente riscontrate ed approfondite dagli inquirenti, o addirittura sopravvenute in soccorso alle defaillance delle indagini preliminari che avevano portato al suo arresto. Il “calvario” giudiziario per 6 lunghi anni ha condizionato la sua esistenza personale, conseguentemente la storia politica amministrativa del Comune di Vittoria, che è stato sciolto per mafia.

La notte di quel 21 settembre 2017 è stato raggiunto a casa dagli uomini del Gico, muniti di giubbotti antiproiettile ed armi in pugno che circondavano la sua abitazione di villeggiatura, dove dormiva suo figlio di 5 anni, e con il rumore assordante dell’elicottero che quasi si poggiava sul tetto di casa. Il tutto semplicemente per notificargli la misura cautelare degli arresti domiciliari. Nella mattinata, dopo aver subito l’onta delle foto segnaletiche e delle impronte digitali, veniva riaccompagnato a casa e dalla TV poteva assistere alle immagini diramate dalla Procura Distrettuale di Catania. Immagini della sua casa, di un ex sindaco del PD arrestato per connivenze mafiose facevano il prevedibile scalpore e la notizia e le riprese televisive venivano diffuse su tutte le maggiori testate nazionali e locali. Il procedimento denominato dalla DDA “Exit Poll” coinvolgeva, tra gli altri, anche due ex assessori della sua giunta, suo fratello Fabio Nicosia, il sindaco eletto dopo di lui e due soggetti con precedenti penali con i quali non aveva mai avuto alcun rapporto ma i cui risalenti precedenti erano utili per “condire” l’inchiesta con l’ingrediente del sospetto della presenza mafiosa. La semplice lettura dell’ordinanza di misura cautelare rendeva evidente l’inusuale somma di errori grossolani che gli inquirenti stavano commettendo: scambi di persone, equivoci sui nominativi, gettoni di presenza per il consigliere comunale scambiati per prebende corruttive.

A questo si sommò l’assenza totale di qualsiasi riscontro alle generiche e fantasiose dichiarazioni di due collaboranti e il curioso quinto capo di imputazione ove in buona sostanza si accusava Nicosia di aver sostenuto uno dei due candidati al ballottaggio e le esigenze cautelari motivate dall’approssimarsi delle imminenti elezioni regionali che si sarebbero svolte nel mese di novembre.

Una motivazione politico-elettorale, riconducibile storicamente alle logiche del confino fascista, per giustificare l’arresto di un ex sindaco che, in quanto ex, da oltre un anno e mezzo non aveva più accesso agli uffici ed alle pratiche amministrative e non poteva né reiterare né occultare prove. L’arresto nel giro di pochi giorni veniva revocato dallo stesso GIP, firmatario dell’ordinanza cautelare, poiché in sede di interrogatorio Giuseppe Nicosia dimostrava l’assurdità dell’ipotesi accusatoria. Il Tribunale del Riesame annullava tutte le misure cautelari per inesistenza di indizi di reato. La Procura di Catania impugnava tale decisione ma la Corte di Cassazione, nel marzo 2018, confermava l’annullamento per inesistenza di indizi di reato. Conclusasi l’indagine della Procura che si vedeva costretta a stralciare e proporre l’archiviazione dell’accusa ex art 416 ter, mantenendo in vita solo ulteriori minori ipotesi di reato, Giuseppe Nicosia esternò le preoccupazioni “di restare nel mirino” in considerazione della sovraesposizione mediatica alla quale la conferenza stampa della Procura lo aveva esposto.

Erano infatti stati diffusi stralci dell’indagine, per cui qualunque aspirante collaborante avrebbe potuto tranquillamente attingere al materiale diffuso in conferenza semplicemente leggendo i giornali e ripetere il canovaccio di generiche accuse. Puntualmente la fosca previsione si avverò. Nell’agosto 2018 perveniva un nuovo inedito avviso di “riformulazione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, emesso il 31 maggio 2018, a seguito delle dichiarazioni rese dal cdg Melfi Emanuele” con il quale veniva riproposto un nuovo capo di imputazione ex art. 416 ter a carico dell’esponente seppur con un’esposizione dei fatti modificata. Magicamente saltava fuori un nuovo collaborante che ripeteva a pappagallo agli inquirenti, riportandole in modo estremamente maldestro, le circostanze praticamente lette sui giornali. L’indagine smontata dalla Cassazione riprendeva così vigore. Tutto ciò irrobustiva e giustificava la relazione prefettizia per lo scioglimento del Comune, che perveniva nell’agosto 2018 e che poggiava quasi per intero sulle indagini del procedimento “Exit Poll”.

L’istruttoria dibattimentale dimostrava che i due primigeni collaboranti non avevano in realtà nulla di serio da riferire nei confronti di Nicosia. Che nessuno aveva proceduto ad alcun riscontro effettivo e che tra le circa 100.000 intercettazioni non ve ne era neanche una tra Giuseppe Nicosia ed interlocutori anche semplicemente sospettati di mafiosità. Che nonostante le perquisizioni, nelle case e nelle sedi politiche, non era stata rinvenuta nessuna prova utile per l’accusa. Che il neo pentito che aveva prestato “soccorso istruttorio” alla Procura era del tutto mendace e privo di riscontri, che le ipotesi accusatorie, anche quelle minori, risultavano illegittime ed inammissibili decine di migliaia di intercettazioni. L’istruttoria dibattimentale era così evidentemente favorevole per le ragioni dell’ingiustamente incolpato, che il PM nelle sue conclusioni ne chiedeva egli stesso l’assoluzione con la premessa che nel procedimento Exit Poll vi era stata “un’eccessiva partecipazione emotiva di tutte le parti”.

Purtroppo, come spesso accade per gli errori giudiziari, a fronte della grande risonanza mediatica nazionale che ha avuto il caso Nicosia, ancora oggi se avviamo un motore di ricerca vediamo scorrere le immagini dei servizi Rai, Sky, Mediaset e delle maggiori testate giornalistiche nazionali, la notizia dell’assoluzione è stata recepita e diffusa solo da qualche giornalista di buona volontà. Nonostante l’esito ampiamente positivo di questo assurdo caso di malagiustizia resta un sapore amaro e vari interrogativi per le modalità, le anomalie o eccentricità, che hanno caratterizzato l‘attività persecutoria nei confronti di Giuseppe Nicosia e che vanno sottoposti all’attenzione pubblica perché concreto è il rischio che tali anomalie giudiziarie possano continuarsi a perpetrare in uno Stato democratico. La somma dei grossolani errori commessi ha generato arresti illegittimi, diffusione di immagini denigratorie, probabili traumi ai figli di Nicosia e uno stigma di mafiosità su di lui, sui suoi familiari e sulla storia amministrativa della città. Un processo inutile ed evitabilissimo, ma nessuno avverte l’esigenza di chiedere scusa, anche solo per salvaguardare la credibilità delle Procure e nessuna pagherà per gli errori commessi. Davide Faraone

Antonio D’Alì.

Il caso dell'ex senatore. Il dramma di Antonio D’Alì, a 72 anni ingiustamente in carcere. È in prigione per concorso esterno, il reato che non esiste, dopo essere stato assolto in primo grado e in appello. Se qualcuno non interviene dovrà restare in cella per altri sei anni. Tutto ciò è illegale. Piero Sansonetti su L'Unità il 18 Luglio 2023 

Quando è in discussione un provvedimento che non ti piace, e non hai voglia di accendere la polemica, c’è una risposta a ogni domanda e che funziona sempre: “non mi sembra questa la priorità”. Frase che viene utilizzata in egual misura dalla sinistra e dalla destra. Stavolta è stata la premier in persona ad usarla per tacitare un suo ministro. Il ministro in questione è Carlo Nordio, Giustizia, il quale ha proposto di rimodulare il cosiddetto reato di “concorso esterno in associazione mafiosa”.

Nordio vorrebbe rimodularlo per una ragione di semplice ragionevolezza. Il reato in questione non esiste, nel senso che non è scritto nel codice penale. Ed è irragionevole e sgrammaticato nella sua formulazione. Però viene applicato dalla magistratura ai danni di alcune decine di persone (di solito piuttosto note). Il ministro sostiene che è una anomalia indagare e poi addirittura, talvolta – anche se raramente – condannare delle persone per un reato che non esiste. E che dunque se questo reato deve esistere è bene scriverlo, portare lo scritto in Parlamento e farlo approvare. Ineccepibile. Però, siccome si è scatenato il putiferio contro Nordio, sospettato addirittura di garantismo, la premier ha preferito scaricarlo con questa idea che “non è una questione prioritaria”. Dipende da quale punto di vista.

Per esempio c’è un ex senatore della Repubblica che da diversi mesi vive in una cella di Rebibbia perché condannato per il reato, appunto, di concorso esterno. Solo per questo reato. Per lui, credo, la questione è prioritaria. Se il reato fosse rimodulato, come dice Nordio, il senatore uscirebbe dal carcere. Se non sarà rimodulato resterà in prigione fino alla vigilia degli ottant’anni. C’è di più, il senatore è stato messo sotto accusa una quindicina d’anni fa, ha subìto un processo ed è stato assolto, i Pm hanno fatto ricorso in appello ma è stato assolto di nuovo, allora i Pm hanno fatto ricorso ancora in Cassazione e la Cassazione ha ordinato che si rifacesse il processo d’appello e lì è stato condannato.

Statisticamente è rarissimo che la Cassazione dia un parere sfavorevole a una doppia assoluzione. Il senatore è stato condannato in violazione dell’articolo 1 del Codice Penale e dell’articolo 533 del codice di procedura. L’articolo uno del codice penale dice che nessuno può essere condannato per un reato che non è scritto in questo codice (e il concorso esterno non è scritto); l’articolo 533 del Cpp dice che si può condannare solo in assenza di ogni ragionevole dubbio (e due sentenze di assoluzione dovrebbero costituire un dubbio molto molto ragionevole). Poi c’è il principio antico del “non bis in idem” (che vuol dire che nessuno può essere processato due volte per lo stesso reato, e nel caso di questo senatore è stato violato anche questo principio).

Si chiama Antonio D’Alì questo senatore. È di Forza Italia. Potete immaginare quanta poca simpatia può avere questo giornale per un vecchio e convinto militante di Forza Italia. Ma il diritto è il diritto. E in assenza di diritto si cade nella inciviltà. Si diventa barbari. Ed è abbastanza incivile che nessuna voce politica si levi per difendere un uomo di 72 anni ingiustamente in carcere.

Piero Sansonetti 18 Luglio 2023

Salvo Riina.

(ANSA il 10 maggio 2023) Il Consiglio comunale di Corleone ha approvato nel pomeriggio un ordine del giorno, presentato dal sindaco Nicolò Nicolosi e dalla giunta, con cui auspica l'allontanamento del figlio di Totò Riina, Giuseppe Salvatore, dalla città, dove era tornato lo scorso 4 aprile dopo una lunga assenza per detenzione e per altre ragioni. Tra le motivazioni della richiesta, il fatto che "Salvuccio" Riina non ha mai preso ufficialmente le distanze da Cosa nostra. 

"Con l'ordine del giorno approvato all'unanimità - dice il sindaco - vogliamo nuovamente lanciare un messaggio forte e chiaro: Corleone vuole smarcarsi definitivamente da un passato di mafia e malaffare, anche allontanando concittadini sgraditi, come 'Salvuccio' Riina, che non ha mai preso le distanze dalle azioni spregevoli del padre Totò. Il danno d'immagine che la sua famiglia ha provocato alla città è grave e difficile da recuperare. Per fortuna c'è tanta gente che si adopera ogni giorno per il riscatto di Corleone, con il prezioso contributo delle forze dell'ordine, della scuola e della gran parte dei cittadini onesti".

"Il rispetto delle regole, le buone pratiche amministrative, gli spazi di libertà conquistati sono ormai patrimonio della comunità corleonese, che non vogliamo possano essere compressi da presenze indesiderate. Ed è per questo che, sicuri di interpretare il desiderio di gran parte della cittadinanza, chiediamo il suo celere allontanamento da Corleone", conclude il sindaco Nicolosi.

Da ansa.it l'11 maggio 2023. "Mentre a Corleone si dibattono discorsi senza senso, io lontano da casa e da discorsi inesistenti, continuo a conseguire nuovi successi. Da poco ho firmato un nuovo contratto di cessione dei diritti di licenza biografici del mio libro Riina Family Life in lingua Ungherese a breve uscita. Un grande saluto Salvo Riina". 

Così scrive Salvo Riina, figlio del boss Totò Riina, sulla pagina ufficiale su Facebook alle richieste del consiglio comunale e del sindaco di allontanarlo da Corleone. Il post ha numerosi commenti e tanti like.

Estratto dell’articolo di Salvo Palazzolo per “la Repubblica” il 12 aprile 2023.

[…] Salvo Riina, il terzogenito del capo dei capi di Cosa nostra, è tornato in paese. «Ma con lei non parlo — mette subito in chiaro — si è sempre comportato male con noi». Le domande arrivano lo stesso, ma lui non risponde e si infila dentro casa.

 Salvo Riina continua a conservare molti segreti di famiglia: nel 2008 ha finito di scontare una condanna a 8 anni per associazione mafiosa, un’indagine della squadra mobile coordinata dal pm Maurizio de Lucia (oggi procuratore capo di Palermo) scoprì che il rampollo stava riorganizzando una cosca e intanto intratteneva tante relazioni con la cosiddetta “Palermo bene”.

Dopo il carcere, ha fatto un periodo di sorveglianza speciale, è stato anche in una casa di lavoro: nel 2017, quando morì il padre, la procura di Palermo scrisse che aveva ancora una «persistente pericolosità sociale». Due anni dopo, Riina junior è tornato del tutto libero, senza alcun obbligo. Ma è rimasto sempre lontano da Corleone. A Vasto, in Abruzzo, aveva anche avviato un’attività di vendita di fiori. Ora, invece, ha deciso di tornare a Corleone. E sembra che voglia restarci, perché ha chiesto all’ufficio anagrafe del Comune di spostare la residenza nell’abitazione della madre, Ninetta Bagarella. A Corleone vive anche la più piccola di casa, Lucia, con il marito.

Cosa farà adesso Salvo Riina in Sicilia? Ufficialmente, come recita la sua pagina Facebook, fa lo scrittore. Il suo “Riina family life” è il racconto di una gran bella famiglia: «Quello che sono diventato lo devo ai miei genitori che non mi hanno fatto mancare nulla», scrive. Un libro pieno di silenzi e omissioni. Sul padre e pure sul fratello Giovanni, che sta scontando l’ergastolo per alcuni omicidi.

[…] Ma è soprattutto uno il segreto che conosce il figlio di Riina. […] Chissà se adesso il ritorno di Salvo Riina a Corleone fa paura a qualcuno.

IL PERSONAGGIO. La nuova vita corleonese di Riina junior, il figlio del boss torna nella casa di famiglia. È stato mafioso, segretario di una coop sociale, collaboratore di un sacerdote e scrittore: il terzogenito del capo dei capi di Cosa nostra custodisce ancora i segreti di famiglia. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 12 aprile 2023.

È stato il figlio di un superlatitante; poi, lui stesso un mafioso, anzi di più, un capo che voleva riorganizzare la cosca di Corleone spendendo il nome del padre. Dopo il carcere, ha vissuto fra il Veneto e l’Abruzzo, facendo il segretario di una cooperativa sociale, il collaboratore di un sacerdote che recupera ragazzi a rischio, e infine lo scrittore. Salvo Riina, il terzogenito del capo dei capi di Cosa nostra ha vissuto già tante vite. E, adesso, vuole ricominciarne una nuova. Nella sua Corleone. 

Formalmente, nulla glielo impedisce. Dal 2019 ha finito di scontare tutti gli obblighi che aveva nei confronti della giustizia. In realtà, sarebbe potuto tornare del tutto libero già due anni prima, ma la squadra mobile di Venezia allora diretta da Alessandro Giuliano, il figlio di Boris, ucciso per ordine dei boss Corleonesi nel 1979, lo sorprese a incontrare pregiudicati dai quali avrebbe acquistato dosi di cocaina. Così, Salvo Riina finì in una casa di lavoro. 

Fino ad allora, è stato sempre un uomo dalla doppia vita. All’inizio degli anni Duemila, fingeva di vivere tranquillamente a Corleone, in realtà tesseva tante inquietanti relazioni per riorganizzare Cosa nostra. Ed esaltava la forza dei suoi parenti: «In Sicilia, in tutta Italia, chi sono quelli che hanno vinto sempre? I Corleonesi», diceva a un amico. E sulle stragi Falcone e Borsellino sussurrava: «Un colonnello deve sempre decidere lui e avere sempre la responsabilità lui. Deve pigliare una decisione, e la decisione fu quella: “Abbattiamoli” E sono stati abbattuti». 

Chi è oggi Salvo Riina? Scriveva l’anno scorso: «In questo lungo e duro periodo di sofferenza e lontananza non sono stato fermo, ho lavorato per ottenere quello che vi presento oggi: è in uscita a breve la traduzione in lingua inglese della mia biografia “Riina family life”. Sarà in vendita negli Usa, Canada e Regno Unito». E di seguito migliaia di like e post dei suoi fan, come fosse una popstar. Sui social, lui si lancia spesso in citazioni. Da Alda Merini («C’è un posto nel mondo dove il cuore batte forte») al Mahatma Gandhi («Scopri chi sei e non avere paura di esserlo»). Ha scritto pure un post per invitare i suoi fans a diffidare dalle imitazioni: «Sono stato informato — dice — che ci sono account falsi che fingono di essere io o persone che lavorano con me. Non ho alcun account privato o piattaforme» . E via con altri commenti appassionati: «Non si rinnega ma il sangue», scrive un ammiratore. «Rispetto da parte mia per tutta la famiglia», dice un altro. Salvo Riina ringrazia tutti e promette novità letterarie. Chi è davvero oggi Salvo Riina? I segreti di famiglia sono soprattutto quelli che riguardano il tesoro mai ritrovato: «Se recupero pure un terzo di quello che ho, sono sempre ricco», diceva il capo dei capi di Cosa nostra intercettato in carcere dai pm dell’inchiesta “Trattativa Stato-mafia”. 

I magistrati di Palermo non hanno mai smesso di cercare il tesoro dei Riina: un’indagine dei carabinieri del Ros ha portato alla confisca di alcune quote di società che si occupavano di ricambi d’auto in Puglia e di conti correnti, tutto riconducibile a Tony Ciavarello, sposato con una delle figlie di Riina, Maria Concetta. 

La coppia non vive più da tempo a Corleone. In paese è tornata invece la più piccola di casa, Lucia, con il marito Vincenzo Bellomo: nel 2020, avevano provato a gestire un bistrò a Parigi, ma furono travolti dalle polemiche per quel locale intitolato “Corleone by Lucia Riina”. Dopo le durissime dichiarazioni del sindaco di Corleone, la giovane disse: «Non ho cercato di provocare né di offendere nessuno, volevo soltanto valorizzare la mia identità di artista- pittrice» . In realtà, i Riina non hanno mai smesso di fare gesti provocatori: in un’altra occasione, Lucia aveva chiesto al Comune il bonus bebè previsto per le famiglie con reddito basso. Bonus che non venne concesso dalla commissione che reggeva il Comune dopo lo scioglimento per mafia. 

Chissà, forse, davvero Salvo Riina sta preparando un nuovo libro. Come aveva fatto intendere anni fa. Per rilanciare le verità di famiglia.  La Repubblica Palermo, 12 aprile 2023

Mario Ciancio Sanfilippo.

Chiesti 12 anni per Ciancio. Ma ha appena 91 anni...Mario Ciancio Sanfilippo, 91 anni, rischia 12 anni di carcere. L’inchiesta verte su presunti rapporti dell’imputato, editore del quotidiano “La Sicilia”, con esponenti di spicco di Cosa nostra etnea. Giuseppe Bonaccorsi su Il Dubbio il 29 marzo 2023

Sta facendo discutere a Catania la richiesta di condanna a 12 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa del patron del quotidiano “La Sicilia”, Mario Ciancio Sanfilippo. La città dell’Etna si è divisa tra coloro che ritengono la richiesta consona a quelle che sono le accuse contestate dalla procura nel corso degli anni all'ex direttore ed oggi editore del più grande giornale del capoluogo ionico ed ex presidente della Fieg e coloro che, invece, ritengono priva di logica la richiesta di una condanna a 12 anni per concorso esterno e per di più per un imputato che di anni ne ha 91.

Lunedì si è tenuta in Tribunale la nuova udienza del processo riservata alle parti civili. Davanti ai giudici c'è stata la ricostruzione dell’episodio denunciato dai fratelli del commissario Beppe Montana, che fa riferimento al noto necrologio non pubblicato dal giornale. L’episodio si verificò un giorno dopo il brutale assassinio del commissario di polizia avvenuto a Palermo a metà degli anni ottanta. I fratelli della vittima sono assistiti dall’avvocato Goffredo D’Antona che ha preso la parola in Aula. Successivamente è intervenuto il penalista Dario Pastore per l’Ordine dei giornalisti di Sicilia e l’associazione Libera con l’avvocato Enza Rando. Il legale del Comune di Catania, inserito tra le parti civili del processo, non si è presentato. Pochi giorni fa la richiesta della condanna di Mario Ciancio Sanfilippo e la confisca dei beni dissequestrati meno di due anni fa - compresi 40 milioni di euro in conti bancari - è stata avanzata dalla procura di Catania, rappresentata in aula dai pm Agata Santonocito e Antonino Fanara, a conclusione della requisitoria. L’inchiesta verte su presunti rapporti di Ciancio con esponenti di spicco di Cosa nostra etnea.

Nel corso della requisitoria il pm Fanara ha detto che c'era «sicuramente un rapporto sinallagmatico instaurato tra l'odierno indagato e gli esponenti di Cosa Nostra». L’ipotesi è stata sempre contestata dall’imprenditore e dai suoi legali, gli avvocati Giulia Bongiorno, Francesco Colotti e Carmelo Peluso, che in questi lunghi anni di processo hanno difeso l'imputato. Secco anche il commento dello stesso Ciancio Sanfilippo alla richiesta dei pm. «Nonostante le gravi accuse mosse nei miei confronti siano state bocciate in più occasioni, arriva oggi l’ennesima richiesta di condanna. Non credo faccia notizia. Forse la vera notizia è che dopo questi ingiusti attacchi continuo a godere di ottima salute, e non è affatto scontato. Attendo come sempre fiducioso l’esito del processo, con la serenità di chi sa di avere sempre agito con trasparenza correttezza e onestà».

Nell’ambito della stessa inchiesta, il 22 gennaio 2022, con decisione della Cassazione che ha ritenuto inammissibile il ricorso della Procura generale, è diventato definitivo il dissequestro dei beni stimati in 150 milioni di euro riconducibili a Ciancio Sanfilippo che era stato disposto dalla Corte d’appello di Catania. Tra questi beni anche il quotidiano “La Sicilia”, che per due anni è stato in amministrazione giudiziaria. Si tratta degli stessi beni per cui adesso la Procura ha chiesto la confisca al Tribunale in sede di requisitoria.

Enzo Fragalà.

Enzo Fragalà, un martire della toga: «Fu ucciso perché avvocato». A 13 anni dall’omicidio diventano definitive le condanne per gli assassini del legale, punito per non essersi piegato alle logiche mafiose e averle combattute con la sua professione. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio l’8 marzo 2023

Definire un martire dell’avvocatura Enzo Fragalà non è affatto azzardato. La Corte di Cassazione, con il rigetto dei ricorsi di tre dei quattro imputati (Antonino Abbate, Francesco Arcuri e Salvatore Ingrassia), ha confermato le condanne per gli assassini dell’avvocato palermitano. Il noto penalista, ex parlamentare di Alleanza nazionale e docente universitario, fu aggredito il 23 febbraio 2010 sotto il proprio studio legale, a Palermo, a pochi passi dal Tribunale. Morì tre giorni dopo. Fragalà, come è emerso nei tre gradi di giudizio, venne punito per l’impegno contro la mafia. Dentro e fuori dalle aule giudiziarie, non si sottrasse mai dal dare un’opportunità – la più importante – ai suoi assistititi: recidere i contatti con la mafia e passare dalla parte della giustizia. Ecco perché cosa nostra lo etichettò come una sorta di “sbirro” in toga.

I giudici della Prima sezione penale della Cassazione hanno messo, dopo tredici anni, la parola fine ad una vicenda che ha scosso non solo l’avvocatura palermitana per l’efferatezza dell’atto che ha provocato la morte di Enzo Fragalà, per il contesto in cui è maturato l’omicidio e per il movente. Il sostituto procuratore generale della Suprema Corte, Giuseppina Casella, ha usato parole molto chiare martedì, nel corso dell’udienza in cui ha chiesto la conferma delle condanne degli imputati. «Rendo omaggio in questo luogo all’avvocato Fragalà – ha detto -, vittima di un’aggressione brutale in quanto avvocato, ammazzato perché avvocato».

Il Pg Casella nella requisitoria aveva chiesto di rigettare i ricorsi presentati dalle difese degli imputati, Antonino Abbate, Francesco Arcuri e Salvatore Ingrassia, già condannati in primo grado e in appello. Il quarto imputato, Antonino Siragusa, pentito, è stato condannato in appello a quattordici anni e non ha presentato ricorso. È stata, dunque, confermata, la sentenza del 28 marzo di un anno fa della Corte d’Assise d’Appello di Palermo con la condanna a 30 anni per Antonino Abbate, ritenuto l’esecutore materiale del pestaggio a colpi di bastone, a 24 anni per Francesco Arcuri, boss del Borgo Vecchio, considerato il mandante, e a 22 anni per Salvatore Ingrassia, che fece parte del commando fornendo supporto logistico.

«La principale critica mossa in questa sede dai tre imputati – ha rilevato il Pg Casella in aula – riguarda le dichiarazioni rese da Antonino Siragusa, condannato ormai in via definitiva: un fil rouge che collega i tre ricorsi. I giudici di merito su questo punto hanno escluso qualsiasi inquinamento delle dichiarazioni e intenti calunniatori. Il contesto mafioso in cui è maturato questo delitto è lo stesso degli imputati e proprio lì è maturato il movente: occorreva impartire una lezione a Fragalà, che, secondo la loro visione, non faceva l’avvocato ma lo “sbirro”».

La sentenza della Cassazione che mette la parola fine alla vicenda giudiziaria mitiga fino ad un certo punto il dolore per la scomparsa di «un eccellente avvocato e un padre amorevole». La figlia di Enzo Fragalà, Marzia, evidenzia che «il vuoto lasciato dalla morte di mio padre è enorme». «Quando è stato ucciso - dice al Dubbio l’avvocata Marzia Fragalà - dovevo ancora abilitarmi, avevo da poco fatto l’esame. Purtroppo, mio padre non è riuscito ad assistere alla mia proclamazione. Sono stati anni molto lunghi e molto difficili. Per arrivare alla sentenza della Corte di Cassazione abbiamo dovuto combattere e sopportare tante cose». A questo punto cresce la commozione di Marzia Fragalà: «Volevano uccidere mio padre due volte. Materialmente, con i colpi che gli hanno inflitto in maniera mortale, ma anche moralmente, attribuendogli dei comportamenti che non la rappresentavano, così come usa fare la mafia quando compie dei delitti così efferati. La mia famiglia non si è mai piegata, non si è mai arresa. Anzi, abbiamo combattuto ancora di più e preteso la verità fino alla fine. La sentenza della Cassazione è un grande risultato. La Suprema Corte ha dichiarato la verità sia giudiziaria che dei fatti rispetto a quanto successo. Mio padre è stato ucciso dalla mafia perché avvocato e perché esercitava la professione in maniera libera. Era un uomo brillante e coraggioso, che non si lasciava influenzare da nessuno, men che meno dalla mafia. Era fiero di indossare la toga. Il Procuratore generale della Cassazione ha sottolineato, da magistrato, il ruolo importante di un avvocato che ha sempre svolto la professione con passione e dedizione. Un avvocato morto perché tale. Un avvocato con la “a” maiuscola».

La presidente del Consiglio nazionale forense, Maria Masi, sottolinea il risultato raggiunto con la sentenza dei giudici di piazza Cavour. «Apprendiamo con soddisfazione – commenta - la conferma delle condanne da parte della prima sezione della Corte di Cassazione in merito all’omicidio dell’avvocato palermitano Enzo Fragalà e con particolare piacere apprezziamo l’omaggio che il sostituto procuratore generale Giuseppina Casella ha voluto rendere a Fragalà “ammazzato in quanto avvocato”. Un omaggio che accentua e valorizza la funzione e il ruolo dell’avvocato».

Il pensiero del presidente del Coa di Palermo, Dario Greco, va a quel maledetto 23 febbraio 2010. «Tutta l’avvocatura palermitana – afferma - rimase sgomenta nell’apprendere della brutale aggressione nei confronti del collega Enzo Fragalà. Furono giorni terribili, dalla veglia in ospedale a quella al Palazzo di Giustizia, attorno al feretro. Con la sentenza della Corte di Cassazione, che ha confermato le condanne già comminate in appello, si è chiusa la vicenda giudiziaria. Ma soprattutto è stato definitivamente accertato che Enzo Fragalà è stato assassinato perché era un vero avvocato. Enzo Fragalà è un martire della toga, che ha pagato con la sua vita la difesa dei valori dell’indipendenza e dell’autonomia dell’avvocato e della sua missione difensiva. L’avvocatura palermitana non potrà mai dimenticare il suo sacrificio».

Paolo Ruggirello.

La procura chiede 20 anni per mafia ad un ex deputato siciliano del PD. Stefano Baudino su L'Indipendente il 7 marzo 2023.

La Procura di Trapani ha chiesto una condanna a 20 anni di carcere per Paolo Ruggirello, ex deputato regionale del Partito Democratico, per mafia e scambio elettorale politico-mafioso. Secondo i pm, Ruggirello sarebbe stato il punto di riferimento delle famiglie mafiose nell’ambito della politica regionale e avrebbe contribuito a far ottenere appalti agli uomini delle cosche, incontrando più volte il potente boss mafioso Pietro Virga (figlio del più celebre Vincenzo Virga, alleato dei corleonesi nella seconda guerra di mafia, condannato all’ergastolo per l’omicidio dell’agente Giuseppe Montalto e per la strage di Pizzolungo).

Tutto è nato dall’inchiesta “Scrigno” del nucleo investigativo del comando provinciale dei Carabinieri di Trapani, coordinata dalla procura distrettuale di Palermo, in cui, oltre alla riorganizzazione delle cosche, sono emersi gli intrecci tra mafia, politica e imprenditoria nella provincia di Trapani. Il processo ha già partorito un importante sentenza di appello in abbreviato: tra gli altri, sono stati condannati diversi “uomini d’onore” della famiglia di Trapani, come il capomafia di Paceco Carmelo Salerno (12 anni), lo stesso Pietro Virga (19 anni e 8 mesi) e suo fratello Francesco (16 anni e 8 mesi), ma anche l’ex consigliere provinciale del Psi di Trapani Franco Orlando (12 anni e 8 mesi).

Ruggirello – ha sostenuto nella sua requisitoria il pubblico ministero Gianluca De Leo – si è mostrato perfettamente a conoscenza delle regole, delle dinamiche e delle competenze territoriali di Cosa nostra, pronto a fare mercimonio della propria attività politica, utilizzando somme pubbliche per distribuire incarichi e consulenze”. Il pm ha sottolineato per esempio che nel 2014, in occasione dell’elezione di Giuseppe Castiglione (elemento del Pd) a sindaco di Campobello di Mazara, appoggiato da Ruggirello, quest’ultimo in una telefonata con il boss Salerno – che a lui si rivolse per delineare alleanze e candidature – diceva “E’ salito il nostro sindaco”; ma anche che Ruggirello si sarebbe mosso in prima persona con l’obiettivo di affidare al figlio di Salerno il posto di addetto alla sicurezza all’Assemblea regionale siciliana. Ruggirello avrebbe poi intrattenuto solidi legami anche con Lillo Giambalvo, di Castelvetrano, soggetto condannato per estorsione e nipote dell’importante boss Vincenzo La Cascia, e con il mafioso Filippo Sammartano, di Campobello di Mazara: due soggetti che, ha ricordato il pm, numerose inchieste avrebbero inquadrato come molto vicini a Matteo Messina Denaro.

L’incontro con Pietro Virga e un altro esponente della sua cosca mafiosa, Pietro Cusenza, avvenuto prima delle elezioni regionali del 2017, era già stato confermato nel 2019 dallo stesso Ruggirello: “Effettivamente ho incontrato Cusenza e Virga a casa di Carmelo Salerno – ha detto l’ex deputato regionale a colloquio con i pm di Palermo -. Nel tragitto, Salerno mi ha detto che mi doveva fare conoscere una persona che poteva aiutarmi per la campagna elettorale per le regionali. Mi parlò di Cusenza, che avevo già incontrato ad aprile-maggio preso il distributore Ip di Paceco. A casa di Salerno vidi arrivare Cusenza con un’altra persona, che poi ho appreso essere Pietro Virga”. Insomma, Ruggirello ha sostenuto di non aver appreso prima dell’incontro l’identità del personaggio che si apprestava a conoscere: “Quando capii che era Virga era troppo tardi per allontanarmi. Mi chiese 50 mila euro per affrontare la campagna elettorale, mi ricordo che promise 1000 voti dietro il pagamento di 50 mila euro. E io accettai, ma solo per potermi allontanare il più presto possibile da quel luogo”. La sentenza è prevista per il prossimo 30 marzo. [di Stefano Baudino]

Antonino Giordano.

Quattro anni al 41bis ma era innocente: ieri a Caltanissetta liberato l’ennesima vittima di errore giudiziario. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 2 Marzo 2023

Quattro anni in carcere per associazione mafiosa al 41bis. Carcere duro. Isolamento. Poi grazie all’intervento del difensore, avvocato Stefano Giordano e l’avvocato Valerio Vianello, arriva l’assoluzione. Proprio oggi la Corte d’Appello di Caltanissetta ha accolto oggi l’istanza di revisione presentata dall’Avv. Stefano Giordano nell’interesse del Sig. Antonino Giordano (omonimo, ma non parente del difensore).

Antonino Giordano, imprenditore edile di Misilmeri, era stato condannato in via definitiva nel 2003 dalla Corte d’Appello di Palermo alla pena di quattro anni di reclusione per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, sull’assunto che – per il tramite dell’impresa edilizia di cui era titolare – Antonino Giordano si fosse avvalso del vincolo associativo per acquisire il controllo di attività economiche e, in particolare, di appalti pubblici.

La principale fonte di prova a carico di Antonino Giordano era stata ravvisata, dai Giudicanti, nell’intercettazione ambientale di una conversazione che si sarebbe svolta nel marzo 1999 fra un noto esponente di Cosa Nostra e, appunto, Antonino Giordano, da cui si sarebbe evinto lo stretto collegamento fra l’interlocutore del boss e la consorteria mafiosa.

A seguito di indagini difensive svolte nei mesi scorsi dall’Avv. Stefano Giordano, è tuttavia emerso che l’interlocutore del boss mafioso, nel corso della citata conversazione, non era lui. “Si è rivelato essere soggetto diverso da Antonino Giordano. Diversità che è stata confermata da una perizia fonica disposta dalla Corte nissena nell’àmbito del giudizio di revisione”, ci specifica l’avvocato Giordano. Il Tribunale ha escluso che la voce dell’interlocutore del boss mafioso potesse essere riconducibile ad Antonino Giordano.

Da ciò, la pronuncia odierna di assoluzione da parte della Corte di Caltanissetta, che pone termine a un’ingiustizia protrattasi per oltre vent’anni.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Bruno Contrada.

A giugno la Cassazione deciderà sul risarcimento per l’ingiusta detenzione. Depistaggio Borsellino, Bruno Contrada: “142 testimoni tra prefetti, agenti e carabinieri ‘inattendibili’, pm volevano il fruttivendolo”. Paolo Comi su Il Riformista il 10 Aprile 2023

Il mio errore, se mai ce ne fosse stato uno, è stato quello di essere sempre in prima linea”, afferma Bruno Contrada, 92 anni, ex capo della squadra mobile della questura del capoluogo siciliano. Condannato in via definitiva nel 2007 a dieci anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, quasi tutti scontati in regime detentivo, nel 2015 la Cedu ha annullato la sentenza ritenendo il reato frutto di una interpretazione giurisprudenziale. Contrada, in particolare, era accusato di avere avuto rapporti con i mandanti ed esecutori della strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992.

Dottor Contrada, ha letto la sentenza sul depistaggio per le indagini sulla morte di Borsellino?

No. ho letto solo qualche articolo.

I giudici di Caltanissetta hanno scritto che lei era “il diversivo giusto” dopo essere caduto in disgrazia per le confidenze rivelate da Gaspare Mutolo a Borsellino circa una sua contiguità con l’organizzazione mafiosa, da collocare immediatamente sulla scena del crimine subito dopo l’esplosione.

Io sono stato trascinato mio malgrado in questa vicenda.

La Cassazione il prossimo giugno si dovrà esprimere per l’ingiusta detenzione che ha patito.

È la terza volta che la Cassazione torna su questa storia, contraddistinta da innumerevoli cavilli giuridici. Spero di finirla, non voglio più avere a che fare con le aule di giustizia.

I magistrati si sono accaniti nei suoi confronti?

Bisognerebbe chiederlo a loro.

Lei avrà una risposta…

E la tengo per me. Però voglio dirle una cosa.

Prego.

Durante il processo a mio carico, 142 testimoni, fra cui cinque capi della Polizia, una ventina fra prefetti e questori, 4 alti generali dei carabinieri, hanno testimoniato a mio favore. Per i magistrati si è trattato di testimonianze inattendibili e non utilizzabili perché inquinate dai pregressi rapporti professionali avuti con me. La procura chiese per alcuni anche la trasmissione degli atti per una eventuale azione penale per falsa testimonianza. Chi avrei dovuto chiamare per testimoniare sulla correttezza del mio operato? Il fruttivendolo sotto casa?

Lei, però, non ha mai mollato.

Nonostante tutto resto sempre un servitore dello Stato.

Venne arrestato alla vigilia di Natale del 1992.

Sono 30 anni che conduco una battaglia impari. Sono andato anche alla Corte di Strasburgo. Quanto indicato sulla copertina del fascicolo mi metteva paura: “Contrada contro Italia”.

Come ci sente ad affrontare una vicenda giudiziaria di questo genere?

È di una complessità tale che è difficile capire anche da dove cominciare. Ci sono storie assurde. I magistrati mi hanno accusato di ogni nefandezza. Oggi, comunque, nessun sarebbe in grado comprendere cosa è successo. Chi ha tempo per consultare migliaia di pagine di atti che coprono decenni di storia del Paese? A chi interessa la storia di un modesto funzionario di polizia ? Quante cose sono successe in trenta anni?

Hanno scritto che era un agente segreto.

Ma quale agente segreto. Io ero solo aggregato al Sisde. Per anni avevo fatto attività sotto il piano operativo, alla fine della carriera mi dedicai a quelli informativi.

Quando entrò in polizia?

Nel 1958. Ho avuto dieci promozioni e valutazioni professionali sempre oltre il massimo. Sono stato anche capo di gabinetto dell’Alto commissario per lotta alla mafia.

Non ho fatto come molti che hanno fatto carriera stando al caldo al Ministero dell’Interno. Io sono sempre stato in prima linea.

Paolo Comi

Respinti i ricorsi. La Cassazione chiude il ‘caso’ Contrada: all’ex Sisde risarcimento da 285mila euro per ingiusta detenzione. Redazione su L'Unità il 7 Giugno 2023

È la fine di un incubo durato anni, col riconoscimento che fu vittima di malagiustizia e ingiusta detenzione. La Corte di Cassazione, rigettando i ricorsi della Procura generale di Palermo e del ministero dell’Economia e delle finanze, ha confermato la riparazione per ingiusta detenzione di 285mila euro nei confronti di Bruno Contrada.

L’ex numero due del Sisde, oggi 92enne, venne arrestato e poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Una condanna che la Corte europea dei diritti dell’uomo dichiarò poi la condanna illegittima.

L’ex Sisde venne arrestato nel dicembre del 1992; ha trascorso quattro anni e mezzo in carcere e tre anni e mezzo ai domiciliari.

Ovvia la soddisfazione di Stefano Giordano, avvocato difensore di Contrada: “Dopo otto lunghi anni sono state poste in esecuzione le due sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’uomo che hanno sancito che il procedimento a carico del dottore Bruno Contrada è stato fin dall’inizio illegittimo ed illegittima era la condanna, totalmente scontata dal mio assistito. La Cassazione ha messo una pietra tombale ad un massacro mediatico e giudiziario vergognoso e putrido che ci ha portati alla vittoria finale. Siamo giunti a tale risultato finale soltanto perché il dottore Contrada è rimasto vivo nonostante tutta la sofferenza inflittagli. Per quanto riguarda il nostro studio, per la tenacia e la determinazione nonché la fede in Dio che mi ha sempre accompagnato nonostante tanti tristi momenti“.

“Oggi è giorno per goderci la vittoria processuale, – ha aggiunto – ma da domani opporremo alle autorità giudiziarie competenti tutte le violazioni della presunzione di innocenza commesse da appartenenti all’ordine giudiziario e da certo giornalismo ideologizzato e politicamente orientato. Voglio ringraziare anche per il suo contributo fondamentale l’avvocato Cristiana Donizetti mia, moglie, senza il cui prezioso lavoro non sarebbe stato possibile conseguire questo risultato”.

Tre anni fa, quando fu disposto il risarcimento per un importo maggiore, poi annullato, Contrada commentò così la notizia: “Ho subìto danni irreparabili e non c’è risarcimento che valga”. Redazione - 7 Giugno 2023

Vittoria per Contrada in Cassazione. Ma giornali ed ex toghe continuano a massacrarlo. Riconosciuti definitivamente 285.342,2 euro per ingiusta detenzione. L’avvocato Giordano: «La sentenza pone fine al massacro mediatico e giudiziario». Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 7 giugno 2023

La Cassazione conferma la riparazione per ingiusta detenzione nei confronti di Bruno Contrada così come stabilito dalla Corte di Appello sezione Prima di Palermo. Rigettando i ricorsi della Procura Generale di Palermo e del ministero dell'Economia e delle Finanze, mette così fine a otto anni di battaglia giudiziaria sostenuta dall’avvocato difensore dell’ex 007, Stefano Giordano del foro di Palermo.

Il difensore di Bruno Contrada in un comunicato stampa ha espresso la sua soddisfazione per l'esito del processo. L’avvocato Giordano ha dichiarato che le due sentenze emesse dalla Corte Europea dei Diritti dell'uomo, che hanno stabilito l'illegittimità del procedimento e la condanna ingiusta del suo assistito, sono state finalmente eseguite. Contrada, ex capo della Squadra mobile di Palermo durante il periodo più brutale della mafia, è stato coinvolto in un processo che ha suscitato grande clamore mediatico e ha subito una condanna che darà adito a numerose congetture che vanno oltre il reato per il quale era stato perseguito e infine condannato tra condanne, assoluzioni in appello, rinvio della Cassazione e condanna definitiva. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha finalmente posto fine a quello che l'avvocato ha descritto come un “massacro mediatico e giudiziario vergognoso e putrido” e ha portato alla vittoria finale. Il difensore di Contrada ha sottolineato che il risultato ottenuto è “dovuto alla tenacia e alla determinazione del suo studio legale, nonché alla fede in Dio che lo ha sempre accompagnato nonostante i momenti difficili”.

Ha anche espresso gratitudine nei confronti dell'avvocato Cristiana Donizetti, sua moglie e membro fondamentale del team difensivo, riconoscendo il prezioso contributo che ha reso possibile raggiungere questo risultato. Nonostante la gioia per la vittoria processuale, l'avvocato Giordano ha annunciato che da domani il suo studio dedicherà tutti i propri sforzi a portare avanti un'azione legale contro le autorità giudiziarie competenti. L'obiettivo sarà evidenziare tutte le violazioni della presunzione di innocenza commesse da alcuni membri dell'ordine giudiziario e da un certo giornalismo che sembra essere stato influenzato da ideologie politiche.

Ricordiamo che la Corte d’Appello di Palermo, in seguito all'udienza tenutasi il 15 dicembre 2022, ha parzialmente accolto la richiesta di riparazione per ingiusta detenzione presentata da Contrada, con il ministero dell'Economia e delle Finanze condannato a corrispondergli la somma di 285.342,2 euro. Contrada, ex dirigente di Polizia e funzionario del Sisde, era stato condannato nel 2007 a dieci anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Tuttavia, la sentenza di condanna è stata successivamente dichiarata ineseguibile e priva di effetti penali dalla Cassazione il 6 luglio 2017. Questa decisione ha segnato la fine di una complessa vicenda giudiziaria che ha coinvolto Contrada, specialmente dopo la sentenza Contrada c. Italia emessa dalla Corte europea dei diritti dell'uomo il 14 aprile 2015. In tale sentenza, la Cedu ha rilevato una violazione dell'articolo 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo in relazione alla chiarezza e prevedibilità del reato di concorso esterno nell'associazione mafiosa.

Nella valutazione della richiesta di riparazione per ingiusta detenzione, la Corte d'appello di Palermo ha esaminato le numerose accuse di “assistenza” esterna a "Cosa nostra" rivolte a Contrada. L'obiettivo era determinare se, nonostante l'imprevedibilità di una condanna per concorso esterno nel reato associativo, potesse comunque essere prevedibile un'accusa per un diverso reato, come il favoreggiamento di cui all'articolo 378 del codice penale. In risposta a questa questione, i giudici hanno riconosciuto che la circostanza ostacolante per la concessione della riparazione ai sensi dell'articolo 314 del codice di procedura penale consisteva nella partecipazione di Contrada all'ingiusta detenzione con dolo o colpa grave.

Di conseguenza, la Corte ha escluso la riparazione per il periodo di custodia cautelare subita da Contrada prima della scadenza del termine di prescrizione per i diversi episodi di favoreggiamento, calcolato in base alla legislazione vigente all'epoca. Tuttavia, i giudici hanno concluso in modo diverso per il periodo di pena detentiva scontato a seguito della condanna definitiva. Poiché il reato di favoreggiamento era estinto per prescrizione in quel momento, in base alla nuova legislazione introdotta nel 2005 dalla legge ex Cirielli, una condanna a tale titolo non sarebbe stata possibile in ogni caso. Pertanto, la richiesta di riparazione è stata accordata solo per l'ultimo periodo di pena detentiva scontato da Contrada. Ora definitiva con la decisione della Cassazione.

Non entrando nel merito della discutibile vicenda processuale iniziata con il suo arresto eseguito alla vigilia di Natale del 1992, Bruno Contrada viene perennemente additato per essere la “mente raffinatissima” dietro addirittura il fallito attentato all’Addaura nei confronti di Giovanni Falcone. È stato persino indicato come persona presente sul luogo dell’attentato avvenuto nei confronti di Paolo Borsellino. Ora, con la recente sentenza sul depistaggio di Via D’Amelio, emerge chiaramente che aver indicato Contrada, all’epoca funzionario dei servizi segreti, fosse una forma di depistaggio. I giudici si chiedono perché in un arco temporale prossimo alla strage ci si sia dedicati a diffondere la notizia, poi rivelatasi falsa, della presenza di Bruno Contrada in via D’Amelio poco dopo l’esplosione. A vantaggio di chi? Ecco cosa scrivono i giudici: «Come ben evidenziato da talune parti civili (in primis l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino, ndr) Bruno Contrada era “il diversivo giusto”: un soggetto - nel frattempo caduto in disgrazia per le confidenze rivelate da Gaspare Mutolo al dottor Borsellino circa una contiguità del Contrada medesimo con l'organizzazione mafiosa - da collocare immediatamente sulla scena del crimine subito dopo l'esplosione».

Ma Contrada viene persino menzionato in alcune sentenze recenti, come l’abbreviato sull’omicidio di Nino Agostino, senza essere inquisito o processato. Lo aveva scoperto per caso l’avvocato Giordano, quando il suo assistito l’anno scorso era stato invitato a comparire, come testimone, al processo del delitto Agostino. A quel punto, autonomamente, l’avvocato Giordano è venuto in possesso della requisitoria della Procura Generale di Palermo e della sentenza del processo per la morte di Agostino celebrata con il rito abbreviato. Ed è in questa sentenza - a firma del Gup di Palermo Alfredo Montalto, l’allora giudice del processo trattativa di primo grado - che ritrova il nome di Bruno Contrada come persona coinvolta in fatti gravi. Addirittura dando per attendibili le dichiarazioni alquanto suggestive di Vito Galatolo, il quale testimonia che ebbe a vedere personalmente Contrada in occasione di alcune visite in vicolo Pipitone e «in alcune di tali occasioni contestualmente ad una persona, “appartenente ai servizi segreti”, soprannominata il “mostro” perché “aveva la guancia destra deturpata da un taglio, la pelle rugosa e arrossata.”». Quest’ultimo sarebbe Giovanni Aiello, conosciuto con il soprannome “Faccia da mostro”. Anche lui compare in sentenza, senza essere processato. La differenza con Contrada, è che lui è morto da qualche anno. Non potrà più difendersi dalle gravi illazioni.

Il depistaggio verso i servizi segreti è stato il tipico modus operandi della mafia corleonese. Ricordiamo cosa disse Totò Riina, intercettato al 41 bis nel 2013, precisamente il 24/09/ 2013: «La pensata gli è venuta… ai Graviano… di questi Servizi segreti… di questa gente intelligente». Ma questa è un’altra storia che dovrà essere laicamente affrontata. Se non si analizzano scientificamente i fatti, il diritto alla verità diventa altro. Puro intrattenimento.

Parla l'ex Sisde. “Mi hanno distrutto la vita, per questo non basta nessun risarcimento”, parla Bruno Contrada. “La mia vicenda è durata 30 anni, se dovessi essere risarcito per quanto accaduto, lo Stato italiano dovrebbe fare una nuova manovra finanziaria”. Angela Stella su L'Unità l'8 Giugno 2023 

La Cassazione, rigettando i ricorsi della Procura Generale di Palermo e del Ministero dell’Economia e delle Finanze, ha confermato la riparazione per ingiusta detenzione nei confronti del dott. Bruno Contrada che abbiamo intervistato a poche ore dalla decisione.

Dottor Contrada come commenta la decisione?

Sono d’accordo con quanto detto dal mio avvocato. Io non dovevo essere processato, né mandato in carcere. Da oggi spero non di avere più a che fare con la giustizia. Tutto l’iter giudiziario che ha caratterizzato la mia vicenda non è stato solo lungo ma soprattutto motivo di grande sofferenza.

Lei è arrivato fino alla Cedu.

La decisione del 2014 della Cedu condanna l’Italia per violazione dell’articolo 3 della convenzione per essere stato io sottoposto a pena inumana e degradante. Successivamente nel 2015 sempre la Cedu ha ritenuta illegittima la precedente condanna perché per i giudici all’epoca dei fatti il reato di concorso esterno che mi era stato contestato non era sufficientemente tipizzato, quindi il processo sarebbe stato celebrato illegittimamente. Dopo queste due decisioni ci fu una sentenza della Cassazione nel 2017 che conclude così: “la sentenza di condanna emessa dalla Corte di Palermo nel 2006 è ineseguibile e improduttiva di effetti penali”. Questa è la sentenza più importante che arrivò quando io avevo già scontato tutta la mia pena: quattro anni in carcere e quattro ai domiciliari. Due anni furono condonati per buona condotta.

L’accusa si è sempre opposta al risarcimento?

La procura generale è intervenuta sempre nei due procedimenti relativi al risarcimento per ingiusta detenzione. Secondo loro non mi spettava nulla. Ci sono stati diversi ricorsi fino alla decisione di ieri. Tutto questo mi ha provocato un dolore inspiegabile. Come diceva Piero Calamandrei “il processo stesso, anche per un innocente, è una pena”.

Lei era destinato ad un risarcimento….

La fermo subito: se dovessimo parlare di risarcimento dovremmo fare riferimento all’intera mia vicenda giudiziaria durata 30 anni. Se dovessi essere risarcito per quanto accaduto, lo Stato italiano dovrebbe fare una nuova manovra finanziaria. Non esiste cifra per risarcire un danno del genere, come quello da me subito. Qui si siamo in presenza della distruzione di una vita.

Tornando alla riparazione per ingiusta detenzione, alcuni magistrati si sono opposti e alcuni giudici hanno dato loro ragione. Come se lo spiega?

Dovrebbe rivolgere a loro questa domanda. Non so perché hanno avuto questa predisposizione a non riconoscere quello che era un mio diritto. Lo vada a chiedere all’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato e a quello attuale Lia Sava.

Lei veniva arrestato alla vigilia di Natale del 1992. Perché proprio per quel giorno? Per infliggere maggiore sofferenza?

Io per circa 40 anni, di cui 23 a Palermo, ho svolto sempre ruoli di polizia giudiziaria. Cercavano sempre di non eseguire ordini o mandati di cattura a Natale, a meno che non ci fosse un carattere di urgenza o necessità. Nel mio caso, benché non ci fossero queste due esigenze, si è eseguito l’ordine di cattura e mi hanno condotto nel carcere militare. Non c’era pericolo di fuga: avevano messo sotto controllo il mio telefono e sapevano dovrei avrei trascorso le vacanze, ossia con i miei parenti. Neanche quello di inquinamento delle prove: per il reato di cui ero accusato avrei dovuto distruggere interi archivi, come quello del Ministero dell’Interno o della Squadra Mobile dove c’erano i fascicoli delle operazioni svolte da me. E sulle prove testimoniali avrei dovuto pagare decine di persone affinché non rilevassero presunte verità. Manca anche il pericolo di reiterazione del reato: ma se veniva sospeso dal servizio come avrei fatto a reiterarlo? Quindi ho fatto 31 mesi e 7 giorni di custodia cautelare in attesa del processo senza che ricorressero queste condizioni. E perché mi hanno arrestato il giorno di Natale?

Me lo dica lei.

Anche qui bisognerebbe chiederlo a chi chiese di arrestarmi: Ingroia, Scarpinato, Natoli, Morvillo, Lo Forte e a chi sottoscrisse quella richiesta ossia il procuratore facente funzioni Vittorio Aliquò. Ma bisognerebbe anche domandarlo al Gip del Tribunale di Palermo, dott. Sergio La Commare, che non fece altro che copiare integramente la richiesta della Procura.

Qualcuno anche all’interno delle istituzioni ha remato contro di Lei?

Certo, all’interno delle mie istituzioni con l’aiuto di persone che per anni ho perseguito e mandato in galera. Dobbiamo contestualizzare: siamo nel 1992, l’annus horribilis della prima Repubblica. È l’anno di Tangentopoli ma anche di Mafiopoli. In quest’ultimo filone finii anche io. Ma quell’anno fu orribile anche per Giulio Andreotti, per il presidente Carnevale, per l’ex Ministro Mannino. È difficile sintetizzare quello che accadde in quegli anni e come si arrivò a condannare un uomo come me, che non aveva mai preso neanche una multa, a dieci anni di carcere. Posso solo dire che tutte le accuse che mi sono state rivolte erano false.

Ma il problema non sono i pentiti e i delinquenti che hanno parlato, ma coloro che gli hanno creduto nella magistratura.

Loro hanno fatto il loro mestiere di criminali. Avevano messo bombe, sciolto gente nell’acido, appiccato incendi, ucciso persone. Cosa poteva importare loro di fare un reato piccolo di calunnia o diffamazione nei miei confronti? Hanno denunciato addirittura i loro figli o i loro genitori. Erano capaci di tutto e non vedevano l’ora di accusare uno sbirro. I pentiti poi lo hanno fatto per il loro tornaconto personale. E i magistrati hanno creduto a loro per la parte che interessava. Perché ad altri pentiti non hanno creduto perché non dicevano le cose che dovevano dire.

Nonostante tutto, quando vediamo alcune trasmissioni che parlano di Mafia alcuni giornalisti fanno sempre riemergere il sospetto accusatorio su di lei.

Devono per forza fare così, altrimenti dovrebbero dichiarare apertamente ed umilmente e umanamente il loro fallimento.

In tutti questi anni ha ricevuto delle scuse da qualcuno?

Da nessuno. Né da quelli che mi hanno accusato né dagli uomini delle istituzioni.

Di Angela Stella 8 Giugno 2023

Sentenza Via D’Amelio: “Le bugie su Contrada diversivo per depistare”. Esce di scena la trattativa Stato-mafia, sfatata anche la presenza dei “man in black” sul luogo della strage. Per i giudici di Caltanissetta il depistaggio c’è stato, e viene ribadita la pista mafia-appalti. Damiano Aliprandri su Il Dubbio il 6 aprile 2023

Dopo anni, scompare definitivamente di scena la tesi della trattativa Stato-mafia come causale dell’accelerazione della strage di Via D’Amelio. Non solo. Decostruita totalmente la testimonianza di un ex poliziotto che dice di aver visto un gruppo di uomini in giacca e cravatta rovistare nel luogo della strage di Via D’Amelio, mentre ancora c’erano addirittura le fiamme. In più viene evidenziato che le testimonianze, in seguito totalmente smentite, su Bruno Contrada presente sul luogo del vile attentato, rientrano nel depistaggio.

Tre elementi, quelli evidenziati dai giudici del tribunale di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, che azzerano le narrazioni mass mediatiche su un tema tuttora rimasto pieno di buchi neri. E che sicuramente, riempiendoli di racconti romanzeschi, non aiutano alla verità. Ma dopo trent’anni dai fatti, e dopo averli sprecati a causa delle prime indagini che portarono all’arresto, con tanto di condanna sigillata dalla Cassazione, di persone totalmente innocenti, il diritto alla verità è menomata. E sono proprio i giudici di Caltanissetta che aprono le motivazioni con una premessa a tal proposito, sottolineando che questo procedimento si colloca a distanza di circa 30 anni dalla strage di Via D’Amelio e sconta dei limiti strutturali non oltrepassabili poiché più ci si allontana dai fatti più è difficile “recuperare” il tempo perduto. Così come, evidenziano sempre i giudici, il decorso di questo lungo lasso temporale ha comportato il venir meno di fonti dichiarative (le persone invecchiano e muoiono) come i decessi dell’allora capo procuratore nisseno Giovanni Tinebra e di Arnaldo La Barbera, capo della squadra “Falcone Borsellino” che condusse le prime indagini. Senza contare che il tempo ha logorato anche i ricordi delle fonti dichiarative ancora in vita.

Secondo i giudici, la matrice dell’attentato non è esclusivamente mafiosa e il depistaggio è servito ad allontanare anche l’altra verità, ovvero la complicità di soggetti istituzionali. Ma nel contempo, risultano forme di depistaggio anche l’aver messo in mezzo persone istituzionali, ma totalmente estranee ai fatti. Primo tra tutti l’asserita presenza di Bruno Contrada sul luogo della strage poco dopo la deflagrazione. Per i giudici della corte è un elemento significativo. Partono dalle dichiarazioni del magistrato Nino Di Matteo che all’epoca raccolse quelle testimonianze, poi rivelatesi totalmente prive di veridicità. Tutto nasce, ha raccontato Di Matteo, «dalla deposizione e i verbali di alcuni magistrati, Antonio Ingroia era uno di questi, la rappresentazione di un dato, che era stato detto da alcuni ufficiali del Ros, e in particolare, se non ricordo male, dal capitano Sinico, ai magistrati che la prima pattuglia intervenuta subito dopo l'esplosione in via D'Amelio aveva notato il dottore Contrada allontanarsi dal luogo dell'esplosione».

Bruno Contrada era “il diversivo giusto”

Lo stesso Di Matteo racconta che nel ’95 decise di riprendere in mano questi fascicoli e propose al capo della procura e agli aggiunti di esplorare questa vicenda. Perfino un collaboratore di giustizia, tale Elmo, aveva riferito che, per circostanze casuali, si trovava nei pressi di via D'Amelio il 19 luglio ’92, e nel momento in cui aveva udito la deflagrazione si era avvicinato e aveva visto Contrada allontanarsi dal luogo teatro della strage con una borsa o con dei documenti in mano. Ovviamente una testimonianza che risulterà del tutto priva di fondamento. I giudici, nelle odierne motivazioni, osservano che rimangono dei quesiti che – ci si rende conto (allo stato) sono destinati a rimanere irrisolti – «ma non por(se)li sarebbe un ulteriore errore di prospettiva che espungerebbe inopinatamente dal raggio di valutazione degli elementi rilevanti».

Segnatamente i giudici si chiedono perché in un arco temporale prossimo alla strage ci sia dedicati a diffondere la notizia, poi rivelatasi falsa, della presenza di Bruno Contrada in via D’Amelio poco dopo l’esplosione. A vantaggio di chi? Alla luce di tutte le circostanze i giudici ritengono che se ne giovò chi aveva tutto l’interesse a far sì che le matrici non mafiose della strage (che si aggiungono a quella mafiosa) di Via D’Amelio non venissero svelate nella loro reale consistenza. «Come ben evidenziato da talune parti civili (in primis l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino, ndr) Bruno Contrada era “il diversivo giusto”: un soggetto - nel frattempo caduto in disgrazia per le confidenze rivelate da Gaspare Mutolo al dottor Borsellino circa una contiguità del Contrada medesimo con l'organizzazione mafiosa - da collocare immediatamente sulla scena del crimine subito dopo l'esplosione».

Sfatata anche la presenza dei “man in black”

Emerge anche la decostruzione di un’altra narrazione. Nei programmi in prima serata, podcast, giornali e anche nei convegni pubblici, viene data per certa la storia della presenza di persone vestite come i “man in black”, a 40 gradi all’ombra, rovistare senza una goccia di sudore nell’auto ancora in fiamme di Borsellino. Questo è il racconto dato da Francesco Paolo Maggi, uno dei primi poliziotti ad arrivare sul luogo della strage. Ebbene i giudici sono chiari a tal proposito: non può essere credibile il racconto. «Inoltre – scrivono nelle motivazioni -, il riferire circostanze così importanti a distanza di un notevole decorso di tempo (Maggi nonostante fosse stato già sentito in altre occasioni non ha mai rivelato tale circostanza prima del processo Borsellino quater) rende ancora più dubbia la credibilità di un dichiarante che è comunque stato destituito dalla Polizia di Stato nel 2001 a causa dell’abuso di sostanze stupefacenti e che sulla borsa del dottor Borsellino ha fornito una versione che contrasta con i dati oggettivi provenienti dai filmati».

Non solo. I giudici ricordano come Maggi, appartenente all’organo di polizia giudiziaria incaricato di svolgere le indagini, non abbia redatto alcuna relazione di servizio fino al 21 dicembre 1992 senza fornire, di fatto, alcuna spiegazione del ritardo di oltre cinque mesi nella redazione di tale atto. «Rimane il dubbio se si tratti di una “negligenza” nella tecnica investigativa – l’ennesima accertata in questo processo – o se vi sia di più», chiosano i giudici. Osservano che non è possibile aggiungere altro senza scivolare nel rischio di fallacia causato «dalla pletora delle possibili ricostruzioni alternative anche in considerazione del fatto che non sono state acquisite nell’odierno procedimento tutte le precedenti dichiarazioni rese da Maggi prima della deposizione nell’odierno dibattimento».

Rimangono però delle certezze per la corte. Che il depistaggio c’è stato, le indagini svolte dalla squadra mobile capitanata da La Barbera sono costellate da forzature e abusi, che la mafia ha agito con la complicità di altri settori esterni. Tra le casuali della strage, non è contemplata la trattativa Stato-mafia, ma viene ad esempio ribadita la pista mafia-appalti come causa preventiva riportando le argomentazioni delle sentenze precedenti. Così come vengono riportate le dichiarazioni del pentito Giuffrè, il quale parla dei sondaggi pre attento che la mafia fece con personaggi del mondo politico e imprenditoriale. Tra loro emerge Pino Lipari (mafioso dal colletto bianco) e l ’ingegnere capo del comune di Bagheria, Nicolò Giammanco (deceduto nel 2012), figura emblematica e personaggio chiave nell'assegnazione degli appalti nonché legato da rapporti di parentela con l’allora capo procuratore Pietro Giammanco. Ma questo è un altro grande e infinito capitolo.

L’avvocato Giordano: «Mi chiedo: è più grave chi ha depistato o chi si è fatto depistare?» Parla il legale dell'ex super poliziotto: «Tralasciando come sono state condotte le indagini e chi si è fatto prendere in giro per anni, rimane il costo elevatissimo che l'intera collettività ha pagato». Giovanni Maria Jacobazzi su Il Dubbio il 7 aprile 2023

«Ho fatto solo una lettura sommaria. Mi riservo di leggere integralmente il testo della sentenza della Corte d’appello di Caltanissetta sul “depistaggio Borsellino” e dopo, posso però garantirlo fin da ora, farò tutte le valutazione del caso», afferma l’avvocato palermitano Stefano Giordano, difensore di Bruno Contrada, ex capo della squadra mobile della questura del capoluogo siciliano.

Contrada, ormai ultranovantenne, venne arrestato alla vigilia di Natale del 1992 su richiesta dell'allora procuratore di Palermo Giancarlo Caselli. Al termine di un iter processuale quanto mai complesso i cui elementi di prova erano quasi esclusivamente le dichiarazioni di alcuni pentiti, ad iniziare da Gaspare Mutolo. L’alto funzionario di polizia venne condannato in via definitiva nel 2007 a dieci anni di reclusione, quasi tutti scontati in regime detentivo, per concorso esterno in associazione mafiosa. In particolare, Contrada era accusato di avere avuto rapporti con i mandanti ed esecutori della strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992.

Nel 2015 la Cedu, a cui gli avvocati di Contrada si erano rivolti, aveva stabilito che la condanna dovesse essere cancellata in quanto il reato contestato di concorso esterno era il risultato di “un'evoluzione giurisprudenziale iniziata alla fine degli anni ' 80 del ‘ 900”, e quindi non previsto da disposizioni di legge.

Avvocato Giordano, la Corte d’Appello nissena ha messo un punto fermo sul fatto che Bruno Contrada non era presente in via D’Amelio poco dopo l’esplosione che uccise il giudice Paolo Borsellino e gli agenti di scorta.

Ho letto questa parte. Qualcuno dovrà chiedere scusa al dottor Contrada o, quanto meno, dare le proprie giustificazioni per delle dichiarazioni effettuate, anche recentemente, nelle solite e ben note trasmissioni televisive compiacenti su una certa narrazione.

Eppure Contrada era stato uno dei pochi ad accorgersi del depistaggio posto in essere dal falso pentito Vincenzo Scarantino.

Certo. Ma proprio su questo aspetto vorrei fare una riflessione.

Dica.

Cosa è più grave, chi ha depistato o chi si è fatto depistare?

Nella sentenza di Caltanissetta, scrivono i giudici, “rimangono dei quesiti che – ci si rende conto ( allo stato) sono destinati a rimanere irrisolti – ma non por( se) li sarebbe un ulteriore errore di prospettiva che espungerebbe inopinatamente dal raggio di valutazione degli elementi rilevanti. Segnatamente ci si chiede perché in un arco temporale prossimo alla strage ci sia dedicati a diffondere la notizia, poi rivelatasi falsa, della presenza di Bruno Contrada in via D’Amelio poco dopo l’esplosione? A vantaggio di chi?

I giudici aggiungono anche che “alla luce di tutte le circostanze di cui si è dato conto si ritiene che se ne giovò chi aveva tutto l’interesse a far sì che le matrici non mafiose della strage di via D’Amelio non venissero svelate nella loro reale consistenza. Come ben evidenziato da talune parti civili, Bruno Contrada era “il diversivo giusto”: un soggetto nel frattempo caduto in disgrazia per le confidenze rivelate da Gaspare Mutolo al dottor. Borsellino circa una contiguità del Contrada medesimo con l'organizzazione mafiosa - da collocare immediatamente sulla scena del crimine subito dopo l'esplosione”.

Pensa che i magistrati che negli anni si sono interessati al procedimento debbano dare delle giustificazioni?

Su questo saremo inflessibili, ritengo infatti che non esista il reato di lesa maestà nei confronti dei magistrati.

Cosa rimane a distanza di oltre trenta anni dai fatti?

Tralasciando, dunque, come sono state condotte le indagini e chi si è fatto prendere in giro per anni, senza incrociare i dati o fare gli approfondimenti del caso, ciò che rimane è il costo elevatissimo che l'intera collettiva ha pagato. Mi riferisco agli innocenti che sono stati arrestati ed ai milioni di euro di risarcimento per l'ingiusta detenzione da loro patita, tutti a carico di noi cittadini.

Per quanto riguarda i risarcimenti, il prossimo 6 giugno la Cassazione si pronuncerà sull’ingiusta detenzione di Contrada.

Guardi, è solo una affermazione del diritto. Contrada all’età che ha non ha bisogno di soldi.

Ribaltone della Corte d'appello di Palermo. “Contrada va risarcito, ecco perché”, il ribaltone della Corte d’Appello di Palermo. Angela Stella su Il Riformista il 19 Febbraio 2023.

Una storia giuridica infinita quella di Bruno Contrada. L’ultima novità è stata resa nota ieri dal suo legale: “La corte d’appello di Palermo, sezione prima, ribaltando decisione in precedenza assunta dalla Corte d’appello, sezione seconda di Palermo, pronunciandosi a seguito di rinvio della Cassazione, ha accolto la domanda di riparazione per ingiusta detenzione formulata da Bruno Contrada, assistito dall’avvocato Stefano Giordano, riducendo però l’entità dell’indennizzo a 285.342 euro”.

Vediamo le precedenti tappe della vicenda. Nel 2015 la Cedu condannò l’Italia per violazione dell’art. 7 CEDU, in quanto riconobbe che la condanna subita da Bruno Contrada riguardava un reato che, al tempo delle condotte a lui ascritte, non era sufficientemente chiaro e prevedibile. Nel 2017 la prima sezione della Cassazione dichiarò “ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza emessa nei confronti di Contrada Bruno dalla Corte di appello di Palermo in data 25/02/2006, irrevocabile in data 10/05/2007”. Nell’aprile 2020, la Corte d’Appello di Palermo liquidò a favore di Contrada la somma di Euro 667.000,00 a titolo di riparazione per l’ingiusta detenzione. L’uomo aveva scontato circa 4 anni in carcere e oltre 4 anni ai domiciliari.

La pronuncia della Corte d’Appello veniva impugnata in Cassazione dalla Procura generale del capoluogo siciliano. La Cassazione annullava con rinvio la decisione della Corte palermitana che poi negò il risarcimento. Nuova tappa in Cassazione che il 24 giugno, accogliendo il ricorso dell’avvocato Giordano, rimanda gli atti ad altra sezione della Corte di Appello che ieri ha riconosciuto l’indennizzo. Scrissero gli ermellini che i giudici di appello avevano sbagliato “nel ritenere sussistente il dolo e colpa grave in rapporto al diverso, e mai contestato, delitto di partecipazione nel reato associativo di stampo mafioso, considerato che il ricorrente è stato processato e condannato per il diverso reato di concorso esterno nel reato associativo, la cui configurabilità è stata, tuttavia, esclusa dalla Corte Edu per incertezza descrittiva e imprevedibilità di configurazione giuridica all’epoca dei fatti. […] Qui si annida l’errore di diritto in cui è incorsa la Corte territoriale”.

Dedico questa vittoria al mio papà, che mi ha seguito in questi anni. Io sono soddisfatto, a prescindere dalla quantificazione della riparazione per ingiusta detenzione, perché alla fine sia la Cassazione che la Corte d’Appello ci hanno dato ragione – ha detto l’avvocato Giordano durante una conferenza stampa -. Contrada è stato condannato ingiustamente. Adesso aspettiamo che la partita termini definitivamente, per potere dire che giustizia è stata fatta”.

Infatti l’ordinanza potrebbe essere oggetto di impugnazione da parte della Procura e dell’avvocatura dello Stato. L’avvocato ha ricordato che “dal 2017 la Procura di Palermo e anche quella di Reggio Calabria hanno messo in atto una persecuzione verso Contrada, ad esempio, con continue perquisizioni, oggetto di un ricorso per cui chiederemo i danni allo Stato italiano. Gli inquirenti invece di chiedere scusa hanno perseverato con i loro errori”.

Angela Stella

L'ex poliziotto contro il pg. Contrada urla la propria innocenza: “Sono senza macchia!”, ma dopo 30 provano a metterlo sul banco degli imputati. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 18 Dicembre 2022

Costretto ancora a gridare la propria innocenza, a 91 anni e a trenta dal proprio arresto, di nuovo in un’aula giudiziaria, Bruno Contrada si arrabbia e sventola con piglio la carta che ne certifica il suo stato di incensurato. Quasi in faccia a un procuratore che cerca di metterlo di nuovo sul banco degli imputati. Come se, dopo trent’anni, il processo per concorso esterno in associazione mafiosa dovesse cominciare da capo. Siamo a Palermo, ancora e ancora.

In corte d’appello, dove colui che fu il poliziotto più brillante della città, ammazzato e messo in manette dall’invidia prima ancora che da una strampalata inchiesta giudiziaria, è di nuovo a chiedere quel che gli è dovuto. Il risarcimento per l’ingiusta detenzione, dopo che ormai sette anni fa la Corte Europea per i diritti dell’uomo aveva condannato lo Stato italiano per aver arrestato, tenuto in galera, processato e condannato ingiustamente questo suo fedele servitore. E ora siamo qui, dopo i vari rimbalzi tra appelli e cassazioni, con un risarcimento per ingiusta detenzione già fissato in 667.000 euro, ma poi annullato e poi ancora deliberato. In queste aule che furono il feudo di Roberto Scarpinato, che non si è arreso dopo aver perso clamorosamente il “processo trattativa”, tanto che ci ha scritto sopra un libro e poi ha anche portato in Senato il disappunto per la sua sconfitta professionale. Un triste modo di andare in pensione, comunque.

Il pg che fa saltare per aria l’indignazione di Bruno Contrada si chiama Carlo Marzella. La sua posizione, e quella della Procura generale nei confronti dell’ex numero uno della squadra mobile è considerata “ovvia” dall’avvocato Stefano Giordano: “…d’altra parte, da quando c’era Roberto Scarpinato, ha sempre perseguitato il dottor Contrada”. Non solo persecuzione però, perché ci vuole anche una certa cattiveria, una certa voglia di ferire anche la dignità di quest’uomo che è stato privato di tutto, a partire dalla libertà. Ce lo ricordiamo, solitario nel carcere militare, sorvegliato da venti uomini in divisa. E il processo non arrivava mai, e poi un po’ assolto un po’ condannato, sempre per l’evanescenza del concorso esterno, finché la Cedu non ha detto all’Italia “adesso basta”, restituite questa vittima alla sua vita.

Lui si è fatto sentire, nell’aula di Palermo. In faccia all’impassibile Marzella. “Ecco a lei il mio certificato penale, è nullo. Io sono stato assolto. Sono incensurato, come risulta dal certificato. Ha capito? Ha capito o no?”. Chissà se qualcuno in quell’aula è arrossito, davanti a questo novantenne un po’ malfermo sul suo bastone, che trova però la forza di alzarsi e andare a sventolare il simbolo della sua vita immacolata che qualcuno ha voluto macchiare. Non c’è in quest’aula l’ex pm Antonio Ingroia, che lo volle in ceppi la vigilia di Natale del 1992, dopo aver raccolto le vociferazioni di qualche “pentito” imbeccato male, perché raccontava di salette riservate di ristorante che non c’erano, di anfore mai trovate e amanti inesistenti. Ingroia che si era esibito in una requisitoria lunga ventidue udienze, e che anni dopo e in seguito a non brillanti carriere come politico e come avvocato, continuava a dire che Contrada era colpevole, se non di mafia, almeno di favoreggiamento. E ne stiamo parlando ancora trent’anni dopo?

La verità è che in quell’anno 1992, quello in cui la mafia alzò il tiro fino a uccidere Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, un po’ tutti avevano perso la testa a Palermo, e non solo a Palermo, visto che il Parlamento votò le leggi emergenziali le cui conseguenze negative subiamo ancora oggi. E l’arresto di un brillante investigatore in carriera come Contrada fu occasione di lotte furibonde e di faide all’interno del mondo delle divise e delle toghe. Il capo della mobile era sulle tracce del latitante Bernardo Provenzano, e dopo il suo arresto furono messi da parte tutti gli uomini che lavoravano in quella direzione. Tutto alle ortiche, meglio ascoltare le solite chiacchiere da ballatoio, riferite “de relato” di qualche collaboratore. “Intendo solo essere reintegrato nei miei diritti” ha detto a Palermo Bruno Contrada con dignità.

Che io debba sentire un pg che ripete tutte le accuse che sono state cancellate non solo dalla Corte europea, per cui ero stato sottoposto a una pena disumana e degradante, mi fa ribollire il sangue. Contro di me è stato fatto un processo iniquo, ho ricevuto le infami accuse di criminali mafiosi, da me contrastati per anni. Io ho lottato per più di trent’anni contro criminali che mi hanno poi accusato”. Diamogli ancora la parola, prima di metterci in attesa della decisione della corte d’appello che arriverà tra un mese. “Ascoltando le parole del pg io dovrei stare seduto sulla panca destinata agli imputati”. Ma Bruno Contrada come sempre si è alzato in piedi.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

A 92 anni Bruno Contrada dovrà attendere ancora per il dovuto risarcimento. Dopo trent'anni di processi, e una illegittima detenzione riconosciuta dalla Cedu, la corte di appello di Palermo si prende un altro mese di tempo per decidere se risarcire Bruno Contrada. Annarita Digiorgio il 16 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Dovrà aspettare ancora un mese Bruno Contrada per sapere se potrà usufruire del risarcimento per ingiusta detenzione che gli ha riconosciuto la Corte Europea dei diritti dell’uomo.

Trent’anni di processi non sono bastati per mettere un punto al calvario giudiziario di un uomo di 92 anni ingiustamente condannato e rinchiuso in carcere per dieci anni.

Bruno Contrada, alto funzionario del Sisde, fu arrestato alla vigilia di Natale del 1992 su richiesta dell’allora procuratore di Palermo Giancarlo Caselli, sulla base delle dichiarazioni di alcuni pentiti. Dopo sentenze annullate, confermate e smentite, nel 2007 è stato condannato a dieci anni di reclusione, quasi tutti poi scontati in galera, per concorso esterno in associazione mafiosa. Un reato che nel codice penale non esiste.

Nel 2015 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha detto che quella condanna non aveva motivo di essere, stabilendo che Contrada non andava né processato né condannato. Mentre a essere condannato dalla Corte di Strasburgo è stato lo Stato italiano "per un reato che non esisteva nel Codice penale italiano all'epoca in cui avrei commesso i fatti contestati”.

Il governo italiano aveva anche presentato ricorso alla Grande Chambre contro tale pronuncia ma era stato respinto.

La Corte d'Appello di Palermo a quel punto ha riconosciuto all'ex 007 la riparazione per ingiusta detenzione, quantificandola in 667.000 euro.

Ma la Procura di Scarpinato si era appellata e nel gennaio 2021 la Cassazione ha annullato con rinvio l'ordinanza di risarcimento.

E cosi oggi il procedimento è tornato alla corte di Appello di Palermo.

Contrada, 92 anni, con gravi problemi di salute, stamattina era in aula. Ma quando il procuratore Marzilla, opponendosi alla richiesta di risarcimento, ha iniziato a elencare le vecchie condanne già disconosciute dalla Cedu, Contrada non ci ha visto più e ha iniziato a inveire in aula. E mostrando al procuratore il suo certificato penale ha esclamato: "Ecco a lei il mio certificato penale: E' nullo! io sono stato assolto. Io sono incensurato come risulta dal certificato. Ha capito? Lei mi accusa di cose non vere”.

Che io debba sentire un pg che ripete tutte le accuse che sono state cancellate non solo dalla corte europea, per cui ero stato sottoposto a pena disumana, è degradante e mi fa ribollire il sangue. Contro di me - ha raccontato Contrada - è stato fatto un processo iniquo. Ho ricevuto le infami accuse di criminali mafiosi da me contrastati per anni. Io Ho lottato per più di 30 anni contro criminali che mi hanno poi accusato. Criminali come Gaspare Mutolo e come Tommaso Buscetta".

"E' inutile rivolgersi alla Corte di Strasburgo dove i tempi medi per una sentenza superano ormai i dieci annise poi l’Italia non esegue le sentenze" ha commentato il suo avvocato "per ben due volte il giudicato della Corte Europea, su cui il giudice interno non ha alcun margine di discrezione".

Condannato è lo Stato, ma non vuole risarcire l'ingiusta vittima.

L'ex poliziotto contro il pg. Contrada urla la propria innocenza: “Sono senza macchia!”, ma dopo 30 provano a metterlo sul banco degli imputati. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 18 Dicembre 2022

Costretto ancora a gridare la propria innocenza, a 91 anni e a trenta dal proprio arresto, di nuovo in un’aula giudiziaria, Bruno Contrada si arrabbia e sventola con piglio la carta che ne certifica il suo stato di incensurato. Quasi in faccia a un procuratore che cerca di metterlo di nuovo sul banco degli imputati. Come se, dopo trent’anni, il processo per concorso esterno in associazione mafiosa dovesse cominciare da capo. Siamo a Palermo, ancora e ancora.

In corte d’appello, dove colui che fu il poliziotto più brillante della città, ammazzato e messo in manette dall’invidia prima ancora che da una strampalata inchiesta giudiziaria, è di nuovo a chiedere quel che gli è dovuto. Il risarcimento per l’ingiusta detenzione, dopo che ormai sette anni fa la Corte Europea per i diritti dell’uomo aveva condannato lo Stato italiano per aver arrestato, tenuto in galera, processato e condannato ingiustamente questo suo fedele servitore. E ora siamo qui, dopo i vari rimbalzi tra appelli e cassazioni, con un risarcimento per ingiusta detenzione già fissato in 667.000 euro, ma poi annullato e poi ancora deliberato. In queste aule che furono il feudo di Roberto Scarpinato, che non si è arreso dopo aver perso clamorosamente il “processo trattativa”, tanto che ci ha scritto sopra un libro e poi ha anche portato in Senato il disappunto per la sua sconfitta professionale. Un triste modo di andare in pensione, comunque.

Il pg che fa saltare per aria l’indignazione di Bruno Contrada si chiama Carlo Marzella. La sua posizione, e quella della Procura generale nei confronti dell’ex numero uno della squadra mobile è considerata “ovvia” dall’avvocato Stefano Giordano: “…d’altra parte, da quando c’era Roberto Scarpinato, ha sempre perseguitato il dottor Contrada”. Non solo persecuzione però, perché ci vuole anche una certa cattiveria, una certa voglia di ferire anche la dignità di quest’uomo che è stato privato di tutto, a partire dalla libertà. Ce lo ricordiamo, solitario nel carcere militare, sorvegliato da venti uomini in divisa. E il processo non arrivava mai, e poi un po’ assolto un po’ condannato, sempre per l’evanescenza del concorso esterno, finché la Cedu non ha detto all’Italia “adesso basta”, restituite questa vittima alla sua vita.

Lui si è fatto sentire, nell’aula di Palermo. In faccia all’impassibile Marzella. “Ecco a lei il mio certificato penale, è nullo. Io sono stato assolto. Sono incensurato, come risulta dal certificato. Ha capito? Ha capito o no?”. Chissà se qualcuno in quell’aula è arrossito, davanti a questo novantenne un po’ malfermo sul suo bastone, che trova però la forza di alzarsi e andare a sventolare il simbolo della sua vita immacolata che qualcuno ha voluto macchiare. Non c’è in quest’aula l’ex pm Antonio Ingroia, che lo volle in ceppi la vigilia di Natale del 1992, dopo aver raccolto le vociferazioni di qualche “pentito” imbeccato male, perché raccontava di salette riservate di ristorante che non c’erano, di anfore mai trovate e amanti inesistenti. Ingroia che si era esibito in una requisitoria lunga ventidue udienze, e che anni dopo e in seguito a non brillanti carriere come politico e come avvocato, continuava a dire che Contrada era colpevole, se non di mafia, almeno di favoreggiamento. E ne stiamo parlando ancora trent’anni dopo?

La verità è che in quell’anno 1992, quello in cui la mafia alzò il tiro fino a uccidere Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, un po’ tutti avevano perso la testa a Palermo, e non solo a Palermo, visto che il Parlamento votò le leggi emergenziali le cui conseguenze negative subiamo ancora oggi. E l’arresto di un brillante investigatore in carriera come Contrada fu occasione di lotte furibonde e di faide all’interno del mondo delle divise e delle toghe. Il capo della mobile era sulle tracce del latitante Bernardo Provenzano, e dopo il suo arresto furono messi da parte tutti gli uomini che lavoravano in quella direzione. Tutto alle ortiche, meglio ascoltare le solite chiacchiere da ballatoio, riferite “de relato” di qualche collaboratore. “Intendo solo essere reintegrato nei miei diritti” ha detto a Palermo Bruno Contrada con dignità.

Che io debba sentire un pg che ripete tutte le accuse che sono state cancellate non solo dalla Corte europea, per cui ero stato sottoposto a una pena disumana e degradante, mi fa ribollire il sangue. Contro di me è stato fatto un processo iniquo, ho ricevuto le infami accuse di criminali mafiosi, da me contrastati per anni. Io ho lottato per più di trent’anni contro criminali che mi hanno poi accusato”. Diamogli ancora la parola, prima di metterci in attesa della decisione della corte d’appello che arriverà tra un mese. “Ascoltando le parole del pg io dovrei stare seduto sulla panca destinata agli imputati”. Ma Bruno Contrada come sempre si è alzato in piedi.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

La fatwa dell’antimafia: «È il legale di Contrada, non può partecipare». L'avvocato siciliano "censurato" perché difensore dell'ex 007 al premio dedicato alla memoria di suo padre, giudice del maxiprocesso. Lo sfogo: «Pregiudizi miserevoli». Simona Musco su Il Dubbio il 3 Agosto 2022

«Questa associazione ha annullato la presenza dell’avvocato Stefano Giordano avendo appreso che lo stesso cura professionalmente parte delle controversie del dottor Bruno Contrada». L’incredibile frase appena riportata è contenuta in un comunicato stampa reso pubblico dall’associazione “Amici di Onofrio Zappalà”, che ha deciso di escludere dalla serata del Premio Zappalà 2022 l’avvocato, figlio del giudice Alfonso Giordano, colui che presiedette il maxiprocesso contro la mafia a Palermo. Una scelta dettata dall’attività professionale di Giordano, “reo” di difendere Contrada, «ufficiale di Polizia – continua la nota stampa -, funzionario e agente del Sisde, associato a presunti rapporti tra i servizi segreti italiani e criminalità, culminati proprio nella strage di Via D’Amelio dove morì il giudice Paolo Borsellino e condannato in passato in via definitiva per favoreggiamento alla mafia con sentenza del 2007».

Una sentenza poi ribaltata nel 2017, quando la Cassazione, nel processo di revisione, annullò senza rinvio la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa, dichiarandola «ineseguibile e improduttiva di effetti penali», poiché al tempo non era previsto il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Ma il semplice sospetto basta a spingere l’associazione a prendere le distanze, perpetuando l’antipatica convinzione che il difensore sia comunque colpevole degli eventuali reati commessi dai propri assistiti. In questo caso, perfino quando quel difensore è chiamato a rappresentare – perché sangue dello stesso sangue – la memoria di un uomo, come Alfonso Giordano, che la mafia la contrastò a colpi di sentenze. «Pur nella piena rispettabilità dell’avvocato Giordano – continua dunque la nota -, che in maniera del tutto legittima offre le sue prestazioni professionali ad un imputato per mafia (fatto non vero, ndr), non riteniamo conveniente la sua presenza per motivi di opportunità, visto che parliamo apertamente di mafia, depistaggi e servizi segreti deviati dello Stato. La presenza di Salvatore Borsellino ne accentua tale disagio, visti i tempi di azione ed il tipo di reati a suo tempo contestati».

A spiegare come sono andati i fatti è proprio Giordano, che racconta al Dubbio la telefonata ricevuta a ridosso dell’evento, al quale, ovviamente, non ha più preso parte. «Questo premio veniva conferito alla mia memoria di padre da due associazioni, tra le quali “I Marinoti” – racconta -, i quali mi hanno contattato dicendomi che l’associazione “Agende Rosse” aveva messo un veto sulla mia partecipazione. Da qui ho ovviamente deciso di non presentarmi, pensando che la cosa comunque rimanesse riservata. Quando ho letto il comunicato stampa mi è parsa una presa di distanza: il problema è che io abbia difeso e difenda ancora Contrada, come difendo tante altre persone, innocenti e colpevoli. Io sono un penalista, un docente universitario di diritto penale e mi hanno insegnato che è diritto/dovere garantire la difesa e farlo con i mezzi stabiliti dalla legge. E questo io faccio: sono una persona corretta e perbene e mio padre era molto fiero del mio lavoro».

Il comunicato stampa ha spinto Giordano a replicare pubblicamente, spiegando che la sua mancata partecipazione alla manifestazione è stata «il risultato di una mia scelta personale, non appena ho appreso che alla manifestazione avrebbe preso parte il signor Salvatore Borsellino, con il quale – per molteplici ragioni – non ho mai inteso e non intendo condividere alcuna occasione d’incontro». Ma le esternazioni delle due associazioni hanno colpito soprattutto il lato professionale dell’avvocato siciliano: «Non solo le allusioni e le affermazioni riferite al mio assistito sono radicalmente false (il dottor Contrada non è affatto “imputato per mafia”) o comunque destituite di qualsiasi evidenza probatoria (i “presunti” rapporti tra i servizi segreti e la mafia che coinvolgerebbero il dottor Contrada). Ma – per quanto qui mi interessa – quella che costituisce una funzione garantita dalla Costituzione (l’esercizio del diritto di difesa) viene svilita e anzi considerata come una “macchia” che deturpa la mia persona e la mia professionalità, rendendomi indegno – nella sostanza – di rappresentare mio padre Alfonso Giordano in una serata a lui dedicata. La maggior parte degli avvocati è corretta e leale ed è una figura essenziale ai fini dell’accertamento della verità – aggiunge al Dubbio -. Quindi che si consideri il professionista incapace di parlare di legalità, di giustizia e di fenomeni criminali perché è un difensore è frutto di una cultura profondamente errata e miserevole».

Il tutto, per giunta, “riducendo” i suoi 25 anni di esperienza alla sola vicenda Contrada. «Inutile dire che, a questo punto, escludo qualsivoglia mia futura partecipazione a eventi organizzati dalle associazioni “Amici di Onofrio Zappalà” e “I Marinoti”, per ricordare mio padre o per qualsiasi altra finalità. Mentre riservo di meglio valutare eventuali profili diffamatori che l’articolo in commento possa presentare».

«Mio padre – spiega ancora Giordano al Dubbio – è sempre stato rispettoso dei diritti di tutti, accusa e difesa. L’idea per cui io sia “indegno” perché ho avuto tra i miei assistiti Contrada mi sembra una follia totale e devo dire che è frutto di una cultura propugnata da forze politiche come il M5S e magistrati vari che pensano di essere gli unici detentori della verità. Quello che scrivono i giudici non vale: il solo Vangelo è quello dei pm, autori di teoremi che, alla lunga, fanno la fine che fanno, perché basati su convinzioni personali, che non sono suffragati dal metodo Falcone, quello dei riscontri delle prove – conclude -. Che sono le uniche cose che valgono in un processo».

Risarcimento a Contrada, la Cassazione bacchetta la Corte d’Appello: “Errore di diritto”. Angela Stella su Il Riformista il 19 Luglio 2022. 

I giudici di appello hanno sbagliato “nel ritenere sussistente il dolo e colpa grave in rapporto al diverso, e mai contestato, delitto di partecipazione nel reato associativo di stampo mafioso, considerato che il ricorrente è stato processato e condannato per il diverso reato di concorso esterno nel reato associativo, la cui configurabilità è stata, tuttavia, esclusa dalla Corte Edu per incertezza descrittiva e imprevedibilità di configurazione giuridica all’epoca dei fatti. […] Qui si annida l’errore di diritto in cui è incorsa la Corte territoriale”. È quanto hanno scritto i giudici della Terza Sezione Penale della Cassazione nelle motivazioni con cui lo scorso 24 giugno hanno annullato con rinvio l’ordinanza con la quale la Corte di Appello di Palermo aveva rigettato la domanda di riparazione per ingiusta detenzione proposta da Bruno Contrada, difeso dall’avvocato Stefano Giordano.

L’ordinanza impugnata, concludono i supremi giudici, “deve, quindi, essere annullata dovendo il giudice del nuovo rinvio, sulla scorta degli accertamenti in punto di fatto indicati nell’ordinanza impugnata, determinare la ricorrenza del dolo o colpa grave, causa ostativa alla riparazione, in relazione non già alla fattispecie di reato di partecipazione all’associazione mafiosa, mai contestata e rispetto la quale il ricorrente non si è mai difeso nel processo, bensì rispetto a condotte sinergiche al favoreggiamento sia delle singole vicende accertate, sia dell’associazione mafiosa”. Angela Stella

Attesa la nuova decisione della Cassazione. Il risarcimento è una farsa, Contrada aspetta ancora…Paolo Comi su Il Riformista il 6 Maggio 2022. 

Le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo per lo Stato italiano sono carta straccia. L’ultimo caso in ordine di tempo di non esecuzione di una di queste sentenze riguarda quello del maxi risarcimento per ingiusta detenzione nei confronti dell’ex dirigente della polizia di Stato e dei servizi Bruno Contrada. L’alto funzionario, ora novantenne, venne arrestato alla vigilia di Natale del 1992 su richiesta dell’allora procuratore di Palermo Giancarlo Caselli. Al termine di un iter processuale quanto mai complesso i cui elementi di prova erano le dichiarazioni di alcuni pentiti, Contrada era stato condannato in via definitiva nel 2007 a dieci anni di reclusione, quasi tutti poi scontati in regime detentivo, per concorso esterno in associazione mafiosa.

Nel 2015 la Cedu, a cui gli avvocati di Contrada si erano rivolti, aveva però stabilito che questa condanna dovesse essere cancellata. «Il reato contestato di concorso esterno è il risultato di un’evoluzione giurisprudenziale iniziata alla fine degli anni 80 del ‘900 e che si è consolidata nel 1994 con la sentenza della Cassazione “Demitry” e i fatti contestati a Contrada risalgono agli anni Ottanta», scrissero i giudici di Strasburgo. Non essendo quindi il reato contestato sufficientemente chiaro, né prevedibile, Contrada non avrebbe potuto conoscere le pene in cui sarebbe incorso. Per tale motivo l’Italia aveva violato l’articolo 7 della Convenzione dei diritti dell’uomo secondo il quale nessuno può essere condannato per un’azione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Il governo italiano aveva anche presentato ricorso alla Grande Chambre contro tale pronuncia ma era stato respinto.

Forte di questa sentenza, Contrada aveva chiesto e ottenuto dall’allora capo della Polizia Franco Gabrielli di revocare il provvedimento di destituzione emesso contro di lui a gennaio del 1993, chiedendo il reintegro seppure come pensionato, e contestualmente il risarcimento per l’ingiusta carcerazione patita. La Corte d’appello di Palermo, competente sul punto, nel 2020 riconosceva a Contrada un risarcimento pari a 667mila euro. La pronuncia veniva impugnata in Cassazione dalla Procura generale del capoluogo siciliano. La Cassazione annullava la decisione della Corte d’Appello, disponendo un nuovo giudizio. I giudici di piazza Cavour scrissero che “non vi è in effetti alcuno spazio per revocare il giudicato di condanna presupposto”. In altre parole se la sentenza di condanna e i suoi effetti devono essere annullati, Contrada ha comunque commesso le condotte contestate e quindi non ha diritto ad alcun risarcimento.

La Corte d’appello di Palermo in sede di rinvio a gennaio scorso sposò appieno tale orientamento, sconfessando così la sua precedente pronuncia. L’ultima parola spetterà ancora una volta alla Cassazione che si pronuncerà il prossimo 24 giugno sul nuovo ricorso di Contrada. Per l’avvocato Stefano Giordano, difensore dell’ex capo della squadra mobile di Palermo, «esiste un serio problema di tenuta dell’ordinamento giuridico: è inutile rivolgersi alla Corte di Strasburgo, dove i tempi medi per una sentenza superano ormai i dieci anni, se poi l’Italia non esegue le sentenze». «Il risarcimento di Contrada è un fatto puramente simbolico ma di grande importanza in uno Stato che si definisce di diritto», aggiunge Giordano. Tutto questo accade, ironia della sorte, durante la presidenza italiana del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa. Oggi è infatti in programma a Palermo la Conferenza europea dei procuratori generali alla presenza del capo dello Stato Sergio Mattarella.

Il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa è l’organo chiamato a verificare che siano stati rimossi gli effetti delle violazioni nei confronti delle persone e che non vengano quindi ripetute violazioni analoghe da parte dello Stato condannato. Inoltre, il Comitato dei ministri è chiamato a verificare che sia avvenuto il pagamento della somma riconosciuta a titolo di “equa soddisfazione”, richiedendo informazioni circa i tempi previsti per la loro esecuzione. Se lo Stato risulta gravemente inadempiente, il Comitato può, quale extrema ratio, decidere di sospenderlo dalla rappresentanza nel Consiglio d’Europa o di invitarlo a ritirarsi. Sarebbe a dir poco imbarazzante che ciò avvenisse proprio sotto la presidenza italiana. Paolo Comi

Accolto il ricorso dell’ex Sisde. La Cassazione dà ragione a Contrada: ha diritto al risarcimento per ingiusta detenzione. Paolo Comi su Il Riformista il 29 Giugno 2022. 

“Devo constatare con grande amarezza che ci sono alcuni magistrati i quali non vogliono accettare la pronuncia della Cedu secondo cui la condanna nei confronti di Bruno Contrada deve essere cancellata”. A dirlo al Riformista è il difensore di Contrada, l’avvocato Stefano Giordano, commentando la decisione della Cassazione di accogliere la scorsa settimana il ricorso contro l’ordinanza della Corte d’Appello di Palermo di rigettare la domanda di ingiusta detenzione per l’ex dirigente della polizia di Stato e dei Servizi. “L’ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli – prosegue Giordano – ha sempre criticato le decisioni della Cedu, parlando di ‘diritto straniero’. Vorrei ricordare che l’Italia fa parte del Consiglio d’Europa ed ha ratificato la Convenzione dei diritti dell’uomo, quindi è tenuta al rispetto delle pronunce di Strasburgo”.

L’alto funzionario del Ministero dell’interno, novantuno anni il prossimo settembre, venne arrestato alla vigilia di Natale del 1992 su richiesta proprio dell’allora procuratore Caselli. Al termine di un iter processuale quanto mai complesso i cui elementi di prova erano le dichiarazioni di alcuni pentiti, ad iniziare da Gaspare Mutolo, Contrada era stato condannato in via definitiva nel 2007 a dieci anni di reclusione, quasi tutti scontati in regime detentivo, per ‘concorso esterno in associazione mafiosa’. Nel 2015 la Cedu, a cui gli avvocati di Contrada si erano rivolti, aveva però stabilito che questa condanna dovesse essere cancellata in quanto il reato contestato di concorso esterno era il risultato di “un’evoluzione giurisprudenziale iniziata alla fine degli anni ‘80 del ‘900”, e quindi non previsto da disposizioni di legge. Per tale motivo l’Italia aveva violato l’articolo 7 della Convenzione dei diritti dell’uomo secondo il quale nessuno può essere condannato per un’azione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Il governo italiano aveva anche presentato ricorso, poi respinto, alla Grande Chambre contro tale pronuncia.

Contrada aveva allora presentato istanza di revoca del provvedimento di destituzione emesso nei suoi confronti a gennaio del 1993, chiedendo il reintegro seppure in quiescienza, e contestualmente il risarcimento per l’ingiusta carcerazione patita. Per il primo aspetto, l’allora capo della Polizia Franco Gabrielli aveva dato subito corso alla richiesta di Contrada, ricostruendogli la carriera da prefetto, per il secondo, la Corte d’appello di Palermo nel 2020 gli aveva riconosciuto un risarcimento di 667 mila euro. La pronuncia della Corte d’Appello veniva impugnata in Cassazione dalla Procura generale del capoluogo siciliano, allora retta da Roberto Scarpinato. La Cassazione annullava la decisione della Corte palermitana, affermando che non vi era “alcuno spazio per revocare il giudicato di condanna presupposto”, disponendo un nuovo giudizio in quanto se la sentenza di condanna ed i suoi effetti dovevano essere annullati, Contrada aveva comunque commesso le condotte contestate e quindi non aveva diritto ad alcun risarcimento. La Corte d’appello di Palermo in sede di rinvio lo scorso gennaio sposò tale orientamento, sconfessando così la sua precedente pronuncia con cui aveva fissato il risarcimento a Contrada.

“A questo punto aspettiamo le motivazioni della sentenza”, prosegue Giordano, soddisfatto per la decisione di Piazza Cavour. “Il risarcimento di Contrada – aggiunge – è un fatto puramente simbolico ma di grande importanza in uno Stato che si definisce di diritto”. Il ‘problema’ sarà ora la composizione del collegio che dovrà pronunciarsi. In questa interminabile staffetta, molti giudici hanno esaminato il fascicolo divenendo così incompatibili. “Mi auguro solo, vista l’età di Contrada ed il suo precario stato di salute, che una volta lette le motivazioni la Corte d’Appello fissi quanto prima l’udienza”, continua Giordano. “Dopo questa pronuncia, mi aspetto però altro fango nei confronti di Contrada visto l’avvicinarsi della ricorrenza della strage in cui perse la via Paolo Borsellino”, conclude Giordano. Contrada, accusato di avere avuto rapporti con i mandanti ed esecutori della strage di via D’Amelio, era stato uno dei pochi ad accorgersi del depistaggio posto in essere dal falso pentito Vincenzo Scarantino. Paolo Comi

Nessun risarcimento per Contrada? La Cassazione rispedisce il caso a Palermo. La Cassazione ha annullato con rinvio l'ordinanza con la quale la Corte d'Appello di Palermo aveva rigettato la domanda di riparazione per ingiusta detenzione formulata nell’interesse di Bruno Contrada. Il Dubbio il 25 giugno 2022.

La Corte di Cassazione, sezione terza penale, accogliendo il ricorso dell’avvocato Stefano Giordano, ha annullato con rinvio l’ordinanza con la quale la Corte d’Appello di Palermo, presieduta da Antonio Napoli, aveva rigettato la domanda di riparazione per ingiusta detenzione formulata nell’interesse di Bruno Contrada «per la pena sofferta con effetto della sentenza dichiarata ineseguibili e improduttiva di effetti penali dalla Cassazione del 2017». Nel gennaio 2021 la Cassazione aveva annullato con rinvio l’ordinanza di risarcimento della Corte d’Appello di Palermo che aveva riconosciuto all’ex 007 la riparazione per ingiusta detenzione, quantificandola in 667.000 euro. Ripassando quindi la palla ai giudici palermitani.

Dopo il no di Napoli, dunque, ora la questione verrà affrontata nuovamente dai giudici d’Appello, che dovranno rivalutare il ricorso presentato dall’avvocato Giordano. Dopo la prima bocciatura, il legale aveva contestato violazione «per ben due volte il giudicato della Corte Europea, su cui il giudice interno non ha alcun margine di discrezionalità per quanto riguarda la sua esecuzione». «Ai sensi dell’art. 46 della Cedu pertanto, il giudice interno si è sottratto all’obbligo di esecuzione delle sentenze europee che hanno dichiarato l’illegittimità del processo celebrato a carico di Bruno Contrada – aveva evidenziato dopo quella pronuncia – e la presenza di trattamenti inumani e degradanti nella illegittima detenzione del mio assistito». Insieme al ricorso per Cassazione Giordano aveva depositato un dossier articolato presso il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, «perché per l’ennesima volta, non solo lo Stato Italiano commette delle gravissime violazioni ai danni dei suoi cittadini, ma reitera dette violazioni rifiutandosi di eseguire il giudicato europeo, causando gravi problemi di incompatibilità tra la giurisprudenza italiana e la normativa europea. Valuteremo nei prossimi giorni le ulteriori iniziative da intraprendere a seguito di questa ennesima sconfitta della giustizia italiana».

Questioni sulle quali ora bisognerà fare chiarezza, dopo la decisione del Palazzaccio di rinviare per un nuovo giudizio il caso Contrada.

«Aspettiamo il deposito delle motivazioni per meglio comprendere la portata del provvedimento», ha dichiarato all’AdnKronos l’avvocato Giordano. «Quel che è certo è che la Corte di Cassazione si è rifiutata di ratificare la decisione ingiusta e convenzionalmente illegale della Corte di Appello di Palermo, che non aveva preso minimamente in considerazione le nostre difese e il diritto Cedu, neppure per confutarli. Rimane obiettivamente sempre meno margine, con questo provvedimento, per coloro che si ostinano a non attuare la Convenzione e a fare finta che la sentenza della Corte Edu su Contrada non sia mai esistita. Adesso puntiamo a che il risarcimento a favore del dottor Contrada venga riconosciuto nei tempi più brevi, considerati l’età e lo stato di salute dello stesso».

Mariateresa Conti per “il Giornale” il 26 giugno 2022.

«Sono stanco. Ma lei lo sa quanti anni ho? Novant' anni, nove mesi e un po' di giorni.... Ed è la terza volta che questo risarcimento torna alla Corte d'Appello di Palermo, la terza. Non vorrei che abbiano guardato l'età nel fascicolo e che aspettino che me ne vada...». La voce di Bruno Contrada sale di tono, ripercorrendo l'ennesima tappa della sua odissea giudiziaria cominciata con l'arresto la vigilia di Natale del 1992. 

Trent' anni tra cella, avvocati e aule di tribunale, otto di carcere, cinque processi. Novantuno anni il 2 settembre, ex funzionario del Sisde condannato a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa, riabilitato nel 2015 da un pronunciamento della Corte europea dei diritti dell'uomo che ha fatto scuola, stabilendo che il suo processo e la conseguente condanna non dovevano esistere, perché prima del '94 il reato per cui è stato condannato non era configurato con chiarezza, pronunciamento fatto proprio dall'Italia con una sentenza della Cassazione dl 2017 che ha revocato la sua condanna.

Riabilitato (ha avuto restituito il grado e rimodulata la pensione), non ha visto un euro di risarcimento per gli oltre otto anni di detenzione - «94 mesi, 2970 giorni tra carcere e domiciliari», precisa - che ha dovuto subire. Ieri l'ennesima tappa di questa odissea giudiziaria che ha dell'incredibile anche per la tempistica. 

La Cassazione gli ha dato ragione, ha annullato il rigetto da parte della Corte d'appello di Palermo dell'istanza di risarcimento. Ma ha annullato con rinvio. Bisognerà trovare nuovi giudici d'appello «che non si siano mai occupati della mia vicenda, mica facile», ricorda Contrada, a cui assegnare il caso, e poi altra tappa in Cassazione. La terza.

La terza, appunto. Era stata sempre la Suprema corte, nel 2021, ad accogliere, disponendo però il rinvio, il ricorso della procura di Palermo contro il risarcimento di 670mila euro per ingiusta detenzione stabilito in prima battuta dalla Corte d'Appello di Palermo ad aprile del 2020.

Nel gennaio scorso il nuovo «no» al risarcimento dei giudici di Palermo adesso rigettato dalla Cassazione. E il gioco a ping pong continua. «Non sono avido, ma questi soldi mi spettano di diritto. La sentenza europea è arrivata a pena interamente scontata, non potevano rendermi la libertà di cui sono stato privato ingiustamente. Li vorrei non per me, ma per darli ai miei figli o a qualcuno che ne ha bisogno». 

Contrada si trova processato per fatti gravi, senza essere indagato o convocato”. Il suo legale annuncia ricorso alla Cedu: «mai stato convocato neanche per le indagini preliminari». Ma per Il giudice del rito abbreviato per l’omicidio Agostino, l’ex 007 e “Faccia da mostro” si incontravano con i boss. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 13 gennaio 2022.

Nemmeno durante il fascismo poteva capitare di ritrovarsi accusati, direttamente in sentenza, per fatti gravi senza subire almeno formalmente un processo con tutte le garanzie del caso. Nella nostra Repubblica democratica, un tempo definita culla del diritto, può succedere eccome. Lo ha scoperto per caso l’avvocato Stefano Giordano, legale dell’ex 007 Bruno Contrada, quando il suo assistito nei giorni scorsi è stato invitato a comparire, come testimone, al processo del delitto Agostino.

Nella sentenza del processo con rito abbreviato per la morte di Agostino Contrada risulta come persona coinvolta in fatti gravi

A quel punto, autonomamente, l’avvocato Giordano è venuto in possesso della requisitoria della Procura Generale di Palermo e della sentenza del processo per la morte di Agostino celebrata con il rito abbreviato. Ed è in questa sentenza – a firma del Gup di Palermo Alfredo Montalto, l’allora giudice del processo trattativa di primo grado – che ritrova il nome di Bruno Contrada come persona coinvolta in fatti gravi. Ma senza, come detto, essere stato indagato, inquisito o interrogato sui fatti.

La sentenza mai comunicata da alcun organo giudiziario contiene gravi violazioni convenzionali

«Appare assurdo – denuncia l’avvocato Giordano – come in questo Paese sia ancora consentito fare processi senza tutelare i diritti delle persone che vengono giudicate e quindi senza le garanzie che la Costituzione, la Cedu ed il codice pongono a tutela dell’indagato e dell’imputato. È certamente agevole celebrare i processi contro persone che non hanno alcuna possibilità di difendersi».

Secondo l’avvocato, è stata commessa una grave violazione, per questo annuncia che porterà il caso davanti ai giudici della Corte Europea di Strasburgo. «La sentenza – spiega sempre il legale di Contrada -, mai comunicata al mio assistito né al sottoscritto da alcun organo giudiziario, contiene gravi violazioni convenzionali, tra cui il diritto alla presunzione di innocenza e il diritto di accesso al giudice, tutelati dagli artt. 3 e 13 Cedu».

La sentenza del marzo 2021 ha condannato il boss Nino Madonia

Ricordiamo che si tratta di una sentenza emessa a marzo del 2021. Il gup di Palermo Alfredo Montalto ha condannato il boss Nino Madonia accusato del duplice omicidio del poliziotto Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio commesso il 5 agosto 1989. Il processo si è svolto con rito abbreviato. Del duplice omicidio era imputato anche il boss Gaetano Scotto che, a differenza di Madonia, ha scelto il rito ordinario e quindi era in fase di udienza preliminare. Il gup lo ha rinviato a giudizio. Il processo a suo carico è cominciato il 26 maggio scorso.

Nella sentenza in questione, recuperata da pochi giorni dall’avvocato Giordano, in effetti compare anche Bruno Contrada. Il giudice Montalto scrive che, come possibile concomitante movente dell’omicidio dell’agente Agostino e della moglie, oltre a confermare anche sotto tale diverso profilo la matrice mafiosa, «conduce ancora una volta il delitto nell’alveo degli interessi precipui del “mandamento” di Resuttana capeggiato dai Madonia, con i quali, infatti, tutti gli esponenti delle Forze dell’ordine e dei Servizi di sicurezza oggetto di indagini intrattenevano, a vario titolo, rapporti. Ci si intende riferire a Bruno Contrada, ad Arnaldo La Barbera e allo stesso Giovanni Aiello».

Il gup Alfredo Montalto ritiene attendibile il pentito Vito Galatolo

Ed ecco che fa un riferimento ancora più esplicito. Il Gup dichiara attendibile il pentito Vito Galatolo, il quale testimonia che ebbe a vedere personalmente Contrada in occasione di alcune visite in vicolo Pipitone e «in alcune di tali occasioni contestualmente ad una persona, “appartenente ai servizi segreti”, soprannominata il “mostro” perché “aveva la guancia destra deturpata da un taglio, la pelle rugosa e arrossata..”». Quest’ultimo sarebbe Giovanni Aiello, conosciuto con il soprannome “Faccia da mostro”. Anche lui compare in sentenza, senza essere processato. La differenza con Contrada, è che lui è morto da qualche anno.

Secondo il Gup Contrada e “Faccia da mostro” incontravano i boss in vicolo Pipitone

«I predetti – prosegue il Gup – , in particolare, nel vicolo Pipitone, si incontravano con Antonino Madonia (ma anche con Vincenzo Galatolo e Gaetano Scotto) con il quale si appartavano “all’interno della casuzza… … …a volte anche un’ora o due ore” e ciò nel periodo precedente all’arresto del Madonia (29 dicembre 1989) ancorché imprecisamente indicato dal Galatolo, in sede di incidente probatorio, negli anni “87 – 88 – 89 fino all’arresto di Nino Madonia” tenuto conto che il Madonia sino al 5 novembre 1988 era detenuto e, quindi, certamente non poteva essersi trovato presente nel vicolo Pipitone». Ma per il Gup Montalto, questa imprecisione temporale «non inficia minimamente la complessiva attendibilità della dichiarazione di Vito Galatolo».

Galatolo è stato considerato inattendibile per le procure di Caltanissetta e Catania

Per completezza, c’è da dire che per la stessa dichiarazione di questo pentito, ben due procure (quella di Caltanissetta e Catania) hanno chiesto l’archiviazione, perché secondo i Pm è risultato inattendibile. Ma evidentemente, per la procura generale di Palermo no. Parere confermato dal gup Montalto. Resta il fatto che Contrada (ma anche Aiello, alias “faccia da mostro”, mai inquisito), si ritrova in sentenza per un fatto gravissimo e senza essere indagato o sentito nel merito.

Secondo questo assunto cristallizzato in sentenza, l’ex 007 avrebbe partecipato alle riunioni con esponenti mafiosi dove si decidevano alcuni tra i delitti più atroci. Sempre il giudice Montalto, scrive in sentenza che «secondo quanto riferito da Vito Galatolo, una delle visite di Contrada ed Aiello, in occasione della quale questi incontrarono Nino Madonia, Pino Galatolo, Vincenzo Galatolo, Gaetano Scotto e Raffaele Galatolo, fu notata dall’Agostino che stava effettuando un appostamento proprio nel vicolo Pipitone».

Contrada non è mai stato né convocato né sentito nel processo e né durante la fase delle indagini preliminari

In una sentenza, Contrada viene indicato come frequentatore degli esponenti mafiosi nella casa al vicolo del Pipitone di Palermo dove si decidevano le stragi. Fatti gravissimi, ma senza essere mai stato né convocato né sentito nel processo e né durante la fase delle indagini preliminari. È possibile? Ma non è finita qui. C’è il processo Agostino, quello con rito ordinario, in Corte d’Assise di Palermo e Contrada è stato invitato a deporre come testimone. Attraverso il suo legale, l’ex funzionario di polizia ha fatto avere alla Corte che celebra il dibattimento un certificato medico che attesta le sue gravi condizioni di salute.

L’avvocato di Contrada Stefano Giordano annuncia ricorso alla Cedu

Ma la questione è ancora più surreale. Contrada viene sentito come testimone, quindi privo di garanzie rispetto a una persona imputata. Il paradosso è che formalmente non è imputato, ma viene sentito nel processo del delitto Agostino dove, parallelamente, in quello abbreviato appare in sentenza come persona indirettamente legata all’omicidio. E senza, ribadiamolo, essere inquisito. «Per entrambi i motivi – annuncia l’avvocato Giordano – agiremo davanti alla Corte Europea per la violazione di questi diritti e sarà mia cura interloquire con la Procura Generale e soprattutto con la Corte di Assise, in via ufficiale, affinché il dottor Contrada possa rendere dichiarazioni, eventualmente dal domicilio, nella veste di indagato di reato connesso».

La vicenda dell'ex numero tre del Sisde. Caso Contrada, i giudici sfidano l’Europa: “È innocente ma non lo risarciamo”. Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Gennaio 2022.  

La Corte d’Appello di Palermo ha rigettato la richiesta di Bruno Contrada di avere un risarcimento per i molti anni trascorsi ingiustamente in carcere. Non sappiamo bene perché l’abbia rigettata. In pratica però la decisione si fonda su due idee forti.

La prima è che l’indipendenza dei giudici consente ai giudici di contravvenire alle sentenze della Cedu, che pure hanno il valore di sentenze di una corte di giustizia superiore e dunque devono semplicemente essere eseguite. Questa sentenza invece fa strame della legalità. Avete presente quella tiritera che si ripete ogni volta che un imputato viene condannato (“le sentenze non si giudicano ma si eseguono”)? La Corte di Appello di Palermo ha deciso di assumere un atteggiamento del tutto contrario: le sentenze si ignorano. perché qui comandiamo noi.

La seconda idea forte che sta dietro la sentenza è che se un imputato viene considerato innocente, e se ha scontato ingiustamente molti anni di carcere, ha diritto a un risarcimento solo se i suoi accusatori sono convinti che sia innocente. Se invece mantengono il sospetto che sia colpevole, niente risarcimento perché la giustizia non può mai essere un fatto oggettivo ma deve adattarsi alle situazioni. e soprattutto non deve scalfire la dignità e il potere degli accusatori o dei giudici.

La Corte d’Appello di Palermo – come ha spiegato in una sua dichiarazione l’avvocato Stefano Giordano – con questa sentenza ha violato le regole. Non aveva nessun diritto di decidere “se” risarcire, ma solo quanto quando e come. Ora Contrada spera di ottenere giustizia dalla Cassazione. Noi speriamo che la ottenga. Perché se invece prevalesse l’ottusità e l’arroganza della parte più arretrata e antiliberale della magistratura, sarebbe un segnale pessimo. Nessuna persona ragionevole può pensare che non sia giusto risarcire una persona che ha trascorso molti anni in prigione per via di un processo che la Corte Europea ha dichiarato illegittimo.

Contrada, che è stato uno dei massimi esponenti dei servizi segreti italiani, e che ha combattuto molte battaglie contro la mafia, è stato imprigionato per otto anni e – sempre secondo la Corte Europea – sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. E ora è nuovamente vittima dell’arroganza illegale.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

La sentenza. Bruno Contrada non va risarcito, fu condannato e incarcerato ingiustamente. Piero Sansonetti su Il Riformista il 22 Gennaio 2021.  

Le cose certe sono due. Prima: Bruno Contrada non era colpevole. Seconda: Bruno Contrada ha passato quattro anni e mezzo in cella e altri tre e mezzo ai domiciliari (in tutto otto anni). Per un errore – anzi per diversi errori – molto gravi della magistratura.

La sua non colpevolezza, a più di vent’anni dall’arresto, è stata accertata prima dalla Corte di Strasburgo e poi dalla nostra Cassazione. E su questa base la Corte d’appello di Palermo aveva quantificato in quasi 700mila euro il risarcimento dovuto. Non sono neanche tanti 700mila euro per una vita distrutta.

Bruno Contrada è un importantissimo ex poliziotto, che operava in Sicilia, combatteva la mafia, e poi è stato anche il numero 2 dei servizi segreti. Fu condannato per “concorso esterno in associazione mafiosa” per fatti degli anni Ottanta. Contrada fece notare che quel reato non esiste nel codice penale italiano (e non esiste in nessun codice penale, in tutto il mondo). In genere viene usato quando gli inquirenti non trovano nessun reato specifico da imputare a una persona che però vogliono che sia condannata. Concorso esterno ha questo vantaggio: non devi provare né che l’imputato è mafioso né che abbia commesso delitti precisi. È una categoria dello spirito.

La Corte Europea stabilì che in ogni caso questo reato, ”italianissimo”, prima del 1992 non esisteva né nel codice penale né in nessun aspetto della giurisprudenza, e dunque non poteva assolutamente essere contestato. Contrada non andava arrestato, non andava processato, non andava condannato, non doveva scontare nessunissima pena.

La Procura e l’avvocatura dello Stato però hanno fatto ricorso contro la decisione della Corte d’Appello. Non vogliono che Contrada riceva una lira. Un caso limpido di accanimento. Dovuto a che cosa? Forse solo al fetido spirito dei tempi.

E la Corte di Cassazione ieri ha deciso di sospendere il risarcimento e di chiedere alla Corte di Appello di Palermo di riesaminare il caso. Non si conoscono ancora i dettagli di questa sentenza. Però si sa che con i tempi della giustizia italiana, visto che Contrada ha quasi 90 anni, è probabile che non vedrà mai il risarcimento. È stato perseguitato, ingiustamente incarcerato, ridotto in miseria, e ora gli si dice: vabbè son cose che succedono. E dicendogli così si decide di trasgredire in modo clamoroso e sfacciato una sentenza della Corte Europea.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Raffaele Lombardo.

COSA SCRIVE PIAZZA CAVOUR NELLA SENTENZA. Zero prove del patto con la mafia: così la Cassazione smonta l’accusa dopo 13 anni per Raffaele Lombardo. Gli organi inquirenti avrebbero dovuto dimostrare, e non l’hanno fatto, che esisteva un “patto”, in questo caso tra l’ex presidente della Regione Sicilia e Cosa Nostra. Giuseppe Bonaccorsi su Il Dubbio il 30 agosto 2023

La Corte di Cassazione ha depositato tre giorni fa le motivazioni della sentenza di assoluzione di Raffaele Lombardo, ex governatore della Sicilia e per molti decenni uomo forte della politica a Catania. Lombardo, nato politicamente con la Democrazia cristiana, è stato assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa nel marzo di quest’anno, a conclusione di un lungo processo durato quasi 13 anni e caratterizzato da numerosi colpi di scena, due sentenze contrastanti, sino al rinvio della Cassazione e al nuovo giudizio d’appello.

L’ultimo atto di un iter giudiziario lunghissimo è arrivato a destinazione nell’inverno scorso quando Piazza Cavour ha dichiarato inammissibile il ricorso della Procura generale di Catania avverso la sentenza di assoluzione dell’appello “bis”, e quindi ha confermato l’assoluzione con formula definitiva per l’ex governatore della Sicilia.

Nelle motivazioni, i giudici della Suprema corte spiegano che l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa può reggere soltanto se si dimostra «non la mera vicinanza al detto gruppo o ad i suoi esponenti, anche di spicco e neppure la semplice accettazione del sostegno elettorale dell’organizzazione criminosa, ma la prova del patto in virtù del quale l’uomo politico, in cambio dell’appoggio elettorale, si impegni a sostenere le sorti della stessa organizzazione in un modo che, sin dall’inizio, sia idoneo a contribuire al suo rafforzamento o consolidamento: irrilevante», invece, «la concreta esecuzione delle prestazioni promesse, spesso rilevanti solo ai fini di prova».

In sintesi gli organi inquirenti avrebbero dovuto dimostrare, e non l’hanno fatto, che esisteva un “patto”, in questo caso tra l’ex presidente della Regione Sicilia e Cosa Nostra. Serviva almeno una prova che dimostrasse l’impegno assunto dal politico a favorire i boss: per i giudici della Suprema Corte è stato dunque «corretto il ragionamento svolto nella sentenza di appello bis» del gennaio 2022, che appunto aveva già assolto Lombardo. «L’analisi della Corte d’Appello», prosegue la Cassazione, «è stata svolta altresì sulla scorta di un puntuale e completo esame di tutte le risultanze processuali, sicché alcuna carenza od omissione dell’esame dei dati processualmente rilevanti inficia la scansione del ragionamento probatorio».

Le motivazioni della sentenza a carico dell’ex governatore Lombardo ricalcano, per certi versi, quelle della sentenza Mannino, che pure venne assolto dal concorso esterno. Anche per l’ex ministro, i giudici della Suprema Corte sentenziarono che il fatto non sussiste perché non era stato provato alcun patto tra il politico e Cosa Nostra. Mannino venne arrestato nel 1992 con l’accusa di concorso esterno con alcuni gruppi mafiosi dell’Agrigentino. Scontò 9 mesi di carcere e 13 di arresti domiciliari. Nel 2001 ci fu per lui la prima assoluzione perché il fatto non sussiste, decisione poi confermata nel 2010 dalla Cassazione. L’assoluzione Mannino è diventata un caso giudiziario che ha fatto giurisprudenza e ancora oggi viene citato nelle aule dei Tribunali. Tra l’altro Mannino, ai tempi della militanza di Lombardo nella Dc, era capocorrente di quest’ultimo.

Raffaele Lombardo venne indagato per l’accusa di concorso esterno quasi 14 anni fa, ma non è mai andato in carcere. La sua carriera politica costellata da grandi risultati in realtà finì quando venne raggiunto dall’avviso di garanzia della Procura di Catania: per lui sono stati 13 anni di processi e di colpi di scena.

«Io, Lombardo, assolto e con una carriera politica distrutta». Intervista all’ex governatore della Regione Sicilia a poche ore dal deposito delle motivazioni con le quali la Cassazione ha definitivamente cancellato l’accusa più infamante sostenuta per due lustri dai pm, concorso esterno. «Non riesco a provare né soddisfazione, né sollievo, semmai una grande amarezza», dice il fondatore dell’Mpa. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 29 agosto 2023

Raffaele Lombardo non può non fare un tuffo nel passato nel commentare la fine della propria vicenda giudiziaria, durata oltre dieci anni. La Corte di Cassazione ha depositato due giorni fa la sentenza con cui il fondatore del Movimento per l’autonomia è stato assolto in via definitiva dalle accuse di concorso esterno e di corruzione elettorale con l’aggravante di aver favorito la mafia. Il “patto” immaginato e sostenuto dall’accusa fra l’ex governatore siciliano e Cosa nostra non è mai stato provato. Un successo per i difensori di Lombardo, gli avvocati Vincenzo Maiello e Maria Donata Licata, che ha contribuito in maniera rilevante all’evoluzione giurisprudenziale del reato di concorso esterno in associazione mafiosa. «La Suprema Corte – commentano i due penalisti – ribadisce un principio di diritto importante in tema di concorso esterno nel reato di associazione mafiosa mediante patto elettorale politico mafioso».

I giudici della Sesta sezione penale di Piazza Cavour hanno restituito un po’ di serenità all’ex presidente della Regione Siciliana, ma resta tanta amarezza per la fine di un sogno politico che voleva aprire una fase nuova per il Sud e per l’Italia. Una fine ingloriosa provocata, come sottolinea Raffaele Lombardo, da «un’aggressione mediatica, iniziata nel 2010, che, secondo uno schema collaudato, ha preceduto il processo».

Dottor Lombardo, con il deposito della sentenza della Cassazione è stata scritta la parola fine sulla sua vicenda giudiziaria. Come si sente?

Non riesco a provare né soddisfazione, né sollievo, semmai una grande amarezza. La mia vicenda giudiziaria ha investito la mia vita e mutato la storia della mia terra. Nel marzo del 2012 il gip dispose una imputazione coatta rispetto alla richiesta di archiviazione della Procura, che argomentava come non ci fossero gli elementi per sostenere l’accusa, e aveva ragione. Mi dimisi da presidente della Regione e una stagione di radicali riforme ebbe termine.

Le indagini e i processi hanno messo in piedi un teorema, smontato pezzo per pezzo dai suoi avvocati Vincenzo Maiello e Maria Licata. La sua difesa ha eliminato quel “troppo” e quel “vano” dell’accusa, elementi che hanno contribuito a distruggere la sua carriera politica. Lei è stato disarcionato mentre guidava la Regione Siciliana. Un danno incalcolabile?

Un danno incalcolabile e aggiungo irreparabile, per la mia reputazione, il mio onore, la mia famiglia, la mia iniziativa politica. Nel 2005 avevo fondato il Movimento per l’autonomia, la Sicilia è una Regione autonoma, grazie al suo Statuto speciale, che dal 2010 vive anche se la sua spinta propulsiva si è bloccata, con un grave danno per il mio popolo.

È facile dare del “mafioso” a un politico?

Conviene agli avversari ed eccita i populisti e una certa antimafia di facciata. Devo dire che la gente che mi conosce d’antica data e che conosce i miei familiari, le mie frequentazioni, i miei discorsi e le mie azioni, non ci ha mai creduto.

Lei fece della lotta alla mafia un punto imprescindibile dell’attività politica e istituzionale. La Giunta Lombardo poteva contare su importanti personalità…

Senza clamore, facendo il mio dovere, rispettando le persone e osservando le leggi, senza mai farmi contaminare dai pochi di buono presenti tra migliaia di uomini e donne che ho incontrato e ascoltato. Non sono un politico nominato e collocato nel collegio sicuro. Sono stato preferito, sono stato eletto. Primo in Italia per gradimento da presidente della Provincia di Catania, nel quinquennio 2003- 2008, primo da presidente della Sicilia, dal 2008 e fino all’aggressione mediatica del 2010, che, secondo uno schema collaudato ha preceduto il processo.

Magistrati, da Massimo Russo a Caterina Chinnici a Giovanni Ilarda, docenti universitari, da Gaetano Armao a Mario Centorrino, prefetti, stimati professionisti, hanno fatto parte di una Giunta, credo, senza molti eguali nella storia della Sicilia degli ultimi decenni.

La sua vicenda dimostra che con alcuni teoremi una persona può essere distrutta nel privato e sul piano politico, se ricopre determinati ruoli. Si possono stravolgere gli assetti democratici. Ma ritiene che il suo particolare caso sia più unico che raro?

È così. Mi auguro che se ne tragga spunto per correggere la devianza, ma non mi faccio soverchie illusioni.

Anche nei suoi confronti la gogna mediatica ha lavorato tanto. Qual è il ricordo più brutto?

Il fatto che ricordo con maggiore amarezza e sconcerto è stato “l’avviso di garanzia a mezzo stampa”, lanciato dal quotidiano Repubblica il 29 marzo 2010 e, paradossalmente, smentito dalla Procura. Ancora più sconcertante fu il seguito. Ad aprile, lo stesso quotidiano trasmetteva “l’avviso di arresto”, che, ancora una volta, veniva smentito dalla Procura. Ancora, mentre stavo maturando la scelta di dimettermi, inseguito dal susseguirsi altalenante di queste notizie, successivamente la Procura, nell'ottobre del 2011, chiedeva l’archiviazione. Incredibile, ma vero.

Continua a seguire con attenzione la politica? Il sogno di una forza politica autonomista, in grado di guardare soprattutto a Sud, è realizzabile?

Impossibile abbandonare la politica. Ho iniziato a vent’anni nelle aule universitarie. Ma oggi non è in cima, né l’unico dei miei pensieri. L’autonomia e le sue potenzialità per la Sicilia sono di vitale importanza, se coniugate come assunzione di responsabilità e come impegno delle nostre sterminate risorse, non se spalancano la strada all’assistenzialismo e al saccheggio. Confido che una generazione di giovani possa raccogliere il testimone. Conto di aiutarli con una fondazione che assicuri studio, ricerca, formazione.

Il presente e il futuro di Raffaele Lombardo li vede ancora in politica?

Anche in politica, ma futuro, presente e passato sono nelle mani di Dio. Ci credo. È stata la chiave per aprire tante porte soprattutto negli ultimi anni.

Raffaele Lombardo dopo 12 anni ancora sotto processo, ma è una battuta di caccia. Antonio Coniglio  1 Marzo 2023

Infine, assolto per l’ultima volta, a guisa di colui che è fortunosamente sopravvissuto al rito della caccia alla stracca – l’inseguimento della selvaggina fino a costringerla a lasciarsi catturare non per l’abilità del cacciatore ma per esaurimento – Lillo Mannino da Sciacca chiosò: “Non provo sollievo ma stanchezza”. È l’eterno paradosso italiano, ove il processo o è spiccio, sommario, o commina una pena senza fine: tertium non datur.

L’iter processuale diviene infatti un plotone di esecuzione repentino o una pratica venatoria se in tribunale entra l’uomo, non il fatto, il tipo d’autore e non l’autore del reato. L’opposto del modello accusatorio, di quell’inno anglosassone, che per definizione è armonioso, “ragionevole”. Nel suo incedere, nella sua durata. Nel quale, la pubblica accusa, ai sensi di una norma disgraziata – l’art 358 c.p.p. – “svolge accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”. In cui il mancato esercizio dell’azione penale o l’assoluzione non sono una sconfitta – davighianamente l’epilogo di un colpevole che l’ha fatta franca – ma una conquista, una liberazione, un ritorno alla vita.

Dicono che Raffaele Lombardo da Grammichele – l’uomo che un tempo lottò contro pale eoliche e termovalorizzatori (forse lasciandoci le penne) – ami il cirneco dell’Etna: un cane da caccia che nella corsa raggiunge finanche i 50 km orari. Dicono pure che una volta uscisse a cavallo. Certo è che, alle porte del suo settantaduesimo compleanno, tredici dei quali trascorsi nelle aule di giustizia, l’ex Presidente della Regione Siciliana non avrebbe potuto immaginare che il processo che lo riguarda – per il quale è stato assolto dalla Corte d’Appello di Catania “perché il fatto non sussiste” e “per non aver commesso il fatto” dai reati di concorso esterno in associazione mafiosa e di corruzione elettorale – rischi di trasformarsi in una vera e propria battuta di caccia.

Quella venagione al seguito, nella quale la preda, inseguita da cani e con il cacciatore a cavallo, viene infine catturata sol perché sfinita, stracca, esanime. I pubblici ministeri di Catania hanno, infatti, proseguito la “partita” e, in ottanta pagine di ricorso per cassazione, valutato la sentenza di assoluzione “piena di contraddittorietà”, denunciando una “parcellizzazione degli elementi di prova”, non avendo il giudice dato il giusto peso alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Vale proprio la pena ripercorrere quelle dichiarazioni per comprendere come siano stuzzicanti, forse finanche gustose dal punto di vista narrativo, ma incapaci di fondare un accertamento di colpevolezza, in dubbio pro-reo, oltre ogni ragionevole dubbio, pena il ricadere in un utilizzo medioevale, premoderno, nell’esercizio della potestà punitiva dello stato.

C’è, in questa interminabile vicenda, un pentito di mafia, tale D’Aquino, il quale ha per esempio riferito di aver incontrato un uomo politicamente vicino a Lombardo e di avergli richiesto la promozione in una cooperativa sociale: l’unica certezza è che la promozione non sia mai avvenuta e che quell’uomo sia stato assolto. Però Lombardo… non poteva non sapere! Un certo Nizza aveva affermato in un primo tempo ai pubblici ministeri di aver votato alle comunali per un ragazzo del partito di Lombardo che, a suo dire, non era Lombardo. Poi in udienza il “ragazzo” in questione sarebbe stato il fratello di Lombardo che, all’epoca dei fatti, aveva appena 48 anni e, lo si sa, che alle porte del cinquantesimo genetliaco, in Sicilia ci si affaccia come virgulti alla vita!

Il mafioso agrigentino Digati ha giurato di aver fatto votare il partito di Lombardo nell’anno del giubileo quando il politico siciliano – che allora faceva il vicesindaco a Catania – quel partito non aveva neanche in testa di fondarlo. In effetti, Digati dichiarò di aver votato uomini di Forza Italia. Un certo Caruana raccontò di un summit col mafioso Bevilacqua, al quale avrebbe partecipato Raffaele Lombardo: nessuna traccia, nessun riscontro se non che Bevilacqua abbia votato il candidato del Partito Democratico. E che dire del figlio del boss Di Dio, presunto raccomandato per regolare una situazione debitoria in un consorzio delle acque, mai ricevuto neanche dai dipendenti della struttura?

Dell’appalto della Tenutella rispetto al quale non v’è traccia dell’ingerenza del politico siciliano. Della ricerca, vana, dopo 12 anni di indagini, anche di un solo favore fatto ai mafiosi da Lombardo e del geologo Barbagallo, in odor di mafia, il quale, intercettato, si lamentò finanche di esser stato penalizzato e prostrato da Lombardo? Si potrebbe davvero rimandare Raffaele Lombardo dinnanzi al giudice d’appello, sulla base del fatto che il collaboratore Francesco Schillaci abbia affermato di aver appreso, affacciatosi come Romeo dalle finestre del carcere di massima sicurezza di Opera, dal boss La Rocca che Lombardo fosse un suo amico mentre Lombardo risulta essere uno dei pochi politici che non cita mai in anni di conversazioni intercettate?

Ve la sentireste di condannare ad altri anni di verifica, infamandone la vita, un uomo perché il pentito Tuzzolino – condannato poi per diffamazione aggravata nei confronti di un magistrato – abbia affermato di averlo incontrato a Palazzo d’Orleans, alle 5:30 di mattina, non sapendo che lì non sarebbe sfuggito alle telecamere attive h 24? Si vuole forse inchiodare Lombardo perché Maurizio Avola sostenne di averlo visto – trent’anni prima – in una macchina che poi si scoprì neppure immatricolata all’epoca a Catania? E, visto che questa è una storia non di fatti ma di cani e cavalli, potrebbe la Cassazione – giudice di legittimità – annullare con rinvio, perché Paolo Mirabile spergiurò di aver incontrato il principe Scammacca, a suo dire proprietario di un maneggio, vestito da cavallerizzo, per chiedergli di intercedere presso Lombardo “nientedimeno” che per la licenza di una trattoria?

Scammacca (che non è principe) non ha mai avuto a che fare con un cavallo in vita sua! Con i cavalli aveva semmai avuto a che fare, in vita, il povero L’Episcopo, proprietario di un maneggio considerato, senza il barlume di un riscontro, dai pubblici ministeri “la cassetta della posta della mafia”, nel quale i boss avrebbero recapitato a Lombardo suppliche e preghiere. Giuseppe L’Episcopo ha lasciato questa terra il giorno dell’assoluzione di Lombardo e le sue povere bestie, ancora in vita, risultano essere perseguitate dall’accusa di avere avuto a che fare con la mafia!

Quanto dovrà durare un processo cui sono state dedicate, soltanto nell’anno 2010, 16 titoli di apertura il Tg1 delle 20 e migliaia di articoli tutti intrisi di mascariamento? Una vicenda che spaccò la Procura etnea, 12 anni fa, nella quale il Procuratore pro tempore dell’epoca e il suo aggiunto (oggi attuale Procuratore) non aderirono alla posizione dei sostituti che volevano esercitare a ogni costo l’azione penale? Una trama che ha già registrato almeno due richieste di archiviazione, un’imputazione coatta, una condanna in primo grado, un’assoluzione in appello, un annullamento con rinvio, sino a un’altra assoluzione in appello lo scorso gennaio?

Guai se il processo diviene una pratica venatoria, la ricerca di un colpevole ad ogni costo! Non è giustizia ma, sciascianamente, terribilità! Se di caccia, cavalli e cani parliamo, si attende, in questa storia tutta siciliana, non la Lupa, ma il Veltro. “Molti son li animali a cui s’assomiglia e più saranno ancora, infin che ‘l veltro verrà…” diceva il Poeta. Il veltro, il levriero, la personificazione di una giustizia non come dea bendata, che imbracci a ogni costo la spada, inseguendo un uomo per 12 anni. Una giustizia che non pedini, non talloni, non cacci. Non sappia braccare. Che sappia invece riformarsi, liberarsi, liberare. In cui non si esca stracchi, vinti, da un processo. Nella quale, l’assoluzione, laddove arrivi, regali sollievo e non stanchezza. Antonio Coniglio

La Cassazione conferma assoluzione per l’ex governatore della Sicilia Raffaele Lombardo. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 7 Marzo 2023

La sentenza che rende definitiva l’assoluzione di Raffaele Lombardo arriva al giudizio definitivo dopo un lungo iter giudiziario, due sentenze contrastanti, un rinvio dalla Cassazione e un processo d’Appello bis

I giudici della Sesta sezione penale della Cassazione hanno dichiarato inammissibile il ricorso della procura generale di Catania confermando la sentenza del gennaio 2022 che, nell’Appello bis, aveva assolto l’ex governatore siciliano Raffaele Lombardo, assoluzione diventata definitiva smantellando l’impianto accusatorio di “concorso esterno” e quello di “corruzione elettorale” aggravato dall’avere favorito la mafia. I supremi giudici con questa decisione non hanno accolto le richieste della procura generale della Cassazione che aveva sollecitato, invece, un annullamento con rinvio della sentenza e un nuovo esame da parte dei giudici di secondo grado.

La procura generale della Cassazione nel corso della requisitoria oggi al Palazzaccio ha sostenuto che “siamo in presenza di un rapporto privilegiato tra un esponente istituzionale ed esponenti di spicco di un’associazione. Serve una valutazione più approfondita della Corte di merito”.

Gli avvocati Maria Donata Licata e il professor Vincenzo Maiello, i difensori di Lombardo, hanno evidenziato in aula come la “logicità” della sentenza della Corte d’Appello di Catania “sia dimostrata”. Non è dimostrato, invece, “alcun presunto ‘patto’, ad oggi non definito, non collocato né nello spazio né nel tempo”, hanno sottolineato i difensori davanti ai supremi giudici chiedendo di dichiarare inammissibile il ricorso contro l’assoluzione dell’ex presidente della Regione Siciliana. Richiesta che è stata condivisa ed accolta dagli ermellini della Cassazione. La sentenza che rende definitiva l’assoluzione di Raffaele Lombardo arriva al giudizio definitivo dopo un lungo iter giudiziario, due sentenze contrastanti, un rinvio dalla Cassazione e un processo d’Appello bis.

Provo soltanto amarezza e non felicità, forse per i tredici anni della mia vita passati in vicende giudiziarie e per il massacro mediatico subito“, è stato lo sfogo di Lombardo, all’Ansa, commentando la sentenza della Cassazione che giudicato inammissibile il ricorso della Procura generale di Catania contro l’assoluzione dell’Appello bis.

Lombardo dopo avere ricevuto l’avviso di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione elettorale aggravata, emesso dalla Procura di Catania, si dimise dalla carica di governatore. Sulla sentenza è intervenuto l’attuale presidente della Regione Sicilia, Renato Schifani, osservando che “la definitiva assoluzione di Raffaele Lombardo è una doppia buona notizia; cancella ogni possibile ombra sul fatto che un ex presidente della Regione possa essere sceso ad accordi con la mafia, dall’altro perché restituisce, a tredici anni dall’avvio dell’inchiesta e dopo un iter molto complesso e travagliato, serenità a una persona perbene e alla sua famiglia“. Redazione CdG 1947

Perché Raffaele Lombardo è stato assolto definitivamente dopo 13 anni di processi. Antonio Coniglio su Il Riformista il 10 Marzo 2023

Infine, il 7 Marzo del 2023, i cavalli di Giuseppe L’Episcopo – che lasciò questa terra il giorno dell’assoluzione in appello del suo amico Raffaele Lombardo – si sono affrancati dall’accusa infamante di aver incrociato la mafia. L’Episcopo era il proprietario di un maneggio, considerato dalla pubblica accusa “la cassetta delle lettere della criminalità organizzata”, lo spazio nel quale i mafiosi avevano imbucato invocazioni, suppliche e preghiere nei confronti dell’ex presidente della regione siciliana.

Daniel Pennac definì la Sicilia, insieme all’Irlanda, una delle due grandi isole letterarie del continente. Forse, per amaro paradosso, per una beffa della definizione, anche il processo può finire per diventare, nella Trinacria, uno sforzo estroso, creativo, mirabile, al limite della fantasia. Ahinoi, un’ecatombe straziante, un eccidio di diritti e di civiltà, laddove la vita di una persona venga tenuta, per 13 anni, sospesa, agganciata al filo sferzante e velenoso di sospetti e iatture. La Suprema Corte di Cassazione ha finalmente – con una declaratoria di inammissibilità del ricorso presentato dalla Procura Generale di Catania che chiedeva di rifare il processo di appello – liberato Raffaele Lombardo dall’angoscia di una vicenda giudiziaria sfibrante. Liberato, riconsegnato alla vita, come avevano chiesto nelle arringhe del processo di appello i suoi avvocati Enzo Maiello e Maria Licata. Redento dallo stigma della mafiosità, disincagliato dal verghiano “ciclo dei vinti” siciliano che condanna gli uomini a essere ammorbati dalla mafia in ogni dove, in qualsivoglia angolo recondito del paradiso siciliano, elevato a inferno da un armamentario bellico che, nel nome della lotta alla criminalità organizzata, finisce per specchiarsi in essa.

Perché i mezzi prefigurano sempre i fini e mezzi sbagliati non ci consegnano un mondo migliore. Non è assolutamente vero che “Male captum, bene retentum” (“sebbene illegale, la prova viene utilizzata”) abbia a che fare con la giustizia. Il frutto dell’albero avvelenato corrompe e intossica lo stato di diritto. Peggio ancora se, come nell’affaire Lombardo, la prova non aveva diritto di esistere. Non ha a che fare con la giustizia il “Taterschuld”, il processo che accerta non il fatto di reato ma il “tipo d’autore”, la trama giudiziaria che irroga la pena non per quel che si è fatto ma per quel che si è. O che si appare all’esterno, secondo le lenti di una pubblica accusa, di un telegiornale, di una qualsivoglia testata, di un capannello da bar. C’è stato un tempo in cui Raffaele Lombardo è stato raffigurato come algido, famelico, il “cattivo” del totalitarismo manicheo.

Finanche mafioso, anche se, in quelle migliaia di pagine di accuse, non vi fosse un embrione probatorio che attestasse un rapporto con la mafia. Non è giustizia cercare la mafia ovunque e in ogni luogo perché, se tutto è mafia, nulla è mafia. Non è giustizia frammischiarsi nella vicenda politico amministrativa di una regione, destituendo di fatto un governo regionale, annichilendo una classe dirigente. Perché questo, al di là dei giudizi politici, è avvenuto nel luglio 2012 in Sicilia, costringendo quel presidente alle dimissioni. E’ un’altra giustizia che non è giustizia. La Dike: una dea bendata, cieca, che imbraccia una spada. Che a colpi di processi sommari o lunghi ed evanescenti, di doppi binari e regimi speciali, di fattispecie non tassative e determinate come il concorso esterno in associazione mafiosa, di interdittive, misure di prevenzione, scioglimenti dei comuni, ostatività, sacrifica uomini e territori.

Volete davvero continuare a impostare così la lotta alla mafia? Non renderete un buon servizio a Pio La Torre, che immaginò una legge che nulla ha a che vedere con quelle “misure di prevenzione” che ammazzano imprese e posti di lavoro. Non renderete un buon servizio a Piersanti Mattarella che voleva lottare la criminalità organizzata esclusivamente con le regole della buona politica e dello sviluppo. Non renderete un buon servizio a Giovanni Falcone il quale ha insegnato che “il sospetto non è l’anticamera della verità ma del khomeinismo”, che ammoniva: “non si può ragionare: intanto contesto il reato e poi si vede”.

Nessuno tocchi Caino si è occupata del caso Lombardo, sulle pagine di questo giornale, quando era un tabù, un feticcio, e quel presidente, isolato e ostracizzato dai “benpensanti”, per tanti andava verso una condanna sicura. Abbiamo scritto, sul Riformista, sulla scorta di Leonardo Sciascia, di quell’illuminismo siciliano, per il quale la mafia non si lotta con la “terribilità” ma con il diritto. Il processo Lombardo era terribilità, non diritto. I tribunali di questo Paese hanno, infine, forse restituito pannellianamente il maltolto a un uomo, riconoscendo un principio riparatore. La nostra lotta – per superare quel regime dell’emergenza antimafia che dura da ormai trent’anni – continua. Sperando contro ogni speranza. Nel nome non della violenza, delle Erinni che perseguitano ma delle Eumenidi. Nel nome della giustizia che non colpisce alla cieca e depone la spada. Nel nome del diritto. Antonio Coniglio

Raffaele Lombardo assolto dopo 13 anni, crollano le accuse di concorso esterno: “Provo amarezza per il massacro mediatico”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 7 Marzo 2023

Un lungo e tortuoso iter giudiziario che si conclude con l’assoluzione in via definitiva. La Cassazione ha giudicato inammissibile il ricorso presentato dalla Procura generale di Catania contro la sentenza di Appello bis del 7 gennaio del 2022 che aveva assolto l’ex presidente della Regione Sicilia Raffaele Lombardo dalle imputazioni per concorso esterno in associazione mafiosa (perché il fatto non sussiste) e corruzione elettorale aggravata dall’avere favorito la mafia (per non aver commesso il fatto).

Il Pg della Cassazione aveva chiesto l’annullamento con rinvio della sentenza di secondo grado, richiesta dunque respinta dagli ermellini.

Si chiude così un iter giudiziario durato ben 13 anni. Lombardo, fondatore del Movimento per l’Autonomia, era stato condannato in primo grado a 6 anni e 8 mesi per concorso esterno. Nell’Appello l’accusa aveva addirittura chiesto una condanna maggiore rispetto a quella inflitta in primo grado, a sette anni e 8 mesi di reclusione, contestando anche il reato elettorale.

I giudici del secondo grado però non avevano creduto alle accuse di concorso esterno, condannando Lombardo a due anni solo per corruzione elettorale aggravata dal metodo mafioso, ma senza intimidazione e violenza. La sentenza era stata poi annullata dalla Suprema Corte, che aveva disposto nei confronti dell’ex governatore siciliano un nuovo processo d’Appello, che si era concluso a gennaio dello scorso anno con l’assoluzione, confermata oggi dalla Cassazione.

Al centro del processo c’erano i presunti contatti di Raffaele Lombardo con esponenti dei clan etnei che l’ex governatore, assistito dagli avvocati Maria Licata e Vincenzo Maiello, ha sempre negato sostenendo di avere “nuociuto alla mafia come mai nessuno prima di me“, di “non avere incontrato esponenti” delle cosche e di avere “sempre combattuto Cosa nostra“.

Lombardo, dopo l’avviso di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione elettorale, si dimise dalla carica di governatore della Sicilia.

Il procedimento ha anche trattato presunti favori elettorali del clan a Raffaele Lombardo nelle regionali del 2008, in cui fu eletto governatore, e a suo fratello Angelo, per cui si procede separatamente, per le politiche dello stesso anno.

Provo soltanto amarezza e non felicità, forse per i tredici anni della mia vita passati in vicende giudiziarie e per il massacro mediatico subito“, è stato lo sfogo all’Ansa di Lombardo, commentando la sentenza della Cassazione che giudicato inammissibile il ricorso della Procura generale di Catania contro l’assoluzione dell’Appello bis.

Per Maria Licata, legale di Lombardo, quello di oggi è “il giorno della soddisfazione, perché è arrivata una sentenza che è la sintesi più logica del procedimento: la chiusura definitiva della vicenda giudiziaria con l’assoluzione da tutti di tutti i reati contestati”.

Per l’altro legale di Lombardo, il professore Vincenzo Maiello, “si chiude una vicenda giudiziaria in qualche modo simbolo delle applicazioni distorte del concorso esterno in associazione mafiosa e di una certa propensione a utilizzare il processo per scrivere la storia anziché per accertare reati. Oggi la Corte di Cassazione dice che tutto questo è contrario al Diritto”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Lombardo assolto. I legali: «Vittima di processo mediatico». Accuse cadute dopo tredici anni di processo che hanno cambiato la politica siciliana. Giuseppe Bonaccorsi su Il Dubbio il 10 marzo 2023.

Freddo, calcolatore, impeccabile a tal punto da essere stato ribattezzato (dicono benevolmente, ma non si sa mai sino a quanto) “psyco” da Gianfranco Micciché. È un Raffaele Lombardo dei tempi migliori quello che ieri si è presentato davanti alla stampa nell'incontro da lui convocato per fare chiarezza sulla sentenza della Cassazione che lo ha definitivamente assolto - a 13 anni di distanza dal primo provvedimento giudiziario - dall'accusa infamante di concorso esterno in associazione mafiosa.

La stampa, «assetata di notizie» non si aspettava da lui soltanto parole relative alla sua assoluzione ma, in particolare, dichiarazioni per svelare o smentire le indiscrezioni di stampa che si susseguono da giorni su una sua possibile candidatura a sindaco di Catania nella prossima competizione elettorale di maggio che lo vedrebbe opposto a un ex ministro qual è il soprannominato «sempre sindaco» Enzo Bianco.

Lombardo, come nel suo stile, non ha deluso nessuno e lancia in testa ha sferrato un duro attacco a «certa magistratura» per il suo lungo processo accusatorio basato su indizi vacui e a certa stampa che «ha dettato i tempi – ha puntualizzato – del procedimento giudiziario», definendo allo stesso tempo «illogico un processo simile nei miei confronti perché sfido chiunque a trovare uomini politici e amministratori che hanno inferto gli stessi danni che ho inferto io alla mafia nel corso della mia vita politica e da governatore».

Nel corso della conferenza stampa, Lombardo, a proposito di voto di scambio, ha aggiunto che «è negli atti del processo che la mafia ha votato per altri uomini politici e per altri partiti e non per me». Quindi si è soffermato su un processo lungo ed estenuante che ha cambiato il volto politico della Sicilia «perché - ha puntualizzato, - ovviamente io nel corso di questi lunghi anni di attesa e di battaglia legale mi sarei candidato e la situazione sarebbe mutata».

L’ex governatore, infine, non ha nascosto che la sentenza a suo carico «avrà di certo risvolto politico che potrà già manifestarsi nelle prossime amministrative soprattutto per la conquista dello scranno di sindaco di Catania, la più grande città della penisola che andrà al voto». Poi prima di passare la parola ai suoi due legali, avvocati Vincenzo Maiello e Maria Donata Licata, si è limitato a ricordare i suoi momenti di sconforto in questi lunghi 13 anni dall'accusa che gli piombò addosso come una spada di Damocle. Adesso il suo impegno politico riprenderà alla luce del sole, ma non da candidato sindaco di Catania come alcuni organi di stampa hanno pubblicato, ma come referente di una forza che conta in Sicilia un seguito pari al 10 per cento dei suffragi.

Chiare e inequivocabili anche le parole dei due legali dell’ex governatore che hanno parlato di processo mediatico basato su accuse non dimostrabili. In particolare il prof. Maiello oltre a mettere in risalto un processo che non potrà avere risvolti su tutti gli altri procedimenti per concorso esterno per associazione mafiosa, si è soffermato sulla lunghezza del procedimento stesso «che ha richiesto - ha spiegato - 13 anni per giungere alla definizione della propria posizione. «È paradossale - ha proseguito i legale - che a fronte della richiesta di rito abbreviato noi abbiamo impiegato 13 anni per venire a capo di una sentenza. Mi auguro che questa esperienza molto sconfortante se guardata dalle ragioni dello stato di diritto, metta fine a una più ampia stagione giudiziaria che ha visto prevalere il linguaggio della approssimativa ricerca della verità in nome di corrispondenti bisogni emotivi di verità rispetto al linguaggio della legalità».

Adesso dal punto di vista politico saranno interessanti i prossimi passaggi che avverranno in Sicilia che sta attraversando un momento politico- giudiziario in continua evoluzione.

Poche settimane fa il l tribunale di Sorveglianza di Palermo ha dichiarato estinta l’interdizione perpetua dai pubblici uffici per Totò Cuffaro. Dopo aver scontato una condanna per favoreggiamento alla mafia Cuffaro potrà ritornare nell’agone politico in prima persona, sebbene lui lo abbia del tutto escluso. Sembra che Cuffaro adesso stia già tessendo le fila per la prossima campagna elettorale. I due ex governatori hanno vicende giudiziarie molto diverse, ma storie politiche molto vicine. Vicinissime, almeno all’inizio, quando entrambi crescevano tra i giovani democristiani sotto la supervisione e la guida di Calogero Mannino, ex ministro e leader della sinistra Dc. Uno ad ovest e l’altro ad est gestivano in tandem la Dc siciliana. Cosa accadrà adesso?

L'assoluzione dell'ex presidente della Sicilia. Raffaele Lombardo assolto completamente dopo 12 anni di limbo a un passo dall’inferno. Antonio Coniglio, Sergio D'Elia su Il Riformista l’11 Gennaio 2022

La notizia dell’assoluzione l’ha raggiunto in una chiesa mentre, a guisa del segno di un destino magnetico che restituisce bene ai sentimenti buoni, dava l’ultimo saluto al suo amico di sempre, Giuseppe L’Episcopo, il proprietario di quel maneggio considerato dai pubblici ministeri di Catania la “cassetta della posta della mafia”. Secondo l’accusa, in quel luogo, i boss gli avevano recapitato messaggi, richieste, suppliche e preghiere. Perché in fondo questo accade nel più feroce dei processi, quello in cui non si processa il fatto di reato ma il tipo d’autore. Capita che anche il più puro dei sentimenti, l’amicizia, la filía, debba essere insozzato, sporcato dai sospetti, dalle ambiguità più malfide.

Il cattivo non può avere amici buoni e nessun luogo, per l’empio, è buono. Luoghi e persone si confondono in un circolo vizioso di infamia e disonore. Similes cum similibus congregantur. I simili si accompagnano con i loro simili. Il pubblico ministero che parte da questo assioma vorrebbe coltivare l’ambizione diabolica di mettere un imputato dentro una “campana di vetro”, processarne la vita, entrare finanche nel talamo della sua intimità. Raffaele Lombardo da Grammichele ha aspettato la sentenza, che lo ha assolto da ogni accusa di concorso esterno per mafia e corruzione elettorale, in quel momento di estremo commiato e, forse, da qualche giorno, alle pendici dell’Etna, in tanti credono nel destino onesto che accompagna sempre i buoni sentimenti. Due concezioni millenarie: quella “magnetica” e quella “elettrica” del destino: non conta ciò che accade ma come lo si vive, una realtà buona è il prodotto di pensieri, parole, opere, buoni sentimenti. Certo ci sono voluti dodici anni, un governo della Regione ingiustamente decapitato che equivale alla razzia dei principi democratici, una Sicilia ancora più infamata, la vita di un uomo sospesa in un limbo di maldicenze a un passo dall’inferno, ma la giustizia come la civetta di Minerva infine è arrivata.

I giudici di Catania hanno “detto” giustizia, non “fatto” giustizia. In questa ennesima triste storia di diritto penale del nemico quasi convertita nel lieto fine delle Eumenidi che non maledicono, la tazza del consolo vuole che emergano quei magistrati davvero “ordinari”, i quali silenziosamente amministrano la giustizia. Non si troveranno i loro nomi sui giornali, perché valutano i fatti senza nessun’altra vocazione, foss’anche quella apparentemente più nobile che diventa la più luciferina di creare hegelianamente “la società dei giusti”. Per esempio, quel Procuratore, oggi in pensione, Michelangelo Patanè, il quale, insieme al suo aggiunto di allora Carmelo Zuccaro, evitò che Lombardo – come voleva la sceneggiatura del caso – uscisse in manette da Palazzo d’Orleans, finendo per questo finanche dinanzi al Consiglio Superiore della Magistratura. E, infine, il collegio della Corte d’Appello di Catania presieduto da un giudice del giusto processo che non ha mai dissipato le parole: Rosa Anna Castagnola.

Di questa storia restano le arringhe dell’avvocato Maria Licata e del professore Vincenzo Maiello e l’ennesimo sforzo di Radio Radicale di rendere pubblico, di far conoscere per deliberare, come voleva Marco Pannella, consapevole che, solo uscendo dalle “segrete stanze”, il potere sia capace di conoscere un principio riparatore, incontrare il senso del limite, quella misura che è il senso vero dello Stato di Diritto: μηδεν ἄγαν, midén ágan, nulla di troppo. Resta anche Il Riformista che, pressoché isolato, scrive pagine non di cronaca ma interpreta una battaglia culturale e civile. Perché, dopo quattro, questo è il quinto articolo su questo giornale, quello del finale di partita di una storia giudiziaria, un lieto fine se non fosse che l’uomo, la sua vita familiare e politica, nel corso di dodici anni di attesa di giudizio, hanno già subito danni, forse, irreparabili. Noi di Nessuno tocchi Caino abbiamo conosciuto Raffaele Lombardo il giorno in cui la nostra compagna Sabrina Renna insistette per farcelo conoscere, iscrivendolo alla nostra organizzazione nelle mani della sua tesoriera Elisabetta Zamparutti. Siamo stati orgogliosi della sua tessera quando, per tutti, era Caino, il tipo d’autore, il condannato a un destino cinico e baro.

Di Lombardo abbiamo sperimentato, negli incontri che si sono susseguiti, una realtà diversa dalla rappresentazione mediatico-giudiziaria: un uomo scrupoloso, appassionato, curioso, desideroso di far conoscere le ragioni della sua vita e della sua esperienza di governo. Soprattutto abbiamo letto le carte di quel processo, senza fatti, prove, fondato esclusivamente sulle dichiarazioni dei pentiti. La mafia non più come organizzazione criminale ma come morbo che assale, contagia, anche se si è asintomatici, se le proprie scelte siano diametralmente opposte alle ragioni del male. Una storia fatta di presunti contatti, di fattoidi, un romanzo gotico nel segno del sentito dire. Lombardo era mafioso perché alcuni pentiti dicevano che lo fosse.

E questo è bastato per distruggere la vita di un uomo e di una esperienza di governo, lasciando sul campo i “morti civili”: un piano dei rifiuti drammaticamente interrotto quando si erano gettate le basi per la differenziata, una coraggiosa e incompiuta riforma della sanità, una Sicilia ancora una volta marchiata come irredimibile. Sono i “morti civili” di un armamentario bellico che si nutre di una eterna emergenza, nel nome della quale si tiene in piedi un reato senza fattispecie, il concorso esterno in associazione mafiosa, e una norma demoniaca – il 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario – che le giurisdizioni superiori hanno già dichiarato confliggere con i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale.

Una norma che, alla stregua di tutti i bis – 4 bis, 41 bis, 416 bis… diffidate di ogni articolo bis, nemico del Diritto! – non chiede ai detenuti una educazione sentimentale, un alto livello di coscienza, una nuova vita ma, come tutti gli assoluti iuris et de iure, impone loro di continuare a “trafficare”, a “scambiare” la loro libertà con un’accusa, un “dire male di”. Chiediamo a questi detenuti, di fare quello che hanno continuato a fare nella loro prima vita: “maledire”! E può uno Stato di Diritto trasformare gli uomini in uno “strumento vocale”, in un mezzo anziché chiedergli solo di essere un fine, semplicemente diventare uomini capaci di conoscere l’amore, la gratitudine, l’umanità? L’essere “addomesticati”, nel senso etimologico del Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry: creare dei legami, condurre a casa. Fino a quando ci permetteremo un Paese nel quale, in nome della igienizzazione, della sterilizzazione della società, potremmo sacrificare i principi fondamentali e trattare i territori del mezzogiorno come un lebbrosario insalubre di misure di prevenzione, confische, interdittive, scioglimenti comunali, destituzione di classi dirigenti, massacro di uomini nel nome di un’antimafia che si specchia nella mafia, finendo per somigliarle? Per trent’anni, alla terribilità della mafia si è risposto con una terribilità uguale e contraria.

Sulla teoria del fine che giustifica i mezzi, il regime dell’antimafia ha allestito nel nostro Paese un arsenale terribile di leggi speciali e misure di emergenza, di processi inquisitori e sommari, di misure in teoria di sicurezza e prevenzione di fatto di pregiudizio e punizione, di pene senza fine e regimi penitenziari mortiferi. Nessuno tocchi Caino continua la sua lotta volta a scongiurare la tragica eterogenesi dei fini che si rivelano l’opposto rispetto agli scopi originari. Siamo convinti che sia possibile combattere la mafia senza minare i principi dello Stato di Diritto e i diritti umani fondamentali. La conclusione positiva, seppur tardiva, della vicenda di Raffaele Lombardo ci conferma che è possibile.

Allora, nel finale di questa storia siciliana, immaginiamo l’uomo di Grammichele nelle campagne della sua terra quando ci raccontava che non poteva fare a meno di quel sole che non sa maledire. Quel processo si è (quasi) concluso con le Erinni convertite in Eumenidi, con la vendetta che ha lasciato posto alla speranza. Certamente la giusta chiusa è il sorriso, da qualche parte, chissà dove, di Giuseppe L’Episcopo e la sgroppata dei suoi cavalli. Quei mammiferi avevano interpretato una decisa “disobbedienza civile”: non ci stavano proprio, poveri diavoli, a esser “associati” con la mafia. Antonio Coniglio, Sergio D'Elia

Totò Cuffaro.

Totò cambia. Report Rai PUNTATA DEL 26/11/2023 di Claudia Di Pasquale

Collaborazione di Raffaella Notariale e Norma Ferrara

Totò Cuffaro è tornato e con lui è tornata la Democrazia Cristiana.

Tra i nuovi volti della Dc c'è quello di Nuccia Albano, primo medico legale donna della Sicilia e oggi assessora regionale alla Famiglia. Alcune settimane fa Report ha scoperto che è anche figlia dello storico boss di Borgetto, Domenico Albano, deceduto negli anni '60. L'Assessora ha dichiarato che non rinnega il padre, ma che il suo stile di vita è distante dalla mafia e all'insegna della legalità. Il fratello, Giovanni Albano, è a sua volta il presidente della Fondazione Istituto G. Giglio, che gestisce l'ospedale di Cefalù. Che ruolo ha avuto l'ospedale nella campagna elettorale della sorella? E che ruolo ha oggi la Fondazione Giglio nel contesto della sanità siciliana?

TOTÒ CAMBIA di Claudia Di Pasquale Collaborazione di: Norma Ferrara - Raffaella Notariale Immagini di: Davide Fonda – Andrea Lilli – Marco Ronca – Paco Sannino Ricerca immagini: Alessia Pelagaggi Montaggio: Daniele Bianchi – Andrea Masella Grafica: Giorgio Vallati

CLAUDIA DI PASQUALE Oggi è un giorno importante, c’è la commissione antimafia in questa scuola e in questo quartiere difficile. Ci spieghi perché è importante esserci.

NUCCIA ALBANO - ASSESSORA DELLA FAMIGLIA, DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO - REGIONE SICILIANA È importante perché le istituzioni devono avere cura prima delle periferie. Io sono solo da un anno insediata in questo assessorato ed è stato diciamo prioritario il mio interesse per questo problema. CLAUDIA DI PASQUALE Assessore, lei è da 1 anno che è in giunta, questa esperienza come le appare, come la sta vivendo? Insomma lei non aveva mai fatto politica, se non ho capito male.

NUCCIA ALBANO - ASSESSORA DELLA FAMIGLIA, DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO - REGIONE SICILIANA No, no, io sono un medico legale di punta da oltre 40 anni ho esercitato questa professione e l’ho voluto fare per spirito di servizio perché io ancora esercito.

CLAUDIA DI PASQUALE E lei ha fatto l’autopsia di Falcone, di Libero Grassi e di chi altro? Perché, come dire…

NUCCIA ALBANO - ASSESSORA DELLA FAMIGLIA, DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO - REGIONE SICILIANA Vabbè, noi abbiamo avuto la guerra di mafia e quindi non le enumero le centinaia di autopsie che ho potuto fare dal ‘78.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei oggi è con Cuffaro in giunta, rappresenta… no?

NUCCIA ALBANO - ASSESSORA DELLA FAMIGLIA, DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO - REGIONE SICILIANA Rappresento la Democrazia Cristiana. Io sono stata sempre una democratica cristiana perché incarna i valori in cui credo.

CLAUDIA DI PASQUALE Ho visto che avete anche inaugurato ora la sede della Democrazia Cristiana nuova, della Democrazia Cristiana nuova a Borgetto proprio, nel suo paese.

NUCCIA ALBANO - ASSESSORA DELLA FAMIGLIA, DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO - REGIONE SICILIANA Nel mio paese, sì.

CLAUDIA DI PASQUALE Assessore, io le devo fare una domanda un po’ delicata, a me risulta che lei sia figlia di tale Domenico Albano. È corretta questa informazione in mio possesso?

NUCCIA ALBANO - ASSESSORA DELLA FAMIGLIA, DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO - REGIONE SICILIANA Sì, sì, non posso rinnegare mio padre. Io, mio padre, quando è morto io avevo 13 anni.

CLAUDIA DI PASQUALE Per Domenico Albano si intende il capomafia di Borgetto che protesse in realtà Salvatore Giuliano?

NUCCIA ALBANO - ASSESSORA DELLA FAMIGLIA, DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO - REGIONE SICILIANA Guardi, io ero solo una bambina. Di questi fatti ne sono venuta a conoscenza da grande. Non rinnego la storia di mio padre e non ho avuto nessuna refluenza, né io né la mia famiglia. Quindi adesso vorrei chiudere. Vi ringrazio.

CLAUDIA DI PASQUALE Non se la prenda, è giusto chiarire. Non è… Cioè secondo me da un punto di vista storico è anche interessante, le devo dire.

NUCCIA ALBANO - ASSESSORA DELLA FAMIGLIA, DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO - REGIONE SICILIANA Chi gliel’ha detto? E chiuda il microfono.

CLAUDIA DI PASQUALE Io sono una giornalista, non chiudo il microfono.

NUCCIA ALBANO - ASSESSORA DELLA FAMIGLIA, DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO - REGIONE SICILIANA Che cosa devo spiegare? Volete buttare ombre sulla mia vita? Non c'è. Quindi queste sono provocazioni al solito di Report che devono…

CLAUDIA DI PASQUALE Non è una provocazione, dottoressa. Vogliamo capire.

NUCCIA ALBANO - ASSESSORA DELLA FAMIGLIA, DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO - REGIONE SICILIANA No, no, no, no, no, no, no, no, no… perché dovete ora… no, no, no, mi scusi, perché lei deve portare adesso questo, questo scoop.

CLAUDIA DI PASQUALE Secondo lei non ha nessun rilievo pubblico questa cosa?

NUCCIA ALBANO - ASSESSORA DELLA FAMIGLIA, DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO - REGIONE SICILIANA Ha rilievo pubblico?

CLAUDIA DI PASQUALE Secondo lei sì o no? Per me sì.

NUCCIA ALBANO - ASSESSORA DELLA FAMIGLIA, DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO - REGIONE SICILIANA No. Perché… perché sono mafiosa?

CLAUDIA DI PASQUALE Io non ho detto assolutamente, le ho chiesto se lei era la figlia di Domenico Albano punto, mi sembra una domanda legittima. Gliel'ho chiesto e lei me lo ha confermato, fine.

NUCCIA ALBANO - ASSESSORA DELLA FAMIGLIA, DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO - REGIONE SICILIANA Ok, la ringrazio. È solo provocatoria.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Nunzia Albano è stata la prima donna medico legale della Sicilia, ha condotto l'autopsia sui corpi di Giovanni Falcone, Libero Grassi, è una stimata professionista, ed è stata candidata ed eletta in Parlamento nel settembre del 2022 della Regione siciliana. Si è candidata nella Democrazia Cristiana di Totò Cuffaro. È stata poi nominata assessore alle politiche sociali e alla famiglia. Però dopo questa intervista si è scatenato un putiferio. In tanti hanno chiesto le sue dimissioni perché aveva detto ai microfoni della nostra Claudia Di Pasquale di non rinnegare la storia del padre. Più tardi poi ha precisato che intendeva dire che non rinnegava come figlia il padre. Ora è ovvio che le colpe dei padri non possono ricadere sui figli. Però si è peccati sicuramente di trasparenza in questa vicenda, soprattutto da parte di chi l'ha candidata. Cioè Totò Cuffaro. Il tema della mafia è un tema sensibile. È stato condannato a sette anni per favoreggiamento aggravato nei confronti della mafia, violazione del segreto istruttorio, ha scontato la pena. È stato riabilitato e ora rivendica con orgoglio di essere il segretario di una nuova democrazia cristiana che sarebbe cambiata, insomma, secondo lui e secondo anche l'Inno.

VIDEO DEMOCRAZIA CRISTIANA 12.500 tesserati in soli due anni.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La Democrazia Cristiana è tornata.

VIDEO DEMOCRAZIA CRISTIANA 260 dirigenti e 1200 delegati.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO E con lei è tornato l'ex presidente della Regione siciliana Totò Cuffaro.

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Nessuno di noi è convinto che quella Democrazia Cristiana possa tornare, tant'è che ci mettiamo “nuova” per dire che è un'altra cosa. Abbiamo cambiato persino la canzone. Se tutto cambia, perché non deve cambiare la Democrazia Cristiana? Essendo che ne vogliamo una nuova. CANZONE Cambia, todo cambia…

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questo è l'inno della Nuova Democrazia Cristiana.

CANZONE Cambia, la Democrazia Cristiana cambia…

VOCE Viva la Democrazia Cristiana.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Tra i nuovi volti del partito c'è anche quello di Nuccia Albano.

CLAUDIA DI PASQUALE Visto che siamo circondati, c'è anche la dottoressa Albano.

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA La dottoressa Albano è una parte importante...

CLAUDIA DI PASQUALE Assolutamente.

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA … è una parte importante della Democrazia Cristiana.

CLAUDIA DI PASQUALE Sì. Visto che comunque la dottoressa Albano ha avuto un percorso integerrimo come medico legale, non era meglio, visto che voi l'avete candidata, dire prima invece di nascondere.

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Non abbiamo nascosto, non abbiamo nascosto nulla.

CLAUDIA DI PASQUALE Non lo sapeva nessuno.

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Beh, perché forse. No! Nuccia, ti prego, sto facendo io l'intervista. Questa la cancelli oppure la mandate in onda? Perché la dottoressa Albano è già provata di quello che avete fatto.

CLAUDIA DI PASQUALE Dopo la pubblicazione sui social della nostra intervista è scoppiato il putiferio. Il primo a intervenire è stato Ismaele La Vardera, vicepresidente della Commissione antimafia dell'Ars. 26.10.2023.

ISMAELE LA VARDERA - VICEPRESIDENTE COMMISSIONE ANTIMAFIA REGIONE SICILIANA Non credo che le colpe dei padri debbano cadere sui figli. Mi chiedo però se è normale che questa vicenda sia stata sempre nascosta. Ritengo che sia allucinante che un assessore che ricopra un incarico pubblico dica chiaramente che non rinnega la storia del padre e che il padre, ripetiamo, essere stato un mafioso. Mi sarei aspettato dall'onorevole Albano quanto meno una presa di posizione netta. Non possiamo non essere precisi in una terra come quella di Sicilia. Io ribadisco ancora una volta, senza troppi giri di parole, che alla luce di quello che ho sentito anche dalle parole della stessa assessora Albano rilasciate a Report, dovrebbe dimettersi.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A chiedere le dimissioni di Nuccia Albano si sono messi poi anche gli altri partiti dell'opposizione. Il segretario regionale del Pd Anthony Barbagallo: “Se possiamo capire i sentimenti di una figlia, non possiamo però accettare parole ambigue da parte dell'assessora”. Nuccio Di Paola e Antonio De Luca dei Cinque Stelle: “L'assessora prenda nettamente le distanze dalla storia del padre”. Di contro, gli esponenti della Democrazia Cristiana le hanno manifestato solidarietà, a partire dal segretario regionale Stefano Cirillo: “La professoressa Albano rappresenta certamente un simbolo di legalità”. Sulla pagina Facebook della DC è stato poi pubblicato il 29 ottobre questo post, a difesa di Nuccia Albano, ancora oggi visibile. Lo stesso post è comparso anche sulla pagina di Totò Cuffaro, #Nessunotocchiladc. Ma poi è stato rimosso.

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Non ho mai cancellato nessun post, ti assicuro che non è mai stato cancellato. Non dite bugie, già ne dite tante, ma almeno questa, non ditela.

CLAUDIA DI PASQUALE Io non l'ho trovato più.

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Ma se non lo trovi più, sei disattenta e non guardi bene.

CLAUDIA DI PASQUALE Controllerò.

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Controlla perfettamente, vedrai che non c'è nessun post cancellato.

PIERA AIELLO – EX TESTIMONE DI GIUSTIZIA Il Signor Cuffaro può dire questo mondo e l'altro, ma non può negare che il post è stato cancellato, e nel suo profilo personale, perché sopra c'era scritto Totò Cuffaro e la sua foto. A meno che non c'è un profilo falso.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè, quel post lei l'ha visto?

PIERA AIELLO – EX TESTIMONE DI GIUSTIZIA Assolutamente sì. L'ho visto, l'ho fotografato e io ho risposto.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè lei ha fotografato la risposta che anche ha dato a Cuffaro?

PIERA AIELLO – EX TESTIMONE DI GIUSTIZIA Assolutamente. Dopodiché, dopo poco tempo cioè non c'era più, non c'era più non il commento, l'intero post non c'era. Il mio insegnante è stato Paolo Borsellino, che mi ha detto che si parla sempre con carte alla mano e io ho le prove.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Piera Aiello è una testimone di giustizia dal 1991, da quando la mafia le ha ucciso il marito, figlio del boss Vito Atria. Allora si affidò al giudice Paolo Borsellino e con lei iniziò a collaborare anche la cognata di soli 17 anni, Rita Atria, che a una settimana dalla strage di via D'Amelio si è tolta la vita.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei ha vissuto per 28 anni con un altro nome in una località protetta.

PIERA AIELLO TESTIMONE DI GIUSTIZIA Non in una località protetta. Io ho cambiato tantissime località protette, perciò quando sento la signora Albano che dice “Io non rinnego la storia di mio padre”, non è proprio quello che mi vorrei sentir dire da parte sua. Perché lei fondamentalmente era una ragazzina. Le colpe non possono ricadere su di lei, ma nello stesso momento, da testimone di giustizia, mi fa male sentir dire che non si rinnega la storia del padre.

CLAUDIA DI PASQUALE Cosa ha significato dissociarsi, denunciare?

PIERA AIELLO – EX TESTIMONE DI GIUSTIZIA Io la mia giovinezza me la sono bruciata.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A sua difesa l'assessora Albano ha quindi diramato un comunicato in cui ha scritto di non poter rinnegare il padre, ma che la sua scelta di vita ha sempre preso le distanze dal fenomeno della mafia. Ha inoltre pubblicato questo post: “La mia vita vissuta all'insegna della legalità e della giustizia”. “Mio padre è morto sessant'anni fa, quando ne avevo dieci”. A noi aveva detto che ne aveva 13. Per capirci qualcosa, andiamo a Borgetto, suo paese natale, dove lo scorso 18 ottobre Nuccia Albano ha inaugurato la segreteria della nuova DC insieme a Totò Cuffaro. Qui a Borgetto il ricordo di Salvatore Giuliano e dello storico boss Domenico Albano è ancora vivo.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei l’ha conosciuto Albano?

DONNA Questi stavano qui, di fronte a me, gente per bene erano. Ci rispettavano. C'era la mamma, poi c’erano i figli. Niente di mafia, niente di tutte queste cose che dicono.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma lei, Giuliano, invece l'ha mai visto?

DONNA Io dove lo dovevo vedere Giuliano? Ne ho sentito parlare.

CLAUDIA DI PASQUALE Era un bandito, un mafioso? Secondo lei che cosa era Giuliano?

DONNA Io ero ragazza ai tempi, perciò non mi ricordo queste cose. So che era una persona perbene, prima.

CLAUDIA DI PASQUALE Chi, Giuliano?

DONNA Sì, sapevo perchè era una persona perbene e poi è finito così.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nella stessa strada abita il signor Vincenzo.

CLAUDIA DI PASQUALE Mi stavo occupando un po’ di Portella della Ginestra e del ruolo che ebbe allora Domenico Albano. UOMO Domenico Albano è morto… da una vita.

CLAUDIA DI PASQUALE Da una vita…

UOMO È morto in galera.

CLAUDIA DI PASQUALE È morto in galera?

UOMO Sì, sì…

CLAUDIA DI PASQUALE Ma che ruolo aveva qua? Perché è un po’ difficile, essendo una storia un po’ antica, ricostruirla. UOMO Stava in questa strada. Nella parte di sotto della casa ci sto io.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi era il suo vicino di casa?

UOMO Era mio vicino allora. Ero un ragazzino.

CLAUDIA DI PASQUALE Si dice che Albano era il capomafia di Borgetto.

UOMO Non era il capomafia, era al tempo di Giuliano.

CLAUDIA DI PASQUALE E che rapporti aveva con Giuliano?

UOMO Era l’avvocato.

CLAUDIA DI PASQUALE Io sapevo che era il cassiere.

UOMO Credo che sì... il cassiere…

CLAUDIA DI PASQUALE Era il cassiere.

UOMO Ma voi come fate a sapere queste cose?

CLAUDIA DI PASQUALE Eh eh eh eh!!!

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Salvatore Giuliano, noto come il re di Montelepre, è il bandito più famoso del secondo dopoguerra. Intorno a lui è nata una ricca narrativa. C'è chi lo descrive come un Robin Hood siciliano e chi come un feroce criminale. La sua banda è stata ritenuta responsabile di ben 306 omicidi e 11 stragi. La più nota è quella di Portella della Ginestra del 1º maggio 1947 che provocò, secondo i dati ufficiali, 11 morti e 27 feriti gravi.

VITTORIO COCO – DOCENTE STORIA CONTEMPORANEA – UNIVERSITA’ DI PALERMO Il gesto fu particolarmente eclatante perché era contro contadini che festeggiavano, in occasione della Festa del Lavoro, perché avevano ottenuto i primi successi della grande mobilitazione del secondo dopoguerra.

CLAUDIA DI PASQUALE Solo pochi giorni prima c'erano state delle elezioni in Sicilia. Che risultati avevano portato?

VITTORIO COCO – DOCENTE STORIA CONTEMPORANEA – UNIVERSITA’ DI PALERMO C'erano state delle elezioni regionali nell'aprile del ‘47, che avevano dato degli ottimi risultati per la sinistra socialcomunista. Quindi, una delle spiegazioni che si potrebbe dare della vicenda di Portella qual è? Un gesto compiuto da Giuliano per accreditarsi rispetto ai gruppi conservatori, compiendo una strage anticomunista.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In base alle testimonianze raccolte, è emerso che Salvatore Giuliano ebbe rapporti con la mafia trapanese e con quella palermitana, in particolare con la mafia di Monreale e di Borgetto. E proprio a Borgetto viveva Giacomo Bommarito, che quando era solo un bambino fu la vedetta della banda di Salvatore Giuliano.

GIACOMO BOMMARITO - EX VEDETTA DELLA BANDA DI SALVATORE GIULIANO Io non dovevo mai parlare di questa storia.

CLAUDIA DI PASQUALE Chi le aveva chiesto di non parlare mai di questa storia?

GIACOMO BOMMARITO - EX VEDETTA DELLA BANDA DI SALVATORE GIULIANO Ho avuto ordine dalla mafia di Borgetto, di mio padre, perché io sono nato con loro, con la mafia di Borgetto sono nato.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei era orgoglioso in quel momento.

GIACOMO BOMMARITO - EX VEDETTA DELLA BANDA DI SALVATORE GIULIANO Se tu avessi conosciuto Salvatore Giuliano, come l'ho conosciuto io, non avresti detto, come diversi hanno detto, Salvatore Giuliano è un criminale.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Giacomo Bommarito racconta di avere conosciuto Giuliano nel 1943 davanti a Palazzo Ram, un'antica masseria a metà strada tra i comuni di Partinico e Borgetto. Quel giorno Giuliano era ferito e aveva bisogno di cure.

GIACOMO BOMMARITO - EX VEDETTA DELLA BANDA DI SALVATORE GIULIANO Arrivò Salvatore Giuliano, con una pallottola nel fianco con la febbre. Mio padre aveva detto di portarlo al pronto soccorso. Lui disse “No”, perché aveva ucciso un carabiniere. Ecco, ci voleva un posto più sicuro e lo consegnò a Minico Albano.

CLAUDIA DI PASQUALE Chi era Minico Albano?

GIACOMO BOMMARITO - EX VEDETTA DELLA BANDA DI SALVATORE GIULIANO Minico Albano, capomafia di Borgetto, era lui che comandava.

CLAUDIA DI PASQUALE Una volta che Albano si occupa di Giuliano, Giuliano dove vive poi?

GIACOMO BOMMARITO - EX VEDETTA DELLA BANDA DI SALVATORE GIULIANO Giuliano è stato lui, diciamo così che l’ha nascosto a Borgetto. È stato Minico Albano.

CLAUDIA DI PASQUALE Quella era la casa di Minico Albano o era una casa che Albano aveva a disposizione?

GIACOMO BOMMARITO - EX VEDETTA DELLA BANDA DI SALVATORE GIULIANO Lui l'ha tenuto pure a casa sua. Tutte le case venivano bussate dai Carabinieri, ma quella casa dove stava Salvatore Giuliano non era mai bussata… Se non fosse stato per lui, per Minico Albano, Salvatore Giuliano sarebbe stato arrestato. Allora questa era la voce.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il ruolo di Domenico Albano non è stato mai del tutto chiarito. Chiamato come teste davanti la Corte di assise di Viterbo, che si occupava del processo sulla strage di Portella, mostrò una certa reticenza. Tra gli episodi che fecero più scalpore l’antivigilia di Natale del 1949, che Domenico Albano trascorse insieme al mafioso Miceli, al bandito Giuliano e all'ispettore Ciro Verdiani. Quella sera, tra un panettone e un bicchiere di liquore, si parlò anche del possibile espatrio di Salvatore Giuliano.

VITTORIO COCO – DOCENTE STORIA CONTEMPORANEA – UNIVERSITA’ DI PALERMO Questo in qualche modo poi ci richiama quello che dichiara.. la famosa dichiarazione di Pisciotta siamo come il padre il figlio lo Spirito Santo ossia siamo una cosa sola.

CLAUDIA DI PASQUALE Chi era la trinità?

VITTORIO COCO – DOCENTE STORIA CONTEMPORANEA – UNIVERSITA’ DI PALERMO Mafia, banditi e polizia.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Gaspare Pisciotta era il braccio destro di Salvatore Giuliano, fu lui stesso a dichiarare di averlo ucciso. Il corpo è stato ritrovato il 5 luglio del 1950 in un cortile di Castelvetrano, in quella che è stata una vera e propria messa in scena. Allora a prendersi il merito della fine della banda Giuliano, furono i carabinieri che trovarono una sponda anche nella mafia di Monreale.

VITTORIO COCO – DOCENTE STORIA CONTEMPORANEA – UNIVERSITA’ DI PALERMO E perché questo doppio gioco dei gruppi mafiosi. Da una parte volersi fare protettori del banditismo, però fino a un certo punto. E però poi d’altra parte aiutare l’autorità alla fine a prenderlo Giuliano.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè quale può essere interesse della mafia eventualmente anche a far catturare poi Giuliano.

VITTORIO COCO – DOCENTE STORIA CONTEMPORANEA – UNIVERSITA’ DI PALERMO Accreditarsi in qualche misura con le classi dirigenti che poi si stanno stabilizzando al Governo del Paese, al Governo regionale che sono a quel punto essenzialmente democristiane.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Andiamo poi in biblioteca e ripeschiamo gli articoli dell’epoca per capire cosa è successo dopo la strage di Portella della Ginestra. Verifichiamo così che Domenico Albano è morto nel 1965 quando la figlia Nuccia aveva 15 anni e non 10, come scritto nei comunicati.

CLAUDIA DI PASQUALE Perché ha detto che suo padre è morto quando aveva 10 anni?

NUCCIA ALBANO - ASSESSORA DELLA FAMIGLIA, DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO - REGIONE SICILIANA Avevo 13 anni.

CLAUDIA DI PASQUALE 15 dottoressa.

NUCCIA ALBANO - ASSESSORA DELLA FAMIGLIA, DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO - REGIONE SICILIANA Eh.. cosa cambia? Lei mi ha colto in un momento in cui mi ha fatto perdere la lucidità.

CLAUDIA DI PASQUALE Nel suo comunicato l’ha scritto.

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Va bene, va bene, senta, lascia perdere.

NUCCIA ALBANO - ASSESSORA DELLA FAMIGLIA, DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO - REGIONE SICILIANA Basta, basta.

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Non banalizzate sulle cose.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nessuna banalizzazione. Solo a partire dall’anno esatto della morte di Domenico Albano è possibile ricostruire un pezzo importante della storia siciliana, ormai finito nel dimenticatoio. Sul quotidiano L’Ora leggiamo che il boss Minico Albano è morto in ospedale, dove era stato trasferito dal carcere dell'Ucciardone. L'anno prima era stato condannato dalla Corte d'Assise di Palermo a dieci anni per associazione per delinquere aggravata. L'articolo è a firma del grande giornalista Mauro De Mauro, che scrive: “Il boss di Borgetto appare l’anticipatore” della guerra fra le gang mafiose del palermitano. “Nessuno saprà mai da lui quale fine abbia fatto il tesoro di Giuliano, del quale la madre di Turiddu gli chiese sempre invano, la restituzione”.

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Noi non abbiamo nascosto nulla.

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Non abbiamo nascosto nulla, perché questo è un fatto che è comparso su tutti i giornali!

CLAUDIA DI PASQUALE .. è apparso quando?

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA E quando è stato!

CLAUDIA DI PASQUALE Quando è stato?

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Sessant'anni fa, è sui giornali…

CLAUDIA DI PASQUALE Ah certo, io li ho recuperati i giornali..

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Brava e c’era scritto!

CLAUDIA DI PASQUALE Ma mica l’avete detto ora quando l’avete candidata..

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Ma perché dovevamo dirlo, scusa, se lo sapevamo.

CLAUDIA DI PASQUALE Perché non dovevate dirlo?

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Perché lo sapevano.. Sai chi lo sapeva oltre me?

CLAUDIA DI PASQUALE Si poteva spiegare meglio, anzi si poteva dissociare ed essere un meraviglioso esempio di legalità, e invece non è stato così.

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Sì, scusa…

CLAUDIA DI PASQUALE Ed è risultato soltanto che era un medico legale.

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Ti posso dire una cosa? Ma mi spieghi, lo sapevamo noi.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi secondo lei non bisognava saperlo?

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Fammi finire…

CLAUDIA DI PASQUALE Mi risponda lei.

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA No! Lo sapevano tutti, lo sapevano talmente bene tutte le procure della Repubblica che nonostante lo sapessero hanno continuato a…

CLAUDIA DI PASQUALE Quando l’avete candidata non lo avete detto.

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Ma dovevamo dirlo noi alla Procura della Repubblica no? Lo sapevano.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Bisognava dirlo agli elettori. Nella biografia diffusa durante le elezioni regionali, c’era scritto solo che Nuccia Albano era il primo medico legale donna della Sicilia.

CLAUDIA DI PASQUALE Comunque, non siete stati assolutamente trasparenti su questa storia.

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Non lo sei neanche tu perché hai quasi la mia stessa stazza. Io ho qualche chilo in più. Ti consiglio….

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè siamo uguali?

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA No uguali no!

CLAUDIA DI PASQUALE Non mi dica che peso quanto lei, cioè non sono magra… però.

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Per essere trasparenti devi fare un po’ di dieta.

CLAUDIA DI PASQUALE La ringrazio per il consiglio.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La butta sul body shaming, insomma, in maniera simpatica però non appartiene certo allo stile democristiano. Questo solo perché la nostra Claudia Di Pasquale gli aveva chiesto maggiore trasparenza. Trasparenza che è mancata anche nelle dichiarazioni dell'assessora Nuccia Albano. Per carità, nessuno mette in dubbio la sua onestà però quando ha rilasciato le dichiarazioni al Live Sicilia ha detto che il padre ai tempi della banda Giuliano, insomma, “è stato assolto e poi è morto mentre era in attesa dell'appello”. Dimenticando quello che è successo invece in un altro procedimento dove il padre è stato condannato in primo grado a 10 anni per associazione per delinquere aggravata. Oggi, fino a oggi, la storia di Domenico Albano, del capo boss o comunque del boss di Borgetto è rimasta nell'ombra. Quando invece ricostruirla sarebbe stato fondamentale per capire i rapporti tra le istituzioni, la politica e il banditismo. Rimanendo in tema di trasparenza, invece, sul post che è stato messo sul profilo di Cuffaro e poi rimosso, ci ha chiamato colui che gestisce i social e ha detto: “L’ho messo io il post e poi l'ho rimosso in maniera autonoma”. Totò Cuffaro lo avevamo lasciato coinvolto in un'inchiesta che era partita proprio sulla gestione della sanità. Oggi lo ritroviamo segretario di una nuova DC che ha anche il suo inno che dice appunto che todo cambia. Tuttavia, sempre con la sua DC, lo abbiamo trovato con lo sguardo sulla sanità. Tutto ruota intorno a Giovanni Albano, fratello dell'assessora Nuccia che è un potente presidente di una fondazione. La fondazione Giglio che gestisce l'ospedale di Cefalù. Ecco, che cosa è accaduto in quella fondazione e negli ospedali siciliani durante la campagna elettorale della sorella?

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A una settantina di chilometri da Palermo si trova la cittadina di Cefalù, una delle principali mete turistiche siciliane, nota per il suo mare cristallino e per il duomo che dal 2015 è patrimonio Unesco. Qui si trova l'ospedale Giuseppe Giglio che con i suoi 256 posti letto rappresenta un punto di riferimento per tutto il territorio. A gestirlo è una fondazione privata e il presidente è Giovanni Albano, fratello di Nuccia Albano, l'assessora regionale della Famiglia.

GIOVANNI ALBANO - PRESIDENTE FONDAZIONE ISTITUTO GIUSEPPE GIGLIO DI CEFALÙ Più cresce l’istituto, più c’è bisogno di anatomopatologici, più ha bisogno di chirurghi e più hai bisogno di un pronto soccorso, che è la porta dell'istituto, che funzioni e debba funzionare bene.

CLAUDIA DI PASQUALE Dottor Albano sono Claudia Di Pasquale di Report… Ma neanche salutarci?

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il presidente Giovanni Albano a passo veloce va verso l'uscita protetto dal suo staff.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma addirittura scappare... Mi sembra un po’ esagerato… eh, scusi…

GIOVANNI ALBANO - PRESIDENTE FONDAZIONE ISTITUTO GIUSEPPE GIGLIO DI CEFALÙ Mi è pure simpatica.

CLAUDIA DI PASQUALE Le sono simpatica?

CLAUDIA DI PASQUALE Le volevo spiegare questo, mi è chiarissimo che sua sorella non è stata candidata perché figlia di, ma in quanto è sua sorella. Quindi io voglio approfondire proprio questo legame, no? Visto che lei è presidente della Fondazione Giglio dal 2015, no? A me risulta che è stata fatta campagna elettorale anche dentro l'ospedale, proprio coi suoi fedelissimi che ci stanno circondando in questo momento.

CLAUDIA DI PASQUALE Quello che noi abbiamo avuto modo di verificare, al di là della parentela…

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Quello che verificate voi è molto aleatorio, non corrisponde quasi mai alla verità. Però va bene.

CLAUDIA DI PASQUALE Però mi faccia fare la domanda.

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Sì.

CLAUDIA DI PASQUALE In realtà, la campagna elettorale della dottoressa Albano è stata diciamo sicuramente seguita in realtà dal fratello, cioè il problema non è tanto il padre…

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA State dicendo una cosa che non corrisponde al vero, della quale se lo direte ve ne assumete la responsabilità, se lo dite in termini con cui lo avete già annunciato al fratello, se lo dite in termini di un fratello che segue la campagna elettorale di una sorella è una cosa talmente banale che non credo che faccia notizia neanche per Report.

DIPENDENTE FONDAZIONE GIUSEPPE GIGLIO – CEFALÙ Cuffaro spesso viene in ospedale, è venuto accompagnato dal Presidente in diversi reparti.

CLAUDIA DI PASQUALE Durante la campagna elettorale in cui tra i vari candidati c'era anche la sorella del presidente della Fondazione Nuccia Albano, cosa è successo?

DIPENDENTE FONDAZIONE GIUSEPPE GIGLIO – CEFALÙ Siamo stati tutti invitati, invogliati a votare la sorella, dicendo siamo una famiglia, bisogna dare una mano affinché possa andare a governare alla Regione… perché avremmo avuto dei vantaggi nel senso che avremmo acceso dei riflettori sulla struttura, e potevamo avere anche una continuità del nostro lavoro.

CLAUDIA DI PASQUALE Hanno chiesto anche lei di partecipare alla campagna elettorale?

DIPENDENTE FONDAZIONE GIUSEPPE GIGLIO – CEFALÙ Sì, e ho partecipato pensando di fare una cosa buona per garantirmi il posto di lavoro. A molti colleghi sono arrivati il messaggino con il volantino dove diceva “aiutateci”.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questo, per esempio, è uno dei messaggi inviati dallo staff amministrativo pochi giorni prima delle elezioni.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma i volantini venivano anche distribuiti dentro l'ospedale?

DIPENDENTE FONDAZIONE GIUSEPPE GIGLIO – CEFALÙ Anche dentro gli spogliatoi.

CLAUDIA DI PASQUALE Chi è che gestiva di fatto la campagna elettorale dentro l’ospedale. Chi è che si è mosso?

DIPENDENTE FONDAZIONE GIUSEPPE GIGLIO – CEFALÙ Le persone che a noi chiedevano il voto erano la responsabile dell'ufficio infermieristico, il direttore del Personale, ma anche quelli della direzione amministrativa.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè lo staff del Presidente, no, anche loro ovviamente sono cuffariani, quindi?

DIPENDENTE FONDAZIONE GIUSEPPE GIGLIO – CEFALÙ Sicuramente! No forse, sono. La dirigente infermieristica subito dopo si è candidata alle comunali di Cerda, dove è stata eletta come consigliere comunale, anche lei cuffariana della Dc, ed è salita, ha preso circa 600 voti.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO E grazie all'elezione della responsabile del servizio infermieristico, la DC rinasce anche a Cerda. Invece il responsabile del Personale della Fondazione si è detto orgoglioso di aver fatto parte della squadra che ha portato alla vittoria di Nuccia Albano e ha postato i voti ottenuti a Cefalù. Lo stesso ha fatto un altro dipendente della Fondazione che ha ringraziato gli elettori per i voti presi a Termini Imerese e ha esultato per l'elezione di Nuccia Albano scrivendo: “che squadra, insieme siamo una potenza”. E a fianco ha messo la foto dello staff del presidente Giovanni Albano.

CLAUDIA DI PASQUALE A me risulta che è stata fatta la campagna elettorale anche dallo staff dell'ospedale della Fondazione Giglio, di cui Giovanni Albano è presidente.

TOTO’ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Io credo che ti risulti male. Stai attenta…

CLAUDIA DI PASQUALE Lo dicono anche loro su Facebook.

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Ah, va bene questo se lo dicono loro va bene, lo verificheremo. Ma non dite cose che non sono vere perché rischiate di farvi…

CLAUDIA DI PASQUALE Cosa rischiamo presidente?

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Di farvi citare in giudizio. Un giudizio dal punto di vista della disinformazione. Però va figuriamoci se Report si preoccupa di questo.

CLAUDIA DI PASQUALE È vero che voi, cioè lei e gli Albano, siete amici di famiglia addirittura dalla fine degli anni ‘80?

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Assolutamente sì.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè fate anche le vacanze insieme?

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Assolutamente sì, assolutamente sì, siamo amici.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè la Fondazione Giglio di fatto è un po’ una enclave cuffariana.

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Allora, ti posso dire una cosa?

CLAUDIA DI PASQUALE Sì mi dica.

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA La Fondazione Giglio dove il dottore Albano è stato nominato Presidente niente poco di meno che dalla figlia di Paolo Borsellino.

CLAUDIA DI PASQUALE Nel 2015.

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA L'Assessore alla sanità Lucia Borsellino, capito è stato nominato da lei!

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nessuna polemica, sentiamo direttamente Lucia Borsellino che ci dice di non avere mai nominato Giovanni Albano presidente della Fondazione Giglio. A nominarlo, infatti, nel 2015 è stato l'ex presidente della Regione Rosario Crocetta. Poi nel 2018 l'ha riconfermato il presidente Nello Musumeci.

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Il dottor Albano da questo governo non ha avuto nulla perché questo governo non si è mai occupato della Fondazione Giglio.

CLAUDIA DI PASQUALE Diciamo che la Fondazione Giglio, in questo momento, sta collezionando una serie di convenzioni che le consentono di avere dei soldi extrabudget..

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Aspetta, no no no no, dici cose non vere, informati bene.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Negli ultimi due anni la Fondazione Giglio ha ampliato il suo raggio di azione grazie alla firma di più convenzioni con altri ospedali pubblici. Qui per esempio siamo sui Nebrodi, in provincia di Messina. E questo è l'ospedale San Salvatore di Mistretta.

CLAUDIA DI PASQUALE Qua però c'è un pronto soccorso.

LIVIO ANDRONICO - SEGRETARIO GENERALE UIL - FPL MESSINA Sì, va avanti con la grande abnegazione dei medici che ancora resistono. Addirittura si arriva anche a dieci dodici giorni di fila senza cardiologo e si lavora solo in telemedicina.

CLAUDIA DI PASQUALE Ci sono degli anestesisti?

LIVIO ANDRONICO - SEGRETARIO GENERALE UIL - FPL MESSINA Sì, gli anestesisti dovrebbero essere cinque, da sette anni sono soltanto due anestesisti.

CLAUDIA DI PASQUALE Chirurghi ce ne sono?

LIVIO ANDRONICO - SEGRETARIO GENERALE UIL - FPL MESSINA Soltanto uno, una volta alla settimana massimo due volte perché uno è andato in pensione, uno è stato trasferito a Patti e uno a Termini Imerese.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A partire dal 2021, però, l'ASP di Messina ha stretto un accordo con la Fondazione Giglio che in cambio dell'85% del DRG, cioè della tariffa prevista, s’impegna a offrire diverse prestazioni sanitarie, ma quelle ad oggi attivate sono solo urologia e oculistica.

LIVIO ANDRONICO - SEGRETARIO GENERALE UIL - FPL MESSINA Unità operative che nella rete ospedaliera per questo presidio non erano assolutissimamente previste. Questa convenzione non garantisce le emergenzeurgenze. Tra l’altro la procedura di preospedalizzazione deve essere fatta a Cefalù e non a Mistretta.

CLAUDIA DI PASQUALE E quanto c'è da Mistretta a Cefalù?

LIVIO ANDRONICO - SEGRETARIO GENERALE UIL - FPL MESSINA Altra vergogna, altra vergogna! Credo ci sia almeno un’ora di macchina.

CLAUDIA DI PASQUALE E i soldi che riceve la Fondazione sono in più rispetto a quelli che la Fondazione riceve per la gestione dell'ospedale Giglio?

LIVIO ANDRONICO - SEGRETARIO GENERALE UIL - FPL MESSINA Sì, sono dei soldi in più, certo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Pochi mesi fa la convenzione della Fondazione Giglio con l'ospedale di Mistretta è stata estesa ad un altro ospedale del messinese, quello di Sant'Agata di Militello. Ma la Uil e la Cgil non ci stanno.

ANTONIO TRINO - SEGRETARIO PROVINCIALE FUNZIONE PUBBLICA CGIL – MESSINA Oggi questo ospedale è morto di inedia, è un contenitore quasi vuoto, e in questa situazione di inedia si innesta il salvatore della patria, che in questo caso ha un nome e un cognome: Fondazione Giglio. Fondazione, quindi stiamo parlando di privato. Noi vorremmo che il nostro ospedale funzionasse con i nostri dipendenti, con i nostri professionisti, con i nostri medici, con i nostri infermieri. In realtà così non è.

CLAUDIA DI PASQUALE Non ho capito. Loro dovrebbero operare?

ANTONIO TRINO - SEGRETARIO PROVINCIALE FUNZIONE PUBBLICA CGIL – MESSINA Teoricamente sì, si portano i loro macchinari, si portano i loro medici che però non hanno. Attenzione.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè la Fondazione Giglio ha i medici da mandare qua?

ANTONIO TRINO - SEGRETARIO PROVINCIALE FUNZIONE PUBBLICA CGIL – MESSINA No, infatti ha fatto un subappalto col Buccheri la Ferla, che è una struttura di Palermo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In sostanza la Fondazione Giglio prima ha fatto la convenzione con i due ospedali pubblici messinesi per fornire dei medici, e poi ha affidato le prestazioni di chirurgia ortopedica ad un'altra struttura privata accreditata, il Buccheri La Ferla, a cui darebbe il 20% del DRG, mentre loro si tratterebbero il 65%. La Fondazione, inoltre, a causa della grave carenza di personale medico, si è affidata ad una consulente per cercare medici in Argentina.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma questa convenzione è partita?

ANTONIO TRINO SEGRETARIO PROVINCIALE CGIL FP MESSINA No, perché noi l'abbiamo bloccata per mancata informativa sindacale.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma neanche un paziente arrivato?

ANTONIO TRINO - SEGRETARIO PROVINCIALE FUNZIONE PUBBLICA CGIL – MESSINA Sì, nel frattempo erano arrivati i pazienti. A proposito tutti della provincia di Palermo per quello che ci risulta a noi, non erano pazienti di Sant'Agata e dintorni. Ci è stato risposto che noi a Messina non avevamo una lista d'attesa. Ma allora noi che cosa abbiamo comprato dalla Fondazione Giglio? Se non avevamo esigenza in questo territorio perché abbiamo fatto questa convenzione? E perché tutta questa fretta?

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questo è invece l'ospedale Villa Sofia di Palermo, che rappresenta un punto di riferimento per l'ortopedia.

CLAUDIA DI PASQUALE Cosa è successo oggi al reparto di Ortopedia qua a Villa Sofia?

GIUSEPPE BONSIGNORE - SEGRETARIO REGIONALE CONFEDERAZIONE ITALIANA MEDICI OSPEDALIERI - SICILIA Si è dimesso volontariamente il primario dell'Ortopedia, che di buon grado ha accettato l'offerta di una struttura privata convenzionata. Si sono dimessi due specializzandi, che erano qui per imparare l’arte dal primario, e poi era già preventivato il pensionamento di due colleghi anziani, che andranno in pensione il 1º gennaio. Si sapeva chiaramente da un anno che andavano via, e non è stato fatto alcun concorso.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè di fatto chi è rimasto in questo reparto?

GIUSEPPE BONSIGNORE - SEGRETARIO REGIONALE CONFEDERAZIONE ITALIANA MEDICI OSPEDALIERI - SICILIA Sono rimasti tre medici, però due non possono fare turni notturni di reperibilità e pronto soccorso, perché hanno delle ridotte capacità lavorative per motivi di salute, e quindi di fatto è rimasto un solo ortopedico.

CLAUDIA DI PASQUALE Gli interventi?

GIUSEPPE BONSIGNORE - SEGRETARIO REGIONALE CONFEDERAZIONE ITALIANA MEDICI OSPEDALIERI - SICILIA Gli interventi sono stati sospesi.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Per tamponare la situazione, l'ASP di Palermo ha quindi preso tre ortopedici su quattro che ce n’erano dell'ospedale di Termini Imerese e li ha ceduti in comando a Villa Sofia.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi si è creato un altro buco a Termini Imerese?

GIUSEPPE BONSIGNORE - SEGRETARIO REGIONALE CONFEDERAZIONE ITALIANA MEDICI OSPEDALIERI - SICILIA Esatto. Quindi un po’ un gioco dell’oca, uno spostamento di ortopedici da un posto all’altro perché in realtà in provincia mancano.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Per coprire la casella di Termini Imerese, l'ASP di Palermo ha quindi firmato una convenzione con la Fondazione Giglio di Cefalù.

DANIELA FARAONI - COMMISSARIO STRAORDINARIO AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE - PALERMO Ci è venuta in soccorso la Fondazione Giglio con questo atto di convenzione che lei ha visto.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi quanti medici manda di fatto la Fondazione a Termini?

DANIELA FARAONI - COMMISSARIO STRAORDINARIO AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE - PALERMO La Fondazione manda la turnazione, quindi la presenza, le guardie, la sala operatoria, i turni di reperibilità notturna.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi ne avete mandati tre a Villa Sofia, dal Giglio quanti ne arrivano a Termini?

DANIELA FARAONI - COMMISSARIO STRAORDINARIO AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE - PALERMO Arrivano, ripeto.

CLAUDIA DI PASQUALE Un numero vorrei perché non mi è chiaro.

DANIELA FARAONI - COMMISSARIO STRAORDINARIO AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE - PALERMO No, perché il numero non rientra, il numero, potrebbero mandarne anche 24 uno ogni ora. Le vorrei far comprendere questo.

CLAUDIA DI PASQUALE Mi deve scusare, cioè è importante sapere se mandano un medico o ne mandano tre.

DANIELA FARAONI - COMMISSARIO STRAORDINARIO AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE - PALERMO Io le chiedo scusa io parlo.

CLAUDIA DI PASQUALE Perché voi lo pagate questo servizio quindi dovete sapere cosa fanno.

DANIELA FARAONI - COMMISSARIO STRAORDINARIO AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE - PALERMO Ma certo, ma io infatti compro un servizio h24.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanto vi costa, quindi?

DANIELA FARAONI - COMMISSARIO STRAORDINARIO AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE - PALERMO Più attività fanno e probabilmente più dovremo pagare.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO È la stessa dottoressa Faraoni a scrivere all'assessorato per evidenziare che la convenzione con la Fondazione Giglio determina un incremento notevole della spesa sulla gestione dell'attività, stante la pretesa remunerativa della Fondazione che si prenderà l’85% del DRG.

DANIELA FARAONI - COMMISSARIO STRAORDINARIO ASP PALERMO Sì, io questo lo scrivo all'assessore.

CLAUDIA DI PASQUALE A tutti, all’assessore, alla Regione.

DANIELA FARAONI - COMMISSARIO STRAORDINARIO AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE - PALERMO Per dire che il Giglio avrebbe dovuto fare in via prioritaria solo le attività di competenza dell'ospedale, cioè quello che volevo evitare è che poi le sale operatorie dell'ospedale fossero utilizzate per anche finalità diverse, non so le liste d'attesa del Giglio per esempio.

CLAUDIA DI PASQUALE La Fondazione stringendo queste convenzioni questi soldi diciamo li riceve extra budget?

DANIELA FARAONI - COMMISSARIO STRAORDINARIO AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE - PALERMO Certo sono per attività, dalle quali dipende una funzione extra.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Anche ad Agrigento si è dimesso il primario di Ortopedia e con lui se ne sono andati altri sei medici. Per sopperire a questa carenza, è stato mandato allora ad Agrigento il primario di Ortopedia di Sciacca, con il risultato che a Sciacca il reparto è rimasto scoperto. E così i cittadini sono scesi in piazza a difesa del loro ospedale.

SIGNORA Basta, giù le mani dal nostro ospedale. SIGNORA Mio marito è in urologia, c’è solo un medico.

SIGNORA Io ogni volta quando ho qualche problema devo andare fuori. Mio marito non c'è più, ora che sono sola e con chi ci devo andare.

CLAUDIA DI PASQUALE Salve sono Di Pasquale di Report Rai 3.

CARMELO PACE - DEPUTATO ASSEMBLEA REGIONALE SICILIANA – CAPOGRUPPO DC Quelli monelli!

CLAUDIA DI PASQUALE Quelli monelli. Oggi quali problemi ha l'Ospedale di Sciacca, essenzialmente?

CARMELO PACE - DEPUTATO ASSEMBLEA REGIONALE SICILIANA – CAPOGRUPPO DC Non ci sono più medici nel reparto di ortopedia.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei ha proposto una soluzione per l'ospedale di Sciacca: fare una convenzione con la Fondazione Giglio.

CARMELO PACE - DEPUTATO ASSEMBLEA REGIONALE SICILIANA – CAPOGRUPPO DEMOCRAZIA CRISTIANA Potrebbe essere una strada. Io mi sono così permesso di suggerire a entrambi i manager, Zappia e Albano, di confrontarsi per vedere se c'è una soluzione.

CLAUDIA DI PASQUALE Albano è il presidente della Fondazione Giglio.

CARMELO PACE - DEPUTATO ASSEMBLEA REGIONALE SICILIANA – CAPOGRUPPO DEMOCRAZIA CRISTIANA Penso di sì.

CLAUDIA DI PASQUALE Giovanni Albano, che è un po’ come dire Cuffaro, sono amici di famiglia loro, giusto?

CARMELO PACE - DEPUTATO ASSEMBLEA REGIONALE SICILIANA – CAPOGRUPPO DEMOCRAZIA CRISTIANA Penso di sì.

CLAUDIA DI PASQUALE Tutto lo staff intorno sono cuffariani. Hanno fatto anche campagna elettorale per l'attuale assessore alla famiglia Nuccia Albano.

CARMELO PACE - DEPUTATO ASSEMBLEA REGIONALE SICILIANA – CAPOGRUPPO DEMOCRAZIA CRISTIANA Ma questo non lo so, non mi risulta. Io ho fatto campagna elettorale nella provincia di Agrigento che è il mio collegio.

CLAUDIA DI PASQUALE Si potrebbe fare campagna elettorale negli ospedali o no?

CARMELO PACE - DEPUTATO ASSEMBLEA REGIONALE SICILIANA – CAPOGRUPPO DEMOCRAZIA CRISTIANA Credo che non si possa fare campagna elettorale negli ospedali, ci siano delle regole.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Anche sulle Madonie, in provincia di Palermo, i cittadini sono scesi in piazza a difesa dell'ospedale di Petralia Sottana, che ormai è un contenitore vuoto. E solo pochi giorni fa, il 20 novembre 2023, la Regione ha deciso di mandare anche qui i medici della Fondazione Giglio di Cefalù.

CLAUDIA DI PASQUALE Guardi che la Fondazione Giglio… la Fondazione Giglio

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Sì

CLAUDIA DI PASQUALE Sta stringendo varie convenzioni, non dica che non è vero.

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA No, la Fondazione Giglio la dovete ringraziare… questa te la dico per ultimo,

CLAUDIA DI PASQUALE …Termini Imerese..

TOTO’ CUFFARO perché sta facendo un lavoro che dovete andare

CLAUDIA DI PASQUALE …Sant’Agata

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Tu mi devi fare parlare però.

CLAUDIA DI PASQUALE Mistretta, lei mi ha detto che non è vero che ha delle convenzioni, e che diciamo bugie, è stato un’intera intervista a dire che diciamo bugie.

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Io non ho detto che non ha delle convenzioni,

CLAUDIA DI PASQUALE Ha detto così.

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Ho detto che la dovete ringraziare perché da pubblico cioè non ha nessun guadagno

CLAUDIA DI PASQUALE Non è vero.

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Il dottore Albano

CLAUDIA DI PASQUALE Ma che c’entra, la Fondazione!

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Fa un lavoro di surroga dove c'è una difficoltà soprattutto nel campo dell'ortopedia e sta mandando i suoi medici ad aiutare quelle strutture

CLAUDIA DI PASQUALE Non ce li ha neanche i medici

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Non manda medici? Non credo che manda voi di Report, no, no, no, voi ci andate volontariamente.

CLAUDIA DI PASQUALE Ha fatto una convenzione con il Buccheri la Ferla per mandare i medici del Buccheri La Ferla a Sant’Agata perché non li hanno neanche loro i medici.

TOTÒ CUFFARO - SEGRETARIO NAZIONALE DEMOCRAZIA CRISTIANA Non ho idea che cosa abbia fatto, ma se ha fatto una convenzione per dare una risposta ai cittadini che hanno bisogno di sanità ha fatto solamente bene. Ma vi posso chiedere una cortesia anche io? Salutatemi Sigfrido.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ciao. Allora abbiamo capito che l'assessora Nuccia Albano non è stata candidata in quanto figlia del boss Domenico: è la sorella di Giovanni, il potente presidente di una potente fondazione: Il Giglio. È una fondazione che gestisce l'ospedale Cefalù un polo d'eccellenza è stata fondata nel 2003 con la fondazione San Raffaele del Monte Tabor di Milano… però insomma oggi i soci sono la Regione siciliana, il comune di Cefalù e l'Asp di Palermo. Tuttavia, rimane una fondazione privata e applica i contratti della sanità privata. Insomma, il paradosso è che lei surroga, come dice Cuffaro, si nutre della fragilità della sanità. Insomma, mancano i medici? Ci pensa la fondazione. Non ne ha abbastanza? Allora li va a pescare all'estero oppure tra quelli che sono fuggiti dal pubblico. Mancano delle cose importanti nei reparti? Sono sguarniti? Ci pensa la Fondazione che ha come presidente Giovanni Albano, il quale è scappato inseguito dalle nostre telecamere non ha voluto rispondere alle domande della nostra Claudia Di Pasquale poi però ci ha inviato una lunga lettera nella quale dice di “non aver mai ricevuto incarichi pubblici quando Cuffaro era presidente della Regione, che il suo percorso professionale è stato determinato esclusivamente dai risultati, che gli uomini e le donne della fondazione hanno saputo assicurare alla sanità siciliana”. E che “durante la campagna elettorale non ha fatto riunioni all'interno dell'ospedale” e che “non è iscritto alla DC, che non consentirà mai a nessuno di usare il suo ruolo per interessi diversi da quello che è il miglioramento della sanità siciliana”. Allora c'è da chiedersi dov'era quando i dipendenti della sua fondazione si organizzavano per raccogliere voti a favore della sorella durante la campagna elettorale, insomma alla fine quel che è certo è che oggi la fondazione Giglio si presenta come il salvatore della sanità siciliana, quella stessa sanità che già nel 2005 il governatore della Regione Cuffaro aveva accumulato 4 miliardi di euro di debiti all'incirca. Insomma, todo cambia perché nulla cambi. Questo forse lo temiamo anche per la prossima inchiesta.

Cuffaro torna eleggibile: «Voglio far rinascere la Dc, ma tornerò a fare il medico». Felice Cavallaro su Il Corriere della Sera il 18 Febbraio 2023.

Estinta dal tribunale di sorveglianza la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici all’ex governatore

Giura che non si candiderà, ma da un paio di giorni è caduto l’ultimo ostacolo per un eventuale diretto ritorno di Totò Cuffaro in politica. E’ stata dichiarata “estinta” dal tribunale di sorveglianza la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Appendice dei sette anni di carcere inflitti all’ex presidente della Regione siciliana per avere favorito dei personaggi mafiosi. Una condanna scontata, grazie alla buona condotta, per quattro anni e 11 mesi nel carcere di Rebibbia fino al 2015.

La seduzione della politica

Da allora, religiosissimo e devoto della Madonna, dopo avere scritto un paio di libri legati al tema dell’inferno carcere, Cuffaro ha fatto il coltivatore in una sua tenuta producendo un buon vino ed è andato spesso in Burundi raccogliendo fondi per gli ultimi di tanti villaggi africani. Ma sempre inseguito dalla tentazione della politica. Ammessi gli errori del passato (“So di avere sbagliato...”), in un primo tempo assicurava di resistere alla seduzione di ricostruire la Democrazia cristiana. Poi ha fondato un partitino che ha chiamato come la sua casa madre. Sempre acclamato da folle di amici ricambiati dai famosi baci, i “vasa vasa” ridotti giusto in tempo di pandemia. Al di là di ogni pittoresca immagine su questo personaggio ormai anche al centro di tesi universitarie, tanti suoi avversari restano sorpresi dall’affetto che travolge Cuffaro quando presenta un libro, quando organizza una riunione dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, quando s’affaccia alla politica creando imbarazzi e polemiche.

I suoi produttivi endorsement

E’ accaduto con i suoi endorsement favorevoli alle candidature del sindaco di Palermo Roberto La Galla e del governatore dell’isola Renato Schifani. Indicazioni produttive per lui, visto che al Comune e alla Regione ha piazzato una schiera di assessori e dirigenti. Tuttavia, sembra voler deludere chi già lancia su social e agenzie di stampa la disponibilità a votarlo: “Confermo con determinazione che il mio tempo per le candidature è finito. Potrò tornare a fare il medico. E impegnerò tutte le mie forze affinché la Democrazia Cristiana, oggi una realtà in Sicilia, possa diventare anche una realtà nel Paese”. Un sogno da realizzare, dice, con l’aiuto di Don Luigi Sturzo: “E se riusciamo a far rinascere la Dc, chissà che non sia il miracolo per farlo divenire finalmente Santo”.

Inapplicabile la «Spazzacorrotti»

Incrocia ironia, amarezze e qualche gioia Cuffaro, senza recriminazioni contro chi lo ha inquisito, nel rispetto di una magistratura che adesso annovera fra gli ultimi vincitori di concorso la figlia Ida, riservata e defilata anche quando da assistente universitaria veniva considerata un numero uno. Esperta del diritto e di norme richiamate, attraverso l’avvocato Marcello Montalbano, davanti al tribunale che ha cancellato l’ultimo ostacolo alla riabilitazione. Montalbano aveva presentato opposizione rispetto a una prima ordinanza emessa dallo stesso collegio il 13 settembre 2022. Era stata concessa già allora una prima riabilitazione lasciando però in vigore l’interdizione dai pubblici uffici. Misura legata alla legge “Spazzacorrotti”. La norma, introdotta dall’allora ministro della giustizia Alfonso Bonafede, non consente l’estinzione dell’interdizione contestualmente alla riabilitazione. Per la difesa Cuffaro aveva però maturato il diritto ben prima della “Spazzacorrotti”. Di qui da decisione dei giudici di riconoscere il principio della irretroattività delle norme penali sfavorevoli, sancito dalla Costituzione.

Attese e manovre nel centrodestra

L’interessato smorza l’euforia dei cuffariani che già pensano a future competizioni elettorali per votare il capo di una formazione attestatasi in alcuni centri intorno al 10 per cento. Ma tanti scommettono su un ruolo crescente, considerati i maggiori spazi di manovra di un ex detenuto che rivendica il diritto costituzionale della piena reintegrazione. E questo determina già attese proprio nel centro destra. Un mondo percorso in Sicilia da una crisi interna a Forza Italia per la guerra tra Schifani e Gianfranco Micciché, ma anche da fibrillazioni che non risparmiano Fratelli d’Italia per i pasticci legati a una dispendiosa propaganda dell’isola fissata e annullata a Cannes.

Il tempo per le candidature è finito. Torno a fare il medico”. Cuffaro potrà ricandidarsi, la spazzacorrotti va in pezzi. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 18 Febbraio 2023

Scricchiola la Spazzacorrotti. A Palermo il tribunale di sorveglianza, riesaminando il caso dell’ex presidente della Regione Sicilia, Totò Cuffaro, ha dichiarato estinta la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici a suo carico. Cuffaro ora ha diritto all’elettorato passivo: potrà ricandidarsi se lo vorrà.

Mi sono difeso nel processo come è giusto che sia e ho sempre rispettato il lavoro dei pubblici ministeri e dei giudici – aggiunge Cuffaro -. Ho con sofferenza e con speranza attraversato il carcere accettandolo e vivendolo con spirito di rieducazione e di risocializzazione. Posso dire che l’esperienza della detenzione dolorosa ma non sterile ha fatto di me un altro uomo, consolidando in me la convinzione che la vita ha valore se si vive per qualcuno e per qualcosa. Oggi più che mai posso ribadire con forza la mia fiducia nella giustizia”.

La cosiddetta Spazzacorrotti, che nel 2019 ha introdotto una normativa più severa con riguardo ai reati contro la pubblica amministrazione, deve sottostare al principio costituzionale e generale del diritto della irretroattività della legge penale più sfavorevole al reo. È per questa ragione che il tribunale di sorveglianza di Palermo ha dichiarato la estinzione anche della pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici inflitta a Salvatore Cuffaro, che per l’effetto della decisione adottata dal collegio presieduto da Luisa Leone, relatore il magistrato di sorveglianza Federico Romoli, è libero di tornare a candidarsi nelle competizioni elettorali.

Ho sempre avuto fiducia nella giustizia, amo questa terra e amo la politica. So di aver commesso molti errori e per i quali ho pagato un prezzo altissimo. Coltivo il diritto, e credo anche il dovere, di potere continuare ad essere utile, per questo mi sono speso e mi sto spendendo, per affermare un partito di ideali e di valori: la Democrazia Cristiana. La DC dovrà avere necessariamente un contenuto democratico-sociale, ispirato ai principi cristiani, fuori da questi termini penso non avrà mai il diritto ad una vita propria: rischia di diventare un’appendice di altri partiti. La Dc è un ideale, un’evoluzione di idee, una convinzione di coscienze, una speranza di vita”.

C’è già chi gli chiede, a questo punto, di tornare pienamente in campo. Lo fa il capogruppo della Dc all’Assemblea Regionale Siciliana, Carmelo Pace: “Il nostro commissario regionale deve dare, a tutti coloro che lo hanno sostenuto e lo continuano a sostenere, ma anche a tantissimi siciliani, il piacere e l’onore di poterlo votare e tornare pienamente in politica”. L’interessato, che ieri ha passato la giornata al telefono, a rispondere alle tante telefonate di stima, al momento pare chiudere a questa ipotesi. “Confermo con determinazione che il mio tempo per le candidature è finito. Potrò tornare a fare il medico”, commenta l’interessato. Che si propone obiettivi più alti di una candidatura a un seggio: “Chissà che non si riesca a far riconoscere la santità di Don Luigi Sturzo”.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Il caso dell'ex presidente della Sicilia. Totò Cuffaro esce dal carcere, ma resta ancora prigioniero. Sergio D'Elia su Il Riformista il 3 Giugno 2022

Voglio parlare di Totò Cuffaro, del giudicabile, impresentabile, irredimibile ex presidente della Regione Sicilia. Perfetto e perenne tipo d’autore, di lui non si dice che reato abbia fatto, contro di lui si continua a “fare giustizia”. Pagato il suo debito con la società, non si può presentare in società, perché un marchio di infamia con la scritta indelebile “non cambierai mai” rimane impresso sulla sua pelle. Ha scontato la sua pena fino all’ultimo giorno, ma per lui non vi può essere redenzione, il suo fine pena è mai.

È stato condannato a essere un reo per sempre, non come Caino a cui pure, in un altro senso dell’errare, è accaduto di attraversare terre desolate e da radice del male divenire padre fecondo di nuove discendenze e beato costruttore di città. La sua colpa? Quella di voler continuare a fare politica. In terra di mafia e con lo scudo crociato. Eppure, nella corsa elettorale al Comune di Palermo, Totò Cuffaro non concorre di persona. Il suo è un concorso esterno, non in un’associazione di stampo mafioso, reato che non esiste nei codici, che è di stampo giudiziario, che è stato inventato nei tribunali e per il quale Cuffaro non è mai stato condannato, ma in un’associazione politica denominata “democrazia cristiana”. Per questo, in questi giorni, è stato messo in croce, criminalizzato e processato sulla pubblica piazza perché “da fuori” ispira, dirige, condiziona i giochi della politica dei partiti e del potere mafioso sulla città.

In Italia, a partire almeno dagli anni 90, è avvenuto un capovolgimento totale di principi e regole dello stato di diritto, del giusto processo e della giusta detenzione, se giusta può essere mai definita la pratica barbara di chiudere in gabbia una persona. È accaduto che il tribunale sia ormai divenuto un carcere e il carcere un tribunale. Accade che ti fanno espiare una pena in attesa del giudizio e continuano a giudicarti anche durante l’espiazione della pena. In tribunale non entra il reato, il fatto di reato, entra l’uomo, il tipo d’autore. Viceversa, in carcere entra il reato, mentre l’uomo resta fuori; il reato, poi, è sempre ostativo e la pena infinita. Per Totò Cuffaro, il diritto è stato capovolto dalla parte del torto oltre ogni umana percezione dello spazio e del tempo. Il condannato rimane colpevole anche fuori dal luogo del delitto e del castigo, anche dopo la fine del processo e della pena.

Totò Cuffaro sta subendo un processo per un reato che non gli è mai stato contestato e sta scontando un ergastolo che non gli è stato mai comminato. Cuffaro ha onorato la sentenza che lo ha condannato, ha scontato la sua pena tutta d’un fiato, con dignità e senza tregua, senza un attimo di respiro, senza un giorno di ristoro, senza un atto di condono. Gli è stata negata persino la minima manifestazione di umana, cristiana pietà di una visita a casa della madre anziana e in gravi condizioni di salute. Il “fine pena mai” è terribile e inumano per chi è stato condannato all’ergastolo, è particolarmente odioso quando viene applicato vita natural durante anche a chi all’ergastolo non è mai stato condannato. Racconto la storia di Cuffaro perché è la storia di un detenuto noto che ci deve far riflettere sul destino di migliaia di “detenuti ignoti” che, una volta espiata la pena, sono costretti alla clandestinità dei rapporti sociali, sono indotti a vergognarsi di essere stati carcerati, sono marchiati a vita per il loro passato.

Hanno scontato per intero la loro pena? Anche se è stata lieve, su di loro continua a pesare il fatto di essere stati “carcerati”. Non hanno diritto a un reinserimento sociale pieno e incondizionato. Sono interdetti da diritti civili e politici fondamentali: di parola, di opinione, di associazione, di partecipazione alla vita sociale. Uscito dal luogo deputato per la pena alla fine del tempo stabilito dal giudizio, in realtà, Cuffaro dal carcere non è mai uscito e rimane sempre uno in attesa di giudizio: prigioniero è stato nel passato, prigioniero rimane nel presente, prigioniero sarà per il futuro. Per il solo fatto di essere stato processato, condannato, carcerato. Allora, se io devo scegliere di chi fidarmi, mi fido più di un condannato che non di un innocente. Perché del condannato so tutto, cosa ha fatto, cosa non ha fatto. Dell’innocente non so nulla. È, come si dice, “innocente fino a prova contraria”, anche fino alla prova del contrario di ciò che appare. Del condannato, invece, sono certo: è un “colpevole fino a prova contraria”, che può essere la prova della sua innocenza, della sua estraneità al reato, ma anche, meglio, la prova della innocenza ritrovata, della sua diversità rispetto al tempo del reato.

Io ho conosciuto il condannato Cuffaro quando era detenuto a Rebibbia. Con Marco Pannella e Rita Bernardini lo andavamo trovare, lui e i suoi compagni di sventura, la notte di San Silvestro per augurare, allo scoccare della mezzanotte, un buon anno, diverso da quello appena passato. Il carcere è il luogo della pena, ma anche il momento della verità, della conoscenza della persona, della scoperta del suo essere autentico. Lì, nel luogo di privazione della libertà e del potere, ho conosciuto e stimato Cuffaro nella sua nuda identità, per la sua grande umanità e la sua infinita bontà. Quando era a Rebibbia, detenuto, colpevole, condannato. Credo di non averlo mai incontrato quando era libero, innocente e potente governatore di regione. Io mi fido di Totò Cuffaro perché è stato detenuto a Rebibbia e, oggi, lo difendo da chi lo considera ancora un detenuto. Lo difendo, innanzitutto, dai sepolcri imbiancati, da coloro che lo hanno conosciuto, frequentato e votato quando era innocente come un angelo e potente come un imperatore.

Mentre, oggi, caduto dall’alto dei cieli e finito all’inferno della condizione umana, lo condannano – senza processo e senza pena – all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, e gli negano finanche il diritto di parola, il diritto di associazione, il diritto di aggregazione e di partecipazione alla vita politica democratica. Io difendo l’umanità di Totò Cuffaro, i suoi diritti umani, civili e politici, e indico il suo vissuto come un esempio che plasticamente descrive e, nello stesso tempo, invoca il superamento della realtà, che fa letteralmente pena, di uno Stato anti-Diritto, anti-Costituzione, anti-Convenzione europea sui diritti umani. Chiunque l’abbia detto – Voltaire, Tolstoj o Dostoevskij – non basta più dire che la civiltà di un Paese si misura entrando nelle carceri. Occorre dire che la si misura uscendo dalle carceri, da un sistema di giustizia penale che pregiudica anche dopo il giudizio, che condanna oltre ogni punizione e imprigiona anche fuori dal muro di cinta del luogo di detenzione. Sergio D'Elia

La figlia di Totò Cuffaro diventa magistrato. E lui si commuove: «Ha sconfitto le mie sconfitte». Lara Sirignano su Il Corriere della Sera il 6 Dicembre 2022

Ida Cuffaro proclamata a Roma, l’annuncio del padre (che non è andato alla cerimonia) durante un convegno. «Oggi per me è un giorno importante»

La proclamazione c’è stata ieri a Roma. Ora Ida Cuffaro, figlia dell’ex governatore siciliano, è un magistrato. «Sono orgoglioso del risultato che ha ottenuto», le parole del padre, che ha dato la notizia durante un convegno dell’Associazione Nazionale Piccole Imprese.

«Oggi per me è un giorno importante», ha spiegato, commosso, l’ex presidente della Regione da poco riabilitato dalla magistratura di sorveglianza di Palermo dopo una condanna a sette anni per favoreggiamento alla mafia che lo costrinse alle dimissioni. «Il suo successo sconfigge la mia sconfitta», ha detto alla platea del convegno Cuffaro, ora commissario della Dc Nuova.

Ida Cuffaro ha superato anche l’esame per diventare avvocato e ha vinto un dottorato all’università di Palermo. Una carriera brillante quella della figlia dell’ex governatore, una ragazza molto riservata, che ha sempre scelto di evitare la ribalta.

La notizia del superamento del concorso in magistratura, pubblicata nei mesi scorsi, venne accolta sui social dalle critiche di chi riteneva inopportuno che a indossare la toga fosse la figlia di un condannato per reati di mafia. In difesa dell’allora studentessa si schierò il docente universitario Costantino Visconti. «Sono insulti vergognosi e scandalosi ai danni di una ragazza studiosissima e coraggiosa», commentò.

Condanna per mafia, Cuffaro riabilitato. Ma non potrà candidarsi per sette anni. Nel frattempo l'ex presidente è tornato alla politica ed è il coordinatore della Dc Nuova, che ha ottenuto voti ed eletti sia al Consiglio comunale di Palermo che nell'Assemblea regionale siciliana. La Repubblica il 3 ottobre 2022.

Il tribunale di sorveglianza di Palermo ha concesso la riabilitazione all'ex presidente della Regione siciliana, Totò Cuffaro, dalle due condanne da lui rimediate: una negli anni '90, per diffamazione nei confronti di un magistrato, Francesco Taurisano, l'altra - ben più grave - per favoreggiamento aggravato dall'agevolazione di Cosa nostra, che aveva portato l'esponente democristiano, nello scorso decennio, a scontare circa 6 anni.

I giudici, pur dando atto del percorso di ravvedimento dell'ex governatore, difeso dall'avvocato Marcello Montalbano, hanno però applicato una norma della "legge Spazzacorrotti" che impedisce a Cuffaro di tornare alla politica attiva e al cosiddetto elettorato passivo: dato che per lui l'interdizione dai pubblici uffici è perpetua, dovranno trascorrere sette anni dalla data del provvedimento perché Cuffaro possa tornare a candidarsi.

Nel frattempo l'ex presidente è tornato alla politica ed è il coordinatore della Dc Nuova, che ha ottenuto voti ed eletti sia al Consiglio comunale di Palermo che nell'Assemblea regionale siciliana. Lui personalmente però non può scendere in campo. La sua difesa sta valutando la presentazione di un'opposizione allo stesso tribunale di sorveglianza: ritiene infatti che l'applicazione della norma della Spazzacorrotti, entrata in vigore dopo la fine della vicenda giudiziaria di Cuffaro, sia retroattiva e perciò vietata dai principi del diritto penale.

Secondo i giudici del tribunale di sorveglianza, oltre ad aver scontato la pena, Cuffaro, "ha ritenuto di manifestare pubblicamente la presa di distanza dal fenomeno mafioso, dichiarando che 'la mafia è una cosa che fa schifo. Lo contìnuo a dire perché quando l'ho detto qualcuno ha riso sopra, ma la mafia fa schifo ed è il più grande cancro che abbiamo in Sicilia".

L'ex governatore, inoltre, ha allegato alla sua istanza "una notevole mole di documenti da cui emerge un'importante e continuativa dedizione ad attività di volontariato e partecipazione a numerose iniziative legalitarie in difesa dei diritto dei detenuti". I magistrati citano i viaggi in Burundi, presso l'ospedale "Cimpaye Sicilia", di Cuffaro che ha messo "a disposizione della comunità locale le proprie capacità organizzative e sanitarie al fine di favorire un più ampio progetto di assistenza e le raccolte fondi  finalizzate alla realizzazione di progetti di sviluppo nel Burundi e nel Niger".

E ancora Cuffaro ha "scritto tre romanzi col dichiarato intento di devolvere i proventi delle vendite a sostegno dello sviluppo di progetti di recupero a vantaggio dei detenuti nonché per la cura della sclerosi multipla". Infine il tribunale dà atto all'ex governatore di aver pagato tutte le spese processuali e di mantenimento in carcere e di aver versato alla Regione Sicilia i 158.338 euro a titolo risarcitorio che gli aveva imposto la Corte dei Conti.

Ida Cuffaro diventa giudice, speriamo che il frutto cada lontano dall’albero. Arturo Guastella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Ottobre 2022.

Parafrasando un luogo comune, ora l’auspicio è quello «che il frutto possa cadere ben lontano dall’albero che lo ha generato». E, nel commentare, l’ingresso in magistratura di Ida Cuffaro, figlia di Totò ex presidente della Regione Sicilia, finito in carcere per favoreggiamento alla mafia, non abbiamo motivo per dubitarne, anche se il neo magistrato, nella votazione finale del concorso, ha riportato appena due punti (24 agli scritti e 72 agli orali) in più del minimo. Un punteggio, ben lontano dal 110, lode e menzione, con il quale si era laureata in Giurisprudenza all’Università di Palermo. Un cursus honorum, di tutto rispetto, visto che la ragazza, dopo essersi abilitata alla professione di avvocato, aveva vinto anche un dottorato di ricerca, presso lo stesso ateneo, con una tesi su «pratiche commerciali scorrette e rimedi contrattuali».

Certo, e non si ha motivo di dubitarne, ora la sua carriera la porta su barricate opposte a quelle che usava frequentare il suo genitore, anche se quest’ultimo, dopo aver scontato la sua pena ed essere ritornato in politica, non ha perso occasione per ribadire di aver imboccato la via della legalità, dicendosi fortemente pentito dei suoi trascorsi poco limpidi.

Certo sono lontani i tempi, quando bastava avere un parente, anche di terzo grado, che aveva una qualche pendenza con la giustizia, per vedersi sbarrata qualunque strada verso una qualsiasi carriera nelle forze dell’ordine. Figurarsi in Magistratura… E, tuttavia, avere in famiglia un magistrato, dopo che questi ultimi, i giudici, erano stati considerati per anni gli avversari da contrastare, se non proprio da combattere, un qualche imbarazzo deve averlo creato all’ex Presidente della Regione Sicilia.

Come non deve essere stato semplice per la dottoressa Cuffaro, fare una simile scelta, consapevole che, comunque, sarebbe stata sempre vista come la figlia di un politico che si intratteneva con i mafiosi, scegliendo a sua volta, una professione, quella dei magistrati, che dalla mafia sono stati più e più volte, colpiti a morte, screditati e politicamente attaccati per isolarli e colpirli più agevolmente.

È anche vero che le colpe dei genitori non debbono ricadere sui figli e che a questi ultimi deve essere data la possibilità di seguire la propria strada, anche se quest’ultima collide violentemente con l’operato illegale dei propri parenti. Siamo anche certi che i commissari che hanno esaminato il neo magistrato, queste perplessità le hanno avuto, finendo, tuttavia, per premiare il merito e la volontà, espressa con la stessa decisione di accedere ai ranghi della giustizia, di essere pronta a fare, sempre, comunque, e per intero, il proprio dovere, anche in contrasto con l’ambiente nel quale si è cresciuti.

Del resto, la dottoressa Cuffaro, già prima del concorso in Magistratura, aveva scelto la via della ricerca accademica, rifuggendo da una professione, quella di avvocato, che, per forza di cose, l’avrebbe portata a difendere (come è giusto che sia) anche qualche malavitoso, perpetuando, così, l’equivoco di quel frutto che non può che cadere vicino all’albero. Nella sua scelta, inoltre, ci deve essere stata sottesa l’ammirazione per chi rischiava la propria vita per difendere i diritti dei cittadini, combattendo in prima linea una potentissima organizzazione malavitosa, i cui tentacoli si era resa conto erano riusciti ad infiltrarsi persino in casa propria. Una decisione ponderata, e per ciò stesso, degna di fiducia. Quasi come simbolo che nella guerra alla Mafia, l’esercito dei suoi nemici può annoverare anche chi si credeva per lo meno neutrale, se non proprio colluso.

Forse quel grido singhiozzato ai mafiosi di pentirsi, della vedova Schifani, dopo la strage del giudice Falcone e della sua scorta, deve aver aperto i cuori a quanti più siciliani si è fin qui creduto. Sarebbe auspicabile, che in un futuro processo di Mafia, magari alla primula rossa, Matteo Messina Denaro, fosse proprio il giudice togato, Ida Cuffaro, a comminargli la pena più severa.

Marcello dell’Utri.

Dagospia il 30 gennaio 2023. SAPEVATE CHE ZEMAN HA AVUTO COME PRESIDENTE MARCELLO DELL’UTRI? LA RIVELAZIONE A “NON E’ UN PAESE PER GIOVANI” SU RADIO 2: NELLA STESSA SQUADRA SICILIANA DEL BOEMO, IL BACIGALUPO, MILITO’ IN QUEGLI ANNI ANCHE L’EX PROCURATORE ANTIMAFIA PIETRO GRASSO – POI "SDENGO" RIVELA DI ESSERE STATO PER DUE VOLTE VICINO ALL’INTER E INTERVIENE ANCHE SUL CASO ZANIOLO – LA CHICCA: LA PAROLA “BAGHER” USATA NEL VOLLEY È DI ORIGINE CECOSLOVACCA E SIGNIFICA…

Dell’Utri? Mi ha dato la possibilità di lavorare con il Bacigalupo, una società importante a livello giovanile in Sicilia”. Zdenek Zeman interviene a “Non è un Paese per giovani”, il programma condotto su Radio 2 da Tommaso Labate e Massimo Cervelli e ripercorre la sua storia (raccontata anche nel libro “La bellezza non ha prezzo”) che lo ha portato dalla Cecoslavacchia in Italia dopo che la Primavera di Praga venne stroncata dai carri armati sovietici.

 La sua insostenibile leggerezza dell'essere l'ha trovata a Palermo, la città in cui è iniziato il secondo tempo della sua vita. Nella stagione 1969-70 la prima esperienza come tecnico di calcio a Cinisi, dove 8 anni dopo morì assassinato il giornalista Peppino Impastato. E poi l’approdo al Bacigalupo, la squadra che aveva preso il nome dal portiere del Torino morto a Superga, gestita da Alberto e Marcello Dell’Utri, poi fondatore nel 1994 con Berlusconi di Forza Italia e implicato in discussi processi. Forse non tutti sanno che in quegli anni nella stessa squadra giocò anche Pietro Grasso, futuro procuratore antimafia.

Zeman rammenta quegli anni in cui passava da uno sport all’altro (faceva anche l’allenatore di nuoto, il giocatore-allenatore di pallamano e pallavolo) e ricorda che la parola "bagher" usata oggi nel volley è di origine cecoslovacca e significa "scavatrice". Il gesto tecnico, che sembra mimare quello di una ruspa, viene utilizzato nella pallavolo per “ricevere” le battute avversarie.

 Tra il rimpianto per non aver allenato Montella (“E’ venuto alla Roma perché l’ho voluto io”) e la rivelazione sulle "due volte" in cui ha rischiato di finire all’Inter, Zeman non si tira indietro sul caso Zaniolo, inseguito e insultato nella notte da un gruppo di tifosi romanisti: “E’ un episodio spiacevole, il calcio è diventato un po’ troppo estremo. Purtroppo c’è gente che non capisce cosa sia lo sport…”

Marcello Dell’Utri, un amico degli amici. ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA su Il Domani il 29 ottobre 2023

È stato uno dei processi più complicati e discussi della recente storia giudiziaria italiana. Con un imputato eccellente, anzi eccellentissimo, Marcello Dell'Utri, già senatore e tra i fondatori di Forza Italia, il partito “nuovo” di Silvio Berlusconi che nel 1994 dopo il crollo della Prima Repubblica ha stravinto le elezioni

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

È stato uno dei processi più complicati e discussi della recente storia giudiziaria italiana. Con un imputato eccellente, anzi eccellentissimo, Marcello Dell'Utri, già senatore e tra i fondatori di Forza Italia, il partito “nuovo” di Silvio Berlusconi che nel 1994 dopo il crollo della Prima Repubblica ha stravinto le elezioni.

Da allora, niente nel nostro Paese sarebbe più stato come prima. Nemmeno la mafia.

Un percorso giudiziario lungo e difficile quello del processo Dell'Utri, iniziato nel lontano 1997. Dopo una condanna in primo grado nel 2004 a nove anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, due in meno quelli inflitti nel 2010 dai giudici d'appello.

Poi l'annullamento della Cassazione, poi ancora un nuovo processo celebrato in appello fino alla definitiva condanna a sette anni. Nel 2014 il senatore Marcello Dell'Utri è entrato nel carcere romano di Rebibbia.

Per i giudici della Suprema Corte Marcello Dell’Utri ha avuto «un importante ruolo di collegamento tra Silvio Berlusconi e Cosa Nostra», cessato nel 1992 e non - come sosteneva la sentenza di primo grado - fino al 1998.

Nonostante trent'anni di indagini e molti processi è una vicenda italiana con ancora tanti punti oscuri, dove si mescolano storie di cavalli e di ”stallieri” come Vittorio Mangano, il boss di Porta Nuova definito “eroe” sia dal senatore che dal Cavaliere Berlusconi.

Misteri che si sono intrecciati fra Milano e Palermo per più di mezzo secolo.

Da oggi sul Blog Mafie pubblichiamo ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte.  ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA

Il processo di primo grado, l’inizio di una lunga  vicenda giudiziaria. SENTENZA D'APPELLO BIS su Il Domani il 29 ottobre 2023

Le funzioni di Dell'Utri erano state quelle di segretario personale di Berlusconi ; a lui Berlusconi aveva affidato il controllo dei lavori di restauro di Villa Casati ad Arcore, acquistata in quel periodo dall'imprenditore milanese e dove quest'ultimo si era trasferito intorno alla Pasqua del 1974

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Con sentenza dell' 11 dicembre 2004, il Tribunale di Palermo ha condannato Marcello Dell 'Utri alla pena di anni nove di reclusione ritenendolo responsabile dei delitti, avvinti dal vincolo della continuazione: di concorso esterno in associazione per delinquere di cui agli artt.110 e 416 commi 1, 4 e 5 c.p. per avere concorso nelle attività della associazione di tipo mafioso denominata "Cosa Nostra", nonché nel perseguimento degli scopi della stessa, mettendo a disposizione della medesima associazione l'influenza ed il potere derivanti dalla sua posizione di esponente del mondo finanziario ed imprenditoria/e, nonché dalle relazioni intessute nel corso della sua attività, partecipando in questo modo al mantenimento, al rafforzamento ed alla espansione della associazione medesima. E così ad esempio:

partecipando personalmente ad incontri con esponenti anche di vertice di Cosa Nostra, nel corso dei quali venivano discusse condotte funzionali agli interessi della organizzazione;

intrattenendo, inoltre, rapporti continuativi con l'associazione per delinquere tramite numerosi esponenti di rilievo di detto sodalizio criminale, tra i quali Bontate Stefano, Teresi Girolamo, Pullarà Ignazio, Pullarà Giovanbattista, Mangano Vittorio, Cinà Gaetano, Di Napoli Giuseppe, Di Napoli Pietro, Ganci Raffaele, Riina Salvatore;

provvedendo a ricoverare latitanti appartenenti alla detta organizzazione;

ponendo a disposizione dei suddetti esponenti di Cosa Nostra le conoscenze acquisite presso il sistema economico italiano e siciliano.

Così rafforzando la potenzialità criminale dell'organizzazione in quanto, tra l'altro, determinava nei capi di Cosa Nostra ed in altri suoi aderenti la consapevolezza della responsabilità di esso Dell'Utri a porre in essere (in varie forme e modi, anche mediati) condotte volte ad influenzare - a vantaggio della associazione per delinquere - individui operanti nel mondo istituzionale, imprenditoriale e finanziario. Con le aggravanti di cui all'articolo 416 commi 4° e 5° c.p. trattandosi di associazione armata ed essendo il numero degli associati superiore a dieci. Reato commesso in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo della associazione per delinquere denominata Cosa Nostra), Milano ed altre località, da epoca imprecisata sino al 28.9.1982; (capo a) di concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso di cui agli artt. 110 e 416 bis commi 1, 4 e 6 c.p. per avere concorso nelle attività della associazione di tipo mafioso denominata "Cosa Nostra", nonché nel perseguimento degli scopi della stessa, mettendo a disposizione della medesima associazione l'influenza ed il potere derivanti dalla sua posizione di esponente del mondo finanziario ed imprenditoriale, nonché dalle relazioni intessute nel corso della sua attività, partecipando in questo modo al mantenimento, al rafforzamento ed alla espansione della associazione medesima. E così ad esempio:

partecipando personalmente ad incontri con esponenti anche di vertice di Cosa Nostra, nel corso dei quali venivano discusse condotte funzionali agli interessi della organizzazione;

intrattenendo, inoltre, rapporti continuativi con l'associazione per delinquere tramite numerosi esponenti di rilievo di detto sodalizio criminale, tra i quali, Pullarà lgnazio, Pullarà Giovanbattista, Di Napoli Giuseppe, Di Napoli Pietro, Ganci Raffaele, Riina Salvatore, Graviano Giuseppe;

provvedendo a ricoverare latitanti appartenenti alla detta organizzazione;

ponendo a disposizione dei suddetti esponenti di Cosa Nostra le conoscenze acquisite presso il sistema economico italiano e siciliano. Così rafforzando la potenzialità criminale dell'organizzazione in quanto, tra l'altro, determinava nei capi di Cosa Nostra ed in altri suoi aderenti la consapevolezza della responsabilità di esso Dell'Utri a porre in essere (in varie forme e modi, anche mediati) condotte volte ad influenzare - a vantaggio della associazione per delinquere - individui operanti nel mondo istituzionale, imprenditoriale e finanziario.

Con le aggravanti di cui ai commi 4° e 6° dell'art.416 bis c.p., trattandosi di associazione armata e finalizzata ad assumere il controllo di attività economiche finanziate, in tutto o in parte, con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti. Reato commesso in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo dell'associazione per delinquere denominata Cosa Nostra), Milano ed altre località, dal 28.9.1982 ad oggi. (capo b)

Lo stesso imputato è stato dichiarato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici ed in stato d'interdizione legale durante l'esecuzione della pena, sottoposto alla misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di due anni da eseguirsi a pena espiata e condannato al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite (Provincia Regionale di Palermo e Comune di Palermo ) da liquidarsi in separato giudizio nonché al pagamento delle spese sostenute dalle stesse parti civili.

Detta sentenza - al cui contenuto si rinvia integralmente - ha esaminato la condotta di Marcello Dell'Utri ritenendola penalmente rilevante in relazione alle due contestazioni originariamente formulate nei suoi confronti ( 110, 416 c.p. e 110 e 416 bis c.p.) con riguardo ad un arco temporale compreso tra i primi anni '70 fino al 1998. In primo luogo il Tribunale ha ricostruito i rapporti esistenti tra Dell 'Utri, Silvio Berlusconi, Gaetano Cinà e Vittorio Mangano.

Dell’Utri aveva conosciuto Silvio Berlusconi nel 1961, anno in cui aveva lasciato Palermo ed era andato a Milano a studiare presso l'Università Statale. Nel 1970 era ritornato a Palermo ed era stato assunto presso la Cassa di Risparmio delle Province Siciliane a Catania dove aveva lavorato dal 2 febbraio 1970 al 25 febbraio 1971.

Nel maggio del 1973 - dopo un breve periodo di lavoro presso l'agenzia della stessa banca di Belmonte Mezzagno - era stato trasferito al Servizio di Credito Agrario presso la Direzione Generale di Palermo. Rientrato a Palermo aveva ripreso i rapporti con la società calcistica Bacigalupo che lui stesso aveva fondato nel 1957.

Nell'ambito di detta società aveva conosciuto Gaetano Cinà, padre di un ragazzo che giocava a calcio e che aveva mostrato un particolare talento, e Vittorio Mangano, amico di Cinà, che assisteva alle partite di calcio.

Lo stesso Mangano aveva confermato di avere conosciuto Dell'Utri all'epoca in cui era presidente della società calcistica appena citata e che a presentarglielo era stato Cinà che gli aveva detto che era un suo amico.

Dell’Utri aveva rammentato, in particolare, che la funzione di Mangano era stata quella di tutelare i giocatori della Bacigalupo "società prestigiosa costituita con la base dei ragazzi del Gonzaga", allorchè le partite si giocavano contro squadre composte da ''figli della società meno nobile palermitana". Nell'agosto del 1973 Berlusconi aveva proposto a Dell 'Utri di svolgere mansioni alle sue dipendenze e per tale ragione l'imputato aveva presentato la propria lettera di dimissioni dalla Cassa di Risparmio il 5 marzo 1974 con decorrenza dal mese di aprile successivo.

Le dimissioni erano state accettate formalmente dalla banca con delibera dell'8 aprile 1974. Fedele Confalonieri, sentito all'udienza del 31 marzo 2003, aveva anticipato l'inizio del rapporto lavorativo all'autunno del 1973, ricordando che Dell 'Utri era entrato alla Edilnord cinque o sei mesi dopo la sua assunzione avvenuta nell'aprile dello stesso anno.

Di fatto, le funzioni di Dell 'Utri erano state quelle di segretario personale di Berlusconi ; a lui Berlusconi aveva affidato il controllo dei lavori di restauro di Villa Casati ad Arcore, acquistata in quel periodo dall'imprenditore milanese e dove quest'ultimo si era trasferito intorno alla Pasqua del 1974.

SENTENZA D'APPELLO BIS

La prima sentenza di condanna a 9 anni di carcere per concorso esterno. SENTENZA D'APPELLO BIS su Il Domani il 30 ottobre 2023

L'attività posta in essere da Dell'Utri - in conclusione - aveva costituito "un concreto, volontario, consapevole, specifico e prezioso contributo al mantenimento, consolidamento e rafforzamento di " cosa nostra" alla quale è stata, tra l'altro, offerta l'opporunità di entrare in contatto con importanti ambienti dell'economia e della finanza, e di perseguire in modo più agevole i " suoi fini illeciti, sia meramente economici che latu sensu, politici"

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Subito dopo l'inizio dell'attività lavorativa di Dell'Utri, Vittorio Mangano era arrivato ad Arcore. Dell'Utri in sede di spontanee dichiarazioni aveva collocato temporalmente l'arrivo di Mangano ad Arcore nell'aprile del 1974, data è stata ritenuta corretta dal Tribunale in quanto Mangano aveva trasferito la propria residenza anagrafica a Milano dall' 1 luglio 1974 e Fedele Confalonieri aveva indicato detto arrivo nell'estate del 1974.

Mangano era stato assunto proprio grazie all'intermediazione dell'imputato così come era stato dichiarato da Dell'Utri nel corso dell'interrogatorio dinanzi al P.M. del 26 giugno 1996 ed anche in sede di spontanee dichiarazioni rese il 29 novembre 2004 e dallo stesso Silvio Berlusconi al Giudice Istruttore di Milano il 26 giugno 1987.

Il Tribunale ha ritenuto che il motivo dell'assunzione di Mangano ad Arcore era da ravvisarsi nella funzione di "garanzia" e di "protezione" di Silvio Berlusconi e dei suoi familiari; detta considerazione era stata confermata dal fatto che, dopo l'allontanamento di Vittorio Mangano da Arcore, l'imprenditore si era munito di un servizio di sicurezza privata e che, come aveva dichiarato lo stesso Dell'Utri (v. verb. spontanee dichiarazioni in data 29 novembre 2004), a Mangano era stato affidato il compito di accompagnare i figli di Berlusconi a scuola.

La sentenza di primo grado ha poi delineato i rapporti esistenti tra Gaetano Cinà, soggetto con il quale Dell'Utri ha svolto il ruolo di intermediazione tra "cosa nostra" e Berlusconi, con esponenti mafiosi del calibro di Benedetto Citarda ( suo cognato avendo sposato la sorella Caterina Cinà), Girolamo Teresi, sottocapo della famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù ( che aveva sposato una delle figlie di Caterina Cinà Citarda), Giovanni Bontade ( fratello di Stefano Bontade, che aveva sposato un'altra figlia dei Citarda), Giuseppe Albanese, uomo d'onore della famiglia mafiosa di Malaspina e Giuseppe Contorno uomo d'onore della famiglia di Santa Maria di Gesù ( anche loro mariti delle figlie del Citarda).

La sentenza di primo grado ha anche esaminato le dichiarazioni del collaborante Francesco Di Carlo, uomo d'onore della famiglia di Altofonte, ( v. dich. rese da Di Carlo il 16 febbraio e 2 marzo 1998) della quale aveva fatto parte fin dagli anni '60 divenedone in seguito il consigliere e poi il sottocapo. Fin dall'inizio della sua collaborazione aveva riferito di avere conosciuto Dell'Utri nei primi anni '70 in un bar vicino alla lavanderia di Gaetano Cinà: era stato proprio quest'ultimo a presentargli l'imputato.

Aveva inoltre immediatamente raccontato di avere visto Dell 'Utri anche nell'incontro avvenuto a Milano nella primavera o nell'autunno del 1974 ed in seguito al matrimonio di Girolamo Fauci a Londra. Il collaboratore aveva dunque ricordato che poco dopo la presentazione di Dell'Utri da parte di Cinà aveva incontrato quest'ultimo a Palermo con Stefano Bontade e Mimmo Teresi che gli avevano proposto un incontro a Milano, dove dovevano recarsi, fissandogli un appuntamento negli uffici di Ugo Martello (latitante appartenente alla famiglia mafiosa di Bolognetta) siti in via Larga.

Si erano pertanto ritrovati tutti a Milano ed era stato m quell'occasione che Cina, Teresi e Bontade gli avevano proposto di accompagnarli ad un appuntamento con un industriale di nome Silvio Berlusconi, il cui nome in quel momento non gli aveva detto nulla, e con Marcello Dell'Utri che invece aveva conosciuto a Palermo.

L'incontro, organizzato da Cinà e da Dell'Utri (Di Carlo: "Dell 'Utri parla con Tanino ( Gaetano Cinà) e fanno questo incontro"), era avvenuto, secondo Di Carlo, nella primavera o nell'autunno del 1974. A detto incontro avevano partecipato Berlusconi, Dell'Utri, Cinà - che seppur non essendo ritualmente affiliato era presente in quanto era stato lui a "portare questa amicizia di Dell' Utri e Berlusconi a Bontade e Teresi" ed ovviamente Teresi, Bontade ed il collaboratore.

Secondo il racconto, arrivati nel luogo dell'appuntamento (un ufficio che aveva sede in un palazzo), era stato proprio Dell'Utri ad accoglierli ed a condurli in una sala, dove avevano atteso l'arrivo di Berlusconi. L'imputato aveva baciato Cinà ed aveva scambiato delle battute scherzose con Nino Grado, che dunque conosceva ed al quale infatti dava del tu. Poco dopo era arrivato Silvio Berlusconi. Durante l'incontro, dopo avere parlato di edilizia ( Di Carlo ha ricordato che Berlusconi aveva in corso la realizzazione di "Milano 2"), avevano affrontato il problema della garanzia. Stefano Bontade aveva rassicurato l'imprenditore valorizzando la presenza a suo fianco di Marcello Dell'Utri e garantendogli l'invio di "qualcuno".

Appena aveva lasciato l'ufficio Cinà, rivolgendosi a Teresi e Bontade aveva indicato Vittorio Mangano, che Di Carlo conosceva come uomo d'onore della famiglia di Porta Nuova ( all' epoca aggregata alla famiglia di Stefano Bontade) e che gli era stato presentato " ritualmente ... come "cosa nostra", nel 1972/1973. Mangano dunque era stato mandato ad Arcore per attestare la presenza di" cosa nostra": il collaboratore aveva escluso che la funzione svolta da quest'ultimo fosse stata quella di stalliere (''perché cosa nostra non ne pulisce stalle a nessuno '') Cinà gli aveva confidato di essere imbarazzato perché gli era stato detto di chiedere a Berlusconi la somma di 100.000.000, somma che, in effetti, gli era stata poi consegnata.

Di Carlo non aveva saputo riferire se oltre a quella somma ne erano state consegnate delle altre ed aveva soggiunto che il denaro, non solo garantiva di non essere sequestrati, ma tutelava da tutto ciò che poteva accadere ad un industriale. Il Tribunale ha ritenuto attendibili le dichiarazioni del Di Carlo, mettendo in evidenza come le stesse avessero ricevuto rilevanti riscontri esterni. In particolare è stata evidenziata la corrispondenza tra la descrizione dell'edificio in cui era avvenuto l'incontro appena evocato e le foto dei locali della Edilnord, società di Berlusconi che aveva da poco trasferito la propria sede in via Foro Bonaparte n. 24. Lo stesso giudice ha rilevato che Di Carlo era stato il primo a parlare, non solo dell'incontro tra Berlusconi e Bontade, incontro nel quale Dell'Utri e Cinà avevano svolto il ruolo di intermediari, ma anche della partecipazione di Dell'Utri al matrimonio di Girolamo Fauci tenutosi a Londra nel 1980, partecipazione che era stato confermata dallo stesso Dell 'Utri.

[…] In conclusione il Tribunale ha ritenuto che fosse stata raggiunta la prova della "posizione assunta da Marcello Dell' Utri nei confronti di esponenti di "cosa nostra"; dei contatti diretti e personali con taluni di essi ( Bontade, Teresi Mangano e Cinà); del ruolo svolto dall'imputato quale mediatore con il "coordinamento di Gaetano Cinà, tra il sodalizio mafioso e gli ambienti imprenditoriali e finanziari milanesi ed in particolare con il gruppo Fininvest; della ''funzione dì "garanzia" assunta da Dell 'Utri nei confronti di Berlusconi che temeva il sequestro dei suoi familiari, "adoperandosi per l'assunzione di Mangano presso la villa di Arcore quale "responsabile" e non già come stalliere, seppur consapevole dello spessore criminale di quest'ultimo, ottenendo l'avallo di Stefano Bontate e Girolano Teresì che "all'epoca erano già due degli uomini d'onore più importanti di "cosa nostra" a Palermo"; della protrazione dei rapporti dello stesso imputato con il sodalizio mafioso , per circa un trentennio, rapporti che, in alcuni casi, erano stati favoriti anche dall'intermediazione di Cinà; del rapporto di Dell 'Utri con Cinà con Vittorio Mangano, che nel tempo aveva assunto un ruolo di vertice nel mandamento di Porta Nuova ed al quale Dell 'Utri ha mostrato costante disponibilità, incontrandolo più volte; dell'avere, l'imputato, consentito, anche grazie al Cinà, che "cosa nostra percepisse lauti guadagni a titolo estorsivo dall'azienda milanese facente capo a Silvio Berlusconi , intervenendo per mediare i rapporti tra l'associazione mafiosa e la Fininvest in momento in cui il rapporto aveva palesato una crisi ( è stata citata come esempio la vicenda degli attentati ai magazzini Standa a Catania) e chiedendo ed ottenendo da Mangano favori (come nella vicenda Garraffa), promettendo appoggio in campo politico e giudiziario.

L'attività posta in essere da Dell'Utri - in conclusione - aveva costituito "un concreto, volontario, consapevole, specifico e prezioso contributo al mantenimento, consolidamento e rafforzamento di " cosa nostra" alla quale è stata, tra l'altro, offerta l 'opporunità di entrare in contatto con importanti ambienti dell'economia e della finanza, e di perseguire in modo più agevole i " suoi fini illeciti, sia meramente economici che latu sensu, politici". SENTENZA D'APPELLO BIS

Il processo d’appello, nuovi verbali e nuove testimonianze. SENTENZA D'APPELLO BIS su Il Domani il 31 ottobre 2023

Nel giudizio di appello - a seguito di una parziale rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale - sono stati acquisiti atti, verbali di dichiarazioni dibattimentali rese in altri processi; è stata ammessa la produzione dell'agenda dell'imputato relativa all'anno 1974. Si è acquisito poi il verbale di dichiarazioni spontanee rese da Dell'Utri nell'ambito del processo celebratosi a suo carico per il reato di calunnia aggravata; è stato ammesso l'esame di Gaspare Spatuzza, di Filippo e Giuseppe Graviano e di Cosimo Lo Nigro

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Con sentenza del 29 giugno 2010 la Corte d'Appello di Palermo, assorbita l'imputazione ascritta al capo A) della rubrica ( art. 416 c. p.) in quella di cui al capo B) (art. 416 bis c.p.), nell'unico reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, in parziale riforma della sentenza di primo grado, limitatamente alle condotte commesse in epoca successiva al 1992, ha assolto Marcello Dell 'Utri per insussistenza del fatto.

In relazione all'unico reato permanente di concorso esterno in associazione di tipo mafioso per le condotte commesse sino al 1992, escludendo l'aumento di pena per la continuazione, ha ridotto la pena inflitta all'imputato ad anni sette di reclusione, confermando nel resto la sentenza impugnata. Nel giudizio di appello - a seguito di una parziale rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale - sono stati acquisiti atti, verbali di dichiarazioni dibattimentali rese in altri processi ( Mario Masecchia), è stato disposto un nuovo esame di Aldo Papalia e di Maria Pia La Malfa, è stata ammessa la produzione dell'agenda dell'imputato relativa all'anno 1974, è stato disposto, ai sensi dell'art 603, II comma c.p.p, l'esame del collaboratore Maurizio Di Gati, che è stato sottoposto a confronto con Antonino Giuffrè. Si è acquisito poi il verbale di dichiarazioni spontanee rese da Dell'Utri nell'ambito del processo celebratosi a suo carico per il reato di calunnia aggravata; è stato ammesso l'esame di Gaspare Spatuzza, di Filippo e Giuseppe Graviano e di Cosimo Lo Nigro.

Sono stati acquisiti il dispositivo e la sentenza della Corte di Cassazione di annullamento con rinvio della sentenza della Corte d'appello di Milano nel processo celebratosi a carico di Dell 'Utri e di Vincenzo Virga per il delitto di tentata estorsione aggravata ai danni di Vincenzo Garraffa.

Preliminarmente deve rilevarsi che la difesa aveva sottoposto alla Corte d'Appello l'esame di alcune questioni preliminari di natura processuale riguardanti profili di inutilizzabilità di alcuni atti per violazione degli artt. 191 e 526 c.p.p. La Corte, dopo avere ritenuto fondate alcune di dette questioni (l'inutilizzabilità dell'esame dibattimentale reso Vittorio Mangano il 13 luglio 1998 e della deposizione di Giuseppe Messina nel corso dell'incidente probatorio che si era svolto nell'ambito di altro procedimento), ha riaffermato la legittima acquisizione:

delle dichiarazioni rese da Dell'Utri in data 26 giugno e 1 luglio 1996 nonché di quelle rese dallo stesso imputato al Giudice Istruttore di Milano limitatamente alle affermazioni che non riguardavano la responsabilità di altri, ma che erano inerenti allo stesso Dell 'Utri;

delle dichiarazioni rese da Silvio Berlusconi in data 20 giugno 1987 davanti al Giudice Istruttore di Milano limitatamente agli elementi favorevoli alla difesa di Dell 'Utri;

delle dichiarazioni testimoniali rese nel corso delle udienze del 6 e del 13 novembre 2000 da Vincenzo Garraffa, persona offesa dal delitto di tentata estorsione aggravata e nei cui confronti era stata presentata denuncia per il delitto di calunnia (processo che si era concluso con un'archiviazione) e per il delitto di diffamazione a mezzo stampa, che invece era pendente alla data delle suddette dichiarazioni;

delle dichiarazioni rese da Antonino Giuffrè nel corso delle udienze dibattimentali del 7 e del 20 gennaio 2003. In relazione poi all'eccezione difensiva di inutilizzabilità dei tabulati telefonici elaborati dal consulente del P.M. dott. Gioacchino Genchi e della relativa deposizione dibattimentale per le parti che avevano riguardato Dell 'Utri, parlamentare della Repubblica sulla base dell'irrilevanza del consenso prestato dal quest'ultimo nel corso delle dichiarazioni spontanee del 15 dicembre 2003 essendo l'immunità di cui all'art. 68 Cost. una garanzia irrinunciabile, la Corte d'Appello, ha sottolineato che i risultati dei tabulati ( che erano stati richiamati dal giudice di primo grado solo in due casi giudicato dalla Corte d'appello privi di ogni valenza accusatoria) e le dichiarazioni rese dal consulente non erano stati utilizzati in alcun modo per la decisione di secondo grado: la questione dunque era priva di rilievo.

La sentenza della Corte ha preso le mosse dall'analisi dei rapporti di Dell'Utri con Vittorio Mangano e Gaetano Cinà, rapporti iniziati nei primi anni '70 e proseguiti fino ai primi anni '90. La difesa, nell'atto di appello aveva sottolineato che l'origine dei rapporti tra l'imputato, Vittorio Mangano e Gaetano Cinà era da collegarsi alla loro comune passione calcistica nel contesto della squadra calcistica del Bacigalupo.

Dell 'Utri, nel corso delle dichiarazioni spontanee rese il 29 novembre 2004, aveva riferito che l'origine della conoscenza con il Mangano era da collegarsi alla necessità di tutelare i giocatori della Bacigalupo allorchè disputavano le partite di calcio m zone particolarmente degradate e con una tifoseria aggressiva. Mangano - secondo quanto aveva riferito l'imputato - aveva una forza dissuasiva nei confronti delle aggressioni dei tifosi avversari sui giocatori della Bacigalupo che si presentavano" tutti puliti, tutti graziosi " e che a volte vincevano le partite. Dell 'Utri aveva precisato che, mentre al Mangano lo legava un rapporto di conoscenza, Cinà era per lui un vero amico. Nella genesi del rapporti di Mangano con Dell'Utri, secondo la Corte, doveva poi spiegarsi il motivo dell'assunzione del primo ad Arcore nei primi degli anni '70 proprio grazie all'interessamento dell'imputato e con la collaborazione dell'amico Cinà.

La Corte ha ritenuto infondata la censura della difesa alla sentenza del Tribunale, nella parte in cui aveva sostenuto che Mangano era stato assunto ad Arcore per occuparsi, quale stalliere, degli animali ed in particolare dei cavalli e non già, come aveva ritenuto il giudice di primo grado, per garantire, su iniziativa concordata tra Dell 'Utri, Cinà e gli esponenti mafiosi, la sicurezza di Silvio Berlusconi e della sua famiglia. In particolare, secondo i giudici di appello, non era credibile che Berlusconi avesse affidato le funzioni di fattore o di curatore della manutenzione degli animali ad un perfetto sconosciuto. Dell 'Utri aveva dichiarato, nel corso delle spontanee dichiarazioni, che Berlusconi non aveva trovato in Brianza una persona che capisse di cavalli, di cani e di terreni sicchè aveva chiesto a lui se conosceva qualcuno in Sicilia.

Era stato allora che l'imputato si era rivolto a Mangano, che lui sapeva interessarsi di cani e non di cavalli; con tale affermazione era caduto in contraddizione in quanto nel corso dell'interrogatorio al P .M. del 26 giugno 1996 lo stesso Dell 'Utri aveva invece dichiarato che Mangano si intendeva di cavalli. Vittorio Mangano aveva accettato la proposta e si era trasferito a Milano con la famiglia. Secondo la Corte era innegabile che Mangano si intendesse di cavalli; la circostanza era emersa dalle concordi dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia: Mutolo, Cucuzza, Contorno, Calderone nonché dal tenore della conversazione intercettata il 14 febbraio 1980 a Milano all'Hotel Duca di York intercorsa tra Mangano e Dell 'Utri.

A parere della Corte, tuttavia, detta esperienza non giustificava l'assunzione di Mangano: Dell'Utri si era interessato a fare assumere Mangano non perché Berlusconi era alla ricerca di un fattore o di un responsabile della villa di Arcore, ma soltanto per assumere un soggetto dotato di un rilevante e noto spessore criminale al fine di tutelare Berlusconi da minacce ed attentati. Detta circostanza - secondo la Corte ( che condivideva le argomentazioni del Tribunale sul punto) - aveva trovato conferma nelle dichiarazioni rese dal collaborante Francesco Di Carlo che aveva parlato dell'incontro avvenuto a Milano al quale aveva partecipato il boss mafioso Stefano Bontade ed aveva affermato quest'ultimo aveva deciso di mettere al fianco dell'imprenditore milanese, per proteggerlo, Vittorio Mangano.

La Corte, sottolineando che il Tribunale non aveva stabilito, in base alle dichiarazioni del Di Carlo, se l'arrivo di Mangano ad Arcore aveva preceduto o seguito la riunione con Bontade, ha ritenuto che l'arrivo di Mangano ad Arcore era stato deciso all'esito di detta riunione che si era tenuta tra il 16 ed il 29 maggio 1974. Doveva invero tenersi conto del fatto che l'l luglio 1974 Mangano aveva trasferito la propria residenza ad Arcore e che Dell 'Utri, in sede di dichiarazioni spontanee del 29 novembre 2004, aveva riferito che Mangano era andato a lavorare per Berlusconi nel luglio- agosto 1974 (l'indicazione dell'anno 1973 era stata reputata dalla Corte un errore in cui era incorso l'imputato, atteso che da altre inequivocabili emergenze probatorie era risultato che l'anno in cui Mangano era andato a lavorare ad Arcore era il 1974).

La Corte d'Appello ha ritenuto che era emerso che Mangano era stato adibito alla sicurezza di Berlusconi e dei suoi familiari; ed invero, anche se l'imprenditore aveva alle sue dipendenze un autista, era stato Vittorio Mangano ad accompagnare i figli a scuola e talvolta la moglie a Milano. Lo stesso Dell 'Utri, nel corso delle dichiarazioni spontanee rese il 29 novembre 2004 aveva confermato che Mangano era " un uomo di fiducia assoluta tant'è che Berlusconi faceva accompagnare i bambini a scuola solo da lui neanche dal suo autista".

Quando il Mangano era stato arrestato alla fine del 197 4 per poche settimane, decidendo poi di lasciare il suo lavoro ad Arcore, Berlusconi aveva deciso di allontanarsi con la famiglia dall'Italia e si era organizzato con un numero considerevole di guardie private ed un pullman blindato, come avevano riferito il suo collaboratore Fedele Confalonieri e lo stesso Dell 'Utri ( v. interrogatorio reso il 26 giugno 1996).

L'imputato, nel corso dell'interrogatorio al P .M. appena citato, aveva ammesso che Berlusconi aveva subito minacce fin dai primi degli anni '70 e che esse erano cessate senza che vi fosse stato alcun intervento. Secondo la Corte, detta affermazione non era credibile; le minacce erano state messe in atto per chiedere denaro a Berlusconi e quest'ultimo si era rivolto a Dell'Utri per cercare di risolvere il problema. Dell 'Utri ne aveva parlato con Cinà che - così come aveva riferito il Di Carlo - aveva organizzato l'intervento di Stefano Bontade e l'invio di Mangano ad Arcore, per proteggere l'imprenditore milanese. […].

SENTENZA D'APPELLO BIS

La condanna confermata, ma la pena ridotta a 7 anni di reclusione. SENTENZA D'APPELLO BIS su Il Domani l'01 novembre 2023

Nell'ultimo capitolo della sentenza, la Corte d'Appello ha sintetizzato le conclusioni alle quali era pervenuta e che erano consistite nella conferma della condanna dell'imputato in ordine all'unico reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso limitatamente alle condotte poste in essere fino al 1992

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La Corte ha ritenuto che il coinvolgimento di un personaggio di rilievo come Bontade non poteva che essere avvenuto con l'intervento di Cinà, amico di Dell 'Utri, al quale quest'ultimo si era rivolto per risolvere il problema della sicurezza di Silvio Berlusconi, consapevole delle parentele mafiose che Cinà e la sorella Caterina avevano acquisito.

E difatti Caterina Cinà aveva sposato Benedetto Citarda, uomo d'onore della famiglia di Malaspina, una loro figlia aveva sposato Girolamo Teresi, sottocapo deila famiglia di Santa Maria di Gesù, a capo della quale vi era Stefano Bontade che Teresi aveva accompagnato all'incontro a Milano.

La presenza di Cinà all'incontro, secondo la Corte, aveva confermato il fatto che era stato proprio Cinà ad informare Bontade del problema della sicurezza di Silvio Berlusconi in tal modo organizzando l'incontro a Milano. In relazione a detto incontro, la Corte ha confermato il giudizio di piena attendibilità di Di Carlo che aveva formulato il Tribunale, rilevando che il collaborante aveva parlato di tale incontro, al quale era stato invitato da Cinà, da Bontade e da Teresi, fin dall'inizio della sua collaborazione.

La difesa aveva rilevato che le dichiarazioni di Di Carlo erano state l'unica fonte rappresentativa diretta dell'incontro e che il collaboratore non aveva alcun interesse a partecipare all'incontro caratterizzato da un profilo di particolare riservatezza.

La Corte ha reputato plausibili le giustificazioni date dallo stesso Di Carlo in ordine alla sua presenza all'incontro: il collaboratore aveva riferito che lui e Bontade erano legati da rapporti di stretta amicizia e che quest'ultimo era consapevole che Di Carlo sapeva comportarsi ed era abituato a trattare con industriali e persone di rilievo.

Del resto Cinà che, secondo il Di Carlo, aveva " portato quest'amicizia di Dell'Utri e Berlusconi a Bontade e a Teresi" non era un uomo d'onore e tuttavia era presente all'incontro. La difesa dell'imputato aveva rilevato che non era emersa alcuna certezza sulla collocazione temporale dell'incontro, atteso che Di Carlo era stato estremamente incerto sia in relazione all'anno ( 1974 o 1975 ) che alla stagione (autunno o primavera).

La Corte ha condiviso le conclusioni alle quali era pervenuto il Tribunale ritenendo che l'incontro a Milano era avvenuto tra il 16 maggio 1974 ( arresto di Liggio) ed il 29 maggio 1974 (arresto del Bontade ).

Tale data era compatibile con le dichiarazioni di Dell 'Utri che aveva riferito che il Mangano era stato assunto ad Arcore tra maggio e giugno del 1974 ed anche con le risultanze anagrafiche che avevano registrato il trasferimento della residenza di Mangano ad Arcore l' 1 luglio 1975.

La Corte ha evidenziato che l'incontro non poteva essere spostato in un tempo compreso tra la fine del 1974 e la primavera del 1975 - come aveva prospettato il P.G. - atteso che nel gennaio del 1975 Mangano si era allontanato definitivamente da Arcore. L'incontro dunque veniva collocato tra il 16 maggio 1974 ed il 29 maggio 1974.

La difesa aveva contestato detta collocazione temporale, depositando documenti che dovevano provare impegni ed obblighi processuali di Bontade e di Teresi in quel periodo: la Corte, valutando le date delle udienze e gli obblighi del Teresi e del Bontade, ha concluso rilevando che gli obblighi e le prescrizioni dei due boss non erano tali da escludere la presenza di entrambi a Milano per partecipare all'incontro.

La Corte ha poi osservato che l'oggetto della discussione svoltasi nel corso dell'incontro era stato la garanzia di protezione che Berlusconi aveva inteso ricercare tramite Dell'Utri e che, all'esito di detto incontro, Bontade si era impegnato ad assicurargli. Era stato lo stesso Bontade ad indicare Marcello Dell 'Utri a Berlusconi, quale soggetto al quale rivolgersi per qualsiasi esigenza; gli aveva garantito inoltre che gli avrebbe mandato qualcuno che gli sarebbe stato vicino, facendo il nome di Mangano, soggetto che dopo poco dicembre 1975) era stato affiliato alla famiglia mafiosa di Porta Nuova all'epoca formalmente aggregata al mandamento di Santa Maria di Gesù, comandato da Stefano Bontade.

La Corte ha ritenuto che non era importante che Mangano fosse stato individuato o contattato da Cinà o da Dell 'Utri prima o dopo l'incontro, o se la sua designazione fosse stata successiva a detto incontro; ciò che era certo era l'assunzione di Mangano e la sua permanenza in servizio ad Arcore con un" incarico specifico deciso da Stefano Bontade uno dei capi più potenti della mafia siciliana dell'epoca", capo della famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù e che da quel momento doveva essere chiaro che il Berlusconi era divenuto "intoccabile". […].

Nell'ultimo capitolo della sentenza, la Corte d'Appello ha sintetizzato le conclusioni alle quali era pervenuta e che erano consistite nella conferma della condanna dell'imputato in ordine all'unico reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso limitatamente alle condotte poste in essere fino al 1992. Era stato provato - secondo la Corte - che Dell'Utri, ricorrendo all'amico Gaetano Cinà ed alle sue autorevoli conoscenze e parentele, aveva svolto un 'opera di mediazione tra "cosa nostra" in persona del suo più autorevole esponente del tempo, Stefano Bontade, e Silvio Berlusconi.

In tal modo aveva apportato un consapevole e rilevante contributo al rafforzamento del sodalizio criminoso al quale aveva procurato una cospicua fonte di guadagno illecito rappresentata dalle ingenti somme di denaro sborsate per quasi due decenni dall'imprenditore milanese.

Dell 'Utri, dunque, non aveva cercato di soltanto di risolvere 1 problemi dell'amico Silvio Berlusconi, ma aveva mantenuto nel tempo con coloro che erano gli " aguzzini" dell'amico rapporti amichevoli, incontrando e frequentando sia Mangano che Cinà ed "a loro ricorrendo ogni qualvolta sorgevano problemi derivanti da attività criminali rispetto ai quali i suoi amici ed interlocutori avevano una sperimentata ed efficace capacità di intervento ".

Detta condotta - riconducibile secondo la Corte nel delitto contestato all'imputato - si era protratta oltre la morte di Stefano Bontade ( 1981 ), fino al 1992, data fino alla quale era rimasto provato il pagamento di somme di denaro da parte di Berlusconi all'associazione mafiosa.

Dopo il 1992 non era stato possibile ravvisare - a parere della Corte - ''prove in equivoche e certe di concrete e consapevoli condotte di contributo materiale ascrivibili a Marcello Dell'Utri aventi rilevanza causale in ordine al rafforzamento dell'organizzazione mafiosa ". Non era, poi, emerso alcun elemento concreto, ancorchè indiziario, in ordine ai pretesi rapporti intercorsi tra Dell'Utri ed i fratelli Graviano, essendo stato reputato inconsistente il contributo che aveva offerto il collaborante Gaspare Spatuzza nel giudizio di appello.

La Corte ha infine ribadito che erano mancate prove sufficienti a supportare l'accusa rivolta a Dell'Utri di avere stipulato nel 1994 un patto politico -mafioso con " cosa nostra", nei termini rilevanti per l'ipotesi delittuosa di cui agli artt. 110,416 bis c.p. SENTENZA D'APPELLO BIS

L’annullamento in Cassazione, il processo Dell’Utri è da rifare. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 02 novembre 2023

Con sentenza del 9 marzo 2012 la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso del Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Palermo ed ha annullato la sentenza della Corte d'Appello nel capo relativo al reato del quale l'imputato era stato dichiarato colpevole (con riferimento al periodo compreso tra il 1978 ed il 1992)

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Avverso la sentenza della Corte d'Appello proponevano ricorso per Cassazione la difesa dell'imputato ed il Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Palermo, quest'ultimo limitatamente alla pronuncia di assoluzione per le condotte successive al 1992 e con riferimento a cinque ordinanze pronunciate nel 2008, 2009 e 2010 con le quali erano state decise questioni istruttorie. Con sentenza del 9 marzo 2012 la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso del Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Palermo ed ha annullato la sentenza della Corte d'Appello nel capo relativo al reato del quale l'imputato era stato dichiarato colpevole (con riferimento al periodo compreso tra il 1978 ed il 1992), rinviando per un nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'Appello di Palermo.

I giudici di legittimità preliminarmente hanno ritenuto infondato il motivo di ricorso relativo alle ordinanze con le quali la Corte d'Appello aveva respinto le istanze di rinnovazione del dibattimento proposte dalla difesa, rilevando che dette istanze avevano riguardato non già, come aveva sostenuto l'impugnante, prove acquisite nel corso di indagini difensive effettuate successivamente alla sentenza di primo grado, ma prove ''preesistenti'' a detta sentenza e che, in quanto tali, potevano essere introdotte nell'istruttoria in appello alla condizione" di vincere la presunzione di completezza dell'istruttoria già compiuta", così come previsto dall'art. 603, I comma c.p.p.

In particolare gli stessi giudici di legittimità hanno ritenuto infondato il motivo di ricorso della difesa laddove era stata denunciata l'illogicità della decisione della Corte d'appello che non aveva ritenuto decisiva l'assunzione nella qualità di testi dei seguenti soggetti: - i domestici della Villa di Arcore di Berlusconi (al fine di confutare l'attendibilità del collaborante Di Carlo Francesco in ordine all'incontro tra Berlusconi e Bontade, che aveva costituito "l'antecedente logico e storico dell'assunzione di Mangano"ad Arcore); - coloro che si erano occupati della ristrutturazione degli uffici della Edilnord. Ha rilevato la Suprema Corte che la mancata descrizione degli arredi di detta società da parte dello stesso Di Carlo ben poteva collegarsi a diversi motivi e non già, necessariamente alla "falsità" delle dichiarazioni; Silvio Berlusconi, che nel giudizio di pnmo grado si era avvalso della facoltà di non rispondere ed in ordine al quale - secondo i giudici di legittimità - la difesa non aveva allegato elementi concreti da cui desumere che l'audizione "sarebbe stata concretamente idonea a vincere la presunzione di completezza della istruzione dibattimentale ed avrebbe apportato chiari elementi innovativi rispetto al panorama probatorio acquisito".

È stata poi ritenuta "ineccepibile" la motivazione del rigetto della domanda di ammissione della videoregistrazione della intervista del giudice Paolo Borsellino. E' stato poi ritenuto inammissibile il secondo motivo di ricorso con il quale la difesa aveva dedotto la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza ( motivo che veniva proposto anche con riferimento alla asserita violazione dell'art. 6 della Cedu) "specie sotto il profilo della enorme amplificazione dei temi d'indagine e la violazione dell'art. 430 c.p.p. essendosi trovata, la stessa difesa, nell'impossibilità di fronteggiare tutti i temi e le acquisizioni proposte dalla accusa e ammesse dai giudici".

Si è ritenuto che la formulazione fosse generica e manifestamente infondata, tenuto conto, da un lato delle ragioni addotte dalla Corte d'Appello, che i giudici di legittimità hanno ritenuto di condividere e dall'altro della" riperimetrazione (in senso quantitativamente riduttivo) della rilevanza della questione posta dalla difesa dovuta alla riduzione della condotta ritenuta meritevole di condanna, condotta dalla quale è stata esclusa in maniera definitiva ( a seguito della inammissibilità del ricorso del Procuratore Generale) la parte del concorso che era stato ipotizzato in relazione al presunto patto politico - mafioso".

Gli stessi giudici hanno poi ritenuto del tutto inammissibile il motivo di ricorso proposto dalla difesa che aveva lamentato la violazione dell'art. 6 Cedu ed hanno sostenuto, a tal proposito, come la difesa non aveva allegato rispetto a quali accuse era stato limitato, in concreto, il proprio mandato. Il Procuratore Generale della Cassazione ritenendo di riprendere il motivo di ricorso appena enunciato dedotto dalla difesa ( ma in realtà aggredendo "un punto nuovo e diverso rispetto alla questione sollevata dalla difesa'') - aveva fatto notare (nel corso della propria requisitoria e nelle note depositate ali 'udienza di trattazione del ricorso) che nel caso in esame era mancata l'imputazione, "nel senso che quella formulata era generica, insufficiente secondo i criteri della giurisprudenza Cedu e, secondo i giudici di merito, surrogata dalla contestazione dei fatti su cui sono caduti i mezzi di prova:evenienza, quest'ultima, che renderebbe ancor più atipica la già atipica fattispecie del concorso esterno); con la conseguenza che detto difetto, avrebbe coinvolto la stessa tenuta logica della motivazione e che doveva essere demandata al giudice del rinvio " la precisazione della condotta di rilevanza penale".

La Corte di Cassazione, ritenendo " impossibile apprezzare" detta richiesta sotto molteplici punti di vista, ha voluto sottolineare che non poteva trovare spazio la soluzione proposta dal Procuratore Generale di investire il giudice del rinvio del compito di precisare la condotta avente rilevanza penale, rilevando che sì operando si sarebbe attribuito a detto giudice un potere che non era previsto da alcuna norma.

Dopo avere ribadito l'infondatezza del motivo di ricorso della difesa rilevando che il fatto ritenuto in sentenza non era "altro" e non era "diverso" da quello contestato, ma era il medesimo, la Suprema Corte ha reputato fondata la censura difensiva relativa alla " tenuta della motivazione" per quanto concerneva una serie di fatti databili a partire dal 1978, rilevando che la motivazione, per quella parte, aveva risentito "della mancanza di sponda derivante dalla formulazione della imputazione "per grandi linee" e si era dunque articolata in una serie di condotte non sempre aderenti alla prospettazione accusatoria.

E' stata altresì dichiarata l'inammissibilità del secondo motivo ricorso per genericità e manifesta infondatezza nella parte in cui era stata dedotta la violazione del principio del " ne bis in idem" con riguardo a due processi che si erano conclusi con due sentenze di proscioglimento dell'imputato, emesse dal G.I.P. di Milano nel 1990. E' stato a tal proposito, rilevato che detta violazione era stata proposta alla Corte d'appello come motivo di impugnazione e che detto giudice aveva" correttamente" illustrato i motivi in base ai quali detta censura doveva reputarsi infondata. E' stata poi decisa l'inammissibilità del motivo di ricorso con il quale era stato censurato, in termini del tutto generici, il criterio di valutazione dei collaboranti di giustizia adottato dalla Corte d'Appello.

Orbene i giudici di legittimità con riguardo, ad esempio, al collaborante Cucuzza, hanno sostenuto che le dichiarazioni rese da quest'ultimo, in quanto confermate da riscontri esterni (la presenza di Mangano ad Arcore e le dichiarazioni di Galliano e di Di Carlo), erano state poste a fondamento della condanna del Dell'Utri per il concorso esterno relativo al primo periodo, mentre lo stesso collaborante non era stato ritenuto autore di affermazioni sufficienti ed idonee a provare l'esistenza di un patto politico con "cosa nostra" in quanto le stesse si erano presentate come frutto di un ricordo confuso in contrasto con quanto riferito da altri collaboratori. […].

Fatte le superiori premesse i giudici di legittimità hanno rilevato che la consapevolezza e volontà del fine perseguito dall'imputato, indicato e motivato dalla Corte d'Appello come fine di conservazione proprio del sodalizio mafioso, con particolare riferimento all'acquisizione di "nuove e proficue relazioni patrimoniali" era stata individuata nelle forme proprie del dolo diretto e ciò in linea con la citata giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione; dolo che non era contraddetto dal fatto che fino al 1978 l'imputato era stato mosso anche dalla volontà di risolvere il problema della sicurezza dell'amico Berlusconi e che, in relazione al quel periodo temporale era stato caratterizzato dalla consapevolezza e dalla volontà che la condotta in esame si sarebbe posta "nella linea del perseguimento dei fini ultimi dell' associazione criminale", come la Corte d'Appello aveva motivato citando i significativi incontri tra Dell 'Utri e soggetti mafiosi di vertice. La Corte di Cassazione, in tale prospettiva ha rievocato gli episodi riportati nella sentenza della Corte d'appello che apparivano idonei a supportare la sussistenza dell'elemento soggettivo del dolo diretto di Dell'Utri e che non potevano in alcun modo giustificare la ricostruzione alternativa proposta dalla difesa che intendeva, invece, attribuire all'imputato il ruolo della vittima costretta soltanto a subire. Sono stati indicati pertanto: - l'incontro presso il ristorante milanese "Le Colline Pistoiesi" avvenuto tra il 1975 ed il 1976, incontro che la Corte d'Appello - con motivazione reputata del tutto logica dai giudici di legittimità - aveva ritenuto sintomatico della considerazione in cui Dell'Utri era tenuto all'interno di "cosa nostra" "quale soggetto affidabile" da potere coinvolgere in relazioni estremamente riservate del sodalizio mafioso, perché riguardanti personaggi come Mangano, il quale lo aveva presentato come il suo "principale" e Antonino Calderone che accompagnava a Milano il fratello che era un boss mafioso che ricopriva un ruolo apicale all'interno dell'associazione mafiosa; -la partecipazione di Dell'Utri alla cena con Stefano Bontade avvenuta nella villa di quest'ultimo intorno al 1977, evento che era stato reputato indicativo dei rapporti che Dell 'Utri intratteneva con i boss mafiosi, rapporti che non consentivano di considerarlo una "vittima".

La Corte di Cassazione ha voluto mettere in risalto che l'importanza attribuita correttamente dai giudici di merito ai suddetti episodi, non aveva assunto il significato del superamento della tesi ribadita in giurisprudenza secondo cui le frequentazioni e le vicinanze con soggetti mafiosi non costituivano prova del concorso esterno. Detti episodi, cioè, erano stati ritenuti capaci di "colorire" prove di altro spessore costituite ''primariamente " dalla promozione dell'incontro di Milano del 1974 con i capi mafiosi, dal raggiungimento, in quella sede, dell'accordo per la protezione di Silvio Berlusconi e dal versamento per alcuni anni, da parte di quest'ultimo, tramite Dell'Utri, di cospicue somme di denaro a "cosa nostra".

Detti comportamenti, sono stati reputati dalla Suprema Corte indicativi del fatto che Dell'Utri "avesse accettato di risultare aderente al fine perseguito dal sodalizio, il quale traeva il vantaggio patrimoniale finale dell'intera operazione". Proseguendo l'esame dell'elemento psicologico del delitto in contestazione, la Suprema Corte ha sostenuto l'illogicità e la incompletezza della motivazione nella parte relativa alla disamina del dolo nel periodo successivo al 1978 specificando inoltre che "nel quadriennio e quinquennio successivo ali' allontanamento di Dell'Utri dall'area imprenditoriale berlusconiana, si è rilevata addirittura una carenza di motivazione riguardo ali 'elemento oggettivo che, se solo superabile, renderebbe rilevante e da emendare anche la carenza dei requisiti ulteriori del reato".

Per il periodo successivo al ritorno di Dell'Utri a Publitalia, in relazione ai numerosi elementi che la Suprema Corte ha ritenuto problematici e che riguardavano "essenzialmente i comportamenti riluttanti di Dell'Utri verso cosa nostra nonché gli attentati realizzati ai danni di beni privati e inerenti ali 'attività imprenditoriale di Berlusconi", è stata richiesta ai giudici del rinvio una valutazione "unitaria e non parcellizzata" che sia in grado di dare "un senso compiuto, sul piano argomentativo, di elementi probatori e normativi apparentemente contrapposti".

Da un lato, cioè, la condotta dell'Utri che si era risolta oggettivamente in un arricchimento di "cosa nostra", ma che negli anni '80 era "divenuta riottosa e recalcitrante, oltre che punteggiata da recriminazioni e atteggiamenti ostruzionistici" nei riguardi degli esponenti mafiosi ed "in contrappunto alquanto equivoco con gli attentati anche dinamitardi dalla evidente carica intimidatoria. Dall'altro lato il rigore della prova del dolo diretto che non ammette presunzione e che richiederebbe che, anche in ordine ai comportamenti appena rievocati, potesse darsi una spiegazione compatibile ed in linea con la tesi secondo cui Dell'Utri avrebbe accettato e perseguito l'evento del rafforzamento del sodalizio mafioso recando un contributo alla realizzazione del programma comune.

La prova della suddetta finalizzazione non poteva - secondo l'assunto dei giudici di legittimità - ritenersi acquisita negando o misconoscendo , così come era stato fatto nella sentenza della Corte d'Appello la valenza di emergenze che si sono contraddistinte, "ali 'apparenza, come segni del contrario e cioè di una possibile caduta della precedente unitarietà d'intenti". Di detti comportamenti la Suprema Corte ha chiesto una "nuova giustificazione probatoria ad opera del giudice di rinvio "essendo apparso il ragionamento effettuato dalla Corte di merito insufficiente nella parte in cui, anzichè motivare sulle cause di certe prese di distanza da parte di Dell'Utri nei confronti di cosa nostra anche in costanza degli attentati, si era soffermata sulle conseguenze delle prime (le prese di distanza nei confronti dell'associazione mafiosa) e dei secondi (gli attentati) e sulla "asserita significatività della ripresa di contatti tra le parti " nonostante" quegli eventi". Riprendendo l'argomento della prescrizione la Corte di Cassazione ha esaminato il motivo di ricorso con il quale la difesa dell'imputato - rilevando che i pagamenti non si erano protratti oltre 1986 - aveva asserito che il reato si era prescritto.

La Corte di Cassazione ha rilevato:

-che la Corte d'Appello, sulla base delle dichiarazioni rese da Ferrante, la cui credibilità sul tema era stata adeguatamente analizzata, aveva sostenuto che i pagamenti si erano protratti con cadenza semestrale o annuale fino al 1992, con la conseguenza che il termine di prescrizione - ove in sede di rinvio venisse data una congrua motivazione sull'elemento psicologico del dolo nel periodo già indicato- decorreva da tale data;

-che il delitto in esame aveva natura permanente e che la permanenza cessava "nel momento in cui il concorrente aveva perso il potere e la capacità di far cessare gli effetti pregiudizievoli del proprio comportamento antigiuridico il quale, però, deve ritenersi abbia visto il momento d'inizio della rilevanza causale nella data del raggiungimento dell'accordo o della rinnovazione dell'accordo col quale ha prodotto un rafforzamento della mafia";

-che il patto - diversamente da quanto ritenuto dalla difesa - non era il fatto consumativo di un reato istantaneo, "ma un evento dotato di rilevanza causale per la vitalità del sodalizio " per cui i suoi effetti antigiuridici hanno conservato efficacia permanente individuabile nei pagamenti che i giudici di merito avevano ritenuto procrastinati, secondo quanto riferito da Ferrante, "fino a tutto il 1992;

che, dunque il giudice del rinvio aveva il compito di "nuovamente esaminare e motivare, con percorso argomentativo diverso da quello contenuto nella parte di motivazione censurata, se il concorso esterno contestato è oggettivamente e soggettivamente configurabile a carico del ricorrente anche nel periodo di assenza dell'imputato dall'area imprenditoriale Fininvest e società collegate (periodo intercorso, secondo la sentenza impugnata, tra il 1978 ed il 1982); se il reato contestato è configurabile, sotto il profilo soggettivo, anche nel periodo successivo a quello indicato" e di pronunciarsi eventualmente a seconda della decisione adottata, sulla prescrizione del delitto - che non è oggetto di rinvio sull'an - ai sensi dell'art. 129, I comma c.p. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

E il ricorso della procura generale è giudicato “inammissibile”. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 03 novembre 2023

Il Procuratore Generale ha impugnato la sentenza della Corte d'Appello sia in ordine all'intervenuta assoluzione per le condotte successive al 1992 sia con riguardo a cinque ordinanze con le quali venivano decise questioni istruttorie

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Il Procuratore Generale ha impugnato la sentenza della Corte d'Appello sia in ordine all'intervenuta assoluzione per le condotte successive al 1992 sia con riguardo a cinque ordinanze con le quali venivano decise questioni istruttorie.

La Corte di Cassazione ha ritenuto inammissibile la prima censura del P.G. con la quale aveva preteso di sollecitare una diversa valutazione del risultato di prova in ordine alla data fino alla quale si erano protratti i pagamenti; hanno sottolineato i giudici di legittimità che la Corte d'Appello aveva considerato, in particolare, che le dichiarazioni di Galliano, riguardanti la protrazione di pagamenti a "cosa nostra" fino al 1995, erano rimaste prive di riscontri obiettivi.

I giudici di legittimità hanno poi ritenuto manifestamente infondata la seconda censura con la quale il P.G. ricorrente aveva censurato la valutazione della Corte d'appello che, secondo l'assunto dell'accusa, aveva trascurato di considerare il movente politico degli attentati ai magazzini Standa di Catania, movente che era stato affermato nelle sentenze rese dai giudici di Catania che avevano giudicato quei fatti. Secondo i giudici di legittimità la Corte d'Appello aveva svolto un ragionamento diverso e non esposto a censure ed aveva dato atto della tesi sostenuta dall'accusa in ordine al movente politico degli attentati del 1990 ai magazzini Standa compiuto dal Santapaola ( così come aveva riferito il collaborante Siino) ed aveva anche considerato la volontà di "cosa nostra" palermitana a partire dagli '80 di avvicinare l'onorevole Bettino Craxi. Gli stessi giudici di merito avevano tuttavia ritenuto che detta volontà era stata estremamente imprecisa atteso che - secondo quanto riferito da Siino - Brusca nel 1991 aveva incitato il boss mafioso Santapaola ad effettuare azioni intimidatorie contro Berlusconi e che Riina, tra il 1992 ed il 1993, aveva iniziato ad attuare una politica stragista: "segno di assenza di contatti politici" .

Secondo la Suprema Corte la motivazione adottata dai giudici di merito era stata del tutto logica. Del resto - hanno osservato i giudici di legittimità - anche ove si fossero accertate le finalità politiche perseguite dai mafiosi attraverso gli attentati in questione, ciò non avrebbe escluso la necessità di individuare un ruolo del Dell'Utri nella composizione della vicenda relativa agli attentati alla Standa di Catania, ruolo che la Corte di appello aveva escluso sulla base di quanto era emerso nel processo catanese in cui non era stato provato né il pagamento di pizzo, né l'esistenza di trattative avviate nell'interesse della parte offesa. In relazione poi alla testimonianza di Garraffa Vincenzo, l'inattendibilità della stessa è stata reputata dai giudici di legittimità del tutto plausibile e completa, atteso che la Corte d'appello aveva evidenziato come le notizie sui movimenti di Dell 'Utri in merito agli attentati non potevano essere appresi da Garraffa da terzi che erano stati menzionati nella sentenza in quanto li aveva conosciuti m un periodo successivo ai suddetti movimenti.

È stata poi ritenuta del tutto fattuale e non rispettosa dei criteri contenuti nella sentenza Mannino in tema di valutazione indiziaria, la considerazione del P.G. in ordine al riconoscimento della validità delle asserite intromissioni di Alberto Dell'Utri nella vicenda degli attentati alla Standa. Anche il terzo motivo di ricorso è stato giudicato inammissibile. I P.G. aveva definito un esempio di parcellizzazione della valutazione della prova, il criterio che aveva adottato la Corte d'Appello nella ricerca, e successiva esclusione, del patto politico mafioso del 1993- 1994, sulla base delle negazione della valenza probatoria di circostanze ed incontri avvenuti nel 1994 che la Corte d'Appello aveva ritenuto ininfluenti rispetto ad un patto che doveva avere avuto ad oggetto le consultazioni elettorali del marzo 1994. Il P.G. aveva rilevato che detto patto non doveva essere inteso in senso notarile, ma avrebbe comportato "sollecitazioni ed incontri" tra la mafia e Dell'Utri anche successivi alle elezioni per ottenere i risultati legislativi sperati a seguito di un clima politico favorevole che si era formato.

La Corte di Cassazione ha ritenuto detta doglianza inammissibile m quanto non specifica sulle ragioni di fatto che avrebbero dovuto sostenerla ed ha rilevato che la prova non poteva fermarsi all'accertamento dell'insorgere di "favorevoli contingenze determinate dal futuro assetto politico complessivo, non precisabili al momento della promessa e volte a sollecitare l'attuazione della consuete provvidenze legislative da cosa nostra ".

Manifestamente infondato è stato poi ritenuto il quarto motivo di ricorso con il quale il P.G. aveva messo in rilievo come il giudice di primo grado non aveva considerato che Cannella, a causa delle pressione che su di esso aveva esercitato Cesare Lupo, aveva riferito meno di quello che sapeva sul coinvolgimento di Dell 'Utri nel tentare di inserire esponenti di Sicilia Libera, partito " nato per volontà della mafia", all'interno delle liste di Forza Italia. I giudici di merito - a parere della Suprema Corte - avevano dato una motivazione del tutto plausibile: avevano in particolare rilevato che in ogni caso le dichiarazioni del Cannella non erano idonee a provare il coinvolgimento dell'imputato nelle attività politiche relative al periodo 1993-1994.

Le dichiarazioni rese dal Calvaruso in ordine al coinvolgimento di Mangano nel sostenere le iniziative di Cannella, per la nascita del nuovo movimento politico favorevole alla mafia, non avevano assunto alcun rilievo atteso che il collaborante aveva collocato la sospensione della decisione di uccidere il Mangano nel 1994 , data successiva all'espletamento delle elezioni del marzo del 1994.

Inammissibile, per manifesta infondatezza è stato ritenuto il quinto motivo di ricorso con il quale il P.G. aveva criticato la valutazione delle dichiarazioni rese da Cucuzza effettuata dalla Corte d'Appello che aveva escluso che potessero considerarsi riscontro esterno a quanto aveva riferito Galliano, sull'incontro avvenuto tra Dell 'Utri e Mangano, finalizzato ad ottenere promesse favorevoli in esecuzione del presunto patto politico stipulato ed avvenuto (secondo il Cucuzza) nella seconda metà del 1994; la Corte d'Appello aveva invece ritenuto che la data dell'incontro non era stata riscontrata da alcun elemento oggettivo.

Il P .G. ricorrente aveva preteso che i giudici di legittimità accreditassero delle congetture sul motivo per il quale si erano verificate le discrasie tra le dichiarazioni di Cucuzza e quelle di Galliano sulla data dell'incontro, senza indicare " il tema specifico al quale queste dichiarazioni afferirebbero " e rimettendo alla Corte di Cassazione, sui punti critici della sentenza impugnata, un'alternativa ricostruzione della vicenda. Veniva ritenuto inammissibile, per manifesta infondatezza, il sesto motivo di ricorso per Cassazione, con il quale il P.G. aveva censurato la valutazione della Corte d'Appello in ordine alle annotazioni, fatte sull'agenda della segretaria di Dell'Utri, che non potevano costituire prova degli incontri tra Dell 'Utri e Mangano.

Il P.G. ricorrente, con un ragionamento reputato dai giudici di legittimità "congetturale ed indimostrabile", aveva ritenuto che almeno un incontro poteva essere effettivamente avvenuto nel novembre del 1993 tra l'imputato ed il Mangano "non essendo stato provato il contrario".

[…] La Corte di Cassazione ha ritenuto inammissibile, reputando il ragionamento seguito dalla Corte d'Appello ''plausibile e rispondente ai criteri della logica e della razionalità", il settimo motivo di ricorso relativo al ragionamento seguito dai giudici di merito nella parte in cui non aveva ritenuto che fossero stati provati i rapporti tra Dell 'Utri ed i fratelli Graviano (arrestati nel 1994 insieme ai loro favoreggiatori Giuseppe D'Agostino e Salvatore Spataro ), rapporti utili al fine di provare il legame di natura politica tra il Dell 'Utri e la mafia riferibile al 1994.

Veniva rilevato dal P.G. che i giudici di merito dovevano sospettare che D'Agostino (le cui dichiarazioni, secondo lo stesso procuratore, erano entrate nel dibattimento in quanto oggetto di contestazione effettuatao nell'interrogatorio di Dell'Utri), non avesse detto la verità in dibattimento, considerato che, per ben due volte nel 1996, aveva riferito al p.m. di avere chiesto ai Graviano di dargli una mano per inserire il figlio nella società calcistica Milan Calcio. La menzogna poteva essere legata al fatto che - subito dopo l'arresto dei Graviano - si aveva interesse ad escludere ogni rapporto tra i boss mafiosi e Dell 'Utri. Era stato anche censurato dal P.G. il fatto che le dichiarazioni di Spataro erano state ritenute non attendibili e che il provino del figlio di D'Agostino di cui avevano parlato i tecnici del Milan era stato collocato nel 1992 e non nel 1994.

La Cassazione ha a tal proposito rilevato che:

- non era stato rispettato il principio dell'autosufficienza del ricorso che imponeva di allegare la copia integrale o la trascrizione integrale del contenuto dell'atto ( l'interrogatorio di D'Agostino: n.d.r.);

-le dichiarazioni rese dal D'Agostino nel corso delle indagini preliminari erano state valutate corrispondenti a quelle rese m dibattimento dallo stesso D'Agostino, negative di interessamenti di Graviano presso Dell 'Utri e la società Milan Calcio in favore del figlio;

- il tema in questione sarebbe stato utile per dimostrare non già accordi di rilievo penale, ma relazioni di contiguità e frequentazione tra l'imputato e soggetti gravitanti in ambienti mafiosi ed in quanto tali non idonee ad integrare l'ipotesi delittuosa in contestazione;

- non era stato neppure indicato come "l'ipotetico favore fatto da Dell'Utri a Graviano nel gennaio del 1994 relativamente alla questione d'interesse calcistico potesse costituire elemento di riscontro individualizzante dell'accusa principale, rappresentata dalla realizzazione di un patto politico che avrebbe dovuto riguardare le elezioni del marzo del 1994 con soggetti mafiosi neppure coincidenti con quelli menzionati".

E' stata poi ritenuta manifestamente infondata ( ai limiti della "soglia assolutamente prossima all'inammissibilità " e peraltro infondata nel merito), la censura con la quale il P.G. si era lamentato della negativa valutazione fatta dalla Corte in ordine all'attendibilità intrinseca del collaborante Spatuzza Gaspare. Detta censura - ha ritenuto la Corte di Cassazione - aveva proposto un accertamento sul fatto che si sottraeva al sindacato demandato ai giudici di legittimità. Questi ultimi hanno ritenuto che la Corte d'Appello aveva fondato il proprio giudizio sull'attendibilità del collaborante appena citato su di un "ragionamento logico e completo" ritenendo che Spatuzza, prima di parlare dell'incontro che aveva avuto con Graviano presso il bar Doney ( nel corso del quale quest'ultimo gli aveva rivelato che avevano ottenuto ciò che volevano dal mondo politico grazie a persone come Berlusconi e Dell 'Utri), aveva lasciato trascorrere troppo tempo. Il collegamento, poi, tra detto incontro e quello precedente avvenuto tra gli stessi soggetti a Campofelice di Roccella nel 1993, nel corso del quale Spatuzza era stato convocato dal Graviano per progettate un nuovo attentato per " smuovere" i politici di Roma, era stato frutto di personale convincimento operato dallo stesso collaborante.

[…] E' stata giudicata inoltre inammissibile la doglianza con la quale il P.G. aveva chiesto alla Corte di Cassazione di interpretare le intercettazioni secondo il significato che era stato loro attribuito dal Tribunale e non già dalla Corte d'appello, interpretazione che costituiva un giudizio di fatto devoluto al giudice di merito, non sindacabile da parte della Cassazione ove la ricostruzione fosse stata frutto di un'operazione logica e completa da parte del giudice di merito.

La Corte d'appello - nel caso in esame - aveva messo in rilievo non solo la distanza di tempo (cinque anni) intercorsa tra le conversazioni ed il patto politico mafioso che dette conversazioni avrebbero dovuto dimostrare ed il fatto che Dell'Utri era stato eletto in un collegio del Nord e non già nel collegio Sicilia-Sardegna; ma anche che la conversazione intercettata nel 1999, da cui si era desunto l'impegno elettorale di "cosa nostra" in favore di Dell 'Utri, non aveva provato l'esistenza di un patto a monte e la sua natura sinallagmatica.

La Corte di Cassazione ha messo in rilievo che il motivo di ricorso proposto dal P .G. non aveva sostanzialmente aggredito i passaggi della sentenza impugnata ove i giudici di merito avevano spiegato le ragioni per le quali non sussistevano le ragioni per configurare - dopo il 1992 - la condotta di concorso esterno in associazione mafiosa a carico di Dell'Utri; quest'ultimo - anche ove avesse eventualmente accettato l'appoggio elettorale di " cosa nostra" - non aveva posto in essere alcun comportamento " capace di determinare, anche istantaneamente, un concreto effettivo rafforzamento del sodalizio mafioso di riferimento misurabile ex post in termini apprezzabili e non rapportabili semplicemente alla causalità psichica".

Inammissibile è stata reputata la decima doglianza con la quale il P.G. aveva contestato il ragionamento della Corte d'Appello nella parte in cui aveva ritenuto che le dichiarazioni di Mangano, rese alla fine 1993 o nel 1994 sugli incontri politici che aveva avuto con Dell 'Utri erano state frutto di millanterie. La Corte d'Appello aveva poggiato detta convinzione sul fatto - desunto da prove testimoniali - che Mangano era considerato all'interno di cosa nostra un chiacchierone. I giudici di merito avevano ritenuto che con la condotta millantatrice, Mangano aveva cercato di accreditarsi presso i boss Bagarella e Brusca come utile collegamento con Dell'Utri in modo da sfuggire alla condanna a morte decisa dallo stesso Bagarella.

Neppure - a parere della Corte di Cassazione - poteva reputarsi capace di inficiare il ragionamento della Corte d'Appello il fatto, dedotto dal P.G, secondo cui Mangano era presente ad una cena ad Arcore la notte di Sant'ambrogio del I 974 essendo "tali fatti già ritenuti provati a capaci di dimostrare l'esistenza di un concorso esterno riferibile in epoca antecedente al 1992, sulla base di una condotta del Del/' Utri diversa da quella del patto politico-mafioso ".

[…] Veniva dichiarata altresì inammissibile la undicesima censura che costituiva la riproposizione dei motivi di gravame già sottoposti alla Corte d'Appello e che detto giudice aveva respinto sostenendo in diversi passaggi della sentenza - invero non aggrediti specificamente, secondo i giudici di legittimità, con il ricorso del P.G. - che non sussistessero gli estremi per la configurazione del concorso esterno nella condotta ascritta all'imputato nel periodo successivo al 1992. Il P.G. aveva censurato l'operato del giudice di secondo grado nella parte in cui, disattendendo i principi affermati nella sentenza delle Sezioni Unite della Corte del 2005, aveva ritenuto che non sussistessero le prove per poter configurare il patto politico mafioso patto, patto che invece nel caso in esame poteva desumersi :

-dai rapporti tra Dell'Utri e gli" emergenti" fratelli Graviano;

-dai plurimi rapporti esistenti tra Mangano e Dell 'Utri anche prima dell'epoca indicata (1994) dal Cucuzza, rapporti di cui vi era traccia nelle annotazioni dell'agenda del 1993, epoca in cui il D'Agostino aveva ricevuto dal Graviano la promessa di ottenere tramite amicizie milanesi l'inserimento del figlio nella formazione giovanile del Milan;

- dal summit di mafia, tenutosi alla fine 1993, di cui aveva parlato Spatuzza, nel corso del quale Graviano - all'epoca latitante - aveva annunciato allo stesso Spatuzza "una cosa politica" dalla quale tutti avrebbero tratto vantaggi;

-dall'incontro avvenuto nel gennaio del 1994 tra Graviano e Spatuzza al bar Doney nel corso del quale il primo aveva comunicato al secondo di avere ottenuto quello che il gruppo voleva, grazie alla serietà di Berlusconi e di Dell'Utri;

- dal fatto riferito da La Marca secondo cui Mangano, che era andato da Dell 'Utri alla vigilia delle elezioni del 1994, era tornato invitando il collaborante a votare Forza Italia, perché gli avevano "qualche possibilità per il 41 bis";

-dai due incontri che il Mangano aveva avuto con Dell 'Utri a Como dopo le elezioni dei 1994, così come aveva riferito il collaborante Cucuzza, all'esito dei quali vi era stata la promessa della emanazione di provvedimenti legislativi favorevoli in materia di regime carcerario (" 41 bis") ed di misure cautelari per il delitto di associazione mafiosa;

-dalle dichiarazioni del collaborante Giusto Di Natale che aveva riferito di avere visto Giuseppe Guastella, reggente di Resuttana, tornare euforico da un incontro con Mangano, che aveva dato buone speranze, dopo avere parlato con Dell'Utri, di "cose politiche".

[…] Secondo la Corte di legittimità la sentenza impugnata, passando in rassegna le dichiarazioni dei collaboranti aveva ritenuto che esse non contenessero elementi da cui desumere un impegno preciso in tema di interventi legislativi che Dell'Utri aveva preso net confronti del Mangano. […].

SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO BIS

Il nuovo appello, sotto esame la “condotta” di Dell’Utri sino al 1992. CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 04 novembre 2023

La Corte di Appello di Palermo aveva confermato l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa solo per la parte relativa all'opera di mediazione svolta da Dell'Utri in favore di Silvio Berlusconi e della consorteria mafiosa, assicurando al primo un'ampia protezione personale ed anche imprenditoriale ed alla seconda cospicui guadagni costituiti dal pagamento di somme di denaro versate dall'imprenditore, fino al 1992

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

La sentenza di annullamento con rinvio pronunciata dalla Corte di Cassazione il 9 marzo 2012 segna il percorso logico - giuridico che questa Corte, quale giudice del rinvio, dovrà seguire nell'esaminare la condotta di Marcello Dell'Utri al fine di verificare se essa, nell'arco temporale compreso tra il 1978 ed il 1992 - nei termini che saranno di seguito specificati - possa essere ricompresa nell'unico reato di natura permanente di concorso esterno in associazione mafiosa.

Deve essere brevemente rammentato che il Tribunale di Palermo con la sentenza dell' 11 dicembre 2004 aveva ritenuto la condotta di Marcello Dell 'Utri penalmente rilevante per le ipotesi originariamente formulate nei suoi confronti in due distinti capi d'imputazione, concorso esterno in associazione (reato commesso in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo della associazione per delinquere denominata Cosa Nostra), Milano ed altre località, da epoca imprecisata sino al 28.9.1982 ( capo a) e concorso esterno in associazione mafiosa (reato commesso in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo dell'associazione per delinquere denominata Cosa Nostra), Milano ed altre località, dal 28.9.1982 ad oggi (capo b).

In particolare, erano stati individuati due snodi investigativi che avevano entrambi condotto all'affermazione della responsabilità dell'imputato. Il primo aveva riguardato i rapporti di Dell'Utri con i boss mafiosi Stefano Bontade e Girolamo Teresi e la funzione di mediatore che Dell'Utri, ricorrendo all'amico Gaetano Cinà (condannato dal Tribunale alla pena di anni sette di reclusione per i delitti di cui agli artt. 416 e 416 bis c.p.) ed alle sue autorevoli conoscenze e parentele, aveva svolto tra" cosa nostra" e Silvio Berlusconi, anche dopo la morte di Bontade e Teresi.

Era stato ritenuto dal giudice di primo grado che Dell 'Utri, in tal modo, aveva apportato un consapevole e rilevante contributo al rafforzamento del sodalizio criminoso al quale aveva procurato una cospicua fonte di guadagno illecito rappresentata dai soldi provenienti dall'estorsione posta in essere nei confronti dell'imprenditore milanese Silvio Berlusconi, il quale in cambio aveva ricevuto un'ampia protezione dall'associazione mafiosa.

Il secondo tema di indagine e di responsabilità aveva riguardato la condotta, posta in essere da Dell'Utri nel periodo successivo al 1992, che si era tradotta nella promessa fatta da quest'ultimo all'associazione mafiosa, di futuri benefici anche legislativi in tema di giustizia, m cambio di un appoggio elettorale.

La Corte di Appello di Palermo, pervenendo ad una soluzione parzialmente confermativa di quella del Tribunale, aveva confermato l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa solo per la parte relativa all'opera di mediazione svolta da Dell 'Utri in favore di Silvio Berlusconi e della consorteria mafiosa, assicurando al primo un'ampia protezione personale ed anche imprenditoriale ed alla seconda cospicui guadagni costituiti dal pagamento di somme di denaro versate dall'imprenditore, fino al 1992.

Non aveva ritenuto invece che sussistessero elementi probatori capaci di convalidare la tesi dell'accusa con riguardo al secondo tema d'indagine dello scambio politico - mafioso che Dell'Utri avrebbe asseritamente concluso nel 1994 con "cosa nostra" ritenendo che non erano rinvenibili a carico dell'imputato prove inequivoche e certe di concreti e consapevoli contributi a lui riconducibili aventi rilevanza causale in ordine al rafforzamento dell'organizzazione mafiosa. CORTE D'APPELLO BIS

Sospetti, soldi sporchi ma collaboratori di giustizia poco attendibili. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 05 novembre 2023

La deposizione testimoniale del collaboratore di giustizia Gaetano Grado richiesta dalla Procura Generale non ha determinato l'ampliamento della condotta delittuosa attribuita a Dell'Utri, al quale tendeva il Procuratore Generale

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Deve rilevarsi preliminarmente che la rinnovazione dibattimentale disposta dal Collegio con l'ordinanza del 17 ottobre 2012, ammissiva della deposizione testimoniale del collaboratore di giustizia Gaetano Grado richiesta dalla Procura Generale (ordinanza alla quale si rinvia e che fa parte integrante della presente decisione), non ha determinato l'ampliamento della condotta delittuosa attribuita a Dell'Utri, al quale tendeva il Procuratore Generale.

Il Collegio, infatti, ha ritenuto che le dichiarazioni rese da Grado non consentono di esprimere un giudizio di attendibilità intrinseca del collaborante, con ciò restando preclusa ogni valutazione delle dichiarazioni rese anche da Bruno Rossi, l'altro collaboratore di giustizia (pure ammesso con la stessa ordinanza), che avrebbero dovuto fornire un riscontro esterno alle propalazioni del primo.[…].

Deve essere precisato che il tema di approfondimento prospettato dal P.G, con la richiesta di esame del collaboratore Grado, tema relativo agli investimenti di "cosa nostra" nella realizzazione di "Milano 1" e di "Milano 2" che sarebbero stati effettuati da Dell'Utri con denaro che lo stesso avrebbe ricevuto da "cosa nostra" nel periodo successivo alla morte di Stefano Bontade e di Girolamo Teresi e, dunque durante l'epoca del predominio dei corleonesi e di Totò Riina, non si era tradotto - diversamente da quanto sostenuto dalla difesa - nella formulazione di " un accusa nuova (..) o in fatto diverso rispetto a quello contestato ".

Il riciclaggio del denaro di "cosa nostra" in attività imprenditoriali milanesi rientranti nel gruppo Berlusconi che, secondo l'ipotesi accusatoria, sarebbe stato effettuato da Dell'Utri al quale detto denaro veniva consegnato a Milano da "spalloni" siciliani, occultato all'interno delle autovetture con le quali costoro partivano dalla Sicilia, avrebbe avuto un preciso valore probatorio sotto rilevanti profili, già, peraltro sinteticamente esposti nell'ordinanza del 17 ottobre 2012 con la quale, ritenendone "la decisività al fine della valutazione della condotta contestata", questa Corte aveva ammesso l'esame testimoniale di Grado e di Rossi.

L'investimento di ingenti somme di denaro da parte di "cosa nostra" in attività imprenditoriali del gruppo Berlusconi da parte di Dell 'Utri sarebbe rientrato - ove provato - a pieno titolo nel contributo atipico del concorrente esterno così come indicato nel capo d'imputazione, contrariamente a quanto dedotto dalla difesa dell'imputato. Ed infatti, a Dell'Utri è stato contestato di aver messo a disposizione di "cosa nostra" le proprie conoscenze acquisite presso il sistema economico siciliano ed italiano nonché "l'influenza ed il potere derivanti dalla sua posizione di esponente del mondo finanziario ed imprenditoriale"; val la pena di sottolineare che i soggetti appartenenti all'associazione mafiosa indicati nel capo d'imputazione insieme a Dell'Utri (Stefano Bontade e Mimmo Teresi e poi Salvatore Riina) sono proprio gli esponenti mafiosi che Grado aveva evocato nelle sue dichiarazioni. Non può non essere sottolineato che il tema degli investimenti di Dell'Utri di denaro di "cosa nostra", proveniente dalla Sicilia e trasportato in contante a Milano da esponenti mafiosi, era già emerso nel corso delle indagini che hanno condotto al presente procedimento, sulla base delle dichiarazioni rese dall'imprenditore Filippo Alberto Rapisarda, presso il quale Dell'Utri era andato a lavorare nel 1978 allontanandosi per un certo periodo dal gruppo imprenditoriale facente capo a Berlusconi.

Il Tribunale, allorquando si era soffermato sulle dichiarazioni di Rapisarda, con motivazioni che questo Collegio ritiene del tutto condivisibili, dopo avere sottolineato che l'imprenditore non poteva essere considerato "un teste totalmente affidabile", aveva tuttavia precisato che le sue dichiarazioni, sfuggivano al giudizio di inattendibilità solo allorchè avevano trovato conferme esterne.

Orbene Rapisarda ha dichiarato nel corso dell'istruzione dibattimentale che, alla fine del 1978, primi del 1979, era passato dall'ufficio di Dell'Utri della Bresciano di Via Chiaravalle ed aveva notato l'imputato insieme a Bontade e Teresi; questi ultimi stavano ''facendo delle sacche" ed avevano soldi in contanti sul tavolo.

I soldi dovevano essere consegnati a Berlusconi con il quale Dell 'Utri stava parlando a telefono e, dal tenore della conversazione, Rapisarda aveva capito che l'imprenditore milanese si stava lamentando con Dell'Utri per non avere ancora ricevuto i soldi. Rapisarda non aveva saputo dire quanto fosse il loro ammontare, ma all'incirca riteneva che si fosse trattato di dieci miliardi di lire.

“Rapisarda: I soldi, i soldi .... ho visto i soldi. Nel 1979 ... '78/'79 io mi recai dal notaio Sessa in via Lanza 3, vicino a Piazza Castello, uscendo di là dentro... uscendo di là dentro a Piazza Castello incontrai Stefano e Mimmo Teresi, i quali mi dissero: «Pigliamoci un caffè .... » e compagnia bella. Parlando parlando mi dissero che avevano appuntamento con Dell' Utri e che dovevano fare delle operazioni, mi dissero che li aveva chiamati per le televisioni e compagnia bella .... tanto che io rimasi, perchè le televisioni li avevo fatto pure io, quindi ... Comunque io ero già nel periodo in cui avevo un mandato di cattura addosso, lo sapevo benissimo, stavo cercando di mettere a posto alcune cose per andarmene"; P .M. : Quindi è poco prima della sua fuga? "; Rapisarda:" Si, poco prima della mia... gennaio '79. L 'incontro fu alla fine di dicembre, non credo che era già gennaio '79. Dopo un po' di giorni, ricordo che una sera andai nell'ufficio di Dell'Utri e trovai Stefano Bontade e Mimmo Teresi che avevano... stavano facendo delle sacche, avevano dei soldi sul tavolo .. "; P.M. : " Quindi avevano soldi in contanti"; Rapisarda:" Si. E lui era al telefono, come Marcello Dell'Utri mi ha detto, con Silvio Berlusconi, il quale diceva ... anzi si era lamentato perchè doveva andare ... quella sera doveva portare i soldi subito "; P .M. : "Questo perchè non lo ha detto precedentemente? Perchè non mi risulta che lei ne abbia parlato"; Rapisarda : "E non l'ho detto perchè sa ... "; P.M.: "Cioè, il fatto dei dieci miliardi lo aveva già riferito, ma questa circostanza non era stata riferita"; Rapisarda: "E questa circostanza ... si era lamentato anzi che era tardi e doveva portare ... dovevano portare questi soldi da cosa ad Arcore""; Presidente:"Mi scusi, si era lamentato chi, signor Rapisarda? "; Rapisarda : " Lui, il dottor Dell'Utri"; P.M.:"Allora, ritorniamo indietro perchè ci sono delle cose di cui lei non ha mai parlato e quindi è il caso che ne parli approfonditamente, anzi la invito se ha delle altre dichiarazioni da fare, parli tutto oggi e non farne altre in altre occasioni. E allora voglio sapere: l'incontro con Teresi e Bontade si colloca sempre in questa .. "; Rapisarda· "In questa ottica, dopo questa prima cosa sono rimasti .. "; P .M.:" Quindi siamo nel gennaio del 1979? "; Rapisarda: "Si, '79 ": P.M.:" Lo stesso giorno lei vede questi sacchi di .... "; Rapisarda: "No, credo che siano passati.... io stavo per... credo che è stato alcuni giorni dopo, io penso che sono andato via dopo tre/quattro giorni da questo fatto, sono andato via dall'Italia. Quindi lei faccia il conto, io sono andato via il 16 febbraio del '79 alle ore 21. 00 e questo fatto deve essere stato otto giorni prima ... sette giorni prima. E io ero lì, sapevo che avevo questo disastro addosso e stavo cercando di ... (... )"

Rapisarda ha ancora parlato di investimenti di denaro da parte di "cosa nostra" in attività imprenditoriali di Berlusconi ed in particolare nelle attività di Canale 5 , nel frammento delle dichiarazioni relative all'incontro, avvenuto nei primi mesi del 1980 a Parigi presso l'Hotel George V , tra lui e Dell 'Utri che aveva dato appuntamento a Bontade e Teresi.

L'imputato, in quell'occasione, aveva chiesto ai due boss mafiosi la somma di 20 miliardi di lire " ...perché Canale 5 aveva bisogno di soldi". Rapisarda ha precisato, in maniera dettagliata, che "la proposta venne fatta per l'acquisto dei film e per sviluppare le televisioni".

I due boss mafiosi gli avevano risposto che avrebbero valutato la richiesta e che, secondo lui, Bondate e Teresi erano già "dentro con i soldi", avendo visto con i suoi occhi tempo prima la consegna del denaro alla Bresciano, alla quale si è già fatto cenno. L'argomento degli investimenti da parte di "cosa nostra" in attività imprenditoriali riconducibili a Berlusconi con l'intervento di Dell'Utri non sarebbe stato di poco rilievo, in quanto avrebbe fornito un'ulteriore conferma del ruolo assunto da quest'ultimo nei confronti della consorteria mafiosa e anche dell'amico Berlusconi e la sua consapevolezza di agire rafforzando il potere economico di "cosa nostra" tutelando gli interessi del gruppo imprenditoriale dal quale non si era mai distaccato, neppure quando era andato a lavorare da Rapisarda.

Se dette dichiarazioni avessero ricevuto una conferma esterna nelle propalazioni di Gaetano Grado, il loro peso probatorio avrebbe sicuramente inciso sulla valutazione della condotta dell'imputato: è questo il motivo per il quale questo Collegio ha ritenuto rilevante l'esame testimoniale di Grado (e di Rossi) richiesto dalla Procura Generale. Tuttavia così non è stato in quanto il giudizio di inattendibilità intrinseca del collaborante ha escluso ogni valutazione della circostanziata deposizione resa da quest'ultimo e i fatti da lui enunciati non possono considerarsi idonei a superare neppure la soglia di mero indizio.

SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Gaetano Grado e gli incontri milanesi degli Anni Settanta. SENTENZA D'APPELLO BIS su Il Domani il 06 novembre 2023

I fatti narrati avrebbero costituito, con tutta evidenza, una conferma alle attività di investimento di cui aveva parlato Rapidarda. Tuttavia, allorché il collaborante si è soffermato sul tema dei traffici di stupefacenti, le dichiarazioni hanno assunto un tale grado di mendacio che, senza alcuna esitazione, non può che formularsi su di lui un giudizio di inattendibilità soggettiva

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

In ordine a Grado non può essere trascurato che con sentenza definitiva (acquisita agli atti del presente giudizio all'udienza del 30 ottobre 2012) relativa alla strage di Viale Lazio, il G.U.P. del Tribunale di Palermo del 12 dicembre 2008 aveva espresso un giudizio positivo sull'attendibilità intrinseca ed estrinseca del collaborante, concedendogli l'attenuante della collaborazione di cui all'art. 8 D.L. 13.5.1991, n. 152.

Nel corso della sua deposizione testimoniale (v. trascrizione dell'udienza del 30 ottobre 2012) resa nel presente giudizio di rinvio, Grado - dopo avere riferito fatti che erano caduti sotto la sua diretta percezione o che aveva appreso da altri esponenti mafiosi ed avere spiegato le ragioni della propria collaborazione e cioè che non credeva più in "cosa nostra" che aveva coinvolto nelle " stragi'' " donne, bambini", escludendo che dette ragioni fossero state dettate da motivi di convenienza personale ( stava invero per concludere il periodo di detenzione in carcere), ha affermato, con una particolare enfasi, alcune circostanze che ne . hanno irrimediabilmente annullato l’attendibilità soggettiva.

Richiamando, seppur brevemente le dichiarazioni, va ricordato che il collaboratore - fratello di Antonino Grado, uomo d'onore della famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù a capo della quale vi era Stefano Bontade e che aveva guidato l'auto con la quale Di Carlo, Teresi, Cinà e lo stesso Bontade si erano recati all'appuntamento a Milano nel 1974 con Dell'Utri e Berlusconi - ha dichiarato che nel 1969 era entrato ritualmente a fare parte della suddetta famiglia; aveva iniziato il suo percorso di collaborazione da dieci anni e si era accusato di delitti per i quali non era neppure indagato; aveva partecipato inoltre alla strage di Viale Lazio avvenuta il 1 O dicembre 1969 con Bernardo Provenzano, Calogero Bagarella, Emanuele D'Agostino e Damiano Caruso; si era reso responsabile degli omicidi di "tanti rappresentanti" della famiglia mafiosa dei corleonesi nell'ambito della guerra di mafia iniziata dopo la morte di Stefano Bontade, avvenuta il 23 aprile 1982.

Ha precisato che la rottura con i corleonesi era avvenuta dopo " la scarcerazione del processo dei 114" e che era stato lui a dire a Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti di eliminare Salvatore Riina " perché spadroneggiava". Ha poi evidenziato che il fratello Antonino, scomparso "a lupara bianca" e che viveva a Milano, era uno dei più grandi "trafficanti di eroina"; il "boom" del commercio di detta sostanza era stato nel 1970 ed il fratello aveva continuato a trafficare fino a quando non era scomparso nel 1984.

Grado nel corso della sua deposizione ha in primo luogo dimostrato di conoscere fatti rientranti a pieno titolo nelle vicende oggetto del presente procedimento (l'assunzione di Vittorio Mangano ad Arcore, il coinvolgimento di Gaetano Cinà in detta vicenda ed il ruolo di quest'ultimo che, pur non essendo intraneo a "cosa nostra", sapeva più di quanto potesse sapere un uomo d'onore e che aveva saputo che era stato inserito nella famiglia mafiosa di Resuttana, solo dopo la guerra di mafia) e anche gli interessi economici di Bontade, Teresi e dello stesso fratello Nino Grado. Il collaborante ha in particolare ricordato che il fratello e Bontade, avevano investito nella realizzazione di "Milano l" e di "Milano 2" ( "Grado:" Ma guardi, su Milano Stefano Bontade a quanto ne sappia io, che mi diceva mio fratello e poi me lo confermava pure Stefano, era che stavano facendo Milano 1 e Milano 2 ").

Ha poi parlato del denaro da investire che veniva portato in contante dalla Sicilia a Milano da Vittorio Mangano o da un "certo" Rosario D'Agostino in auto o anche in altri modi e che gli investimenti erano avvenuti fin dal 1972/1973. In relazione alla destinazione di detti soldi appare rilevante sottolineare che Grado ha riferito che i soldi, giunti a Milano, venivano consegnati a Marcello Dell 'Utri. Lo aveva saputo da Stefano Bontade, dal fratello Nino Grado e da Vittorio Mangano : il denaro veniva investito nella costruzione di "Milano 1" o di " Milano 2", ma poi non sapeva che fine facesse .(Presidente:"( ... ) suo fratello e il Mangano le dissero mai a chi portavano il denaro?; Grado:"si,si";Presidente:" Glielo dissero? E che cosa le dissero?"; Grado" Si, mi dissero che lo portavano a Marcello Dell'Utri che era il riferimento di .. il referente di Berlusconi ").

Gaetano Grado ha riferito di avere tentato di recuperare i soldi investiti dal fratello su "Milano l" e "Milano 2", di essere stato arrestato nel 1989 e di avere conosciuto nel carcere di Vasto un ragazzo napoletano di nome Rossi che sarebbe stato scarcerato di lì a poco. Al carcere aveva conosciuto anche Giacomo Cavalcante che era capo della famiglia di cui faceva parte il Rossi, una famiglia "perdente".

Poiché quest'ultimo aveva mostrato di tenerlo in considerazione, Grado gli aveva chiesto di fargli un favore: uccidere un uomo, "un certo Vittorio Mangano a Milano" ed il Rossi gli aveva detto di si. Ha parlato poi delle tangenti pagate per le antenne televisive alla famiglia di Santa Maria di Gesù, ( Grado: " Un certo Salvatore Cucuzza, che pigliava soldi dalle antenne televisive di Berlusconi e che - per una buona parte - venivano presi da Stefano Bontade "), della destinazione di dette somme dopo la morte di Bontade affermando che, secondo la regola mafiosa, era naturale che i soldi andassero ai Pullarà atteso che costoro erano reggenti. ( P.G.:" - Le risulta che dopo Stefano Bontade questi soldi finivano a Pullarà? "; GRADO:" Ma naturalmente, se era lui il reggente, certo che li pigliava Pullarà''); ha inoltre mostrato di essere a conoscenza degli attentati a Berlusconi ed in particolare di quello avvenuto ''prima dell '80" per il quale si era voluto realizzare " un messa in scena": avevano fatto esplodere una bomba "carta" di "polvere di cave" che gli aveva annerito solo il cancello.

Per quel gesto tuttavia erano riusciti a prendere - tramite Mangano - dei soldi a Berlusconi. Grado poi ha dichiarato di essere a conoscenza di un tentativo di sequestro, ad opera dei calabresi, dei figli di Berlusconi e di quello che aveva fatto Stefano Bontade per impedirlo. I fatti narrati avrebbero costituito, con tutta evidenza, una conferma alle attività di investimento di cui aveva parlato Rapidarda, essendo riferibili non solo alla fase in cui erano vivi i due boss mafiosi Teresi e Bontade, ma anche al tempo in cui il potere era andato nelle mani di Totò Riina vincitore nella guerra di mafia.

Tuttavia, allorchè il collaborante si è soffermato sul tema dei traffici di stupefacenti, le dichiarazioni hanno assunto un tale grado di mendacio che, senza alcuna esitazione, non può che formularsi su di lui un giudizio di inattendibilità soggettiva. SENTENZA D'APPELLO BIS

Cosa Nostra, Dell’Utri e “l’estorsione imposta” a Silvio Berlusconi. SENTENZA D'APPELLO BIS su Il Domani il 07 novembre 2023

Marcello Dell'Utri, in tale periodo ha prestato, con coscienza e volontà, un rilevante contributo all'associazione mafiosa "cosa nostra" consentendo ad essa di rafforzarsi economicamente grazie al pagamento del prezzo dell'estorsione imposta a Berlusconi, che non si era sottratto alla richiesta di denaro per garantirsi protezione

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È stato invero ritenuto che Marcello Dell'Utri, in tale periodo ha prestato, con coscienza e volontà, un rilevante contributo all'associazione mafiosa "cosa nostra" consentendo ad essa di rafforzarsi economicamente grazie al pagamento del prezzo dell'estorsione imposta a Berlusconi, che non si era sottratto alla richiesta di denaro per garantirsi protezione.

La Corte di Cassazione ha ritenuto che i giudici di merito avevano "adeguatamente rappresentato come la condotta dell'agente, riferita agli anni che vanno da 1974 fino alla fine del 1977" aveva costituito un "antecedente causale" alla conservazione del sodalizio criminoso che si fonda notoriamente sulla sistematica acquisizione di proventi economici che utilizza per crescere e rafforzarsi.

"E' indubbio - ha osservato la Suprema Corte - che l'accordo di protezione mafiosa propiziato da Dell'Utri, con il sinallagma dei pagamenti sistematici in favore di cosa nostra vada ad inserirsi in un rapporti di causalità, nella realizzazione dell'evento del finale rafforzamento di cosa nostra".

Reputa il Collegio, seppur considerando che questo periodo non rientra tra le condotte devolute al nuovo esame essendosi formato su di esso un giudicato, che sia necessario soffermarsi comunque sui tre fatti storici essenziali nella ricostruzione della condotta di Dell'Utri, individuabili proprio in tale periodo e ciò in quanto le considerazioni che saranno svolte costituiscono l'antecedente logico-giuridico dell'esame della condotta successiva dello stesso imputato (1978-1992), che viceversa rientra nella valutazione richiesta dai giudici di legittimità a questa Corte, quale giudice del rinvio.

Detti fatti storici definitivamente accertati sono costituiti:

a) dall'incontro avvenuto a Milano tra il 16 ed il 29 maggio 1974 tra lo stesso Dell 'Utri, Silvio Berlusconi, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi ed il collaborante Di Carlo, nel corso del quale è stato raggiunto l'accordo di reciproco interesse tra "cosa nostra", rappresentata autorevolmente dai boss mafiosi Bontade e Teresi e l'imprenditore Berlusconi, accordo che era stato realizzato proprio con la mediazione di Dell'Utri che aveva coinvolto l'amico Gaetano Cinà il quale, grazie ai saldi collegamenti con la consorteria mafiosa, aveva garantito il realizzarsi dell'incontro stesso;

b) dall'assunzione di Vittorio Mangano ad Arcore, avvenuta non già per garantire la presenza di uno stalliere o di un uomo che curasse la villa o i cani di Berlusconi, ma quale dimostrazione del presidio mafioso di protezione e controllo del ricco imprenditore che temeva per la sua sicurezza e per quella dei suoi familiari;

c) dal pagamento di somme da parte dell'imprenditore a "cosa nostra" al fine di ricevere protezione in virtù del suddetto patto. Detti fatti storici devono essere richiamati in quanto essi non hanno esaurito i loro effetti solo nel periodo storico di riferimento, già coperto da "giudicato" e come tale non più discutibile, ma hanno sicuramente permeato di profondo significato tutto il periodo di contestazione del reato successivo.

SENTENZA D'APPELLO BIS 

Quel faccia a faccia fra il Cavaliere e il capomafia Stefano Bontate. SENTENZA D'APPELLO BIS su Il Domani l'8 novembre 2023

Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo ed aveva siglato il patto di protezione di Berlusconi

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Tra il 16 ed il 29 maggio 1974 è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato ad un incontro organizzato da lui stesso e da Cinà a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano ed aveva siglato il patto di protezione di Berlusconi.

Esso dunque ha costituito la genesi del rapporto sinallagmatico che ha legato l'imprenditore Berlusconi e "cosa nostra" con la mediazione costante ed attiva dell'imputato che - come sarà esposto di seguito - non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti e che, in particolare, ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento.

Appare necessario soffermarsi sui soggetti con i quali Dell 'Utri ha concluso quell'incontro al fine non solo di chiarire da chi era rappresentata la componente soggettiva dell'accordo al quale ha partecipato Dell 'Utri, ma anche per sottolineare che i soggetti di quell'accordo saranno i suoi riferimenti mafiosi privilegiati per tutto il periodo in esame fino al 1992 (con l'esclusione solo di Bontate e Teresi vittime della guerra di mafia del 1981).

Tra questi soggetti l'unico che Dell 'Utri ha definito suo amico è Gaetano Cinà che, anche se non è stato ritualmente inserito in " cosa nostra", ha assunto costantemente ruoli talmente delicati - anche prima della sentenza di condanna inflittagli dalla sentenza del Tribunale di Palermo - da poter essere considerato di fatto fin da allora appartenente alla famiglia mafiosa di Malaspina. Se così non fosse stato, del resto, sarebbe stato del tutto inimmaginabile che Bontate e Teresi gli avrebbero consentito di partecipare all'incontro del 1974 e che Filippo Alberto Rapisarda, avrebbe provato il timore, di cui lui stesso ha parlato, di rifiutargli la raccomandazione che Cinà gli aveva fatto al fine di fargli assumere alle sue dipendenze Dell'Utri.

Lo stesso imputato, seppur negando di essere stato assunto a seguito della raccomandazione di Cinà, nel corso delle dichiarazioni spontanee, non aveva potuto negare di avere notato che Rapisarda, allorché si era presentato con Cinà, era rimasto impressionato dalla presenza di quest'ultimo.

Se Dell'Utri non avesse attribuito a Cinà una contiguità con l'ambiente mafioso, non si spiegherebbe il motivo per il quale, dopo l'attentato della notte del 29 novembre 1986, dopo avere parlato con Berlusconi e Confalonieri, lo aveva chiamato immediatamente per avere notizie.

Deve poi rilevarsi che in quell'occasione Cinà aveva dato all'amico Dell'Utri una risposta in termini chiari sulla matrice dell'atto intimidatorio ed aveva escluso così il coinvolgimento del Mangano. Appare evidente che l'imputato non si era fatto accompagnare o aveva chiamato Cinà in quanto titolare di una lavanderia o solo come suo amico dai tempi della squadra calcistica della Bacigalupo: l'imputato era sicuramente a conoscenza che Cinà intratteneva stretti rapporti con soggetti autorevoli di "cosa nostra" che potevano fare effetto su Rapisarda o che potevano consentigli di avere notizie certe sui mandanti dell'attentato.

Altro soggetto presente all'incontro era il boss mafioso Stefano Bontate, capo della famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù e che aveva fatto parte fino a poco tempo prima del "triumvirato", massimo organo di vertice di "cosa nostra" del quale facevano parte anche Gaetano Badalamenti e Luciano Liggio. Anche Girolamo Teresi era un soggetto attivo all'interno dell'associazione criminale in quanto sottocapo della famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù. Alla riunione era presente inoltre il collaboratore Francesco Di Carlo, uomo d'onore della famiglia di Altofonte, di cui ha fatto parte fin dagli anni '60 e della quale, nel 1973/74, era divenuto consigliere ed in seguito sottocapo.

Dell'Utri, partecipando all'incontro di pianificazione, ha siglato in modo definitivo un patto con " cosa nostra" che - come sarà in seguito argomentato da questo Collegio - proseguirà, senza interruzioni, fino al 1992. In virtù di tale patto i contraenti ("cosa nostra" da una parte e Silvio Berlusconi dall'altra) ed il mediatore contrattuale (Marcello Dell'Utri), legati tra di loro da rapporti personali, hanno conseguito un risultato concreto e tangibile costituito dalla garanzia della protezione personale dell'imprenditore mediante l'esborso di somme di denaro che quest'ultimo ha versato a "cosa nostra" tramite Marcello Dell 'Utri che, mediando i termini dell'accordo, ha consentito che l'associazione mafiosa rafforzasse e consolidasse il proprio potere sul territorio mediante ingresso nelle proprie casse di ingenti somme di denaro.

V'è da aggiungere che nella prima fase dell'accordo, fintantoché i protagonisti non erano mutati e cioè prima della guerra di mafia e della morte di Bontate e Teresi, Dell 'Utri, nella sua condotta di mediazione tra le parti, era entrato in diretto contatto con i boss mafiosi Bontate e Teresi incontrandoli personalmente e discutendo con loro i termini dell'accordo e anche intrattenendosi in rapporti conviviali.

Su tale circostanza e cioè sull'esistenza della prova dell'incontro del 1974 la Corte di Cassazione ha dedicato un passaggio della decisione affermando che la tesi difensiva dell'inattendibilità di Di Carlo, che di tale incontro è la principale fonte dichiarativa, era infondata e che il collaboratore Di Carlo " nel presente processo, è risultato soggetto meritevole di pieno credito; che il suo racconto in ordine alla circostanza dell'incontro di Milano fra le menzionate parti interessate abbia presentato credibilità anche oggettiva e che sia stato riscontrato obiettivamente da un pluralità di elementi. " (pag. 99).

L'acclarata esistenza di un interlocuzione diretta di Dell'Utri con gli esponenti di "cosa nostra" Bontatee Teresi all'epoca della definizione dei termini dell'accordo costituisce - per i motivi che saranno spiegati in altro paragrafo - la differenza unica e del tutto peculiare rispetto a quello che sarà il paradigma contrattuale nell'accordo che l'imputato manterrà con l'associazione mafiosa anche dopo la morte di costoro e con l'ascesa dei corleonesi e del capo Salvatore (Totò) Riina, con il quale invece non si sono mai registrati contatti diretti. L'incontro, dunque, segna l'inizio del patto che legherà Berlusconi, Dell'Utri e "cosa nostra" fino al 1992.

E' da questo incontro che l'imprenditore milanese, abbandonando qualsiasi proposito ( da cui non è parso, invero, mai sfiorato) di farsi proteggere dai rimedi istituzionali, è rientrato sotto l'ombrello di protezione mafiosa, assumendo Vittorio Mangano ad Arcore e non sottraendosi mai all'obbligo di versare ingenti somme di denaro alla mafia, quale corrispettivo della protezione. SENTENZA D'APPELLO BIS

Lo “stalliere” e i cavalli di Arcore, l’assunzione di Vittorio Mangano. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 09 novembre 2023

È stato definitivamente accertato che l'assunzione di Vittorio Mangano ad Arcore, avvenuta nell'estate del 1974, è stata decisa non tanto per la nota passione di Mangano per i cavalli, ma per garantire un presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore milanese

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È stato definitivamente accertato che l'assunzione di Vittorio Mangano ad Arcore, avvenuta nell'estate del 1974, è stata decisa non tanto per la nota passione di Mangano per i cavalli, ma per garantire un presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore milanese (pag. 100 sentenza Cass.). Detta decisione è stata presa all'esito della più volte citata riunione tenutasi a Milano tra il 16 ed il 29 maggio 1974, sulla base di un accordo "di natura protettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia tramite Dell'Utri che di quell'assunzione è stato l'artefice grazie anche all'impegno specifico profuso da Cinà" (pag 102- 105).

Orbene, reputa il Collegio, che la presenza di Mangano ad Arcore e la decisione sottesa all'assunzione costituiscono un altro dei passaggi fondamentali di quella parte della decisione che a seguito della sentenza dei giudici di legittimità è ormai divenuta definitiva e che, secondo questo Collegio ha assunto un rilievo determinante in quanto - seppur temporalmente collocato in un periodo in cui ogni valutazione di merito è definitivamente preclusa - ha permeato di significati decisivi il periodo successivo e cioè quello oggetto del giudizio di rinvio compreso tra il 1978 ed il 1992.

Vittorio Mangano, che era andato ad Arcore nel maggio/giugno 1974 dopo l'incontro di Milano esclusivamente per proteggere l'imprenditore e la propria famiglia (la Corte di Cassazione ha indicato gli argomenti per i quali era da escludersi ogni altro scopo dell'assunzione che era seguita all'incontro ed ha anche indicato le dichiarazioni di Galliano e di Cucuzza a conferma di quelle di Di Carlo), era stato assunto su indicazione di Dell 'Utri.

Quest'ultimo, seppur confermando detta circostanza (Dell'Utri: "Il Mangano venne assunto alle dipendenze del dr. Berlusconi su mia indicazione") ,ha affermato che la finalità di detta assunzione era stata quella, definitivamente esclusa dalla Corte di Cassazione, di trovare un soggetto che potesse " mandare avanti la Villa Casati".

Dell'Utri ha sempre negato che Mangano fosse un amico per lui (come invece lo era stato il Cinà) ed ha anzi affermato di esserne intimorito, tanto da sopportare i contatti con lui.

Deve essere solo accennato (la disamina dei rapporti con Mangano sarà oggetto di successiva trattazione) che il rapporto tra i due non si è mai interrotto almeno fino al 1992 ed ha subito delle forzate interruzioni per i periodi di detenzione del Mangano che già nel dicembre 1975 e cioè dopo meno di un anno dal momento in cui aveva definitivamente lasciato Arcore, veniva affiliato alla famiglia mafiosa di Porta Nuova all'epoca formalmente aggregata al mandamento di Santa Maria di Gesù, comandato da Stefano Bontate.

La continuità della frequentazione, l'avere pranzato in diverse occasioni con lui sono circostanze che hanno consentito di escludere che i rapporti svoltisi in un arco temporale che ha coperto quasi un ventennio nel corso del quale il Mangano è stato arrestato e prosciolto e poi nuovamente arrestato e poi ancora prosciolto, possano essere stati determinati da paura. Del resto, Dell 'Utri non ha mai mostrato di temere i contatti con i boss mafiosi e di concludere accordi con loro. L'incontro milanese del 1974 lo aveva posto a contatto con mafiosi del calibro del Bontate e del Teresi che erano i capi di "cosa nostra".

Né può affermarsi che Dell'Utri, fin da momento in cui Mangano era stato assunto nella Villa di Arcore, non già come stalliere o custode, ma solo per realizzare concretamente il patto di protezione stipulato tramite lo stesso Dell'Utri tra "cosa nostra" e Berlusconi, non fosse stato consapevole del fatto che Mangano era un soggetto dotato di una particolare caratura criminale. Va rammentato che nel 1975 Mangano, anche se non in maniera traumatica - come lui stesso ha affermato - era stato allontanato dalla Villa di Arcore non solo in quanto coinvolto come basista nel tentato sequestro del principe D' Angerio, ma perché era stato arrestato seppur per pochi giorni. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

I pagamenti di Silvio Berlusconi a Cosa Nostra per avere protezione. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 10 novembre 2023

È stato infine definitivamente accertato che a seguito dell'incontro del 1974 erano iniziate le richieste di pagamento da parte di "cosa nostra" a Berlusconi, quale prezzo per la protezione e corrispettivo del patto stretto tra i mafiosi (Bontade e Teresi) e l'imprenditore Berlusconi con la mediazione del concorrente esterno Dell 'Utri

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È stato infine definitivamente accertato che a seguito dell'incontro del 1974 erano iniziate le richieste di pagamento da parte di "cosa nostra" a Berlusconi, quale prezzo per la protezione e corrispettivo del patto stretto tra i mafiosi (Bontate e Teresi) e l'imprenditore Berlusconi con la mediazione del concorrente esterno Dell'Utri. Del versamento di somme - ha evidenziato la Corte di Cassazione ( pag. 103) - hanno parlato Di Carlo, Galliano, Scrima e Cucuzza, con dichiarazioni che sono state reputate «capaci di riscontrarsi in maniera reciproca».

Appare necessario riprendere seppur in estrema sintesi, le modalità ed i passaggi dei pagamenti e ciò - solo anticipando il paragrafo che sarà dedicato ai pagamenti relativi al periodo oggetto del giudizio di rinvio ( 1979-1992) - in quanto reputa questo Collegio che dette modalità, detti passaggi e le ragioni sottese agli stessi pagamenti sono del tutto sovrapponibili a quelli realizzati nell' epoca successiva, così come del tutto coincidenti sono gli atteggiamenti di Dell 'Utri nel periodo coperto da giudicato rispetto a quelli relativi al periodo compreso tra 1978 ed il 1992.

Francesco Di Carlo (v. dich. rese all'udienza del 16 febbraio 1998) ha riferito che, proprio a seguito dell'incontro milanese, Cinà gli aveva confidato il suo imbarazzo perché dopo l'incontro gli avevano fatto chiedere a Berlusconi la somma di lire 100.000.000, somma che gli era stata consegnata. Non sapeva se oltre a quella somma ne erano state consegnate delle altre e spiegava che il denaro serviva ad avere la garanzia, non solo di non essere sequestrato, ma per tutto quello che poteva accadere ad un industriale.

Antonino Galliano, nipote di Raffaele Ganci e vicino al figlio di quest'ultimo Domenico, uomo d'onore ritualmente affiliato alla famiglia mafiosa della Noce della quale era stato anche reggente per un certo periodo, ha riferito di avere saputo da Cinà dell'incontro milanese avvenuto tra quest'ultimo, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Dell'Utri e Berlusconi e del fatto che quest'ultimo era stato rassicurato da Bontade che "per maggiore sicurezza" gli aveva mandato Mangano. Secondo Galliano, Berlusconi aveva deciso di fare un regalo a Stefano Bontade ed aveva consegnato a Cinà, due volte all'anno, presso lo studio di Dell'Utri, la somma di 50.000.000 di lire. Salvatore Cucuzza, uomo d'onore dal 1975 appartenente alla famiglia del Borgo e che dal giugno del 1994 ( dopo la sua ultima scarcerazione) aveva affiancato per un certo periodo di tempo Vittorio Mangano nella reggenza del mandamento di Porta Nuova, ha riferito di aver saputo dallo stesso Mangano che quest'ultimo, grazie ali' interessamento di Cinà, era andato a lavorare ad Arcore da Berlusconi.

Lo stesso collaborante ha poi dichiarato che l'imprenditore versava 50.000.00 di lire che erano stati consegnati in un primo momento a Mangano che tramite Nicola Milano li faceva pervenire alla famiglia di Santa Maria di Gesù.

Della consegna di somme di denaro al Mangano ha parlato anche Francesco Scrima, uomo d'onore dellafamiglia mafiosa di Porta Nuova, che aveva conosciuto Mangano in carcere nel 1975, presentatogli come uomo d'onore.

Il collaborante lo aveva incontrato di nuovo nel 1988-1989 presso il carcere di Palermo "Ucciardone" ed anche in seguito fuori dal carcere presso i fratelli Milano con i quali il Mangano intratteneva rapporti. Mangano aveva parlato a Scrima della propria attività di stalliere svolta ad Arcore negli anni '70 e si era lamentato con lui, nel 1988/1989, del comportamento, che aveva giudicato scorretto, tenuto nei suoi confronti da parte di Ignazio Pullarà, reggente della famiglia S.Maria del Gesù, che si era appropriato delle somme che versava Berlusconi e che Mangano riteneva spettassero a lui.

SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

I pentiti raccontano dei “regali” ai boss con Marcello Dell’Utri mediatore. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani l'11 novembre 2023

La Suprema Corte ha ritenuto definitivamente accertato: «La non gratuità dell'accordo protettivo in cambio del quale sono state versate cospicue somme da parte di Berlusconi in favore del sodalizio mafioso che aveva curato l'esecuzione di quell'accordo essendosi posto anche come garante del risultato»

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In conclusione, con la pronuncia di annullamento, la Suprema Corte ha ritenuto definitivamente accertato - in virtù del giudizio positivo formulato in ordine all'attendibilità soggettiva ed alla esistenza di riscontri reciproci delle dichiarazioni di Di Carlo, Galliano e Cucuzza , collaboranti gravitanti all'interno di" cosa nostra" - i seguenti fatti:

-"l'assunzione - per il tramite del Dell'Utri - di Mangano ad Arcore come la risultante di convergenti interessi di Berlusconi e di "cosa nostra";

- "la non gratuità dell'accordo protettivo in cambio del quale sono state versate cospicue somme da parte di Berlusconi in favore del sodalizio mafioso che aveva curato l'esecuzione di quell'accordo essendosi posto anche come garante del risultato";

-il raggiungimento dell'accordo di natura ''protettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia per il tramite di Dell'Utri che, di quell'assunzione, è stato l'artefice grazie anche all'impegno specifico profuso dal Cinà”. (pag 105)

In relazione ai pagamenti è di particolare rilievo sottolineare che la Corte di Cassazione ha poi condiviso l'operato dei giudici della sentenza annullata nella parte in cui avevano ritenuto che le divergenze dei collaboratori in ordine all'ammontare dei pagamenti (Di Carlo aveva riferito che l'imprenditore aveva versato L. 100.000.000, Galliano aveva dichiarato che la somma, corrisposta a titolo di regalo, era pari a L. 50.000.000 e Cucuzza aveva parlato di un versamento annuo di L. 50.000.000), dovessero essere considerate alla stregua di dettagli, trattandosi di racconti "indiretti" che potevano avere subito "variazioni e/o interpretazioni in occasione dei passaggi di confidenze dall'uno all'altro soggetto" considerato inoltre il notevole lasso di tempo intercorso dalla notizia che era pervenuta Galliano ( dieci anni) e la conclusione dell'accordo.

Il nucleo essenziale che era indiscutibilmente emerso dalle dichiarazioni dei collaboratori e che era rimasto" invariato e ripetuto" - secondo i giudici di legittimità (pag. 105) era costituito dalla "ricerca e dal raggiungimento di un accordo tra Berlusconi e "cosa nostra'' per il tramite di Cinà e di Dell'Utri volto a realizzare una proficua reciproca collaborazione di intenti".

Orbene le condotte fin qui delineate e consistite nella ricerca di un contatto con esponenti di "cosa nostra" al fine del raggiungimento di un accordo tra Berlusconi e l'associazione mafiosa, la mediazione nei pagamenti di somme di denaro da parte dell'imprenditore milanese alla stessa consorteria mafiosa in cambio di una generale protezione, sono state ritenute sintomatiche della fattispecie delittuosa contestata all'imputato di concorso esterno in associazione mafiosa. Sono stati ritenuti significativi i rapporti intercorsi tra Dell'Utri ed esponenti acclaratamente mafiosi come Bontate, Teresi, Mangano e soggetti sostanzialmente mafiosi come Cinà, con i quali ed in favore dei quali l'imputato ha posto in essere condotte risultate utili sia per Berlusconi che per l'intera associazione mafiosa alla quale è stato consentito di mantenere e rafforzare il potere economico ed anche il prestigio tramite il contatto con un imprenditore dell'importanza di Silvio Berlusconi.

Tali rapporti intrattenuti con Bontate, Teresi, Cinà e Mangano da parte di Dell'Utri, per il significato concreto che hanno assunto nella conclusione del patto del 1974, lungi dal rientrare tra quelli definiti dalla Corte di Cassazione nella nota sentenza del 12 luglio 2005, n. 33748, come espressione di relazioni e contiguità sicuramente riprovevoli da un punto di vista etico sociale, ma di per sé estranee all'area penalmente rilevante del concorso esterno in associazione mafiosa, sono stati considerati dalla Corte di Cassazione nella sentenza di annullamento, rilevanti e significativi proprio nella realizzazione della condotta tipica dell'imputato in ordine al delitto contestatogli.

Acclarata la conclusione alla quale era pervenuta la Corte di Cassazione, che aveva attribuito alla condotta del Dell'Utri, nel periodo compreso tra il 1974 e la fine del 1977 una definitiva connotazione di rilevanza penale, deve evidenziarsi che lo stesso giudice di legittimità ha rilevato invece un vizio di motivazione della sentenza della Corte d'Appello sia con riferimento al "periodo di quattro anni almeno in cui Dell'Utri si era allontanato dall'area imprenditoriale berlusconiana ed aveva lavorato alle dipendenze di Rapisarda; sia alla questione del dolo che avrebbe assistito la fase dei successivi pagamenti, fino al 1992.

SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Lontano dal Cavaliere, Marcello cambia lavoro ma non quegli “amici”. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 12 novembre 2023

Malgrado Dell 'Utri avesse deciso di lasciare Berlusconi e fosse andato a lavorare con Rapisarda in contesto imprenditoriale del tutto differente, non ha mai interrotto i suoi rapporti con i soggetti mafiosi, intranei a "Cosa nostra", con cui aveva agito in precedenza

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Affrontando il tema oggetto del giudizio di rinvio, deve in primo luogo esaminarsi la condotta tenuta da Dell 'Utri in seguito al suo allontanamento da Silvio Berlusconi e la sua assunzione alle dipendenze dell'imprenditore Filippo Alberto Rapisarda, periodo in ordine al quale la Corte di Cassazione ha rinvenuto un "vuoto argomentativo per quanto concerne la possibile incidenza di tale allontanamento sulla permanenza del reato già commesso (pag.112). Tanto premesso deve essere evidenziato, seguendo le considerazioni della Suprema Corte nella sentenza di annullamento (pag. 116) e in linea con altre pronunce dello stesso giudice di legittimità (v. anche Cass. 10 maggio 2007, n. 542) che il reato di concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso è un reato permanente, un reato cioè in cui " l'agente ha il potere di determinare la situazione antigiuridica ed anche di mantenerla volontariamente nonché di rimuoverla così dando luogo egli stesso (...) alla riespansione del bene giuridico compresso", pag. 117).

Detto bene giuridico - costituito dall'integrità dell'ordine pubblico - nel caso in esame è stato violato allorché Dell'Utri ha promosso e propiziato quel patto concluso nel 1974 tra Berlusconi, costretto a pagare somme di denaro rilevanti a "cosa nostra" e la stessa associazione che, con tali sicuri e lauti guadagni, ha esteso la propria forza economica ed il proprio potere sostituendosi a sistemi di tutela istituzionali. Deve qui precisarsi dunque che fintantoché il concorrente esterno ha protratto volontariamente l'esecuzione dell'accordo che egli ha voluto e di cui si era fatto garante presso i due poli ai quali si è fatto più volte cenno (Berlusconi da un parte e "cosa nostra" dall'altra) si è manifestata la permanenza del reato posto in essere.

Il dies a quo del reato di concorso esterno è stato individuato - in modo del tutto condivisibile - dalla Suprema Corte nella "realizzazione dell'accordo mafia- imprenditore" ed "era destinato a cessare quando e se fossero cessati i comportamenti che l'imputato teneva in esecuzione dell'accordo (...), sempre ovviamente restando impregiudicata l'analisi de/l'atteggiamento psicologico" (argomento sul quale si ci soffermerà in seguito).

La Corte di Cassazione, seppur evidenziando che la Corte d'Appello con la sentenza annullata, "in linea di principio" uniformandosi ali' orientamento testè richiamato, aveva ancorato la cessazione del concorso esterno di Dell 'Utri al 1992 e cioè alla data di effettuazione degli ultimi pagamenti da parte di Berlusconi alla mafia tramite Dell 'Utri in esecuzione del patto di protezione, ha poi precisato che il suddetto giudice non aveva tenuto conto o comunque non aveva motivato sulle ragioni in base alle quali una prima fase di cessazione della condotta in esame non poteva essere individuata nel periodo 1978- 1982 durante il quale Dell'Utri non era rimasto più alle dipendenze del Berlusconi, soggetto in favore del quale il patto con la mafia era stato stipulato.

Questo giudice del rinvio quindi - in relazione al periodo suindicato (1978-1982) dovrà colmare detta lacuna "ove ricorrano gli elementi, con specifiche indicazioni di quale sia stato il comportamento, nel periodo, da parte di Dell 'Utri, non potendo darsi ingresso a presunzioni basate sulla bontà dei rapporti di amicizia con Berlusconi, rapporti che non provano l'intromissione di Dell 'Utri in affari penetranti per la vita dell'imprenditore dal quale si era allontanato atteso che di ciò non risultano esplicitate neppure la ragione e le modalità concrete del concorso nei versamenti che si dicono comunque avvenuti materialmente dunque anche ad opera di terzi a partire dal 1978 "(pag. 118).

In relazione al protrarsi di detti pagamenti da Berlusconi a "cosa nostra" nel periodo successivo al ritorno di Dell'Utri nell'area imprenditoriale berlusconiana, la motivazione della Corte d'Appello - dal punto di vista oggettivo - essendo logica e congrua aveva superato il controllo di legittimità, "richiedendo invece una opportuna chiarificazione solo se si sia trattato di un prosecuzione senza soluzione di continuità dopo l'allontanamento di Dell'Utri ovvero di una ripresa dopo un 'interruzione".

Questo passaggio della sentenza induce a fare una considerazione. La Corte di Cassazione ha ritenuto che era stato correttamente individuato dai giudici di merito il fatto oggettivo che Berlusconi, dopo il ritorno di Dell'Utri all'interno della propria area imprenditoriale, abbia versato a "cosa nostra" ingenti somme di denaro e ciò fino al 1992 data in cui è stato accertato l'ultimo pagamento; oggetto di esame demandato a questo giudice di rinvio è solo l'esame dell'elemento soggettivo dell'imputato.

Questo Collegio dovrà verificare se s1 sia trattato di una prosecuzione di pagamenti, senza soluzione di continuità, ovvero se vi sia stata un'interruzione durante il periodo di attività lavorativa svolta presso Rapisarda e poi una successiva ripresa al momento del ritorno di Dell'Utri dall'amico Berlusconi. Sarà necessario, in altri termini verificare - propno per la riconosciuta natura permanente del reato di concorso esterno - se Dell 'Utri, nel periodo in cui è stato alle dipendenze di Rapisarda, abbia palesato condotte che abbiano manifestato una sua precisa volontà di allontanarsi non solo dall'attività imprenditoriale berlusconiana, ma anche e soprattutto da quel contesto mafioso criminale con il quale era sceso a patti, favorendo un accordo che, se da un lato aveva garantito all'imprenditore amico protezione, dall'altro aveva rafforzato e conservato il sodalizio mafioso. E' stato già rilevato che la condotta che ha espresso il concreto, specifico, consapevole e volontario contributo dell'imputato è stato quello di mediare tra gli interessi di esponenti di spicco di cosa nostra e Berlusconi, favorendo la conclusione dell'accordo milanese del 1974.

I rapporti con tali esponenti di "cosa nostra" (Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Gaetano Cinà e Vittorio Mangano), protagonisti dell'accordo milanese che ha sancito l'inizio della condotta di concorso esterno per l'imputato, non rientrano tra le "relazioni e contiguità sicuramente riprovevoli da un punto di vista etico e sociale, ma di per sé estranee tuttavia ali 'area penalmente rilevante del concorso esterno in associazione mafiosa" ( SS.UU Cass. 12 luglio 2005, 33748, Mannino). Tali rapporti con i soggetti appena citati sono stati ritenuti penalmente rilevanti e significativi. Sono stati invero i rapporti con costoro che hanno consentito di attribuire a Dell 'Utri la veste di concorrente esterno ed è proprio all'associazione mafiosa di cui i soggetti appena citati facevano parte, con ruoli diversi, che Dell'Utri ha fornito un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo che ha avuto l'effettiva rilevanza causale ai fin della conservazione e del rafforzamento delle capacita operative di "cosa nostra".

Orbene, deve rilevarsi che la disamina delle condotte tenute da Dell'Utri ha dimostrato, a parere del Collegio (che poi si soffermerà anche sulla effettività della prosecuzione dei pagamenti in favore di "cosa nostra" anche durante detto periodo) che, malgrado Dell 'Utri avesse deciso di lasciare Berlusconi e fosse andato a lavorare con Rapisarda in contesto imprenditoriale del tutto differente, non ha mai interrotto i suoi rapporti con i soggetti mafiosi, intranei a "cosa nostra", con cui aveva agito in precedenza. Dell'Utri, in altre parole, non ha mai cessato la sinergia con quei partecipi interni a "cosa nostra" che lui - seppur a fronte di accertati rapporti - ha sempre negato di conoscere (Teresi e Bontate) o con cui aveva rinnegato di avere avuto legami di amicizia ( Mangano) o con i quali ha affermato di avere condiviso nient'altro altro se non una comune passione per il calcio ed un'amicizia dai profili affatto illeciti (Cinà).

Quella sinergia è proseguita anche dopo il suo allontanamento da Rapisarda e si è interrotta (attenendosi al limite segnato dal decisum della Suprema Corte) nel 1992 e ad essa - per i motivi che saranno spiegato in seguito- sono stati sempre coniugati i pagamenti di Berlusconi di somme di denaro alla stessa consorteria mafiosa. Appare necessario - al fine di spiegare l'irrilevanza che per Dell’Utri ha avuto il periodo di lavoro con Rapisarda nei suoi comportamenti nei confronti dei soggetti che con lui avevano concluso il patto del 1974 – prendere le mosse dalla genesi del suo rapporto di lavoro con Filippo Alberto Rapisarda.

SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

La raccomandazione mafiosa per farlo assumere dall’immobiliarista Rapisarda. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 13 novembre 2023

Dopo avere chiarito la propria consapevolezza dei legami mafiosi che aveva Cinà, Rapisarda ha ammesso di avere dovuto assumere Dell'Utri (Rapisarda: "avevo del timore'') proprio perché era consapevole del gruppo mafioso che vi era dietro Cinà

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Marcello Dell'Utri era andato a lavorare dall'imprenditore Filippo Alberto Rapisarda alla fine del 1977 dopo avere lasciato l'incarico di segretario personale del Berlusconi. Rapisarda, in quegli anni, era a capo di uno dei maggiori gruppi immobiliari italiani che comprendeva: la Bresciano s.p.a. (società della quale Dell'Utri veniva nominato amministratore delegato, come dichiarato dallo stesso imputato all'udienza del 26 giugno 1996); la Cofire s.p.a. (Compagnia Fiduciaria di Consulenze e Revisione) della quale Dell'Utri era divenuto consigliere; la Inim s.p.a (Internazionale Immobiliare) costituita dopo l'assunzione del concordato fallimentare della Facchin e Gianni, di cui Rapisarda era socio al 60per cento insieme ad Alamia Francesco Paolo socio al 30per cento e Caristi Angelo socio al 10per cento (v. dich. di Rapisarda) e tra i cui consiglieri vi erano Marcello e Alberto Dell'Utri.

Appare necessario mettere immediatamente in evidenza che, malgrado vi fosse stato un netto cambiamento nella vita lavorativa di Dell'Utri, quest'ultimo non aveva in alcun modo deciso di mutare il suo rapporto con gli esponenti mafiosi con cui aveva concluso il patto, volendo in modo del tutto consapevole fornire il proprio contributo di mediatore - concorrente esterno al fine di garantire la permanenza degli effetti del suddetto patto. Ogni tentativo di intravedere un atteggiamento diverso e non omogeneo alle condotte che la giurisprudenza costante della Corte di Cassazione ha ricondotto nell'alveo del delitto di cui agli artt. 11 O, 416 bis c. p. è del tutto vano.

Anche lontano dall'area imprenditoriale di Berlusconi, Dell'Utri ha continuato ad interagire con gli esponenti di "cosa nostra" con i quali è stato accertato definitivamente ha commesso il delitto di concorso esterno in associazione, mantenendo con loro rapporti acclaratamente rilevanti dal punto di vista penale. E non solo.

L'imputato ha tenuto nei confronti degli stessi soggetti mafiosi la medesima cordialità autentica senza dare alcun segnale concreto e serio di un voluto e deciso distacco. Condividendo le argomentazioni della Corte di Cassazione, nella trattazione del periodo in esame, non si farà alcun cenno, al fine di spiegare le ragioni per le quali si ritiene che vi sia stata una permanenza della condotta delittuosa di concorrente esterno, ai rapporti di amicizia con l'imprenditore Berlusconi che invero ben potevano essere mantenuti anche in un momento in cui le strade professionali si erano divise.

Quel che si vuole sottolineare è che, in primo luogo, trattandosi di reato permanente nel quale il contributo causale del concorrente non si esaurisce in una prestazione precisa ed occasionale, ma si svolge in un arco di tempo rilevante, mai è stata registrata nel periodo in esame una condotta che abbia solo fatto dubitare che Dell'Utri, andato a lavorare da Rapisarda, abbia voluto rimuovere la situazione antigiuridica iniziata nel 1974 con il patto mafioso al quale lui aveva partecipato e che aveva promosso.

Già la genesi del rapporto di lavoro con Rapisarda è assolutamente significativa del valore attribuito da Dell'Utri ai rapporti di protezione mafiosa. Marcello Dell'Utri, dopo avere lavorato con Berlusconi per diversi anni ed essendo certamente consapevole delle sue doti personali, doti che gli consentiranno di realizzare i progetti imprenditoriali e politici sicuramente significativi nella storia italiana, ha ritenuto che il suo curriculum personale e la sua sola presenza, non erano sufficienti a impressionare positivamente l'imprenditore Rapisarda e per questo motivo si era fatto accompagnare da Gaetano Cinà, che lui ben sapeva essere se non ritualmente mafioso, sicuramente vicino o contiguo a "cosa nostra".

Escludendo che la presenza di Cinà sia stata collegata a eventuali intenzioni delle consorteria mafiosa di riciclare denaro nelle imprese di Rapisarda, tramite Dell'Utri (già la Corte d'Appello nella sentenza annullata ed Tribunale nel giudizio di primo grado, avevano negato qualsiasi condotta di riciclaggio di Dell'Utri nelle imprese del Rapisarda), ciò che assume rilievo è il dato incontrovertibile che Dell'Utri si è presentato da Rapisarda con Cinà, senza un'apparente ragione.

Il 5 maggio 1987, nell'ambito di altro processo svoltosi a Milano per il fallimento della società Bresciano ed anche il 22 settembre 1998, nel corso delle dichiarazioni rese nel presente giudizio dinanzi al Tribunale, Rapisarda ha riferito di avere assunto Dell'Utri su richiesta di Cinà, che aveva conosciuto insieme a Bontate ed a Teresi e che, consapevole dunque delle frequentazioni mafiose intrattenute da Cinà, non si era sentito di negargli il favore.

Lo stesso Rapisarda ha dichiarato di avere conosciuto tempo prima, "tra il '75 ed il '76" Dell'Utri tramite la cognata del Prof. Giacomo Delitala. Nel 1977, forse in primavera (Rapisarda: "in primavera credo”), Cinà e Dell'Utri erano andati da lui e gli avevano rappresentato la situazione di grave crisi che attraversava Berlusconi. Era stato in quell'occasione che Cinà gli aveva detto che i fratelli Dell'Utri dovevano lavorare (Rapisarda: " ( .. )Dopo qualche giorno venne con Marcello Dell'Utri; P .M.: "Venne chi? "; Rapisarda:" Cinà (. .) portò Marcello Dell'Utri e mi disse che lui doveva lavorare perché da Berlusconi in questo momento va tutto male, non prendono soldi e Berlusconi sta per ... non ha possibilità. Questa era ... e per questo passò subito da me''). Dopo avere chiarito la propria consapevolezza dei legami mafiosi che aveva Cinà, Rapisarda ha ammesso di avere dovuto assumere Dell'Utri ( Rapisarda: "avevo del timore'') proprio perché era consapevole del gruppo mafioso che vi era dietro Cinà.

Aveva poi ribadito le medesime motivazioni che avevano determinato l'assunzione di Dell'Utri nel corso del giudizio dinanzi al Tribunale in cui aveva dichiarato che non se l'era sentita di dire di no a Cinà per il timore che nutriva nei suoi confronti ( Rapisarda:"Non me lo sono sentita di dirgli di no(..) perché avevo del timore"; P.M.:" perché?"; Rapisarda:" e cosa vuole un ambiente di quel genere lì, lei gli dice no e diventa un 'offesa, io memore ... ricordo di Palermo che appena uno diceva no a uno di questi diventava un 'offesa"v. dichiarazioni rese all'udienza del 22 settembre 1998, cit. ). Rapisarda era infatti consapevole che Teresi e Bontate facevano parte di "quell'ambiente mafioso " e per questo motivo non aveva mai voluto avere contatti con loro. Riteneva che Cinà appartenesse alla " famiglia" di Stefano Bontate. (Rapisarda: "Guardi allora le dico che Stefano .. Tanino Cinà fa parte della famiglia di Stefano Bontate, perciò è inutile che ..'').

Rispondendo alla richiesta di chiarimento formulata dal P .M. sul significato che doveva attribuirsi al temine "famiglia" il Rapisarda aveva spiegato che tale significato era collegato all'emisfero dei rapporti mafiosi (Rapisarda: "che le famiglie sono le famiglie mafiose") e ricordava tuttavia che tra Cinà e Bontate esistevano anche rapporti familiari di diverso tipo. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Minacce e picciotti, le “vanterie” di Dell’Utri per non farsi dire di no. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 14 novembre 2023

Dell'Utri: «Ritornando alla domanda dell'Ufficio riguardante le minacce a Berlusconi e la mia presunta mediazione presso mafiosi, debbo dire che io queste cose a Rapisarda le dissi; dissi che avevo mediato tra gli autori delle minacce e Berlusconi ma lo dissi per vanteria. Rapisarda si vantava di conoscere questo e quello, io feci la stessa cosa. Rapisarda si vantava di essere amico dei Bono».

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Dell'Utri, sentito nell'ambito dello stesso processo "Bresciano" il 20 magg10 1987 (in ordine alle ragioni dell'utilizzabilità dell'interrogatorio acquisito dal Tribunale all'udienza del 18 marzo 2003, si rinvia alle considerazioni svolte nel paragrafo dedicato nella sentenza della Corte d'appello, pagg. 143-149, che questo Collegio condivide integralmente e peraltro non hanno costituito oggetto di specifico motivo di ricorso dinanzi alla Suprema Corte), ha confermato di avere iniziato a lavorare nel gruppo societario del Rapisarda negli uffici di Via Chiaravalle, nell'ottobre del 1977.

Aveva deciso di lasciare la Edilnord e Berlusconi perché dal Rapisarda guadagnava il doppio ed aveva un maggiore spazio di iniziativa e di autonomia, in quanto da Berlusconi svolgeva l'attività di" segretario personale" e non un'attività "dirigenziale o di qualsiasi livello nel campo edilizio ".

Dell 'Utri ha ricordato che aveva rivisto Rapisarda "prima dell'estate del 1977'' forse presso gli uffici di quest'ultimo a Milano dove era stato accompagnato da Marcello Caronna ed in seguito in occasione di un pranzo sempre prima dell'estate del 1977.

Nel settembre dello stesso anno si erano incontrati ancora ed era stato allora che Rapisarda gli aveva manifestato il suo entusiasmo per l'acquisto della Bresciano s.p.a. che lui aveva ritenuto un ottimo affare. Già nel gennaio del 1978, tuttavia, Rapisarda si era reso conto che la società non poteva lavorare perchè mancavano i soldi e lui non poteva più impegnarsi.

Il 26 giugno 1996 Dell 'Utri, nel corso delle indagini preliminari relative al presente processo, ha dichiarato che Gaetano Cinà lo aveva accompagnato da Rapisarda, ma ha negato che il primo lo avesse raccomandato, così come aveva dichiarato Rapisarda che lui reputava un megalomane. ( Dell'Utri:" "E' vero che io e Cinà andammo da Rapisarda. (...) Non è vero che Cinà ci (Dell 'Utri si riferiva al fratello Alberto ed al Marcello Caronna) abbia raccomandati a lui.

Il Rapisarda è una persona megalomane"(...) " E' vero che sono stato designato dal Rapisarda amministratore delegato di una società del suo gruppo, la Bresciano s.p. a ma non è vero che Rapisarda lo fece su sollecitazione del Cinà. Anzi Cinà mi diceva che ero pazzo a lasciare Berlusconi per andare a lavorare con il Rapisarda'').

Orbene, appare del tutto singolare che Dell 'Utri, laureato presso l'Università Statale di Milano, che aveva svolto un'attività lavorativa presso la Cassa di Risparmio per le Province Siciliane e che dal 1973 aveva iniziato a lavorare con Berlusconi a Milano, avesse scelto proprio il titolare di una lavanderia per recarsi da Rapisarda e che abbia individuato in Cinà, non solo il soggetto con cui partecipare ad incontri di mafia, ma l'interlocutore con cui discutere delle proprie scelte lavorative.

E' lo stesso imputato che ha affermato di avere parlato con Cinà della proposta di lavoro del Rapisarda e che Cinà lo aveva sconsigliato di andare a lavorare da quell'imprenditore (Dell'Utri: " ..quando Cinà mi dice : "io lo conosco questo tizio, è un truffaldino" gli dico " vieni con me che se lo conosci, te lo faccio vedere se è lui, ma io penso che tu sbagli persona. Questo qui sta in un palazzo principesco" v. dich. spont. 29 novembre 2004, cit).

Appare indiscutibile che la presenza di Cinà abbia palesato ancora una volta il fatto che Dell'Utri abbia fatto ricorso ad un soggetto notoriamente collegato ad ambienti mafiosi per realizzare senza difficoltà gli obiettivi che si era prefissato.

La ragione di simile accompagnamento dunque non può che essere spiegata con la consapevolezza che aveva l'imputato dell'effetto convincente che la presenza di Cinà avrebbe avuto su Rapisarda che difatti, come dichiarato dallo stesso Dell'Utri era rimasto "impressionato" dal suo accompagnatore (Dell'Utri: "Siamo andati a trovarlo ed ho riscontrato che effettivamente si conoscevano ed il Rapisarda è rimasto anche impressionato di vedere che era con me Cinà" (v. dich. spontanee cit.

Che l'impressione di Rapisarda nel vedere arrivare Dell'Utri con Cinà era determinata dai legami di quest'ultimo con la consorteria mafiosa, di cui Rapisarda era consapevole, è testimoniato (non solo dalle chiare ammissioni dello stesso imprenditore), ma anche da quanto riferito dallo stesso Dell'Utri che nel corso delle spontanee dichiarazioni del 20 novembre 2004. Dell'Utri spiegando le affermazioni di Rapisarda che aveva asserito che l'imputato gli aveva detto di conoscere esponenti mafiosi essendosi interessato di mediare tra questi ultimi che minacciavano Berlusconi, e lo stesso Berlusconi, ha affermato, in modo del tutto inverosimile che lo aveva fatto per vantarsi e non essere da meno del Rapisarda.

Appare rilevante evidenziare la circostanza che Dell'Utri, uomo di indiscutibile intelligenza e - cosi come è risultato dalle sue dichiarazioni e dalle considerazioni svolte dalla difesa - dotato di un personale patrimonio culturale, giustificando quanto aveva riferito a Rapisarda in ordine ai suoi rapporti con esponenti mafiosi, ha spiegato che si era trattato solo di una "vanteria".

Deve dunque essere sottolineato con riferimento ai rapporti intrattenuti dall'imputato con soggetti mafiosi, che Dell'Utri ha ritenuto di "vantarsi" di simili contatti non reputandoli dunque frequentazioni riprovevoli e delle quali invece non vi sarebbe stata alcuna ragione di fame cenno e meno che mai di vantarsene (Dell'Utri: (...) ritornando alla domanda dell'Ufficio riguardante le minacce a Berlusconi e la mia presunta mediazione presso mafiosi, debbo dire che io queste cose a Rapisarda le dissi; dissi che avevo mediato tra gli autori delle minacce e Berlusconi ma lo dissi per vanteria.

Rapisarda si vantava di conoscere questo e quello, io feci la stessa cosa. Rapisarda si vantava di essere amico dei Bono "( v. dich. del 26 giugno 1996). Che poi Dell'Utri, come lo stesso aveva dichiarato, si era presentato da Rapisarda con Cinà per dimostrargli che non poteva essere lui quel truffaldino di cui Cinà gli aveva parlato è assolutamente inverosimile, ma tuttavia dimostra la considerazione m cm Dell 'Utri teneva Cinà.

Dell'Utri, dunque, coinvolgendo Cinà, ha dimostrato di non avere interrotto i legami con colui che gli aveva consentito di entrare in contatto con il boss Stefano Bontade e che aveva partecipato alla conclusione del patto scellerato del 1974. Appare evidente allora che non assume alcun rilievo la considerazione della difesa che ha sottolineato che non era stato Cinà ad "introdurre" Dell'Utri presso il Rapisarda, in quanto i due erano stati presentati nel 1975 dalla cognata del professor Giacomo Delitala.

Detta circostanza - riferita anche dallo stesso Rapisarda - non incide in alcun modo sui motivi già evidenziati sottesi alla decisione di farsi accompagnare da Cinà, motivi che attengono all'atteggiamento, mai mutato di Dell 'Utri, nei confronti di coloro con i quali aveva stretto il patto di protezione del 1974. Né può affermarsi dunque che l'avere deciso di farsi accompagnare da Cinà poteva essere considerato un fatto rimproverabile sul piano "per così dire etico", ma non rilevante sul piano penale, come ha proposto la difesa ( che ha peraltro sottolineato che Cinà era estraneo all'associazione).

Ed invero - al di là di ogni considerazione sulla mafiosità di Cinà che peraltro è stato condannato in questo processo per i delitti di cui agli artt. 416 e 416 bis c.p., proprio per gli inequivocabili comportamenti mafiosi che aveva assunto negli anni- quel che deve essere messo in evidenza è Cinà è uno di quei soggetti appartenenti a "cosa nostra" con i quali Dell 'Utri ha agito quale concorrente esterno al fine di realizzare il fatto criminoso collettivo in virtù del patto del 1974.

L'aver continuato mantenere rapporti con quest'ultimo non può essere relegato alla sfera dei rapporti sconvenienti dal punto di vista etico, assumendo (rectius: mantenendo) viceversa il significato penalmente rilevante, sotto il profilo dell'assenza di condotte significative della volontà di interrompere la permanenza del delitto contestatogli. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Il ritorno del “figliol prodigo”, Marcello ancora alla corte del Cavaliere. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 15 novembre 2023

La durata dell'allontanamento del tutto irrilevante dal gennaio del 1978 al 1980/1981 e l'atteggiamento assunto da Dell 'Utri nei confronti di coloro che erano stati i protagonisti del patto del 1974, consentono di affermare che detta parentesi lavorativa non ha assunto un particolare rilievo nella vita di Dell'Utri

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

La Cassazione, ha individuato il periodo in cui Dell 'Utri era andato a lavorare per Rapisarda abbandonando l'area imprenditoriale di Berlusconi, nel quadriennio compreso tra l'inizio del 1978 ed il 1982. Deve rilevarsi che l'impegno professionale di Dell'Utri presso la Bresciano s.p.a. è stato in effetti di gran lunga inferiore.

Dell'Utri, infatti, ha dichiarato (v. dich. del 20 maggio 1987) che già dopo due mesi dall'inizio del suo nuovo lavoro si era reso conto del fatto che il destino della Bresciano era già segnato e che la società era destinata a fallire; anche Rapisarda già nel gennaio del 1978 aveva capito che la società non poteva lavorare perché mancavano i finanziamenti. Il 26 giugno 1996 lo stesso Dell'Utri ha dichiarato di essere stato amministratore delegato della Bresciano s.p.a. dal gennaio 1978 sino alla fine del 1979 allorché la società era fallita e di non avere avuto ''più niente a che fare con aziende e società del gruppo Rapisarda" dopo avere esaurito la propria attività di curatore fallimentare. Ed ancora nel corso della telefonata del 14 febbraio 1980 Dell 'Utri, parlando con Vittorio Mangano dall'Hotel Duca di York , aveva manifestato la propria preoccupazione per la situazione grave in cui lui si trovava a seguito del fallimento della società e delle vicissitudini in cui era incorso il fratello Alberto (Dell'Utri: " Ho dovuto pagare per mio fratello soltanto otto milioni solo per la perizia contabile, sto uscendo pazzo poi ho bisogno di soldi per me per gli avvocati perché sono nei guai ... perché sempre il discorso del pazzo là ( ... ) l'ufficio non c'è più l'ho levato. Dov'ero prima io lei ci venne. La società fallita, è venuto il Tribunale, curatore sigilli, eccetera ed hanno chiuso tutto .. e quindi sono in mezzo ad una strada'').

Va ancora evidenziato che Rapisarda, per sfuggire ai provvedimenti restrittivi per il fallimento della società Venchi Unica, nel 1979 ( il 16 febbraio 1979, secondo quanto dichiarato dallo stesso Rapisarda) si era recato in Venezuela. In seguito era andato in Francia dove - dopo essere stato ospitato da un amica bulgara- era andato a vivere in una casa che aveva affittato Alberto Dell 'Utri in Avenue Foch a Parigi. Secondo quanto riferito da Rapisarda , nei primi mesi del 1980 Dell 'Utri lo aveva incontrato a Parigi all'Hotel George V ; nella stessa occasione Dell'Utri aveva dato appuntamento a anche Bontade e Teresi. Era stato allora che Rapisarda aveva sentito Dell'Utri chiedere ai due boss mafiosi 20 miliardi di lire per l'acquisto di film per Canale 5.

Le dichiarazioni di Rapisarda possono ritenersi attendibili in ordine al suo allontanamento in Venuezuela ed in Francia, abbandonando dunque l'Italia, per sfuggire all'arresto sia in relazione all'incontro con Dell'Utri. Deve in primo luogo rilevarsi che lo stesso Dell 'Utri ha dichiarato di essere a conoscenza di detti luoghi di latitanza affermando (v.int del 26 giugno 1996) che, a seguito del fallimento della Venchi Unica 2000, il fratello Alberto era stato arrestato e che Rapisarda era andato m Venezuela.

Detta circostanza era basata su una sua personale deduzione atteso che un atto di vendita, concluso nel periodo in cui Rapisarda era latitante con alcuni soggetti venezuelani, era stato stipulato in Venezuela. Aveva poi saputo da alcuni funzionari della Questura di Roma che Rapisarda era andato in Francia e che aveva utilizzato il passaporto del fratello Alberto (v. int 26 giugno 1996). Anche Giorgio Bressani, che aveva svolto il ruolo di direttore di cantieri di Rapisarda, all'udienza del 21 maggio 2001 nel dibattimento di primo grado ha riferito di avere conosciuto Marcello Dell 'Utri ed ha parlato della fuga con Rapisarda in Venezuela e degli incontri di Rapisarda con Dell'Utri a Parigi durante la sua latitanza. Orbene ciò che interessa rilevare e che può considerarsi accertato è che nel febbraio del 1979 Rapisarda ha abbandonato l'Italia e le sue attività lavorative per non essere arrestato.

Ed ancora deve essere evidenziato che lo stesso Dell 'Utri, nel corso delle spontanee dichiarazioni del 29 novembre 2004, seppur formalmente riassunto da Berlusconi l' 1 marzo 1982 , ha dichiarato che il rapporto di lavoro con Rapisarda era finito nel 1980 e che era tornato da Berlusconi alla fine del 1980/1981 (Dell'Utri:" .. io sono tornato da Berlusconi nell '80, nell '81 per la precisione, a fine '80, quanto è finita l'avventura Rapisarda ") Alla luce delle suddette circostanze ( il fallimento della Bresciano, la latitanza dell'imprenditore Rapisarda nel 1979, le stesse ammissioni di Dell'Utri) può affermarsi che il rapporto lavorativo di Dell'Utri con Rapisarda non era in realtà durato "quattro anni" fino al 1982, ma si era di fatto interrotto nel 1980.

La durata dell'allontanamento del tutto irrilevante (dal gennaio del 1978 al 1980/1981) e l'atteggiamento assunto da Dell'Utri nei confronti di coloro che erano stati i protagonisti del patto del 1974, consentono di affermare che detta parentesi lavorativa non ha assunto un particolare rilievo nella vita di Dell'Utri che difatti, poco dopo, senza mai interrompere i rapporti né con gli esponenti mafiosi di riferimento né con l'amico Berlusconi, tornava a lavorare con quest'ultimo, senza mai avere smesso di fare da tramite l'imprenditore e "cosa nostra". SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Il racconto di Calderone, la cena al ristorante fra i boss e Dell’Utri. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 16 novembre 2023

Calderone ha dichiarato di avere effettuato soprattutto con il fratello alcuni viaggi a Milano per individuare i soggetti che dovevano essere eliminati nel contesto di una guerra di mafia che si stava consumando a Catania. In occasione di uno di essi aveva partecipato insieme a Nino Grado e Vittorio Mangano, era presente anche Dell'Utri. Calderone ha ricordato che Mangano gli aveva presentato l'imputato come il suo "principale"

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La Corte di Cassazione con la sentenza di annullamento ha ritenuto che la Corte d'appello aveva reso una motivazione ampia e logica sulla "natura e la qualità dei rapporti che Dell'Utri ha dimostrato di continuare ad intrattenere con Mangano e con Cinà, anche dopo l'allontanamento del primo dalla villa di Arcore: rapporti che la Corte ha argomentato sulla base di elementi oggettivi (colloqui telefonici, partecipazione a cene e ad un matrimonio ) essere stati - quantomeno nella relativa fase temporale - di natura assolutamente opposta a quella che connota il rapporto tra l'estorto (asseritamente Dell'Utri) e l'estortore ( cosa nostra) (pag. 108).

Prima di procedere all'esame della telefonata avvenuta il 14 febbraio 1980 tra Dell'Utri e Mangano e ribadendo le considerazioni della Corte di Cassazione che ha ritenuto del tutto estranea ai rapporti tra Dell 'Utri e Mangano ogni connotazione di costrizione del rapporto e di timore del primo nei confronti del secondo, deve mettersi in evidenza la ininterrotta prosecuzione dei suddetti rapporti anche dopo l'allontanamento di Mangano da Arcore.

In detto periodo e cioè dopo l'allontanamento di Mangano da Arcore, ma prima dell'inizio dell'attività lavorativa di Dell'Utri da Rapisarda, si colloca la cena al ristorante milanese "Le colline pistoiesi". Di essa ha parlato Antonino Calderone, uomo d'onore della famiglia mafiosa di Catania, che dal 1975 aveva accompagnato il fratello Giuseppe che era a capo dell'organismo direttivo di "cosa nostra" a Milano. Calderone, ha dichiarato di avere effettuato soprattutto dal 1975 con il fratello alcuni viaggi a Milano per individuare i soggetti che dovevano essere eliminati nel contesto di una guerra di mafia che si stava consumando a Catania.

In occasione di uno di essi aveva partecipato nel 1976 (forse il 24 ottobre 1976, giorno del suo 41 A compleanno), presso il ristorante già richiamato, insieme a Nino Grado e Vittorio Mangano, era presente anche Dell'Utri. Calderone ha ricordato che Mangano gli aveva presentato l'imputato come il suo "principale". L'episodio - confermato da Dell'Utri che tuttavia aveva riferito che Mangano gli aveva presentato dei suoi amici senza fargli il nome - era stato considerato dalla Corte d'Appello, con motivazione ritenuta dalla Corte di Cassazione "ampia e logica", come segno della continuità dei rapporti tra Dell'Utri e Mangano che avevano una natura del tutto diversa da quella esistente tra vittima ed estortore e cioè di natura cioè consuetudinaria e progettuale oltre che sintomatica di una affidabilità reciproca degli interlocutori". (v. pag 108 sent. Cassazione)

La stessa natura consuetudinaria e progettuale era stata attribuita ai "colloqui telefonici" intercorsi tra gli stessi protagonisti. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

E in una telefonata lo “stalliere” propone un affare al suo “principale”. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 17 novembre 2023

Passando adesso all'esame della telefonata intercorsa tra Dell'Utri e Mangano dall'utenza telefonica dell'Hotel Duca di York di Milano, in uso al Mangano, nel febbraio del 1980, deve immediatamente rilevarsi che tale chiamata ha palesato la precisa volontà di Dell'Utri di non interrompere la consuetudine e la progettualità del rapporto intercorso con Mangano

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Passando adesso all'esame della telefonata intercorsa tra Dell'Utri e Mangano dall'utenza telefonica dell'Hotel Duca di York di Milano, in uso al Mangano, nel febbraio del 1980, e dunque nel periodo in esame in cui Dell'Utri si era allontanato dall'area imprenditoriale di Berlusconi, deve immediatamente rilevarsi che tale chiamata ha palesato la precisa volontà di Dell'Utri di non interrompere la consuetudine e la progettualità del rapporto intercorso con Mangano e soprattutto la permanenza del medesimo atteggiamento psicologico dell'imputato nei confronti di coloro che, come Mangano, erano collegati al patto mafioso di protezione concluso nel 1974 con "cosa nostra".

Deve rilevarsi che Dell 'Utri avrebbe avuto innumerevoli motivi per interrompere il rapporto con Mangano, peraltro nel periodo in cui quest'ultimo si era allontanato da Arcore (deve essere rammentato inoltre che Mangano era stato arrestato il 27 dicembre 1974, per espiare una pena definitiva relativa ad una condanna per truffa e scarcerato il 22 gennaio 1975 si era allontanato da Arcore) e Dell'Utri aveva smesso di lavorare per l'imprenditore Berlusconi per andare da Rapisarda.

Il rapporto, però, prescindeva da connotazione personali (quali ad esempio la risalente conoscenza ai tempi della squadra di calcio Bacigalupo di cui Dell'Utri era presidente e che Mangano seguiva per passione) ed aveva sullo sfondo il ruolo che a Mangano era stato assegnato da Bontade all'esito della riunione del 1974 e che Dell'Utri aveva promosso.

Deve essere rammentato che Mangano è stato assunto ad Arcore proprio su indicazione di Dell 'Utri e che detta presenza - a seguito delle decisioni prese alla riunione milanese del 1974 - ha assunto il significato di assicurare un presidio mafioso all'interno di Villa Casati al fine di proteggere l'imprenditore Silvio Berlusconi (fatto ormai accertato in modo definitivo a seguito della sentenza della Corte Cassazione, malgrado le dichiarazioni di diverso tenore rese dall'imputato il 26 giugno 1996 nel corso delle quali seppur ammettendo di avere fatto assumere Mangano ad Arcore ha negato che quest'ultimo aveva avuto il compito di proteggere Berlusconi ed i suoi familiari, dichiarando che doveva essere adibito solo all'allevamento dei cavalli ed alla cura delle piante).

Fin dalle spontanee dichiarazioni rese all'udienza del 29 novembre 2004 l'imputato ha sottolineato in maniera chiara che Mangano - a differenza di Cinà - non era suo amico (Dell'Utri: " Il Mangano non è mai stato un mio amico nel senso di frequentazione, un conoscente perché veniva lì come tanti tifosi e padri di ragazzi venivano a seguire le partite la domenica ( ... ) mentre per me il Cinà è stato un amico''). Tuttavia, ha sempre mostrato nei suoi confronti una assoluta cordialità che era sicuramente conosciuta da "cosa nostra" che, proprio per il rapporto che Mangano aveva con Dell'Utri, aveva revocato la condanna a morte che era stata decisa da Bagarella. Quest'ultimo, invero, aveva deciso di graziarlo proprio per la sua amicizia con Dell'Utri, a sua volta amico di Berlusconi, imprenditore in continua ascesa e che, in seguito, avrebbe manifestato anche una speciale versatilità anche nel mondo della politica: Mangano era dunque per il boss Bagarella ancora utile.

Non è in alcun modo significativo l'assunto della difesa secondo la quale il contenuto della conversazione intercorsa tra Mangano e Dell'Utri era privo di valore atteso che i due interlocutori avevano parlato di "un argomento di nessuna rilevanza ai fini dell'imputazione (la vendita di un cavallo)" , atteso che da un lato il contenuto del dialogo contiene riferimenti e frasi che assumono invece un preciso significato al fine di provare la permanenza dell'atteggiamento dell'imputato e la sua prosecuzione dei rapporti con i soggetti con i quali aveva concluso il patto di protezione; dall'altro che il tono del dialogo ha lasciato trasparire una continuatività dei contatti tra i due interlocutori ed una progettualità comune non dissimile a quella che era esistita nel 1974.

Dell'Utri, invero, si era rivolto al Mangano con un tono tipico di rapporti, per usare le stesse parole della Corte di Cassazione di "natura consuetudinaria e progettuale" ( pag. 108), e che appartiene a coloro che non hanno mai interrotto i loro rapporti (Dell 'Utri : "Chi mi disturba? lo stavo lavorando qua, per cui ... Dov'è, dov'è?"; Mangano : "Sono in albergo. Ha telefonato Tony Tarantino?"; Dell'Utri: "Mah, ieri c'ho parlato. Avevo telefonato io, però"; Mangano: "Oggi doveva telefonare per darci l'appuntamento per me"; Mangano: "Esatto, mi disse che alle quattro mi chiamava"; Mangano: "Alle 4. lo invece, siccome forse lui deve andare fuori, comunque ... "; Dell'Utri: "eh") e che intendono costruire progetti comuni (Mangano : "Eh, ci dobbiamo vedere?: Dell'Utri: "Come no? Con tanto piacere"; Mangano: "Perché io le devo parlare di una cosa ... "; Dell'Utri:" Benissimo"; Mangano: "Anzitutto un affare"; Dell'Utri: "Eh beh, questi sono bei discorsi").

Il frammento del dialogo che rileva, al fine di poter affermare che l'allontanamento per un periodo peraltro di gran lunga inferiore al quadriennio indicato dalla Corte di Cassazione, dall'area imprenditoriale berlusconiana è stato del tutto insignificante sulla permanenza del reato già commesso, è quello in cui Mangano ha indicato Berlusconi come il datore di lavoro (''principale'') di Dell'Utri in un periodo (1980) in cui quest'ultimo era formalmente alle dipendenze di Rapisarda. Per Mangano, che ha dimostrato di avere mantenuto i contatti con Dell'Utri e che era messo a parte da quest'ultimo anche delle vicissitudini del fratello Alberto e della società in cui lo stesso Dell'Utri aveva lavorato con Rapisarda, Berlusconi in quel momento (1980) era ancora il "principale" di Dell'Utri (Mangano: "Ne hai tanti di soldi. Non buttatevi indietro"; Dell'Utri: "No, no, non scherzo! Sono veramente in condizioni di estremo bisogno"; Mangano: "Vada dal suo principale! Silvio!").

Sempre nel corso della medesima conversazione, i due interlocutori hanno fatto riferimento a Cinà e a luoghi soliti di incontro ( "Mangano: "va bene a che ora ci vediamo'"; Dell'Utri: "Quando dice lei''; Mangano: "No, va bene"; Dell'Utri: "Dov'è lei. Al solito in Via Moneta"'; Mangano: "Eh si"; Dell'Utri: "(..) e allora telefona a Tonino (nel corso del suo interrogatorio del 26 giugno 1996 Dell'Utri ha identificato "Tonino" nell'amico Gaetano Cinà affermando che la trascrizione del nome era inesatta e che lui ed il Mangano avevano parlato di "Tanino" Cinà).

Orbene, emerge con tutta evidenza che Dell'Utri, seppur nel periodo in cui si era allontanato professionalmente da Berlusconi, aveva continuato ad avere contatti con Mangano e Cinà, non mostrando alcun comportamento indicativo della volontà di porre fine all'esecuzione dell'accordo interrompendo in primo luogo i contatti con i soggetti che di quell'accordo erano stati i protagonisti.

SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Il matrimonio londinese di Girolamo "Jimmi" Fauci, trafficante di droga. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 18 novembre 2023

Infine deve e essere esaminata la vicenda della partecipazione di Dell'Utri al matrimonio di Girolamo Fauci celebratosi a Londra il 19 aprile 1980 della quale ha parlato Francesco Di Carlo che vi aveva preso parte in qualità di testimone dello sposo, indicando tra i presenti Dell'Utri, Cinà e Mimmo Teresi che era stato testimone della sposa

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Infine deve e essere esaminata la vicenda della partecipazione di Dell'Utri al matrimonio di Girolamo Fauci celebratosi a Londra il 19 aprile 1980 della quale ha parlato Francesco Di Carlo che vi aveva preso parte in qualità di testimone dello sposo, indicando tra i presenti Dell'Utri, Cinà e Mimmo Teresi che era stato testimone della sposa. Il Collegio ha ritenuto del tutto irrilevante che Dell'Utri si trovasse causalmente a Londra per motivi personali (era stata per tale motivo rigettata la richiesta di integrazione probatoria proposta dalla difesa che intendeva depositare il manifesto di una mostra che in quei giorni si teneva a Londra), attribuendo invece particolare rilievo, al fine di esaminare il periodo 1978/1982, alle seguenti circostanze:

- che Dell 'Utri avesse continuato ad intrattenere rapporti con gli stessi soggetti con i quali aveva concluso il patto di protezione del 1974 (Teresi e Cinà);

- che "cosa nostra" riponeva in Dell'Utri ancora nel 1980 la stessa fiducia manifestargli nel 1974;

- che gli fosse consentito di partecipare ad un matrimonio in cui era presente un latitante del calibro di Di Carlo.

Sotto il primo profilo deve rilevarsi che Dell'Utri non ha esitato ad accettare l'invito di Cinà a recarsi al matrimonio di Girolamo ("Jimmi") Fauci con una cittadina inglese celebratosi a Londra il 19 aprile 1980. Non è rilevante il fatto, che ha costituito un motivo preciso di censura, che Dell'Utri sia stato o meno invitato da Fauci (la difesa ha contestato che Dell'Utri fosse nella lista degli invitati, mentre Di Carlo ha riferito di ricordare che l'imputato era tra gli invitati in quanto Fauci aveva considerato che era necessario, vista la presenza di Di Carlo, invitare soggetti di cui potersi fidare (Di Carlo: "ma certo che era invitato (Dell'Utri) ma a parte tutto le dico che Jimmi lo ripeto mi aveva detto chi c'erano, va bene, e questo erano nomi che mi potevano vedere non erano persone che chi sa avrebbero cominciato a parlare: l'abbiamo visto là oppure che avrebbe fatto lo sbirro, come si suol dire'').

Ciò che interessa (ed è circostanza assolutamente incontrovertibile) è che Dell'Utri, seppur non essendo stato invitato dagli sposi, si sia presentato al matrimonio, ed abbia partecipato anche al ricevimento.

Detta circostanza ha palesato la pervicace volontà dell'imputato di non volere interrompere la permanenza dei contatti con soggetti che lui ben sapeva a quale società mafiosa appartenessero neppure rifiutando l'invito ad un matrimonio come quello di Jimmi Fauci soggetto condannato per traffico internazionale di sostanze stupefacenti e per Dell'Utri un perfetto sconosciuto.

Sotto il secondo profilo, assume rilievo determinante la circostanza riferita da Di Carlo che ha dichiarato che, fuori dalla chiesa, Mimmo Teresi rivolgendosi a Dell 'Utri gli aveva comunicato che Di Carlo era latitante e gli aveva detto che, ove quest'ultimo si fosse trovato a passare da Milano, lui (Dell 'Utri) si sarebbe dovuto mettere a disposizione. Dell'Utri non si era tirato indietro e gli aveva dato il suo numero di telefono (Di Carlo Francesco: «E c'era davanti la chiesa c'era anche Marcello Dell'Utri che ci siamo risalutati con una stretta di mano, poi con Mimmo Teresi, Teresi, io, Mimmo Teresi e Dell'Utri ci siamo appartati un po' e Mimmo Teresi parlando ci ha detto, dice: tu lo sai che Franco - perché io avevo da 3 mesi che ero latitante ufficialmente, poi il latitante cercavo di farlo sempre per passare inosservato, visto il mestiere - ha detto, tu lo sai che è latitante - lui mi ricordo ha detto... si, si, perché non ha un'espressione abbastanza facile il dottore Dell'Utri, almeno per me, quello che... e dice: chi sa viene a Milano, chi sa Franco si trova a passare a Milano, mettiti a disposizione. Dice: si. M'ha dato il numero di telefono, l'ho scritto in maniera che non ... pero' ... sia di un ufficio e sia di casa, proprio, Mimmo mi ha detto: ci ha abitazione, ci ha tutto, ne ha fatto dormire tanti, non ti preoccupare se... Poi non l'ho usato mai, non ci sono stato mai, anche se andavo a Milano sapevo dove andare''). SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

E il pentito Francesco Di Carlo ricorda che volevano “combinare” Marcello. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 19 novembre 2023

Di Carlo, considerato soggetto "meritevole di pieno credito" ha riferito che Teresi, nel corso del matrimonio, gli aveva tessuto le lodi di Dell'Utri e gli aveva detto che avevano intenzione di combinarlo

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Le affermazioni di Di Carlo, collaboratore sul quale la Corte di Cassazione ha ritenuto che "la Corte di merito aveva (abbia) prodotto, ( ...) una giustificazione completa e rispondente ai criteri di razionalità e della plausibilità in ordine al fatto che il Di Carlo, nel presente processo, è risultato soggetto meritevole di pieno credito, "sono di assoluto rilievo atteso che esse hanno dimostrato che, malgrado Dell'Utri avesse abbandonato l'imprenditore Berlusconi, "cosa nostra" continuava a considerarlo un soggetto del tutto affidabile.

Va poi rilevato - esaminando l'ultimo profilo - che Dell'Utri ha partecipato ad un matrimonio in cui testimone dello sposo era proprio un soggetto latitante. E mentre detta circostanza poteva non essere conosciuta agli altri invitati al matrimonio, molti dei quali peraltro di nazionalità inglese, ciò non poteva essere ignoto a Dell'Utri anche prima che glielo comunicasse Teresi davanti alla chiesa (Di Carlo, peraltro aveva dichiarato che l'imputato quando Teresi, all'ingresso della chiesa gli aveva chiesto se era a conoscenza della latitanza del Di Carlo e l'imputato aveva risposto di si).

La notizia della latitanza di Di Carlo era stata resa nota peraltro il 6 febbraio 1980, come dichiarato dallo stesso collaboratore (Di Carlo: ".. (..) ma giusto che mesi prima, perché io sono latitante ufficialmente è uscito in televisione il 6 febbraio, quella me la ricordo la data 6 febbraio poi lui (Jimmi Fauci n.d.r.) mi sembra in aprile perciò c'è nemmeno due mesi").

Orbene, com'è noto, "cosa nostra" riserva i contatti con i latitanti solo a soggetti sui quali riporre la propria fiducia. Dell'Utri dunque sicuramente rientrava tra quelli atteso che Teresi e lo stesso Di Carlo si erano avvicinati a lui senza alcun timore.

Ed ancora - v'è da rilevare - che nel 1980 Dell'Utri era con Cinà e con lui si recava in un luogo ove avrebbe incontrato sia Teresi che Di Carlo protagonisti entrambi dell'incontro milanese del 1974.

Di Carlo, considerato soggetto "meritevole di pieno credito" dalla Corte di Cassazione (che ha ritenuto valide le argomentazioni in tal senso esposte dalla Corte d'Appello) ha riferito che Teresi, nel corso del matrimonio, gli aveva tessuto le lodi di Dell'Utri e gli aveva detto che avevano intenzione di combinarlo (Di Carlo: «ci prepariamo per andare all'altare con Teresi, comunque e siamo appartati mi dice: bonu picciottu: In gergo cosa nostra si capisce un bonu picciottu e che ... a disposizione una persona di qua, me ne parla bene, dice noi con Stefano abbiamo intenzione di combinare a Dell'Utri, e allora io ... tu che ne pensi»).

Rileva il Collegio che la richiesta di ospitalità avanzata da Teresi a Dell'Utri e l'apprezzamento manifestato da Teresi nei confronti dello stesso imputato, non sembrano argomenti sui quali Di Carlo aveva motivi di mentire.

In relazione alla disponibilità offerta da Dell'Utri di aiutarlo ove si fosse trovato a Milano, il collaboratore ha precisato di non avere avuto mai la possibilità di sperimentarla avendo sfruttato la disponibilità di altri soggetti che lo avevano ospitato. In relazione al gradimento manifestato da Teresi sulla persona di Dell 'Utri al punto da volerlo fare entrare stabilmente in cosa nostra, reputa il Collegio che non sussistono motivi per ritenere che tale affermazione sia frutto della fantasia di Di Carlo.

Del resto Dell 'Utri era tenuto in grande considerazione sicuramente dagli esponenti di "cosa nostra" atteso che è colui che ha stretto con "cosa nostra" un patto di particolare rilievo per la vita dell'associazione mafiosa, patto che - per le valutazioni che saranno di seguito esposte - non ha mai tradito assicurando con la sua costante attività di mediazione fino al 1992, cospicui e sicuri guadagni all'associazione mafiosa mediante i pagamenti di somme di denaro versate da Berlusconi. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

I ricordi di Angelo Siino su quei viaggi dei “palermitani” a Milano. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 20 novembre 2023

Il collaboratore, la cui attendibilità intrinseca è stata accertata in importanti e numerosi processi, che è conoscitore profondo delle logiche di "cosa nostra" nella gestione degli appalti negli anni '90, all'udienza del 9 giugno 1998 ha riferito che nella seconda metà degli anni '70 aveva più volte accompagnato a Milano in macchina Stefano Bontate

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Anche Angelo Siino ha riferito un episodio che può essere collocato nel periodo in esame e che dimostra come Dell'Utri non si fosse mai allontanato dal nucleo mafioso con il quale aveva interagito ed al quale aveva consentito di rafforzarsi con la sua opera di mediazione.

Il collaboratore, la cui attendibilità intrinseca è stata accertata in importanti e numerosi processi, che è conoscitore profondo delle logiche di "cosa nostra" nella gestione degli appalti negli anni '90, all'udienza del 9 giugno 1998 ha riferito che nella seconda metà degli anni '70 aveva più volte accompagnato a Milano in macchina Stefano Bontate.

In occasione di uno di detti viaggi, aveva incontrato Dell'Utri che scendeva le scale di Via Larga, dove vi era l'ufficio di Ugo Martello, insieme allo stesso Martello, a Stefano Bontate e, forse, a Mimmo Teresi (della cui presenza il Siino non era certo).

L'incontro è stato correttamente collocato dai giudici di primo grado nel periodo 1977- 1979 ed in ogni caso nel periodo in cui l'imputato lavorava già per Rapisarda atteso che Dell'Utri gli aveva fatto cenno ad una società di costruzioni in cui lavorava "un certo Alamia". Ancora una volta è emersa la conferma della precisa volontà di Dell 'Utri di mantenere i rapporti con i soggetti mafiosi protagonisti del patto mafioso del 1974.

Deve mettersi in evidenza che il Tribunale - contrariamente a quanto affermato dalla difesa all'udienza dell'11 febbraio 2013 - non ha ritenuto Siino "poco attendibile", ma, dopo avere indicato il valore processuale che avevano assunto nei processi le sue dichiarazioni e le sue conoscenze, aveva rilevato che le sue affermazioni relative al fatto che Dell'Utri aveva curato gli interessi di Ciancimino non potevano essere riscontrate dall'incontro di cui aveva parlato ("Pertanto, il Collegio non è in grado di collegare quell'incontro ad una circostanza specifica e di dare un significato alla frase usata dal Ronfate (secondo cui Dell'Utri avrebbe "curato" gli interessi di Ciancimino), rendendola suscettibile di autonomo riscontro. Quello descritto non è il solo viaggio fatto dal Siino in compagnia di Stefano Ronfate: pag 748 ).

SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

E Marcello fu invitato a cena nella villa del “principe di Villagrazia”. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 21 novembre 2023

Infine, devono essere rammentate le dichiarazioni di Di Carlo che ha parlato di una cena avvenuta nel 1979 nella villa di Stefano Bontate a Palermo alla quale avevano preso parte una ventina di persone tra le quali Di Carlo, Marcello Dell'Utri, Bontate, Mimmo Teresi e Totuccio Federico

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Infine, devono essere rammentate le dichiarazioni di Di Carlo che ha parlato di una cena avvenuta nel 1979 nella villa di Stefano Bontate a Palermo alla quale avevano preso parte una ventina di persone tra le quali Di Carlo, Marcello Dell'Utri, Bontate, Mimmo Teresi e Totuccio Federico.

Di Carlo ha precisato che in quell'occasione non si era parlato di affari illeciti.

La circostanza - ai fini dell'approfondimento del tema della permanenza dei contatti tra Dell 'Utri e gli esponenti mafiosi con i quali aveva stretto il patto del 1974 - è del tutto irrilevante, ma ciò che preme sottolineare, ancora una volta, è non solo la sinergia delittuosa con boss mafiosi del calibro di Bontate, ma anche la omogeneità ideologica e culturale tra Dell'Utri e Bontate con il quale l'imputato condivideva anche momenti di convivialità.

Né può attribuirsi alcun rilievo al fatto che Dell'Utri abbia negato di conoscere Teresi e Bontate, considerato il fatto che la sua partecipazione ali' incontro milanese del 1974 con costoro è stato ormai accertato definitivamente con la sentenza della Suprema Corte e che dei rapporti tra Dell'Utri e Bontate hanno parlato non solo collaboratori di giustizia come Calogero Ganci, Antonino Galliano e Francesco Paolo Anzelmo, ma anche Angelo Siino, collaboratore di giustizia di acclarata attendibilità che ha riferito dell'incontro avvenuto mentre l'imputato scendeva le scale dell'ufficio di via Larga insieme a Bontate e a Ugo Martello.

Ritornando alle dichiarazioni di Di Carlo, quest'ultimo all'udienza del 16 febbraio 1998, dopo avere descritto la villa di Stefano Bontate, ha riferito che, in occasione di una cena organizzata, nel 1979 o in un periodo di poco anteriore, aveva incontrato Dell'Utri. (Di Carlo :" ... una cantina .. ecco uno scantinato, ma non era uno scantinato .. perché di solito il scantinato si pensa un garage, una cosa, è bellissimo l'ha fatto per ricevere amici di cosa nostra o persone, infatti c'era un grandissimo tavolo, una cucina che era metà sala di questa . . . questa Corte, potevano entrarci pure 100 persone, ed aveva questa, l'aveva fatto per ospitare o per fare mangiate, come le chiamavano loro, riunione e cose, ma no riunioni a livello di cosa nostra, perché le riunioni si facevano in altri posti, però aveva fatto qua in questo modo, e una sera mi hanno invitato, ci sono stato più di una sera, una volta eravamo pochissimi, mentre quella sera ho visto più di venti persone, venti o qualcuno in più, e mi ricordo una cena che c'era Marcello Dell'Utri"; PM: "Una cena, quante persone erano presenti, se ricorda se erano presenti altri uomini d'onore? ";Di Carlo:" Si, uomini d'onore ce n'erano tantissimi, ma c'era pure qualcuno che non era uomo d'onore"; PM: Chi era presente tra gli uomini d'onore, che lei ricordi? Di Carlo:" C'era i soliti Mimmo Teresi, c'era l'avvocato, chiamiamolo avvocato, fratello di Stefano Bontate ( ... ) C'era Totuccio Federico, non so se c'era Mannoia, non mi ricordo veramente, c'era un altro dei Teresi, che era vicino, che abitava vicino da Stefano Bontate, c'era uno che ci dicevano a 'nciuria , ma forse si chiama Gambino, pure Giuseppe Gambino, della Guadagna della famiglia di Stefano, aveva a 'nciuria che lo chiamavano sempre, il cogn,ome dopo l'ho saputo .. ( ... ) P.M . . "Senta, lei ha detto che questo incontro è avvenuto quando? Di Carlo:" Ma verso il '79, mi sembra ";PM: " Come? ";Di Carlo :" Verso il '79 , se non faccio sbaglio"; PM: "Ricorda in che periodo è avvenuto(..) Senta signor Di Carlo, nell'interrogatorio del 14 febbraio 97 lei specificamente ha indicato che questa cena di cui sta parlando adesso, leggo:" avvenne all'incirca nel 1977, data che ricostruisco basandomi sulle circostanze di fatto che allora avevo già conosciuto Gimmi Fauci e che tale conoscenza , come ho detto, era avvenuta nel '76 "; Di Carlo :" No, più avanti è stato, '77 ... più avanti è stato ... o fine '78, fine, quando dico fine ... settembre o '79, non è '77 "; PM: "Non è '77? "; DI CARLO: " No, no '') . Tale circostanza rileva non solo perché attesta la prosecuzione dei rapporti con gli esponenti mafiosi di speciale calibro, ma perché conferma una constante cordialità dei rapporti che è del tutto incompatibile con il rapporto (invero escluso dalla Suprema Corte) tra estorto ed estortori. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

I boss Bontate e Teresi sistemano la questione delle antenne televisive. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 22 novembre 2023

La vicenda della "messa a posto" delle antenne televisive si colloca proprio nel periodo in esame - in cui l'interesse di Dell'Utri sarebbe dovuto essere rivolto alle sorti dell'impresa di Rapisarda - la richiesta che, secondo quanto ha riferito il collaborante Di Carlo, Dell 'Utri ha rivolto a Cinà di occuparsi della" messa a posto "per l'installazione delle antenne televisive

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Rinviando ad un esame successivo la vicenda della "messa a posto" delle antenne televisive, deve rilevarsi che si colloca proprio nel periodo in esame - in cui l'interesse di Dell'Utri sarebbe dovuto essere rivolto alle sorti dell'impresa di Rapisarda - la richiesta che, secondo quanto ha riferito il collaborante Di Carlo, Dell 'Utri ha rivolto a Cinà di occuparsi della" messa a posto "per l'installazione delle antenne televisive.

Di Carlo ha riferito che Cinà si era rivolto a lui per avere un consiglio su come comportarsi ed ha collocato - seppur in modo non del tutto certo - il dialogo tra il "'77-'78'' (Di Carlo:" ... Poi un 'altra volta solo ho avuto discorsi con Tanino al riguardo però siamo più avanti, non so quanti anni sono passati che aveva il problema che ci hanno detto di mettere antenne là, cosa dovevano mettere, per la televisione aveva questo problema. P.M. Chi aveva questo problema?" ; Di Carlo :" Gaetano Cinà "; PM: "Eh, si, ma a chi ... chi si era rivolto a Gaetano Cinà? "; Di Carlo: "Di nuovo ... Dell'Utri": P.M. "Dell'Utri Marcello?"; Di Carlo:" Sì, e siccome non era ... non era nella zona di Stefano da metter questa cosa e allora ... ecco, siamo sempre là, Tanino non capiva che pure che non era nella zona di Stefano, una volta che è interessato Stefano può dirlo sempre a Stefano e Stefano ci pensa lui anche che è un 'altra zona lo dice, sa come mettersi d'accordo con altri capi mandamento o meno ". ( ... ) PM: Ma erano già istallate o era un 'intenzione di istallare queste ... "; Di Carlo:"Mi sembra che era intenzione di istallare queste ... PM : "Ricorda il periodo in cui ... "; Di Carlo:"Se erano istallate e non dicevano prima erano guai"; P.M: "Dopo quanto tempo dall'incontro di Milano avvenne questo discorso?"; Di Carlo: "Non lo so se era '77-'78 questo discorso'').

La richiesta era poi stata risolta da Bontate e Teresi che avevano" sistemato tutto". L'episodio, da collocarsi con ogni probabilità nel 1979- 1980 in relazione all'interesse del gruppo Fininvest nel settore delle emittenti private ( risale proprio in quegli anni la prima trattativa di Fininvest per l'acquisto da parte di Rete Sicilia s.r.l.. società collegata a Fininvest, di TVR Sicilia), dimostra che Dell'Utri, malgrado fosse stato ancora alle dipendenze di Rapisarda, aveva continuato ad avere contatti con Cinà e a cercare, attraverso quest'ultimo, di mediare tra gli interessi di "cosa nostra" e Berlusconi.

SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

I giudici: «Berlusconi non ha mai smesso di pagare per non avere problemi». SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 23 novembre 2023

E’ fin troppo evidente che non essendo emerso in alcun modo un ripensamento dell'imprenditore - che anzi aveva sempre affermato di volere pagare pur di essere lasciato in pace - né lamentele dell'organizzazione mafiosa, deve ritenersi che Berlusconi non abbia mai smesso di pagare

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Alla luce delle considerazioni fin qui esposte reputa il Collegio che è dimostrato come Dell 'Utri, nel periodo di tempo in cui era rimasto alle dipendenze del Rapisarda (sostanzialmente interrotto nel 1980 a seguito del fallimento della Bresciano s.p.a. di cui Dell 'Utri era amministratore delegato e della fuga di Rapisarda dapprima in Venezuela e poi in Francia) non ha mai interrotto i rapporti con i soggetti che avevano stretto con lui il patto che aveva dato la spinta psicologica iniziale nel pregresso accordo per il sodalizio mafioso e con i quali aveva agito nella veste di concorrente esterno.

Né sussistono motivi per ritenere che il breve allontanamento dall'area imprenditoriale berlusconiana abbia fatto mutare la natura dei rapporti con tali soggetti non essendo emersi comportamenti di Dell 'Utri che abbiano mostrato la sua volontà di rimuovere o interrompere la situazione antigiuridica che aveva posto in essere fino agli inizi del 1978, prima di abbandonare l'area imprenditoriale di Berlusconi.

Dopo avere messo in evidenza il mantenimento dei suddetti rapporti, al fine di potere affermare che il concorrente esterno Dell'Utri abbia protratto volontariamente l'esecuzione dell'accordo che egli aveva ''propiziato e del quale si era fatto garante presso i due poli " è necessario accertare che l'imputato non abbia cessato le condotte che aveva tenuto in esecuzione dell'accordo e che tali condotte siano state sempre supportate dal medesimo atteggiamento psicologico.

La Corte di Cassazione, sempre con riferimento a tale periodo ha mvero rilevato "una carenza di motivazione riguardo all'elemento oggettivo" non essendo "state esplicitate neppure le ragioni e le modalità concrete del concorso nei versamenti che si dicono avvenuti materialmente dunque ad opera di terzi a partire dal 1978 ". L'arco temporale di cui si deve dare prova dei pagamenti è dunque circoscritto al periodo 1978/1982, essendo stato definitivamente accertato che per il periodo successivo i pagamenti erano avvenuti (resterà da esaminare l'elemento psicologico dell'imputato), considerato che la Corte di Cassazione infatti ha ritenuto che la motivazione del giudice di merito non si era esposta a censure per quanto riguardava l'affermazione della effettività oggettiva della protrazione dei pagamenti da Berlusconi a "cosa nostra" negli anni '80 e poco oltre (1983) fino al 1992.

Poiché, ad avviso di questa Corte territoriale, i pagamenti garantiti a"cosa nostra" in cambio della protezione all'imprenditore, oggetto del sinallagma contrattuale dell'accordo del 1974 (che ha visto protagonista Dell 'Utri quale mediatore tra le parti Berlusconi da una parte e "cosa nostra" dall'altra) costituiscono l'antecedente causale anche dei pagamenti effettuati in seguito, al fine di affermare la permanenza del reato e l'assenza di soluzione di continuità anche nel periodo di allontanamento di Dell'Utri dall'area imprenditoriale di Berlusconi, appare necessario ripercorrere, seppur brevemente le modalità di tali pagamenti fin dall'inizio e cioè fin dal 1974.

Deve a tal proposito essere rammentato che Di Carlo - ritenuto soggetto meritevole di pieno credito nel presente processo atteso che il suo racconto sull'incontro del 1974 ha presentato credibilità oggettiva ed è stato riscontrato obiettivamente da una pluralità di elementi (v. sent. Cass. Pag, 99) ha riferito che la prima consegna di denaro era stata fatta a Gaetano Cinà subito dopo l'incontro del 1974: 100 milioni di lire che Cinà aveva chiesto personalmente a Dell'Utri e che quest'ultimo gli aveva consegnato.

Galliano aveva parlato di un "regalo" che Berlusconi aveva voluto fare ai suoi interlocutori mafiosi di 100 milioni di lire l'anno che venivano pagati in due rate da 50 milioni e che - su incarico di Stefano Bontate - venivano ritirate da Cinà presso lo studio di Dell 'Utri. Anche Cucuzza ha parlato delle somme che venivano consegnate da Berlusconi; ha solo ricordato che Mangano gli aveva confidato che era lui a ricevere le somme ( 50 milioni di lire all'anno) che tratteneva per una parte, consegnandone un'altra parte a Nicola Milano per il mandamento di Santa Maria di Gesù. Fin qui la Corte di Cassazione ha ritenuto che le motivazioni della Corte d'Appello avevano resistito alle censure di legittimità.

Orbene, reputa questa Corte territoriale che, anche in relazione al periodo in esame ( 1978-1982) non sussista dubbio alcuno sulla prosecuzione dei pagamenti da parte di Berlusconi a "cosa nostra" sulla base dell'accordo mafia-imprenditore che aveva dato inizio alla condotta di concorso esterno dell'imputato nel 1974. Ed invero l'allontanamento di Dell'Utri dall'area imprenditoriale di Berlusconi e la sua assunzione alle dipendenze di Rapisarda non ha in alcun modo inciso sulla permanenza del reato sia sul piano obiettivo e materiale, che sul piano soggettivo.

La prova risiede ad avviso del Collegio non solo nell'assenza (di cui si è già parlato) di alcun comportamento dell'imputato da cui potere desumere il suo voluto distacco non solo dai protagonisti dell'accordo mafioso del 1974 che lui stesso aveva richiesto e determinato svolgendo la sua opera di mediazione tra l'imprenditore e "cosa nostra"; ma soprattutto nel fatto che l'esecuzione del suddetto accordo che prevedeva da un lato la protezione di Berlusconi e dall'altro la sistematica acquisizione di proventi economici da parte dell'associazione mafiosa è sempre proseguito senza soluzione di continuità. La circostanza è di particolare rilievo atteso che la protezione ha costituito nucleo essenziale e fondamentale del patto e il motivo del corrispettivo dei pagamenti da parte dell'imprenditore stesso. Deve mettersi immediatamente in evidenza che non può attribuirsi alcun rilievo, al fine di escludere che era venuta meno la ragione di pagamenti, al fatto che Berlusconi dopo l'allontanamento di Mangano da Arcore si era munito di un servizio di protezione privata: l'imprenditore invero ha sempre manifestato in modo chiaro di essere convinto del fatto che per la propria attività - che si stava espandendo sul tutto il territorio nazionale - la protezione istituzionale o privata non era sufficiente. Berlusconi ha sempre accordato una personale preferenza al pagamento di somme come metodo di risoluzione preventiva dei problemi posti dalla criminalità ( circostanza questa richiamata anche dalla Corte di cassazione: pag 103).

Anche in epoca successiva a quella in esame, nel corso di una conversazione del 17 febbraio 1988, l'imprenditore dialogando con l'amico Renato Della Valle aveva ancora manifestato la sua disponibilità a pagare somme di denaro, pur di non essere tormentato da minacce estorsive (Berlusconi:" ... ma io ti dico sinceramente che, se fossi sicuro di togliermi questa roba dalla palle, pagheri tranquillo).

Ed ancora parlando con Dell'Utri la notte dell'attentato del 29 novembre 1986 ( attentato che l'imprenditore aveva definito un "una cosa anche . .. rispettosa ed affettuosa") aveva detto che se lo avessero chiamato telefonicamente lui avrebbe consegnato anche trenta milioni. Ridendo aveva riferito all'amico che aveva manifestato detta sua disponibilità anche ai Carabinieri che erano rimasti scandalizzati ( Berlusconi: "Stamattina gliel'ho detto anche ai Carabinieri .. gli ho detto. "Ah, si? In teoria se mi avesse telefonato, io trenta milioni glieli davo! (ride) Scandalizzatissimi: "Come trenta milioni? Come? Lei non glieli deve dare che poi noi lo arrestiamo!".

Dico: "Ma no, su per trenta milioni". Acclarata l'accettazione di Berlusconi a pagare somme di denaro pur di non ricevere atti di intimidazione o ritorsione, deve rilevarsi che la protezione da parte di "cosa nostra" dell'imprenditore era continuata anche in seguito all'allontanamento di Mangano da Arcore e di Dell'Utri da Berlusconi e prima della morte di Bontate e Teresi. Il collaborante Angelo Siino ( v. dich del 9 luglio 1997), la cui attendibilità, come è stato già rilevato, è stata acclarata ali' esito di numerosi processi, ha invero ricordato dell'intervento effettuato da Stefano Bontate per impedire un progetto di sequestro ai danni di Berlusconi o di un suo familiare ad opera di mafiosi calabresi, nella seconda metà degli anni '70 ("1977, ma sicuramente prima del 1979 "). Siino aveva accompagnato Bontate a Milano, erano passati da Roma a prendere Vito Cafari, massone calabrese vicino alla 'ndrangheta, e si erano poi diretti a Milano, dove avevano incontrato dei calabresi ("certi Conde/lo'') che " dovevano fare da tramite con questi personaggi di Locri " che avevano intenzione di sequestrare Berlusconi o un suo familiare.

Bontate era interessato alla vicenda mentre il Cafari faceva solo da tramite con i calabresi. Siino ha riferito di non avere assistito alla discussione con questi ultimi e Bontate, ma avere appreso il motivo ed il contenuto dell'incontro dallo stesso Bontate durante il viaggio di ritorno.

Aveva tuttavia notato che al pranzo che vi era stato dopo l'incontro tra i commensali ( Siino, Bontate, Cafari, un soggetto latitante ed altri due o tre personaggi di Locri) vi era un clima teso. Bontate, faceva battute e lui aveva capito che non aveva alcuna considerazione dei calabresi che "per lui non erano nessuno ". Il boss mafioso era molto contrariato del fatto che i calabresi ( "quelli di Locri") si erano interessati a Berlusconi che lui considerava " a lui vicino " ed aveva detto che, ove non avessero smesso di " inquietare" Berlusconi, "gli avrebbe fatto vedere lui". E' ancora significativo che Bontate aveva riferito a Siino che i fratelli Pullarà avevano "protetto Berlusconi dalle ingerenze calabresi dalle vessazioni che gli facevano i calabresi"; per questo motivo avevano ricevuto dall'imprenditore milanese "notevoli riscontri, rientri in denaro"; ricordava che Bontate - proprio per sottolineare che la protezione gli stava costando un prezzo talmente alto da sradicarlo, da togliergli le radici, distruggendolo - gli aveva detto che i Pullarà " ci (a Berlusconi) stanno tirando u radicuni ". Lo stesso Bontate aveva riferito a Siino che i Pullarà una volta in discoteca avevano difeso il fratello di Berlusconi o lo stesso imprenditore, dalle offese rivolte dai calabresi. Le circostanze fin qui esposte dimostrano due fatti estremamente rilevanti: 1) la protezione garantita nel 1974 era proseguita senza sosta e senza registrazione di alcun allentamento dell'interesse degli esponenti mafiosi che quel patto avevano concluso, patto che, deve essere rammentato, costringeva l'imprenditore Berlusconi a versare cospicue somme a "cosa nostra"; 2) Ignazio e Giovan Battista Pullarà già prima della morte di Bontate, avevano preteso il pagamento di somme di denaro da Berlusconi per proteggerlo, somme che, come meglio verrà in seguito esposto, erano in concreto collegate a forniture di materiali teatrali che gli stessi fornivano all'imprenditore.

Se è vero - com'è vero - che la protezione era proseguita in virtù dell'accordo del 1974 e se è vero che il sinallagma "contrattuale" aveva previsto che la protezione dell'imprenditore avesse come corrispettivo il pagamento di somme di denaro da parte di Berlusconi, è fin troppo evidente che non essendo emerso in alcun modo un ripensamento dell'imprenditore - che anzi aveva sempre affermato di volere pagare pur di essere lasciato in pace - né lamentele dell'organizzazione mafiosa, deve ritenersi che Berlusconi non abbia mai smesso di pagare.

Detta conclusione è non solo del tutto logica, ma soprattutto fondata anche sulle dichiarazioni rese dai collaboranti Galliano, Anzelmo e Calogero Ganci e si collega peraltro anche al pagamento in epoca successiva delle somme, pagamento in ordine al quale la Suprema Corte ha chiesto a questo un nuovo esame solo sulla sussistenza dell'elemento psicologico essendo definitivamente accertata la loro oggettiva protrazione. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Quando l’amico interviene per chiedere uno sconto a Totò Riina. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 24 novembre 2023

È emerso che Berlusconi ha sempre pagato a "cosa nostra" e che Dell'Utri, non ha mai smesso di controllare che il rapporto sinallagmatico venisse rispettato, pronto ad intervenire per tutelare le ragioni del Berlusconi che in un certo periodo si sentiva eccessivamente pressato ("tartassato") o per mediare, in seguito, le pretese di Riina che aveva imposto il raddoppio della somma

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

In relazione all'attività in concreto svolta da Dell'Utri, reputa il Collegio che deve mettersi in evidenza che in relazione alla causale di detti pagamenti, i giudici di legittimità hanno rilevato che la Corte d'Appello in passaggio della sentenza annullata aveva tenuto conto e giustificato come "possibile" la tesi di Galliano secondo cui i pagamenti di Berlusconi erano stati fatti per la protezione, e non anche per l'installazione dei ripetitori ritenendo acquisite «prove rassicuranti della effettività dei pagamenti e non altrettanto rassicuranti circa la aggiunta della causale dei ripetitori alla causale della protezione».

Ciò che era stato ritenuto rilevante e certo era che Berlusconi aveva continuato a pagare a "cosa nostra" con continuità somme di denaro cospicue per la propria protezione. Orbene ad avviso di questa Corte territoriale non può negarsi che proprio nel periodo in esame in cui Dell'Utri era passato alle dipendenze di Rapisarda si era profilato un interesse di Berlusconi per le emittenti private.

A tal proposito - a riprova del fatto che l'allontanamento dall'area berlusconiana non aveva comportato alcuna interruzione dell'interesse di Dell 'Utri per il mantenimento del patto siglato nel 1974 - va ricordata la richiesta fatta dall'imputato a Cinà, così come dichiarato da Di Carlo, di occuparsi della "messa a posto" delle antenne televisive nel " 1977/1978", anni in cui si delineava l'interesse di Fininvest per le emittenti private in Sicilia. Del pagamento del pizzo per le antenne si è continuato a parlare anche in seguito ed in particolare - quando Riina ( come si vedrà nel paragrafo relativo al periodo compreso tra il 1983 ed il 1992) aveva preteso il raddoppio della somma e Dell 'Utri aveva detto a Cinà che avrebbe pagato tale somma, ma che per i ripetitori in Sicilia a pagare dovevano essere i titolari delle emittenti locali e non la Fininvest.

Orbene reputa questo Collegio - considerato che Galliano aveva riferito che le somme erano date solo per la protezione dell'imprenditore con ciò escludendo che la causale dei pagamenti era collegata solo al "pizzo per le antenne" - che non è rilevante indagare quale sia stata questa causale (antenne e/o protezione personale) dei pagamenti, ma che sta necessario accertare che sia avvenuta (rectius: proseguita) l'oggettiva e materiale consegna di denaro nel periodo in questione, la "materialità del comportamento dell'imputato", così come chiesto dalla Suprema Corte (pag.110).

Del resto il patto concluso grazie alla mediazione di Dell'Utri prevedeva una protezione dell'imprenditore che non era limitata all'incolumità della sua persona, ma anche a tutto ciò che ad un imprenditore poteva accadere nello svolgimento della sua attività e dunque, eventualmente, anche per l'affare imprenditoriale dei ripetitori televisivi.

Alla luce degli elementi probatori emersi nel corso del giudizio e costituiti essenzialmente dalle dichiarazioni rese dai collaboranti di giustizia può immediatamente anticiparsi che la consegna del denaro da Berlusconi a "cosa nostra" non si era mai arrestata ed il ruolo di mediatore di Dell'Utri non si era mai interrotto.

Per la sua generale protezione è emerso che Berlusconi ha sempre pagato a "cosa nostra" e che Dell'Utri, non ha mai smesso di controllare che il rapporto sinallagmatico venisse rispettato, pronto ad intervenire per tutelare le ragioni del Berlusconi che in un certo periodo si sentiva eccessivamente pressato ("tartassato") o per mediare, in seguito, le pretese di Riina che aveva imposto il raddoppio della somma.

Del resto la stessa natura giuridica di reato permanente e non istantaneo, richiede che fintantoché il concorrente esterno protragga volontariamente l'esecuzione dell'accordo che egli ha propiziato e di cui si sia fatto garante, presso i due poli più volte evocati (Berlusconi - "cosa nostra"), si manifesta il carattere permanente del reato che ha posto in essere; evenienza che la giurisprudenza richiamata dalla sentenza di annullamento della Corte di Cassazione (pag. 118), ha riassunto nella locuzione secondo cui " la suddetta condotta partecipativa (esterna) si esaurisce, quindi con il compimento delle attività concordate": Cass. 17.7.2002. n. 21356).

Volendo mettere m luce la "materialità del comportamento dell'imputato in tale periodo" (pag. 110 sent. Cass.) deve rilevarsi che le modalità di pagamento nel periodo in esame, precedente e di poco successivo alla morte di Stefano Bontate avvenuta il 23 aprile 1981, sono emerse essenzialmente dalle dichiarazioni dei collaboranti Calogero Ganci e Francesco Paolo Anzelmo Antonino Galliano, tutti appartenenti alla famiglia mafiosa della Noce a capo della quale vi era Raffaele Ganci ed in ordine ai quali la Suprema Corte ha ritenuto che non sussistessero dubbi in ordine alla loro attendibilità così come era stata ricostruita nella sentenza annullata.

Le loro dichiarazioni - evocate nella sentenza annullata ed anche in quella di primo grado solo - contengono elementi significativi a riprova del fatto che i pagamenti non si sono mai interrotti neppure quando Dell'Utri era andato a lavorare per Rapisarda. Calogero Ganci, uomo d'onore della famiglia della Noce, all'udienza del 9 gennaio 1998, ha riferito circostanze apprese dal padre Raffaele, capo della suddettafamiglia, relative ai pagamenti effettuati da Berlusconi a "cosa nostra".

Il collaboratore, dopo aver parlato dei pagamenti effettuati da Dell'Utri a Stefano Bontate, ha proseguito nel suo racconto riferendo che dopo la morte di quest'ultimo i pagamenti non si erano interrotti, ma erano stati effettuati ai Pullarà, Ignazio e Giovan Battista, che erano divenuti (prima Giovan Battista e, dopo il suo arresto, Ignazio) reggenti del mandamento di Santa Maria di Gesù ed avevano ereditato i rapporti intrattenuti da Stefano Bontate e Mimmo Teresi (Ganci :"Cinà quando fu contattato da Dell'Utri (1984-1985: n.d.r.) aveva avuto rapporti con il mandante della Guadagna, quindi io mi riferisco a Stefano Bontate, Mimmo Teresi. Poi dopo la morte di queste persone questi rapporti li ha intrattenuti con i Pullarà, Pullarà Giovanni e Pullarà Ignazio, questo le posso dire").

Ciò era avvenuto fino al 1984-1985 allorchè Cinà era stato chiamato da Dell'Utri che si era lamentato perché si sentiva "tartassato " dai Pullarà (dei pagamenti successivi al 1982 si parlerà in seguito nel paragrafo relativo all'elemento soggettivo sotteso a tali pagamenti) Le dichiarazioni di Ganci hanno dunque messo in evidenza che i pagamenti da parte dell'imprenditore milanese non si erano interrotti nel periodo in cui Dell 'Utri era andato a lavorare da Rapisarda. Il collaborante ha indicato una chiara successione nella gestione di tali pagamenti da parte di Dell'Utri ( Bontate-Pullarà) che lascia intuire che i termini del patto contrattuale erano rimasti i medesimi e che in seguito alla morte "dei mandanti della Guadagna", cioè di Bontate e Teresi, erano cambiati solo i percettori delle somme che erano divenuti i Pullarà e ciò senza soluzione di continuità.

Ha parlato dell'interesse mostrato da Dell'Utri per la situazione delle antenne televisive, ma lo ha riferito al 1984-1985, periodo successivo a quello in esame. Dalle sue dichiarazioni è emersa con tutta evidenza che Dell 'Utri, anche nel periodo in esame in cui aveva lasciato professionalmente Berlusconi, aveva continuato a mediare tra gli interessi di cosa nostra e 'imprenditore milanese, intrattendo rapporti non più con Bontate, ma con i Pullarà.

Del resto non vi era alcuna ragione per la quale gli esponenti mafiosi non si rivolgessero a lui visto che Dell'Utri non aveva mai mostrato alcun atteggiamento che lasciasse presumere la sua volontà di interrompere i contatti con coloro che avevano con lui siglato il patto del 1974, ponendo fine alla situazione antigiuridica che lui stesso aveva contribuito a creare. Con tali soggetti - come è stato già messo in evidenza - aveva continuato ad interagire mantenendo identico atteggiamento di cordialità e soprattutto di progettualità. Ma vi è di più. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Le lamentele di Dell’Utri per i Pullarà che “tartassano” Silvio Berlusconi. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 25 novembre 2023

La gestione dei Pullarà era, infatti, piuttosto fuori dalle regole di "cosa nostra" (Riina infatti li sostituirà con Cinà) ed era collegata a pretese economiche che, se da un lato avevano come corrispettivo la protezione dell'imprenditore milanese, dall'altro servivano al raggiungimento di loro interessi personali ( a detta di Ganci i Pullarà intrattenevano rapporti con Dell'Utri ''per conto di una ditta milanese per cose di spettacolo")

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Il fatto che Dell'Utri nel 1984 si sia lamentato con Cinà per il comportamento assunto dai Pullarà che "tartassavano" Berlusconi (la decisione di Riina di estromettere i Pullarà dai rapporti con Dell'Utri sarà oggetto del paragrafo successivo riguardante il periodo 1983-1992) conferma che tali richieste erano state state incalzanti e vessatorie e che dunque non si erano mai arrestate. Il termine "tartassamento" indica proprio l'incalzare di richieste vessatorie mai interrotte e protratte nel tempo, che mettono a dura prova il destinatario.

Né può esprimersi alcun dubbio sulla legittimazione dei Pullarà a ricevere i pagamenti, considerato che costoro avevano iniziato la pressione sull'imprenditore addirittura prima della morte di Bontate. Deve a tal proposito rammentarsi che Siino, allorchè era m compagnia dello stesso Bontate, aveva sentito quest'ultimo confidargli che per la protezione accordata ai Berlusconi, i Pullarà lo stavano pressando oltre misura al punto di sradicarlo, togliergli le radici vitali ( gli stavano "tirando u radicuni").

La gestione dei Pullarà era, infatti, piuttosto fuori dalle regole di "cosa nostra" (Riina infatti li sostituirà con Cinà) ed era collegata a pretese economiche che, se da un lato avevano come corrispettivo la protezione dell'imprenditore milanese, dall'altro servivano al raggiungimento di loro interessi personali (a detta di Ganci i Pullarà intrattenevano rapporti con Dell'Utri ''per conto di una ditta milanese per cose di spettacolo").

Il fatto che i pagamenti a "cosa nostra" per la protezione di Berlusconi erano proseguiti senza interruzione e che Dell'Utri non aveva voluto interrompere il suo rapporto con gli esponenti mafiosi che ricevevano tali pagamenti e ciò anche nel momento in cui si era allontanato per andare a lavorare da Rapisarda, è emerso anche dalla dichiarazioni di Francesco Paolo Anzelmo uomo d'onore dal 1980, appartenente alla stessa famiglia mafiosa della Noce alla quale apparteneva il Ganci.

Alla fine del 1986, a seguito dell'arresto di Raffaele Ganci, Anzelmo era divenuto reggente del mandamento insieme all'altro figlio di Ganci, Domenico ("Mimmo''). Anche Anzelmo ha riferito di avere saputo da Raffaele Ganci che Cinà riscuoteva i soldi da Dell 'Utri e che quest'ultimo aveva intrattenuto dapprima rapporti con Stefano Bontate e in seguito dopo la morte di quest'ultimo, con i Pullarà (Anzelmo: "ho saputo da Mimmo Ganci .. , da Ganci Raffaele che lui si interessava a riscuotere dei soldi da Marcello Dell'Utri e che questi in passato aveva intrattenuto rapporti non meglio definiti con Bontate e Teresi, ripresi, dopo la morte di costoro, da Ignazio Pullarà. Questo so. So che erano stati vicini diciamo.

Che si conoscevano, che si frequentavano, per quali rapporti non lo so''). Anche il collaborante aveva saputo che Dell 'Utri in seguito si era lamentato con Cinà in quanto si sentiva tartassato da Ignazio Pullarà, uomo d'onore che aveva sostituito Bontate nella reggenza dellafamiglia di Santa Maria di Gesù.

(Difensore: "senta lei a domanda del Pubblico Ministero, ha parlato di rapporti con Bontate e Teresi. Mi vuole spiegare a quali anni lei si riferisce?"; Anzelmo:" Evidentemente prima dell'"81 quando poi Stefano Bontatefu ucciso. A me lo raccontò questo, Ganci Raffaele nel contesto di queste lamentele che portava Tanino Cinà''). Anzelmo non aveva saputo riferire, tuttavia, i motivi per i quali Dell'Utri si sentiva "tartassato " da Pullarà, ma evocando detto termine aveva confermato che l'imputato, anche dopo la morte di Bontate e durante la gestione dei Pullarà, gestiva il patto di protezione di Berlusconi. In relazione al periodo in esame hanno assunto particolare rilievo le dichiarazioni rese da Antonino Galliano, uomo d'onore "riservato", appartenente dal 1986 alla famiglia della Noce e nipote di Raffaele Ganci.

All'udienza del 19 gennaio 1998 Galliano ha ricostruito con precisione i pagamenti effettuati da Berlusconi fin dall'inizio, riferendo che subito dopo il primo incontro del 1974 i soldi versati da Berlusconi a "cosa nostra" erano consegnati a Gaetano Cinà che si recava presso lo studio di Dell 'Utri per riceverli. Cinà li consegnava a Stefano Bontate che li teneva per la propria famiglia: la somma era pari a 50 milioni di lire in due soluzioni.

Tutto ciò era avvenuto senza soluzione di continuità fino alla morte di Bontate (1981) ( Galliano: "Sin dal primo incontro Berlusconi decide di fare questo regalo alla mafia palermitana; P.M.: "Ho capito Questa somma per quello che lei ha appreso dal Cinà, da Gaetano Cinà veniva consegnata materialmente da chi a chi?"; Galliano:" .. cioè veniva consegnata prima allo Stefano Bontate. Poi dopo la guerra di mafia ... " (...) P.M.: "Materialmente questi soldi venivano ritirati per conto di cosa nostra da chi?" Galliano: "Da Gaetano Cinà nello studio di Marcello Dell'Utri"; P.M.: .. e si trattava, lei ha detto di 50 milioni all'anno in due soluzioni "; Galliano:"si"; P.M." venticinque l'uno"; Galliano:" Esatto") Dopo la morte di Stefano Bontate il denaro veniva consegnato da Dell 'Utri a Cinà che lo dava a Pippo Di Napoli.

Quest'ultimo lo faceva avere, tramite Pippo Contorno uomo d'onore della stessa famiglia, ad uno dei Pullarà che all'epoca era divenuto uno dei rappresentanti della famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù (P.m: "poi quando la guerra di mafia viene ucciso Stefano Bontate e allora (..) questa dazione continua sempre da Dell'Utri a Cina ? "; Galliano:" Si"; P.M. : "e Cinà a chi li porta?": Galliano:" Li porta a Pippo Di Napoli che a sua volta Pippo Di Napoli li girava ad un uomo d'onore della famiglia di Santa Maria di Gesù che li portava al .. in quel periodo a Pullarà al rappresentante della famiglia'').

Le considerazioni fin qui svolte consentono di affermare - sulla base delle dichiarazioni dei collaboratori Ganci , Anzelmo e Galliano, considerati attendibili dalla Corte di Cassazione, sul rilievo che si riscontrassero reciprocamente - che nel periodo compreso tra il 1978 ed il 1982 allorchè l'imputato aveva interrotto i rapporti professionali con Berlusconi per essere assunto alle dipendenze di Rapisarda, non vi è stata alcuna interruzione del pagamenti che anzi erano continuati senza soluzione di continuità con le stesse modalità che erano state contemplate nel patto originario: i soldi dunque, tramite Cinà, al quale Dell 'Utri li consegnava pervenivano a Stefano Bontate.

La morte di Stefano Bontate aveva determinato una successione dei rapporti facenti capo al reggente dellafamiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù al quale erano subentrati i Pullarà, che Dell 'Utri aveva riconosciuto come sua controparte e come successori di Bontate e Teresi nel patto concluso nel 1974. Orbene, rammentando ancora una volta che Dell'Utri - che quel patto aveva concluso - non ha mai mostrato alcun atteggiamento di distacco dall'associazione avendo mantenuto negli anni in cui s1 era allontanato dall'area berlusconiana, contatti continui con gli stessi soggetti con i quali il patto di protezione era stato concluso e che i pagamenti erano proseguiti senza soluzione di continuità da Berlusconi a "cosa nostra" senza che si sia registrato alcuna modifica nella "causa" del patto, deve concludersi affermando che il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso dunque è rimasto configurato sotto il piano obiettivo e materiale e anche soggettivo, manifestando la sua natura permanente.

In relazione all'elemento soggettivo deve rilevarsi che Dell'Utri infatti con la sua immutata condotta aveva mantenuto lo stesso elemento psicologico del reato, sapendo e volendo che "cosa nostra" rafforzasse il suo potere economico grazie alla sua intermediazione con l'imprenditore Berlusconi che aveva sempre continuato a pagare.

La continuità dei rapporti con " cosa nostra" e la medesima connotazione che detti rapporti avevano mantenuto, supportata dagli elementi probatori concreti ed inconfutabili già esposti nel periodo in esame è del resto coerente e logica con il dato definitivamente accertato della sussistenza dei pagamenti avvenuti "negli anni '80 e poco oltre" fino al 1992, sulla cui realtà oggettiva non è richiesta alcuna indagine atteso che la Corte di Cassazione ha demandato a questo Collegio, quale giudice di rinvio, unicamente "la questione del dolo" che avrebbe assistito la suddetta fase dei pagamenti. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Muoiono i boss storici e cambiano gli “equilibri” con Berlusconi. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 26 novembre 2023

Il mutamento sostanziale degli equilibri esistenti rispetto a quelli che erano stati garantiti con l'accordo del 1974 tra Berlusconi con l'intermediazione di Dell'Utri (e di Cinà) e "cosa nostra" che aveva a capo i boss mafiosi Bontate e Teresi. Dopo la morte di costoro, vi era stato l'avvento della reggenza stragista e caratterizzata da una cifra criminale più alta di Salvatore Riina

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Dopo avere chiarito che i pagamenti di Berlusconi a "cosa nostra" si erano protratti senza soluzione di continuità anche nel periodo in cui Dell'Utri si era allontanato dall'area imprenditoriale berlusconiana per andare a lavorare da Rapisarda, deve adesso affrontarsi il problema indicato dalla Cassazione come "la questione del dolo" nei pagamenti successivi al suddetto periodo fino al 1992.

La Corte, invero, seppur ritenendo che la motivazione del giudice di merito era stata rispettosa dei parametri normativi sia in ordine all'affermazione della effettività della protrazione dei pagamenti "negli anni '80 e poco oltre" da parte di Dell'Utri sulla base della nota causale del patto di protezione con la mafia, sia sul tema dell'attendibilità dei collaboratori di giustizia, ha affermato che le stesse fonti di prova che avevano consentito di pervenire alla suddetta conclusione, coniugate ad eventi oggettivi, quali ad esempio gli attentati subiti da Berlusconi nell'arco temporale in esame avevano evidenziato "elementi di una certa torsione o avvitamento dei rapporti tra le parti interessate all'interno dei quali quei pagamenti avrebbero dovuti essere reinterpretati".

Detti "eventi oggettivi" individuati dalla Suprema Corte, hanno riguardato aspetti problematici collegati sia ad atteggiamenti di Dell'Utri verso "cosa nostra" che la Suprema Corte ha definito "riluttanti" che ad attività intimidatorie poste in essere nei confronti delle proprietà di Berlusconi , eventi che apparentemente potrebbero sembrare contrapposti agli elementi probatori acquisiti in relazione alla condotta di Dell'Utri che negli anni '80 si era comunque risolta in un arricchimento di "cosa nostra".

L'esame di tali eventi demandato dalla Cassazione a questa Corte è necessario al fine di affermare o escludere la persistenza dell'elemento soggettivo del dolo diretto che - così come è stato sostenuto la Suprema Corte - non può ritenersi acquisita misconoscendo o negando, così come era avvenuto nella sentenza annullata, "la valenza di emergenze che si connotano segni di una possibile caduta della precedente unitarietà degli intenti".

Ove, all'esito di detto esame, non fosse possibile individuare l'elemento soggettivo necessario del dolo diretto, si andrebbe incontro ad un delimitazione cronologica del reato permanente al 1982.

Gli "eventi oggettivi" individuati dalla Suprema Corte che devono essere esaminati da questo giudice di rinvio al fine di individuare o di escludere una diversa interpretazione dei rapporti che esistevano tra le parti interessate possono essere riassunti secondo i profili che seguono.

In primo luogo viene in evidenza l'attentato di via Rovani del novembre del 1986 subito da Berlusconi che, secondo la Corte di Cassazione, non poteva essere spiegato, così come aveva fatto la Corte d'Appello, come una prassi tenuta dalla consorteria mafiosa per non allentare la tensione con la propria vittima. Secondo i giudici di legittimità, detto costrutto era del tutto irrazionale atteso che non sarebbe stato spiegato come una vittima potesse essere contemporaneamente considerata concorrente esterno nella associazione che aveva messo in atto dette pressioni, anche contro di essa.

Era stato inoltre considerato l'atteggiamento scostante assunto da Dell'Utri nei confronti di Cinà in relazione al quale Antonino Galliano aveva riferito di un incontro avvenuto nel 1986 tra esponenti mafiosi e del fatto che, nel corso di tale incontro Cinà si era lamentato di detto atteggiamento assunto da Dell'Utri nei suoi confronti ed aveva comunicato che non voleva più recarsi a Milano per riscuotere le somme dall'imputato. Ed ancora la conversazione intercorsa il 24.12.1986 tra Alberto Dell'Utri e Cinà nel corso della quale quest'ultimo aveva descritto al suo interlocutore l'atteggiamento assunto nei suoi confronti da Marcello Dell 'Utri che lo faceva aspettare o che spariva per non incontrarlo.

Inoltre la risposta del Riina che - informato di tale atteggiamento assunto da Dell'Utri - aveva posto in essere azioni intimidatorie nel 1987 sì da ottenere da un lato la riconsiderazione del Cinà presso Dell'Utri e dall'altro l'imposizione del doppio della somma versata in cambio della protezione. Sono state indicate poi le dichiarazioni di Ganci Calogero, riferite al 1984-1985 che aveva riferito delle lamentale fatte da Dell'Utri a Cinà in guanto si sentiva tartassato dai fratelli Pullarà, uno dei quali era reggente della famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù e dopo la morte di Bontate aveva iniziato a riscuotere le somme da Dell'Utri per poi essere rimosso dall'incarico dallo stesso Riina che lo aveva sostituito con Cinà.

Devono poi essere considerati gli attentati di matrice mafiosa ai magazzini Standa di Catania appartenenti alla Fininvest che la Corte d'Appello aveva svalutato nell'ottica di provare un interessamento di Dell'Utri per comporre la questione sottostante con "cosa nostra" e che secondo i giudici di legittimità, dovevano essere valutati "nell'ottica della tesi difensiva del potere essi rappresentare o meno l'espressione di un rapporto tra Berlusconi e la mafia non più regolato da un reciproco interesse e di riflesso quale causa o quale effetto - poco importa - di un rapporto di Dell'Utri con cosa nostra comunque non più convergente nel perseguimento di comuni interessi". Infine il mutamento sostanziale degli equilibri esistenti rispetto a quelli che erano stati garantiti l'accordo del 197 4 tra Berlusconi con l'intermediazione di Dell'Utri (e di Cinà) e "cosa nostra" che aveva a capo i boss mafiosi Bontate e Teresi.

Dopo la morte di costoro, vi era stato l'avvento della reggenza stragista e caratterizzata da una cifra criminale più alta di Salvatore Riina che aveva eliminato Bontate (ucciso) e Teresi (scomparso con il metodo della lupara bianca) nel 1981. Orbene, reputa il Collegio che al fine di esaminare ed interpretare gli elementi probatori indicati dalla Corte di Cassazione apparentemente contrapposti ai pagamenti che comunque erano stati fatti da Berlusconi a "cosa nostra", sia necessario, prima di valutare la permanenza dell'elemento psicologico, descrivere le modalità con i quali tali pagamenti sono stati effettuati "negli anni '80 e poco oltre", fino al 1992.

Tale descrizione, apparentemente superflua, (va rammentato che la Suprema Corte ha demandato a questo giudice di rinvio solo la valutazione dell'elemento soggettivo del dolo), appare invece necessaria al fine di verificare un dato di particolare significato e cioè se dal raffronto tra le modalità di pagamento nel periodo in esame (1983-1992) con quelle già sperimentate in epoca precedente (1974-1977) (ed in ordine alle quali era stata acclarata dalla Suprema Corte la responsabilità penale di Dell'Utri per il ruolo di mediatore che aveva svolto tra gli interessi di Berlusconi a ricevere una generale protezione e quelli di "cosa nostra" che assicurava la richiesta protezione ricevendo in cambio cospicue somme di denaro dall'imprenditore), era possibile registrare una modifica rilevante di tali modalità e della condotta delle parti interessate. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

I ricordi di Calogero Ganci e le confidenze del padre. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 27 novembre 2023

Calogero Ganci, uomo d'onore della famiglia della Noce, ha riferito circostanze apprese dal padre Raffaele. In particolare il collaboratore ha ricordato che il padre gli aveva parlato del fatto che Dell'Utri nel 1984-1985 si era rivolto a Cinà...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Per le modalità di pagamento nel periodo successivo alla morte di Bontate vengono in rilievo essenzialmente le dichiarazioni dei già citati collaboranti Calogero Ganci, Francesco Paolo Anzelmo e Antonino Galliano, tutti appartenenti alla famiglia mafiosa della Noce a capo della quale vi era Raffaele Ganci ed in ordine ai quali, come è stato già rilevato, la Suprema Corte ha ritenuto che non sussistessero dubbi in ordine alla loro attendibilità così come era stata ricostruita nella sentenza annullata. Si è trattato di collaboratori "tutti uomini d'onore i quali, in ragione di tale loro posizione soggettiva, avevano avuto modo di apprendere, ora dalla voce di Cinà (Di Carlo e Galliano) ora dalla voce del reggente Biondino (Ferrante) fatti attinenti alla vita del sodalizio, in parte sovrapponibili ed in parte strettamente concatenati" (pag. 107).

Preliminarmente deve rilevarsi che il nucleo essenziale delle dichiarazioni è stato ritenuto dalla Corte d'Appello - con motivazioni che la Suprema Corte ha condiviso - quello della consegna di denaro da parte dell'imprenditore milanese, tramite Dell 'Utri, a "cosa nostra" per l'ampia protezione che quest'ultima assicurava a Berlusconi. Tanto premesso, e prendendo le mosse dalle dichiarazioni di Calogero Ganci, uomo d'onore della famiglia della Noce rese all'udienza del 9 gennaio 1998 deve rilevarsi che quest'ultimo ha riferito circostanze apprese dal padre Raffaele. In particolare il collaboratore ha ricordato che il padre gli aveva parlato del fatto che Dell 'Utri nel 1984-1985 si era rivolto a Cinà "per aggiustare la situazione delle antenne televisive". Dell'Utri, cioè, voleva "mettersi a posto con cosa nostra al fine di ottenere, in cambio del versamento di una somma di denaro, protezione per le suddette antenne in Sicilia".

In quella stessa occasione Dell'Utri si era lamentato con il Cinà per essere stato "tartassato" dai fratelli Pullarà, come già detto, uomini d'onore della famiglia di Santa Maria di Gesù ai quali era stata affidata da Salvatore Riina la reggenza del mandamento dopo la morte di Bontate e Teresi.

È stato già messo m evidenza che i Pullarà avevano avanzato pretese nei confronti dell'imprenditore milanese, al quale garantivano protezione, anche prima della morte di Stefano Bontate, per vicende personali collegate a forniture di materiali per lo spettacolo. Siino aveva ricordato che Bontate - proprio per sottolineare che la protezione dei Pullarà stava costando un caro prezzo a Berlusconi - aveva detto che i Pullarà "ci (a Berlusconi: n.d.r.) stanno tirando u radicuni" (il significato della frase è stato già spiegato).

Prescindendo da detti rapporti di tipo personale che avevano con Berlusconi, ciò che è emerso è che, dopo la morte di Stefano Bontate, i Pullarà avevano ereditato i rapporti che Dell'Utri aveva intrattenuto fino a quel momento con Bontate, ucciso nella guerra di mafia nel 1981. Come è stato messo in rilievo nel precedente paragrafo, Ganci ha infatti dichiarato proprio detta circostanza e cioè che, dopo la morte di Bontate e di Teresi, Dell'Utri aveva continuato i rapporti, che lui prima aveva intrattenuto con i due boss mafiosi deceduti, con i fratelli Pullarà (Ganci: "Guardi io mi ricordo che quando fu contattato dal Dell'Utri venne a dire al Di Napoli che il Dell'Utri aveva avuto rapporti con il mandante della Guadagna, quindi io mi riferisco a Stefano Bontate, Mimmo Teresi, poi dopo la morte di queste persone, io questi rapporti li ha intrattenuti con i Pullarà. Pullarà Giovanni e Pullarà Ignazio, questo le posso dire'').

Già da questo frammento della dichiarazione è emerso, con tutta evidenza, che il mutamento dei vertici di "cosa nostra", non aveva modificato in alcun modo l'impegno finanziario del gruppo Berlusconi nei confronti dell'organizzazione criminale mafiosa e che dunque i pagamenti erano sempre proseguiti. Se così non fosse stato Dell'Utri, lamentandosi con Cinà del comportamento dei Pullarà, non avrebbe detto che si sentiva "tartassato" termine - come già si è detto - che presuppone un'azione continuata nel tempo che aveva creato in lui un vero e proprio malessere (P.M.: senta in relazione al malessere di cui lei ha parlato io volevo sapere per quale motivo vi era questo malessere da che cosa nasceva questo malessere, se lei lo sa chiaramente, tra il Pullarà ed il Dell 'Utri, e se può indicarci per quale motivo la sostituzione del Pullarà con il Cinà poteva essere vantaggiosa, poteva essere vantaggiosa da Riina e dallo stesso Dell'Utri"; Ganci: "E allora, il Dell'Utri con il Cinà si era confidato per dire che si sentiva tartassato da richieste forse di denaro oppure di .... cioè di pressione di forniture queste cose no, si era rivolto al Cinà perché erano amici si conoscevano ( ... )".

Dell'Utri dunque non aveva chiamato l'amico Cinà perché, stanco delle pressioni subite dai Pullarà, aveva deciso di non pagare più, ma lo aveva chiamato, da un lato per fare presente che i Pullarà stavano esagerando nelle richieste estorsive; dall'altro per chiedergli protezione per l'attività imprenditoriale collegata alle emittenti televisive. (Ganci: " .. . Dell 'Utri si riferì, contattò Cinà, appunto perché con i Pullarà non ci voleva avere a che fare più, perché si sentiva tartassato, qualcosa del genere "(. .) Avv. "E lei sa se in seguito alla estromissione dei Pullarà e l'intervento di Cinà il Dell'Utri si era lamentato mai per queste richieste di soldi che praticavate?" Ganci: "che io sappia, no").

Tale lamentela era stata comunicata da Cinà a Pippo Di Napoli che a sua volta ne aveva parlato con Raffaele Ganci e quest'ultimo con Totò Riina. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Totò Riina e il desiderio di avvicinare Bettino Craxi attraverso Berlusconi. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 28 novembre 2023

Riina che riceveva i soldi da Dell'Utri, tramite Cinà e Raffaele Ganci, non aveva fatto mistero del fatto che l'interesse che lo spingeva a curare questo canale di approvvigionamento era anche quello di natura politica. Dell'Utri, per il boss mafioso, rappresentava un contatto determinante con Silvio Berlusconi e dunque - a suo avviso - con l'onorevole Bettino Craxi

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Riina, risentito per non essere stato informato dei rapporti dei Pullarà con l'impresa milanese e preoccupato di salvaguardare una sì rilevante fonte di rafforzamento per l'associazione mafiosa, aveva estromesso i Pullarà dalla gestione dei rapporti con Dell'Utri, ed aveva delegato la gestione di tali rapporti con l'imputato solo a Gaetano Cinà di cui Dell 'Utri si fidava da anni.

Cinà - secondo quanto riferito a Calogero Ganci dal padre - s1 recava a Milano un paio di volte all'anno per ricevere da Marcello Dell 'Utri una somma che tuttavia Ganci non sapeva precisare. Tale somma veniva consegnata da Cinà a Pippo Di Napoli che a sua volta la dava a Raffaele Ganci che la faceva pervenire a Riina.

Reputa il Collegio che già da dette dichiarazioni è emerso che i pagamenti erano continuati senza soluzione di continuità e che l'atteggiamento di Dell'Utri nei confronti di "cosa nostra" non era in alcun modo mutato, avendo l'imputato continuato ad assicurare i pagamenti a "cosa nostra" nella assoluta consapevolezza di contribuire in modo rilevante, alla realizzazione del programma criminoso del sodalizio mafioso, rivolgendosi ove necessario, come aveva sempre fatto, all'amico Cinà sia per la messa a posto delle antenne televisive, sia per lamentarsi dei Pullarà.

Riina che riceveva i soldi da Dell'Utri, tramite Cinà e Raffaele Ganci, non aveva fatto mistero del fatto che l'interesse che lo spingeva a curare questo canale di approvvigionamento era anche quello di natura politica. Dell'Utri, per il boss mafioso, rappresentava un contatto determinante con Silvio Berlusconi e dunque - a suo avviso - con l'onorevole Bettino Craxi. Il fatto che Dell'Utri avesse continuato a versare somme a "cosa nostra" per la protezione di Berlusconi è emerso anche dalle dichiarazioni di Francesco Paolo Anzelmo, uomo d'onore dal 1980, appartenente alla stessa famiglia mafiosa della Noce alla quale apparteneva il Ganci e della quale - alla fine del 1986, a seguito dell'arresto di Ganci Raffaele - era divenuto reggente insieme all'altro figlio del Ganci, Ganci Domenico ("Mimmo"). 

Anche Anzelmo era venuto a conoscenza delle lamentele di Dell'Utri nei confronti dell'atteggiamento assunto dai Pullarà nei suoi confronti; aveva infatti saputo, tra il 1985 ed il 1986 da Raffaele Ganci, che Cinà si era interessato a riscuotere i soldi da Dell'Utri e che aveva riferito a Di Napoli che Dell 'Utri si era lamentato con lui in quanto si sentiva tartassato da Ignazio Pullarà. Anzelmo non sapeva riferire, tuttavia, i motivi per cui il Dell 'Utri si sentiva pressato da Pullarà.

Di Napoli, ricevuta la notizia dal Cinà ne aveva parlato con Raffaele Ganci e quest'ultimo ne aveva parlato con Riina che aveva estromesso il Pullarà affidando la gestione dei rapporti solo al Cinà. Il denaro (L. 200.000.000 suddivise in due rate semestrali) veniva ritirato da Cinà che si recava a Milano da Dell 'Utri; Cinà a sua volta lo consegnava al Di Napoli; quest'ultimo lo dava a Ganci Raffaele che lo faceva pervenire a Riina che li depositava nella " cassa comune".

Reputa il Collegio che è sicuramente significativo un frammento della dichiarazione in cui Anzelmo ha sottolineato quale era stato il motivo del pagamento della somma di denaro con ciò confermando che, malgrado fossero mutate le parti contrattuali mafiose ( Bontade e Teresi), non vi era stata alcuna modifica del patto stipulato anni prima da Berlusconi e Dell'Utri e "cosa nostra".

Anzelmo, invero, ha dichiarato che Dell 'Utri pagava per la "tranquillità", per impedire che potesse succedere qualcosa a Berlusconi (Anzelmo: "i soldi Dell'Utri diciamo li dava per questa situazione per tranquillità"; Presidente: "Signor Anzelmo, mi scusi, quando lei parla di tranquillità a cosa allude?"; Anzelmo: ".... ( .... ) che non ci succede niente, che non succedeva niente'').

Il collaboratore ha precisato che la protezione serviva per gli impianti televisivi di Canale 5 (Anzelmo; "È a titolo pizzo che ce lo richiedeva diciamo. Questa situazione l'ha gestita Tanino Cina' e la chiuse con duecento milioni l'anno"; Difensore: " Ma per quale attività del Dell 'Utri ? Erano somme del Dell 'Utri o Dell 'Utri? "; ... Anzelmo: " Ma quale somme del Dell'Utri. Erano somme dì Canale 5 questi per i ripetitori che c'erano in Sicilia. Quali somme del Dell'Utri. Questa era tutta una situazione che veniva di là").

Il collaborante - così come aveva fatto Calogero Ganci - ha riferito che Riina, tuttavia, perseguiva anche un altro scopo ( Anzelmo: "ma le ripeto che l'interesse di Riina non era di questi soldi. Aveva altri scopi''), quello di avvicinare l'onorevole Craxi al quale il Berlusconi era legato. Riina infatti per le elezioni politiche del 1987 aveva ordinato di votare il PSI. Anche se Riina aveva estromesso Pullarà dal contatto diretto con Dell 'Utri, e ciò per non compromettere il rapporto, aveva tuttavia versato ai Pullarà la somma di 50.000.000 di lire ( Anzelmo: "ma guardi se io le dico che ... che poi tra l'altro Totò Riina incassando quei duecento milioni ci mandava i cinquanta milioni a Ignazio Pullarà ''), per far loro capire che non era stata una questione di soldi. In relazione al periodo in esame, hanno assunto particolare rilievo le dichiarazioni rese da Antonino Galliano che ha dichiarato di avere incontrato, alla fine del 1986, Gaetano Cinà presso la villa di Giovanni Citarda (uomo d'onore della famiglia di Malaspina) dove Pippo Di Napoli trascorreva la propria latitanza.

Il collaboratore ha ricordato di avere accompagnato Mimmo Ganci, che all'epoca sostituiva il padre Raffaele nella "conduzione del mandamento della Noce" e che Riina aveva " mandato a chiamare". Presso la villa vi erano Pippo Di Napoli e Gaetano Cinà. Era stata quella l'occasione in cui Cinà si era lamentato di non volere più andare da Dell 'Utri a ritirare i soldi perché quest'ultimo aveva assunto nei suoi confronti un atteggiamento distaccato, facendolo attendere o lasciando la busta con i soldi al suo segretario.

Cinà aveva registrato questo mutamento di atteggiamento dopo la morte di Bontade e quindi dopo 1'81 '-82' ( Galliano."Succede che Dell'Utri, diciamo, dopo questi omicidi. cioè dopo 1'81 ', 82' incomincia ad avere l'atteggiamento ritroso nei riguardi del ... del Cinà. E questo, diciamo, era una doglianza del Cinà dice non mi tratta più come una volta, non mi riceve più come una volta e quindi io non ci voglio andare più").

Mimmo Ganci aveva ritenuto la questione degna di rilievo in quanto, tramite Berlusconi, si poteva entrare in contatto con l'onorevole Craxi ed aveva dunque deciso di informare Riina. Galliano ha precisato di avere saputo in un secondo tempo che Raffaele Ganci era ben consapevole del fatto che Dell'Utri consegnava a Cinà il denaro. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Le minacce telefoniche e la bomba a Catania “firmata” Nitto Santapaola. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 29 novembre 2023

Riina aveva ordinato che la telefonata e la lettera provenissero da Catania in quanto in quel periodo la mafia catanese di Nitto Santapaola aveva effettuato un attentato a Berlusconi posizionando un esplosivo in una "proprietà" dell'imprenditore. Riina - dopo averne parlato con il boss catanese - aveva fatto credere a Berlusconi che ad agire fossero stati i catanesi

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Ganci aveva parlato delle doglianze riferite da Cinà con Riina e quest'ultimo aveva avuto una reazione violenta, sulla quale appare necessario soffermarsi atteso che dai passaggi che la descrivono, possono trarsi rilevanti considerazioni (che costituiranno, tuttavia oggetto di specifica trattazione) sulla matrice degli attentati posti in essere ai danni di Berlusconi ai magazzini Standa della provincia di Catania.

Riina, che non aveva avuto mai rapporti diretti con Marcello Dell'Utri, a differenza di quanto era accaduto in precedenza tra quest'ultimo e Bontate e che considerava l'imputato solo un tramite con Berlusconi che per lui rappresentava solo una disponibile fonte di guadagno ed anche un modo per tenere vivo il legame con l'onorevole Craxi, aveva messo in atto due azioni ritorsive che a suo avviso avrebbero ridimensionato l'atteggiamento arrogante che Dell'Utri, secondo quanto aveva riferito Cinà, aveva assunto nei confronti di quest'ultimo, atteggiamento che secondo il boss mafioso Dell'Utri, non poteva permettersi di avere.

Aveva incaricato Mimmo Ganci di recarsi a Catania per imbucare una lettera intimidatoria indirizzata a Berlusconi e per effettuare, sempre da Catania, una telefonata di minaccia allo stesso imprenditore. Mimmo Ganci, dunque, agli inizi del 1987, si era recato a Catania in compagnia di Francesco Spina, uomo d'onore della famiglia della Noce, per imbucare una lettera intimidatoria indirizzata a Berlusconi. Dopo qualche settimana costoro erano tornati nuovamente a Catania per fare una telefonata intimidatoria diretta ad Arcore (al numero telefonico che gli aveva dato il Cinà) allo stesso Berlusconi.

Riina aveva ordinato che la telefonata e la lettera provenissero da Catania in quanto in quel periodo la mafia catanese di Nitto Santapaola aveva effettuato un attentato a Berlusconi posizionando un esplosivo in una "proprietà" dell'imprenditore. Riina - dopo averne parlato con il boss catanese - aveva fatto credere a Berlusconi che ad agire fossero stati i catanesi (Galliano: "Il Riina quando li manda a Catania, li manda a Catania per due motivi: uno perché, dice, che quando aveva parlato con ... quando Riina parla con i catanesi .. i catanesi avevano messo in quel periodo una bomba in una proprietà del Berlusconi e quindi questo fatto cadeva a fagiolo ... diciamo .. autorizza ... i catanesi autorizzano, diciamo, i palermitani a imbucare la lettera e fare la telefonata a Catania per far capire che sempre le intimidazioni provengano dalla mafia catanese'').

Mimmo Ganci aveva poi confidato a Galliano che in effetti aveva mandato la lettera e fatto la telefonata. Dopo gli atti d'intimidazione, Cinà era stato convocato "urgentemente" a Milano da Dell'Utri che gli aveva chiesto di interessarsi per risolvere la questione (Galliano: "Marcello Dell'Utri convocò nuovamente il Gaetano Cinà urgentemente a Milano e gli spiegò ... quello che era ... che avevano subito. Prima la bomba, poi la telefonata, e cioè la lettera .. poi la telefonata e se si poteva interessare nuovamente come la prima volta''). Tornato a Palermo, Cinà aveva riferito la richiesta di Dell'Utri a Di Napoli, quest'ultimo ne aveva parlato con Ganci che aveva riferito il fatto a Riina. Il boss, ''per tenere i rapporti in maniera tranquilla", aveva raddoppiato la somma dovuta dal Dell'Utri ( da 50.000.000 a I 00.000.000), somma che doveva essere consegnata in due rate semestrali. Il pagamento doveva essere fatto per proteggere l'imprenditore e non per l'installazione delle antenne ("P.M.:"Quindi i cento milioni annuali non c'entravano nulla con il pizzo ... "; Galliano :"No come ho detto poco fa erano questi ... erano soltanto a fronte di un regalo diciamo per l'interessamento avuto da parte di ... prima di Stefano Bontate e poi diciamo da ... da parte di Totò Riina, diciamo''). Cinà si era dunque recato a Milano per parlare di tale decisione con Dell'Utri che dopo gli aveva riferito che Berlusconi era d'accordo per il raddoppio della somma, ma che per il pizzo delle antenne il denaro doveva essere richiesto ai responsabili delle emittenti locali. Il Galliano ha riferito che i soldi da quel momento vemvano consegnati da Dell'Utri a Cinà, quest'ultimo li consegnava a Di Napoli che li dava a Ganci, il quale su incarico di Riina ne consegnava una parte alla famiglia di Santa Maria di Gesù, e quindi ai Pullarà (e dopo all'Aglieri) mentre la restante parte era divisa in tre quote: "una alla famiglia di San Lorenzo, quindi a Salvatore Biondino che era, diciamo l'autista, diciamo di Totò Riina, una parte darla alla famiglia di Malaspina e una parte alla famiglia della Noce cioè a mio zio").

Nel 1988, Galliano aveva assistito alla consegna del denaro da Di Napoli a Ganci Raffaele allorchè quest'ultimo era uscito dal carcere. In relazione al tempo dei pagamenti, Galliano ha dichiarato che il denaro era arrivato da Dell'Utri fino al 1995 e che per le elezioni del 1987 il Riina aveva dato disposizioni di votale per il P.S.I.; il motivo per il quale vi era stata quell'indicazione di voto era legato al fatto che si sapeva che vi era stato un accordo con "esponenti nazionali del Partito Socialista" per dare un aiuto ai "carcerati", "per la mafia .. per aiutare la mafia".

Le dichiarazioni di Galliano appaiono rilevanti non solo perché hanno costituito un'ulteriore conferma dei pagamenti di denaro che da Dell'Utri transitavano nelle casse di "cosa nostra", ma perché hanno vieppiù palesato che le ragioni di detti pagamenti erano sempre costituiti dall'ampia protezione garantita a Berlusconi sia prima che dopo la morte dei boss Bontate e Teresi. Sulla consegna del denaro da Fininvest nel periodo 1989/1990 sono state esaminate le dichiarazioni di Giovan Battista Ferrante e di Salvatore Cancemi, che hanno confermato le dichiarazioni di Ganci, Galliano e Anzelmo. Ferrante, uomo d'onore dellafamiglia di San Lorenzo dal 1980, ha dichiarato di non avere mai conosciuto né Dell 'Utri né Cinà, ma di avere saputo che Raffaele Ganci consegnava somme di denaro a Biondino provenienti da Canale 5 con cadenza semestrale o forse annuale.

Lui stesso aveva assistito a qualche consegna del denaro: cinque milioni di lire, non collegati al pagamento di pizzo imposto dalla famiglia mafiosa di San Lorenzo ai ripetitori Finivest o agli uffici di Canale 5.

La consegna di denaro era avvenuta almeno dal 1988/1989, possibilmente anche in epoca precedente ed era proseguita fino al 1992. Le dichiarazioni di Ferrante coincidevano con quelle di Galliano in particolare nella parte in cui il primo collaboratore aveva affermato che Raffaele Ganci, dopo la propria scarcerazione avvenuta il 28 novembre 1988, aveva nuovamente gestito la situazione relativa ai soldi che arrivavano da Fininvest per mezzo di Dell 'Utri e di Cinà ed aveva provveduto lui stesso a dividerli tra le tre famiglie mafiose ( Noce, San Lorenzo e Malaspina) dopo avere preso i soldi per quella di Santa Maria di Gesù.

Della corresponsione di somme provenienti da Berlusconi ai fratelli Pullarà ne aveva parlato anche il collaborante Francesco Scrima, uomo d'onore della famiglia di "Porta Nuova" che aveva dichiarato nel periodo in cui era stato in carcere con Vittorio Mangano, tra il 1988 ed il 1989, quest'ultimo gli aveva manifestato il proprio risentimento per il fatto che Ignazio Pullarà, durante la sua reggenza a Santa Maria di Gesù, dunque dopo la morte di Bontate, si era appropriato del denaro proveniente da Berlusconi e che secondo Mangano spettava a lui.

Anche Salvatore Cucuzza - nel periodo di codetenzione con il Mangano che il Tribunale ha collocato temporalmente durante il maxi processo tra il febbraio 1986 ed il dicembre 1987 - aveva raccolto le confidenze dello stesso Mangano. Quest'ultimo gli aveva manifestato il suo disappunto per il fatto che, dal momento della sua detenzione ( dal 1980 in poi), non aveva più ricevuto le somme di denaro provenienti da Berlusconi (50 milioni di lire) che lui sin da epoca precedente alla morte di Bontate aveva percepito e che in seguito ( dopo la morte del Bontate) erano state date a coloro che avevano avuto la reggenza del mandamento di Santa Maria di Gesù e cioè ai fratelli Pullarà.

Salvatore Cancemi - le cui dichiarazioni sono state ritenute complessivamente già in primo grado prive di un autonoma significatività probatoria - ha confermato l'esistenza di consegne di denaro dalla Fininvest a "cosa nostra" anche in epoca successiva alla morte di Bontate e Teresi, prima attraverso i fratelli Pullarà e poi tramite Cinà. I pagamenti erano avvenuti in un periodo compreso tra il 1989- 1990 fino all'epoca delle stragi del 1992. Cancemi ha poi precisato che le somme di importo pari a 200 milioni di lire all'anno venivano consegnate a Cinà e, tramite Di Napoli, a Raffaele Ganci che le dava infine a Salvatore Riina ed ha ricordato di avere assistito alla loro divisione tra le famiglie di Santa Maria di Gesù e di Resuttana. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Un attentato contro Berlusconi “fatto con rispetto, quasi con affetto”. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 30 novembre 2023

Deve essere rilevato che Riina aveva fatto sì che le proprie azioni intimidatorie - di rilievo molto modesto rispetto all'attentato alla villa (anche questo invero non era stato di particolare gravità (Berlusconi: "fatta con molto rispetto, quasi con affetto") - creassero un turbamento in Dell'Utri per fargli cambiare atteggiamento nei confronti di Cinà e pagare una somma più alta; aveva però voluto escludere che tali azioni fossero riconducibili a lui

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Il 28 novembre 1986 - undici anni dopo l'attentato subito da Berlusconi ai danni della villa di Via Rovani - ancora ai danni di detta villa, in fase di restauro, si verificava un secondo attentato, seppur di non particolare gravità (Berlusconi: “fatta con molto rispetto, quasi con affetto”: v. conversazione intercorsa con Dell'Utri il 29.11.1986). Alle 00,12 del 29 novembre 1986, cioè subito dopo l'attentato, Silvio Berlusconi chiamava Dell'Utri e gli rappresentava che - a suo avviso - il responsabile del gesto, così come lo era stato 11 anni prima, era Vittorio Mangano. Dell'Utri, mostrando qualche perplessità (Dell'Utri: "perché non si spiega proprio spiega proprio'') diceva all'amico che non sapeva che Mangano fosse libero (''fuori'').

Il 30 novembre 1986 nel corso di una telefonata intercorsa sempre tra Berlusconi e Dell'Utri, quest'ultimo riferiva al primo di avere parlato con Cinà e che quest'ultimo aveva escluso che la responsabilità dell'attentato potesse attribuirsi a Mangano, perché era detenuto.

Dell'Utri, tranquillizzando Berlusconi, concludeva la telefonata dicendogli che gliene avrebbe parlato di persona (Dell'Utri:" "Dunque, io stamattina ho parlato con quello lì... e poi ho visto Tanino ( .. ) che è qui a Milano. Ed invece è da escludere quella ipotesi .. perché è ancora dentro. Non è fuori. ( .) . E Tanino mi ha detto che assolutamente è proprio da escludere, ma proprio categoricamente. Comunque, poi ti parlerò .... perché ..... di persona. E quindi, non c'è proprio ... guarda, veramente, nessuna, da stare tranquillissimi, eh!"; Berlusconi: "ho capito''). Dell'Utri, dunque, da un lato escludeva la possibilità che l'artefice dell'attentato potesse essere stato Vittorio Mangano; dall'altro sottolineava a Berlusconi che poteva stare tranquillissimo e che in ogni caso, al riguardo, vi era qualcosa di cui doveva parlargli di persona.

Orbene, il motivo di detta rassicurazione è collegato al fatto che l'attentato di Via Rovani è del tutto estraneo ai rapporti di Berlusconi e Dell'Utri con "cosa nostra" e non è in alcun modo collegabile a quegli elementi di "avvitamento" nei rapporti tra le parti, indicati dalla Suprema Corte.

L'attentato, infatti, non era stato commesso da Riina e ad esso non può essere attribuito alcun significato rilevante nell'indagine della sussistenza dell'elemento soggettivo del dolo nella condotta di Dell'Utri. Come è stato già evidenziato dalle dichiarazioni di Galliano è emerso invero che tale attentato era stato commesso dalla mafia catanese di Nitto Santapaola. Deve essere ricordato che alla fine del 1986 Cinà in quella riunione tenutasi presso la villa di Giovanni Ci tarda ( uomo d'onore della famiglia di Malaspina e nipote di Cinà), Galliano - dopo avere appreso delle consegne di denaro da Dell 'Utri a Cinà e da quest'ultimo dapprima a Stefano Bontate e dopo la morte di Bontate ai Pullarà - aveva sentito Gaetano Cinà, che era "molto arrabbiato", lamentarsi del fatto che Dell'Utri aveva assunto un atteggiamento "ritroso" nei suoi riguardi, comunicando che, per questo motivo, aveva deciso che non sarebbe più andato a ritirare i soldi da Dell 'Utri a Milano.

Questo atteggiamento era iniziato subito dopo la morte di Stefano Bontate "cioè quindi dopo 1'81, '82". Mimmo Ganci - intuendo che la vicenda era rilevante, (Galliano "attraverso Berlusconi potevamo arrivare a Craxi'') ne aveva parlato con Salvatore Riina. E così agli inizi del 1987 Mimmo Ganci su ordine di Riina si era recato a Catania per imbucare una lettera intimidatoria indirizzata al Berlusconi e per effettuare, sempre da Catania, una telefonata di minaccia all'imprenditore. Ganci era andato con Francesco Spina, uomo d'onore della famiglia della Noce; dopo qualche settimana erano tornati nuovamente a Catania per fare una telefonata intimidatoria diretta ad Arcore ( al numero telefonico che gli aveva dato il Cinà) allo stesso Berlusconi.

Riina aveva ordinato che la telefonata e la lettera provenissero da Catania in quanto in quel periodo la mafia catanese di Nitto Santapaola aveva effettuato un attentato a Berlusconi posizionando un esplosivo nella "proprietà "di quest'ultimo. Riina - dopo averne parlato con il boss catanese - aveva fatto credere all'imprenditore che ad agire fossero stati i catanesi. (Galliano:" Il Riina quando li manda a Catania, li manda a Catania per due motivi: uno perché, dice, che quando aveva parlato con ... quando Riina parla con i catanesi .. i catanesi avevano messo in quel periodo una bomba in una proprietà del Berlusconi e quindi questo fatto cadeva a fagiolo ... diciamo .. autorizza ... i catanesi autorizzano, diciamo, i palermitani a imbucare la lettera e fare la telefonata a Catania per far capire che sempre le intimidazioni provengano dalla mafia catanese ").

Orbene appare evidente che l'attentato alla proprietà di Berlusconi la notte del 28 novembre 1986, poco prima che Ganci si recasse a Catania per mettere in atto le azioni intimidatorie nei confronti di Berlusconi (lettere e telefonate anonime), non era stata opera dei mafiosi palermitani, ma dei catanesi che avevano messo una bomba in una proprietà di Berlusconi). Riina, che ben conosceva la matrice di detto attentato, aveva ritenuto che l'azione di intimidazione che lui aveva ordinato a Mimmo Ganci sarebbe stata ricondotta alla mafia catanese. Detta circostanza doveva essere stata riferita a Dell'Utri da Cinà allorché l'imputato lo aveva chiamato per avere notizie dell'attentato, apprendendo che non poteva essere stato Mangano perché era in galera.

Come è stato già rilevato il giorno successivo, quando Dell'Utri aveva chiamato Berlusconi escludendo categoricamente la responsabilità di Mangano, gli aveva anche detto di stare tranquillissimo e che poi gli avrebbe spiegato di persona perché il coinvolgimento di quest'ultimo era categoricamente da escludere (Dell'Utri:" e Tanino mi ha detto che assolutamente è proprio da escludere ma proprio categoricamente .. comunque poi ti parlerò ... perché .. di persona'').

Orbene appare del tutto evidente che detto attentato non può m alcun modo significativo di "avvitamento o torsione" dei rapporti tra le parti interessate, proprio perché dette parti non erano protagoniste dell'attentato. Deve essere rilevato che Riina aveva fatto sì che le proprie azioni intimidatorie e cioè le lettere e le telefonate minatorie - di rilievo molto modesto rispetto all'attentato alla villa (anche questo invero non era stato di particolare gravità (Berlusconi: "fatta con molto rispetto, quasi con affetto") - creassero un turbamento in Dell'Utri per fargli cambiare atteggiamento nei confronti di Cinà e pagare una somma più alta; aveva però voluto escludere che tali azioni fossero riconducibili a lui.

Va invero ricordato che Dell 'Utri, malgrado avesse assunto un atteggiamento "ritroso" nei confronti di Cinà, secondo quanto riferito da quest'ultimo, facendolo aspettare per consegnargli la busta con i soldi, ha sempre onorato il patto del 1974. Non può tuttavia negarsi (l'argomento sarà oggetto di un successivo paragrafo) che la successione di Riina a Stefano Bontate aveva cambiato i rapporti interpersonali tra i protagonisti del patto. Riina, uomo dalle caratteristiche totalmente diverse da Bontate, che non ha mai avuto rapporti diretti e personali con Dell'Utri e che considerava quest'ultimo solo una disponibile fonte di guadagno ed anche un modo per tenere viva la possibilità di un legame con l'onorevole Craxi (attraverso Berlusconi), non aveva tollerato l'atteggiamento arrogante di cui si era lamentato Cinà.

Orbene dopo le azioni intimidatorie, Dell'Utri aveva chiamato a Milano Cinà per riferirgli quello che era successo. Cinà era tornato in Sicilia, aveva parlato con Di Napoli che aveva convocato Mimmo Ganci il quale si era rivolto al boss Riina. Era stato allora che quest'ultimo aveva ordinato che la somma doveva essere raddoppiata e che doveva chiedersi a Dell'Utri chi doveva pagare per la "messa a posto" delle emittenti televisive.

La richiesta di raddoppio della somma era stata accettata da Berlusconi e comunicata tramite Dell 'Utri che tuttavia per le televisioni aveva risposto che dovevano rivolgersi ai titolari delle emittenti locali. Le considerazioni fin qui svolte consentono di affermare che l'attentato alla villa di via Rovani, non ha lascito trasparire alcun mutamento dei rapporti tra le parti interessate; e se vi era stato un aumento della richiesta da parte di Riina, esso era da collegarsi non già all'attentato che era stato opera dei catanesi, ma alla volontà di Riina di riequilibrare i rapporti tra Dell'Utri e Cinà e di aumentare nel 1987 la somma che l'imprenditore in ascesa versava fin dal 1974. […]. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Nessun problema, si raddoppia il “pizzo” da versare a Cosa Nostra. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani l'01 dicembre 2023

Berlusconi sia con Bontate che con il capo corleonese, ha sempre manifestato costantemente la sua personale propensione a non ricorrere a mezzi ufficiali di tutela, contando sempre sulla mediazione di Dell'Utri. Quest'ultimo, nel tempo, ha pagato all'amico Cinà, ai Pullarà (dai quali si era sentito vessato e "tartassato") e poi di nuovo a Cinà, accordando a Riina l'aumento della posta cosi come gli era stato richiesto

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Il discorso riferito da Cinà, che aveva ingigantito i toni della questione e che aveva detto addirittura che non voleva più ritirare i soldi da Dell 'Utri, aveva preoccupato Riina che non aveva tollerato un simile gesto da parte di Dell'Utri e che temeva che i rapporti tra quest'ultimo e Cinà potessero interrompersi. Riina, come è stato più volte rilevato, considerava il rapporto con Dell'Utri di massima importanza non solo per i guadagni cospicui che da esso derivavano, ma anche in quanto Dell'Utri era il tramite con Berlusconi che avrebbe consentito a Riina di arrivare a Bettino Craxi.

E così, di fronte ad un atteggiamento che a lui era sicuramente sembrato di arroganza nei confronti non tanto di Cinà, ma di "cosa nostra", aveva deciso di rispondere mandando a Catania Mimmo Ganci per inviare le lettere e fare telefonate minatorie a Berlusconi di cui si è già detto. Anche tali az1om, del tutto sproporzionate rispetto al reale atteggiamento che Dell'Utri aveva tenuto nei confronti di Cinà, non appaiono significative di un mutamento dei rapporti esistenti tra Dell'Utri e "cosa nostra".

Del resto lo stesso Riina, non aveva voluto collegare le lettere e le telefonate minatorie del 1987 a lui ed alla famiglia mafiosa che rappresentava ed aveva fatto in modo che si credesse che l'attentato, le lettere e le telefonate avevano la stessa matrice mafiosa catanese. Il gesto, tuttavia, aveva avuto i suoi effetti in quanto Dell'Utri, che non aveva rapporti diretti con Riina a differenza di quanto era avvenuto con Bontate e Teresi, aveva chiamato Cinà per risolvere la questione. La risposta di Riina era stato il raddoppio della somma che da 50 milioni di lire era divenuta 100 milioni di lire.

I rapporti tuttavia erano rimasti immutati e Dell'Utri aveva continuato a pagare fino al 1992 senza alcuna lamentela. Né al raddoppio della somma deve attribuirsi un significato di vessazione considerato che se è vero che la richiesta era seguita alle minacce ricevute da Berlusconi, è pur vero che l'entità della somma era rimasta uguale dal 1974, eppure la posizione imprenditoriale di Berlusconi era mutata ed i suoi interessi, anche in Sicilia con le emittenti private erano in continua ascesa. Dell Utri non è mai parso riluttante nei pagamenti e anche di fronte al raddoppio della richiesta non aveva opposto alcun rifiuto, chiedendo solo che per le antenne " cosa nostra" doveva rivolgersi ai titolari delle emittenti locali. [...]. 

L'AVVENTO DI SALVATORE RIINA E DEI CORLEONESI

La Corte di Cassazione, infine, ha individuato come possibile elemento di torsione dei rapporti tra Dell'Utri e "cosa nostra" il "mutamento sostanziale degli equilibri esistenti rispetto a quelli che avevano garantito l'accordo del 1974 tra Berlusconi con l'intermediazione di Dell’Utri (e di Cinà) e "cosa nostra" che aveva a capo i boss mafiosi Bontate e Teresi. ", mettendo in evidenza che l'avvento della reggenza stragista era stato caratterizzato da una cifra criminale più alta voluta da Salvatore Riina.

Deve essere messo immediatamente in evidenza che l'esame del paradigma mafioso mostra in generale una tale complessità del fenomeno, risultante dall'insieme di infiniti aspetti, che non è possibile affermare, con rigido automatismo, che al mutamento soggettivo dei vertici mafiosi consegua un sostanziale mutamento degli equilibri nella gestione degli affari di "cosa nostra".

La mafia invero non è un fenomeno congiunturale, ma strutturale e continuativo seppur nel diverso svolgimento delle attività criminali che invero interessano diversi campi del vivere sociale. Fintanto che l'azione criminale sul territorio persiste nel districarsi tra crimine, accumulazione, arricchimento, gestione di potere, intimidazione e contestuale ricerca di mediazione, non può che affermarsi che si è di fronte all'agire mafioso tipico che può tuttavia estrinsecarsi in un intreccio di diverse attività.

Tanto premesso, reputa il Collegio che non può in alcun modo affermarsi - per le ragioni che già hanno costituito oggetto di esame - che la morte di Stefano Bontate e Girolamo Teresi ed il sopravvento di Totò Riina e dei corleonesi abbia mutato gli equilibri che avevano garantito l'accordo del 1974 tra Berlusconi e "cosa nostra" con l'intermediazione di Dell'Utri.

Ed invero gli equilibri sanciti nel patto del 1974, che prevedevano il pagamento di una somma di denaro da parte dei Berlusconi a "cosa nostra" con la costante mediazione di Dell'Utri che aveva assicurato, da un lato la generale protezione dell'imprenditore, dall'altro profitti e guadagni illeciti utili al rafforzamento e/o alla conservazione dell'associazione mafiosa che per circa un ventennio aveva mantenuto contatti con il facoltoso imprenditore, sono rimasti del tutto immutati nel corso degli anni e, quantomeno, fino al 1992.

L'unico cambiamento sostanziale del patto del 1974 ha riguardato la componente soggettiva che, nel 1981 nel corso della guerra di mafia, è cambiata in seguito all'eliminazione di Bontate e Teresi seguita dall'avvento di Totò Riina. Detta successione, tuttavia, dal punto di vista della "causa" illecita del patto, ha comunque lasciato immutato il mancato riconoscimento del monopolio statale (o privato, ma lecito) nella ricerca della protezione.

Berlusconi, infatti, sia con Bontate che con il capo corleonese, ha sempre manifestato costantemente la sua personale propensione a non ricorrere a mezzi ufficiali di tutela, contando sempre sulla mediazione di Dell'Utri. Quest'ultimo, nel tempo, ha pagato all'amico Cinà, ai Pullarà (dai quali si era sentito vessato e "tartassato") e poi di nuovo a Cinà, accordando a Riina l'aumento della posta cosi come gli era stato richiesto.

La caratteristica tipicamente egemonica e dittatoriale storicamente riconosciuta ai "corleonesi" (i mafiosi cioè provenienti da Corleone) ed al loro capo Riina si è espressa totalmente al di fuori del patto stretto tra "cosa nostra" da una parte e Dell'Utri e Berlusconi dall'altra. Detto patto è rimasto del tutto estraneo alla guerra di mafia svoltasi tra il 1981 ed il 1983 che ha visto vincitori i corleonesi che, per conquistare un potere assoluto all'interno di " cosa nostra", avevano eliminato fisicamente i loro avversari (tra i quali Bontate e Teresi) stringendo nuove alleanze ed imponendosi con uno spargimento di sangue che è rimasto unico nella memoria della storia mafiosa siciliana.

La strategia di Totò Riina, seppur caratterizzata da una cifra criminale elevata ed efferata, non ha mai palesato nessuna volontà di modificare il rapporti con Berlusconi e con Dell'Utri. Basti pensare che, seppur azzerando i vertici mafiosi delle famiglie avversarie (comprese quelle che facevano parte della " commissione"), Riina ha consentito che il pagamento del prezzo dell'estorsione venisse riscosso dai fratelli Pullarà, uomini d'onore originariamente appartenenti alla famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù passati poi ai corleonesi e ai quali poi lo stesso Riina aveva affidato la reggenza del mandamento; tale decisione ha manifestato la precisa volontà di mantenere immutato il rapporto estorsivo che era stato fino a quel momento di Bontate e Teresi Ed ancora, milita proprio a favore della volontà di mantenere sostanzialmente intatto il patto del 1974, il fatto che Riina, subito dopo avere ascoltato le lamentele di Dell'Utri in ordine al "tartassamento" subito dai Pullarà, abbia pensato di estrometterli dal rapporto con Dell'Utri, ripristinando l'antico rapporto di consegna di denaro che era stato deciso nel 1974 proprio a seguito dell'incontro milanese.

Né dalla richiesta del raddoppio della somma chiesta da Riina, può desumersi un mutamento dei rapporti tra le parti interessate, atteso che a fronte di tale richiesta - fatta in risposta all'atteggiamento riottoso di Dell Utri del quale si era lamentato Cinà e per adeguare la somma già percepita alla crescita economica delle società dell'imprenditore milanese - non era intervenuto nessun rifiuto e nessuna lamentela da parte di Dell 'Utri che aveva accettato di pagarla senza nulla obiettare. Riina, invero, aveva un fortissimo interesse al mantenimento del rapporto con Dell 'Utri, essendo ben noto il suo legame personale e professionale con Berlusconi che Riina considerava vicino a Bettino Craxi. […]. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Dell’Utri e i “rapporti di vicinanza” con Vito Ciancimino e Arturo Cassina. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 02 dicembre 2023

L'altro fatto accaduto nel contesto temporale in esame che ha palesato una contiguità significativa con personaggi mafiosi, è la visita presso la Banca Popolare di Palermo di Dell 'Utri e Vito Ciancimino. Deve rilevarsi che qui si tratta di esaminare contatti che, seppur non rilevanti penalmente, tradiscono il medesimo atteggiamento che l'imputato ha costantemente tenuto nel corso del periodo oggetto del presente giudizio nei confronti di "cosa nostra" e dei suoi associati

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

L’altro fatto accaduto nel contesto temporale in esame che ha palesato una contiguità significativa con personaggi mafiosi, è la visita presso la Banca Popolare di Palermo di Dell 'Utri e Vito Ciancimino nel 1987.

Deve in primo luogo rilevarsi che qui non si tratta di valutare rapporti di "vicinanza" di un soggetto nei confronti di un esponente dell'associazione mafiosa "cosa nostra", relazioni di per sé riprovevoli da un punto di vista etico sociale", ma di per sé estranee, tuttavia l’area penalmente rilevante del concorso esterno in associazione mafiosa" (v. sentenza "Mannino "), ma piuttosto di esaminare contatti che, seppur non rilevanti penalmente, tradiscono il medesimo atteggiamento che l'imputato ha costantemente tenuto nel corso del periodo oggetto del presente giudizio nei confronti di "cosa nostra" e dei suoi associati.

Scilabra, sentito all'udienza del 17 ottobre 2012 ha reso dichiarazioni che, per i motivi che saranno di seguito espressi, devono ritenersi attendibili e sulla base delle quali è possibile affermare che nel 1987 Dell'Utri si sia recato con Vito Ciancimino, che era stato Sindaco di Palermo e già condannato per mafia, presso la Banca Popolare di Palermo, rivolgendosi a Scilabra, direttore generale dell'epoca, per chiedere un finanziamento, non garantito, di venti miliardi di lire.

La vicenda di Scilabra ha preso le mosse da una sua intervista su “Il Fatto Quotidiano” il 23 ottobre 2010 a seguito della quale, lo stesso veniva sentito dai magistrati della D.D.A. della Procura della Repubblica di Palermo il 29 ottobre 2010. All'udienza del 17 ottobre 2012 Scilabra, direttore generale della Banca Popolare di Palermo dal 1975, dinanzi questa Corte territoriale, confermando quanto dichiarato ai PP.MM. ha affermato che nel 1987 (la data era stata in precedenza indicata nel 1986), su indicazione di Arturo Cassina, azionista della Banca Popolare di Palermo di cui Scilabra aveva ricevuto Marcello Dell 'Utri e Vito Ciancimino.

Cassina era "agganciatissimo" a Vito Ciancimino, in quanto quest'ultimo era Sindaco di Palermo e Cassina svolgeva lavori nell'edilizia pubblica (''faceva manti stradali, fognature ... sostanzialmente era agganciatissimo a Ciancimino "). L'oggetto della visita era stato la richiesta di un finanziamento di venti miliardi di lire che dovevano essere restituiti in 36 mesi.

Dell'Utri aveva proposto quest'operazione e Ciancimino, secondo Scilabra, aveva svolto il ruolo di "mediazione, di presentazione ". Nelle dichiarazioni rese il 29 ottobre 2010 al P.M. (confermate all'udienza del 17 ottobre 2012) Scilabra aveva ricordato che era stato Ciancimino a presentargli Dell 'Utri, che si era definito come consulente del gruppo di Berlusconi (Scilabra: "prima Ciancimino mi presentò Dell'Utri: “Direttore sa qui c'è la possibilità di fare grosse operazioni perché se tutte le Popolari vi mettete in pool fate un 'operazione in pool poniamo di un miliardo l'anno .. venti popolari fate una bella operazione .. gli interessi vengono pagati in maniera sostanziosa").

Dell'Utri aveva chiarito i termini dell'operazione fornendo precisi dettagli: si trattava di una richiesta di 20 miliardi da restituire in 36 mesi. Scilabra gli aveva detto che doveva sentire i colleghi delle altre sedi della Sicilia e prospettava il rientro della somma con un'operazione di revolving (Scilabra: "dico .. questi venti miliardi rientrano con un operazione di revolving ... cioè io vi do 20 miliardi .. tu dopo i quattro mesi lavori ... me ne restituisci due intanto paghi gli interessi").

Dell'Utri non aveva assecondato la proposta del direttore ed aveva detto che l'operazione doveva essere secca in "36 mesi", senza che da ciò potesse derogarsi. Scilabra ha ricordato che, ancor prima di chiamare la Centrale Rischi della Banca d'Italia, aveva considerato che un 'operazione in questi termini, priva di garanzie, non si poteva fare (Scilabra:" io la fattibilità l'ho considerata immediatamente perché non si fa un 'operazione revolving a "babbo morto", ma dove è scritto in quale trattato di tecnica bancaria è scritto... operazioni revolving sono revolving perché c'è un'entrata ed un'uscita di denaro ed il banchiere deve vedere come vanno le cose ... in 30 mesi si fallisce e buonanotte e il banchiere non ne capisce un tubo'').

Scilabra, così come aveva detto a Ciancimino e a Dell'Utri, aveva chiamato le altre banche popolari della Sicilia (Carlo La Lumia e Giuseppe Di Fede della Banca Popolare di Canicattì, il direttore della Banca Popolare di Augusta, Gaetano Trigilia, direttore della Banca di Siracusa, Francesco Romano della Popolare di Carini), ma i colleghi delle altre banche non avevano considerato conveniente l'operazione ("non mi hanno fatto pernacchie per miracolo di Dio'') ( v.dich. rese il 20 ottobre 2010 ai PP.MM).

La Centrale Rischi presso la Banca d'Italia rispondendo alla richiesta di controllo che Scilabra aveva inoltrato sui conti Fininvest, gli aveva riferito che in quel momento il debito della Fininvest si stava impennando.

Le risposte che forniva la Centrali Rischi venivano date su alcune strisce di carta che venivano conservate per dieci anni. Ciancimino era ritornato dopo qualche giorno e, venuto a conoscenza della risposta negativa, aveva offeso Scilabra dicendogli che non sapevano fare i banchieri e che erano delle banche di nessun valore (Scilabra:" poi lui con me quando gli ho dato a risposta mi ha detto "siti bancaredde" ( siete banchette) ... non contate niente '').

Scilabra ha ricordato che in un primo momento un suo amico giornalista de "Il Sole 24 ore" gli aveva chiesto di rendere un'intervista su "queste vicende palermitane" in quanto lui era "memoria storica della Sicilia".

L'intervista tuttavia non era stata fatta perché il direttore Gianni Riotta aveva detto che in quel momento non era possibile, comunicandoglielo "con nota riservata". Scilabra allora si era adirato ("allora m'incazzo'') ed aveva deciso di parlare ugualmente; era stato così che, tramite amici che conosceva, avendo in mente di scrivere un libro aveva reso l'intervista sul Fatto Quotidiano.

Su queste basi deve essere espressa una valutazione positiva, sia in punto di credibilità soggettiva sia in punto di attendibilità intrinseca delle dichiarazioni di Scilabra che appaiono sicuramente spontanee e coerenti.

Né esse appaiono ricollegarsi ad alcuna situazione di coercizione e di condizionamento, contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa che, nel corso dell'udienza del 17 ottobre 2010 aveva chiesto al testimone se era stato "sollecitato" a chiedere di fare l'intervista al Sole 24 Ore e al Fatto Quotidiano. Scilabra ha spiegato i motivi che lo avevano spinto a parlare di tali circostanze. Il tono e le frasi adoperate hanno manifestato la spontaneità e la genuinità della risposta: aveva "finalmente" deciso di dire la verità.

Era stato spinto a parlare da un senso civico; ad un certo punto della sua vita aveva avuto coraggio e non aveva tollerato, alla sua età e dopo aveva lavorato per 43 anni, che ancora si ci chiedesse se Dell'Utri e Ciancimino si conoscevano o meno. (Scilabra: Nella vita arriva il coraggio, ad un certo momento. Questa è la risposta"; Avvocato:" È arrivato così ali 'improvviso?". Scilabra:"Eh, si! Che vuole! Dopo quarantatre anni di lavoro e ancora parliamo se si conoscevano, se non si conoscevano .. (..) Dell'Utri ed il sindaco di Palermo "Presidente:" cioè Ciancimino ? Scilabra:" Si''. (v. dich. rese all'ud. del 17.10.2012).

Non può non sottolinearsi che il racconto del teste sulla Banca Popolare di Palermo e più in generale sul sistema del credito siciliano negli anni in cui lui aveva ricoperto la carica di direttore è dettagliatissimo ed è stato costellato da commenti che possono provenire solo da un soggetto che ha vissuto un'esperienza lavorativa con serietà e competenza.

La visita di Ciancimino e di Dell'Utri presso il suo ufficio non ha assunto nell'intero racconto dei fatti una centralità assoluta e lo Scilabra lo ha descritto senza alcuna enfasi. Appare invero del tutto impensabile che Scilabra, a settantatrè anni, direttore generale dal 1975 della Banca Popolare di Palermo abbia mentito inventando un incontro che non era mai avvenuto e che poi a distanza di due anni abbia ancora una volta ribadito quanto aveva dichiarato in precedenza dinanzi a questo Collegio, con lo stesso tono deciso e spontaneo.

La difesa aveva chiesto di produrre documentazione riguardante la situazione economico finanziaria della Fininvest per gli anni 1986 e 1987 e ciò al fine di contestare le affermazioni dello Scilabra che nel descrivere la situazione economico finanziaria della Fininvest aveva riferito fatti che non corrispondevano alla realtà.

Il Collegio ha rigettato detta richiesta di integrazione probatoria ritenendola non decisiva. Rinviando alle motivazioni contenute nell'ordinanza del 23 novembre 2012, deve qui solo sottolinearsi che, com'è noto, non sempre a bilanci apparentemente in attivo o, come ha dedotto la difesa nella nota difensiva del 17 ottobre 2012, che manifestano un indebitamento "nei confronti delle banche di entità modesta", si accompagna una reale forza finanziaria ed un liquidità della stessa società.

È possibile dunque, malgrado tali bilanci vi sia la necessità di chiedere la concessione di un prestito di somme di denaro meglio se non accompagnate da sicure garanzie.

Deve rilevarsi che Scilabra ha riferito che Ciancimino aveva un suo personale interesse a che Dell'Utri ottenesse il prestito di 20 miliardi, in quanto dal buon esito dell'operazione avrebbe ottenuto una somma per la sua intermediazione ( Scilabra:"non è stato detto ... ma io ho capito che c'era la sensalia").

SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO BIS

Una zona grigia fatta di raccomandazioni, mediazioni e amicizie pericolose. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 03 dicembre 2023

Le considerazioni fin qui svolte hanno consentito di ritenere che le dichiarazioni di Scilabra sono del tutto attendibili e che, dunque, Dell'Utri si sia recato con Ciancimino presso la Banca Popolare, per chiedere un importante finanziamento. Nel richiedere tale finanziamento Dell'Utri aveva scelto di andare con Ciancimino in quanto costui non solo era intraneo a "cosa nostra", ma era principalmente amico del presidente della banca e ciò al fine di ottenere vantaggi che altrimenti non avrebbe potuto ottenere

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Il rapporto di Ciancimino con l'ing. Cassina avrebbe potuto facilitare la concessione del prestito, appare dunque spiegabile il motivo per il quale Dell'Utri avesse deciso di ricorrere ad un banca siciliana chiedendo, nel 1987 un prestito "secco" a trentasei mesi, di venti miliardi.

A fronte dei rilievi della difesa sulla attendibilità delle dichiarazioni di Scilabra, rileva il Collegio che non sono emerse ragioni di astio o di rancore nei confronti di Dell 'Utri che Scilabra neppure conosceva.

La difesa infine ha messo in evidenza che Scilabra non aveva assunto un serio contegno nel corso delle dichiarazioni rese davanti ai PP.MM., rilevando che si era fatto delle risate come se raccontasse barzellette. Orbene rileva il Collegio che, contrariamente a quanto sottolineato dalla difesa non può attribuirsi alcun rilievo negativo al tono adoperato da Scilabra nel corso delle dichiarazioni e ad alcune affermazioni iperboliche che lo stesso ha pronunciato quale ad esempio "lo posso dire che se io potessi li ammazzerei fisicamente? No l'arrestassi - che vuole che le dica io a Berlusconi lo ammazzerei".

È stato proprio il tono adoperato dal teste m alcuni tratti dissacratore, in altri accoratamente disilluso, m altri ancora amareggiato per le sorti della Sicilia, che ha conferito credibilità alle dichiarazioni che lo stesso ha reso.

Lo stesso Scilabra, anche chiedendo con tono scherzoso l'eliminazione di alcuni passaggi di tali dichiarazioni di contenuto, chiaramente provocatorio, pronunciate ridendo ( P .M.:" no, siamo in registrazione quindi"; Scilabra : "tagliamola ( ridendo)") e rivolte in larga misura non a Dell 'Utri, ma semmai a Berlusconi, ha spiegato - anche nel corso del presente giudizio - che lo sfogo si inseriva in un contesto di rammarico" di un vecchissimo liberale" (v. dich rese all'ud. del 17.10.2010) per la situazione in cui si trovava l'Italia e in cui alla fine degli anni '80 si erano trovate le banche siciliane, compresa la sua, banche che erano state acquistate dai " signori padani".

I toni, invero, non sempre consoni ad una deposizione testimoniale hanno tuttavia tradotto fedelmente quello che Scilabra intendeva dire e non hanno mai oscurato la serietà delle circostanze riferite ( si pensi ad esempio al passaggio in cui, volendo sottolineare che le altre banche popolari avevano ritenuto del tutto impensabile che potesse essere accolta la richiesta di finanziamento nei termini prospettati da Dell'Utri , Scilabra ha dichiarato: "non mi hanno fatto pernacchie per miracolo di Dio"; o quando ha ricordato la sua arrabbiatura allorchè aveva ricevuto la nota con cui il giornalista Riotta gli aveva comunicato con una nota che non gli avrebbe fatto rilasciare alcun intervista sui fatti siciliani di cui Scilabra avrebbe voluto parlare; o ancora deve essere rammentata la definizione data ai figli di Cassina come degli assoluti incompetenti - "niente cretini tutti, tutti un pugno di cretini uno più cretino dell'altro perché lì la persona intelligente era Pasquale Nisticò il marito della figlia Giovanna il braccio destro " - e che Scilabra reputava responsabili di avere estromesso il cognato ed avere portato al crollo la Banca).

Né la spontaneità e l'assenza di ragioni di astio nei confronti di Dell'Utri, chiaramente emerse da quanto fin qui esposto, possono essere annebbiate, come prospettato dalla difesa, dal giudizio civile proposto da Dell'Utri nei confronti di Scilabra a seguito dell'intervista sul Fatto Quotidiano, atteso che tale giudizio, successivo alle dichiarazioni rese da quest'ultimo al PP.MM, non ha inciso in alcun modo sul contenuto delle stesse che difatti sono state confermate nel presente giudizio.

Peraltro sarebbe giuridicamente illogico fare dipendere l'attendibilità di chi rende dichiarazioni accusatorie nei confronti di un soggetto dalla presentazione della denuncia per il reato di calunnia da parte da parte dell'accusato.

Vè da rilevare che oltre a tale irrilevanza, deve considerarsi che tale atto non è compreso tra quelli indicati nell'art 238 c.p.p. ed il Collegio, ha rigettato anche per tale motivo la richiesta di acquisizione dell'atto di citazione relativo a quel giudizio ( v. ordinanza del 23 novembre 2012 al cui contenuto si rinvia). Ed ancora non appare significativo, per escludere credibilità al racconto del teste, il fatto che Vito Ciancimino, nel periodo in cui Scilabra aveva collocato la visita in banca, era sottoposto con decreto della Sezione misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo del 5 luglio 1985, alla misura della sorveglianza speciale di P.S. con obbligo di soggiorno nel Comune di Rotello (Campobasso) per la durata di quattro anni e che lo stesso Ciancimino, si era allontanato da tale Comune, nell'arco di tempo compreso tra il 1986 ed il 1987, solo in 5 occasioni per comparire dinanzi alle autorità giudiziarie in occasione di diversi procedimenti penali o per predisporre difese.

Rileva invero il Collegio che le modalità dei permessi concessi a Ciancimino durante la misura di prevenzione alla quale era sottoposto escludono qualsiasi incompatibilità di tale misura con la breve visita di Dell'Utri e Ciancimino (Scilabra: "un quarto d'ora, venti minuti'') che si era svolta a Palermo, dove quest'ultimo era stato autorizzato a recarsi.

Ed infatti, deve mettersi in rilievo da un lato che i permessi sono stati concessi per presentarsi davanti le autorità giudiziarie palermitane; dall'altro che il periodo di tempo concesso per ciascuno dei permessi è stato compreso tra i nove giorni ed i quindici giorni. ( v. documentazione depositata all'udienza del 5 dicembre 2012).

Deve infine considerarsi che dell'esistenza di rapporti esistenti tra Ciancimino e Dell'Utri ha parlato anche Angelo Siino che, nel corso del giudizio di primo grado all'udienza del 9 giugno 1998, ha affermato che Stefano Bontade gli aveva confidato che Dell'Utri aveva rapporti con Ciancimino ed Alamia con i quali aveva una società di costruzioni (Siino:" diceva .. al Dell'Utri così parlammo chiaramente e ci ho detto : Si lo conoscevo, conosco il fratello, l'avevo visto al Don Bosco, eravamo compagni di scuola" lui mi disse che si occupava di questioni finanziarie e poi aveva una società riguardante costruzioni e mi feve un accenno anche a Vito Ciancimino e mi pare un certo Alamia, con cui avevano a che fare, con cui Dell'Utri aveva a che fare).

E cosi mentre il Tribunale non era stato "in grado" di attribuire a tale frase uno specifico significato, nel presente giudizio di rinvio essa si pone come una conferma alle affermazioni di Scilabra.

Le considerazioni fin qui svolte hanno consentito di ritenere che le dichiarazioni di Scilabra sono del tutto attendibili e che, dunque, Dell'Utri si sia recato con Ciancimino, soggetto della quale all'epoca già si conosceva lo spessore criminale, presso la Banca Popolare, per chiedere un importante finanziamento, nei termini già chiariti.

Nel richiedere tale finanziamento Dell'Utri aveva scelto di andare con Ciancimino in quanto costui non solo era intraneo a "cosa nostra", ma era principalmente amico del presidente della banca e ciò al fine di ottenere vantaggi che altrimenti non avrebbe potuto ottenere.

La condotta di Dell'Utri mostra come ancora una volta come l'imputato, così come era avvenuto allorchè si era fatto accompagnare da Cinà dall'imprenditore Rapisarda, abbia scelto di chiedere appoggio ad esponenti di cosa nostra per realizzare propri interessi personali.

Il fatto del suo rapporto di conoscenza con Ciancimino e della sua richiesta di finanziamento presso la Banca Popolare di Palermo, ove si era recato con quest'ultimo - a fronte del quadro probatorio emerso e sulla base del quale è stato ritenuto provato che l'imputato ha fornito il contributo "atipico" del concorrente esterno dal 1974 al 1992 - assume una rilevanza del tutto marginale, ma consente di affermare che Dell'Utri ha chiesto appoggio, seppur nella forma di una semplice "raccomandazione", ad esponenti di cosa nostra in situazioni (recupero delle somme in nero del contratto di sponsorizzaizone, concessione di un prestito "secco" di venti miliardi da restituire in trentasei mesi) in cui riteneva si prospettasse come necessario un aiuto per superare limiti che si erano presentati alla realizzazione dei suoi interessi.

SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

La sentenza: colpevole «al di là di ogni ragionevole dubbio». SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 04 dicembre 2023

La consuetudine della condotta e dell'atteggiamento assunto dall'imputato nei confronti di soggetti appartenenti al sodalizio mafioso ed ai quali ha fatto ricorso per tutelare gli interessi delle attività imprenditoriali di Berlusconi, hanno mostrato che Dell'Utri, per venti anni, ha contribuito al rafforzamento ed alla conservazione del sodalizio mafioso incidendo effettivamente sulle concrete capacità operative dello stesso, che difatti, non ha mai voluto rischiare di mettere in crisi il rapporto con l'imputato

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Le considerazioni fin qui svolte consentono di affermare la responsabilità penale dell'imputato per l'unico delitto di concorso esterno in associazione mafiosa, assorbita l'imputazione di cui al capo a) della rubrica in quella di cui al capo b) per un periodo di tempo compreso tra il 1974 ed il 1992. Ed invero a seguito della sentenza della Corte di Cassazione ( con riguardo al periodo 1974-1977) era stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontate e Teresi avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a "cosa nostra" per ricevere in cambio protezione.

Tale accordo era stato raggiunto proprio in virtù dell'opera di mediazione svolta da Dell'Utri - che aveva fatto ricorso a Gaetano Cinà - tra l'associazione mafiosa e Berlusconi. In seguito all'incontro e su indicazione dello stesso imputato, si era verificato l'arrivo ad Arcore di Vittorio Mangano che non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi ed i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore.

Esisteva poi la prova dei pagamenti che Berlusconi aveva fatto proprio in virtù di quell'accordo e dei quali avevano parlato Di Carlo, Galliano, Cucuzza e Scrima; Galliano in particolare aveva rammentato che Cinà gli aveva riferito che era stato lui a ritirare le somme e Di Carlo aveva dichiarato che dopo l'incontro del 1974 Cinà gli aveva riferito il suo imbarazzo perché gli era stato detto di chiedere, per la protezione, la somma di 100 milioni di lire.

Svolgendo detta attività di mediazione, Dell'Utri, che aveva contatti diretti non solo con l'amico Cinà, ma anche con i boss Teresi e Bontate ed anche con Vittorio Mangano ( che lui aveva segnalato per farlo assumere ad Arcore), aveva contribuito con assoluta consapevolezza e volontà al rafforzamento dell'associazione mafiosa; quest'ultima con la costante opera di mediazione di Dell'Utri aveva realizzato il proprio programma economico essendo entrata in contatto con l'imprenditore Berlusconi dal quale riceveva cospicue somme di denaro.

All’esito di questo giudizio di rinvio, questa Corte territoriale ritiene che deve affermarsi la responsabilità penale dell'imputato per il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa anche con riferimento al periodo compreso tra il 1978 ed il 1992. Seguendo il percorso tracciato dalla sentenza della Corte di Cassazione e sottoponendo a nuova valutazione i fatti e le circostanze indicate in tale pronuncia è incontestabilmente emersa la permanenza del delitto di concorso esterno per tutto il periodo in esame ed anche nel periodo in cui Marcello Dell'Utri era andato a lavorare da Rapisarda lasciando l'area imprenditoriale di Berlusconi e anche per il tempo successivo fino al 1992.

Con riferimento al primo segmento temporale, non può non rammentarsi come Dell'Utri avesse cercato l'appoggio di Cinà anche con riferimento a tale rapporto lavorativo, facendosi accompagnare da quest'ultimo dall'imprenditore Rapisarda. Lui, l'imputato, che avrebbe potuto contare sui suoi titoli professionali, si era fatto accompagnare presso l'imprenditore che sarebbe stato il suo nuovo datore di lavoro da Gaetano Cinà, titolare di una lavanderia a Palermo e soggetto al quale lo stesso imputato già da anni consegnava i soldi di Berlusconi per farli pervenire a" cosa nostra".

Nello stesso periodo sono stati registrati contatti rilevanti con i soggetti con i quali Dell'Utri aveva stretto il patto nel 197 4 o che a tale patto erano in altro modo direttamente collegati ( Vittorio Mangano, assunto proprio a tutela dell'imprenditore e della sua famiglia) e ciò a riprova della sua volontà di mantenere la situazione antigiuridica che aveva egli stesso determinato.

Il ruolo di agevolazione dell'esecuzione della parte patrimoniale dell'accordo (in ordine al quale la Corte di Cassazione aveva ritenuto che la sentenza annullata avesse omesso di fornire un'adeguata motivazione) è emerso altresì dalle dichiarazioni rese dai collaboranti di giustizia, Galliano, Ganci ed Anzelmo che hanno dichiarato che dopo la morte di Bontate, i rapporti che facevano capo a quest'ultimo erano stati ereditati dai fratelli Ignazio e Giovan Battista Pullarà, con ciò confermando una prosecuzione del rapporto sinallagmatico che era stato concluso nel 1974 e la continuità dei pagamenti non essendo peraltro emersi fatti o circostanze che ne hanno lasciato intravedere un'interruzione.

Le dichiarazioni rese da Brusca, che aveva parlato di una ripresa di tali pagamenti nel 1986 a seguito di una loro interruzione dopo la morte di Bontate, sono risultate in assoluto contrasto con le concordi dichiarazioni rese dai collaboranti di giustizia che avevano riferito che i rapporti che facevano capo a Bontate erano stati ereditati dai Pullarà ( con ciò palesando una continuità dei pagamenti) e per la loro incertezza e contraddittorietà, inidonee a superare quanto era stato probatoriamente accertato sulla base delle suddette dichiarazioni.

In relazione poi al periodo successivo al 1982 è stato dimostrato che il patto concluso nel 1974 aveva subito solo un cambiamento della componente soggettiva mafiosa: dopo la morte di Bontate, avvenuta nell'aprile del 1981 era subentrato Totò Riina che con i corleonesi era stato vincitore della efferata guerra di mafia.

Gli accadimenti, sui quali la Corte di Cassazione aveva chiesto un nuovo giudizio da parte di questo giudice di rinvio, non hanno palesato alcun mutamento o torsione nei rapporti tra Dell'Utri-Berlusconi e" cosa nostra", essendo emerso l'interesse delle parti a salvaguardare un equilibrio prezioso per entrambe. Deve rilevarsi che le uniche doglianze che, nell'arco di un ventennio sono state registrate da parte di Dell'Utri, hanno riguardato solo il comportamento dei fratelli Pullarà che, secondo l'imputato, avevano esagerato con le vessazioni e dai quali si era sentito "tartassato".

La lamentela sull'atteggiamento vessatorio dei Pullarà era stata esposta da Dell'Utri, ancora una volta all'amico Cinà, e - pervenuta a Riina- aveva avuto come conseguenza l'estromissione dei Pullarà dal rapporto con l'imputato e la sostituzione con Cinà, senza che vi fosse stata mai una condotta di Dell'Utri di recessione dal patto.

E' stato altresì messo in luce come l'imputato non abbia mai cessato di mediare tra gli interessi di Berlusconi e "cosa nostra" garantendo l'esecuzione del patto anche rivolgendosi - a seguito dell'attentato subito dall'amico imprenditore nel 1986- immediatamente a Cinà per sapere quale fosse la matrice dello stesso e rassicurando Berlusconi sull'estraneità di Vittorio Mangano alla vicenda.

Né è possibile affermare che Dell'Utri sia stato una vittima, associata in tale destino all'amico Berlusconi: i rapporti cordiali e di amicizia che Dell'Utri (ed anche la famiglia di quest'ultimo) ha intrattenuto con Gaetano Cinà, cioè con colui che aveva personalmente raccolto i soldi che provenivano dall'imprenditore Berlusconi; i rapporti intrattenuti con Vittorio Mangano, rapporti di assoluta confidenza e mai condizionati dal timore evocato dall'imputato, l'atteggiamento di mediazione sperimentato, sempre attraverso Cinà, con Totò Riina nel periodo successivo alla morte di Bontate e fino al 1992, sono del tutto incompatibili con il rapporto che lega l' estortore e la vittima. Già la Corte di Cassazione, per il periodo compreso tra il 197 4 ed il 1977 aveva ritenuto di " natura assolutamente opposta a quella che connota il rapporto tra estorto ed estortore" i rapporti intrattenuti da Dell'Utri con i soggetti mafiosi già evocati.

La permanenza della condotta delittuosa ed il riproporsi senza rilevanti mutamenti, se non quelli collegati alla successione nel tempo di Riina a Bontate e Teresi, consentono di affermare con decisa convinzione che anche per il periodo successivo, oggetto del presente giudizio di rinvio, non si sono neppur intravisti indizi che potessero far insorgere il dubbio che Dell'Utri avesse assunto il nuovo ruolo di vittima e non più di intermediario tra gli interessi di Berlusconi e di "cosa nostra".

Il procuratore Generale aveva avanzato una richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale chiedendo di sentire, nella qualità di testimone, Silvio Berlusconi perché, genericamente, riferisse su fatti attinenti al presente processo. La Corte aveva ritenuto non indispensabile e non decisiva detta deposizione e pertanto aveva rigettato, per le motivazioni esposte nell'ordinanza del 25 luglio 2012, alla quale si rinvia, detta richiesta. Deve rilevarsi solo rammentarsi che nel corso del giudizio di primo grado, Berlusconi si era avvalso della facoltà di non rispondere e che la Corte d'Appello della sentenza annullata aveva rigettato la richiesta di ammissione della prova testimoniale rilevando proprio che Berlusconi si era avvalso di tale facoltà.

La Corte di Cassazione aveva ritenuto "affidata ad ipotesi e congetture della difesa la denuncia di manifesta illogicità della motivazione della Corte" che invece aveva reso una congruente motivazione del rigetto. Peraltro in questo processo non era stato allegato alcun elemento che poteva far ritenere che la deposizione testimoniale di Berlusconi fosse idonea a superare la completezza della istruzione dibattimentale: questo Collegio ha ritenuto pertanto che non sussistessero valide ragioni per ammettere la richiesta del P.G. Dell'Utri ha sempre svolto un proprio ruolo di mediatore mantenendo il canale di collegamento tra "cosa nostra" e Berlusconi ed accogliendo le richieste di pagamento ed anche il raddoppio di detto pagamento disposto da Riina.

La consuetudine della condotta e dell'atteggiamento assunto dall'imputato nei confronti di soggetti appartenenti al sodalizio mafioso ed ai quali ha fatto ricorso per tutelare gli interessi delle attività imprenditoriali di Berlusconi, hanno mostrato che Dell'Utri, per venti anni, ha contribuito al rafforzamento ed alla conservazione del sodalizio mafioso incidendo effettivamente sulle concrete capacità operative dello stesso, che difatti, non ha mai voluto rischiare di mettere in crisi il rapporto con l'imputato.

I vantaggi che sono derivati dall'opera di mediazione svolta da Dell'Utri sono stati di enorme rilievo anche per il tempo in cui si sono protratti e per l'importanza del soggetto che era costretto a pagare per ricevere un'ampia protezione. La peculiarità del comportamento di Dell'Utri è consistita nel suo modo speciale e duraturo di rapportarsi con gli esponenti di "cosa nostra" non provando mai in un ventennio, nessun imbarazzo o indignazione nell'intrattenere rapporti conviviali con loro, sedendosi con loro allo stesso tavolo.

Qui non si tratta di "ravvisare relazioni e contiguità sicuramente riprovevoli da un punto di vista etico e sociale , ma di per sé estranee ali 'area penalmente rilevante del concorso esterno in associazione", si tratta di valutare la condotta di un soggetto che, per un ventennio, pur non essendo intraneo all'associazione mafiosa, ha voluto consapevolmente interagire sinergicamente con soggetti acclaratamente mafiosi, rendendosi conto di apportare con la sua opera di mediazione un'attività di sostegno all'associazione senza dubbio preziosa per il suo rafforzamento

Né può sostenersi che Dell'Utri, dopo avere intrattenuto così a lungo rapporti personali con boss mafiosi del calibro di Bontate, non sia stato consapevole delle finalità perseguite dall'associazione mafiosa: l'imputato aveva perfettamente chiari sia il vantaggio perseguito da "cosa nostra" , che l'efficacia causale della sua attività per il mantenimento ed il rafforzamento della stessa associazione criminale. Dell'Utri, pertanto, va ritenuto penalmente responsabile "al di là di ogni ragionevole dubbio" della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Le motivazioni. La trattativa tra Stato e Mafia non è mai esistita, perché Mori e De Donno sono stati assolti in Cassazione. Non ci sono più scuse per una Commissione parlamentare d’inchiesta sul dossier per il quale Borsellino si era scontrato con i colleghi della Procura di Palermo e che, secondo l’ex comandante del Ros “avrebbe potuto cambiare l’Italia”. Paolo Comi su L'Unità il 14 Novembre 2023

Non ci sono più scuse a questo punto per una Commissione parlamentare d’inchiesta sul dossier “Mafia e appalti”, come richiesto in questi mesi dal generale dei carabinieri Mario Mori, all’epoca comandante del Ros che aveva lavorato a quell’indagine per la quale Paolo Borsellino si era scontrato duramente con i colleghi in Procura a Palermo.

“Avrebbe potuto cambiare l’Italia”, ha commentato l’altro giorno Mori dopo il deposito delle motivazioni con cui la Cassazione ha definitivamente messo una pietra tombale sulla Trattativa Stato-mafia.

“Fermo restando il riconoscimento per l’impegno profuso nell’attività istruttoria di merito, deve, tuttavia, rivelarsi che la sentenza impugnata, e ancor più marcatamente quella di primo grado, hanno, invero, optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico”, scrive il collegio di piazza Cavour, presidente Giorgio Fidelbo, che ha confermato, ma per “non aver commesso il fatto”, l’assoluzione in appello di Mori e del capitano Giuseppe De Donno dopo la condanna in primo grado.

Nessuna ‘Trattativa’, dunque, ma un vero depistaggio durato 30 anni sulla stragi di mafia, ad iniziare proprio da quella dove perse la vita Borsellino e gli agenti della sua scorta. Ma veniamo ai fatti. Secondo la tesi della Procura di Palermo, amplificata per anni dal Fatto Quotidiano, i carabinieri del Ros attraverso l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino avevano veicolato la minaccia di Cosa nostra al governo.

Per la Cassazione, invece, l’iniziativa dei carabinieri non era volta a spingere la mafia a minacciare il governo, bensì mirava al perseguimento dell’obiettivo opposto di porre fine alla stagione stragista. Nel corso della loro azione, Mori e De Donno miravano simultaneamente alla “contestuale decapitazione dell’ala stragista o militarista” attraverso la cattura dei suoi esponenti, come dimostrato dall’arresto di Totò Riina avvenuto il 15 gennaio 1993.

Per i giudici, però, dalla motivazione della sentenza d’appello emerge una contraddizione logica insanabile tra l’elemento soggettivo (ovvero l’intenzione) che animava gli ufficiali del Ros nella loro interlocuzione con i vertici mafiosi e il riconoscimento di una valenza agevolatrice oggettiva della minaccia risultante dalla loro condotta.

La Cassazione sottolinea infatti che anche se l’apertura di un dialogo con i vertici di Cosa nostra, come evidenziato dalla sentenza impugnata dalla Procura generale di Palermo, è stata molto più di una spregiudicata iniziativa di polizia giudiziaria, assumendo piuttosto la connotazione di un’operazione di intelligence, tale condotta non è espressamente sanzionata dalla legislazione penale e, in assenza della dimostrazione di un preciso nesso di condizionamento o agevolazione delle condotte degli autori del reato, non può integrare il concorso nel reato di minaccia a corpo politico dello Stato oggetto di contestazione.

La Procura di Palermo, in particolare, per dimostrare l’avvenuta minaccia al corpo politico dello Stato aveva messo sul piatto la mancata proroga del ‘carcere duro’ a circa 300 detenuti, di cui solo un piccolissima percentuale legati a Cosa nostra, su iniziativa del ministro della Giustizia dell’epoca Giovanni Conso. La Cassazione specifica chiaramente che non è stata raggiunta la prova “oltre ogni ragionevole dubbio” che la minaccia mafiosa sia stata “veicolata” da Mori a Francesco Di Maggio, in quel periodo vice capo del Dap, e da egli riferita a Conso.

Dichiarata poi la prescrizione, essendo stato riqualificato il reato di violenza e minaccia ad un corpo politico dello Stato nella forma del tentativo, per Leoluca Bagarella, condannato in appello a 27 anni e per il medico Antonino Cinà, vicino a Riina, al quale furono inflitti 12 anni di reclusione.

“La minaccia prospettata dall’organizzazione mafiosa, del resto, nel momento in cui venne esternata a Mori e a De Donno, in ragione del proprio contenuto, della sua provenienza e, segnatamente, degli omicidi e delle stragi compiute da “Cosa nostra” in quel periodo, aveva obiettivamente un’attitudine ad intimorire e a turbare l’attività del Governo, a prescindere dal fatto che non si abbia l’ulteriore dimostrazione che sia stata poi concretamente trasmessa e pervenuta a conoscenza del destinatario finale”, puntualizza quindi la Cassazione riguardo il dialogo avviato con Ciancimino, ricordando che non aveva lo scopo di veicolare alcuna minaccia né di scendere a patti con la mafia.

Un concetto sempre sostenuto da Mori in questi anni e che aveva espresso anche in Procura a Palermo dopo l’uscita di scena del procuratore Pietro Giammanco, colui che la mattina del 19 luglio 1992 chiamerà al telefono Borsellino per dirgli che avrebbe dovuto indagare sul dossier mafia appalti. Borsellino, purtroppo, morirà a via d’Amelio nel pomeriggio senza aver saputo che quel dossier era stato già archiviato. Paolo Comi 14 Novembre 2023

Trattativa Stato-mafia: sono uscite le motivazioni della sentenza di Cassazione. Stefano Baudino su L'Indipendente lunedì 13 novembre 2023.

Dopo oltre sei mesi dall’uscita del verdetto, la Corte di Cassazione ha pubblicato le motivazioni della sentenza con cui ha chiuso un processo lungo e pieno di colpi di scena: quello sulla “Trattativa Stato-mafia”. Ad aprile i giudici, annullando senza rinvio la sentenza di Appello, avevano definitivamente assolto dal reato di “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato” l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri e gli ex vertici del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno per “non aver commesso il fatto”, prescrivendo i mafiosi Leoluca Bagarella e Antonino Cinà a causa della riqualificazione del reato nella forma “tentata”. All’interno delle 95 pagine di motivazioni, i giudici scrivono che, nel contesto dell’invito al dialogo lanciato ai vertici di Cosa Nostra dal Ros dei carabinieri tra le stragi di Capaci e di Via D’Amelio tramite l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, risulta che gli ufficiali “si sono limitati a ricevere la minaccia mafiosa senza sollecitarla”. E che, allo stesso modo, in occasione della minaccia mafiosa rivolta al governo Berlusconi “da Brusca e Bagarella con l’intermediazione di Vittorio Mangano”, Marcello Dell’Utri “si sarebbe limitato a riceverla senza sollecitarla”. La sentenza, che arriva dopo due pronunce ben diverse – in primo grado uomini dello Stato e mafiosi erano stati condannati insieme a pene ingenti, mentre in Appello i mafiosi erano stati condannati e i membri delle istituzioni assolti “perché il fatto non costituisce reato” – ha già scatenato aspre polemiche.

Nelle motivazioni, i giudici indirizzano varie stoccate ai giudici di primo e secondo grado, affermando che “la sentenza impugnata, e ancor più marcatamente quella di primo grado” avrebbero “optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico”. La Corte ha sancito come “la trama di entrambe le sentenze di merito, pur muovendo dal corretto rilievo che la cosiddetta trattativa Stato-Mafia (che non viene, dunque, affatto smentita come passaggio storico, ndr) non costituisce di per sé reato, in quanto condotta non punita dalla legislazione penale, è tuttavia, monopolizzata dal tema dei contatti intercorsi, successivamente alla strage di Capaci, tra esponenti del Ros e quelli della associazione mafiosa denominata Cosa Nostra e dall’accertamento dello sviluppo degli stessi negli anni successivi, riservando un rilievo proporzionalmente minimale alle condotte contestate di minaccia al Governo”. I giudici di appello, in particolare, secondo la Cassazione non hanno “osservato il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio quale metodo di accertamento del fatto”.

Gli ermellini ritengono che il Ros abbia agito, in quel frangente, con l’obiettivo di frenare l’escalation di violenza perpetrata da Cosa Nostra dall’omicidio di Salvo Lima (12 marzo 1992) in avanti: “L’interlocuzione promossa da Mori e da De Donno con Ciancimino, per quanto accertato dalla sentenza impugnata, era, infatti, volta a comprendere le condizioni per la cessazione degli omicidi e delle stragi da parte di Cosa Nostra e la ricerca dell’apertura di un dialogo, sia pure con una spietata organizzazione criminale, non può assumere la valenza obiettiva, sulla base di un inammissibile automatismo probatorio, di una istigazione a minacciare lo Stato”, scrive la Corte, pur ricordando che, come già rilevato dalla sentenza di Appello, quella del Ros fu “molto di più che una spregiudicata iniziativa di polizia giudiziaria, assumendo piuttosto la connotazione di un’operazione di intelligence”. Secondo i giudici, insomma “l’apertura dell’interlocuzione con i vertici di Cosa Nostra” non può “essere considerata quale forma di rafforzamento dell’altrui proposito criminoso, in quanto ha solo creato l’occasione nella quale ha trovato realizzazione l’autonomo intento ricattatorio dei vertici di Cosa Nostra, ulteriore espressione della strategia minatoria già in corso verso gli organi dello Stato”. La Suprema Corte asserisce poi che non sia provato che il generale Mori abbia riferito l’esistenza della minaccia di Cosa nostra all’allora guardasigilli Giovanni Conso per il tramite di Francesco Di Maggio, che era vicecapo del Dap. Secondo la Procura, infatti, sarebbe stato proprio questo il tassello che avrebbe convinto Conso, nel novembre del ’93 (in seguito alle stragi di Roma, Milano e Firenze) a non prorogare 334 decreti di 41-bis ad altrettanti mafiosi reclusi. La Cassazione, a tal proposito, boccia le ricostruzioni dei giudici di secondo grado, che avrebbero “invertito i poli del ragionamento indiziario”, poiché “l’esclusione di possibili ipotesi alternative non può supplire alla carenza di certezza dell’indizio”.

In merito alla figura dell’ex senatore Marcello Dell’Utri – già condannato in passato per concorso esterno in associazione mafiosa, essendo stato la “cerniera” tra l’ex capo di Cosa Nostra e Silvio Berlusconi quando, nel 1974, il mafioso e l’allora imprenditore stipularono un “patto” che garantì a Berlusconi la protezione sul versante familiare ed economico e alla mafia ingenti pagamenti dal “Cavaliere” almeno fino al 1992 – gli ermellini scrivono che “entrambe le sentenze di merito concordano nell’escludere che le iniziative legislative del Governo e del partito di Forza Italia furono determinate o condizionate dalla minaccia mafiosa, in quanto costituirono libera espressione delle ragioni ideali di tale movimento, che, per risalente asserita vocazione garantista, da tempo si battevano contro alcuni provvedimenti adottati in funzione antimafia dai precedenti Governi”. Evidenziando quanto già sancito nella pronuncia di assoluzione per Dell’Utri in secondo grado, aggiungono che “secondo la ricostruzione operata nella sentenza impugnata, la minaccia mafiosa sarebbe stata rivolta al Governo da Brusca e Bagarella, con l‘intermediazione di Mangano, ma Dell’Utri si sarebbe limitato solo a riceverla, senza sollecitarla, agevolarla, divulgarla in alcun modo a esponenti di governo o, comunque, concorrere in alcun modo alla condotta di reato”.

Molte sono le considerazioni critiche che, pur nel rispetto di una pronuncia definitiva, possono essere sollevate sul suo dettato, specie in correlazione con sentenze precedenti. In primis, il fatto che la “trattativa” inaugurata dal Ros dei Carabinieri convinse i mafiosi a ritenere che la strategia delle bombe fosse la più funzionale a ricattare lo Stato non è solo il pensiero dell’accusa (a cui, evidentemente, si contrappone la Cassazione), ma un dato sancito da numerose pronunce emerse negli ultimi anni. Già nel 1998, i giudici della Corte d’Assise di Firenze, che si esprimevano sulla strage di via dei Georgofili del 1993, avevano scritto che “l’iniziativa dei Ros” aveva “tutte le caratteristiche per apparire come una ‘trattativa‘” che ebbe l’effetto di convincere “definitivamente” i boss mafiosi “che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione”. Ancor più a fuoco la sentenza “Tagliavia” della Corte d’Assise d’Appello di Firenze del febbraio 2016 – divenuta irrevocabile nel 2017 -, che considera “provato che dopo la prima fase della cd. trattativa avviata dopo la strage di Capaci, peraltro su iniziativa esplorativa di provenienza istituzionale (cap. De Donno e successivamente Mori e Ciancimino), arenatasi dopo l’attentato di via D’Amelio, la strategia stragista proseguì alimentata dalla convinzione che lo Stato avrebbe compreso la natura e l’obiettivo del ricatto proprio perché vi era stata quell’interruzione”.

Una serie di perplessità dal punto di vista tecnico-giuridico vengono invece sollevate dall’ex pm Antonio Ingroia, che è stato il rappresentante della pubblica accusa al processo: «Con tutto il rispetto per i giudici della Cassazione, questa sentenza ha passaggi molto deboli in punta di diritto – ha detto in un’intervista al Fatto Quotidiano –. Mi sembra che si fosse pregiudizialmente deciso di chiudere questo capitolo. E di doverlo chiudere con l’assoluzione più ampia possibile per gli uomini dello Stato». Nello specifico, Ingroia ritiene che «la Cassazione non può cambiare la formula assolutoria» soltanto «perché il medesimo fatto non è provato al di là di ogni ragionevole dubbio», poiché ciò può essere fatto «solo nei confronti di chi è stato condannato». Questo, aggiunge Ingroia, «lo prevede la giurisprudenza della stessa Cassazione: i precedenti citati sono tutti casi di annullamento di sentenze di colpevolezza. Al di là di ogni ragionevole dubbio è un criterio solo per chi viene condannato, non per chi è stato assolto». E i Ros «erano stati assolti in Appello». Ingroia inquadra come «l’ennesima contraddizione» della pronuncia il fatto che essa «da una parte, per assolvere i carabinieri, valorizza percorsi alternativi attraverso i quali le minacce sarebbero arrivate al governo. Dall’altra, però, dice che il reato di minaccia non è stato consumato. Ecco perché occorreva un altro processo. Ed ecco perché per me questa è una sentenza che odora di politica. Non mi spiego altrimenti questa sentenza saracinesca». [di Stefano Baudino]

Trattativa Stato-mafia, le motivazioni della Cassazione: “Interlocuzione dei Ros con Ciancimino puntava a fermare le stragi, non istigò i boss”. Giuseppe Pipitone su Il Fatto Quotidiano il 10 novembre 2023

Quando nel 1992 i carabinieri del Ros aprirono un dialogo con Cosa nostra avevano come obiettivo solo quello di far cessare le stragi. L’apertura di questa interlocuzione non ha provocato “una istigazione a minacciare lo Stato” nei ranghi della mafia. E dunque Totò Riina non decise di mettere altre bombe per lanciare un messaggio alle Istituzioni, solo perché si sentì rafforzato dal dialogo cercato dai militari: aveva già intenzione di mettere a ferro e fuoco il Paese. È questo uno dei punti fondamentali della sentenza della Corte di Cassazione sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Sono 95 pagine che il consigliere estensore Fabrizio D’Arcangelo ha scritto in quasi sette mesi. Tanto è passato da quando, il 27 aprile del 2023, la sesta sezione penale presieduta da Giorgio Fidelbo aveva messo un punto a una complessa vicenda processuale iniziata quasi 15 anni fa.

Le decisioni della Suprema corte – In pratica la Suprema corte aveva annullato senza rinvio le assoluzioni degli alti ufficiali del Ros dei carabinieri, Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, che in secondo grado erano stati giudicati non colpevoli perché il fatto non costituisce reato. Per gli ermellini i carabinieri andavano assolti in via definitiva, ma per non aver commesso il fatto. Il fatto è il reato contestato, cioè la violenza e minaccia a un corpo politico dello Stato: l’accusa per i militari era di aver trasmesso fino al cuore delle Istituzioni – nel dettaglio erano i governi di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi – la minaccia di Cosa nostra, cioè altre stragi e altri omicidi eccellenti se non fossero state allegerite le condizioni carcerarie dei mafiosi detenuti. Un reato che secondo i supremi giudici non è stato commesso da Mori e da De Donno, e per estensione anche da Subranni, che non aveva fatto ricorso contro la sentenza d’Appello. Se i carabinieri non hanno trasmesso la minaccia proveniente da Cosa nostra, allora la condotta dei mafiosi da consumata è diventata soltanto tentata: ecco perché la Suprema corte aveva riqualificato il reato per il boss corleonese Leoluca Bagarella e per Antonino Cinà, il medico di Totò Riina che aveva fatto da “postino” al papello, cioè la lista delle richieste avanzate dal capo dei capi in cambio di uno stop alle bombe. La riqualificazione del reato aveva fatto scattare la prescrizione (quantificata in 20 anni) delle condanne emesse in secondo grado a 27 anni per Bagarella e a 12 anni per Cinà. Per quanto riguarda Marcello Dell’Utri, accusato di aver trasmesso la minaccia mafiosa al governo di Silvio Berlusconi, la Corte si era limitata a far diventare definitiva l’assoluzione per non aver commesso il fatto, che era stata decisa in secondo grado e che la stessa procura generale aveva chiesto di confermare.

“Indizi insussistenti sui carabinieri” – La parte più delicata della sentenza, ovviamente, è quella relativa ai carabinieri. “Ritiene questa Corte che la motivazione della sentenza impugnata evidenzi la strutturale inidoneità della condotta degli ufficiali del Ros a integrare, già sotto li profilo oggettivo, una forma penalmente rilevante di istigazione o di determinazione alla commissione del reato di minaccia ad un corpo politico commesso dai vertici di Cosa nostra”, scrivono i giudici della Suprema corte. E per spiegare la decisione di optare per la più ampia formula di non colpevolezza, gli ermellini tornano indietro di trentuno anni. “Invero, la mera apertura di un’interlocuzione con i vertici di Cosa nostra non può ritenersi essere stata idonea ex se a determinare i vertici dell’organizzazione criminale a minacciare il Governo in quanto questo assunto, argomentato nella sentenza impugnata come autoevidente, non è fondato su alcuno specifico dato probatorio, né argomentato sulla base di consolidate massime di esperienza”, si legge a pagina 79 della sentenza. Il riferimento è ai colloqui avuti da Mori e De Donno con Vito Ciancimino nell’estate del 1992. “L’interlocuzione promossa da Mori e da De Donno con Ciancimino, per quanto accertato dalla sentenza impugnata, era, infatti, volta a comprendere le condizioni per la cessazione degli omicidi e delle stragi da parte di Cosa nostra e la ricerca dell’apertura di un dialogo, sia pure con una spietata organizzazione criminale non può assumere la valenza obiettiva, sulla base di un inammissibile automatismo probatorio, di una istigazione a minacciare lo Stato”. Dunque secondo la Suprema corte la decisione dei carabinieri di andare a parlare con Ciancimino non provocò in Riina la volontà di minacciare lo Stato con altre bombe. “Nella ricostruzione operata dalla sentenza impugnata, l’iniziativa degli alti ufficiali del Ros era, infatti, intesa non già a indurre Cosa nostra a rivolgere minacce al Governo – scrivono i giudici della Cassazione – bensì al perseguimento dell’obiettivo contrario di far cessare la stagione stragista, cercando di comprendere se le eventuali condizioni poste da quest’ultima potessero o meno essere considerate nella prospettiva di prevenzione di ulteriori attacchi criminali. Nella loro azione, infatti, Mori, Subranni e De Donno miravano al contempo alla contestuale decapitazione dell’ala stragista o militarista mediante la cattura dei suoi esponenti, come di seguito avvenuto il 15 gennaio 1993 con l’arresto di Salvatore Rina. Vi è, dunque, per quanto emerge dalla motivazione della sentenza impugnata, un’insanabile contraddizione logica tra l’elemento soggettivo che animava i tre ufficiali del Ros nell’interlocuzione con i vertici mafiosi e il riconoscimento di una obiettiva valenza agevolatrice della minaccia mafiosa della loro condotta”.

“Cosa nostra voleva già fare le stragi” – Per rafforzare il suo convincimento sui carabinieri che non hanno indotto Cosa nostra a organizzare altre stragi, la Cassazione sottolinea come Riina avesse già deciso di mettere a ferro e fuoco il Paese: “Le stesse sentenze di primo e di secondo grado, del resto, esprimono, non certo incongruamente, il convincimento che Cosa nostra, sotto la direzione di Salvatore Riina, sin dall’omicidio dell’On. Salvo Lima stesse realizzando una propria strategia terroristica, volta all’ottenimento di concessioni da parte dello Stato, e che, dunque, sarebbe proseguita, anche a prescindere dall’intervento degli imputati appartenenti al nucleo operativo dei Ros”. Secondo la Suprema corte “nelle condizioni di contesto descritte dalla sentenza impugnata, non è possibile affermare l’esistenza di un preciso rapporto di causalità tra l’azione dei pubblici ufficiali e la genesi del ricatto mafioso”: insomma non è provato che il dialogo coi carabinieri abbia provocato in Riina la decisione di alzare il tiro. È la famosa esclamazione “si sono fatti sotto“, che il capo dei capi avrebbe pronunciato alla presenza di Giovanni Brusca: secondo il pentito si riferiva proprio alle Istituzioni, nei panni dei militari. Ma per i giudici, “non è configurabile, sul piano logico, prima ancora che giuridico, l’istigazione o la determinazione di un proposito criminoso che è già in corso di esecuzione”. E ancora, sostiene la corte, “l’apertura dell’interlocuzione con i vertici di Cosa nostra non può, pertanto, essere considerata quale forma di rafforzamento dell’altrui proposito criminoso, in quanto ha solo creato l’occasione nella quale ha trovato realizzazione l’autonomo intento ricattatorio dei vertici di Cosa nostra, ulteriore espressione della strategia minatoria già in corso verso gli organi dello Stato”.

“In Appello carenza di certezza dell’indizio” – I giudici, poi, smentiscono che il generale Mori avrebbe riferito l’esistenza della minaccia di Cosa nostra – altre stragi se non si fossero migliorate le condizioni carcerarie dei boss detenuti – fino al cuore del governo, cioè all’allora guardasigilli Giovanni Conso, attraverso Francesco Di Maggio, che era il vicecapo del Dipartimento amministrazione penitenziaria. Secondo l’accusa era per questo motivo che a un certo punto il ministro della Giustizia aveva lasciato scadere più di trecento provvedimenti di 41bis, il carcere duro per i mafiosi. Anzi, più che smentire, la Suprema corte boccia le motivazioni della Corte d’Assise d’Appello, accusata di aver “invertito i poli del ragionamento indiziario” in quanto “l’esclusione di possibili ipotesi alternative non può supplire alla carenza di certezza dell’indizio“. Secondo gli ermellini, in pratica, i giudici del processo di secondo grado non hanno “osservato il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio quale metodo di accertamento del fatto”. A sostenerlo erano sia il sostituto procuratore generale della Cassazione che gli avvocati difensori: “L’argomento del ‘nessun altro avrebbe potuto‘ si rivela fallace sul piano logico e giuridicamente errato, in quanto la confutazione delle spiegazioni alternative di un fatto non può supplire alla radicale mancanza di prova positiva del fatto medesimo”. Secondo la Suprema Corte, i giudici dell’appello hanno commesso un errore a ritenere “che solo Mori potesse aver rivelato l’informazione relativa al ricatto mafioso e alla spaccatura in essere all’interno di Cosa nostra, senza aver previamente dimostrato, oltre ogni ragionevole dubbio, che questa informazione riservata non fosse previamente nota al Ministro, che costituisse patrimonio conoscitivo esclusivo” di Mori “e che non fosse pervenuta a conoscenza del Ministro per effetto di canali diversi ed autonomi“. Dunque è per questo che la Suprema corte ha deciso di assolvere i carabinieri con la più ampia formula possibile: “Pertanto, una volta escluso, in quanto non provato oltre ogni ragionevole dubbio, che gli ufficiali del Ros abbiano riferito la minaccia mafiosa ad esponenti dell’autorità di governo, dalla sentenza impugnata risulta che i medesimi si sono limitati a ricevere la minaccia mafiosa, senza sollecitarla, né rafforzare l’altrui intento criminoso. Ogni forma di concorso penalmente rilevante degli imputati Mori e De Donno nel reato commesso dagli imputati appartenenti a Cosa nostra è, all’evidenza, insussistente”. La Cassazione conferma che “l’apertura di un dialogo con i vertici di Cosa nostra, come rilevato dalla sentenza impugnata, è stata molto di più che una spregiudicata iniziativa di polizia giudiziaria, assumendo piuttosto la connotazione di un’operazione di intelligence (pag. 2190 della sentenza impugnata)”, ma “tale condotta non è espressamente sanzionata dalla legislazione penale e, in assenza della dimostrazione di un preciso nesso di condizionamento o di agevolazione delle condotte degli autori del reato, non può integrare concorso nel reato di minaccia al Governo”.

“Forza Italia garantista, non minacciata dalla mafia” – Sulla figura di Dell’Utri, già assolto in Appello dall’accusa di aver trasmesso al primo esecutivo di Silvio Berlusconi le minacce mafiose, i giudici scrivono: “Entrambe le sentenze di merito concordano nell’escludere che le iniziative legislative del Governo e del partito di Forza Italia furono determinate o condizionate dalla minaccia mafiosa, in quanto costituirono libera espressione delle ragioni ideali di tale movimento, che, per risalente asserita vocazione garantista, da tempo si battevano contro alcuni provvedimenti adottati in funzione antimafia dai precedenti Governi”. E ricordano come l’imputato sia già stato assolto in Appello per non aver commesso il fatto: “Secondo la ricostruzione operata nella sentenza impugnata, la minaccia mafiosa sarebbe stata rivolta al Governo da Brusca e Bagarella, con ‘intermediazione di Mangano, ma Dell’Utri si sarebbe limitato solo a riceverla, senza sollecitarla, agevolarla, divulgarla in alcun modo a esponenti di governo o, comunque, concorrere in alcun modo alla condotta di reato”.

Le critiche alle sentenze di merito: “Approccio storiografico” – Per il resto in vari passaggi i giudici della sesta sezione penale criticano le sentenze emesse dai loro colleghi della corte d’Assise e della corte d’Assise d’Appello. “Le sentenze di merito, conferendo di fatto preminenza ad un approccio storiografico nell’interpretazione del dato probatorio, hanno, inoltre, finito per smarrire la centralità dell’imputazione nella trama del processo penale, profondendo sforzi imponenti nell’accertare fatti spesso poco o per nulla rilevanti nell’economia del giudizio”, si legge a pagina 72 della sentenza. E ancora: “La Corte di assise di appello, dunque non ha rispettato il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio nella sentenza impugnata, in quanto ha posto a fondamento della dimostrazione dell’avvenuta consumazione del reato di minaccia ai danni dei Governi Amato e Ciampi elementi di prova privi di adeguata efficacia dimostrativa, quanto all’avvenuta dinamica di trasmissione della minaccia da Mori al Ministro, e, al contempo, non ha dimostrato l’irragionevolezza delle ipotesi ricostruttive antagoniste prospettate dalla difesa sulla base delle prove acquisite al processo”. La Cassazione riconosce “l’impegno profuso nell’attività istruttoria dai giudici di merito” ma poi aggiunge che “deve tuttavia, rilevarsi che la sentenza impugnata, e ancor più marcatamente quella di primo grado, hanno, invero, optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico. Tuttavia, anche quando oggetto del processo penale siano accadimenti di rilievo storico o politico, e, dunque, connotati da una genesi complessa e multifattoriale, l’accertamento del giudice penale non muta la sua natura, la sua funzione e il suo statuto garantistico, indefettibile sul piano costituzionale”. E ancora, si legge nelle motivazioni della Suprema corte “la trama di entrambe le sentenze di merito, pur muovendo dal corretto rilievo che la cosiddetta trattativa Stato-Mafia non costituisce di per sé reato, in quanto condotta non punita dalla legislazione penale, è tuttavia, monopolizzata dal tema dei contatti intercorsi, successivamente alla strage di Capaci, tra esponenti del Ros e quelli della associazione mafiosa denominata Cosa nostra e dall’accertamento dello sviluppo degli stessi negli anni successivi, riservando un rilievo proporzionalmente minimale alle condotte contestate di minaccia al Governo”. Secondo la Cassazione “tale marcata discrasia tra imputazione e oggetto principale dell’accertamento processuale ha, inoltre, determinato un’eccessiva dilatazione delle motivazioni delle sentenze, che hanno assunto, sia in primo, che in secondo grado, una mole imponente (5237 pagine in primo e 2971 pagine in secondo grado), tale da offuscare le ragioni della decisione e rendere le linee argomentative di difficile identificazione e interpretazione”.

Il verdetto che ha confermato le assoluzioni per gli ex ufficiali del Ros. Trattativa Stato-Mafia, pubblicate le motivazioni della sentenza. "Ogni forma di concorso penalmente rilevante degli imputati Mori e De Donno nel reato commesso dagli imputati appartenenti a cosa nostra è, all'evidenza, insussistente", si legge nelle 95 pagine redatte dalla Sesta sezione penale della Cassazione. Rainews.it il 10 novembre

La sesta sezione penale della Corte di Cassazione ha pubblicato le motivazioni della sentenza con cui mette la parola fine al processo per la presunta trattativa tra pezzi dello Stato e boss di cosa nostra, confermando le assoluzioni per gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni, e Giuseppe De Donno. 

"La Corte di assise di appello" ha "invertito i poli del ragionamento indiziario" in quanto "l'esclusione di possibili ipotesi alternative non può supplire alla carenza di certezza dell'indizio", inoltre la Corte di assise di appello di Palermo "non ha osservato il canone dell'oltre ogni ragionevole dubbio quale metodo di accertamento del fatto". 

Con queste motivazioni - si legge nel verdetto 45506 della Cassazione depositato oggi - gli 'ermellini' hanno confermato l'assoluzione nel processo sulla presunta trattativa Stato-Mafia degli ex Ros Mori, Subranni e De Donno e per l'ex parlamentare Marcello Dell'Utri.

Ad avviso degli 'ermellini', "come rilevato dal Procuratore generale presso la Corte di Cassazione e dalle difese degli imputati, tuttavia, l'argomento del 'nessun altro avrebbe potuto' si rivela fallace sul piano logico e giuridicamente errato, in quanto la confutazione delle spiegazioni alternative di un fatto non può supplire alla radicale mancanza di prova positiva del fatto medesimo". 

Secondo la Suprema Corte, i giudici di merito dell'appello - convinti della tesi che ai mafiosi il Guardasigilli Conso non rinnovò il 41bis per cercare di spegnere la stagione stragista e non, come lo stesso Conso sostenne, per adeguarsi alle indicazioni della Consulta - hanno sbagliato a ritenere "che solo Mori potesse aver rivelato l'informazione relativa al ricatto mafioso e alla spaccatura in essere all'interno di cosa nostra, senza aver previamente dimostrato, oltre ogni ragionevole dubbio, che questa informazione riservata non fosse previamente nota al Ministro, che costituisse patrimonio conoscitivo esclusivo" di Mori "e che non fosse pervenuta a conoscenza del Ministro per effetto di canali diversi ed autonomi". 

Sul punto, gli 'ermellini' rilevano che le difese degli imputati avevano fatto presente nel giudizio di appello che "per quanto emerso nel giudizio di primo grado, la consapevolezza della spaccatura interna a Cosa Nostra, tra l'ala stragista e l'ala moderata non sarebbe stata esclusiva di Mario Mori, ma fosse una conoscenza acquisita per lo meno in qualificati ambienti investigativi". 

"Questo dato - segnala il verdetto - emergerebbe dalla nota dello Sco del 12 agosto 1993, a firma Manganelli, relativa a una 'profonda spaccatura' negli esponenti di maggior spicco di Cosa Nostra e dalla nota della Dia del 10 agosto 1993, a firma De Gennaro, in ordine all'esistenza, secondo le dichiarazioni di Salvatore Cancemi, di 'un profondo contrasto tra mafia stragista ed un'altra, invece, pacifista e quasi rassegnata". 

Tale spaccatura, secondo le difese, aggiunge il verdetto "sarebbe, peraltro, risultata dalle dichiarazioni rese dal Presidente della Repubblica in dibattimento e dalle dichiarazioni di Paolo Borsellino in una intervista del 3 luglio 1992". 

Per la Cassazione, "fermo restando il riconoscimento per l'impegno profuso nell'attività istruttoria dai giudici di merito, deve, tuttavia, rilevarsi che la sentenza" emessa dalla Corte di Assise di Appello di Palermo il 23 settembre 2021 "e ancor più marcatamente quella di primo grado, hanno, invero, optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico". 

"Anche quando il giudice penale deve confrontarsi con complessi contesti fattuali di rilievo storico-politico, l'accertamento del processo penale resta, invero, limitato a fatti oggetto dell'imputazione e deve condotto - conclude la Suprema Corte - nel rigoroso rispetto delle regole epistemologiche dettate dalla Costituzione e dal codice di rito, prima tra tutte quella dell'oltre ragionevole dubbio".

''Ritiene questa Corte che la motivazione della sentenza impugnata evidenzi la strutturale inidoneità della condotta degli ufficiali del Ros a integrare, già sotto li profilo oggettivo, una forma penalmente rilevante di istigazione o di determinazione alla commissione del reato di minaccia ad un corpo politico commesso dai vertici di 'Cosa nostra'''. 

È quanto scrivono i giudici della sesta sezione penale della Cassazione nelle 95 pagine di motivazioni della sentenza, depositata oggi, che lo scorso 27 aprile ha reso definitive le assoluzioni per gli ex ufficiali del Ros, il generale Mario Mori, il generale Antonio Subranni e l'ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno e per l'ex senatore Marcello Dell'Utri nel processo sulla presunta trattativa tra Stato e mafia. 

''Invero, la mera apertura di un'interlocuzione con i vertici di 'cosa nostra' non può ritenersi essere stata idonea 'ex se' a determinare i vertici dell'organizzazione criminale a minacciare il Governo - si legge - in quanto questo assunto, argomentato nella sentenza impugnata come autoevidente, non è fondato su alcuno specifico dato probatorio, né argomentato sulla base di consolidate massime di esperienza. L'interlocuzione promossa da Mori e da De Donno con Ciancimino, per quanto accertato dalla sentenza impugnata, era, infatti, volta a comprendere le condizioni per la cessazione degli omicidi e delle stragi da parte di 'cosa nostra' e la ricerca dell'apertura di un dialogo, sia pure con una spietata organizzazione criminale - sottolineano i supremi giudici - non può assumere la valenza obiettiva, sulla base di un inammissibile automatismo probatorio, di una istigazione a minacciare lo Stato''. 

''Nella ricostruzione operata dalla sentenza impugnata, l'iniziativa degli alti ufficiali del Ros era, infatti, intesa non già a indurre 'Cosa nostra' a rivolgere minacce al Governo - affermano i giudici della Cassazione - bensì al perseguimento dell'obiettivo contrario di far cessare la stagione stragista, cercando di comprendere se le eventuali condizioni poste da quest'ultima potessero o meno essere considerate nella prospettiva di prevenzione di ulteriori attacchi criminali. Nella loro azione, infatti, Mori, Subranni e De Donno miravano al contempo alla 'contestuale decapitazione dell'ala stragista o militarista' mediante la cattura dei suoi esponenti, come di seguito avvenuto il 15 gennaio 1993 con l'arresto di Salvatore Riina. Vi è, dunque, per quanto emerge dalla motivazione della sentenza impugnata, un'insanabile contraddizione logica tra l'elemento soggettivo che animava i tre ufficiali del Ros nell'interlocuzione con i vertici mafiosi e il riconoscimento di una obiettiva valenza agevolatrice della minaccia mafiosa della loro condotta''. 

''Pertanto, una volta escluso, in quanto non provato oltre ogni ragionevole dubbio, che gli ufficiali del Ros abbiano riferito la minaccia mafiosa ad esponenti dell'autorità di governo, dalla sentenza impugnata risulta che i medesimi si sono limitati a ricevere la minaccia mafiosa, senza sollecitarla, né rafforzare l'altrui intento criminoso - concludono i supremi giudici che hanno assolto gli ex vertici dei Ros con la formula 'per non aver commesso il fatto' - Ogni forma di concorso penalmente rilevante degli imputati Mori e De Donno nel reato commesso dagli imputati appartenenti a 'Cosa nostra' è, all'evidenza, insussistente''.

Mafia, la Cassazione stronca il teorema contro Berlusconi. "Più storiografia che fatti". Una pietra sopra la vocazione di certi giudici a giudicare il mondo e la storia, anziché occuparsi di reati. Luca Fazzo l'11 Novembre 2023 su Il Giornale.

Una pietra sopra la vocazione di certi giudici a giudicare il mondo e la storia, anziché occuparsi di reati. È questa la sentenza - per alcuni aspetti memorabile - con cui la Cassazione non si limita ad assolvere definitivamente i carabinieri del Ros, l'ex senatore Marcello Dell'Utri e persino un paio di boss di Cosa Nostra imputati nel processo Stato-Mafia, ma condanna invece i colleghi che a quel processo hanno dedicato sentenze colossali in cui invece che delle prove - assenti, ipotizzate - si occupavano di scrivere a modo loro la storia d'Italia. Un giudizio che rimbalza sulla vera responsabile di questa impresa titanica, la Procura di Palermo che ha portato sul banco degli imputati i vertici del Ros dei carabinieri, servitori dello Stato come Mario Mori e Antonio Subranni, con accuse che la Cassazione liquida con un solo aggettivo: «Insussistenti».

Passaggio chiave delle motivazioni, che investe sia le condanne pronunciate in primo grado che le assoluzioni in appello: «Le sentenze hanno optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico». Invece anche quando si tratta di fatti di estrema rilevanza, il giudice deve limitarsi «all'accertamento dei fatti oggetto dell'imputazione». Questo a Palermo non è avvenuto: i giudici «hanno finito per smarrire la centralità dell'imputazione nella trama del processo penale, profondendo sforzi imponenti nell'accertare fatti spesso poco o per nulla rilevanti nell'economia del giudizio». E quando hanno affrontato i reati, i giudici siciliani si sono dimenticati che la colpevolezza va dimostrata «ogni ragionevole dubbio».

Solo in questo modo, dice la Corte, si è potuto sostenere che il governo - prima Ciampi, poi Berlusconi - abbia preso decisioni in ossequio alle minacce di Cosa Nostra. A queste minacce le sentenze hanno dedicato un ruolo cruciale, ma le hanno ricostruite in modo «minimale», affogando il dettaglio in un mare di fatti irrilevanti: «Le motivazioni delle sentenze hanno assunto, sia in primo, che in secondo grado, una mole imponente (5.237 pagine in primo e 2.971 pagine in secondo grado), tale da offuscare le ragioni della decisione e rendere le linee argomentative di difficile identificazione e interpretazione». Sono parole che oggettivamente travalicano anche il galateo che tra magistrati prevede in genere di non infierire sui colleghi. Ma davanti allo «smarrimento» dei giudici siciliani la Sesta sezione penale della Cassazione, presieduta da Giorgio Fidelbo, ha ritenuto fosse doveroso parlare chiaro.

Tutto, nella ricostruzione dei pm palermitani (con in testa Antonino Ingroia e Nino Di Matteo) ruotava intorno alle concessioni che Cosa Nostra avrebbe ottenuto dal governo per fare cessare la stagione delle stragi: di quelle pretese Mario Mori sarebbe stato il mediatore, e per questo gli è stata distrutta la carriera. Ma la Cassazione dice che analizzare le divisioni interne alla Cupola fu semplicemente una «operazione di intelligence», e che Mori non recapitò mai alcuna minaccia. Fece il suo lavoro, insomma. Peraltro le spaccature interne alla mafia erano ben note al governo anche da altre fonti.

Altri aspetti delle sentenze Stato-Mafia vengono demolite dalla Cassazione, che le accusa di avere «invertito i poli del ragionamento indiziario» in quanto «l'esclusione di possibili ipotesi alternative non può supplire alla carenza di certezza dell'indizio». Ma sono vizi già visti e criticati in altri processi. Ad essere inedito, e contundente, è quell'aggettivo: «storiografico». Il diritto, la giustizia, sono un'altra cosa, manda a dire ieri la Cassazione. 

«Totale mancanza di prove». Così muore il processo Trattativa. Le motivazioni della sentenza con cui la Cassazione ha confermato l’assoluzione di Mori, De Donno e Dell’Utri: un processo non può diventare una lezione di storia, scrivono i giudici. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 10 novembre 2023

«Fermo restando il riconoscimento per l’impegno profuso nell’attività istruttoria di merito, deve, tuttavia, rivelarsi che la sentenza impugnata, e ancor più marcatamente quella di primo grado, hanno, invero, optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico». Una leggera stoccata al processo “trattativa” da parte dei giudici della Cassazione, che hanno confermato, ma per «non aver commesso il fatto», l’assoluzione degli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno.

Una sentenza, quella della Corte Suprema, che ha voluto sottolineare come i giudici di merito - pur muovendo dal corretto rilievo che la cosiddetta trattativa Stato-Mafia non costituisce di per sé reato - hanno assunto, sia nelle motivazioni di primo che di secondo grado, una mole imponente (5237 pagine in primo e 2971 pagine in secondo grado), tale da «offuscare le ragioni della decisione e rendere le linee argomentative di difficile identificazione e interpretazione». Ed è così. Da ribadire che la tesi giudiziaria della Trattativa Stato-mafia è una ricostruzione che ha tentato di riscrivere la storia di un determinato periodo del nostro Paese.

Ogni legittima scelta politica, lotta tra correnti all’interno dell’ex Democrazia cristiana, atti amministrativi da parte dell’allora Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria o dell’allora ministero della Giustizia, azioni investigative portate avanti dalle divise, in particolare il reparto speciale dei carabinieri (Ros), viene riletta sotto la lente "trattativista". Un vero e proprio teorema che prende vari episodi, li decontestualizza, si avanzano sospetti e suggestioni, e li riunisce creando così una narrazione apparentemente scorrevole. Non a caso i giudici della Cassazione, nelle motivazioni che hanno sigillato definitivamente la fine della "guerra" giudiziaria nei confronti degli ex Ros, sottolineano che secondo le Sezioni Unite, il «virtuoso paradigma della chiarezza e concisione» impone, infatti, di discutere, "ove occorra anche diffusamente, solo i fatti rilevanti e le questioni problematiche, liberando la motivazione dalla congerie di dettagli insignificanti che spesso vi compaiono senza alcuna necessità».

Ma andiamo sul punto. Gli ex Ros, attraverso l’interlocuzione con Don Vito Ciancimino, hanno sì o no veicolato la minaccia mafiosa al governo? La risposta dei giudici supremi è un categorico no. Secondo la ricostruzione effettuata dalla sentenza impugnata, l'iniziativa dei carabinieri non era volta a spingere "cosa nostra" a minacciare il governo, bensì mirava al perseguimento dell'obiettivo opposto di porre fine alla stagione stragista. Nel corso della loro azione, Mori e De Donno miravano simultaneamente alla «contestuale decapitazione dell'ala stragista o militarista» attraverso la cattura dei suoi esponenti, come dimostrato dall'arresto di Salvatore Riina avvenuto il 15 gennaio 1993.

Secondo i giudici emerge, quindi, dalla motivazione della sentenza impugnata, una contraddizione logica insanabile tra l'elemento soggettivo (ovvero l'intenzione) che animava gli ex ufficiali dei Ros nella loro interlocuzione con i vertici mafiosi e il riconoscimento di una valenza agevolatrice oggettiva della minaccia mafiosa risultante dalla loro condotta. Sempre i giudici supremi, sottolineano che anche se l'apertura di un dialogo con i vertici di "cosa nostra", come evidenziato dalla sentenza impugnata, è stata molto più di una spregiudicata iniziativa di polizia giudiziaria, assumendo piuttosto la connotazione di un'operazione di intelligence, tale condotta non è espressamente sanzionata dalla legislazione penale e, in assenza della dimostrazione di un preciso nesso di condizionamento o agevolazione delle condotte degli autori del reato, non può integrare il concorso nel reato di minaccia al Governo.

Ma qual è l’unica “prova” che la procura di Palermo aveva in mano per dimostrare l’avvenuta minaccia al corpo politico dello Stato? È la non proroga del 41 bis a circa 300 detenuti (solo una piccolissima percentuale erano mafiosi) su iniziativa dell’allora ministro della giustizia Conso. Ebbene, la Cassazione specifica chiaramente che non è stata raggiunta la prova "oltre ogni ragionevole dubbio" che la minaccia mafiosa sia stata «veicolata» da Mori a Di Maggio (all’epoca vice capo del Dap) e da quest'ultimo riferita al Ministro Conso. Onde per cui, per quanto riguarda cosa nostra, nei confronti di quest’ultimi, la minaccia deve essere ritenuta integrata nella sola forma del tentativo.

I giudici ermellini hanno quindi dichiarato la prescrizione per il boss di Cosa nostra, Leoluca Bagarella, condannato dai giudici di Appello di Palermo a 27 anni e per il medico Antonino Cinà, vicino a Totò Riina, a cui in secondo grado furono inflitti 12 anni di reclusione. I giudici, come detto, hanno infatti riqualificato i reati di violenza e minaccia ad un corpo politico dello Stato nella forma del tentativo. Con la riqualificazione la fattispecie è andata in prescrizione.

Qual è stata la minaccia tentata? La Cassazione spiega che «La minaccia prospettata dall'organizzazione mafiosa, del resto, nel momento in cui venne esternata a Mori e a De Donno, in ragione del proprio contenuto, della sua provenienza e, segnatamente, degli omicidi e delle stragi compiute da "cosa nostra" in quel periodo, aveva obiettivamente un'attitudine ad intimorire e a turbare l'attività del Governo, a prescindere dal fatto che non si abbia l'ulteriore dimostrazione che sia stata poi concretamente trasmessa e pervenuta a conoscenza del destinatario finale». Ora il capitolo è finalmente chiuso. Nessun reato hanno commesso gli ex Ros e il dialogo avviato con Don Vito non era volto a veicolare alcuna minaccia né scendere a patti con la mafia. Ed era quello che hanno sempre sostenuto gli ex ros e riferito subito alla procura di Palermo dopo la “caduta” dell’allora procuratore Pietro Giammanco.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

La giornata degli stagisti contro lo sfruttamento. Ma intanto anche alla Camera lavorano gratis. VALERIA COSTA su Il Domani il 10 novembre 2023

Oggi si celebra la ricorrenza istituita nel 2014 per sensibilizzare sul tema del lavoro precario e delle condizioni dei tirocinanti che spesso non vedono trasformarsi la loro esperienza in un’offerta di lavoro. La legislazione in materia avrebbe bisogno di una revisione, ma per ora nulla è stato fatto

Oggi si celebra la Giornata internazionale degli stagisti. Una ricorrenza nata nel 2014 per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla precarietà dei tirocinanti. Il tema è di fondamentale importanza, perché idealmente i tirocini dovrebbero essere un ponte verso il lavoro, eppure ancora nel 2022 l’Italia risultava il terzo paese Ue per tasso di disoccupazione (18 per cento) nei giovani tra i 15 e i 29 anni.

Non solo. Secondo Eleonora Voltolina, fondatrice della Repubblica degli stagisti: «Gli stagisti in Italia sono circa mezzo milione all’anno». Questa cifra però – conferma Voltolina – riguarda solo gli «stage extra-curriculari», mentre rimane un segmento «letteralmente ignoto» quello degli stage curriculari. Le due esperienze, infatti, sono profondamente diverse, anche dal punto di vista legislativo.

DUE TIPI DI STAGE

Il tirocinio curriculare è un percorso formativo-professionale che si svolge durante il periodo di studio, la maggior parte delle volte universitario. Lo studente riceve in cambio crediti utili per il suo libretto universitario, ma non c’è una legge che prescriva un compenso obbligatorio minimo. 

Lo stage extracurriculare invece è definito di inserimento (o reinserimento) lavorativo. È prevista per obbligo di legge un’indennità – sebbene cambi da regione a regione – ma non ha quindi alcun collegamento con il periodo scolastico universitario.

Allo stesso modo non è neanche legato a limiti d’età, tuttavia in una società ideale sarebbero prettamente i giovani a usufruirne. E invece, come riporta Voltolina all’Adnkronos: «Rispetto specificamente agli extracurriculari è interessante sottolineare che non si tratta affatto di una esperienza riservata ai giovani: oltre 46mila delle persone coinvolte in un tirocinio nel 2022 avevano più di 35 anni. Vale a dire quasi uno stagista su sette è di mezza età. In particolare, quasi 9mila sono gli ultra 55enni che sono stati inseriti in stage».

Non sorprendono quindi i dati Eurostat per il 2022 in cui i giovani italiani lasciano la casa dei genitori in media a 30 anni, molto al di sopra della media europea che si attesta a 26,4 anni.

LA NORMATIVA

Per i tirocini curriculari esiste una normativa con valenza nazionale che si basa sulla legge 196 del 1997 e il successivo decreto attuativo numero 142 del 1998. La legge stabilisce solo i princìpi generali, tocca poi agli enti di formazione definire la disciplina per l’attivazione e il funzionamento dei tirocini curriculari.

Per gli extracurriculari la regolamentazione è regionale e si basa su un accordo raggiunto in sede di Conferenza stato-regione con l’emanazione di linee guida.

Le ultime linee guida emanate risalgono al 2017 e sono ancora in vigore nel 2023. Tuttavia, la legge di Bilancio del 2022 ha previsto una modica delle regole, ma il governo Meloni non è ancora intervenuto. Inoltre, la Corte costituzionale, accogliendo il ricorso della regione Veneto, ha bocciato i criteri che circoscrivevano l’applicazione della nuova disciplina in ambito di tirocini in favore di soggetti con difficoltà d’inclusione sociale. 

Le disposizioni del governo Draghi hanno l’obiettivo di evitare un uso distorto dello strumento. In particolare, si basano su alcuni criteri, tra cui il riconoscimento di un congruo compenso, la fissazione di una durata massima dei tirocini, comprensiva di eventuali rinnovi e definizione di forme e modalità di contingentamento per vincolare l’attivazione di nuovi tirocini all’assunzione di una quota minima di tirocinanti al termine del periodo di stage.

IL CASO DELLA CAMERA

C’è poi il caso della Camera dei deputati, uno dei luoghi della politica più importanti in Italia: a fine novembre scade il bando per dieci tirocini curriculari. Si lavora per sei mesi, ma gratis. Chiaramente non viene violata alcuna legge, perché non è obbligatorio il rimborso spese in questo caso, ma è indicativo che il parlamento italiano mandi questo segnale a tutte le aziende italiane. Soprattutto dopo i recenti sviluppi.

Nella passata legislatura era in discussione una riforma sugli stage curriculari che avrebbe introdotto anche un rimborso spese mensile. Il primo tentativo l’ha fatto Massimo Ungaro, primo firmatario della proposta. Nei restanti tre anni sono state depositate altre proposte simili, fino ad arrivare a un testo unico nel 2021 sottoscritto da Italia viva, Liberi e uguali, Movimento 5 stelle, e Partito democratico.

Anche in quella bozza l’elemento principale era l’introduzione di un rimborso spese. Ma, caduto il governo Draghi e sciolte le camere, ogni buona intenzione è venuta meno. 

VALERIA COSTA. Laureata in Scienze politiche. Studia Governo amministrazione e politica alla Luiss a Roma

Tutti parlano dello spot della pesca, nessuno dello sfruttamento in Esselunga. Gloria Ferrari su L'Indipendente sabato 30 settembre 2023.

Vi sarà capitato in questi giorni di vedere o (almeno) di sentire parlare della famiglia e della pesca protagoniste dello spot pubblicitario di Esselunga. Un piccolo cortometraggio realizzato dalla nota catena milanese di supermercati che nel giro di poche ore ha stimolato sul web un copioso dibattito fatto di commenti, opinioni e analisi. Un flusso che, se ve lo stavate chiedendo, non vogliamo ulteriormente alimentare. Lascia infatti sconcertato l’effetto che un frutto, una bambina e una coppia di genitori divorziati hanno avuto su giornalisti e lettori (e pure sulla nostra Premier, che ha gradito la scenetta): tre elementi narrativi in grado di catalizzare l’attenzione e spostarla dal resto. Viene da chiedersi se forse l’intento di Esselunga non fosse proprio quello di sviare il dibattito pubblico e spegnere i riflettori su una questione che la riguarda e che l’ha posta anche al centro dell’attenzione di magistratura e guardia di finanza: le pessime condizioni di lavoro cui sottopone i propri lavoratori.

Solo tre mesi fa la Guardia di Finanza di Milano ha effettuato un maxi sequestro di circa 48 milioni di euro ai danni della catena, con l’accusa di “somministrazione illecita di manodopera” con conseguenti “ingentissimi danni all’erario”. Comportamenti che secondo i pm, in possesso di numerose testimonianze, si sarebbero protratti per diversi anni (tra il 2016 e il 2022). Lasso di tempo durante il quale la società avrebbe allestito un sistema di “sistematico sfruttamento dei lavoratori di carattere fraudolento”. Un vigilante ha per esempio raccontato di essere riuscito ad ottenere tre giorni di ferie «solo al momento in cui mio padre stava per morire», mentre in un altro verbale si legge «mediamente effettuo 80 ore di straordinario al mese».

In pratica Esselunga – così come già accaduto in altre grandi aziende – sarebbe riuscita ad ottenere “tariffe altamente competitive appaltando manodopera” in maniera irregolare. Reclutando lavoratori cioè da cooperative, consorzi e altre società, per cui contrattualmente risultavano dipendenti mentre in realtà svolgevano mansioni per Esselunga. Questi serbatoi di manodopera, come li chiama Unione Sindacale di Base, «hanno emesso fatture false per un importo stimato di oltre 221 milioni di euro con una equivalente frode fiscale di circa 48 milioni di euro. Un risparmio di cui si sarebbe avvalsa Esselunga». Ma «non si tratta solo di tasse evase. Ben più tartassati risultano i lavoratori a cui sono stati fregati i contributi previdenziali, il TFR e quant’altro».

Quello di Esselunga non è un caso isolato. A luglio di quest’anno, per esempio, la società Mondialpol, una delle aziende leader nei servizi di vigilanza privata, è stata sottoposta a controllo giudiziario per caporalato e sfruttamento dei lavoratori. Il commissariamento è stato deciso dal pm di Milano Paolo Storari con un decreto d’urgenza, nell’ambito di un’inchiesta condotta dalla Guardia di finanza. I lavoratori sarebbero stati pagati 5,37 euro lordi all’ora e minacciati di trasferimento in caso di mancata accettazione delle condizioni. Una situazione di forza che avrebbe fatto leva sullo stato di bisogno dei dipendenti, costretti di fatto ad accettare retribuzioni ben al di sotto della soglia di povertà e comunque sproporzionate rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato.

E pochi mesi prima, a marzo, BRT (ex Bartolini) e Geodis, due aziende leader nelle spedizioni internazionali e nei servizi di logistica, sono finite nei guai per lo stesso motivo. La procura di Milano, tramite un’inchiesta condotta dal Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza, ha disposto per entrambe l’amministrazione giudiziaria per un anno con l’accusa di caporalato e truffa fiscale realizzata attraverso l’impiego di manodopera priva di tutele, fornita da cooperative in subappalto.

Per il fatto che episodi di questo tipo continuino ad accadere c’è da indignarsi ma non da meravigliarsi. Se una pesca è in grado di totalizzare la nostra attenzione, come possiamo accorgerci di un lavoratore sottopagato, sfruttato e senza diritti? Tuttavia basterebbe cambiare prospettiva: non è sbagliato creare una discussione attorno ad una pesca, a patto che ci si chieda, per esempio, come è arrivata sugli scaffali di quel supermercato, e per quanti chilometri abbia guidato quel lavoratore e per quanti pochi spiccioli l’abbia condotta fino a lì.

[di Gloria Ferrari]

La busta non paga. Report Rai. PUNTATA DEL 15/05/2023

di Bernardo Iovene

Collaborazione di Lidia Galeazzo e Greta Orsi

Le maggiori aziende della logistica utilizzano lavoratori dipendenti da cooperative e società esterne.

Il costo del lavoro per loro si riduce, addirittura per BRT vale solo l’8%. Le aziende esterne talvolta chiudono dopo due anni e riaprono con un altro nome a danno del lavoratore, che spesso viene pagato poco e perde i diritti dovuti. La Procura di Milano attraverso la GDF ha recuperato 170 milioni di euro di oneri non pagati da BRT, Geodis e DHL, che utilizzavano questo schema impiegando manodopera a basso costo. Ma anche in vari settori della Pubblica amministrazione si aggirano contratti nazionali e livelli di retribuzione e contributi: dai custodi dei musei ai vecchi LSU, lavoratori socialmente utili che avrebbero dovuto essere assunti stabilmente; fino ai magistrati onorari, la cui mancata regolarizzazione rischia di far saltare i soldi del PNRR previsti per il ministero della Giustizia. Infine, l’esempio degli istruttori sportivi: sono decenni che svolgono l’attività professionale presso impianti sportivi pagati come dilettanti senza diritti di ferie, malattie, maternità e contributi.

LA BUSTA NON PAGA di Bernardo Iovene Collaborazione Lidia Galeazzo, Greta Orsi Immagini di Paco Sannino Grafiche di Federico Ajello

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Nell’ambito dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2018 alla Corte di Appello di Venezia dopo gli interventi dei rappresentanti del Csm, del Ministero, dell’Ordine degli avvocati, dell’Anm e del procuratore, un giudice onorario denunciò di lavorare a nero per lo Stato.

LUIGI GIGLIO - GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI VICENZA Dopo vent'anni di lavoro svolto senza la titolarità di diritti che normalmente distinguono un lavoratore regolare da uno in nero.

LUIGI GIGLIO - GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI VICENZA Sono un lavoratore a nero dello Stato

BERNARDO IOVENE E fa il giudice

LUIGI GIGLIO - GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI VICENZA E faccio il giudice.

BERNARDO IOVENE Quanto guadagna al mese?

LUIGI GIGLIO - GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI VICENZA 1500 euro al mese

BERNARDO IOVENE Non ha i versamenti INPS.

LUIGI GIGLIO - GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI VICENZA Non ho i versamenti.

BERNARDO IOVENE Non ha la malattia riconosciuta, non ha niente.

LUIGI GIGLIO - GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI VICENZA Non ho nulla. Nulla.

BERNARDO IOVENE Non ha niente?

LUIGI GIGLIO - GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI VICENZA Non ho nulla, nulla

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I magistrati onorari sono avvocati che superano un concorso a titoli selezionati dal Consiglio superiore della magistratura, onorario significa temporaneo; infatti, la nomina dovrebbe durare tre anni più uno ma vista la carenza dei togati in migliaia ormai svolgono la funzione da oltre vent’anni, ma a cottimo, senza diritti di ferie, maternità malattia e senza contributi per la pensione.

LISA GUARNIERI - GIUDICE ONORARIA TRIBUNALE DI BOLOGNA Noi veniamo pagati a udienza, ma in realtà lavoriamo molto dietro tutti questi processi.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Oltre ai giudici onorai ci sono anche i pubblici ministeri denominati viceprocuratori onorari VPO, anche loro lavorano a cottimo, a udienza. BERNARDO IOVENE Cioè oggi In pratica in quest'aula c'era un giudice onorario e un pubblico ministero onorario. Cioè voi mandate avanti questa macchina di 30, 40 processi al giorno da giudici onorari?

ELENA NITTOLI - VICEPROCURATRICE ONORARIA PROCURA DI BOLOGNA Assolutamente sì.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Poi ci sono i giudici di pace che trattano un 1 milione 300mila procedimenti civili, nella sezione penale si occupano di reati come lesioni, minaccia, diffamazione, piccoli furti, danneggiamenti, uccisioni di animali e una marea di piccoli reati che ingolferebbero i tribunali.

BERNARDO IOVENE Da quanti anni lavora?

MARIAFLORA DI GIOVANNI - GIUDICE DI PACE DI CHIETI Io da 27.

BERNARDO IOVENE Lo Stato non le ha mai versato un contributo?

MARIA FLORA DI GIOVANNI - GIUDICE DI PACE DI CHIETI Mai, e io ho lavorato in via esclusiva per lo Stato. Non ho fatto mai nient'altro che questo.

RAIMONDO ORRU – GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI ROMA In realtà siamo dei veri e propri lavoratori in nero.

BERNARDO IOVENE Lo stipendio si aggira più o meno. 

RAIMONDO ORRU – GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI ROMA Stiamo parlando di 1200 1.300 euro.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO I magistrati onorari sono dei semplici avvocati che non hanno però partecipato al concorso in magistratura, ne hanno fatto uno per titoli, sono selezionati dal CSM. Avrebbero dovuto occupare per un breve tempo il ruolo di viceprocuratori o di giudici e invece, a causa dell’ingolfamento della macchina della giustizia, di deroga in deroga sono durati 30 anni. Sono stati retribuiti dal Ministero della Giustizia con un'indennità che però non prevedeva il pagamento delle ferie, delle malattie, e soprattutto i contributi previdenziali. Poi invece c’è la storia dei giudici di pace, la loro è durata 27 anni, fino a che non è intervenuto il Comitato europeo dei diritti sociali, che ha detto: Stato italiano devi pensare a pagare i contributi previdenziali ai giudici di pace, altrimenti vìoli la Carta sociale dei diritti, la carta europea, e dice anche che i magistrati onorari devono essere equiparati nello stipendio a quelli togati perché semplicemente fanno lo stesso lavoro. Su questo ci sono anche sentenze della cassazione che vanno nella stessa direzione, però i governi che si sono succeduti fino a qui hanno fatto spallucce da mercante. E il Ministro Orlando, per esempio, ha tentato anche una riforma però è andata nella direzione opposta, ha tentato di limitare anche le prestazioni nel tempo, due a settimana, uno stipendio lordo di 16 mila euro ma tasse e contributi a carico del giudice onorario. Insomma, alla fine rimaneva sì o no 600 euro di stipendio. Ma la riforma è stata bocciata perché, secondo l’Europa, non rispettava le direttive sul lavoro in merito ai diritti e la retribuzione. L’Europa ha anche avviato una procedura di infrazione. Poi ci ha pensato la Cartabia, nel 2021 ha tentato la stabilizzazione ma a scaglioni e poi non ha equiparato lo stipendio ai togati ma li ha equiparati a semplici funzionari. Ora, se non prendiamo provvedimenti rischiamo delle conseguenze molto serie, molto più di quelle che immaginiamo e insomma le sta sottovalutando queste conseguenze anche l’attuale governo che quando era all’opposizione imbracciava il megafono per urlare più forte i diritti negati ai magistrati onorari. Il nostro Bernardo Iovene.

RAIMONDO ORRU – GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI ROMA Un grande applauso perché è grazie a Fratelli d’Italia, è grazie al presidente Delmastro (che con quelle parole hanno messo spalle al muro il ministro della Giustizia)

RAIMONDO ORRU – GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI ROMA Questo sono io. Non so più neanche in quale anno BERNARDO IOVENE E sta passando il Megafono nientemeno che alla Meloni,

GIORGIA MELONI ALLA MANIFESTAZIONE DEI MAGISTRATI ONORARI 23/12/2020 Da tempo abbiamo depositato una proposta banale semplice stabilizzazione per la magistratura onoraria fino alla pensione, trattamento equiparato ai magistrati togati. 4 È questa la domanda alla quale lo Stato non ha mai voluto rispondere. E quando ha risposto come l'ultima volta ha risposto il ministro Bonafede, le cose sono andate anche peggio.

RAIMONDO ORRU – GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI ROMA Ero proprio fiducioso in attesa che potessero prendere le redini del governo. Oggi questo è avvenuto e diciamo siamo francamente imbarazzati invece dal dover sapere che il Ministero della Giustizia continua a parlare di volontari della giustizia in una sorta di caporalato, nascondendo all'Europa la vera essenza anche della riforma Cartabia.

BERNARDO IOVENE Lei lavora ancora a cottimo?

FABIANA PANTELLA - VICEPROCURATRICE ONORARIA PROCURA DI ROMA Io lavoro ancora a cottimo.

MARIAELENA FRANCONE - GIUDICE ONORARIA TRIBUNALE DI ROMA Non abbiamo previdenza, non abbiamo malattia, non abbiamo al momento nessun tipo di tutela.

BERNARDO IOVENE Lei dovrebbe essere stata assunta.

MARIA PAOLA DI NICOLA - VICEPROCURATRICE ONORARIA PROCURA DI TIVOLI (RM) Io dovrei essere stata assunta fra virgolette e sono fra i colleghi che sono senza compensi per quanto mi riguarda dal 12 gennaio.

PAOLA PIRAS - GIUDICE ONORARIA TRIBUNALE DI ROMA Sono in attesa di una riforma sulla quale ci tengono tutti appesi.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO L'Europa si è espressa chiaramente. L'ultima lettera di messa in mora è del luglio 2022. La Commissione Europea ritiene che continui a esistere disparità di trattamento per i giudici onorari e quindi i magistrati onorari e i giudici togati sono lavoratori comparabili. Quando erano all'opposizione ne hanno chiesto conto all'infinito ai precedenti governi sia Meloni che l'attuale sottosegretario Delmastro, che ha proprio la delega alla giustizia.

ANDREA DELMASTRO DELLE VEDOVE - SOTTOSEGRETARIO DI STATO ALLA GIUSTIZIA Comprensibile anche per un ignorante come Bonafede che voi siete dipendenti avete un vincolo di subordinazione e come tali dovete essere trattati. BERNARDO IOVENE Era abbastanza chiaro no, bisogna applicare le sentenze europee, che voi siete equiparate ai magistrati. Rispetto a quello che diceva prima ha cambiato idea? 

MARIA FLORA DI GIOVANNI - GIUDICE DI PACE DI CHIETI Sembrerebbe, ci si propone una gestione autonoma di Inps quando noi dovremmo avere la gestione ordinaria dell'Inps come l'hanno i magistrati.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Oggi al governo né del Mastro né il presidente Meloni hanno ancora attuato la cosa semplice che pretendevano dai vecchi governi, tengono in vita la riforma Cartabia che da gennaio di quest’anno assume a scaglioni in tre anni i magistrati onorari con il trattamento economico dei funzionari amministrativi, un compenso che la Commissione Europea ha bocciato perché inadeguato.

BERNARDO IOVENE La Commissione Europea dice: dategli lo stesso stipendio dei magistrati…

MONICA CAVASSA – VICEPROCURATRICE ONORARIA PROCURA DI MILANO Di pari anzianità di tribunale perché fanno il Lavoro di magistrato naturalmente

BERNARDO IOVENE Perché fanno il lavoro di magistrati…

MONICA CAVASSA - VICEPROCURATORE ONORARIO PROCURA DI MILANO Esattamente. La legge invece ha inquadrato il magistrato professionalizzato onorario nella figura di funzionario amministrativo di Area tre. BERNARDO IOVENE Che vuol dire per noi umani...

MONICA CAVASSA - VICEPROCURATORE ONORARIO PROCURA DI MILANO Che vuol dire pochi soldi, la legge già è entrata in vigore. Però mancano le linee guida ministeriali per la fattività di questa legge. Il rischio è una procedura di infrazione che costerà all'Italia milioni di euro.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La riforma Cartabia ha previsto anche che i magistrati onorari prenderanno sempre la stessa cifra di stipendio, senza scatti fino a 70 anni.

RAIMONDO ORRU - GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI ROMA Perché non si prevede alcun aggiornamento Istat. La cosa incredibile è anche questa.

BERNARDO IOVENE Che fino a 70 anni avrete lo stipendio se ci sarà bloccato…

RAIMONDO ORRU - GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI ROMA Sempre lo stesso

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO 6 Sempre la riforma Cartabia stabilisce che per il magistrato onorario assunto ci sia la rinuncia ad ogni pretesa conseguente al rapporto onorario pregresso, compreso i contributi mai versati per trent'anni. Anche questo è contestato dall'Europa.

RAIMONDO ORRU - GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI ROMA Cioè il datore di lavoro ci ha detto. Vuoi proseguire in queste funzioni? Devi rinunciare a tutto quello che hai maturato, cioè vent'anni. Non raggiungeremo mai il minimo per acquisire una pensione, forse avremo la pensione sociale.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Davanti a questa situazione i magistrati onorari continuano a scioperare ed allora l’equiparazione economica con i togati viene chiesta al Ministro della Giustizia in un’interrogazione proprio dalle fila della maggioranza, dall’On. Lupi, ma la risposta affidata al viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto gela i giudici onorari.

MAURIZIO LUPI – DEPUTATO - PRESIDENTE NOI CON L’ITALIA Mi piacerebbe stendere un velo pietoso. Si, sintesi della risposta: Vedremo, faremo un tavolo, prendere del tempo secondo me lo dico al mio amico Sisto è un errore.

BERNARDO IOVENE Lei saprà anche che Delmastro e la Meloni sono stati sempre sulle barricate a favore dei giudici di pace quando erano all'opposizione.

MAURIZIO LUPI – DEPUTATO - PRESIDENTE NOI CON L’ITALIA E va beh, adesso siamo in maggioranza, risolviamo i problemi, l’appello e risolviamo i problemi.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E a risolverli ironia della sorte spetta proprio al sottosegretario alla giustizia Delmastro che inveiva dall’opposizione contro l’ex ministro che chiamava malafede e ignorante.

ANDREA DELMASTRO DELLE VEDOVE - SOTTOSEGRETARIO DI STATO ALLA GIUSTIZIA Comprensibile anche per un ignorante come Malafede che voi siete dipendenti con vincolo di subordinazione e come tali dovete essere trattati.. BERNARDO IOVENE È semplice dall’opposizione…

ANDREA DELMASTRO DELLE VEDOVE - SOTTOSEGRETARIO DI STATO ALLA GIUSTIZIA La stupirò con effetti speciali noi continuiamo a considerare così anche al Governo e su quello stiamo lavorando..

BERNARDO IOVENE Lei si è coordinato anche con Sisto. Perché Sisto il viceministro ha dato una risposta… 

ANDREA DELMASTRO DELLE VEDOVE - SOTTOSEGRETARIO DI STATO ALLA GIUSTIZIA Guardi io capisco, capisco la battuta e so peraltro che voi siete generalmente molto ficcanti e salaci nelle battute. Il viceministro Sisto ha dato una risposta a legislazione invariata, che non poteva che essere quella, che è la fotografia di ciò che sono oggi. Stiamo lavorando per una riforma strutturale della magistratura onoraria. Stabilizzazione nelle funzioni fino a settant'anni, un trattamento economico, retributivo, pensionistico, assistenziale degno di questo nome con equiparazione ai magistrati togati e non come hanno fatto in passato ai funzionari amministrativi.

BERNARDO IOVENE Lei si sente coerente rispetto a quello che diceva prima insieme al Presidente Meloni all'opposizione…

ANDREA DELMASTRO DELLE VEDOVE - SOTTOSEGRETARIO DI STATO ALLA GIUSTIZIA Dato che lei è di una simpatia straordinaria gliela ribalto, mi dica un punto dove non sono coerente rispetto a quello che ho detto lì

BERNARDO IOVENE L’Importante che poi le faccia le cose.

ANDREA DELMASTRO DELLE VEDOVE - SOTTOSEGRETARIO DI STATO ALLA GIUSTIZIA Questo è un altro discorso ancora.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Intanto il sottosegretario ha già fissato dei punti con i sindacati dei magistrati onorari. L'intenzione è riconoscere una retribuzione pari ai magistrati togati, 72.000 euro netti l'anno. Ma le proteste continuano.

BERNARDO IOVENE Delmastro vi ha fissato 12 punti ma voi continuate a protestare?

RAIMONDO ORRU - GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI ROMA Le proteste che noi porteremo avanti e continueremo a portare avanti e se nulla si farà. Temiamo fortemente i poteri forti, che continuano sicuramente ad essere presenti all'interno del Ministero.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I giudici onorari ipotizzano che 30 anni di questo impasse sarebbe dovuto anche alle resistenze dei magistrati ordinari che sono distaccati al Ministero della Giustizia, così come in passato si opponeva alla loro stabilizzazione l’Associazione Nazionale dei Magistrati togati, in quanto li hanno sempre considerati onorari e quindi con una funzione temporanea. 

GIUSEPPE SANTALUCIA - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI E di fatto li hanno professionalizzati. Quindi il carattere onorario…

BERNARDO IOVENE È caduto…

GIUSEPPE SANTALUCIA - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI È venuto meno perché un carattere tipico dell'onorarietà e la temporaneità, la ministra della giustizia professoressa Cartabia li ha stabilizzati ovviamente li ha stabilizzati nel ruolo onorario, rimarranno fino all'età pensionabile magistrati onorari, quindi una stabilizzazione nella onorarietà, una contraddizione in termini una cosa tutta italiana.

BERNARDO IOVENE Però voi non vi mettete più di traverso come è successo negli anni passati.

GIUSEPPE SANTALUCIA - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI l'Associazione magistrati ha sempre detto in magistratura si entra per concorso, la magistratura onoraria è una realtà diversa

BERNARDO IOVENE Quindi voi siete per la comparabilità economica tra…

GIUSEPPE SANTALUCIA - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI No, c'è una differenza sono magistrati onorari non fanno lo stesso mestiere.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Spetta al governo che innanzitutto deve rispondere all’Europa, perché la procedura è avviata se non ci sarà la comparazione ai magistrati ordinari sono pronti a sanzionarci.

BERNARDO IOVENE Che cosa rischia lo Stato italiano?

VINCENZO DE MICHELE - AVVOCATO Il blocco completo dei fondi del PNRR.

BERNARDO IOVENE Su queste sentenze? VINCENZO DE MICHELE - AVVOCATO Su queste sentenze. 

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, rischiamo oltre la multa il blocco del PNRR. Bisogna risolvere il problema di 4.500 magistrati onorari che hanno contribuito allo svolgimento regolare della giustizia in questi anni partecipando a circa due milioni di processi tra civili e quello penale. Lo hanno fatto a fianco di quelli togati ma con una retribuzione di 1200 -1300 euro senza ferie, malattie né previdenza pagati. Ora la Cartabia aveva tentato, ha abolito sostanzialmente il criterio di temporaneità e li ha stabilizzati ma non ha, li ha equiparati ai magistrati togati nello stipendio bensì ai funzionari e in cambio ha anche chiesto loro di rinunciare a 30 anni di diritti acquisiti. Ora, il sottosegretario alla Giustizia Delmastro che quei diritti negati li urlava al megafono, oggi che è al governo è un po' più timidino, li ha messi nelle buone intenzioni però ha promesso che li approverà, vedremo. Mentre molto più rigidi sono quelli dell’Associazione nazionale dei magistrati, i togati che dicono: noi siamo una cosa diversa. Insomma, è vero però i magistrati onorari hanno fatto lo stesso lavoro e rischiano di non poter godere di una pensione dignitosa, rischiano la pensione sociale. Un po' come i lavoratori socialmente utili. Erano ex cassaintegrati, licenziati o disoccupati. Nascono come fenomeno a metà degli anni Ottanta, hanno il boom nel ‘95 quando diventano un vero e proprio serbatoio di mano d’opera per quei comuni che sono vincolati al patto di stabilità e senza risorse ma poi vengono utilizzati nelle regioni, nelle province, anche nei tribunali. Insomma, viene creato un mostro giuridico per 40 mila persone che vengono pagate semplicemente con un contributo da 580 euro, senza contributo per modo di dire perché i contributi non ci sono, sono solo figurativi. Doveva essere temporaneo, anche là è durato 25 anni. Nel 2020 finalmente lo Stato ha detto: guardate assumeteli questi lavoratori socialmente utili, vi diamo un contributo di 9.300 euro l’anno e il resto poi ce lo mettete voi. Ecco, come è andata a finire?

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Dal 2020 i lavoratori socialmente utili quasi tutti sono diventati dipendenti degli enti pubblici dove hanno prestato servizio per 25 anni con un sussidio di 580 euro al mese. Adesso ricevono uno stipendio, in parte con un incentivo dello Stato e la restante parte toccava ai comuni che, sempre in dissesto, non hanno soldi e quindi sono dipendenti a ore con lo stesso stipendio di prima ma tassato.

ANDREA CIRILLO - DIPENDENTE COMUNE ORTA DI ATELLA (CE) Dopo 25 anni.

BERNARDO IOVENE Fino a poco tempo fa quanto prendeva al mese qua dentro?

ANDREA CIRILLO - DIPENDENTE COMUNE ORTA DI ATELLA (CE) Quasi 600 euro

ANDREA CIRILLO - DIPENDENTE COMUNE ORTA DI ATELLA (CE) Poi da quando sono inquadrati …

BERNARDO IOVENE È un paradosso

ANDREA CIRILLO - DIPENDENTE COMUNE ORTA DI ATELLA (CE) È sì si è ridotto anche la mensilità perché su quei soldi stanziati noi ci paghiamo anche i nostri contributi.

BERNARDO IOVENE Prima non vi versavano i contributi adesso vi versano i contributi su pochissime ore 

ANDREA CIRILLO - DIPENDENTE COMUNE ORTA DI ATELLA (CE) E Li paghiamo noi.

BERNARDO IOVENE quindi si arriva a 430 euro.

ANDREA CIRILLO - DIPENDENTE COMUNE ORTA DI ATELLA (CE) Si questo è il nostro mensile ci siamo ridotti ancora peggio di prima.

FRANCO ARENA - DIPENDENTE COMUNE DI ORTA DI ATELLA (CE) Con questa legge ci hanno messo 11 ore settimanali, faccio il messo comunale adesso prendiamo 430 euro al mese. Abbiamo fatto 25 anni di lavoratori socialmente utili senza percepire i contributi, e quindi questo aspetto contributivo adesso si riversa pure sulla pensione.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La signora Angela e la signora Maria sono state assunte invece a 18 ore settimanali al Comune di Castello di Cisterna.

ANGELA ESPOSITO - DIPENDENTE COMUNE CASTELLO DI CISTERNA (NA) Io collaboro con l'ufficio tecnico.

BERNARDO IOVENE Da quanti anni.

ANGELA ESPOSITO - DIPENDENTE COMUNE CASTELLO DI CISTERNA (NA) Dal ‘95.

BERNARDO IOVENE Adesso finalmente vi hanno stabilizzato?

ANGELA ESPOSITO - DIPENDENTE COMUNE CASTELLO DI CISTERNA (NA) Si a 18 ore

BERNARDO IOVENE A 18 ore quindi uno stipendio di..

MARIA CARMELA VAIA - DIPENDENTE COMUNE DI CASTELLO DI CISTERNA (NA) 618.

BERNARDO IOVENE 618 se vogliamo essere precisi

MARIA CARMELA VAIA - DIPENDENTE COMUNE DI CASTELLO DI CISTERNA (NA) 618 euro.

BERNARDO IOVENE Signora, lei quanti anni ha?

MARIA CARMELA VAIA - DIPENDENTE COMUNE DI CASTELLO DI CISTERNA (NA) Io 60?

BERNARDO IOVENE La sua vita contributiva?

MARIA CARMELA VAIA - DIPENDENTE COMUNE DI CASTELLO DI CISTERNA (NA) Zero! Mi sono fatta fare un estratto contributivo dall’Inps e. Andrei a prendere 270 euro di pensione dopo aver lavorato 27 anni in un Comune.

BERNARDO IOVENE Lei che mansioni svolge?

MARIA CARMELA VAIA - DIPENDENTE COMUNE DI CASTELLO DI CISTERNA (NA) Io lavoro nel Comando Polizia Municipale di Castello di Cisterna.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A Fratta Minore, il Comune assunto gli ex LSU a 20 ore settimanali.

BERNARDO IOVENE Quanto prende?

DOMENICO CRISTOFARO - DIPENDENTE COMUNE FRATTAMINORE (NA) Con le 800 euro al mese non ci facciamo niente, siamo costretti sempre a svolgere attività di lavoro nero, lavoro sommerso. Siamo proprio obbligati. BERNARDO IOVENE Quindi lei. Fa le 20 ore al Comune…

DOMENICO CRISTOFARO - DIPENDENTE COMUNE FRATTAMINORE (NA) Faccio le 20 ore al comune e tutto quello che riesco a fare in nero lo faccio tranquillamente senza preoccuparmi né delle forze dell'ordine. Io sono Cristofaro Domenico

BERNARDO IOVENE Ci sta mettendo pure la. Faccia dicendo che lavoro pure a nero.

DOMENICO CRISTOFARO - DIPENDENTE COMUNE FRATTAMINORE (NA) Io ci metto la faccia tranquillamente, ce l'ho sempre messa la faccia. Abbiamo dovuto anche subire delle pressioni degli amministratori facendo, qualche lavoretto anche a casa di qualcuno.

BERNARDO IOVENE Vi hanno sfruttato pure così…

DOMENICO CRISTOFARO - DIPENDENTE COMUNE FRATTAMINORE (NA) Hanno sfruttato anche personalmente alcuni amministratori BERNARDO IOVENE Ma, vi davano qualche mancia

DOMENICO CRISTOFARO - DIPENDENTE COMUNE FRATTAMINORE (NA) No no durante l'orario delle LSU abbiamo svolto…

BERNARDO IOVENE Lavori a casa…

DOMENICO CRISTOFARO - DIPENDENTE COMUNE FRATTAMINORE (NA) A casa di qual che amministratore lo dico qua e lo posso dire anche in altre sede.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Tralasciando il pregresso attualmente i Comuni pagano gli ex LSU, oggi dipendenti comunali, quasi esclusivamente con l'incentivo statale che è di 9.300 euro l'anno.

MIMMO CHINELLI – RESPONSABILE USB ENTI LOCALI REGIONALE CAMPANIA La maggior parte degli enti sono in dissesto in riequilibrio finanziario, l'incentivo va al lavoratore quindi automaticamente l'ente dovrebbe metterci poi gli oneri accessori ma purtroppo molti hanno utilizzato queste questo incentivo coprendo tutto

BERNARDO IOVENE Lordi praticamente.

MIMMO CHINELLI – RESPONSABILE USB ENTI LOCALI REGIONALE CAMPANIA Esattamente.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Al comune di Melito di Napoli oltre a quello statale il giovane e nuovo sindaco si aspettava anche l’incentivo regionale da destinare ai lavoratori socialmente utili, l’abbiamo incontrato pochi giorni prima che fosse arrestato per presunti accordi elettorali politici mafiosi.

LUCIANO MOTTOLA - SINDACO DI MELITO (NA) 2021 - 2023 Inizialmente era previsto un doppio contributo uno dello Stato e uno della Regione Campania. Quello della Regione Campania improvvisamente scomparve per essere onesti. E ci trovammo naturalmente ad assumere questi lavoratori con delle percentuali minime.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Uno dei pochi Comuni che invece ha assunto i lavoratori socialmente utili al 100%, con le 36 ore settimanali, è stato quello di Napoli quando c'era il sindaco De Magistris.

LUIGI DE MAGISTRIS - SINDACO DI NAPOLI 2011-2021 Non era nel mio programma elettorale perché una di quelle cose che era difficile poter ipotizzare e si riusciva a realizzare; invece, ce l'abbiamo fatta e ripeto erano 23 anni che invece queste persone ascoltavano solo promesse elettorali che poi rimanevano come tali.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Come la signora Anna, eccola quattro anni fa lavoratrice socialmente utile era addetta allo spazzamento per il Comune e oggi è dipendente al 100% in una scuola comunale.

BERNARDO IOVENE Era allo spazzamento aveva la tuta arancione.

ANNA AMBROSINO - DIPENDENTE COMUNE DI NAPOLI Bravo, adesso so tutta blu

BERNARDO IOVENE è contenta?

ANNA AMBROSINO - DIPENDENTE COMUNE DI NAPOLI Sì, perché sto con i bambini sono stata assunta tre anni fa, a 60 anni, io non andrò in pensione perché non avrò nemmeno forse quella sociale.

BERNARDO IOVENE Che stipendio prende?

ANNA AMBROSINO - DIPENDENTE COMUNE DI NAPOLI 1200.

BERNARDO IOVENE Adesso ha le ferie no?

ANNA AMBROSINO - DIPENDENTE COMUNE DI NAPOLI Sì tutto.

BERNARDO IOVENE Ha le malattie. 14

ANNA AMBROSINO - DIPENDENTE COMUNE DI NAPOLI Tutto, è stato veramente bello e non ci voglio pensare ancora la pensione ci devono pensare i Governi.

BERNARDO IOVENE Io da una parte le faccio gli auguri.

ANNA AMBROSINO - DIPENDENTE COMUNE DI NAPOLI Grazie. Auguri a tutti gli LSU, ex.

BERNARDO IOVENE Perché finalmente comunque ha riconquistato…

ANNA AMBROSINO - DIPENDENTE COMUNE DI NAPOLI La dignità vede io sto più dritta, non ho parole…. Niente basta.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Queste persone negli enti locali sono stati retribuiti con un sussidio con contributi non versati ma solo figurativi.

BERNARDO IOVENE Quanto prende di pensione signora?

MARIA LIBERA CAPASSO - PENSIONATA vado a Prendere 470.

BERNARDO IOVENE Di pensione, quanti hanno lavorato.

MARIA LIBERA CAPASSO - PENSIONATA 26 anni.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La signora Filomena invece ha lavorato 20 anni in fabbrica anni poi licenziata è stata 25 anni al comune di Scisciano come Lavoratrice socialmente Utile, oggi è in pensione.

BERNARDO IOVENE Il suo estratto INPS no? Allora lei ha iniziato a lavorare nel 1974 e dove praticamente le versavano tutti i contributi?

FILOMENA ESPOSITO - PENSIONATA Esatto.

BERNARDO IOVENE Quando è diventata lavoratrice socialmente utile, sussidio di disoccupazione non ci sono più contributi

FILOMENA ESPOSITO - PENSIONATA Bravissimo. Praticamente 25 anni senza contributi

BERNARDO IOVENE Senza contributi.

FILOMENA ESPOSITO - PENSIONATA Prendendo una pensione non dignitosa.

BERNARDO IOVENE E quindi prende quanto ha detto.

FILOMENA ESPOSITO - PENSIONATA Attualmente 630.

BERNARDO IOVENE di pensione.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Abbiamo chiesto al presidente dell’Inps, che ha studiato a fondo la situazione degli LSU qual potrebbe essere la soluzione per evitare un futuro di povertà.

PASQUALE TRIDICO - PRESIDENTE INPS 2019-2023 Purtroppo, hanno la copertura figurativa dei contributi.

BERNARDO IOVENE Vuol dire cioè io ti do gli anni per arrivare alla pensione. Ma non…

PASQUALE TRIDICO - PRESIDENTE INPS 2019-2023 Ma non il quantum. Quindi sarà una pensione molto povera se ci arrivano.

BERNARDO IOVENE Quindi questi lavoratori si devono rassegnare a fare una vecchiaia in povertà.

PASQUALE TRIDICO - PRESIDENTE INPS 2019-2023 La legge dà loro la possibilità di fare il riscatto oneroso per loro. BERNARDO IOVENE Facciamo un conto quanto, quanto dovrebbe essere all'anno.

PASQUALE TRIDICO - PRESIDENTE INPS 2019-2023 Ma costa intorno a 5.000 euro all’anno

BERNARDO IOVENE Quindi vent'anni sono 100.000 euro?

PASQUALE TRIDICO - PRESIDENTE INPS 2019-2023 Sì, se sono vent'anni, si, alternativamente, come dire, si potrebbe pensare anche alla creazione di un fondo pubblico per la copertura di questi contributi, ammonterebbe a circa 200 milioni di euro.

BERNARDO IOVENE Quindi insomma, lo Stato, se volesse risolvere questa situazione, deve mettere 200 milioni.

PASQUALE TRIDICO - PRESIDENTE INPS 2019-2023 Alternativamente, come dicevamo prima, lo devono pagare. BERNARDO IOVENE Quindi la soluzione è questa?

PASQUALE TRIDICO - PRESIDENTE INPS 2019-2023 Non ce ne sono altre.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Alla fine dopo averli tenuti per 25 anni in un limbo giuridico, senza aver versato un euro di contributi, la soluzione e fargli prendere una pensione dignitosa, sono due le soluzioni: una o lo Stato investe in un fondo pubblico fondo pubblico di 200 milioni di euro oppure deve pensarci il singolo lavoratore socialmente utile a riscattare i 25 anni versando fino a centomila euro! Centomila euro per chi ha potuto godere di un sussidio da fame sostanzialmente. Quando sono stati assunti hanno anche tirato un sospiro di sollievo tranne poi vedere la prima busta paga che era la cifra, grossomodo la stessa, anche al lordo dei contributi da versare. Ora prima o poi bisognerà che qualcuno ci pensi anche a questa situazione. Come pensi anche alla situazione in cui lavorano nella logistica. Da sola vale l’8%, anzi più dell’8% del pil nazionale, ci lavorano 82 mila aziende conto terzi, 1 milione e 400 persone. Ma in quali condizioni?

MANIFESTANTI Lavoro, diritti, dignità. Lavoro, diritti, dignità.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Questa è una delle piattaforme di Italtrans in provincia di Bergamo da dove centinaia di tir ogni giorno partono per rifornire le catene dei supermercati italiani. I Lavoratori in appalto da cooperative esterne che lavorano nei magazzini sono 700, quelli iscritti al sindacato USB chiedono più salario, una mensa che non c’è, e più diritti.

OPERAIO IN SCIOPERO Non si può mantenere una famiglia…

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Hanno bloccato i cancelli ai Tir in entrata, creando una coda di chilometri ed è intervenuta la polizia.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Hanno bloccato i cancelli ai tir in entrata, creando una coda di chilometri ed è intervenuta la polizia.

ELISA FORNONI - RESPONSABILE USB BERGAMO Abbiamo fatto tre scioperi qui fuori ai cancelli e tre volte c'è stato l'intervento delle forze dell'ordine.

BERNARDO IOVENE Perché bloccate i camion che passano?

ELISA FORNONI - RESPONSABILE USB BERGAMO Picchetto. Per sciogliere il picchetto c'è l'intervento delle forze dell'ordine.

OPERAIO Non siamo animali, siamo solo persone che chiediamo i nostri diritti, chiediamo il buono pasto in pace.

BERNARDO IOVENE Voi siete tutti dipendenti di cooperative?

OPERAI Si si

BERNARDO IOVENE Se tu vai in malattia?

OPERAIO I primi tre giorni non vengono pagati.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Poi c'è il problema del carico di lavoro

ROBERTO MONTANARI – SINDACALISTA USB PIACENZA In 8 ore un lavoratore movimenta 30 tonnellate di merci.

OPERAIO Il lavoro è molto pesante, fino a 20-25 chili di pezzi che dobbiamo prendere. Loro stanno chiedendo 180 colli all’ora, non è non è possibile per farlo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La dirigenza aziendale è presente al completo sul posto.

BERNARDO IOVENE Salve.

ITALTRANS Se desidera da fare un'intervista con qualcuno di noi siamo disponibili.

BERNARDO IOVENE Volentieri, voi siete?

ITALTRANS L’Italtrans.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ci invitano quindi a fare una visita guidata nei capannoni, i lavoratori che caricano i pacchi sul muletto sono tutti esterni in appalto dalle 10 cooperative, normalmente ci dice il direttore caricano senza problemi fino a 150 pacchi all’ora a fronte degli 80 che oggi chiedono gli scioperanti.

CLAUDIO BELLINA - TITOLARE ITALTRANS SPA Questo è uno dei colli che si fa.

MATTEO TESTA - DIRETTORE RISORSE UMANE ITALTRANS SPA Questo è uno dei colli, questo è uno dei colli.

CLAUDIO BELLINA - TITOLARE ITALTRANS SPA Poi c’è anche questo qua e questo qua. E negli 80 colli c’è dentro anche questo che puoi fare così guarda, questi son sei. Poi c'è anche il cartone di vino per l'amor di Dio.

BERNARDO IOVENE 80 colli all’ora?

CLAUDIO BELLINA - TITOLARE ITALTRANS SPA 80 colli. All’ora io li faccio in un quarto d’ora. Io accetterei a 160 colli perché se ne faccio 200 che si possono fare porto a casa 3-400 euro al mese in più.

MATTEO TESTA - DIRETTORE RISORSE UMANE ITALTRANS SPA Oggi ci sono circa 850 persone. Complessivamente un centinaio sono dipendenti nostri che svolgono altre mansioni.

BERNARDO IOVENE È chiaro che a voi conviene?

MATTEO TESTA - DIRETTORE RISORSE UMANE ITALTRANS SPA E’ un modello organizzativo che ormai è in essere da diversi anni. Credo che l'importante sia il rispetto della legalità.

BERNARDO IOVENE Lamentano straordinari non pagati.

CLAUDIO BELLINA - TITOLARE ITALTRANS SPA Sono in 40 che si lamentano allora chiediamo agli altri 750 vediamo cosa dicono.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ci propongono quindi di intervistare un dipendente di cooperativa che non sciopera.

BERNARDO IOVENE I colleghi che stanno protestando non sono nella tua cooperativa.

OPERAIO No, sono anche loro fa parte della nostra cooperativa, ognuno è libero di fare quello che vuole nella vita ma per quanto riguarda me ripeto io sono a posto.

BERNARDO IOVENE Tu non hai l'esigenza di avere una mensa qua dentro.

OPERAIO No, sinceramente io no, sono a posto così.

BERNARDO IOVENE La malattia, ti è mai capitato di andare in malattia?

OPERAIO Io in cinque anni, mai fatta.

BERNARDO IOVENE Mai fatto malattia, quindi non hai avuto problemi perché…

OPERAIO Non ho avuto problemi perché..

BERNARDO IOVENE Perché non li crei i problemi.

OPERAIO Quello è, hai già capito tutto, io vengo qua per lavorare e alla fine prendo quello che mi tocca perché lavoro.

CLAUDIO BELLINA - TITOLARE ITALTRANS SPA Al sentirti dire dal figlio di puttana la gente fuori che sarei io, il figlio di puttana che fa lavorare la gente non è una bella cosa. Se sono rappresentati da gente, che non hanno mai lavorato. È dura ragazzi.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Per Italtrans complessivamente lavorano 3000 persone e soltanto 300 sono dipendenti diretti gli altri 2700 dipendono da una dozzina di cooperative e società esterne.

ELISA FORNONI - RESPONSABILE USB BERGAMO Chiaramente loro sono assunti da dieci aziende dieci cooperative diverse hanno dieci trattamenti diversi c'è chi viene pagata la malattia al 100 chi al 70.

BERNARDO IOVENE Tu lavori per una cooperativa?

OPERAIO Io lavoro per la Novecento. Ci sono ancora persone che sono quattro anni che sono qua a lavorare, hanno ancora contratto part time e pretendono che si fermano a fare gli straordinari. OPERAIO Noi al minimo facciamo 10 o 12 ore al giorno. Poi alla fine a fine mese troviamo la busta paga di 1.000, 1.200, 1.300 euro. BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO L’azienda rispetto a questi lavoratori ha pochi obblighi, infatti qui con 800 lavoratori non c’è mensa, e per questo che chi protesta chiede 8 euro al giorno di ristoro.

OPERAIO Non c'è la mensa cioè i salari devono aumentare almeno di 280 euro al mese.

BERNARDO IOVENE Loro chiedono 8 euro.

CLAUDIO BELLINA - TITOLARE ITALTRANS SPA 8 euro non si sa perché lo chiedono, è impensabile dare. C'è un contratto.

BERNARDO IOVENE Che non prevede la mensa.

CLAUDIO BELLINA - TITOLARE ITALTRANS SPA Non lo prevede

BERNARDO IOVENE Lei ha 100 dipendenti ma ne ha 800. Non ha mai pensato di assumere tutti?

CLAUDIO BELLINA - TITOLARE ITALTRANS SPA Tutte le società che lavorano qua dentro, ognuno si gestisce il personale suo. Noi saremmo oggi anche in difficoltà ad assumere tutte queste persone, perché serve una struttura.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il 90% del personale è più conveniente che venga gestito da società esterne.

SINDACALISTA AL MEGAFONO Due lavoratori sono stati licenziati in questi giorni.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Infatti, solo dopo qualche giorno una di queste società ha inviato ai delegati sindacali delle USB una lettera di licenziamento immediato e un’altra di contestazione con sospensione intercettando dei messaggi WhatsApp tra i lavoratori. E quindi è ripreso il blocco dei tir in entrata e in uscita.

LAVORATORE AL MEGAFONO Vogliamo dentro i nostri fratelli che sono stati ingiustamente licenziati.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ed è intervenuta di nuovo la polizia. A parte questa situazione di conflittualità ci sono migliaia di cooperative, società serbatoi di mano d’opera, che chiudono dopo 2 anni frodando sia il fisco che il lavoratore. È quello che è successo a Simone, nome di fantasia, che lavora per BRT ma attraverso una società esterna che gli ha addebitato le rate del furgone facendogli credere che poi diventava suo.

LAVORATORE BRT C’è la rata 400 euro, Trentatreesima rata sul 65.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E poi hanno sempre consegnato buste paga che non corrispondevano al reale pagamento.

BERNARDO IOVENE Cioè quello che c'è scritto sulla busta paga non è quello che ti versano in banca

LAVORATORE BRT No, No no

BERNARDO IOVENE è sempre meno

LAVORATORE BRT Meno, meno, meno.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ad esempio, su una cifra accumulata con le consegne di 3. 373 euro gli toglievano oltre agli oneri anche le spese.

LAVORATORE BRT Rata del mezzo 400 euro, assicurazione 164 euro, cessione del quinto.

BERNARDO IOVENE Gasolio.

LAVORATORE BRT 22 Gasolio 795 che lui ha speso, 180 di gomme, è questo è quello che lui ha guadagnato a giugno 2022, lui ha guadagnato 264 euro, quello che è, però in busta paga dice eh… la busta paga è completamente farlocca.

BERNARDO IOVENE Cioè qui dicono 1.963 che lui non ha mai incassato?

LAVORATORE BRT No

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Su quest’altra il fatturato del suo lavoro 3.881 euro arriva a una paga reale di 950 euro.

BERNARDO IOVENE Gli è rimasto 950.

LAVORATORE BRT Tu hai guadagnato questo?

LAVORATORE BRT Sì, sì.

BERNARDO IOVENE E invece risulta?

LAVORATORE BRT 1.600

BERNARDO IOVENE 1.612

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Attualmente Brt, colosso multinazionale dei trasporti, su richiesta della procura di Milano è in amministrazione giudiziaria per frode fiscale e stipula di fittizi contratti di appalto di manodopera. Ha subito un sequestro di 68 milioni di euro, l’operazione ha colpito anche Geodis l’altra multinazionale della logistica e un’azienda intermediaria. Complessivamente lo stato ha recuperato 126 milioni di euro.

BERNARDO IOVENE Quindi 126 milioni di euro

EMILIO PALERMO – TENENTE COLONNELLO GUARDIA DI FINANZA - MILANO 126 milioni di euro

BERNARDO IOVENE Di chi stiamo parlando?

EMILIO PALERMO – TENENTE COLONNELLO GUARDIA DI FINANZA - MILANO Attualmente nelle casse dello Stato. Brt e Geodis.

BERNARDO IOVENE Brt ex Bartolini?

EMILIO PALERMO – TENENTE COLONNELLO GUARDIA DI FINANZA - MILANO Ex Bartolini, che sostanzialmente utilizzavano manodopera a bassissimo costo e in modo illecito, detraggono l'IVA senza averne titolo e soprattutto spesso le buste paga sono state in qualche modo manomesse. Le società che costituiscono il serbatoio della manodopera sono delle società costituite per avere una vita breve non più di tre anni. Scompaiono in modo da essere difficilmente rintracciabili, soprattutto per il fisco. In mezzo ci sono i nuovi schiavi.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I nuovi schiavi sono stati trovati anche in DHL, che ha subito un sequestro da parte della Guardia di Finanza di Milano di 25 milioni, più 35 di interessi e sanzioni, per un totale di 60 milioni di euro.

EMILIO PALERMO – TENENTE COLONNELLO GUARDIA DI FINANZA - MILANO Siamo riusciti a coniugare da un lato la tutela degli interessi dell'erario. Dall'altro lato, DHL ha già assunto 1500 dipendenti. E non solo hanno presentato un piano d'accordo con l'autorità giudiziaria per l'assunzione di ulteriori 1500 lavoratori dipendenti.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ed è quello che auspica il signor Antonio, che consegna e veste nei panni DHL, ma è ancora dipendente da una società esterna.

BERNARDO IOVENE Viaggiate come DHL. Noi percepiamo che voi siete DHL e invece non dipendente da DHL.

ANTONIO GIGLIO - ABACO TRASPORTI SRL Non dipendiamo da DHL. L'auspicio da lavoratore è quello che un domani, oggi io ho quasi 52 anni, un domani che DHL ci assuma in modo diretto, sarebbe un fatto gratificante per noi, perché comunque noi siamo il corriere DHL.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO A 52 anni glielo auguriamo. La Guardia di Finanza è riuscita nella nobile impresa di recuperare quello che non era stato pagato in tasse dunque per il welfare, per la sanità, per la difesa dei più fragili da una parte e dall’altra anche, in alcuni casi, a far assumere quei lavoratori precari dietro ai quali si sono, alle spalle dei quali si sono consumate vere e proprie porcate. Abbiamo visto anche buste paga da 1900 euro, ridursi poi quando vai a vedere quello che ti versavano sul conto a 260 euro. Questo perché nella busta paga facevano scontare ai lavoratori anche le rate per l’acquisto dei mezzi sui quali trasportavano le merci e che credevano poi fossero di proprietà loro, alla fine. Ecco tutto questo è potuto accadere perché mancano i controlli e grazie al meccanismo di questi contratti che favoriscono le disuguaglianze, la precarietà, la 24 mancanza di diritti, dell’osservazione di diritti sul lavoro. Tutto questo in nome della flessibilità. Il padre della flessibilità e della precarietà può essere identificato in Tiziano Treu, un Ministro del Lavoro nel 1997, dei governi Prodi, Dini e Prodi poi commissario INPS del governo Renzi. Ecco è l’uomo che ha introdotto, dopo che era stato abolito nel 1960, il concetto di interposizione di manodopera. Aveva aperto alla flessibilità e questo era un bene ma, introducendo l’interposizione di manodopera, ha consentito che qualcuno guadagnasse alle spalle dei lavoratori, insomma, come fossero degli schiavi. Poi questo concetto di precarietà, di flessibilità è stato ampliato da Biagi nel 2003, la legge Biagi che con l’articolo 29 ha addirittura scaricato tutte le responsabilità che poteva avere il committente sul mediatore, l’interposizione, colui che assumeva poi di fatto i lavoratori. Ecco, questo meccanismo ha consentito che molte cooperative diventasse lo strumento per offrire lavoro a basso costo. Sono proliferate così migliaia di imprese, migliaia di cooperative anche spurie, hanno applicato dei contratti subdoli, mortificando la dignità dei lavoratori. Spesso queste cooperative sparivano, erano intestate a prestanome, a stranieri che non si ritrovavano neppure più e i lavoratori passavano poi in mano ad altre cooperative con condizioni economiche peggiorate, calpestando ogni dignità. E a proposito di dignità siamo il Paese che ha il più vasto patrimonio culturale e artistico al mondo, abbiamo la bellezza di 3.400 musei, 2.100 parchi archeologici, 43 siti Unesco. Investiamo sulla formazione degli operatori culturali, quando poi c’è da valorizzare questi beni, applichiamo loro il contratto di vigilanti, vigilantes!

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A Verona, città d’arte, nei musei civici, oltre ai dipendenti comunali lavorano anche 65 operatori museali dipendenti e soci di una cooperativa che è vincitrice di una gara d’appalto, la maggior parte sono giovani laureati, conoscono le lingue e sono specializzati nella materia dei beni culturali.

OPERATORE MUSEALE DI VERONA Sono un operatore museale a Verona. Presto servizio presso la Casa di Giulietta, l'Arena, Castelvecchio.

BERNARDO IOVENE Il vostro contratto? Quello reale, quale deve essere?

OPERATORE MUSEALE DI VERONA Federculture.

BERNARDO IOVENE Quanti di voi hanno questo tipo di contratto?

OPERATORE MUSEALE DI VERONA Nessuno.

BERNARDO IOVENE Che tipo di contratto avete?

OPERATORE MUSEALE DI VERONA 25 Abbiamo il contratto fiduciario che sono gli operatori di sorveglianza non armata nei musei e la paga è di 4 euro l'ora.

BERNARDO IOVENE 4 euro l'ora?

OPERATORE MUSEALE DI VERONA Più o meno quattro 4 euro.

OPERATRICE MUSEALE DI VERONA Io guadagno all'incirca 1000, 1100 quando va bene. Un contratto del genere, una paga oraria così bassa pensavo non esistesse neanche più una cosa del genere al giorno d'oggi.

OPERATORE MUSEALE DI VERONA Ci sentiamo sfruttati, presi in giro. Comunque, tanti di noi sono laureati anche nell'ambito artistico e dei beni culturali e non ci sentiamo per nulla valorizzati.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La cooperativa “Le macchine celibi” di Bologna ha vinto l’appalto con il comune di Verona applicando un contratto multiservizi, quello per gli addetti alle pulizie, quindi già penalizzante, ma poi in corsa, senza accordi, unilateralmente, ha peggiorato il contratto in quello della vigilanza, si chiama “servizi fiduciari” che prevede paghe da 4 euro all’ora. Ma il fatto che più ci indigna è che dei lavoratori sino costretti a raccontare la loro condizione di sfruttamento incappucciati. Come fossero dei mafiosi pentiti.

OPERATORE MUSEALE DI VERONA Ci tolgono il posto di lavoro.

BERNARDO IOVENE Cioè se voi ci mettete la faccia. La cooperativa vi licenza?

OPERATORE MUSEALE DI VERONA Non solo la cooperativa ma anche il Comune

BERNARDO IOVENE Però lei mi diceva che avete un sindacato. Posso parlare con un sindacalista?

OPERATORE MUSEALE DI VERONA Guardi le posso assicurare che non si esporrà proprio perché la paura è forte BERNARDO IOVENE Il sindacato? Non ci mette la faccia?

OPERATORE MUSEALE DI VERONA Il sindacalista guardi penso che la paura è forte soprattutto della direzione museale, molto forte perché hanno questo sistema di minacce di ricatto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La paura è forte ma è strano che nemmeno il delegato della CGIL a cui abbiamo chiesto un’intervista ha voluto metterci la faccia, allora siamo andati nella sede provinciale della CGIL, dove ci hanno fatto parlare con la segretaria del settore Turismo e servizi della Filcams, ma ci avvisa subito che non ha intenzione di fare il nome della Cooperativa.

BERNARDO IOVENE Perché non fare il nome?

GRAZIELLA BELLIGOLI - SEGRETARIA GENERALE FILCAMS CGIL - VERONA No, non faccio il nome dell'azienda dai non faccio il nome. Parliamo di Comuni di appalti.

BERNARDO IOVENE Senza fare nomi.

GRAZIELLA BELLIGOLI - SEGRETARIA GENERALE FILCAMS CGIL - VERONA Ma no, non faccio il nome dell'azienda. ERIKA CATINI –SINDACALISTA FILCAMS CGIL - VERONA Beh, lui penso che lo dirà…

GRAZIELLA BELLIGOLI - SEGRETARIA GENERALE FILCAMS CGIL - VERONA Va be se lo dirà lui…

BERNARDO IOVENE Ma son loro he hanno cambiato contratto da Multiservizi a fiduciari e quindi dico…

GRAZIELLA BELLIGOLI - SEGRETARIA GENERALE FILCAMS CGIL - VERONA Ho capito ma è sempre una questione di appalti

BERNARDO IOVENE Ma non fare il nome che cosa comporta il nome visto che se hanno fatto una cosa, hanno fatto una cosa lecita no?

GRAZIELLA BELLIGOLI - SEGRETARIA GENERALE FILCAMS CGIL - VERONA Hanno fatto una cosa lecita dovevano farla insomma col sindacato ma noi non siamo stati d'accordo.

BERNARDO IOVENE E quindi voi cosa fate invece di denunciarli non fate i nomi? Addirittura, i delegati sindacali non ci mettono la faccia perché hanno paura.

GRAZIELLA BELLIGOLI - SEGRETARIA GENERALE FILCAMS CGIL - VERONA Beh, su questo io non sono d'accordo perché non è vero.

BERNARDO IOVENE A me hanno detto no.

GRAZIELLA BELLIGOLI - SEGRETARIA GENERALE FILCAMS CGIL - VERONA Eh, vabbè in televisione dai… adesso insomma…

BERNARDO IOVENE Vuol dire che in questo settore c'è una sorta di forma di ricatto verso i lavoratori che magari rivendicano un diritto no? Dico ci dobbiamo abituare a questo?

GRAZIELLA BELLIGOLI - SEGRETARIA GENERALE FILCAMS CGIL - VERONA No, assolutamente. Finché ci saranno le retribuzioni a 4 euro, ogni azienda cercherà ovviamente di portarsi a casa il risultato per sé stessa. Si è impoverito il lavoro in Italia, questo è il problema.

BERNARDO IOVENE Tornando al caso di Macchine Celibi non hanno fatto niente di straordinario loro, hanno fatto quello che fanno tutti?

GRAZIELLA BELLIGOLI - SEGRETARIA GENERALE FILCAMS CGIL - VERONA Mi sta registrando? Adesso io come posso dire che fanno come tutti? Come posso dirlo? Hanno fatto i loro conti e quindi hanno deciso di cambiare il contratto nazionale da Multiservizi a Vigilanza privata. Così si può dirlo?

BERNARDO IOVENE Non lo so dico, non lo so qual è il problema, non capisco qual è il problema

GRAZIELLA BELLIGOLI - SEGRETARIA GENERALE FILCAMS CGIL - VERONA No, voglio dirla bene non la voglio dire male, solo quello ecco...

BERNARDO IOVENE E diciamola bene, come si deve dire bene sta cosa?

GRAZIELLA BELLIGOLI - SEGRETARIA GENERALE FILCAMS CGIL - VERONA È perché tu sei forte, tu sei giornalista, io sono una sindacalista, la voglio dire bene la roba non la voglio dire male.

BERNARDO IOVENE E diciamola bene come si deve dire questa cosa?

GRAZIELLA BELLIGOLI - SEGRETARIA GENERALE FILCAMS CGIL - VERONA Non è che posso dire che son tutti delinquenti e ve coppo tutti perché allora lo farei tutti i giorni

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La segretaria generale siede al tavolo di confronto con la cooperativa Le macchine Celibi, che ha rifiutato l’intervista, e il Comune che è il committente. Dall’anno scorso 28 è cambiata la giunta, il nuovo assessore dice di conoscere bene la professionalità dei lavoratori in appalto.

MICHELE BERTUCCO - ASSESSORE AL LAVORO – COMUNE DI VERONA E parliamo di personale che ha, come dire, competenze anche abbastanza importanti laurea, master.

BERNARDO IOVENE Parlano le lingue.

MICHELE BERTUCCO - ASSESSORE AL LAVORO – COMUNE DI VERONA Parlano le lingue, si occupano anche di quelle attività tipiche di un museo di una valorizzazione della cultura.

BERNARDO IOVENE Senta, queste persone prendono 1.000 euro, quando va bene, 1.100 cioè non arrivano oltre, e lavorano 8 ore al giorno.

MICHELE BERTUCCO - ASSESSORE AL LAVORO – COMUNE DI VERONA Sì, c'è un problema vero che riguarda il settore della cultura ed è il fatto che possono essere vengono applicati contratti che nulla c'entrano con la cultura. Secondo me serve un contratto nazionale che dica che quello è il contratto che si applica a tutti i lavoratori della cultura, lavoratori e lavoratrici.

BERNARDO IOVENE Che c’è è Federculture

MICHELE BERTUCCO - ASSESSORE AL LAVORO – COMUNE DI VERONA Si c’è Federculture. Ne ho parlato anche con la Giunta. Comunque, di far partire da Verona insieme ad altre città d'arte quello che è un manifesto per i lavoratori e le lavoratrici del settore della cultura. Allora è vero che sono un costo in più perché logicamente ha un costo maggiore.

BERNARDO IOVENE Ma voi siete disponibili ad affrontarli?

MICHELE BERTUCCO - ASSESSORE AL LAVORO – COMUNE DI VERONA Noi siamo disponibili.

BERNARDO IOVENE Questa è una notizia che ci sta dando

MICHELE BERTUCCO - ASSESSORE AL LAVORO – COMUNE DI VERONA Perlomeno iniziamo a dare qualche risposta.

BERNARDO IOVENE Questa proposta che state facendo a chi la farete? Al Ministro della cultura?

MICHELE BERTUCCO - ASSESSORE AL LAVORO – COMUNE DI VERONA L'idea di fare al Ministro della cultura coinvolgendo altre città. Perché è difficile fare cultura non pagando le persone, insomma, diventa anche un po’ umiliante per loro. BERNARDO IOVENE Senta, a proposito di umiliazione, ho intervistato dei lavoratori a volto coperto, volto coperto perché hanno paura delle ritorsioni.

MICHELE BERTUCCO - ASSESSORE AL LAVORO – COMUNE DI VERONA Da parte del Comune possono stare assolutamente tranquilli. Mi dispiace che vengo a sapere da lei di questo clima. Nessuno, secondo il sottoscritto deve lavorare avendo paura di poter dire alcune cose sul proprio lavoro insomma. Credo che sia impensabile al giorno d'oggi.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E invece purtroppo è realtà, e non solo a Verona, i lavoratori in appalto del Colosseo, uno dei monumenti più visitati al mondo, attualmente hanno un contratto multiservizi che sono 2 euro in più rispetto ai colleghi veronesi, ma la nuova gara è stata vinta dal CNS, un consorzio a cui è associata anche la Coop di Verona, i lavoratori sono talmente preoccupati, che non vogliono mostrarsi.

OPERATRICE MUSEALE DI ROMA Siamo lavoratori dei beni culturali altamente specializzati. Il nostro contratto collettivo è quello dei servizi delle pulizie. Noi rischiamo che la società subentrante applichi Servizi Fiduciari. Contratti da 4,50 euro l'ora di vigilanza privata che nulla hanno a che fare con la nostra professionalità, per cui materialmente siamo andati a finire probabilmente dalla padella alla brace.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il prossimo datore di lavoro è CNS, il Consorzio Nazionale di Servizi, che fa parte di Lega Coop, che rappresenta 15.000 cooperative la presidente del settore culturale ci informa che nel settore museale attualmente applicano il contratto multiservizi contratti e che la Coop Le macchine Celibi che aderisce tuttora al CNS Consorzio è stata espulsa dalla Lega Coop.

GIOVANNA BARNI - PRESIDENTE NAZIONALE CULTURMEDIA LEGACOOP È stata espulsa ormai da moltissimi anni da Legacoop per cui.

BERNARDO IOVENE Mi può dire il motivo per cui?

GIOVANNA BARNI - PRESIDENTE NAZIONALE CULTURMEDIA LEGACOOP Uno dei motivi è anche questo la non applicazione dei contratti.

BERNARDO IOVENE Questa cooperativa però fa parte di questo consorzio nazionale che è legato a Legacoop.

GIOVANNA BARNI - PRESIDENTE NAZIONALE CULTURMEDIA LEGACOOP Il Consorzio nazionale è Legacoop.

BERNARDO IOVENE Però lo possiamo dire che sono contratti vergognosi questi a 4 euro l'ora.

GIOVANNA BARNI - PRESIDENTE NAZIONALE CULTURMEDIA LEGACOOP Noi siamo ben disponibili a creare, diciamo, un'omogeneità quanto più possibile contrattuale.

BERNARDO IOVENE Legacoop si schiera contro, contro l'utilizzo di questi contratti di servizi fiduciari? Questo voglio sapere semplicemente.

GIOVANNA BARNI - PRESIDENTE NAZIONALE CULTURMEDIA LEGACOOP Ma noi non siamo solo contrari a questo siamo disponibilissimi a sederci intorno a un tavolo per fare uno Statuto unico del lavoro culturale e tutte quelle condizioni contrattuali dignitose.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO L’associazione più rappresentativa della cooperazione è Confcooperative, riunisce 17.000 imprese di cui 1.200 nel settore cultura, turismo e sport.

IRENE BONGIOVANNI - PRESIDENTE DIVISIONE CULTURA TURISMO E SPORT- CONFCOOPERATIVE Le nostre cooperative non credo applichino questo contratto. Ma soprattutto bisogna interrogarsi sul perché viene permesso in alcuni casi dalle stazioni appaltanti di applicare questo contratto.

BERNARDO IOVENE Ve la sentite di fare una proposta che da oggi in poi si deve applicare un altro tipo di contratto che non sia quello delle pulizie?

IRENE BONGIOVANNI - PRESIDENTE DIVISIONE CULTURA TURISMO E SPORT- CONFCOOPERATIVE Si! Siamo d'accordo nel dirci che serve una linea guida per le stazioni appaltanti, per degli appalti che tengano conto delle risorse adeguate e che ci sia il riconoscimento dell'offerta qualitativa delle offerte e dall'altra l'impegno da parte nostra di applicare dei contratti del settore adeguati.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, tutti si dicono disponibili a rivedere questi contratti da 4 euro l’ora, il Comune di Verona, Legacoop, Confcooperative, ma allora perché non lo fanno? Dovrebbe far sentire la sua voce anche il ministro della cultura Sangiuliano di fronte a questa indecenza. Abbiamo speso 9 milioni di euro per magnificare le nostre bellezze, poi quando si tratta di retribuire giustamente chi quelle bellezze le ha studiate, e potrebbe valorizzarle agli occhi dei turisti che vengono a visitarle, li paghiamo come dei vigilantes privati. Ora in questo caso, una delle tante cooperative che si comporta 31 in questo modo è Le macchine celibi. È un’associazione di Bologna, nata da ex studenti, dovrebbero apprezzare il valore e il sacrificio dello studio. Sul loro sito ostentano i requisiti di onestà, solidarietà, equità, trasparenza però, il suo capo, il loro capo Carlo Terrosi, con noi non ha voluto parlare. Ed è un pessimo segnale perché questi hanno cambiato il contratto strada facendo, peggiorando la dignità e le condizioni di vita dei lavoratori e nessuno ha detto nulla. Non hanno detto nulla neppure quei lavoratori delegati sindacali, evidentemente non si sentivano tutelati sufficientemente dai sindacati provinciali e regionali che rappresentano. E anche perché insomma qui bisogna capire gli stessi sindacati che hanno degli interessi in quei fondi bilaterali, sono stati istituiti per legge per la formazione, la ricollocazione dei lavoratori ma beccano un 4% di contributo in ogni rapporto di lavoro somministrato che viene attivato. Cioè, quando poi non hanno diretti interessi nelle cooperative che somministrano lavoratori. Insomma, sono entrati nel business del precariato che dovrebbero invece tutelare. Poi ci sono altri contratti che sono stati invece giudicati irregolari da Inail e Inps e riguardano quelli degli istruttori delle palestre e delle piscine negli impianti sportivi. Si è accorto improvvisamente di loro lo Stato quando, dopo la pandemia, doveva pensare ai ristori dice: ma da dove sono spuntati tutti questi invisibili?

BERNARDO IOVENE Questi sono i tuoi ragazzi?

ANDREA SALVATORI - ALLENATORE ASD PESARO RUGBY Si è la squadra che alleno, io sono Andrea Salvatori e sono un collaboratore sportivo.

BERNARDO IOVENE Fino adesso come sia stato retribuito?

ANDREA SALVATORI - ALLENATORE ASD PESARO RUGBY Contratto di collaborazione sportiva prevede appunto una retribuzione che è fino ai 10.000 euro annui non prevede tassazione.

LUCA FARENGA - ISTRUTTORE DI GINNASTICA ARTISTICA - ROMA Sono un istruttore sportivo di ginnastica artistica.

BERNARDO IOVENE Lei lavora da 24 anni.

LUCA FARENGA - ISTRUTTORE DI GINNASTICA ARTISTICA - ROMA E non ho accumulato niente

BERNARDO IOVENE Non ha contributi.

BERNARDO IOVENE Si chiama collaborazione sportiva.

LUCA FARENGA - ISTRUTTORE DI GINNASTICA ARTISTICA - ROMA Collaborazione sportiva, contratto di collaborazione sportiva.

PAULA SESMA - ISTRUTTRICE DI NUOTO - MILANO Io sono una istruttrice di nuoto

BERNARDO IOVENE E viene retribuita come?

PAULA SESMA - ISTRUTTRICE DI NUOTO - MILANO Come collaboratore sportivo, contratto che non ha nessun tipo di tutela, non abbiamo pensione o malattia. Non abbiamo Inail, non abbiamo vacanze, non abbiamo tredicesima, TFR, niente assoluto è un contratto da nero legalizzato.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO È il mondo dello sport? Piscine, palestre, campi di football. A guidare le attività dilettantistiche sono in realtà circa 600.000 professionisti. In gran parte però sono retribuiti come dilettanti volontari. GIORGIO ORTOLANI – NIDIL- CGIL TICINO OLONA (MI) Gli istruttori, gli addetti alla reception, i contabili e tutto il resto del personale sono assunti come collaboratori sportivi. Questo tipo di, questa tipologia di contratto è utilizzata in modo irregolare.

BERNARDO IOVENE Se questo non è lecito, perché viene applicato?

GIORGIO ORTOLANI – NIDIL- CGIL TICINO OLONA (MI) Perché ci hanno provato!

BERNARDO IOVENE Ah, perché ci provano? GIORGIO ORTOLANI – NIDIL- CGIL TICINO OLONA (MI) Ci provano e finora non era mai successo nulla.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La Cgil ha aperto varie vertenze con gli impianti sportivi privati e pubblici per far riconoscere ai lavoratori il rapporto di subordinazione. Il contratto di collaborazione sportiva, invece, andrebbe applicato solo ai volontari dilettanti.

GIORGIO ORTOLANI – NIDIL- CGIL TICINO OLONA (MI) In tutti i casi delle vertenze aperte, in realtà all'ultimo minuto le aziende hanno conciliato riconoscendo le differenze retributive al lavoratore, ma non sono volute andare ovviamente in giudizio.

BERNARDO IOVENE In giudizio.

GIORGIO ORTOLANI – NIDIL- CGIL TICINO OLONA (MI) Nel senso che se il lavoratore fa causa alla fine vince. BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il lavoratore vince. Ed è successo tutte le volte, anche quando e se arrivano gli ispettori dell'Inps.

PASQUALE TRIDICO - PRESIDENTE INPS 2019-2023 Questo è successo proprio perché appunto la norma prevede degli indici di subordinazione. Quando gli ispettori li rilevano sono costretti a inquadrare i lavoratori in quelle forme e quindi a richiedere contributi non versati.

PAULA SESMA - ISTRUTTRICE DI NUOTO - MILANO Questi contratti sono illegali ma comunque continuano a farli.

ANDREA SALVATORI - ALLENATORE ASD PESARO RUGBY Ad oggi c’è una difficoltà di fondo nel concepire la forma dell’allenatore come un lavoratore. È dieci anni che faccio questo lavoro, non ho un contributo versato. Un qualunque lavoratore se sta male è tutelato. Perché noi no?

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Della condizione di questi lavoratori ci si è accorti durante il lockdown, centinaia di migliaia erano senza tutele e quindi senza ristoro.

LUCA FARENGA - ISTRUTTORE DI GINNASTICA ARTISTICA - ROMA Nessuno lo sapeva. Le prime, i primi incontri erano proprio quasi non è possibile che non hanno un ammortizzatore. Invece lì poi Sport e salute ha erogato un contributo che abbiamo preso. Devo dire la verità.

BERNARDO IOVENE Siete riusciti ad avere qualcosa…

LUCA FARENGA - ISTRUTTORE DI GINNASTICA ARTISTICA - ROMA Il contributo l'abbiamo avuto e lì si è aperta questa finestra. Il collaboratore sportivo Chi? Chi è? Come funziona? E infatti…

BERNARDO IOVENE Siete emersi.

LUCA FARENGA - ISTRUTTORE DI GINNASTICA ARTISTICA - ROMA Siamo emersi.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ed allora si è pensato a una legge che obbliga le associazioni le imprese le cooperative sportive a stabilire un rapporto di lavoro da dipendente da co.co.co. o a partita IVA, ma dal 2021 non è ancora entrato in vigore, subendo continui rinvii e modifiche.

GIORGIO ORTOLANI - NIDIL CGIL TICINO OLONA (MI) Le associazioni sportive, il Coni e tutti erano per ritardare perché questa comporterà ovviamente un aumento dei costi.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il nuovo ministro ha stabilito dei tavoli di confronto tra i rappresentanti dei lavoratori e le imprese sportive, che al momento però continuano a pagare gli istruttori con il contratto di collaboratore sportivo ritenuto irregolare.

BERNARDO IOVENE Fino adesso li avete pagati come li pagano tutti.

IRENE BONGIOVANNI - PRESIDENTE DIVISIONE CULTURA TURISMO E SPORT - CONFCOOPERATIVE Arriviamo da una fase pandemica per cui le cooperative e le associazioni sono in difficoltà.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Attualmente, dopo varie proroghe, l'entrata in vigore è prevista per il 1º luglio,

BERNARDO IOVENE Ci sono molte resistenze per far applicare questa legge. Innanzitutto, lei si prende l'impegno che dal primo luglio va in vigore.

ANDREA ABODI - MINISTRO PER LO SPORT E I GIOVANI Ah, l’ho detto più volte, adesso diventa ancora più ufficiale. Abbiamo riaperto comunque un ascolto con le categorie e gli organismi sportivi, devono trovare un equilibrio dal punto di vista delle ore durante la settimana alcuni aspetti tecnici diciamo così fondamentalmente che sono importanti.

BERNARDO IOVENE Ah, ma sono importanti, perché lei lo sa, fatta la legge si trova l'inganno.

ANDREA ABODI - MINISTRO PER LO SPORT E I GIOVANI Tanto abbiamo un fondo che svolgerà la funzione di ammortizzatore sociale un fondo che consente di abbassare l'impatto degli oneri contributivi.

BERNARDO IOVENE Probabilmente a luglio cambierà tutto, come vi adeguerete?

SIMONE MATTIOLI –PRESIDENTE ASD PESARO RUGBY Probabilmente questa cosa porterà ad un inevitabile aumento dei costi di gestione di questo personale, ma è una cosa che se va nella direzione di tutelare di più chi lavora per lo sport è una cosa giusta.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Speriamo l’approvino presto questa norma, visto che di tanto in tanto la rimandano. Insomma, è l’ennesimo schiaffo in faccia ai lavoratori. Schiaffo a cui ha contribuito spesso anche l’Europa a cominciare dalla lettera dell’estate del 2011 di Trichet e Draghi a Berlusconi governo che stava per cadere. I due chiedevano sostanzialmente di rivedere i parametri dei salari e delle condizioni dei lavoratori in base alle esigenze delle imprese. Cosa che poi è stata fatta nell’accordo del 28 giugno, nell’incontro tra sindacati e industriali. Poi c’è, è arrivato il governo Monti- Fornero. Sono diminuite le tutele per i lavoratori precari, a partire per esempio dal fatto di chi veniva licenziato ingiustamente insomma si rendeva più difficile il reintegro. Poi sono stati ampliati i meccanismi per le prestazioni occasionali, per esempio i voucher, poi è arrivato il governo Renzi, il ministro Poletti che ha ampliato l’utilizzo del contratto a tempo determinato, spostandolo fino a tre anni e poi sono state svuotate le motivazioni per cui si ricorreva per esempio ai co.co.co o comunque ai lavori in somministrazione. Poi è stata dichiarata nulla, per esempio, la cassa integrazione per quei lavoratori che lavoravano per aziende che venivano chiuse definitivamente, è stato rivisto lo spirito dell’articolo 18 per l’ingiusta causa del licenziamento, non era più obbligatorio il reintegro, bastava il risarcimento economico. Infine, è stato consentito l’utilizzo di telecamere sul luogo di lavoro, somma ipocrisia, non sui lavoratori ma sui macchinari. E insomma ecco, l’ultimo provvedimento che ha ampliato la precarietà è quello dell’ultimo primo maggio, Festa dei Lavoratori, quando il governo, a parte il taglio del cuneo fiscale che consentirà ai lavoratori di avere un centinaio di euro in più, in alcuni casi, ha ampliato ancora di più la flessibilità e la precarietà. Ecco ne vedremo delle belle con la modifica del codice degli appalti che consente appalti, subappalti, subappaltini. Ecco forse dal mercato degli schiavi si uscirà solo quando politici e imprenditori avranno la consapevolezza che nella stipula del contratto, insomma, non c’è il corpo ma la dignità della persona.

Giustizia anche per i giudici onorari, pagati a cottimo e senza tutele rispetto ai colleghi togati. La rubrica “Giustizia in-civile” di Andrea Viola, avvocato e consigliere comunale. Perché una Giustizia civile che funziona, non solo aiuta il cittadino a sentirsi tutelato e protetto, ma crea le condizioni basilari per il funzionamento di ogni comparto economico-produttivo. Andrea Viola su Il Riformista il 4 Giugno 2023 

Nel ringraziarvi per le numerose segnalazioni ricevute dopo l’uscita del primo articolo relativo alla mia rubrica Giustizia in-civile, oggi è doveroso affrontare uno degli enormi paradossi del sistema giudiziario Italiano. Sembrerà incredibile ma come avevamo già preannunciato il sistema di giustizia in-civile colpisce addirittura una parte degli stessi Organi Giudicanti, ossia i Giudici Onorari. I magistrati Onorari, ai sensi dell’art. 4 r.d. n. 12 del 1941, appartengono all’Ordine Giudiziario, al pari dei Magistrati cosiddetti “Togati”.

Ad essi, quindi, va garantita autonomia, indipendenza interna ed esterna nonché imparzialità nell’esercizio delle proprie funzioni. Bisogna ricordare che i Magistrati Onorari sono circa 4.548, suddivisi tra Giudici Onorari di Tribunale, Giudici di Pace e Vice procuratori Onorari. Per detti motivi è comprensibile la loro importanza nell’intero sistema Giudiziario Italiano.

Nelle mani di queste persone passano numerose cause civili e anche penali. Rimanendo nel nostro settore, civile, è evidente che i Giudici Onorari svolgono un ruolo fondamentale per la tenuta e l’efficienza dei nostri Presidi di Giustizia. La prima cosa da evidenziare è che dette professionalità vengono pagate a “cottimo” ossia ad udienza o a provvedimento. Essi non godono dei diritti normativi, retributivi, previdenziali ed assistenziali del “lavoratore comparabile”.

Per chi non conosce la questione sembrerà qualcosa di poco conto e recente. Ma l’ossimoro giudiziario dura da oltre 25 anni, ossia da quando sono stati istituiti formalmente i Giudici di Pace ( oltre 30 anni) e i Giudici Onorari di Tribunale e i Vice Procuratori Onorari (oltre 25 anni). Tutto ciò ha avuto e continua ad avere dei risvolti proprio nel sistema giudiziario italiano ed europeo.

Infatti, dal 2016 pende contro l’Italia una procedura d’infrazione per il mancato riconoscimento nel nostro ordinamento interno dei diritti dei Magistrati Onorari quali lavoratori. Ed ecco l’assurdità del nostro sistema Giudiziario. Buona parte dei Giudici Italiani svolge il proprio lavoro in maniera non tutelata e conforme alle normative non solo Europee ma di moderna civiltà giuridica. Questa situazione comporta una marea di interrogativi e contraddizioni. Già nel 2017, dopo l’apertura della procedura di infrazione, lo Stato italiano ha varato una riforma che la Commissione Europea, con la prima messa in mora del 15/07/2021, ha ritenuto non sanasse la violazione dei diritti di lavoratori dei Magistrati Onorari già manifestatasi in precedenza e ha intimato all’Italia di rivedere una normativa considerata discriminatoria rispetto a quella prevista per il “lavoratore comparabile”, nonché carente di strumenti risarcitori per la reiterazione abusiva dei mandati a termine, protrattasi per decenni.

Questa messa in mora seguiva di un anno la pronuncia della Corte di Giustizia “UX” del luglio 2020, che ha riconosciuto la qualifica dei magistrati europei e di lavoratori ai Magistrati Onorari Italiani e la Sentenza n. 267/2020 della Corte Costituzionale che ha riconosciuto la identità di funzione giurisdizionale svolta dal Magistrato “togato” e da quello “Onorario”. Nel dicembre 2021 a seguito di dette pronunce veniva approvata, con la legge di bilancio che garantiva i fondi, una nuova riforma, integrativa e non sostitutiva della precedente, che ugualmente non sanava del tutto le violazioni già evidenziate, pur prevedendo una procedura di stabilizzazione analoga a quelle previste in vari settori della P.A. Oggi solo un terzo circa dei Magistrati Onorari ha potuto accedere alla procedura di stabilizzazione voluta dalla ministra Cartabia.

Ma detta procedura non porterà a sanare le illegittimità del passato e a riconoscere i diritti fondamentali quali: il riconoscimento dei contributi previdenziali e assistenziali del passato, la retribuzione non quella dovuta ma quella di un funzionario amministrativo. Per detti motivi, come ci ha sottolineato con una lettera il Presidente della Associazione Giudici Onorari di Tribunale, Pietro Paolo Pisani, ad oggi i Magistrati italiani sono ancora in attesa di una definizione definitiva del proprio status normativo e retributivo. Il tutto con il rischio sempre più probabile, vista l’ultima audizione a Bruxelles della Magistratura Onoraria del 25 maggio scorso, della conclusione definitiva della procedura di infrazione contro lo stato italiano.

Con il grave paradosso che potrebbero essere colpiti anche i fondi del PNRR relativi alla Giustizia. Insomma, l’emblema dell’ingiustizia in-civile italiana. Per concludere un aggiornamento del caso raccontato nel primo articolo. Se vi ricordare eravamo in attesa della fissazione dell’udienza per il Reclamo avverso un provvedimento cautelare. Bene è stato fissato ma non a breve, ossia a novembre. Ma oltre a questo piccola sorpresa. Il Collegio Giudicante, formato da tre magistrati, vede come Presidente il Precedente Giudice che aveva partecipato e deciso una fase della causa di “primo grado”. Non dovrebbe succedere ma non è una novità. Occorrerà far presente incompatibilità e perdere altro tempo.

Andrea Viola. Andrea Viola, Avvocato, Consigliere Comunale Golfo Aranci, Coordinatore Regionale Sardegna Italia Viva; Conduttore Rubrica Vivacemente Italia su Radio Leopolda

Verso lo sciopero generale: in piazza anche fonici, stenotipisti e trascrittori degli uffici giudiziari. Redazione Palermo Today il 15 dicembre 2021

Si occupano del servizio di documentazione degli atti processuali e, tra Palermo e Termini Imerese, sono 50 dipendenti: “Siamo i fantasmi dei Tribunali. Chiediamo il riconoscimento della categoria”

I fonici, stenotipisti e trascrittori forensi dei Tribunali di Palermo e di Termini Imerese, che si occupano del delicato compito della registrazione, trascrizione e stenotipia delle udienze di carattere penale, tra cui gli atti dei processi per mafia, domani saranno in piazza. I 50 dipendenti degli uffici giudiziari aderiscono allo sciopero generale. Parteciperanno alla manifestazione con slogan e striscioni, e la vignetta con i fantasmi disegnata da Vauro, per dare visibilità alle loro istanze, ovvero chiedere il riconoscimento del loro ruolo professionale e un contratto specifico per la loro categoria.    

Rivendicazioni che negli ultimi tre anni sono state sollecitate più volte all'indirizzo del ministero della Giustizia, con relative richieste di incontro, rimaste senza risposta. Il servizio di documentazione degli atti processuali è stato svolto per oltre venti anni e fino al 2017, da diverse aziende che applicavano diversi Ccnl, spesso “contratti pirata” e senza tutele. 

Nel 2017 è subentrato il consorzio Ciclat, che ha dato la gestione alle aziende Nuovi Orizzonti, Ricina e Verbatim, con cui  Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltrasporti  hanno avviato un confronto  che si è concluso con il riconoscimento del contratto nazionale per i servizi di pulizia  e servizi integrati/ Multiservizi. L'attuale appalto è in proroga fino a giugno 2022. Nel frattempo si parla di un concorso per tremila operatori con mansioni corrispondenti a quelle degli impiegati nei servizi di documentazione degli atti processuali. 

E la preoccupazione sul mantenimento della continuità occupazionale delle lavoratrici e dei lavoratori del settore è tornata alta. “A Palermo, così come negli altri territori, nelle ultime assemblee, con il voto della maggioranza, lavoratori e lavoratrici hanno ritenuto opportuno condividere e rendere condivisibili dei punti fondamentali per gli interessi del comparto, al di là delle superiori ragioni sociali contro la manovra del governo per cui domani si scende insieme in piazza”, dichiarano il segretario generale Filcams Cgil Palermo Giuseppe Aiello e il segretario Filcams Cgil Palermo Manlio Mandalari che segue il settore. 

Temiamo che le assunzioni possano soppiantare questo servizio. Nel bando - aggiungono Aiello e Mandalari - non è prevista né una prelazione né un titolo che possa in qualche modo tutelare i lavoratori attualmente occupati. I lavoratori hanno anche il contratto integrativo scaduto. Il rinnovo del contratto di secondo livello è importante perché l'integrativo regolamenta alcuni aspetti fondamentali, a partire dai livelli di inquadramento e dall'organizzazione del lavoro ed è lo strumento per arrivare al riconoscimento della categoria perché definisce le peculiarità di questa tipologia professionale”. 

Siamo molto preoccupati per le conseguenze negative e inaccettabili che il possibile concorso potrebbe avere  sul nostro lavoro –  aggiunge Emanuele Bongiorno, fonico e trascrittore part time,  Rsa della Filcams Cgil per Palermo e Termini - Il ministero, nell'eventualità di indizione del concorso, chiediamo tenga conto del servizio che abbiamo finora svolto  e riconosca il diritto di prelazione e ogni realizzabile preferenza riguardo ai requisiti di accesso. Ora molti ritengono che il Multiservizi non possa essere per sempre il nostro Ccnl. Per noi dal 2017 rappresenta la base normativa di riferimento e oggi è lo scudo contro la vecchia precarietà, è il contratto contro la paura, contro il terrore del cambio-appalto, è il contratto collettivo nazionale del coraggio”.

Concorso Ministero Giustizia, 3000 Operatori Data Entry: prova scritta entro giugno. Elena Bucci il 17/05/22 su leggioggi.it.

Ssecondo quanto riportato profilo Facebook ufficiale del Ministero della Giustizia, i candidati alla procedura selettiva per l’assunzione di 5410 unità a tempo determinato, di cui 3000 Operatori Data Entry, svolgeranno la prova scritta entro giugno.

Nei prossimi paragrafi tutte le informazioni utili riguardo la prova scritta e il programma d’esame. Di seguito il Manuale per la preparazione della prova.

Nuove opportunità di lavoro per personale diplomato e laureato con il concorso Ministero Giustizia, finalizzato all’assunzione di un totale di 5410 figure professionali al fine di rafforzare l’amministrazione giudiziaria, tra cui spiccano anche i 3000 posti di Operatore Data Entry.

I bandi sono stati pubblicati nella Gazzetta Ufficiale del 1 aprile 2022, e prevedono l’assunzione di:

1660 unità di personale non dirigenziale dell’area funzionale terza, fascia economica F1;

750 unità di personale non dirigenziale dell’area funzionale seconda, fascia economica F2;

3000 unità di Operatore Data Entry, personale non dirigenziale dell’area funzionale seconda, fascia economica F1.

Nello specifico, il Ministero ha messo a concorso 3000 posti per il profilo professionale di Operatore Data Entry con contratto a 36 mesi, a cui si accede con qualunque diploma di istruzione secondaria di secondo grado.

Concorso Ministero Giustizia 2022, 5410 diplomati e laureati: bando in Gazzetta

Nei prossimi paragrafi vediamo tutti i requisiti richiesti per accedere a questo ruolo, come partecipare alla procedura concorsuale le prove d’esame previste dal bando.

Concorso Ministero Giustizia, 3000 Operatori: requisiti

Per avere accesso alla procedura concorsuale indetta dal Ministero della Giustizia, i candidati devono essere in possesso dei seguenti requisiti alla data di scadenza del bando:

cittadinanza italiana o di uno Stato membro dell’Unione Europea;

età maggiore a 18 anni;

idoneità fisica allo svolgimento delle funzioni;

qualità morali e di condotta;

godimento dei diritti civili e politici;

non essere stati esclusi dall’elettorato politico attivo;

non essere stati destituiti o dispensati dall’impiego presso una pubblica amministrazione per persistente insufficiente rendimento;

non essere stati dichiarati decaduti o licenziati da un impiego statale;

non aver riportato condanne penali, passate in giudicato, per reati che comportano l’interdizione dai pubblici uffici;

per i candidati di sesso maschile, posizione regolare nei riguardi degli obblighi di leva secondo la vigente normativa italiana.

Inoltre, come si legge nel bando, per il profilo di Operatore Data Entry, è richiesto agli aspiranti candidati il possesso del diploma di istruzione secondaria di secondo grado che consenta l’iscrizione ad una facoltà universitaria.

Concorso Ministero Giustizia, 3000 Operatori: come partecipare

La domanda deve essere compilata attraverso il Sistema pubblico di identità digitale (SPID), compilando il modulo elettronico sul sistema « Step-one 2019», raggiungibile dalla rete internet all’indirizzo ripam.cloud.

La procedura per iscriversi ai concorsi rimarrà attiva fino alle ore 14 del giorno 28 aprile 2022.

Ministero Giustizia, 5410 assunzioni: istruzioni per fare domanda

Concorso Ministero Giustizia, 3000 Operatori: prove

La prova scritta, unica per tutti i profili e per tutti i codici di concorso, consiste in un test di 40 quesiti a risposta multipla che deve essere risolto nell’arco di 60 minuti.

La prova si intende superata con il punteggio minimo di 21/30 e, nel caso del profilo professionale di Operatore Data Entry, è volta a verificare la conoscenza delle seguenti materie:

Elementi di informatica;

Elementi di diritto pubblico;

Lingua inglese.

A ciascuna risposta sarà attribuito il seguente punteggio:

risposta esatta: + 0,75 punti;

mancata risposta: 0 punti;

risposta sbagliata: – 0,375 punti.

Concorso Ministero Giustizia, 3000 Operatori: come prepararsi

Per la preparazione della prova scritta del concorso per 3000 Operatori Data Entry, consigliamo il seguente volume, completo di un utile simulatore di quiz su tutte le materie oggetto della prova scritta, per allenarsi in vista della prova:

Concorso 5410 posti Ministero della Giustizia 3000 Operatori Data Entry – Prova scritta

Luigi Tramontano, Luciano Manelli, Maggioli Editore

Il manuale presenta in maniera chiara e approfondita tutte le materie richieste per la preparazione alla prova scritta:

Elementi di Diritto pubblico;

Elementi di Informatica;

Lingua inglese (quiz).

 Segnaliamo anche il Corso intensivo di Diritto Pubblico, a cura del professor Luigi Tramontano, che aiuterà i candidati nella preparazione alla prova scritta unica, un test di 40 domande a risposta multipla da risolvere in 60 minuti su Diritto pubblico, Elementi di Informatica e Lingua inglese.

Il corso sarà strutturato in 18 lezioni: in ogni lezione il docente illustrerà gli elementi principali di ogni argomento, fornendo, con l’ausilio di mappe concettuali, le chiavi per una rapida ed efficace memorizzazione della materia.

Concorso Ministero Giustizia, 3000 Operatori: valutazione titoli

La valutazione dei titoli verrà effettuata sulla base dei titoli dichiarati dai candidati al momento della domanda di ammissione al concorso. Tale fase concorsuale prevede l’attribuzione dei seguenti punteggi:

fino a 6 punti per il voto di diploma

fino a 6 punti per il voto di laurea.

Qualora il diploma sia stato conseguito non oltre 7 anni prima del termine ultimo per la presentazione della domanda, i punteggi previsti sono raddoppiati.

Concorso Ministero Giustizia, 3000 Operatori: sedi

La procedura concorsuale indetta dal Ministero della Giustizia è su scala nazionale, e le assunzioni dei 3mila Operatori Data Entry saranno a tempo determinato.

Gli aspiranti candidati potranno indicare la sede durante la compilazione della propria domanda di ammissione. I posti sono così suddivisi:

Corte di cassazione e amministrazione centrale: 132;

Ancona: 71;

Bari 112;

Bologna: 162;

Brescia: 97;

Cagliari: 101;

Caltanissetta: 51;

Campobasso: 45;

Catania: 117;

Catanzaro: 116;

Firenze: 156;

Genova: 92;

L’Aquila: 87;

Lecce: 101;

Messina: 57;

Milano: 229;

Napoli: 290;

Palermo: 126;

Perugia: 50;

Potenza: 51;

Reggio Calabria: 82;

Roma: 244;

Salerno: 76;

Torino: 159;

Trieste: 59;

Venezia: 137.

Sindacati: dalla parte dei lavoratori? Non vogliono il concorso “Operatori Data Entry” del Ministero della Giustizia”.

Concorso, peraltro, che discrimina i vecchi diplomati da oltre 7 anni, dai nuovi diplomati.

Il Fonico-Trascrittore-Stenotipista per i sindacati è meglio sfruttato e schiavizzato?

Anche Marcell Jacobs corre i 100 metri in meno di un minuto, ma non vuol dire che lo fanno tutti.

11 pagine di trascrizione in un’ora, composte da 1500 caratteri a pagina, come previsto dagli accordi capestro con la complicità dei sindacati, è per i Jacobs di turno, senza contare gli adempimenti di scarico del sonoro e invio del testo trascritto, con le formalità del caso (Pec e Firma Elettronica).

1 pagina per loro vale dai 0,95 a 1,10 euro. Non è questione di velocità di dita sulla tastiera. Il Fonico-Trascrittore-Stenotipista è formato professionalmente in varie materie che va dalla grammatica al diritto, dalla criminologia all’informatica, ecc. Questo perché si deve trascrivere correttamente quello che si sente, secondo grammatica e sintassi e secondo uno stile appropriato, tanto che gli è permesso, anche e solo, correggere gli strafalcioni dei Magistrati, ma non quelli degli Avvocati o degli altri interventi in udienza (Periti, Consulenti Tecnici, Imputati, Testimoni).

Ed è egli stesso sottoposto al giudizio soggettivo del correttore di bozze, che spesso esula dalle direttive del manuale.

Questo è. Altrimenti, sì, basterebbe un semplice programma di trascrizione simultanea.

Inoltre, le aziende impiegatizie, impongono, oltre al cottimo, la collaborazione con partita Iva: perché, in questo modo, non licenziano e non riconoscono i diritti di tutela (ferie, maternità, Trattamento di fine Rapporto, ecc.). E, in più, impediscono la concorrenza del collaboratore autonomo.

Il Fonico-Trascrittore-Stenotipista, quando è assunto come dipendente, lo è, preferibilmente, a tempo determinato e con contratto di addetto alle pulizie. Naturalmente, il tempo indeterminato e per i Jacobs di turno.

Si deve tener conto che normalmente un’ora audio si trascrive dalle tre alle 5 ore e si materializzano in 11-12 pagine. Ergo 12 euro circa al trascrittore.

D’altro canto il Fonico-Trascrittore autonomo guadagna Euro: 40,00 circa per ora audio.

D’altro canto lo stenotipista autonomo guadagna Euro: 80,00 per ora audio.

Poi c’è il risvolto della medaglia. Gli stenotipisti assunti con concorso pubblico (truccato o truccabile) sono pagati meglio del re di Spagna; al Senato, Busta paga da 290 mila euro annui; alla Regione Sicilia Busta paga da 235 mila euro all’anno.

Lavoro al videoterminale e sicurezza: definizione, rischio e normativa. Da: corsisicurezza.it

I personal computer al giorno d'oggi costituiscono un elemento di fondamentale utilità in molti ambienti lavorativi. Anche se nell'immaginario comune si tende ad immaginare l'operatore che si serve del pc all'interno di un ufficio, è possibile che anche siti produttivi ne facciano uso per espletare al meglio le funzioni di controllo, per non parlare di chi lo utilizza nelle attività di progettazione. In questi casi, siamo in presenza di lavoro al videoterminale o VDT, un particolare tipo di attività da cui derivano rischi specifici e che, perciò, viene normata e disciplinata dal D.lgs 81/08 e dall'INAIL. Scopriamone di più.

Lavoro al videoterminale: definizione

Per lavoro al videoterminale si intende lo svolgimento di un'attività lavorativa che comporta appunto l'utilizzo di attrezzature munite di videoterminali. Il D.lgs 81/08 all'articolo 173 fornisce tre definizioni importanti per contestualizzare al meglio questo tipo di attività, rispondendo alle seguenti domande:

Cos'è un videoterminale?

uno schermo alfanumerico o grafico a prescindere dal tipo di procedimento di visualizzazione utilizzato;

Cosa si intende per posto di lavoro al VDT?

l'insieme che comprende le attrezzature munite di videoterminale, eventualmente con tastiera ovvero altro sistema di immissione dati, incluso il mouse, il software per l'interfaccia uomo-macchina, gli accessori opzionali, le apparecchiature connesse, comprendenti l'unità a dischi, il telefono, il modem, la stampante, il supporto per i documenti, la sedia, il piano di lavoro, nonché l'ambiente di lavoro immediatamente circostante;

Chi sono i lavoratori addetti al videoterminale?

I lavoratori che utilizzano attrezzatura munita di videoterminali, in modo sistematico o abituale, per 20 ore settimanali

Lavoro al videoterminale: cosa comporta

Il lavoro al videoterminale comporta dei rischi specifici per la salute dei lavoratori come:

rischi occhi e vista;

rischi derivanti da problemi posturali;

rischi derivanti dall'affaticamento fisico o mentale;

rischi derivanti alle condizioni ergonomiche;

rischi derivanti dalle condizioni di igiene ambientale.

Tali rischi non dipendono soltanto dal VDT ma sono generati da tutti gli elementi che costituiscono l'ambiente in cui il videoterminalista si trova, ovvero:

componenti del VDT come schermo, tastiera ed eventuali altre periferiche;

caratteristiche dei software utilizzati;

caratteristiche della postazione, ovvero scrivania e seduta;

caratteristiche dell'ambiente, come illuminazione, microclima, presenza di rumore, areazione;

Lavoro al videoterminale: normativa

La normativa di riferimento è il D.Lgs 9 aprile 2008 n°81, Titolo VII "ATTREZZATURE MUNITE DI VIDEOTERMINALI" che, nei suoi 3 capi, definisce il rischio specifico fornendo:

Disposizioni generali;

Obblighi per datori di lavoro, dirigenti e preposti;

Sanzioni;

Tuttavia anche l'Inail definisce delle linee guida per il corretto utilizzo dei videoterminali e per la sicurezza degli operatori. Di seguito le disposizioni principali.

Quali sono gli obblighi del datore di lavoro?

All'atto della valutazione di tutti i rischi il datore di lavoro, ai sensi dell'articolo 174 del D.lgs 81/08 deve:

analizzare le postazioni di lavoro valutando la possibile presenza dei rischi derivati dal lavoro al Videoterminale elencati in precedenza;

adottare misure per ovviare ai rischi riscontrati tenendo conto della combinazione dell'incidenza degli stessi;

organizzare e predisporre posti di lavoro in conformità ai requisiti minimi di cui all'allegato XXXIV;

Postazione di lavoro videoterminale

Molti sono i dubbi postazione di lavoro: come devono stare le gambe, qual è la distanza corretta tra monitor e occhi, qual è l'altezza ottimale del sedile sono solo alcune delle domande più frequenti.

In risposta, ecco quali sono le direttive per allestire una postazione di lavoro VDT sicura:

regolare il sedile ad un'altezza che consente il mantenimento delle gambe a 90° e i piedi ben appoggiati;

regolare lo schienale in modo da sostenere l'intera zona lombare;

posizionare la tastiera in modo da lasciare uno spazio per appoggiare gli avambracci di almeno 15 cm;

Mantenere gli avambracci poggiati durante la digitazione;

Mantenere una distanza di circa 50-70 cm tra il videoterminale e gli occhi;

Regolare il monitor in modo che sia un po' più in basso dell'altezza occhi;

Regolare luminosità, colore e contrasto dello schermo;

Regolare le tende in modo da controllare la luce naturale;

porre gli schermi a 90° rispetto alle finestre;

Qual è la corretta distribuzione delle pause durante il lavoro al videoterminale?

Per quanto riguarda pause ed interruzioni, per legge il lavoratore ha diritto a 15 minuti di pausa ogni 120 minuti di applicazione continua al videoterminale, nei quali non sono compresi i tempi di attesa per lo spegnimento o l'accensione del pc. La pausa è considerata parte integrante dell'orario e assorbe anche l'intervallo di 10 minuti in causa di orario giornaliero superiore alle 6 ore previsto dal D.Lgs 66 del 2003.

Lavoro al videoterminale e sorveglianza sanitaria

La sorveglianza sanitaria è obbligatoria per i videoterminalisti che lavorano al pc almeno 20 ore medie alla settimana.

In questi casi, è necessario sottoporre a visita medica gli operatori prima che inizino a lavorare al VDT, effettuando un controllo della vista e degli occhi per determinare l'idoneità allo svolgimento della mansione. Le successive visite mediche e controlli devono avvenire con periodicità diverse a seconda dell'età del soggetto:

Lavoratore con meno di 50 anni

Visita e controllo della funzionalità visiva ogni 5 anni

Lavoratore con più di 50 anni

Visita e controllo della funzionalità visiva ogni 2 anni

La visita sarà svolta ogni 2 anni anche per soggetti con una idoneità con prescrizioni o limitazioni. Oltre ai controlli periodici ogni lavoratore può richiedere di effettuare una visita medica di accertamenti qualora manifesti disturbi ricollegabili al lavoro al VDT.

Fonici, trascrittori e stenotipisti, i Sindacati scrivono ancora alla Ministra della Giustizia e chiedono risposte concrete per la tutela occupazionale e per il riconoscimento contrattuale di lavoratrici e lavoratori, attraverso i quali è garantito lo svolgimento dei processi, in particolare di quelli penali. Da fisascat.it il 7 dicembre 2021

Roma, 7 dicembre 2021 - “Siamo nuovamente a sottoporre la situazione nella quale si trovano le circa 1.500 lavoratrici e lavoratori impiegati nell’appalto del Ministero della Giustizia per il servizio di documentazione degli atti processuali”, inizia così la nota che le organizzazioni sindacali Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltrasporti hanno inviato alla Ministra della Giustizia Marta Cartabia, per chiedere un incontro urgente, vista la continua assenza di risposte.

Il servizio di documentazione degli atti processuali è stato svolto, per oltre venti anni e fino al 2017, da una miriade di aziende che, su tutto il territorio nazionale, applicavano diversi Contratti Nazionali, spesso contratti pirata e senza tutele” spiegano i 3 sindacati, “attività svolte dalle lavoratrici e dai lavoratori nella precarietà e senza la giusta valorizzazione delle loro professionalità.”

A seguito della diffusione della notizia di un possibile “concorso Operatori Data Entry Ministero della Giustizia” per l’assunzione di 3000 operatori con mansioni perfettamente corrispondenti a quelle degli impiegati nel servizio di documentazione degli atti processuali, sono sorte grandi preoccupazioni circa le conseguenze negative e inaccettabili che tale percorso potrebbe avere sul mantenimento della continuità occupazionale delle lavoratrici e dei lavoratori dell’appalto.

L’assenza di risposte concrete da parte del Ministero della Giustizia e di tutti i Ministri che si sono succeduti, le incertezze legate agli esiti della gara di appalto, il timore di un ritorno a contratti di lavoro governati dalle irregolarità e le difficoltà quotidiane di lavoratrici e lavoratori che svolgono un’attività fondamentale per assicurare la Giustizia nel nostro Paese, ma che fino ad oggi non hanno ottenuto le risposte ed il riconoscimento contrattuale corretto, stanno creando un clima di sempre maggiori rabbia e tensione.

Per questo, Filcams, Fisascat e Uiltrasporti chiedono risposte concrete per la tutela occupazionale e per il riconoscimento contrattuale di lavoratrici e lavoratori, attraverso i quali è garantito lo svolgimento dei processi, in particolare di quelli penali.

Ricina, Nuovi Orizzonti, Verbatim, appalto fonici-trascrittori, aggiornamenti trattativa CIA 19/03/2018

Roma, 20 marzo 2018 su filcams.cgil.it

TESTO UNITARIO

Il 19 u. s. si è svolto il programmato incontro di trattativa per la definizione del Contratto Integrativo Pluriaziendale (CIP).

Nei giorni antecedenti la trattativa le imprese hanno anticipato una bozza di testo del contratto, con tutte le materie trattate, su cui procedere nel confronto.

Nel merito dell’incontro, sulla base dei testi predisposti, le Organizzazioni Sindacali hanno rappresentato alcuni aspetti che non coglievano in pieno quanto trattato nel corso dei diversi incontri e nello specifico hanno evidenziato quanto segue:

·Premessa e sfera di applicazione la bozza coglie gli aspetti di massima delle condizioni per cui si è inteso definire un Contratto Integrativo ma si è posto all’attenzione delle controparti che va ampliata, esplicitando meglio le volontà politiche e di merito contrattuale che hanno portato le Parti a definire il CIP. Le imprese hanno confermato che non c’è preclusione in tal senso e attendono dalle OO. SS. la presentazione delle modifiche da apporre.

·Classificazione il testo consegnato ha colto pienamente le considerazioni fatte fino ad ora e correttamente definito la classificazione nella cornice delle declaratorie del Contratto Nazionale, salvo inserire alcune osservazioni da riportare in premessa all’articolo.

·Scatti di anzianità viene esteso il riconoscimento dell’istituto degli scatti di anzianità biennali anche agli operai.

·Reperibilità/Trasferte la formulazione proposta per la reperibilità ha raccolto quanto discusso e le imprese hanno proposto € 13,00 per ogni turno di reperibilità dal lunedì al venerdì e € 25,00 per ogni turno di reperibilità nei giorni considerati festivi, ivi compreso il sabato, fermo restando che in caso di prestazione lavorativa tutte le ore lavorate verranno riconosciute con le dovute maggiorazioni di lavoro supplementare/straordinario, festivo, ecc.. Rispetto al testo elaborato le Organizzazioni Sindacali hanno fatto rilevare che mancano alcune definizioni importanti quali: le motivazioni che determinano il ricorso all’istituto della reperibilità; la durata del turno; le modalità di determinazione e il numero di lavoratori che compongono i contingenti. Le stesse Organizzazioni Sindacali hanno sottolineato che, senza tali indicazioni, è complicato comprendere la congruità del valore economico proposto come indennità. Sulle questioni poste le aziende si sono riservate di dare una risposta complessiva nel proseguo del confronto.

·Mentre sul tema delle trasferte è stato previsto il rimborso a piè di lista delle spese vive sostenute dal dipendente definendo anche le modalità per chiedere i rimborsi. Quanto presentato è stato accolto, però vede la necessità di definire meglio il tempo di viaggio e come lo stesso viene considerato ai fini del raggiungimento dell’orario giornaliero di lavoro. Inoltre si è evidenziato che mancano alcuni riferimenti per la determinazione del mezzo di trasporto da utilizzare.

·Telelavoro/Lavoro Agile il testo consegnato prevede uno specifico articolo in materia, visto che i lavoratori che fanno le trascrizioni non operano in sede aziendale. Le OO. SS. hanno posto l’accento sul fatto che la legislazione in materia di lavoro agile, prevede che il lavoratore svolga la propria attività in parte in sede aziendale ed in parte in un qualsiasi altro luogo da lui stesso designato. Visto che all’interno delle aziende vi sono diverse figure professionali che fanno trascrizioni, è stato evidenziato che nel lavoro agile può essere ascritto chi fa stenotipia e i fonici che fanno anche i trascrittori, in quanto parte del lavoro si svolge presso il tribunale (che si può considerare alla stregua della sede aziendale) ed in parte da altro luogo. Diversamente per la figura del trascrittore il riferimento può essere solo l’istituto del telelavoro, dato che gli operatori lavorano esclusivamente da casa propria o altro luogo da loro designato. Alla luce delle considerazioni fatte le controparti hanno colto l’impostazione data dalle Organizzazioni Sindacali e quindi la necessità di rivedere il testo presentato.

·Mensilità Aggiuntive le imprese hanno proposto di inserire nel CIP la possibilità del lavoratore di optare per la liquidazione del rateo mensile della tredicesima e della quattordicesima. In merito a tale condizione le OO. SS. hanno riconfermato quanto reiterato più volte circa l’indisponibilità a sottoscrivere alcun testo che modifichi quanto previsto dal CCNL in materia. Altresì è stato ribadito che rimane una prerogativa del lavoratore eventualmente farne richiesta e che questa sia accolta dall’azienda.

·Produttività la proposta contenuta nella bozza di Contratto Integrativo prevede il riconoscimento del salario variabile sul parametro della produttività per i trascrittori, gli stenotipisti e i fonici-trascrittori, per una resa superiore alle 11 pagine ad ora composte da 1500 caratteri. A fronte della maggior produzione le imprese sono disponibili a riconoscere € 0,95 per ogni pagina aggiuntiva. Il salario premiale che verrebbe erogato si avvarrebbe della decontribuzione e defiscalizzazione prevista dalla normativa in materia e assoggettato all’aliquota unica del 10%. Rispetto all’impostazione presentata le Organizzazioni Sindacali hanno dato un giudizio positivo, ma è stato chiesto che venga previsto un premio di salario variabile anche per i fonici. La discussione è stata piuttosto accesa, in quanto le imprese hanno sostenuto che per il lavoro svolto dai fonici non vi è un parametro che possa misurare la produttività. Sull’obiezione sollevata dalle aziende, le OO. SS. hanno fatto rilevare che non è possibile estromettere una parte consistente di lavoratori dalla redistribuzione di salario variabile e hanno proposto diversi indici basati su elementi di qualità su cui erogare quote di salario premiale. Soprattutto perché il lavoro svolto dai fonici è fondamentale per ottemperare al servizio oggetto dell’appalto e anche alla possibilità da parte dei trascrittori di produrre quantitativamente e qualitativamente in misura maggiore.

·Sulla base delle osservazioni effettuate, le imprese hanno raccolto la richiesta delle Organizzazioni Sindacali e si sono riservate di valutare quali indicatori, tra quelli suggeriti, poter assumere per l’erogazione del salario variabile anche ai fonici.

In ultimo il confronto si è concentrato sul tema dell’orario di lavoro dei part time e la necessità da parte delle imprese di definire regimi di flessibilità stante la particolarità del servizio svolto.

Fermo restando che il piano della discussione è stato ripreso dalle considerazioni già illustrate nella precedente circolare del 19.12.2017, le OO. SS. hanno nuovamente ribadito che trattandosi di lavoratori part time, la diversa modulazione degli orari può intervenire solo con l’applicazione delle clausole elastiche.

Di fatto il ricorso a regimi di orario diversificati rispetto al part time orizzontale, oggi previsto nei contratti individuali di lavoro, è legato principalmente alle figure dei fonici essendo strettamente correlati all’andamento sviluppo delle udienze.

Infatti la non costanza e predeterminabilità della durata delle udienze ha prodotto nei mesi passati una gestione degli orari dei fonici molto flessibile a cui le aziende, in modo unilaterale, hanno proceduto all’accantonamento di una parte di ore supplementari per compensare le ore di mancato lavoro, oppure completare l’orario settimanale con il ricorso a ferie e permessi o addirittura con la decurtazione della retribuzione.

Inoltre le Organizzazioni Sindacali hanno chiesto conferma alle imprese della condivisione che i cosiddetti “periodi feriali” di chiusura o quasi totale azzeramento dei processi non debba dar luogo a periodi di sospensione a zero ore del personale.

Le aziende hanno confermato che non vi è la volontà di ridurre i contratti individuali di lavoro per i mesi in cui viene sospesa l’attività dei tribunali, ma che è necessario prevedere meccanismi di gestione oraria che permettano di compensare le ore di non lavoro nei suddetti periodi.

A seguito di quanto sopra le Organizzazioni Sindacali, in merito al raggiungimento del parametro orario settimanale nella gestione ordinaria del lavoro, hanno confermato che l’orario di lavoro non può essere gestito giornalmente, in funzione della durata dell’assise processuale, sia che si tratti di ricorrere a prestazioni supplementari per il prolungarsi delle udienze, sia che si tratti di mancato raggiungimento del parametro contrattuale individuale di lavoro per la brevità delle udienze stesse.

Pur nella consapevolezza che le suddette situazioni creano un’esigenza di articolare l’orario di lavoro in termini più rispondenti all’andamento dei processi, le OO.SS. hanno sottolineato che eventuali soluzioni da applicare devono rispettare il dettato contrattuale e normativo di riferimento dei part time.

Stante quanto sopra e nella condizione di non andare in deroga ai dispositivi legislativi, né di proseguire nella gestione unilaterale di sistemi di flessibilità da parte delle aziende, per cui si è arrivati a non retribuire le ore di supplementare ma di accantonarle, le Organizzazioni Sindacali hanno avanzato una proposta articolata su diversi punti:

1) constato che il regime orario del part time orizzontale risulta essere poco rispondente alle esigenze organizzative del servizio di fonia, prevedere di ricorrere al part time ciclico o misto che permette di commisurare l’orario di lavoro per il raggiungimento del parametro mensile del part time, evitando decurtazioni retributive per effetto del mancato raggiungimento dell’orario settimanale attraverso la compensazione con le settimane in cui si supera il parametro settimanale stesso. Conseguentemente il lavoro supplementare si determina per le ore di lavoro effettuate oltre l’orario mensile.

2) per rendere possibile la retribuzione nei cosiddetti “periodi feriali” (chiusura estiva e chiusura natalizia dei tribunali), che ammontano a circa 2,5 mesi di attività ridotta al minimo, deve essere definita l’usufruizione dei 22 giorni di ferie, contrattualmente previste, per un intero mese collocato nel periodo estivo. Fermo restando che al lavoratore rimarrebbero a disposizione i 9 giorni di permessi (ROL ed ex festività soppresse) da godere secondo le proprie esigenze nel corso dell’anno. A seguito della programmazione delle ferie come sopra descritto, i residui “periodi feriali” da compensare ammonterebbero a circa 3,5 settimane tenuto conto che nel corso delle stesse vanno garantiti dei presidi al fine di permettere lo svolgimento di attività processuali d’urgenza.

3) al fine di non esaurire anche i permessi individuali, per coprire i “periodi feriali” è stato proposto costituire una sorta di “cassetto” dove accantonare le ore di lavoro supplementare, svolto nei mesi di attività ordinaria, e liquidare mensilmente la sola maggiorazione del 28%. Le ore da inserire nel “cassetto” sarebbero quelle strettamente necessarie a permettere la compensazione delle 3,5 settimane come sopra definite. Dato che nel corso delle settimane citate devono essere garantiti i presidi, le stesse sono ridotte proporzionalmente alla presenza al lavoro in tali periodi. Quando il lavoratore ha raggiunto il monte ore di “cassetto”, tutte le restanti ore di supplementare che superano la quota definita verranno liquidate nel mese di prestazione.

4) nei primi mesi dell’anno successivo, prevedibilmente a febbraio, qualora vi fossero residui di ore nel “cassetto” le stesse devono essere liquidate e da gennaio il lavoratore ricomincia a riempire il “cassetto”, salvo che non espliciti la richiesta di utilizzare il residuo per la copertura del “periodo feriale” del nuovo anno e conseguentemente gli occorrerebbero meno ore supplementari da accantonare nello stesso.

Sulla suddetta proposta le aziende hanno inizialmente posto un rifiuto e confermato la volontà di ricorrere al sistema di flessibilità da loro avanzato, poi nel proseguo della discussione hanno dichiarato un interesse a quanto illustrato fermo restando che le ore messe a “cassetto” non dessero luogo ad alcuna maggiorazione, visto che le ore così definite permettono l’erogazione della retribuzione in periodi piuttosto lunghi di non attività e a fronte di un esborso per quattro settimane di ferie ricadenti in un intervallo di non incasso, stante il blocco sostanziale delle attività dei tribunali.

Rispetto a quanto sostenuto dalle imprese, le Organizzazioni Sindacali hanno confermato che le maggiorazioni contrattuali devono essere riconosciute perché trattasi di applicazione delle clausole elastiche e non di regime di flessibilità.

Dopo tutti gli approfondimenti del caso le imprese hanno accolto la proposta delle OO. SS. impegnandosi a predisporre un testo sulla base di quanto discusso.

A fronte della necessità di affrontare ancora diverse questioni per giungere alla definizione del CIP, di inserire nella bozza di testo presentata le modifiche discusse nell’incontro del 19 u. s. ed altresì per l’esigenza espressa dalle Organizzazioni Sindacali di effettuare le assemblee coi lavoratori per presentare la sintesi a cui è giunta la trattativa e ricevere il mandato a chiudere il Contratto Integrativo, le Parti hanno condiviso di aggiornare il confronto al 28.03.2018.

Dato quanto fin qui illustrato, pur comprendendo le difficoltà legate alla ristrettezza dei tempi, le strutture territoriali sono invitate a convocare urgentemente le assemblee sindacali dei lavoratori occupati negli appalti di fono-trascrizione degli atti documentali del Ministero di Giustizia e dare ritorno alle strutture nazionali dell’esisto delle stesse entro il prossimo 28 marzo 2018.

Nuovi Orizzonti, Ricina, Verbatim, appalto fonici-trascrittori, circolare Ipotesi CIA 31/07/2018

Roma 03.08.2018 su filcams.cgil.it.

Il 30 e 31 u. s. si è svolta la trattativa per la definizione del Contratto Integrativo Interaziendale giungendo alla definizione dell’ipotesi di accordo.

Dopo gli incontri tenutisi a giugno e ai primi di luglio, dove ricordiamo era già stata sottoscritta la prima parte dell’articolato contrattuale sui temi decorrenza e durata, Classificazione e Part Time, nelle due ultime giornate di confronto si è proceduto agli approfondimenti sulle tematiche non ancora definite e ad integrare alcuni aspetti della premessa, della stessa classificazione migliorando ulteriormente i profili professionali.

In merito alla premessa è stato espressamente previsto l’invio di una lettera congiunta tra le OO. SS. e le imprese per la trasmissione del testo dell’accordo raggiunto al Ministero della Giustizia e al Ministero del Lavoro, al fine di per avere pieno riconoscimento dei trattamenti contrattuali definiti e utili per la determinazione del costo del lavoro per le future gare di appalto, soprattutto per eliminare il ricorso a gare che pagano sulla base dei caratteri trascritti, definendo di fatto un lavoro a cottimo.

Mentre nell’articolato relativo alla classificazione sono state completate le definizioni dei profili professionali del capoarea A) inquadrato al IV livello e capoarea B) inquadrato al V livello.

Sul part time è stata accolta in via definitiva la proposta indicata dalle OO. SS. di rideterminare i contratti su base mensilizzata – ex part time ciclico – regolando gli orari con l’applicazione delle clausole flessibili, così da evitare che il mancato completamento dell’orario settimanale dia luogo alla compensazione con ROL o ferie o ad ore non retribuite come accaduto nei mesi scorsi.

Rispetto agli articoli ancora in discussione sono stati raggiunti i seguenti contenuti:

·Orario di Lavoro dato che l’attività lavorativa svolta per i tribunali è direttamente condizionata dall’operatività degli stessi e che il Ministero di Giustizia dispone i c. d. “periodi feriali” per periodi compresi tra fine luglio ad inizio di settembre, nonché durante le festività natalizie, mantenendo un presidio solo per le udienze urgenti, si è reso necessario trovare regimi di orario rispondenti a “chiusure” dei tribunali – corrispondenti a circa 55 giorni di calendario – per evitare di ricorrere a riduzioni dei contratti individuali, nonché sospensioni senza decorrenza della retribuzione in corrispondenza di tali periodi.

Per far fronte alla suddetta condizione, utilizzando gli istituti contrattuali già previsti, si è definito un meccanismo sperimentale denominato “Sistema di Regolamentazione delle Risorse”, di seguito “SRR”, che incrocia la programmazione delle ferie e dei Rol e la gestione del ricorso alle ore supplementari unitamente alle clausole elastiche.

Il tema si è affrontato in quanto la maggior parte della platea dei lavoratori ha contratti a part time e, diversamente dai lavoratori a full time, il CCNL non prevede il ricorso all’orario multiperiodale.

E’ da sottolineare che i lavoratori prevalentemente coinvolti sull’applicazione del sistema orario individuato sono i fonici, che non eseguono anche lavori di trascrizione, e una parte dei trascrittori/stenotipisti qualora non vi fossero verbali arretrati da smaltire.

Il punto in discussione ha richiesto vari approfondimenti per evitare di derogare dai contenuti CCNL e a fronte delle imprese che hanno lamentato l’onerosità di mantenere la retribuzione in periodi di non lavoro, pur rappresentando la volontà di non arrivare alla decurtazione del salario e dei contratti individuali.

Per tali ragioni si è definito che nei c. d. “periodi feriali” verranno programmate le ferie e i Rol consecutivamente, superando i limiti di programmazione previsti dal CCNL.

Dato che è stato accertato che gli istituti contrattuali citati non sono sufficienti a completare i “periodi feriali”, durante l’anno – che verrà conteggiato dal 1 ottobre al 30 settembre dell’anno successivo – verranno inserite nel “SRR” 70 ore (riferite al contratto a tempo pieno e riparametrate per il part time).

Al raggiungimento delle 70 ore concorreranno le ore supplementari/straordinarie lavorate nell’arco annuale sopra citato, con liquidazione delle maggiorazioni previste dal CCNL nel mese di effettuazione e il pagamento differito dell’ora di lavoro al momento di utilizzo.

Tutte le ore supplementari/straordinarie oltre le 70 del “SRR” verranno retribuite complessivamente con la retribuzione del mese in cui sono state effettuate, salvo diversa disposizione personale del lavoratore che volesse destinarle per il conteggio del “SRR” dell’anno successivo.

Dato il carattere sperimentale del “Sistema di Regolamentazione delle Risorse” nell’accordo sono stati previsti momenti di verifica per valutare il funzionamento dello stesso.

Inoltre si è prevista una clausola transitoria che recupera le ore supplementari/straordinarie accantonate unilateralmente dalle imprese nei mesi scorsi che parteciperanno, unitamente alle ferie e ai permessi, a dare continuità retributiva durante il “periodo feriale” corrente, qualora le ferie e i Rol non fossero sufficienti, oppure potranno concorrere alle 70 ore di “SRR” che si dovranno maturare a far data dal 01.10.2018.

·Reperibilità/Trasferte nella formulazione raggiunta l’istituto della reperibilità verrà attivato nei cosiddetti “periodi feriali” per un importo pari a € 13,00 per ogni turno, esonerando dagli stessi turni di reperibilità i lavoratori in ferie e/o in fruizione di Rol. Mentre verranno riconosciuti € 25,00 per ogni turno di reperibilità nei giorni considerati festivi, ivi compreso il sabato.

In caso di prestazione lavorativa durante la reperibilità tutte le ore lavorate verranno riconosciute con le dovute maggiorazioni di lavoro supplementare/straordinario, festivo, ecc., ed ogni prestazione non potrà essere inferiore alle tre ore compreso il pagamento delle ore di viaggio. Rispetto alle richieste avanzate dalle imprese si sono ridotti i turni di reperibilità e le settimane di reperibilità durante i “periodi feriali” saranno di fatto lavorative. Mentre sul tema delle trasferte è stato previsto il rimborso a piè di lista di tutte le spese vive sostenute dal dipendente, definendo anche le modalità per chiedere i rimborsi, nonché una diaria giornaliera aggiuntiva pari a € 15,49 per ogni giorno di trasferta, migliorando complessivamente quanto previsto dal CCNL.

·Telelavoro/Lavoro Agile il Contratto integrativo ha regolamentato entrambe le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, che per la specificità del settore, rispondono sia alle esigenze aziendali, sia alle esigenze dei lavoratori.

Per quanto attiene il Lavoro Agile, l’istituto contrattuale verrà prevalentemente applicato per le figure dei fonici-trascrittori, per gli stenotipisti che eseguono anche attività di trascrizione e per tutte quelle figure plurimansione per la parte dei servizi che possono essere svolti anche al di fuori delle sedi dei tribunali o aziendali.

Mentre i trascrittori rientreranno nell’istituto contrattuale del Telelavoro regolarizzando attraverso il Contratto integrativo in modo chiaro ed esaustivo il lavoro svolto dalla propria abitazione di detti lavoratori e normando tutti gli aspetti previsti per legge e demandati alla contrattazione.

Uno dei punti qualificanti e nello stesso tempo non pienamente soddisfacente è il riconoscimento del rimborso spese per l’utenza di internet. Nell’accordo definito è stato sancito il principio che al lavoratore spetta un rimborso spese, che però non copre l’intero canone sostenuto in quanto ad uso promiscuo, pari a € 5,00, altresì la cifra definita sarà rivedibile a far data dal 01.01.2019.

Inoltre era stato richiesto anche il riconoscimento di un valore una tantum al mese per i lavoratori che hanno messo a disposizione la propria attrezzatura hardware e software ma le imprese non hanno accolto la richiesta prevedendo che le stesse si fanno carico di fornire l’intera strumentazione, fermo restando condizione di miglior favore già in essere. Altri risultati importanti sono stati raggiunti con la previsione del diritto alla disconnessione rispetto ai periodi al di fuori degli orari di lavoro prestabiliti e le pause previste dalla normativa sulla salute e sicurezza.

·Indennità individuale per servizi di trascrizione con la normazione di tale indennità è stato superato il concetto del lavoro a cottimo, in quanto chi svolge attività di trascrizione verrà retribuito secondo le previsioni contrattuali e riceverà un riconoscimento per aver svolto maggior lavoro attraverso detta indennità.

Rispetto a quanto proposto dalle aziende l’importo riconosciuto ammonta a € 1,10, per la produzione eccedente le 11 pagine ad ora, inteso che ciascuna pagina è composta da 1500 caratteri in formato PDF come da capitolato. Data la definizione contrattuale collettiva raggiunta sarà applicata a tutti i lavoratori che svolgono servizi di trascrizione superando anche contenuti differenti definiti nei contratti individuali di lavoro.

·Premio di salario variabile le Organizzazioni Sindacali fin dall’avvio della trattiva hanno chiesto per tutte le figure impegnate sui servizi oggetto dell’appalto il riconoscimento di un premio di salario variabile che premiasse i miglioramenti e l’efficientamento delle attività svolte creando un plusvalore da redistribuire in quota parte tra i lavoratori. Le imprese hanno sempre ribadito che le condizioni per poter trattare in tal senso non vi erano in quanto l’appalto è stato acquisito a distanza di tre anni da quando hanno partecipato alla gara di appalto ed inoltre la base su cui è stato costruito il capitolato difficilmente poteva dare plusvalore. A fronte dell’insistenza e per non gravare ulteriormente sull’equilibrio economico/normativo del Contratto integrativo raggiunto, si sono comunque resi disponibili a riprendere il tema nei prossimi mesi, anche al fine di approfondire tutti gli aspetti legati a tale istituto contrattuale.

·Armonizzazione visto le novità e le modifiche introdotte dalla definizione del Contratto integrativo le parti hanno definito il percorso con cui armonizzare le condizioni attuali con i contenuti dello stesso CIA attraverso l’integrazione dei contratti individuali di lavoro, visto che si dovrà rivedere tutti gli inquadramenti, le corrispondenze retributive ed altre voci, e ciò richiederà la predisposizione di apposita modulistica e sottoscrizione della stessa.

I nuovi istituti contrattuali decorreranno a far data dal 01.07.2018, ma vista la concomitanza con il periodo di ferie, sicuramente vi sarà qualche ritardo nell’applicazione effettiva che verrà recuperata attraverso il riconoscimento degli arretrati.

Fermo restando i contenuti di merito dell’ipotesi di Contratto Integrativo definito, lo stesso afferma finalmente una vera e propria regolamentazione di un settore finora poco conosciuto nonostante le importanti e delicate attività di verbalizzazione degli atti dibattimentali dei processi penali, a cui contribuiscono con il proprio lavoro, impegno e responsabilità circa 1500 operatori che finora non hanno mai avuto la possibilità di avere riconosciuto pienamente la propria professionalità.

Fondamentale è stato il ruolo svolto dalle Rappresentanti Sindacali Aziendali in tutto il corso del confronto avendo apportato il loro profondo dato di conoscenza dei servizi di fonia, trascrizione e stenotipia, nonché del funzionamento della macchina dei tribunali e dell’organizzazione necessaria a rispondere alle esigenze degli stessi.

L’ipotesi di accordo raggiunto dovrà essere sottoposta alla consultazione delle lavoratrici e dei lavoratori attraverso le assemblee sindacali da tenersi entro il 20 settembre 2018 e si allega alla presente il verbale di consultazione da trasmettere entro tale data alla struttura nazionale.

P.Filcams CGIL Nazionale

Elisa Camellini 

Da lavoratore autonomo. Quanto costa la sbobinatura e la trascrizione?

Da sbobinami.it. Ecco un prezzo chiaro e semplice per le tue registrazioni in italiano: € 38,00/ora.

Per comodità abbiamo suddiviso le fasce di costo in ore, con un’approssimazione al quarto d’ora, dettata dal buon senso (121 minuti = 2 ore, 135 minuti = 3 ore)

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Da dalchecco.it. Non è possibile stilare un listino prezzi e tariffe per l’attività di trascrizione forense di registrazione e digitalizzazione dei testi da parte del perito fonico trascrittore, anche se per fornire un costo di massima per le trascrizioni foniche, si può considerare per file audio di qualità media un prezzo di € 20 a cartella di 25 righe per 60 caratteri, considerando che in una registrazione audio di un’ora mediamente è possibile trascrivere il parlato riversandolo in una settantina di cartelle.

Per avere un preventivo gratuito di stima dei costi per le trascrizioni delle registrazioni suggeriamo di contattarci. Potete però farvi un’idea del costo di una perizia di trascrizione, considerando una spesa che oscilla tra € 15 ed € 30 + IVA al minuto, in base alla qualità della registrazione da convertire e sbobinare in testo scritto e al numero di voci parlanti nella conversazione, sia essa telefonica o ambientale.

Il costo minimo per la perizia trascrittiva senza asseverazione/giuramento in Tribunale è di € 800 + IVA, anche se per pochi minuti di audio. La perizia di trascrizione giurata e asseverata in Tribunale da parte del perito fonico forense ha un costo maggiore, come illustrato sopra, dovuto all’integrazione di € 400 + IVA oltre alle marche da bollo (€ 16,00 ogni 4 pagine, € 3,84 per la richiesta asseveramento ed € 0,62 per ogni eventuale allegato).

Lavorare come trascrittore freelance - Copywriting: guida completa di Carmine Roca il 21 Gennaio 2021

Oggi lavorare come trascrittore freelance, anche da casa, non è insolito o complicato come fo era fino a qualche tempo fa. Grazie a Internet e ai computer portatili, puoi operare ovunque tu sia e guadagnare bene. Si tratta di una strada affascinante ma sicuramente non esente da insidie. Eppure, le opportunità non mancano.

Del resto, per molte aziende diventa una pratica sempre più abituale e conveniente esternalizzare alcuni lavori piuttosto che assumere direttamente del personale. Oggigiorno, il lavoro di trascrizione è uno dei lavori più esternalizzati su Internet.

Ti basta un Pc portatile, una connessione Internet decente ed una buona velocità di digitazione per cominciare a trascrivere dei file. Come ogni altro lavoro, ovviamente c’è bisogno di impegno, passione e pazienza. Durante questo percorso, potresti renderti conto di essere maggiormente portato a trascrivere contenuti relativi ad uno specifico argomento. Ben venga! Soprattutto in ambiti molto delicati e ricchi di tecnicismi, un’azienda potrebbe preferire affidarsi ad uno specialista piuttosto che ad un trascrittore generico.

Indice

Cosa fa un trascrittore

Come si approccia ad una trascrizione

Competenze per lavorare come trascrittore

Pro e contro del lavoro di trascrizione

Quanto guadagna un trascrittore e quanto costa una trascrizione

Come fare per ottenere nuovi clienti?

Come gestire a livello fiscale il lavoro di trascrittore?

Qual è l’attrezzatura necessaria?

Lavorare come trascrittore ottimizzando la produttività: alcuni consigli

Cosa fa un trascrittore

Un trascrittore è un dattilografo professionista che ascolta file audio registrati o dal vivo e li converte in formato testo. Può offrire i suoi servizi all’industria della trascrizione medica e legale ma anche ad altri settori merceologici.

Come si approccia ad una trascrizione

La trascrizione richiede accuratezza, discrezione, riservatezza e la capacità di lavorare in modo rapido ed efficiente rispettando le scadenze e producendo trascrizioni della massima qualità. Il tuo lavoro deve essere preciso e soddisfare gli standard più elevati. Se ti piace l’attenzione ai dettagli e hai il desiderio di soddisfare o superare le aspettative dei tuoi clienti, il lavoro di trascrittore potrebbe fare al caso tuo!

La trascrizione implica l’ascolto di audio (o video) registrato e la digitazione di ciò che si sente parola per parola. I file audio possono essere di varie tipologie ed includere sondaggi, interviste, riunioni, telefonate, ecc.

Esistono diversi tipi di lavori di trascrizione:

Generale;

Per ricerche di mercato;

Medica;

Legale;

In tempo reale.

Di solito, non è richiesta grande esperienza per trascrivere un file legato ad un argomento non molto complesso. Per aree di trascrizione più specifiche, come la trascrizione medica o la trascrizione legale, è necessaria esperienza e formazione. Tuttavia, i trascrittori medici e i trascrittori legali sono anche coloro che, in genere, guadagnano di più.

Competenze per lavorare come trascrittore

Un trascrittore di successo deve possedere una serie di qualità tra cui:

Grande attenzione ai dettagli;

Velocità di digitazione di almeno 60/70 parole al minuto;

Buone capacità di scrittura;

Conoscenza approfondita della punteggiatura e, in generale, della grammatica e della sintattica italiana o della lingua di cui ti occuperai;

Discrezione (potresti ritrovarti a trascrivere materiale molto delicato);

Competenze informatiche (programmi di elaborazione testi, in primis);

Capacità di ascolto;

Gestione del tempo (le scadenze vanno rispettate, dunque devi lavorare in modo rapido ma efficiente).

Pro e contro del lavoro di trascrizione

Per aiutarti a capire se puoi ottenere soddisfazioni e buoni risultati dall’attività di trascrittore, analizziamo i vantaggi e gli svantaggi relativi a questa professione.

Tra i vantaggi va annoverata la flessibilità dell’orario di lavoro. Come detto, il trascrittore può lavorare da casa o da qualunque altra location. A chi non piacerebbe? Inoltre, trascrivere può essere piacevole ed appagante sotto il profilo professionale.

Ci sono, però, degli aspetti non del tutto positivi che possono rendere meno piacevole ed agevole il lavoro di trascrittore. Ad esempio, potresti ritrovarti a sbobinare un audio di scarsa qualità, difficilmente comprensibile, con i parlanti che si accavallano o che utilizzano espressioni ed inflessioni dialettali a te non familiari.

In queste situazioni, il processo di trascrizione sarà più lungo e alcuni potrebbero trovarlo stressante. Il lavoro potrebbe non essere sempre disponibile ma questo è un problema che accomuna tutti i liberi professionisti. Potresti ritrovarti ad essere pieno di trascrizioni da fare in determinati periodi e del tutto sprovvisto di lavori in altri momenti.

Infine, soprattutto nella fase iniziale, potresti essere più lento nell’eseguire una trascrizione. Tranquillo, nulla di cui preoccuparti. Facendo tanta pratica sicuramente riuscirai a diventare più veloce nel lavoro.

Quanto guadagna un trascrittore e quanto costa una trascrizione

Siamo realistici, non diventerai milionario attraverso il lavoro di trascrizione. Tuttavia, non mancano le opportunità per ottenere buoni guadagni, soprattutto se quello del trascrittore viene svolto come lavoro secondario, magari insieme ad un altro più remunerativo.

La paga di un trascrittore si basa quasi sempre sulla lunghezza del file audio che il trascrittore deve sbobinare. Di conseguenza, raggiungere una veloce capacità di digitazione è importante! Non c’è un prezzario prestabilito per le attività di trascrizione. Orientativamente, la trascrizione letterale di un file audio parte da un minimo di € 0,50 per un file audio di 1 minuto.

Chiaramente, in presenza di file audio legati ad argomenti tecnici molto complessi, si può arrivare anche a richiedere fino a circa € 2,00 per ogni minuto di file audio da trascrivere. Pensiamo, ad esempio, alle trascrizioni dei dialoghi di film e serie televisive.

Per raggiungere buoni risultati, il tuo tempo di trascrizione non dovrà eccedere più di tre o quattro volte la lunghezza dell’audio. Ad esempio, per una file audio di 30 minuti, dovresti impiegare tra i 90 ed i 120 minuti per ultimare la trascrizione. Spesso, la capacità di ottenere buoni risultati economici può dipendere anche e soprattutto dalla velocità con cui porti a termine il lavoro. Per la serie, più veloce sei a digitare, maggiori saranno i lavori che potrai acquisire e più alti saranno anche i tuoi guadagni.

Come fare per ottenere nuovi clienti?

In primo luogo, ti consiglio di cominciare a fare tanta pratica, trascrivendo qualunque materiale tu possa ritenere interessante. Questo è un trucchetto che ti può aiutare a creare un piccolo portfolio di lavori, anche se non ti sono stati commissionati da nessuno. Il mio suggerimento è di sfruttare al massimo sia le opportunità del digitale sia le conoscenze offline, soprattutto in ambienti legali e giuridici nei quali c’è una più elevata attenzione rispetto alla figura del trascrittore.

Nei contesti digitali potresti, per esempio, mettere in mostra le tue capacità sugli account social media oppure cercare in giro per il web i recapiti di professionisti che potrebbero aver bisogno di trascrizioni. Al di fuori del mondo virtuale, potresti semplicemente preparare dei biglietti da visita da distribuire negli studi professionali della tua città.

Come gestire a livello fiscale il lavoro di trascrittore?

Ti conviene porre questo quesito ad un commercialista. Nel caso in cui il tuo sia un lavoro secondario con guadagni non molto alti, potresti anche lavorare con le ritenute d’acconto, evitando l’apertura di una Partita Iva. Nel caso in cui tu abbia intenzione di offrire anche altri servizi di scrittura (proofreading, ghostwriting, copywriting, content writing, blogging) allora non potrai fare a meno di aprire la Partita Iva.

Qual è l’attrezzatura necessaria?

Oltre ad un computer affidabile (sta a te scegliere tra laptop, desktop o entrambi), avrai bisogno di una comoda scrivania e di una sedia che ti consenta di tollerare senza troppi sforzi lunghe sessioni di lavoro.

È inoltre necessario installare app che aiutino a pulire la qualità del suono dei file. Infine, Express Scribe è un programma che ti può aiutare davvero molto. Questo software, infatti, facilita il lavoro di trascrizione in quanto è impostato in modo tale da consentire l’ascolto e la digitazione simultanea sulla stessa finestra.

Lavorare come trascrittore ottimizzando la produttività: alcuni consigli

Un trascrittore generalmente si imbatte in file dal contenuto più o meno tecnico. Per far sì che il lavoro di trascrizione sia efficace, è necessario svolgere molte ricerche, soprattutto se non si ha familiarità con quel settore.

Lavorare da casa può essere una gran bella opportunità ma presenta anche molti rischi. Le distrazioni possono essere davvero tante: dalla presenza di altre persone in casa, allo smartphone che suona di continuo così come i social media. L’organizzazione del lavoro, di conseguenza, assume un’importanza capitale.

Ti consiglio di cominciare stabilendo con precisione l’orario di inizio e di fine della tua giornata lavorativa. Avere un piano di lavoro aumenta la produttività. Cerca di definire anche il tempo da dedicare alle pause. Per esempio, un quarto d’ora di relax ogni ora piena di lavoro potrebbe essere un’idea per recuperare energie e, allo stesso tempo, non distaccarti per troppi minuti dal lavoro.

Uno strumento consigliato per lavorare come trascrittore freelance ottimizzando la produttività è un software di time management. Questi programmi ti aiutano a tenere traccia del tempo che dedichi a diverse attività. Possono, ad esempio, avvisarti quando sei troppo distratto dai social media o quando il tuo computer è inattivo per diversi minuti.

Magari, all’inizio ti sembrerà strano dover utilizzare un programma per mantenere alta la concentrazione a lavoro. Pian piano, però, ti ci abituerai e la tua efficienza non potrà che migliorare giorno dopo giorno.

Carmine Roca. Sono un Copywriter Freelance e Consulente SEO. Aiuto le aziende a raggiungere i loro target attraverso testi di qualità, sia sui canali digitali che tradizionali, ma soprattutto sui motori di ricerca.

Listino prezzi per Servizi di Stenotipia. Stenotipisti Professionisti Italiani

Libera Associazione Stenotipisti Professionisti Italiani

Listino Prezzi Anno 2013

Listino prezzi per Servizi di Stenotipia Elettronica Real Time e Trascrizioni audio redatto dalla Libera Associazione

Premessa Carissimi colleghi, affinchè il nostro lavoro di Stenotipisti Professionisti abbia il giusto riconoscimento economico proponiamo un listino prezzi valido per l'anno 2013.

PREGHIAMO TUTTI GLI ADERENTI ALL'ASSOCIAZIONE E A QUANTI SI OCCUPANO DI TRASCRIZIONI DI APPLICARE LE TARIFFE RIPORTATE IN SEGUITO E SOPRATTUTTO DI NON PARTECIPARE A BANDI; GARE; TRATTATIVE O COTTIMI FIDUCIARI CHE, PER IMPORTO, SI DISCOSTINO DALLE TARIFFE STABILITE.

Tipo Servizio Reso

Costo

Stenotipia Real Time - Diritto fisso di chiamata o intervento - comprensivo di trasferta e di noleggio apparecchiature -

Euro: 50,00


 

Stenotipia Real-Time indipendentemente dal personale impiegato

Euro: 170,00 per ora di servizio*

Trascrizioni audio su supporto fornito dal cliente a mezzo Stenotipia Elettronica

Euro: 80,00 per ora audio**

Costo minimo fatturabile per Stenotipia, Trascrizioni su supporto fornito dal cliente per audio inferiore a 2 ore

Euro: 200,00

Servizio di Registrazione/Amplificazione audio con fornitura di apparecchiature proprie

Euro: 400,00

Diritto di chiamata comprensivo di trasferta

Euro: 50,00

Noleggio; montaggio/smontaggio attrezzature ed assistenza tecnica

Euro: 400,00

Servizio di trasmissione dati con proprio sito od predisposizione/uso di pagine apposite e riservate

Euro: 250,00 Annuali

*A partire dall'ora stabilita del cliente. Tutte le pause od interruzioni sono da intendersi come servizio integralmente reso. Le frazioni di ora sono sempre computate in minuti. Unicamente per la 1° ora i minuti sono rapportati all'ora intera.

** Le frazioni di ora sono sempre computate in minuti.

Lavoro più pagato in Italia: lo stenografo. Da economia-italia.com il 24 Novembre 2019

Tra i lavori dipendenti che si possono trovare in Italia, uno dei lavori più pagati é sicuramente quello dello stenografo parlamentare.

Si pensi che chi lo stenografo nella Regione Sicilia viene a prendere qualcosa come 235 mila euro all’anno, quasi 20 mila euro al mese, 631 euro al giorno… lorde.

Si consideri che il Capo dello Stato italiano prende circa 240 mila euro all’anno , il Presidente degli Stati Uniti Obama – la figura politica più importante del mondo –  prende 316 mila euro all’anno lorde, circa 26 mila euro al mese lordi.

Lavori più pagati 

Queste cifre sono venute di dominio pubblico e alla ribalta in qualche giornale, perché la Regione Sicilia in questi giorni ha deciso di dare un ‘taglio netto’ a questi stipendi altissimi: gli stenografi della Regione Sicilia si dovranno accontentare di ‘appena’ 204 mila euro lordi all’anno, in pratica dovranno cercare di andare avanti con soli 17 mila euro al mese: ce la faranno?

Difficile abituarsi a prendere meno soldi e fare lo stesso lavoro, in molti dei Nostri lettori lo sanno, perché anche a Loro è successo.

Fare lo stesso orario di lavoro per meno soldi é squalificante.

Nonostante si tratti di quello che Noi crediamo di essere lo stipendio più alto in Italia ( come lavoro dipendente, escludendo i ruoli dirigenziali) infatti, sono comunque diritti acquisiti e giustamente questi lavoratori ora protestano per il taglio di stipendi.

Lavori più pagati

Va inoltre aggiunto che il costo della vita in Sicilia é particolarmente basso rispetto ad altri regioni italiane, proprio per questo uno stipendio di 20 mila euro preso abitando in questa bella regione, vale come uno stipendio da 40 o 50 mila euro a Milano.

Come posso farmi assumere da stenografo?

Bisogna essere cittadino italiano

Bisogna aver conseguito una laurea ( anche breve di 3 anni)

Bisogna essere maggiorenni e non aver superato i 35 anni

Votazione di scuola secondaria di almeno 54/60 oppure di 90/100

Votazione titolo di studio universitario non inferiore a 90/110

Bisogna vincere il concorso, quindi meglio se si conosce ‘qualche amico’ ( quest’ultimo è un requisito non ufficiale, ma ufficioso)

Se andiamo a vedere il Bilancio della Regione Sicilia, questo ha un buco di 1,6 miliardi di euro. Il capo della Regione Crocetta, che sembrava voler spaccare il mondo, sta varando il 3° Governo in 3 anni e l’Assessorato al Bilancio viene praticamente commissariato dal Governo centrale di Roma, in quanto altrimenti, queste persone si mangerebbero tutto…

Come al solito, nelle amministrazioni pubbliche c’é chi guadagna tantissimo – in modo del tutto sproporzionato a lavori simili di altre aziende – tanto poi alla fine paga il contribuente italiano: il risultato é che aumentano le tasse, i consumi si deprimono e la disoccupazione aumenta.

E’ questo uno dei modi con cui stiamo distruggendo la Nostra economia, in modo democratico, visibile e praticamente scientifico.

Lo stenografo del Senato come il re di Spagna. Busta paga da 290 mila euro. Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella il 4 gennaio 2012 su Il Corriere della Sera.

A fine carriera stipendi quadruplicati. Ai commessi fino a 160 mila euro

Può un senatore guadagnare la metà del suo barbiere di Palazzo Madama, come lamentano quei parlamentari che per ribattere ai cittadini furenti contro i mancati tagli dicono di prendere intorno ai 5 mila euro? No. Infatti non è così. Il gioco è sempre quello: citare solo l'«indennità». Senza i rimborsi, le diarie, le voci e i benefit aggiuntivi. Con i quali il «netto» in busta paga quasi quasi triplica.

Sono settimane che va avanti il tormentone. Di qua la busta paga complessiva portata in tivù dal dipietrista alla prima legislatura Francesco Barbato, che tra stipendio e diarie e soldi da girare al portaborse ha mostrato di avere oltre 12.000 euro netti al mese. Di là l'insistenza sulla sola «indennità». E la tesi che le altre voci non vanno calcolate, tanto più che diversi (230 contro 400, alla Camera) hanno fatto sul serio un contratto ai collaboratori e moltissimi girano parte dei soldi al partito. Una scelta spesso dovuta ma comunque legittima e perfino nobile: ma è giusto caricarla sul groppo dei cittadini in aggiunta ai rimborsi elettorali e alle spese per i «gruppi»? Non sarebbe più opportuno e più fruttuoso nel rapporto con l'opinione pubblica mostrare la busta paga reale, che dopo una serie di tagli è davvero più bassa di quella da 14.500 euro divulgata nel 2006 dal rifondarolo Gennaro Migliore?

Non ha molto senso, questa sfida da una parte e dall'altra centrata tutta su quanto prendono deputati e senatori. Peggio: rischia di distrarre l'attenzione, alimentando il peggiore qualunquismo, dal cuore del problema. Cioè il costo d'insieme di una politica bulimica: il costo dei 52 palazzi del Palazzo, il costo delle burocrazie, il costo degli apparati, il costo delle Regioni, delle province, di troppi enti intermedi, delle società miste, di mille altri rivoli di spesa che servono ad alimentare un sistema autoreferenziale.

Dice tutto il confronto con le buste paga distribuite, ad esempio, al Senato. Dove le professionalità di eccellenza dei dipendenti, che da sempre raccolgono elogi trasversali da tutti i senatori di destra e sinistra, neoborbonici o padani, sono state pagate fino a toccare eccessi unici al mondo. Tanto da spingere certi parlamentari (disposti ad attaccare Monti, Berlusconi, Bersani o addirittura il Papa ma mai i commessi da cui sono quotidianamente coccolati) ad ammiccare: «Siamo semmai gli unici, qui, a non essere strapagati».

Il questore leghista Paolo Franco lo dice senza tanti giri di parole: «Il contratto dei dipendenti di palazzo Madama è fenomenale. Consente progressioni di carriera inimmaginabili. Ed è evidente che contratti del genere non se ne dovranno più fare. Bisogna cambiare tutto». Come può reggere un sistema in cui uno stenografo arriva a guadagnare quanto il re di Spagna? Sembra impossibile, ma è così. Senza il taglio del 10% imposto per tre anni da Giulio Tremonti per i redditi oltre i 150 mila euro, uno stenografo al massimo livello retributivo arriverebbe a sfiorare uno stipendio lordo di 290 mila euro. Solo 2mila meno di quanto lo Stato spagnolo dà a Juan Carlos di Borbone, 50 mila più di quanto, sempre al lordo, guadagna Giorgio Napolitano come presidente della Repubblica: 239.181 euro.

Per carità, non «ruba» niente. Esattamente come Ermanna Cossio che conquistò il record mondiale delle baby-pensioni lasciando il posto da bidella a 29 anni col 94% dell'ultimo stipendio, anche quello stenografo ha diritto di dire: le regole non le ho fatte io. Giusto. Ma certo sono regole che nell'arco della carriera permettono ai dipendenti di Palazzo Madama, grazie ad assurdi automatismi, di arrivare a quadruplicare in termini reali la busta paga. E consentono oggi retribuzioni stratosferiche rispetto al resto del paese cui vengono chiesti pesanti sacrifici.

Al lordo delle tasse e dei tagli tremontiani, un commesso o un barbiere possono arrivare a 160 mila euro, un coadiutore a 192 mila, un segretario a 256 mila, un consigliere a 417mila. E non basta: allo stipendio possono aggiungere anche le indennità. Alla Camera un capo commesso ha diritto a un supplemento mensile di 652 euro lordi che salgono a 718 al Senato. Un consigliere capo servizio di Montecitorio a una integrazione di 2.101, contro i 1.762 euro del collega di palazzo Madama. Per non dire dei livelli cosiddetti «apicali». Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai rapporti col Parlamento Antonio Malaschini, quando era segretario generale del Senato, guadagnava al lordo nel 2007, secondo l'Espresso, 485 mila euro l'anno. Arricchito successivamente da un aumento di 60 mila che spappolò ogni record precedente per quella carica. Va da sé che la pensione dovrebbe essere proporzionale. E dunque, secondo le tabelle, non inferiore ai 500 mila lordi l'anno.

È uno dei nodi: retribuzioni così alte, grazie a meccanismi favorevolissimi di calcolo, si riflettono in pensioni non meno spettacolari. Basti ricordare che gli assunti prima del '98 possono ancora ritirarsi dal lavoro (con penalizzazioni tutto sommato accettabili) a 53 anni. Esempio? Un consigliere parlamentare di quell'età assunto a 27 anni e forte del riscatto di 4 anni di laurea ha accumulato un'anzianità contributiva teorica di 38 anni. Di conseguenza può andare in pensione con 300 mila euro lordi l'anno, pari all'85% dell'ultima retribuzione. Se poi decide di tirare avanti fino all'età di Matusalemme (che qui sono 60 anni) allora può portare a casa addirittura il 90%: più di 370 mila euro sul massimo di 417 mila.

Funziona più o meno così anche per i gradi inferiori. A 53 anni un commesso è in grado di ritirarsi dal lavoro con un assegno previdenziale di 113 mila euro l'anno che, se resta fino al 60º compleanno, può superare i 140 mila. Con un risultato paradossale: il vitalizio di un senatore che abbia accumulato il massimo dei contributi non potrà raggiungere quei livelli mai. E tutto ciò succede ancora oggi, mentre il decreto salva Italia fa lievitare l'età pensionabile dei cittadini normali e restringere parallelamente gli assegni col passaggio al contributivo «pro rata» per tutti. Intendiamoci: sarebbe ingiusto dire che le Camere non abbiano fatto nulla. A dicembre il consiglio di presidenza del Senato, ad esempio, ha deciso che anche per i dipendenti in servizio si dovrà applicare il sistema del contributivo «pro rata». Ma come spiega Franco, è una decisione che per diventare operativa dovrà superare lo scoglio di una trattativa fra l'amministrazione e le sigle sindacali, che a palazzo Madama sono, per meno di mille dipendenti, addirittura una decina. Il confronto non si annuncia facile. Anche nel 2008, dopo mesi di polemiche sui costi, pareva essere passato un giro di vite, sostenuto dal questore Gianni Nieddu. Ma appena cambiò la maggioranza, quella nuova non se la sentì di andare allo scontro.

E tutto si arenò nei veti sindacali. Stavolta, poi, la trattativa ha contorni ancora più divertenti. Controparte dei sindacati è infatti la vicepresidente del Senato Rosy Mauro, esponente della Lega Nord, partito fortemente contrario alla riforma delle pensioni e sindacalista a sua volta: è presidente, in carica, del Sinpa, il sindacato del Carroccio. Nel frattempo, chi esce ha la strada lastricata d'oro. Il consigliere parlamentare «X» (alla larga dalle questioni personali, ma parliamo di un caso con nome e cognome) ha lasciato il Senato a luglio del 2010 a 58 anni. Da allora, finché non è entrato in vigore il contributo triennale di solidarietà per i maxi assegni previdenziali, palazzo Madama gli ha pagato una pensione di 25.500 euro lordi al mese: venticinquemilacinquecento.

Per 15 mensilità l'anno. Spalmandoli sulle 13 mensilità dei cittadini comuni 29.423 euro a tagliando. Da umiliare perfino l'ex parlamentare Giuseppe Vegas, oggi presidente della Consob, che da ex funzionario del Senato, sarebbe in pensione con 20 mila. Neppure il commesso «Y», assunto a suo tempo con la terza media, si può lamentare: ritiratosi nello stesso luglio 2010, sempre a 58 anni, ha diritto (salvo tagli tremontiani) a 9.300 euro lordi al mese. Per quindici. Vale a dire che porta a casa complessivamente oltre 20mila euro in più dello stipendio massimo dei 21 collaboratori più stretti di Barak Obama.

Sono cifre che la dicono lunga su dove si annidino i privilegi di un sistema impazzito sul quale sarebbe stato doveroso intervenire «prima» (prima!) di toccare le buste paga dei pensionati Inps. I bilanci di Camera e Senato del resto parlano chiaro. Nel 2010 la retribuzione media dei 1.737 dipendenti di Montecitorio, dall'ultimo dei commessi al segretario generale, era di 131.585 euro: 3,6 volte la paga media di uno statale (36.135 euro) e 3,4 volte quella di un collega (38.952 euro) della britannica House of Commons. E parliamo, sia chiaro, di retribuzione: non di costo del lavoro. Se consideriamo anche i contributi, il costo medio di ogni dipendente della Camera schizza a 163.307 euro. Quello dei 962 dipendenti del Senato a 169.550. E non basta ancora. Perché nel bilancio del Senato c'è anche una voce relativa al personale «non dipendente», che comprende consulenti delle commissioni e collaboratori vari, ma soprattutto gli addetti a non meglio precisate «segreterie particolari». Con una spesa che anche nel 2011, a dispetto dei tagli annunciati, è salita da 13 milioni 520 mila a 14 milioni 990 mila euro. Con un aumento, mentre il Pil pro capite affondava, del 10,87%: oltre il triplo dell'inflazione.

Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella il 4 gennaio 2012 su Il Corriere della Sera.

Giorgia Meloni affonda Landini: "Paghe da 5 euro ora". Libero Quotidiano il 07 dicembre 2023

Risponde a muso duro, Giorgia Meloni, alla sceneggiata delle opposizioni in aula a Montecitorio di martedì pomeriggio. Giuseppe Conte ha stracciato platealmente il testo del disegno di legge sul salario minimo, testimoniando il disgusto del Movimento 5 Stelle per le modifiche apportate dalla maggioranza di centrodestra. Elly Schlein, segretaria del Pd, l'ha seguito a ruota ritirando la propria firma dal documento. 

"Con la proposta sul salario minimo presentata dalle opposizioni per paradosso rischiavi di abbassare alcuni salari un po' più alti per adeguarsi ai 9 euro, come maggioranza abbiamo presentato un emendamento per risolvere il problema delle sacche di quei lavoratori che hanno stipendi più bassi dei nove euro l'ora, e penso per esempio ai lavoratori domestici, questo senza rischiare di abbassare gli altri", ha puntualizzato la premier in una lunga intervista a Non stop news su Rtl 102.5, durante la quale ha affrontato tutti i temi in agenda. Dagli attacchi personali subiti sulla propria vita privata, "senza pietà, ma mettiamo  l'elmetto e combattiamo", al "2023 anno tosto, abbiamo dovuto gestire il disastro", dalla violenza sulle donne al patto di stabilità, dal premierato alla giustizia. 

"Sulle proteste delle opposizioni un po' sorrido - aggiunge polemica la Meloni - perché in 10 anni che sono stati al governo hanno mai fatto una legge sul salario minimo". E ne ha anche per i sindacati, scesi in piazza e protagonisti di scioperi a raffica. 

"Devo anche dire che mi incuriosisce la posizione di alcuni sindacati che vanno in piazza per rivendicare la bontà del salario minimo, ma quando vanno a firmare tratti collettivi accettano contratti da poco più di 5 euro l'ora come è accaduto di recente con il contratto della sicurezza privata, quindi bisognerebbe essere anche un po più coerenti penso". Chissà se al segretario della Cgil Maurizio Landini, che si è di fatto auto-candidato a "federatore" del centrosinistra, saranno fischiate le orecchie.

Paghe da fame e ricatti, lo sfruttamento nella vigilanza privata. YOUSSEF HASSAN HOLGADO su Il Domani il 10 novembre 2023

La società di vigilanza privata Battistolli è finita nel mirino della procura di Milano. I dipendenti percepivano salari «al di sotto della soglia di povertà» e «sproporzionati rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato»

Paghe che si aggirano sui 5 euro all’ora, straordinari non retribuiti, ferie non godute, ricatti e intimidazioni. Se alcune recenti inchieste che hanno riguardato il mondo della logistica e della grande distribuzione organizzata hanno portato alla luce condizioni di sfruttamento lavorativo, il settore della vigilanza privata è l’ultima frontiera.

È ciò che è emerso nell’ultima indagine della procura di Milano che ha riguardato la Battistolli servizi integrati, l’azienda con sede a Vicenza che opera in dodici regioni italiane. Negli ultimi anni la procura meneghina, in collaborazione con il nucleo della polizia economica finanziaria della guardia di Finanza, ha dato vita a una serie di indagini su imprese italiane e straniere (come i colossi della Silicon Valley) non solo per contrastare condizioni di lavoro al limite della schiavitù, ma anche per recuperare il denaro evaso al fisco. E il quadro emerso è preoccupante.

L’INCHIESTA

Ieri il gip Domenico Santoro ha convalidato il controllo giudiziario nei confronti della Battistolli, disposto d’urgenza il 31 ottobre dal pm Paolo Storari. Dagli accertamenti della finanza è emersa una condizione di sfruttamento nei confronti dei dipendenti dell’azienda di vigilanza privata, i quali percepivano salari «al di sotto della soglia di povertà» e «sproporzionati rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato». Ma c’è di più.

Gli inquirenti sottolineano anche un’aggravante. L’azienda, scrive il gip, ha «commesso i fatti approfittando dello stato di bisogno dei dipendenti sottoponendo i medesimi a condizioni lavorative disagevoli, arbitrari cambiamenti delle condizioni contrattuali, privazione delle ferie, indebite trattenute in busta paga e in taluni casi a minacce prospettando la perdita del posto di lavoro o spostamenti in sedi di servizio peggiori».

A essere indagato è il dirigente Pietro Contin, 74 anni. Nel frattempo è stato nominato un amministratore «con il compito di controllare il rispetto delle norme e delle condizioni lavorative» e «di garantire la regolarizzazione dei lavoratori».

LE TESTIMONIANZE

Secondo i dati della guardia di finanza i dipendenti della Battistolli ricevevano paghe orarie che ammontavano a poco più di 5 euro l’ora, un salario netto di circa 650 euro al mese. Una cifra irrisoria, confermata anche dalle testimonianze dei vigilanti. «Il sabato e la domenica non sono quasi mai giornate di riposo, e specifico che non è una mia scelta, bensì un’imposizione del mio responsabile [...] La mia retribuzione netta è di circa 5 euro all’ora, importo che non ritengo dignitoso», ha detto un dipendente.

«La mia busta paga dovrebbe essere di 620 euro netti, che è la retribuzione base. Con gli straordinari aumenta: ad esempio, questo mese sono arrivato a percepire 1128 euro circa, ma facendo 181 ore lavorative totali, praticamente quasi il doppio delle ore previste dal mio contratto, lavorando tutti i sabato e domenica. La retribuzione lorda dovrebbe essere circa 700 euro. Leggendo la busta paga, posso dirvi che la paga oraria è di 3,50 euro netti all’ora», ha dichiarato un altro.

C’è anche chi ha riferito di essersi dovuto recare a lavoro nonostante gli infortuni: «Mi è capitato di essermi infortunato ad una gamba, ma nonostante ciò mi sono dovuto comunque recare al lavoro perché non c'è sufficiente personale per dare il cambio». Chi provava a protestare si è visto rispondere che poteva lasciare il posto di lavoro qualora non avesse accettato le condizioni da fame imposte dall’azienda.

Risposte che in alcuni dipendenti hanno causato stati di ansia al punto da doversi rivolgere a uno psicoterapeuta. Altri, invece, venivano minacciati dai responsabili: «Sappiate che voi quando fuori fa caldo siete al fresco e viceversa e siete comodi nelle vostre postazioni. Se qualcosa non vi sta bene vi posso spostare nei nostri cantieri, in cui stareste in un gabbiotto di legno senza aria condizionata, senza luce e senza bagno, in mezzo alla polvere», gli dicevano.

Un dipendente ha detto di aver presentato un certificato di malattia ma non è stato retribuito. «Sono stato in malattia per 4 giorni, con regolare certificato medico e comunicazioni relative, ma in busta paga quei giorni risultano come non lavorati e di conseguenza non pagati».

GLI ALTRI CASI SIMILI

Altre aziende di vigilanza, per cui era stato disposto il controllo giudiziario, come Mondialpol e Securitalia/Servizi fiduciari, sono poi «rientrate» nella «legalità», alzando gli stipendi. Nelle scorse settimane, inoltre, era stata commissariata anche la All System spa, le cui guardie giurate lavorano anche al Palazzo di Giustizia milanese.

Il provvedimento è stato revocato nei giorni scorsi perché l’azienda ha alzato gli stipendi di quasi il 40 per cento.

YOUSSEF HASSAN HOLGADO. Giornalista di Domani. È laureato in International Studies all’Università di Roma Tre e ha frequentato la Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso. Fa parte del Centro di giornalismo permanente e si occupa di Medio Oriente e questioni sociali.

Il caso a Como. Il caporalato dei vigilantes nel mondo nero delle finte cooperative. Paghe orarie di 5,37 euro lordi, stipendi ridotti fino a 450 euro al mese in caso di malattia, giornate di lavoro da 20 ore, 80 ore di straordinari al mese. Minacce, intimidazioni e violenza verbale e fisica verso i lavoratori. Marco Grimaldi su L'Unità il 28 Luglio 2023

Sveglia a mezzanotte, all’alba o nel pomeriggio se hanno lavorato di notte fino al mattino. Li trovate in divisa sotto il sole, dietro ai metal detector degli edifici pubblici o dei nostri aeroporti. Alcuni di loro hanno il porto d’armi: pattugliano gli edifici, le fabbriche e le proprietà pubbliche e private monitorando i sistemi di allarme o le telecamere di videosorveglianza. Ma c’è anche chi ha solo la divisa, per svolgere funzioni di prevenzione: sono migliaia e migliaia, invisibili agli occhi di molti, li potete vedere in ogni centro commerciale a controllare l’antitaccheggio, dietro una telecamera o davanti a un locale.

A fine giugno un’inchiesta della Guardia di finanza di Como per sfruttamento del lavoro e caporalato induce il gip di Milano a disporre il controllo giudiziario (ovvero il commissariamento) per la società Servizi Fiduciari, cooperativa del grande Gruppo comasco Sicuritalia, leader nel mercato italiano e secondo gruppo del settore in Europa per la sicurezza e la vigilanza privata. L’inchiesta rileva paghe orarie di 5,37 euro lordi, pari a circa 930 euro lordi e 650 netti al mese, ma anche stipendi ulteriormente ridotti fino a 450 euro al mese in caso di malattia, giornate di lavoro da 20 ore, 80 ore di straordinari al mese. Poi carenze igienico-sanitarie, insalubrità o pericolosità intrinseche, minacce, intimidazioni e violenza verbale e fisica verso i lavoratori.

Sono quelli che l’amministratore delegato del Gruppo, Lorenzo Manca, avrebbe chiamato “gli omini disarmati che presidiano le reception e i cantieri”, ovvero chi fa portierato semplice senz’arma: 9mila addetti alla vigilanza alle dipendenze della cooperativa Servizi Fiduciari. Ricordiamoci che è apparsa un’altra parola chiave dell’epopea: cooperativa. A questa parola si lega un imperativo: prezzi competitivi. Da questo imperativo un esito troppo scontato: sfruttamento del lavoro. Ed è proprio questa l’ipotesi di reato. Mentre i dipendenti ricevevano i loro 5,37 euro l’ora, il Gruppo Sicuritalia dal 2016 raddoppiava i suoi introiti, registrava fatturati in crescita anche durante la pandemia, fino a raggiungere più di 100mila clienti e ricavi per oltre 700 milioni e più di 17 mila dipendenti.

Il 18 luglio anche Mondialpol viene commissariata, con gli stessi capi d’accusa. Un altro colosso della vigilanza privata, con più di duemila dipendenti e duecento milioni di fatturato annuo. In attesa della convalida del decreto da parte del gip di Milano, le indagini della Guardia di finanza di Milano, ancora in corso, rilevano fenomeni di intermediazione illecita e sfruttamento, retribuzioni molto al di sotto della soglia di povertà sproporzionate rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato (paghe da 4,50 l’ora e turni di 12 ore), concorrenza sleale. E ancora: minacce di trasferimento se non si accettano le condizioni di lavoro imposte, doppi turni, decine di ore di straordinario per arrivare a meno di 1000 euro al mese.

Il settore della vigilanza privata e dei servizi di sicurezza conta circa 100mila addetti, ma è enormemente frammentato e pullula di false cooperative e appalti al massimo ribasso. Applicano un contratto pirata? Purtroppo no. Il “Servizi Fiduciari” è un contratto collettivo nazionale firmato da Cgil e Cisl. È importante, però, stabilire quando: ovvero nel 2013. È questo stesso contratto a prevedere un trattamento economico orario di 5,49 euro lordi. Minimi salariali dichiarati incompatibili con l’articolo 36 della Costituzione da diverse sentenze. Ecco perché chiediamo spesso di rinnovare i Ccln scaduti e ormai non più adeguati al costo della vita.

Il rinnovo di questo contratto, atteso da tempo, finalmente c’è stato ed è valido da luglio. Ci sono voluti anni di mobilitazioni e scioperi, per arrivare alla firma fra Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltucs da una parte, e le associazioni datoriali Anivip, Assiv, Univ, Legacoop Produzione e Servizi, Agci Servizi e Confcooperative Lavoro e Servizi dall’altra. I sindacati vedono questa firma come un primo passo necessario, ma non sufficiente, e sperano che le vicende giudiziarie aiutino la contrattazione a compiere ulteriori passi avanti.

Che cosa ha fruttato rispetto alla miserevole situazione di partenza? Un aumento delle retribuzioni di 140 euro a buste paga da 950 euro lordi. Un aumento dilazionato in tre anni per rimanere comunque sotto i 7 euro lordi orari. Per ottenere uno stipendio dignitoso i lavoratori saranno in ogni caso costretti a fare molto di più delle 173 ore mensili, circa dieci ore di straordinari a settimana in media. Esattamente come il Multiservizi imposto ai lavoratori di Mondo Convenienza, il “Servizi fiduciari” è un Ccln povero, più volte dichiarato non conforme al dettato costituzionale in tema di retribuzione. E continuerà a esserlo. Eppure, Sicuritalia e Cosmopol avevano addirittura deciso di abbandonarlo per aderire ad Ani-Sicurezza di Confimpresa, un contratto ‘pirata’ ancor meno retribuito.

Nel 2013 il Servizi fiduciari nasceva già con un elemento di dumping con l’obiettivo di far emergere il settore. Sicuritalia, usando la cooperativa e la normativa connessa, ha sistematicamente derogato a quello stesso contratto: i soci lavoratori, di anno in anno, hanno approvato deroghe sotto la minaccia di un dissesto economico-finanziario della cooperativa e ripercussioni sui livelli occupazionali.

Riprendiamo una parola segnata prima: cooperativa. Aggiungiamo un aggettivo fondamentale: finta. Più volte i rappresentanti sindacali di Servizi Fiduciari hanno denunciato prassi assembleari a scapito dei soci lavoratori. Indagini della Guardia di finanza hanno fatto emergere “la sostanziale inesistenza della partecipazione dei soci lavoratori alla direzione della cooperativa e la sua eterodirezione da parte dei vertici della principale società committente”. Io la penso da sempre nello stesso modo: se c’è un padrone, non siamo in presenza di una cooperativa e quella truffa ai danni delle lavoratrici e dei lavoratori va sventata.

“Con o senza pistola sul tavolo o nella fondina, siamo troppo deboli in questo braccio di ferro”, mi dice al telefono una delegata della CGIL.

Addirittura, Filcams-Cgil e Fisascat-Cisl hanno avviato una class action contro le aziende del settore proprio sulla parte salariale che riguarda i servizi fiduciari su cui hanno firmato il Ccnl: in sostanza si chiede a un giudice di dichiarare “illegale” una parte del contratto e disapplicarla. Il fatto è che – come ha scritto Giuseppe Martelli sulla rivista Jacobin – la contrattazione si fonda su un principio che in buona parte del terziario povero non vale: redistribuire la ricchezza che l’impresa produce tramite la creazione e la vendita di valore aggiunto.

La verità è che ci sono settori – servizi, pulizie, accoglienza, vigilanza, ristorazione, accoglienza – dove non esiste valore da estrarre e vale la logica del massimo ribasso. Qui il principio per fissare il salario dovrebbe essere questo: può un essere vivente prestare quanto ha di più prezioso (il proprio tempo) per meno di 9 euro l’ora? Ed è la stessa Filcams Cgil a insistere sull’introduzione del salario minimo legale per sostenere la contrattazione collettiva. Secondo l’Istat, sono oltre 3 milioni i lavoratori con retribuzioni orarie al di sotto dei 9 euro lordi. Nei servizi, dove il valore degli appalti è sempre più al ribasso, una legge come questa sarebbe decisiva.

Non parliamo esattamente di un mercato marginale e nemmeno completamente slegato dal pubblico. Poste Italiane, Intesa Sanpaolo sono clienti Mondialpol. A Sicuritalia appaltano la vigilanza alcune Regioni, oltre a Carrefour, Lidl, Barilla, Telecom ed Esselunga. Esselunga che, per inciso, è indagata per una frode fiscale sull’Iva attuata proprio grazie a cooperative come la Servizi Fiduciari. Quando lo Stato è “stazione appaltante”, evidentemente si avvantaggia di questo dumping.

Vale soprattutto per il Multiservizi usato per le pulizie di ospedali, uffici regionali, sedi Inps, agenzie delle entrate. Portare la paga minima a 9 euro determinerebbe un’esplosione del costo nelle gare d’appalto pubbliche? Certamente aumenterebbe la spesa. Ma è un “prezzo” che dobbiamo pagare. Perché se lo Stato non ha la forza di dire ai privati che il lavoro non può essere pagato 4 euro e mezzo l’ora, che l’articolo 36 della Costituzione va osservato, e addirittura diventa produttore di lavoro povero, il fallimento è del senso stesso dell’istanza pubblica.

Il governo Meloni può continuare a rinviare, chiedere tempo per un confronto che non ha mai aperto, o scappare sotto l’ombrellone sperando che le opposizioni cambino argomento. Ma non ci si può nascondere per sempre e noi non molleremo. Perché ci riguarda e riguarda una grande parte del Paese. Serve un salario minimo legale. Per loro, per la contrattazione collettiva, ma anche per tutte e tutti noi.

Marco Grimaldi, Deputato Alleanza Verdi Sinistra, 28 Luglio 2023

Il caso Mondialpol a Milano. Vigilanza privata nuovo caporalato, stipendi meno del reddito di cittadinanza: per superare 1000 euro oltre 70 ore di straordinario. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 19 Luglio 2023 

Il contratto nazionale di lavoro della vigilanza privata e dei servizi fiduciari è “anticostituzionale”. Lo ha stabilito ieri la Procura di Milano che ha disposto l’amministrazione giudiziaria per la società Mondialpol, uno dei colossi della vigilanza privata, accusata di caporalato per aver posto i propri lavoratori “in condizioni di sfruttamento e approfittando del loro stato di bisogno”, pagandogli “retribuzioni sotto la soglia di povertà”.

“Una somma – si legge negli atti dell’inchiesta del sostituto procuratore di Milano Paolo Storari – che non è proporzionata né alla quantità né alla qualità del lavoro prestato al fine di garantire una ‘esistenza libera e dignitosa’ in violazione dell’articolo 36 della Costituzione”.

La retribuzione prevista è pari 5 euro e 37 centesimi l’ora, come indicato dalle tabelle allegate al contratto collettivo nazionale della vigilanza privata e servizi fiduciari che sono tranquillamente consultabili in rete. Sulla carta, dunque, tutto regolare.

Questo Ccnl, infatti, risulta essere stato sottoscritto dalle rappresentanze sindacali e dalle varie associazioni di categoria, e quindi presentato alla competente Direzione generale del Ministero del lavoro.

Purtroppo, per la Procura di Milano il personale di Mondialpol era costretto ad accettare di fare prestazioni straordinarie di lavoro in quantità abnorme in modo da poter raggiungere uno stipendio che gli potesse “garantire un minimo di sopravvivenza”.

Il Pm Storari ha quindi nominato un amministratore giudiziario per procedere alla “regolarizzazione dei lavoratori” che si trovano in una “situazione di sfruttamento dello stato di bisogno” e che “deve al più presto essere interrotta”. L’inchiesta della Procura milanese, condotta dalla guardia di finanza, era nata nei mesi scorsi dopo una serie di sentenze sull’incostituzionalità delle buste paga previste da questo contratto da parte della Sezione lavoro del tribunale del capoluogo lombardo. I finanzieri hanno raccolto le testimonianze di alcune decine di lavoratori che Mondialpol impiegava presso vari clienti, fra cui Poste Italiane, Intesa Sanpaolo, Iper, Banco Desio, Lidl e Kuwait Preoleum Italia, tutti estranei all’indagine. Sentiti a verbale, gli operatori avevano confermato di percepire “tra gli 850 ed i 1000”, incluse le ore di straordinario, per quasi 200 ore di lavoro al mese.

Nonostante un contratto con paghe da fame, i vertici della società avevano cercato al momento dell’assunzione del personale, di diminuire il compenso orario da 5 euro l’ora a 3 euro l’ora. “Senza lo straordinario la mia busta paga non raggiungerebbe gli 800 euro netti” ha raccontato agli investigatori un lavoratore. Notturni sia feriali che festivi che domenicali erano poi considerati come lavoro normale, senza alcuna maggiorazione.

Il contratto dei servizi fiduciari, quindi senza l’arma, è impostato su 40 ore settimanali con turni di 8 ore. Lo stipendio base è circa 650 euro al mese, meno del reddito di cittadinanza e sotto la soglia di povertà. Per raggiunge una cifra dignitosa, almeno 1200 euro netti al mese, è necessario dunque effettuare circa 70/80 ore di straordinario che influiscono per 450/500 euro.

La Procura di Milano ha indagato il rappresentante legale della società di vigilanza, Fabio Mura, che avrebbe commesso i reati “nell’interesse e a vantaggio della società” che “per colpa non ha adottato efficaci procedure idonee a prevenire la commissione di reati” e, per questa ragione, è a sua volta indagata per la legge sulla responsabilità amministrativa degli enti. Il provvedimento dovrà essere ora convalidato dal gip.

Nelle scorse settimane, sempre la Procura di Milano aveva disposto un’analoga indagine per la società Servizi Fiduciari, cooperativa del gruppo Sicuritalia. La domanda da porsi, in attesa degli sviluppi dell’indagine, è come sia stato possibile per i sindacati firmare nel 2023 un contratto di lavoro con paga indecorose per la dignità del lavoratore. Paolo Pandolfini

 La vita d’inferno delle guardie giurate. Tra aumenti miseri, stipendi sotto la soglia di povertà e società strozzine. Paghe da fame, turni pesanti, lavoro precario in cooperative finte e subappalti selvaggi: è quello che succede a vigilanti privati. Ora la magistratura mette nel mirino Sicuritalia e Mondialpol. E scatta il sequestro a carico di Esselunga per i servizi esternalizzati. Paolo Biondani e Gloria Riva su L'Espresso il 22 Giugno 2023 

La vita d’inferno delle guardie giurate. Tra aumenti miseri, stipendi sotto la soglia di povertà e società strozzine. Paghe da fame, turni pesanti, lavoro precario in cooperative finte e subappalti selvaggi: è quello che succede a vigilanti privati. Ora la magistratura mette nel mirino Sicuritalia e Mondialpol. E scatta il sequestro a carico di Esselunga per i servizi esternalizzati. Paolo Biondani e Gloria Riva su L'Espresso il 22 Giugno 2023 

La sveglia suona alle 2,15. Il tempo di ruzzolare giù dal letto, indossare la divisa, infilare la pistola nella fondina e Matteo Locatelli, 48 anni, è in servizio al controllo bagagli del più grande aeroporto del Nord Ovest. Domanda di slacciare cinture e togliere le scarpe. Controlla ai raggi X i bagagli di ciascuno dei circa 5mila viaggiatori quotidiani.

Milano, giudice: paghe da fame sono illegittime, anche se accettate dai sindacati. Salvatore Toscano su L'Indipendente il 7 Aprile 2023

Una lavoratrice di Padova, la quale svolgeva un lavoro subordinato al contratto collettivo nazionale di Vigilanza privata-Servizi fiduciari, ha vinto la causa intentata contro il proprio datore di lavoro per via della paga troppo bassa. Secondo il giudice del tribunale di Milano, infatti, una paga misera – la donna percepiva appena 3,96 euro l’ora, per un totale netto di 640 euro al mese – è incostituzionale in quanto “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (articolo 36 della Costituzione). La sentenza crea un precedente importante, dal momento in cui dichiara illegittimo un contratto collettivo nazionale, accettato dunque dai sindacati, in base al quale sono stati assunti decine di migliaia di lavoratori, che ora potranno pretendere condizioni economiche migliori.

Lavorare dodici mesi l’anno per percepire uno stipendio inferiore al reddito di cittadinanza e vivere al di sotto della soglia di povertà, fissata dall’ISTAT a 840 euro mensili. Un destino che accomuna circa un lavoratore italiano su dieci. Una parte di questi offre la propria forza lavoro seguendo le condizioni dettate da un contratto collettivo nazionale, frutto dunque di un’intesa tra le aziende e le forze sindacali, che dovrebbero in teoria tutelare i dipendenti. Il giudice del lavoro di Milano, Tullio Perillo, ha però condannato la Civis, importante società di vigilanza privata con sede legale a Milano, a pagare a una propria dipendente un risarcimento di 372 euro lordi in più per ogni mese (oltre 6.700 in totale), ovvero il differenziale tra la paga versata e quella prevista per un servizio di portierato. «È una vittoria storica, che apre la strada anche ad altri lavoratori nella stessa situazione in Italia, circa 100mila, e soprattutto dice ai sindacati che avevano siglato questo collettivo, nel caso specifico CGIL e CIS, che quei contratti da fame non vanno firmati», ha commentato Mauro Zanotto di ADL Cobas, la quale ha sostenuto la lavoratrice durante la causa.

L’associazione sindacale ha poi aggiunto che a Padova, dove vive la lavoratrice, sarebbero pendenti un’altra ventina di cause simili, sempre legate al settore dei servizi fiduciari, in cui insistono 4 contratti collettivi differenti. «Non solo in aziende private, come Civis, ma anche in settori del pubblico impiego, Esu, ospedali, Agenzia delle Entrate». Si tratta soltanto della punta di un iceberg tutto italiano su cui la sentenza del giudice Tullio Perillo ha puntato i riflettori. [di Salvatore Toscano]

Estratto dell’articolo di Cristiano Cadoni per lastampa.it il 6 aprile 2023.

Povero, anzi poverissimo. E pure contrario ai princìpi della Costituzione. Quello dei lavoratori con contratto Vigilanza privata e Servizi fiduciari - addetti alle portinerie ma con tante altre mansioni, anche qualificate - è uno stipendio da fame, irrispettoso della dignità delle persone.

 Lo ha stabilito, con una sentenza storica, un giudice del lavoro di Milano che ha accolto il ricorso di una lavoratrice padovana, sostenuta nella sua causa da Adl Cobas Padova e dagli avvocati, anch’essi padovani, Giorgia D’Andrea e Giacomo Gianolla.

La paga di 3,96 euro orari che veniva corrisposta alla lavoratrice - quella prevista dal contratto nazionale - per il giudice viola l’articolo 36 della Costituzione, laddove è sancito che «il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Dunque uno stipendio di 930 euro lordi al mese - poco più di 640 netti - è illegittimo, anche perché inferiore al reddito di cittadinanza o a una mensilità di cassa integrazione.

 Per questo la causa è stata accolta e la Civis, società di vigilanza per la quale lavora la donna, è stata condannata a pagare un risarcimento di 372 euro lordi in più per ogni mese (6,756,04 in totale), cioè la differenza tra la paga versata e quella prevista per un servizio di portierato, che pure sarebbe il lavoro povero per eccellenza.

La sentenza spalanca scenari tutti da esplorare per almeno tre motivi. Il primo: dietro questa causa ce ne sono tante altre avviate da lavoratori che hanno lo stesso contratto.

 Il secondo: i lavoratori dei servizi fiduciari sono impiegati soprattutto da enti pubblici. […] Fanno funzionare servizi essenziali ma sono sfruttati, nel silenzio complice degli enti.

 Il terzo motivo: ora quel contratto nazionale - sottoscritto da Cgil e Cisl - teoricamente non può più essere applicato, a meno che le società non adeguino il trattamento, che era comunque - nel caso della Civis - inadeguato anche per altri aspetti.

Ma anche gli altri contratti di settore (l’Aiss e il Safi, sottoscritti da altri sindacati) nella sentenza sono stati certificati come inadeguati, perché prevedono retribuzioni mensili che variano dai 642,34 euro (Aiss) ai 711,29 (Safi).

 La causa e le condizioni di lavoro

La vicenda prende avvio a novembre del 2022 quando una lavoratrice padovana […] ricorre contro il trattamento economico che le spetta in base al contratto nazionale, chiedendo che sia adeguato quantomeno a quello dei servizi di portierato.

 La donna porta a casa poco più di mille euro al mese ma solo perché fa oltre 160 ore di straordinario al mese, condizione anche questa oggetto di contestazione.

 Oltretutto Civis non le paga la malattia (e la sentenza la condanna a risarcire 345,45 euro per questa voce).

[…] «Il fatto che sia lo stipendio previsto dal contratto nazionale approvato da Cgil e Cisl - punto sul quale si è basata la difesa di Civis - non può essere una giustificazione», sottolineano i legali, «perché i sindacati possono anche conoscere bene la realtà lavorativa ma non stabilire cosa è dignitoso e cosa no».

 […] Terzo aspetto, gli straordinari. Tra i lavoratori c’è chi ne fa più di 80 ore al mese, da aggiungere a orari già massacranti. «Civis ha sostenuto che il lavoro non è pesante perché discontinuo», spiega Marco Zanotto di Adl Cobas, «ma questi lavoratori non si limitano ad aprire una porta. Controllano gli accessi, sbrigano la corrispondenza, danno informazioni, gli è richiesta formazione antincendio, sono impegnati di continuo. Nel periodo del Covid gestivano anche gli accessi ai punti tampone». […]

La lotta contro la paga sotto la soglia di povertà. “Lo stipendio da 3,96 l’ora è anticostituzionale”, la storica sentenza che condanna l’azienda. Elena Del Mastro su Il Riformista il 6 Aprile 2023

La sua paga effettiva oraria era di 3,96 all’ora, lavorando per 12 mesi all’anno per una società di vigilanza, nonostante l’applicazione del contratto nazionale di settore. Secondo un giudice del lavoro di Milano una paga che la poneva sotto la soglia di povertà, dunque anticostituzionale. Così ha dato ragione a una lavoratrice perché, si legge nella sentenza, è stato violato l’articolo 36, secondo il quale “il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

A ricostruire la vicenda è l’Ansa. La lavoratrice, impiegata nel servizio di portierato in un magazzino della grande distribuzione, percepiva uno stipendio netto intorno ai 640 euro, meno del reddito di cittadinanza. Secondo l’Istat la soglia di povertà è stimata a 840 euro. Sul tavolo del giudice ci sarebbero anche altre sentenze simili. Con la sentenza l’azienda è stata condannata a pagare un risarcimento per ogni mese di lavoro effettuato, ovvero il differenziale tra la paga versata e quella prevista per un servizio di portierato.

La mia cliente doveva insomma lavorare circa 70 ore alla settimana per ottenere uno stipendio che si aggirasse intorno ai mille euro – ha detto l’avvocato Giacomo Gianolla a Repubblica – Una situazione assurda, com’è assurdo che un suo collega single, non potendo contare su nessun supporto per il pagamento dell’affitto, sia costretto da almeno due anni a vivere con il frigorifero spento perché altrimenti non riuscirebbe a far fronte al pagamento delle bollette. Mio nonno negli anni Settanta scaricava le merci dalle navi al porto di Venezia e poteva permettersi di tenere il frigo acceso. Sono passati 50 anni e siamo tornati drammaticamente indietro“.

Nella sentenza si legge infatti che “non si può certo ritenere sufficiente e proporzionata una retribuzione laddove sia inserita all’interno di una contrattazione collettiva che pure remuneri in maniera significativa il lavoro straordinario, di fatto imponendo a ogni lavoratore di lavorare tutte le ore di straordinario possibili, così anche rischiando di pregiudicare la propria salute, per potersi allineare a valori economici di stipendio dignitosi”.

Il legale ha spiegato che il tribunale si è pronunciato sulla nullità del contratto collettivo applicato in quell’azienda, che non è rinnovato da oltre dieci anni e prevedeva una retribuzione davvero ridicola per un lavoro a tempo pieno. “Un lavoratore è così obbligato, per arrivare a 1200/1300 euro mensili, a fare fino a mille ore di straordinario all’anno – ha detto ancora l’avvocato – Il che vuol dire, tolte le ferie, più di 100 ore al mese. Quindi circa 270 ore al mese. Vuol dire lavorare anche 12 ore al giorno”. Una sentenza definita “storica” da Adl Cobas che ha sostenuto la battaglia della lavoratrice: “Apre la strada anche ad altri lavoratori nella stessa situazione in Italia, circa 100mila”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Ridotti in schiavitù nei campi fotovoltaici del Salento, 90 anni di reclusione in 7 condanne. L’indagine è partita nel novembre 2010 dalla Procura di Brindisi dopo le denunce di numerosi lavoratori che operavano nei 17 cantieri di fotovoltaico sparsi tra le province di Lecce e Brindisi. ANGELO CENTONZE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 5 Aprile 2023

Si conclude con sette condanne per 90 anni complessivi di reclusione, il processo relativo alla maxi inchiesta sugli «schiavi del fotovoltaico».

La sentenza è stata emessa, nella mattinata di ieri, presso l’aula bunker di Borgo San Nicola, dai giudici della Corte d’Assise di Lecce (presidente Pietro Baffa, a latere Maria Francesca Mariano e giudici popolari) che hanno inflitto la pena di: 18 anni di reclusione nei confronti di Josè Fernando Martinez Bascunana, spagnolo, 49enne, socio amministratore dell’azienda italo-spagnola Tecnova Italia s.r.l. con sede a Brindisi (da tempo fallita); 16 anni per il socio Luis Miguel Cardenos Castellanos, 44enne di nazionalità colombiana e per l’amministratore Luis Manuel Gutierrez Nunez, spagnolo, 50enne. Condanna a 10 anni per: Brahim Lebhihe, magrebino, 38enne; Didier Gutierrez Canedo, spagnolo, 31enne; Andres Felipe Higuera Castellanos, capo cantiere, colombiano di 45 anni, nelle vesti di capo cantiere; Laura Martin Garcia, spagnola, 43 anni. Gli imputati potranno presentare ricorso in Appello, attraverso i propri legali, appena verranno depositate le motivazioni della sentenza (entro 90 giorni).

Nella scorsa udienza, invece, si è tenuta la requisitoria dal pm Carmen Ruggiero della Direzione distrettuale antimafia. Gli imputati rispondevano, a vario titolo ed in diversa misura, dei reati di associazione a delinquere, riduzione in schiavitù ed estorsione. I giudici, al termine del processo, hanno dichiarato il non doversi procedere per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, per intervenuta prescrizione (come chiesto dalla Procura).

I giudici hanno assolto cinque imputati con formula piena per non aver commesso il fatto. Si tratta di: Manuela Costabile, 46enne di Brindisi (chiesti 8 anni), all’epoca dei fatti responsabile amministrativa della società; Cosima De Michele, 68enne di Brindisi (chiesto 7 anni) e Marco Damiano Bagnulo, 33enne di Brindisi (chiesti 6 anni), nelle vesti di titolari di uno studio di consulenza che indicava alla Tecnova, i lavoratori stranieri privi di permesso di soggiorno. Assoluzione anche per Tatiana Tedesco, 37enne di Brindisi e Annamaria Bonetti, 39enne di San Pietro Vernotico, collaboratrici dipendenti dell’ufficio brindisino della Tecnova (anche il pm aveva chiesto l’assoluzione).

Il collegio difensivo è composto, tra gli altri, dagli avvocati Pantaleo Cannoletta, Ladislao Massari, Ivan Feola, Gianvito Lillo, Sergio Luceri e Fabio Di Bello.

I giudici hanno disposto anche il risarcimento del danno, in separata sede, in favore delle parti civili (circa 300), tra lavoratori e associazioni, assistite, tra gli altri, dagli avvocati Salvatore Centonze, Alessandro Stomeo, Marco Pezzuto, Giuseppe Milli, Francesco Spagnolo, Maurizio Scardia, Germana Greco, Americo Barba. Tra le parti civili anche la Provincia di Lecce, assistita dall’avvocato Francesca Conte.

Secondo l’accusa, i responsabili della società italo-spagnola Tecnova Italia s.r.l. avrebbero assunto cittadini extracomunitari privi di permesso di soggiorno favorendo la loro permanenza irregolare in Italia e facendoli lavorare in condizione di asservimento. I lavoratori erano costretti a lavorare 12 ore al giorno per due euro l’ora, anche sotto il sole cocente o la pioggia battente.

L’indagine è partita nel novembre 2010 dalla Procura di Brindisi dopo le denunce di numerosi lavoratori che operavano nei 17 cantieri di fotovoltaico sparsi tra le province di Lecce e Brindisi. Nel leccese i cantieri erano sorti a Frigole, Galatina, Collepasso, Guagnano, Nardò, Ortelle, Salice Salentino e Spongano. Nel brindisino, invece, a Cellino San Marco, Francavilla Fontana e Torre Santa Susanna.

 (ANSA il 28 marzo 2023) Quasi 2.000 lavoratori irregolari, per lo più bengalesi e dell'Europa dell'est, retribuiti con paghe misere, sono stati scoperti dalla Guardia di Finanza nella cantieristica navale di Venezia, nell'ambito di un'attività investigativa coordinata dalla Procura della Repubblica lagunare.

 L'indagine, in collaborazione con l'Ispettorato del lavoro, era mirata a far emergere l'esistenza di sistematiche condotte di sfruttamento della manodopera all'interno dei cantieri navali veneziani. Si tratta di lavoratori che venivano retribuiti con paghe irregolari e spesso privati dei più elementari diritti sanciti dai contratti collettivi.

 (ANSA il 28 marzo 2023) La scoperta di un così alto numero di operai irregolari e sottopagati è il risultato dell'esame da parte dei finanzieri della cospicua documentazione trovata nelle sedi di società di appalti, affidatarie dei lavori di carpenteria meccanica, e afferenti l'impiego e la retribuzione di forza lavoro presso diversi cantieri navali, dislocati a Venezia ma anche nel resto d'Italia. penisola.

Sono stati acquisiti, in particolare, elementi circostanziati sullo sfruttamento di 383 lavoratori, costretti - spiegano gli investigatori - ad accettare, per il loro stato di bisogno, condizioni di lavoro molto sfavorevoli e con una paga oraria inferiore ai 7 euro. Da parte di queste imprese appaltatrici vi era il sistematico ricorso al meccanismo della cosiddetta "paga globale", in virtù del quale il lavoratore veniva retribuito, a prescindere dalle previsioni del contratto collettivo nazionale di settore, con una paga oraria forfettaria, parametrata esclusivamente alle ore lavorate.

Da qui buste paga fittizie, contenenti voci artificiose - quali anticipo stipendio, indennità buono pasto, bonus 80 euro, indennità di trasferta - di fatto mai erogate al lavoratore e preordinate a sottrarre a ritenuta fiscale, previdenziale e assistenziale gli emolumenti corrisposti.

Turni estenuanti e nessun diritto: il caporalato ha conquistato anche la Lombardia. Raffaele De Luca giovedì 27 luglio 2023.  

Nel nostro Paese, generalmente, si tende a considerare il caporalato in agricoltura come un fenomeno legato prevalentemente al Mezzogiorno nonostante esso interessi in maniera importante anche il Nord Italia: a sottolinearlo è un rapporto dell’associazione ambientalista Terra!, con il quale è stata posta la lente di ingrandimento sullo sfruttamento dei lavoratori in Lombardia. Quest’ultima, infatti, è una delle regioni più colpite da procedimenti giudiziari legati al caporalato, che riesce ad essere portato avanti grazie a forme sofisticate e spesso collocate al limite tra legalità e illegalità. Turni estenuanti, contratti pirata ed il cosiddetto lavoro grigio sono solo alcuni dei modi con cui lo sfruttamento dei lavoratori ha luogo in Lombardia, la cui situazione conferma come il caporalato sia in troppi casi la norma anche nelle regioni del Nord: dei 405 distretti italiani in cui viene commesso il reato di sfruttamento del lavoro in agricoltura, infatti, circa un terzo si trova al Nord.

Concentrandosi sulle provincie di Mantova, Brescia, Bergamo e Cremona, il rapporto ha analizzato tre importanti filiere produttive che in Lombardia vedono il loro centro nevralgico: quella del melone, delle insalate in busta e della carne. Ebbene, la produzione del melone pare inficiata dalla sopracitata pratica del lavoro grigio, una tecnica “largamente utilizzata nel mondo agricolo italiano” consistente nel “segnare un numero inferiore di giornate rispetto a quelle realmente lavorate”. Così facendo, la tassazione viene applicata “soltanto sulla quota rilevata”, il che si traduce in “meno contributi da versare per l’impresa e un salario arbitrario nelle tasche dei braccianti”. Gli stessi, poi, sono soggetti ad una condizione di subalternità, nonché a minori garanzie sugli ammortizzatori sociali, dei quali possono godere grazie ad un numero di giornate registrate spesso non veritiero. Per non parlare delle “cooperative senza terra”: vere e proprie “società-contenitore” che “fungono esclusivamente da serbatoi di braccia”. Lo sfruttamento, qui, avviene generalmente in due modi: o l’azienda agricola versa il corrispettivo congruo alla cooperativa, che però elargisce uno stipendio misero ai lavoratori, oppure l’azienda agricola “tira fuori una cifra ben al di sotto della soglia salariale dovuta” di comune accordo con la cooperativa, che “concretizza il proprio guadagno sulla disperazione dei braccianti”.

La filiera produttiva delle insalate in busta, invece, risulta caratterizzata da “turni estenuanti, giungle di contratti e, anche in questo caso, esternalizzazione del lavoro”. Uno degli elementi critici, inoltre, è la corretta remunerazione del prodotto, “pagato spesso meno del dovuto dalle catene della Grande distribuzione organizzata”. Il tutto a danno della parte agricola, che visto l’inadeguato guadagno “taglia i costi”. Tralasciando poi le importanti criticità ambientali legate a prodotti del genere – come l’eccesso di imballaggi in plastica – certamente da menzionare sono le condizioni lavorative cui devono sottostare gli operai. “Uno degli assiomi del settore è mantenere basse le temperature per la deperibilità del prodotto vegetale”, afferma il rapporto, in cui viene sottolineato che i lavoratori devono patire il freddo: il termometro, infatti, “non deve sforare i 7 gradi nelle celle di conservazione ed i 14 negli ambienti di lavoro”.

Ultima ma non meno importante, infine, è la filiera suinicola: la Lombardia “ospita il 50% dei capi suini presenti in Italia”, con “oltre 4 milioni di animali stipati in 6.7471 allevamenti”. Una filiera che dunque non solo genera notevoli criticità ambientali e sanitarie, ma che sembra sfruttare i lavoratori al pari delle altre. “Anche nel caso della filiera suinicola buona parte del lavoro è stato esternalizzato in cooperative”, si legge ad esempio nel rapporto, che precisa come “pur adempiendo in molti casi agli stessi compiti dei dipendenti direttamente assunti dall’azienda, a fine mese gli operai ottengono paghe sensibilmente inferiori e godono di diritti e tutele al ribasso, quando non del tutto inesistenti”. Un’ulteriore prova dello sfruttamento come condizione comune del comparto agroalimentare, che data la sua rilevanza dovrebbe essere migliorato. “È importante intervenire con azioni multilivello che agiscano sui diversi ambiti della filiera”, conclude infatti il rapporto, che “ha dimostrato, ancora una volta, come non esista una sola filiera agricola che possa considerarsi esente da fenomeni di sfruttamento”. [di Raffaele De Luca]

Estratto dell’articolo di Giuliano Foschini per “la Repubblica” l'11 giugno 2023.

Era una donna. Era una madre. Era italiana. Era anche una schiava, e come una schiava è stata fatta morire. Eppure oggi, otto anni dopo, rischia di non avere giustizia: un processo è già finito con un’assoluzione, un altro rischia di finire in prescrizione, probabilmente già in primo grado. Certamente in appello. Paola Clemente è la bracciante pugliese ammazzata dalla fatica il 13 luglio del 2015: raccoglieva acini d’uva per tre euro all’ora a 160 chilometri da casa sua, lei di San Giorgio Jonico, il campo dove è morta ad Andria, sotto il sole a 40 gradi, quando ebbe un malore improvviso.

Non stava bene dalla mattina, quando la portarono in ospedale era già troppo tardi. Paola lavorava per tre euro all’ora, eppure sulla carta era tutto in regola: nella sua borsa il caporale aveva messo una busta paga fittizia, per assicurarsi che tutto andasse bene in caso di controlli. E all’inizio era andata così: Paola era morta, i suoi cari l’avevano pianta, il suo corpo era stato seppellito. Poi però la cocciutaggine e la determinazione di suo marito, Stefano Arcuri, aveva fatto in modo che le cose non finissero come al solito: Stefano, con la Cgil accanto, aveva presentato una denuncia alla procura di Trani, il corpo della Clemente era stato esumato perché potesse essere svolta l’autopsia, un’inchiesta era stata aperta.

[…] le sue colleghe avevano deciso di non stare zitte. Nonostante le minacce del presunto caporale, nonostante la certezza di non poter lavorare più, avevano deciso di sfilare davanti al magistrato per raccontare cosa era accaduto. E soprattutto la modalità con cui si svolgeva ogni giorno il loro lavoro. Hanno depositato l’elenco delle loro giornate di lavoro effettive e di quelle che, invece, venivano denunciate all’Inps: meno della metà. 

Hanno portato le buste paga vere e quelle fasulle, raccontando cos’era accaduto quel 13 luglio: «Paola non stava bene. Ha chiesto di tornare indietro, ma tutti continuavano a ripeterle che era impossibile perché dovevano accompagnare le altre donne per la giornata in campagna. Ha chiesto allora di poter parlare con il marito per farsi venire a prendere. Andria è troppo distante da San Giorgio Jonico, le hanno risposto, consigliandole di sedersi all’ombra di un albero così il malessere le sarebbe passato in fretta».

[…] La morte della bracciante ha dato vita a due fascicoli: il primo, per omicidio colposo, a carico del proprietario dei campi dove Paola lavorava, è finito con un’assoluzione. […] Il punto è però che anche il secondo fascicolo, quello contro i presunti caporali, rischia di finire nel nulla. A quasi otto anni di distanza dai fatti si è ancora al dibattimento. «Procura e tribunale hanno dato un’accelerata, ma è un reato che si prescrive in sette anni e mezzo — spiega l’avvocato — speriamo di farcela almeno per avere una sentenza di primo grado. Ma è difficile. Certamente in un eventuale appello sarà tutto prescritto». […]

Puglia, bracciante morta di fatica nei campi: Terrone assolto dall'accusa di omicidio colposo. L'amministratore unico della società per cui lavorava Paola Clemente 49enne bracciante agricola di San Giorgio Jonico. FRANCESCO CASULA su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Aprile 2023

È stato assolto dall'accusa di omicidio colposo Luigi Terrone, amministratore unico della società per cui lavorava Paola Clemente 49enne bracciante agricola di San Giorgio Jonico nel tarantino, morta di fatica in un vigneto di Andria il 13 luglio 2015. Nella tarda serata di venerdì il tribunale di Trani ha infatti messo la sentenza con la quale ha scagionato l'uomo dalle responsabilità nel decesso della donna: il pubblico ministero Roberta Moramarco aveva chiesto la condanna a 4 anni di reclusione anche sulla base delle perizie depositate dagli esperti nel corso del processo, ma il giudice Sara Pedone ha ritenuto che non vi fossero sufficienti elementi per emettere un verdetto di condanna.

Terrone, seguito dagli avvocati Bepi e Angela Maralfa, è infatti stato assolto perché “il fatto non sussiste” formula prevista quando secondo il giudice “manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova”.

L'accusa nei suoi confronti era di non aver impedito la morte della bracciante dato che alla società “Ortofrutta Meridionale” spettavano «gli obblighi di prevenzione e protezione dei lavoratori somministrati». Già dalla sua partenza da San Giorgio Ionico, la donna aveva spiegato di non sentirsi affatto bene.

Secondo quanto le sue colleghe hanno raccontato al marito, Stefano Arcuri, costituito parte civile attraverso gli avvocati Giovanni Vinci e Antonella Notaristefano, aveva chiesto di essere condotta in ospedale, ma la risposta era stata che bisognava arrivare ad Andria e, una volta lì tra le campagne assolate, era stata invitata a sedersi sotto un albero in attesa che i fastidi passassero. La 49enne, però, è morta proprio sotto l’albero e neppure l’arrivo del personale del 118 era servito a salvarle la vita.

«Maestra, papà è morto di lavoro»: il racconto dei figli dei braccianti sfruttati nelle campagne italiane. Sono piccoli schiavi invisibili, alcuni neanche censiti all’anagrafe, «toccano con mano precocemente le conseguenze dell’impiego dei genitori», si legge nel report di Save the Children. Tra le aree a maggior rischio le province di Latina e Ragusa. Chiara Sgreccia  su L'espresso il 26 Luglio 2023

«Quando ho fame mi cucino da solo, non c’è nessun altro che può farlo per me. Mamma e papà si alzano alle 4 del mattino per andare a lavorare in una fabbrica fuori Pontinia. A volte tornano per pranzo, io sono a scuola, non ci vediamo. Loro poi escono per tornare al lavoro, io torno, mangio, lavo i piatti, faccio i compiti. La sera rientrano non prima di mezzanotte. Io sto già dormendo. A casa con noi vive anche mia nonna, è malata, non riesce più a camminare, il nonno invece esce la mattina poco dopo mamma e papà, anche lui lavora nei campi. Mi piace studiare, vuoi vedere i miei quaderni? Io studio sempre».

Questo il racconto di N. 10 anni, che si legge nella XIII edizione del rapporto “Piccoli schiavi invisibili” redatto da Save the Children, in occasione della Giornata Internazionale contro la tratta di esseri umani, il 30 luglio. Per denunciare un sistema che viola il diritto alla salute e all’educazione di bambine, bambini e adolescenti figli di braccianti. In due delle aree italiane a maggior rischio di sfruttamento lavorativo agricolo: la provincia di Latina, nel Lazio, e la Fascia Trasformata di Ragusa, in Sicilia.

Come N. sono tantissimi i figli di braccianti sfruttati. Che trascorrono l’infanzia in alloggi di fortuna costruiti nei campi, in condizione d’isolamento. Che con difficoltà accedono ai servizi sociali e sanitari e al sistema scolastico. Che restano per lo più invisibili, alcuni neanche censiti all’anagrafe. «Maestra, papà è morto di lavoro!», ha raccontato G., 9 anni, all’insegnante, dopo aver perso il padre stroncato da un infarto mentre lavorava nei campi. «Mi sono dovuto prendere cura della mamma chiamando d’urgenza un’ambulanza», ha spiegato, invece K, 11 anni: «Quel giorno era caduta dall’alto di un’impalcatura per la raccolta in una fungaia tra Sabaudia e Pontinia, ferendosi gravemente, e aveva abbandonato frettolosamente l’ospedale senza denunciare l’accaduto per paura di perdere il posto di lavoro».

Secondo le stime disponibili, gli occupati irregolari nel settore dell’agricoltura in Italia, nel 2021, erano circa 230 mila: in gran parte stranieri non residenti. Vivono soprattutto nelle aree in cui la richiesta di manodopera è più alta, proprio come le provincie di Ragusa e Latina, dove i terreni consentono la coltivazione intensiva e dove sono nati due dei mercati ortofrutticoli più importanti del Paese, il MOF, Centro agroalimentare all’Ingrosso di Fondi e l’Ortomercato di Vittoria: in queste aree lo sfruttamento riguarda un numero elevato di famiglie, schiacciate dalle difficoltà economiche, isolate dal contesto sociale, che spesso vivono in condizioni abitative malsane: «Anche i minori toccano con mano, precocemente, le più drammatiche conseguenze dello sfruttamento subito dai loro genitori. L’assenza quasi completa di ogni dimensione sociale organizzata e condivisa per i minori, fa della scuola l’unico presidio attivo per il contrasto all’isolamento dei bambini», si legge nel report di Save the Children curato anche dalla giornalista Valentina Petrini.

Ma anche a scuola le cose non sono semplici: nella provincia di Latina, ad esempio, più della metà degli operai agricoli censiti sono di origine straniera: 13 mila su 20 mila. La percentuale è la stessa anche tra gli studenti di alcune scuole primarie situate nei Comuni in cui si è svolta la ricerca, dove la mancanza di un adeguato sostegno linguistico rende impossibile la formazione degli allievi: nello scorso anno scolastico, nell’area di Bella Farnia, la mediazione culturale in affiancamento ai docenti era un servizio comunale limitato a 8 ore al mese. «Troppo poco per bambine e bambini che non hanno né tempo pieno né doposcuola gratuito, e non possono essere accompagnati nello studio dai genitori, ostaggio del lavoro dall’alba a notte fonda per poter sopravvivere». Così l’esclusione sociale si radica fin dai primi anni di vita, facilità l’abbandono del percorso scolastico e l’inserimento all’interno di un mondo lavorativo governato dallo sfruttamento. A partire dai 12-13 anni, con paghe che si aggirano intorno ai 20-30 euro al giorno.

L’incrocio testimonianze raccolte nel rapporto: “Piccoli schiavi invisibili” con i dati allarmanti sul lavoro minorile in Italia, secondo cui si stima che tra i 14/15enni che lavorano, il 27,8 per cento, quindi circa 58 mila minorenni, abbia svolto lavori particolarmente dannosi per il proprio sviluppo educativo e per il benessere psicofisico, spingono Save the Children a chiedere Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali di integrare il Piano Triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato con un programma specifico per l’emersione e la presa in carico dei figli dei lavoratori agricoli vittime di sfruttamento. 

Un minore su tre è vittima di sfruttamento secondo Save the children. VALERIA COSTA su Il Domani il 26 luglio 2023

Su 757 vittime di tratta in Italia nel 2021, il 35 percento è minore. Save the children ha redatto un report analizzando i dati legati allo sfruttamento di cittadini italiani e stranieri, concentrandosi in particolare sul caporalato agricolo e analizzando nello specifico le province di Latina e Ragusa

In occasione della giornata internazionale contro lo sfruttamento minorile del 30 luglio, Save the children ha pubblicato la XIII edizione del rapporto “Piccoli schiavi invisibili”. Nel report si legge che, secondo le stime delle Nazioni unite, in Italia nel 2021 sono state individuate 757 vittime di tratta, di cui il 35 percento sono minori per un totale di 264 bambini. Di questi 431 sono stati vittime di tratta a fini di sfruttamento sessuale, 204 per sfruttamento di manodopera e 122 per altre finalità. 

Nel 2022, delle oltre duemila persone valutate in totale come possibili vittime di tratta e sfruttamento dai 21 Progetti anti-tratta operativi sul territorio nazionale, 101 erano minori. Tra le nuove prese a carico (850) sempre nel 2022, 14 erano minori.

Tracciare gli sfruttati, specialmente i minori però non è semplice. Spesso i bambini non sono neanche iscritti all’anagrafe o le famiglie non riescono ad ottenere una residenza con tutte le conseguenze che ciò comporta per i servizi che spetterebbero loro.

Save the children ha deciso di concentrarsi sul mondo del caporalato e lo sfruttamento agricolo prendendo a esempio due casi limite: le province di Latina e la Fascia trasformata di Ragusa.

Si tratta delle due zone dove insistono i mercati ortofrutticoli più grandi del paese: il Centro Agroalimentare all’Ingrosso di Fondi (Mof) in provincia di Latina, e l’Ortomercato di Vittoria. 

Che infanzia vive un minore figlio di braccianti sfruttati? Questa la domanda fondamentale a cui il rapporto vuole dare risposta. Dal lavoro sul campo dei volontari di Save the children apprendiamo che I braccianti e i loro figli sono soggetti fragili che spesso non conoscono né l’italiano né il nostro sistema legislativo e non hanno la consapevolezza di avere dei diritti. A catena anche i figli non elaborano sin da piccoli il concetto di diritto e crescono per essere i prossimi nuovi sfruttati.

LATINA

L’osservazione condotta sul campo si è concentrata qui tra Latina, Bella Farnia, Borgo Hermada, Borgo San Donato, Pontinia e Borgo Montenero.

Nella Provincia di Latina ci sono circa 20mila operai agricoli censiti o regolari, di cui circa 13mila di origine straniera e i restanti 7 mila circa di origine italiana. Ma ci sono anche gli irregolari, pure in questo caso difficili da conteggiare. Nel complesso si parla di un’industria da più di quattro miliardi: il valore della produzione a prezzi correnti di agricoltura, silvicoltura e pesca nel Lazio per il 2022.

Nelle province di Latina la maggior parte della popolazione agricola delle zone visitate è di origine indiana, precisamente del Punjab. I minori incontrati da Save the children in quelle zone trascorrono molto tempo soli oltre l’orario scolastico e crescono i fratelli e sorelle più piccoli. In provincia di latina Il livello di scolarizzazione è diffuso, almeno fino a 16 anni. Molti di loro non fanno sport, né altre attività ricreative ,ma ci sono anche alcuni casi limite come bambini di 6/7 anni con depressione diagnosticata dal pediatra o con difficoltà a gestire la rabbia, a causa della situazione familiare disagiata.

RAGUSA

La fascia trasformata – così chiamata perché negli anni settanta intraprendenti agricoltori convertirono il terreno sabbioso in lavorazione a serra – consta di 80 chilometri di costa, più di 5mila aziende agricole per un totale di oltre 28mila lavoratori e lavoratrici di cui poco più di sono 15.000 mentre la restante parte è straniera. Ci sono poi gli irregolari ma anche in questo caso non sono quantificabili.

La fascia si estende da Gela fino a Pachino ma la sua parte centrale è nella provincia di Ragusa. La produzione è intensiva e continua tutto l’anno, questo la distingue da altri contesti agricoli per la necessità di manodopera continuativa  che ha fatto sì che molti lavoratori stranieri si stabilizzassero nella zona. 

I PROBLEMI PRINCIPALI

Con le peculiarità che contraddistinguono le due zone, il rapporto ha evidenziato i problemi che i minori di braccianti sfruttati si trovano costretti ad affrontare dovunque si trovino.

Emergenza scuola: Diversi bambini lavorano nei campi a partire già dai 12-13 anni con paghe che si aggirano intorno ai 20-30 euro al giorno, iniziano a lavorare nei campi. L’età scende a 10 durante il periodo di raccolta.

Si può trattare di un lavoro a tempo pieno o, più spesso, limitato al tempo extra-scolastico quotidiano. I bambini però in questo secondo caso non hanno tempo di fare i compiti e il loro rendimento scolastico ne risente, con adolescenti che iniziano le superiori anche a 16-17 anni. Oppure sono stanchi e si addormentano in classe. 

Trasporti: I ghetti in cui sono relegati con le famiglie sono lontani chilometri dai centri abitati. Per le famiglie diventa quasi impossibile anche fare la spesa o recarsi al pronto soccorso in caso di bisogno, quando invece non preferiscono ignorare i problemi fisici per paura di perdere il loro lavoro.

I padroni se ne approfittano e si fanno pagare per i passaggi alla cittadina più vicina. Non solo, il servizio di scuolabus è talvolta a pagamento, quando c’è, e comunque è solo limitato a elementari e medie, decretando spesso l’abbandono scolastico prima della fine della scuola dell’obbligo.

Residenza: avere una residenza è fondamentale per i braccianti stranieri perchè senza non possono accedere a numerosi servizi fondamentali. Le asl non comunicano i vaccini e i bambini quindi ne sono privi, anche quando sarebbero gratuiti per loro. Senza residenza non si produce nemmeno l’Isee e senza Isee non si possono chiedere sussidi per la mensa scolastica o per i pulmini, ma anche ad altri bonus minimi, ai fondi per le famiglie numerose e alle pensioni di invalidità. 

Soprattutto l’unica prova dell’esistenza di questi nuclei familiari è il loro permesso di soggiorno. E siccome per averlo e rinnovarlo devono costantemente dimostrare un reddito e un’abitazione, ecco un altro modo in cui si alimenta il caporalato dei servizi. Gli stranieri sono obbligati a comprare in maniera fittizia una casa ma poi vivono in baracche o stalle vicino al campo dove lavorano. Per i tanti che rimangono senza residenza rimane l’invisibilità, persino per i minori che non possono essere presi a carico dai servizi sociali senza il requisito della residenza.

LE POSSIBILI SOLUZIONI

Alla fine del report, Save the children formula specifiche richieste alle istituzioni per mettere un freno allo sfruttamento e garantire un’infanzia ai minori figli di braccianti. In particolare l’organizzazione chiede:

Al ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, di integrare il Piano Triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato 2020-22 con un programma specifico per la presa in carico di minori a rischio sfruttamento.

Ai Comuni, di riconoscere il diritto soggettivo alla residenza anagrafica dei componenti dei nuclei in condizioni a rischio sfruttamento, assicurando in tal modo ai bambini e alle bambine l’accesso pieno ai diritti fondamentali alla protezione sociale, all’assistenza sanitaria, all’istruzione.

Al ministero dell’Interno, al dipartimento per le Pari Opportunità presso la Presidenza di garantire in tutto il territorio nazionale una presa in carico per i minori vittime di tratta e/o grave sfruttamento, che hanno bisogno di protezione immediata

VALERIA COSTA. Laureata in Scienze politiche. Studia Governo amministrazione e politica alla Luiss a Roma

La filiera della carne italiana si regge sugli schiavi. Maurizio Di Faizo su L'Espresso il 09 agosto 2023 

Rischi per la salute, subappalto selvaggio, precariato, salari bassi e iniqui sono la norma in questa industria. Dove, solo nel nostro Paese, lavorano oltre 20 mila persone

In Europa, nella sua filiera, lavora circa un milione di persone. Averla a tavola è sempre stato sinonimo di prosperità, a prescindere dagli allarmi di chi la ritiene cancerogena e dalla svolta vegetariana di molti. Eppure non è tutta oro la carne che cuoce in padella. Nella relativa industria, buona parte degli occupati è assunta da ditte in subappalto o agenzie di somministrazione. Il che si riverbera in busta paga. Il guadagno medio, infatti, è inferiore del 40-50 per cento rispetto a quello dei colleghi dipendenti con la fortuna di un contratto collettivo nazionale vecchia maniera. Anche se quest’ultimo è spesso un Multiservizi, più conveniente del Ccnl agroalimentare. I primi ad additare le sperequazioni tra chi svolge le stesse mansioni sono stati i sindacati continentali e il quotidiano Guardian, che ha condotto un’inchiesta in vari Paesi. Italia compresa.

Nella penisola, sono oltre 20 mila i lavoratori impiegati e tra questi tantissimi i migranti, più del 50 per cento nella macellazione. È il precariato il loro approdo. Se si circoscrive lo sguardo alla carne suina tricolore, come ha fatto una ricerca finanziata dall’Ue, parecchie cooperative beneficiarie della deriva subappaltante risultano fittizie, «istituite dalle aziende per sfruttare la flessibilità del lavoro e i vantaggi fiscali». Il taglio delle spese, in primis.

È stato appena pubblicato il report dell’associazione Terra!, dal titolo “Cibo e sfruttamento – Made in Lombardia”. Un’indagine on the road attraverso le più sofisticate forme del caporalato di settore nella Regione ammiraglia dell’economia patria. Un capitolo s’intitola “La terra dei suini”. Terra! è entrata in alcuni allevamenti in provincia di Mantova e Cremona. La Lombardia accoglie la metà dei capi di maiale presenti nell’intero Stivale: oltre 4 milioni. Se ne ricavano i prosciutti, le salsicce e le bistecche che poi occhieggiano dagli scaffali dei supermercati. Solo che i produttori riducono all’osso i costi per non vedersi precludere le vie d’accesso privilegiate alla Gdo (Grande distribuzione organizzata), che vive di offerte e prezzi bassi. Anche di fettine e hamburger. Perciò proliferano le coop spurie, dove finiscono soprattutto gli stranieri, più vulnerabili e sotto scacco.

Ci sono, poi, i rischi per la salute. Un j’accuse in tal senso l’ha sferrato un mese fa la Rete Nazionale Lavoro Sicuro, parlando delle «pesantissime condizioni di lavoro nell’industria delle carni» a Modena e dintorni. «Gli addetti allo scarico della carne dai camion frigo dichiarano di spostare pesi fino a 60 chilogrammi. L’arrivo dei camion è continuo. La velocità delle operazioni sul nastro, la loro frequenza, l’uso di lame determinano rischi di ferimento. Si sono già verificati numerosi incidenti». Nel documento si legge, inoltre, che «le temperature negli ambienti lavorativi sono troppo basse: esistono situazioni di stress termico dovute al transito in ambienti con differenze sino a 38 gradi». Mentre dilagano le patologie muscolo-scheletriche. Cortocircuiti della modernità: ci si scanna per il sacrosanto benessere animale, ma si tace sui lavoratori sottopagati di queste catene di montaggio sfibranti.

Lavoratori della cultura, la metà non arriva a fine mese: «Guadagno meno di 6 euro l’ora». Chiara Sgreccia su L’Espresso il 26 Gennaio 2023.

La denuncia di un ex dipendente del Chiostro del Bramante mette in luce un problema che affligge il settore da anni: paghe da fame, Partite Iva che mascherano il lavoro dipendente, contratti occasionali

Cinque euro e ottanta. È la paga oraria di Marco, ex-lavoratore del Chiostro del Bramante, a Roma. Inquadrato da contratto come guardasala anche se per la maggior parte del tempo spiegava ai visitatori le opere in esposizione. Nel contratto di collaborazione occasionale che ha firmato c’è scritto che le ore da lavorare ogni mese avrebbero dovuto essere sedici. «Invece erano in media 120», racconta mostrando l’excel con l’orario svolto, in base al quale riceveva uno stipendio di circa 700 euro.

La società Dart, che all’interno del Chiostro gestisce l’organizzazione di mostre e eventi di calibro elevato, come “Crazy, la follia dell’arte contemporanea” che ha ottenuto un grandissimo successo, non ha risposto alla richiesta de L’Espresso di esplicitare le condizioni dei lavoratori.

Marco è un nome di fantasia. È laureato in Beni culturali, triennale e magistrale e vorrebbe lavorare come guida turistica, «ma siamo tutti sulla stessa barca» confessa. «Accettiamo le uniche condizioni che ci vengono offerte perché posti di lavoro nel settore non ci sono». A Roma non si faceva un concorso per lavorare nei musei e nelle biblioteche della città da otto anni. Per quello indetto da Zétema, società in house di Roma Capitale, sono arrivate fin ora - ma c’è tempo fino al 31 gennaio - quasi 12 mila domande per l’assunzione di 77 persone a tempo indeterminato.

«Tu sei fortunato», gli dicono spesso i suoi ex colleghi d’università. «“Perché, almeno, lavori in un museo". Anche se quello che guadagno non mi permette di mantenermi. Anche se non ho avuto un weekend libero per mesi. Anche se ho lavorato a Natale, alla viglia, l’ultimo dell’anno, il primo. Per 7 euro l’ora». Perché così vale il tempo dei lavoratori nei festivi, non solo secondo Dart.

La situazione, infatti, è la stessa per tanti lavoratori della cultura anche nel resto d’Italia. A Trieste gli addetti alla sicurezza dei Musei Civici sono in sciopero da sabato 21 gennaio perché guadagnano 5 euro lordi l’ora e l’azienda respinge la richiesta di aumento fatta anche a fronte dei compiti che svolgono i lavoratori, come la gestione della biglietteria, la responsabilità di cassa, l’assistenza dei visitatori e la spiegazione delle opere esposte.

A Firenze, i lavoratori esternalizzati dei Musei Civici, in particolare della cooperativa Rear e dell’associazione Mus.e, avevano mandato una lettera al Sindaco per rispondere alla richiesta di restare aperti anche il giorno di Natale. Hanno scritto: «Nel caso dei servizi di accoglienza e sorveglianza, i più fortunati tra noi guadagnano poco più di 7 euro all’ora, altri anche a meno, con contratti a chiamata o part-time, spesso imposti, che raramente superano le 30 ore settimanali».

«La precarizzazione del lavoro culturale è conseguenza della legge Ronchey, perché ha portato alla deresponsabilizzazione della pubblica amministrazione e a un sistema contrattuale che funziona solo abbassando il costo del lavoro», spiega Rosanna Carrieri, attivista dell’associazione Mi Riconosci che periodicamente pubblica indagini sulla condizione di chi è occupato nel settore dei beni culturali. L’ultima è appena uscita, il 14 gennaio, proprio in occasione dei trent’anni della legge che ha stabilito di esternalizzare i servizi di musei e biblioteche e sancito la possibilità di utilizzare volontari a integrazione del personale.

Come si evince dall’indagine di Mi Riconosci, il 75 percento dei professionisti della cultura in Italia lavora nel privato. La maggior parte usa la Partita Iva per mascherare il lavoro dipendente. Mentre la tipologia di contratto più diffusa è quella dei multiservizi che permette, molto spesso di dare ai lavoratori retribuzioni poco dignitose. Infatti, la metà degli intervistati dichiara di guadagnare meno di 10 mila euro l’anno. Il 54 percento dice di non ricevere compensi sufficienti per vivere. Come conferma anche l’indagine di Almalaurea che fa focus sulla professione di guida turistica, la paga mensile media netta è di 982 euro. Il tasso di occupazione post-laurea triennale è del 33 percento.

Secondo la professoressa di Archeologia classica dell’Università Roma Tre, Giuliana Calcani, la situazione dei lavoratori nel settore dei beni culturali di oggi è catastrofica a causa di un vizio d’origine: «In Italia pensiamo alla cultura come se fosse un’attività solo per il tempo libero, avulsa dalla vita reale della società e da non contaminare con le dinamiche economiche. A cui accedono i più colti e i più facoltosi. Questo fa sì che spesso chi studia beni culturali lo faccia mosso da una forte una spinta ideale che, però, purtroppo porta anche a accettare condizioni di lavoro sottopagato. Questo, per riflesso, rinforza il luogo comune secondo cui è un “privilegio” occuparsi di beni culturali. Non è così: archeologi, guide, storici dell’arte sono professionisti che devono essere adeguatamente retribuiti per il lavoro che svolgono. Come l’idraulico o il medico».

Per Calcani serve un cambio di mentalità per migliorare le condizioni del settore, a partire dalla formazione. «Quello che definiamo patrimonio culturale è un insieme di opere create da artisti e per committenti, il cui scopo è sempre stato di essere conosciuti e apprezzati da un numero più ampio possibile di persone. L’università deve formare professionisti della cultura che rispondano alle necessità reali della società. L’essere umano trova giovamento dalla frequentazione delle opere d’arte, questo è un valore sociale».

Il punto, quindi, è far entrare in un circuito di normalità la necessità di avere la nostra dose di cultura. Rendere accessibile il costo del biglietto per accedere ai musei potrebbe essere un passo.

Estratto dell’articolo di Grazia Longo per “la Stampa” il 5 giugno 2023.

Ci consegnano a casa, a qualsiasi ora del giorno e della sera, pizze, sushi e ogni genere di prodotti enogastromici. L'esercito dei rider fa ormai parte delle nostre vite: 70 mila lavoratori regolari, a fronte di un totale di 250 mila se si considerano anche quelli che non hanno un contratto a norma.

E se a tutti noi è evidente la loro fatica di pedalare per chilometri, meno noto è il loro sfruttamento economico. La maggior parte è infatti vittima del cosiddetto caporalato digitale, un fenomeno per cui, lavorando solo grazie a un account "prestato" devono pagare una tangente fino al 50 per cento di quello che guadagnano.

[…] La fotografia del fenomeno ci restituisce l'immagine di un Paese diviso in tre grandi fasce di rider: il Nord Italia dove lavorano prevalentemente africani subsahariani e pakistani tra i 20 e i 35 anni muniti di semplice bicicletta e il Centro e il Sud con rider italiani che arrivano fino a 50 anni e si spostano anche in automobile.  […] 

A tre anni fa risale il primo monitoraggio di questi lavoratori al servizio di quattro multinazionali del food delivery: grazie ai controlli dei carabinieri è emerso uno spaccato di illegalità che ha portato le quattro grandi società a investire 10 milioni di euro in sicurezza e formazione. […]

Una vera e propria emergenza, facilitata dalla demateralizzazione del datore di lavoro: con lui i rider non hanno contatti diretti, avviene tutto tramite le piattaforme digitali. Ma coloro, soprattutto extracomunitari, che pur avendo il permesso di soggiorno hanno problemi con la lingua o con la tecnologia, finiscono nella rete di sfruttatori che danno loro un account falso, indispensabile per lavorare, è in cambio pretendono la mazzetta.

I soldi del pagamento online vanno, in sostanza al "caporale", che trattiene per sé fino al 50 per cento e poi paga in contanti il rider.  […]

Migliaia di sfruttati in Italia: la vita da inferno dei finti padroncini sui furgoni Brt. Il colosso del trasporto merci è stato commissariato con l’accusa di aver impiegato oltre 18 mila camionisti precari e sottopagati. L’indagine nata dalla denuncia di una sindacalista che ha rifiutato una tangente. Paolo Biondani su L'Espresso il 15 Maggio 2023.

Il 18 ottobre 2021 una sindacalista della Cgil ottiene un incontro, che chiedeva da tempo, con una commercialista di un consorzio milanese di trasporti, che si è impegnata a consegnarle carte legali. Il consorzio è sospettato di sfruttare i lavoratori: camionisti e facchini precari e sottopagati. La commercialista va di fretta e le consegna il plico per strada, vicino a un centro commerciale di Sesto San Giovanni. Tornata in sede, la sindacalista apre quella cartellina rossa e scopre che non contiene buste paga e contratti: dentro un foglio bianco ci sono venti banconote da 50 euro. Una tangente: il prezzo del silenzio. Invece di intascare quei mille euro e magari chiederne altri, la sindacalista della Filt-Cgil, Monica Gheorghina Kovaciu, che assiste decine di poverissimi lavoratori dei trasporti, italiani e stranieri, denuncia alla polizia il tentativo di corruzione. E consegna come prova proprio quelle banconote, che da allora sono sotto sequestro.

Da questo atto di onestà è nata una grossa indagine giudiziaria che un anno e mezzo dopo, il 23 marzo scorso, ha convinto il tribunale di Milano a ordinare il commissariamento della Brt, l'ex Bartolini, uno dei colossi italiani della logistica e trasporto merci. Un'azienda storica, in forte e continua crescita: dal 2017 al 2021, data dell'ultimo bilancio pubblicato, i ricavi sono saliti da 1,3 a oltre 1,7 miliardi di euro, gli utili annui da 21 a 35 milioni: sommando cinque anni di profitti netti si arriva a oltre 132 milioni.

L'istruttoria, che ha unito la Guardia di Finanza, l'Agenzia delle Entrate e gli ispettori dell'Inps, ha messo in luce il lato oscuro del traffico di camioncini e furgoni che attraversano ogni giorno le nostre città. Ora la Brt, che da qualche anno è controllata dal gruppo francese Geopost, è in amministrazione giudiziaria, almeno fino a settembre. La Procura di Milano, nella richiesta approvata dai giudici delle misure di prevenzione, la indica come caso emblematico di «normalizzazione della devianza economica»: una «società leader della logistica», con sede in Foro Buonaparte, nel centro storico di Milano, che esibisce una «struttura formale», rispettosa di tutte le leggi e regolamenti, ma in realtà gestisce «un mondo parallelo» dove «le pratiche illecite di evasione fiscale e sfruttamento dei lavoratori sono promosse e considerate normali».

Nel decreto di commissariamento si legge che la Brt «ufficiale» dichiara di avere circa quattromila dipendenti, tutti assunti con regolari contratti. Le indagini hanno però svelato che «quantomeno altri 18 mila» camionisti o facchini «lavorano da anni, a tempo pieno, per le sue molteplici sedi aziendali in tutta Italia». I loro contratti sono intestati a una miriade di società esterne: almeno 2.931 ditte classificate come «fornitori».

Alla base del «sistema», come lo definisce il tribunale, ci sono le «società serbatoio»: finte cooperative, spesso trasformate in srl dopo le prime indagini milanesi su altre ditte di trasporti e logistica, che funzionano da «meri contenitori di manodopera». Controllano «un'ingente forza lavoro» (fino a tremila dipendenti ciascuna) e hanno caratteristiche comuni: non pagano l'Iva; sono raggruppate in cordate di società con le stesse sedi e i medesimi professionisti e rappresentanti legali, in diversi casi già condannati per reati fiscali; restano attive per meno di tre anni; prima di chiudere, trasferiscono tutta la manodopera a nuove entità, controllate dagli stessi soggetti. E come amministratori dichiarati, con ruolo di parafulmine legale, spesso utilizzano prestanome: cittadini romeni che non hanno mai vissuto né lavorato in Italia; lombardi nullatenenti. I casi di trasferimento della manodopera da una ditta all'altra, che gli inquirenti definiscono «transumanza dei dipendenti», sono un'enormità: le indagini della Guardia di Finanza di Milano hanno identificato ben 1.956 società coinvolte, per un totale di 26.105 camionisti e facchini.

Le «società-serbatoio», organizzate per avere vita breve, gestiscono l'attività illegale: non pagano le tasse, versano contributi previdenziali minimi (solo quanto serve a ritardare le verifiche), non rispettano alcuna norme sulla sicurezza del lavoro, non fanno visite mediche o corsi di formazione, non pagano ferie, giornate di malattia, tredicesime e festività. In caso di incidenti stradali o infortuni su lavoro, la prassi aziendale è che non si deve chiamare l'ambulanza: il ferito o moribondo va portato in ospedale da «persone di fiducia». Quando il debito fiscale diventa troppo alto, le società-serbatoio vengono chiuse, scaricando i problemi legali sui prestanome. Mentre la massa dei dipendenti, per non perdere il lavoro, è costretta a traslocare in una nuova società collegata.

Nel girone infernale dei più sfruttati ci sono i «finti padroncini». Circa un terzo dei presunti «fornitori esterni», ovvero 975 società, hanno in realtà un solo dipendente e un unico mezzo: un autista con un furgone, che di fatto lavora solo per la Brt, con tanto di logo aziendale verniciato sul veicolo. «Li chiamano lavoratori ibridi, perché non sono autonomi, non hanno la partita Iva», ha testimoniato la sindacalista della Cgil, aprendo uno squarcio poi confermato e documentato da decine di lavoratori poi interrogati come testimoni. «Risultano dipendenti delle ditte esterne, anche se lavorano da anni a tempo pieno per la Brt, in qualche caso da più di venti. Per essere assunti devono pagare un anticipo, contabilizzato come prestito per l'acquisto del camion, per diverse migliaia di euro, almeno cinquemila, ma non ne diventano proprietari. Quindi devono restituire alla loro ditta, ogni mese, una rata con gli interessi, come trattenuta, per cui non incassano mai lo stipendio netto. Benzina, autostrada, riparazioni, incidenti, multe, infortuni, sono tutti a loro carico. Dipendono totalmente dai capi-sede della Brt, che ha la regia unica e diretta del loro lavoro: sono loro a decidere le spedizioni e a trattare con i destinatari. I rappresentanti delle ditte si limitano a fare da postini e consegnare le buste paga».

«Per sopravvivere, per mantenere la famiglia, molti sono costretti ad accettare turni massacranti, rinunciano ai riposi e alle ferie, a trascurare la salute e lavorare anche quando sono malati. E nei periodi di picco, alcuni accettano di farsi pagare a cottimo, cioè non in base alle ore di lavoro, ma al numero di consegne e alla quantità di merce recapitata, come se fossero autonomi. Però restano dipendenti, non possiedono nulla e non hanno alcun potere di decidere quanto e dove lavorare: a stabilire tutto sono i capi-area della Brt».

L'indagine continua ad allargarsi e ha già preso di mira i fornitori più ricchi. Un gruppo di società controllate da un certo Antonio Suma, in particolare, è arrivata a fatturare, nel 2021, circa 150 milioni di euro, grazie al lavoro di 2.787 corrieri. Dal 2013 al 2020 lui e la moglie risultano aver trasferito in Svizzera più di 10 milioni di euro, attraverso una loro società di consulenze sul lavoro, che ha un nome beffardo: Volp Service.

Per evitare una crisi aziendale i giudici di Milano hanno lasciato in carica il consiglio di amministrazione espresso dalla proprietà, affiancato però da un commissario giudiziario, chiamato a controllare tutta l'attività per un anno, con una prima verifica giudiziaria dopo il primo semestre. L'obiettivo prioritario, indicato dal tribunale, è «salvare i posti di lavoro e regolarizzare tutti i contratti». La Brt ha riconosciuto (e pubblicizzato) che l'amministrazione giudiziaria non ha intralciato l'attività aziendale e non ha causato «alcun ritardo nelle consegne».

Caporalato di Brt-Bartolini, le accuse di 60 lavoratori: retribuzione a cottimo e sicurezza a rischio. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 29 Gennaio 2023.

Secondo sequestro di altri 24,4 milioni eseguito d’urgenza dalla Procura di Milano a carico del colosso da 1,7 miliardi di fatturato e oltre 5.000 lavoratori nel gruppo di cui due anni fa hanno assunto il controllo le Poste francesi

Non più «soltanto» illeciti maxi risparmi fiscali e contributivi propiziati dal ricorso del corriere Brt-Bartolini a cooperative «serbatoio di manodopera» che somministrano forza lavoro a prezzi stracciati tramite consorzi-filtro, ma anche caporalato ai danni dei lavoratori sfruttati da quelle coop delle quali Bartolini si avvale: dopo i 44 milioni di euro sequestrati a dicembre dal gip Domenico Santoro per l’aspetto fiscale, ora è invece questa la ricostruzione che fonda un secondo sequestro di altri 24,4 milioni eseguito d’urgenza dalla Procura di Milano a carico di Brt-Bartolini spa, colosso da 1,7 miliardi di fatturato e oltre 5.000 lavoratori nel gruppo di cui due anni fa hanno assunto il controllo le Poste francesi. 

Questo secondo sequestro, eseguito a metà settimana ma emerso con il deposito delle carte nell’udienza davanti al Tribunale del Riesame dove venerdì il difensore Pasquale Annichiarico ricorreva contro il primo sequestro, è peraltro frutto appena di un esame a campione al quale l’indagine del pm Paolo Storari, insieme a Guardia di Finanza, Inps e Agenzia delle Entrate, ha iniziato a sottoporre 34 coop «serbatoi di manodopera» fra i 2.931 fornitori di cui Brt si avvale mobilitando una forza lavoro di 26.105 autisti. Queste 34 imprese «campionate» impiegano 3.434 autisti, di cui 350 (cioè oltre il 10%) sono risultati accomunati da «transumanza», cioè dal singolare frenetico passaggio di lavoratori da una di queste aziende all’altra. Gli inquirenti hanno sinora raccolto le dichiarazioni di 60 lavoratori, i quali hanno riscontrato l’iniziale denuncia presentata da una sindacalista della Cgil di origini straniere. Stando al loro racconto, infatti, non soltanto i lavoratori teoricamente assunti dai fornitori hanno in realtà un rapporto diretto con Brt attraverso personale definito «il caporale dei caporali», e non vengono rispettate norme in materia di sicurezza su formazione e visite mediche, e il continuo cambio di coop fa perdere scatti di anzianità e diritti maturati; ma soprattutto sarebbero due le pratiche più patite dai lavoratori. 

La prima è quella sui lavoratori cosiddetti «ibridi» impiegati sulla scorta di accordi verbali presi sotto la regia di Brt con le rispettive società fornitrici di Brt: questi accordi prevederebbero che i lavoratori, oltretutto «retribuiti non in base alle ore di lavoro prestato ma alla quantità di merce consegnata», e per lo più «stranieri in condizioni di vulnerabilità e dunque più propensi degli italiani a farsi sfruttare», finiscano per doversi pagare il furgone e tutti i costi, cioè «lo debbano acquisire con il versamento di una rilevante somma iniziale e poi con la detrazione mensile della rata dei veicolo, dell’assicurazione, delle spese per eventuali riparazioni e per il costo del carburante». La seconda è il cosiddetto «doppio bonifico». Brt consegnerebbe al lavoratore un documento con la «valorizzazione giornaliera» del suo lavoro, e la cooperativa da questa cifra detrarrebbe la rata dell’automezzo, i contributi, gli altri costi accessori: se il saldo è positivo, con un «secondo bonifico» la coop versa al suo dipendente la parte eccedente, ma se il saldo è negativo detrae invece la somma sotto forma di anticipo del Tfr formalmente riportato in busta paga ma di fatto non percepito dal lavoratore. 

Da questi primi racconti il pm nutre l’accusa che Brt-Bartolini spa, indagata (con i dirigenti Giorgio Bartolini e Costantino Dalmazio Manti) in base alla legge 231 sulla responsabilità amministrativa delle società per reati fiscali commessi dai vertici nell’interesse aziendale, «operi un sistematico sfruttamento dei lavoratori attraverso fenomeni di caporalato e di fatture per operazioni giuridicamente inesistenti». E che ciò «non sia frutto di iniziative estemporanee di singoli ma una illecita politica di impresa», la quale agirebbe «come una sorta di “nuovo potere”, vero regolatore di processi lavorativi, e alternativo alle regole dello Stato» nel settore dei trasporti. 

Sette minuti di pausa pranzo e turni folli: lo sfruttamento degli assistenti di terra negli aeroporti. L’esercito senza tutele del personale stagionale dell'handling. Che per 600 euro al mese assicura assistenza ai passeggeri e la manutenzione dei velivoli. E che ora per la prima volta comincia a dire basta. Maurizio Di Fazio su L'Espresso il 19 Giugno 2023

I ritmi e i turni spezzati e forsennati, implacabili, sono la prassi più che altro per l’anello più debole del comparto: gli handlers stagionali, migliaia di lavoratori precari soltanto a Roma tra Fiumicino e Ciampino. Un esercito industriale di riserva e senza tutele. Caricano e scaricano i bagagli, garantiscono l’assistenza ai passeggeri, sbrigano i check-in e gli imbarchi, assicurano i preziosi servizi di terra dei nostri aeroporti. Di sensibile e considerevole importanza, come la manutenzione dei velivoli prima e dopo il decollo e il loro rifornimento di benzina. Eppure hanno contratti di pochi mesi, 6-700 euro al mese, sei giorni su sette, part-time allungabili a dismisura senza ricaduta in busta paga. Lavorano duramente, in affanno continuo; tamponano falle. Spesso vengono precettati a giornata, anzi, last second, come raccontano certe vertenze individuali: la loro disponibilità deve essere totale. Non esiste notte, weekend o festivo per loro, sovente esternalizzati, assunti da cooperative in appalto e subappalto. Dietro le divise ben stirate, una sofferenza sottaciuta di massa.

Prima del Covid, in Italia, il sistema si reggeva su una sorta di equilibrio omeostatico: gli stagionali convivevano alla bell’e meglio con i “garantiti”. I problemi venivano eclissati sull’altare della piena occupazione, o quasi. Poi è arrivata la pandemia. Il mondo si è bloccato, compresi i nostri cieli. Le compagnie low cost (e non), le società aeroportuali e dell’handling hanno iniziato a licenziare e mettere in cassa integrazione stuoli di lavoratori assunti a tempo indeterminato. E quando si è tornati alla normalità e sono stati richiamati molti cassintegrati, per parecchi stagionali non c’era più posto. O avevano gettato la spugna loro stessi.

Oggi il traffico passeggeri supera i livelli pre-Coronavirus e servono di nuovo pure loro. Che poi la stagionalità in questo ambito sarebbe, per certi versi, fisiologica: «Le parti confermano il peculiare carattere stagionale delle attività di handling, in quanto caratterizzate da stagionalità in senso ampio e da intensificazione dell’attività in particolari periodi dell’anno» era scritto nell’ultimo contratto collettivo nazionale di lavoro del 2015. Il problema sono le forzature, le degenerazioni che avvengono. Così il 4 giugno hanno incrociato le braccia, era la prima volta che succedeva.

«Adesioni altissime, oltre il 90% allo sciopero nazionale delle lavoratrici e dei lavoratori dell’handling aeroportuale proclamato per il mancato rinnovo del contratto collettivo nazionale, scaduto ormai da 6 anni». Parola delle sigle maggiormente rappresentative in materia: Filt Cgil, Fit Cisl, Uiltrasporti e Ugl Trasporto Aereo.

«Ora attendiamo che dalle imprese arrivino subito risposte alle legittime richieste salariali e normative che, come organizzazioni sindacali, abbiamo portato al tavolo di Assohandlers. E fino a quando non verranno soddisfatte le rivendicazioni salariali dei lavoratori le azioni rivendicative non si fermeranno: prima tra tutte, la proclamazione dello sciopero nazionale di 24 ore il 20 giugno che segnerà, con l’avvio della stagione estiva, il seguito di una lunga serie di azioni sindacali che verranno messe in campo».

I quattro sindacati aggiungono che «con il rinnovo in stallo, in assenza di un aumento economico congruo e dignitoso degli stipendi (fermi dal giugno 2016), il comparto ha perso attrattività, rendendo molto difficoltoso il reperimento di nuovo personale. Una situazione che può mettere a rischio l’operatività del settore e la continuità dei servizi aeroportuali, soprattutto in vista dell’imminente stagione turistica».

Lo spettro è quello di un’ennesima estate calda, come accaduto negli ultimi anni: caos e disagi molteplici (dai voli cancellati ai bagagli persi) per gli utenti che non conoscono le radici del problema. Non a caso i rappresentanti dei lavoratori chiedono anche una regolamentazione dell’orario di lavoro e turnazioni compatibili con uno straccio di vita privata.

Restii a parlare pubblicamente (o privatamente col giornalista), il malcontento corre sui social. Per esempio su pagine Facebook come “Manicomio aeroportuale” (16 mila followers), attiva dal 2019. Scrive Katia: «Da stagionale mai fatta una pausa». Le rispondono altri: «La pausa è di massimo 7-8 minuti, il tempo che hai per andare in bagno e mangiare». Aggiunge Giuseppe: «Lavoro usurante, il nostro. Nessuno si è mai nemmeno preoccupato di misurare i livelli di inquinamento a cui siamo esposti giornalmente, né che impatto possano avere le turnazioni sulla nostra salute». Valentina: «Sono 23 anni, 23 lunghi anni di burnout. Il punto è che l'età avanza, il fisico ne risente e per quanto bello questo lavoro non si può fare a vita. Non ho mai perso le speranze di tornare ad avere una vita normale, spero sempre di poter trovare qualcosa di meglio. Un grande in bocca al lupo a tutti! Possiamo capirci solo tra di noi... ahimè». Una sua collega: «L'anno scorso anche io sono andata in burnout. Mi sono fatta aiutare da uno psicoterapeuta. Ero a pezzi, fisicamente e moralmente». Un altro stagionale: «A me è capitato il turno 5/13 per poi rimontare con il 22/6 la sera stessa». Una partecipante del gruppo preferisce l’anonimato totale, ché pure capi e capetti bazzicano i social. Ed è suo l’intervento più apprezzato di tutti. «Con questo post vorrei inaugurare una sorta di rubrica che si occupi e si preoccupi, visto che nessun altro lo fa, di come ci sentiamo quaggiù nel girone infernale dei turnisti aeroportuali… Ci sono giornate come quella di oggi in cui mi sento costantemente esausta e totalmente sopraffatta. Mi dispiace perché credo nel duro lavoro e non mi sono mai tirata indietro e mi dispiace due volte perché questo è un lavoro che mi piaceva e ultimamente non riesco a fare altro che detestarlo. Per quanto provi a dirmi che è solo un periodo e che passerà, c'è una parte di me che crede invece che non possa fare altro che peggiorare. Sarà che siamo solo ad aprile e non riesco neppure a immaginare come potrebbe essere agosto. Sono convinta che in Italia in generale e nel nostro settore in particolare si parli troppo poco di "burnout" che, mi sento di dire pur senza averne le competenze, è un problema reale o perlomeno lo sento reale e vicinissimo a me. Insomma, voi come state? Come ve la passate? Siete in un momento di difficoltà? Lo siete stati? Come pensate di affrontarlo o come ne siete usciti, se ne siete usciti?».

Solidarietà per Soumahoro.  Estratto dell’articolo di Vincenzo Bisbiglia per “il Fatto quotidiano” il 9 febbraio 2023.

La cooperativa Karibu, tra il 2017 e il 2020, ha spostato mezzo milione di euro (506.000,43 euro) all’estero, disponendo “numerosi bonifici”, per “la maggior parte” in favore della stessa società Karibu e su conti utilizzati da Marie Terese Mukamitsindo e Richard Mutangana, rispettivamente suocera e cognato del deputato Aboubakar Soumahoro.

 È quanto emerge da un’informativa della Guardia di Finanza di Latina del 23 marzo 2022, agli atti dell’inchiesta della Procura pontina per false fatturazioni che coinvolge la famiglia di Liliane Murekatete, moglie del parlamentare eletto con Verdi-SI (ora nel Gruppo misto). […]

 La Gdf nella relazione ai pm parla di “una sostanziosa disponibilità finanziaria a vantaggio degli stessi, così decurtando tali somme dalla loro reale destinazione”, ovvero i conti della coop che, nel frattempo, accumulava centinaia di migliaia di euro di debiti verso i lavoratori.

 Il veicolo utilizzato per lo spostamento dei fondi all’estero è, per i pm, un’ulteriore società del gruppo, l’associazione Jambo Africa, la cui presidente era Christine Kabukoma, risultata in un primo momento irreperibile.

La Jumbo, per i pm, aveva emesso centinaia di fatture per servizi mai effettuati: corsi di italiano destinati ai migranti, laboratori di cucina, mediazione interculturale, e anche laboratori di cucito, tutte operazioni – scrive la Gdf – “inesistenti”. “Tale associazione – si legge nell’informativa – nell’ultimo periodo è stata utilizzata non tanto per rendere servizi alla Karibu, ma per drenare risorse da destinare all’estero”.

 

C’è poi un tema che riguarda Murekatete. La moglie di Soumahoro è indagata, anche lei, per false fatturazioni, ma per importi residuali afferenti la sua partecipazione, in qualità di consigliere d’amministrazione (dal 3 aprile 2018), alle assemblee dei soci. In queste sedute, venivano approvate le fatture contestate. Nei documenti agli atti tuttavia le firme sui verbali di partecipazione risultano apposte in maniera “disordinata”.

[…] Che i presunti illeciti siano avvenuti a sua insaputa? “È di tutta evidenza come (...) Liliane Murekatete si sia resa parte attiva nelle attività gestorie della Karibu”, insistono i finanzieri, citando i circa 40 mila euro, anni di compensi ottenuti dalla donna dal 2019 al 2021.

Soumahoro, scandalo senza fine: toh, che 100mila euro sono scomparsi. Claudia Osmetti su Libero Quotidiano il 02 febbraio 2023

Una pagina. D’altronde è lì da vedere: scaricabile con pochi click. Il download è immediato: basta scorrere il sito della Lega Braccianti, l’associazione del deputato Aboubakar Soumahoro, e scegliere la spunta “rendiconto gestionale 2020”. Tutto il nodo del contendere, quella querelle infinita, è racchiusa in una paginetta: 57 righe (compresi avanzi e disavanzi), sei colonne e una manciata di numeri. Stop. Il resto è politica. È lui, l’ex “rosso” scaricato da Nicola Fratoianni, l’ex “verde” scaricato da Angelo Bonelli, l’ex immigrato che in Parlamento è entrato con gli stivali para-fango e che, adesso, le domande sui suoi conti che non tornano le schiva come un’anguilla del lago Trasimeno. Sorride. Parla di «legalità e trasparenza», dice: «Io seguo le indicazioni del ministero delle Politiche sociali, non quelle di Caruso» (Francesco Caruso, l’ex leader dei No-global che con Soumahoro ha condotto la raccolta fondi “Cibo e diritto” durante la pandemia), ma mica risponde.

CONTI OPACHI

Lunedì sera, nel corso della trasmissione di Rai3 Report, l’inviato Bernardo Iovene gliel’ha chiesto almeno due volte: «Tra il rendiconto di Caruso e il suo ballano 101mila euro, dove sono le fatture che testimoniano ciò che lei ha messo a bilancio?». Niente. «Papa Francesco dice che il silenzio è la strada e anche la risposta alle chiacchiere». Onorevole, no. Per due motivi: il primo è che la religione, qui, c’entra un tubo. Il secondo è che lei, ci permetta, non è un cittadino qualunque. È un deputato della repubblica. Se un giornalista fa il suo lavoro (e cioè chiede), lei è tenuto a rispondere. Almeno da un punto di vista politico. Altrimenti «legalità e trasparenza» un piffero.

Il punto, però, è anche un altro. Ed è che quel “rendiconto gestionale 2020” è stato scritto così, due anni fa, perché due anni fa si poteva scriverlo così. Ong, attività del terzo settore, onlus, associazioni a vario titolo allora avevano obblighi molto meno stringenti rispetto a oggi. Un vuoto normativo, il solito intreccio di cavilli, burocrazia e leggi che mancavano: è così che si arriva a quella paginetta scarsa. Un’attività (che però fa girare soldi, 120.998 euro di «materie prime e merci» e 38.376 euro di «trasporti»: non bruscolini) ridotta a un foglio A4. «Fino al 2020 le associazioni non avevano obblighi, se non di natura statutaria. Poi è cambiato il mondo», spiega Fabio Zucconi, esperto di diritto societario. «Era normale che un’associazione avesse colonna entrate e colonna uscite, qualcuno metteva anche il saldo del conto corrente: era finita lì». Ci riferiamo agli “Ets”, ossia agli Enti del terzo settore: qualifica che la Rete Braccianti di Soumahoro ha nel nome.

Controlli, pochini. Paletti, idem. Vincoli, lo stesso. Una manciata di rimandi al Codice civile e poco più. Insomma, un imbuto a manica larga, spesso giustificato: nel senso che le associazioni del terzo settore sono tante e variegate, rientrano nel volontariato, e una sorta di flessibilità (diversamente dalle società per azioni o a scopo di lucro) è nella natura delle cose. Ci mancherebbe.

POCHE REGOLE

«Il Testo unico è stato varato nel 2017», continua Zucconi, «ed è composto da 115 articoli che toccano anche il tema della contabilità: oggi il sistema è assimilabile per modalità a quello societario». Ma è stato attivato solo nel 2021, l’anno dopo il “rendiconto gestionale” contestato a Soumahoro e con un periodo ancora insufficiente per testarne la validità. «Di controlli non ce ne sono ancora semplicemente perché i primi bilanci depositati sono quelli del 2022: serve tempo». E gli altri? Per aprire un salone di parrucchiere sono necessari 75 autorizzazioni, per un’autofficina 76 adempimenti. Lo dice l’Osservatorio nazionale della Cna. 

Da radioradio.it il 31 gennaio 2023.

Nuovi guai per Aboubakar Soumahoro. Report avrebbe raccolto una testimonianza inedita nei suoi confronti che riguarderebbe una raccolta fondi, organizzata durante il lockdown del 2020, realizzata insieme a Francesco Caruso, ex capo dei No global, per portare il cibo nei ghetti.

 “Secondo quanto riporta Caruso, che si sarebbe occupato dei trasporti alimentari da Benevento, lui avrebbe speso 58mila euro dei 220mila raccolti“, rivela il conduttore di Report, Sigfrido Ranucci.

 “Nel bilancio del 2021, si legge, Soumahoro avrebbe scritto 159mila: la differenza è significativa. Secondo Soumahoro sarebbe tutto a bilancio, ma quando il nostro giornalista gli ha chiesto le fatture l’onorevole ha sviato.

 Ci aspettiamo che ci dia gli allegati al bilancio per sgombrare ogni dubbio sulla vicenda, e sarebbe la prima volta che il caso lo riguarda personalmente: lui per ora si è dimesso solo per le vicende legate alla moglie“.

Estratto dell’articolo di Francesca Galici per ilgiornale.it il 31 gennaio 2023.

Striscia la notizia non molla e continua con Pinuccio le sue indagini su Aboubakar Soumahoro e, in particolare, sulla Lega Braccianti. […] Pinuccio e Striscia la notizia si concentrano da tempo […] sulle raccolte fondi organizzate per sostenere le spese della Lega Braccianti sulla piattaforma Gofundme.

L'inviato di Striscia la notizia ha trovato una (seppur scarsa) rendicontazione pubblicata proprio sul sito della Lega Braccianti e relativa all'utilizzo dei fondi raccolti con Gofundme per lo sciopero di Roma e per l'acquisto dei regali per i bambini di Borgo Mezzanone e Torretta Antonacci, che però non ospitano bambini, se non pochissimi.

 E sono state messe in evidenza da Pinuccio alcune voci che appaiono quantomeno esagerate in rapporto alla realtà. "Abbiamo trovato le spese, almeno così risulta dalle loro carte, di alcune missioni fatte con i soldi raccolti attraverso Gofundme e altre piattaforme ma ci sono alcune cose che non abbiamo capito, perché non si capisce niente", spiega Pinuccio, che poi entra nello specifico del caso.

In relazione alla raccolta fatta per il Natale dei bambini nel 2021, su Gofundme erano stati raccolti 16.061 euro. Bene, come si evince dalla rendicontazione mostrata da Pinuccio, "14.266 euro sono stati spesi per acquisti di beni previsti dallo statuto, immaginiamo i regali ma bambini non ne abbiamo visto, e poi circa 1.700 per l'acquisto di servizi come realizzazione di video e altro", prosegue l'inviato leggendo la rendicontazione. Il commento di Pinuccio è chiaro: "Ma che cosa? Hanno raccolto i soldi sulla piattaforma per i regali e poi spendono 1.700 euro per un video? E poi che video? C'è una fattura, qualcosa? Niente".

Ma Striscia la notizia non si ferma e prosegue nella sua indagine, analizzando la rendicontazione per l'altra raccolta fondi, quella per lo sciopero di Roma dei braccianti. Per quella specifica iniziativa, sulla piattaforma Gofundme sono stati raccolti esattamente 31.285 euro, come risulta dal sito.

 "Da come dicono loro sulla Lega Braccianti, circa 10mila euro sono stati spesi per vestiario e cibo. E che vestiti sono? Gli abiti hanno comprato a tutti quanti? 10mila euro mi sembra un poco troppo", commenta Pinuccio davanti a una spesa così ingente. Ma Aboubakar Soumahoro è colui il quale si appella al diritto all'eleganza e alla moda come libertà.

Ma non è finita qui, perché l'inviato di Striscia la notizia trova nella rendicontazione anche "21mila euro per trasporti. A noi non risultano migliaia di persone trasportate, a meno che non siano venuti con la Ferrari". […]  C'è poi il nodo della salma di Oumar Fofana, il bracciante morto per il cui rimpatrio della salma risulta siano stati spesi i soldi della raccolta per lo sciopero dei braccianti e per il Natale. Ma nella rendicontazione questa specifica spesa risulta essere stata fatta con i proventi della raccolta "cibo e diritti", per la quale erano arrivati 83.582 euro.

Uscire dai ghetti. Report Rai. PUNTATA DEL 30/01/2023

di Bernardo Iovene

Collaborazione di Lidia Galeazzo

Un reportage di Report nei ghetti del foggiano: le condizioni e le esigenze dei migranti braccianti che li popolano.

Dietro un piatto di spaghetti al pomodoro c’è il lavoro di migliaia braccianti agricoli, che vivono in baracche senza acqua né luce e riscaldamento. La loro condizione di irregolari crea dipendenza dai caporali che speculano sulla paga già bassa e sui trasporti. Per superare questa situazione negli anni sono stati stanziati milioni di euro su progetti ancora in corso sia per lo smantellamento delle baraccopoli che per creazione di moduli, container provvisori affiancati da progetti di formazione e inclusione gestiti da associazioni e volontari. L’ultimo progetto viene dal PNRR: 200 milioni di euro. Questa volta il Ministero del Lavoro ha incaricato l’Anci, quindi i comuni, di fare un censimento dei ghetti, e stanziare dei fondi in base alle presenze. In Puglia arriverà la fetta più grossa, 114 milioni. Quali sono i progetti e i tempi di realizzazione che hanno un cronoprogramma da rispettare pena la perdita del finanziamento? Siamo stati nei ghetti del foggiano, abbiamo visto le condizioni e le esigenze dei migranti braccianti che li popolano, e analizzato i progetti dei comuni. Infine, un’attenzione maggiore al gran ghetto di Torretta Antonacci, dove l’onorevole Aboubakar Sumahoro aveva lanciato la raccolta fondi durante il lockdown. Francesco Caruso, che era all’epoca con Sumahoro, ci ha segnalato i suoi rendiconti.

USCIRE DAI GHETTI Di Bernardo Iovene Collaborazione Lidia Galeazzo Immagini Paco Sannino Grafiche Federico Ajello

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO In Puglia, nella provincia di Foggia, sono proliferati i ghetti, un rifugio disumano per migliaia di braccianti, spesso invisibili perché senza documenti. Per anni si è occupato di loro l’ex parlamentare Francesco Caruso, che qualche anno fa ha cominciato questa attività con Aboubakar Sumahoro. Insieme gestirono anche la famosa raccolta fondi Cibo e diritti. Fino a quando le loro strade si sono divise e, a sentire Caruso, i conti non tornano.

FRANCESCO SAVERIO CARUSO - DELEGATO USB FOGGIA io non ne voglio parlare … perché se no finiamo a discutere di Aboubakar.

BERNARDO IOVENE Ma lui l'ha fatto in buona fede.

FRANCESCO SAVERIO CARUSO - DELEGATO USB FOGGIA Ma quale buonafede, allora, anche questo telecamere spente.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Si svolge tutto così rapidamente che sia la mia telecamera che quella del mio collega restano accese.

FRANCESCO SAVERIO CARUSO - DELEGATO USB FOGGIA Tu tieni che quando noi andavamo nelle campagne insieme, lui stava là con la telecamera e si faceva il selfie e a me arrivava tutta sta fila di disperati, ognuno con il suo C3 che era scaduto, con la convocazione che non gli era stata... E quindi a un certo punto la cosa semplicemente lui diceva andiamocene, andiamocene, e io dicevo come li risolviamo questi casi... io che mi occupo dei micro-casi, appresso a Aboubakar senti dobbiamo far questa cosa, ti prego. Sì, sì, sì sì, sì dal giorno dopo esce ‘sta videoconferenza: io abbandono il sindacato. Chiamo Abou, ma tu sei impazzito? Ma che? Non mi risponde, mando un messaggio: Abou ti posso chiamare gentilmente abbiamo un cazzo di problema serio a Foggia, non mi risponde più al telefono, come i creaturi! ti faccio vedere la chat io e Abu. il problema qual è che tutte le famose spese che abbiamo fatto della spesa della cosa braccianti le abbiamo fatte uno due e tre, e lo sai dove le abbiamo fatte? a Benevento. Faccio tutte le spese.

BERNARDO IOVENE Ma le spese alimentari?

FRANCESCO SAVERIO CARUSO - DELEGATO USB FOGGIA Alimentari a Benevento e il camion lo prendevamo da Ermanno e pigliavamo questo camion a 500 euro per fare le consegne. 2

BERNARDO IOVENE I soldi quei 220mila li hai gestiti tu?

FRANCESCO SAVERIO CARUSO - DELEGATO USB FOGGIA Li ho gestiti tutti io, tranne le ultime due che le ha gestite Sambarè.

BERNARDO IOVENE Di quelli che sono stati spesi dei 220.000 euro che sono. Quanti?

FRANCESCO SAVERIO CARUSO - DELEGATO USB FOGGIA Io 38 e 522 euro, lui altri 15.

BERNARDO IOVENE Sambarè. Il resto?

FRANCESCO SAVERIO CARUSO - DELEGATO USB FOGGIA Non sappiamo che fine ha fatto. Io non lo so che gli è girato in testa, si è fatto due conti e ha detto sai che c’è? Arrivederci e se n’è fuiuto con i soldi, ma sotto gli occhi miei!! Quei soldi devono andare, ma no a me a te a Sambarè, devono andare ai poveri cristi che stanno nelle campagne

BERNARDO IOVENE è mai possibile lo conosci da vent'anni non riesci a parlargli di questa cosa.

FRANCESCO SAVERIO CARUSO - DELEGATO USB FOGGIA Bernà, la smetti di rompere il cazzo tu e Aboubakar. Ok? registrato? Dobbiamo parlare, se non ci vieni tu a fare sui guai di Torretta Antonacci, non ti mettere pure tu su sto cazzo di Aboubakar.

BERNARDO IOVENE A questo punto abbiamo contattato l'onorevole Soumahoro, che ci ha dato appuntamento a Foggia, nel ghetto di Torretta Antonacci, dove, uscito dal sindacato, ha fondato l'associazione Lega Braccianti. Prima va a visitare i resti dell'incendio scoppiato il 12 gennaio. Ad accompagnarlo ci sono alcuni suoi associati che per l'occasione hanno indossato il cappellino della Lega.

ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO Lega Braccianti.

BERNARDO IOVENE Sì, ma dico che attività fanno loro.

ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO Loro di fatto lavorano nei campi.

BERNARDO IOVENE Ho capito, cioè non fate attività sindacale?

ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO Ma non esiste, non siamo un sindacato e chi lo dice, dice il falso. BERNARDO IOVENE Infatti, dico.

ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO Questo è, non fa né trattenute, non è un sindacato! Qua siamo giunti a un livello: mancano i cavolfiori, colpa di Soumahoro! Mancano i cavolfiori, colpa di Soumahoro! Vieni, si può, si può vivere così? Mi chiedi cosa fa la Lega Braccianti, facciamo questo.

BERNARDO IOVENE E adesso che fate con questa documentazione?

ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO Sollecitiamo la Questura di Foggia per chiedere lo stato della pratica.

BERNARDO IOVENE Cioè vuole tornare al suo Paese. Qual è il suo paese?

ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO Il Mali.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Arrivati nella sede della Lega abbiamo chiesto perché ha lasciato il sindacato USB, ma è finito a parlare della colonizzazione dell'Africa.

ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO Si parlava di tesi congressuali che l'Africa è stata saccheggiata, lo dico da cittadino orgoglioso italiano

BERNARDO IOVENE Che c’entra questo con il sindacato, cioè, non ho capito il momento di rottura?

ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO Sono discussioni che abbiamo fatto dentro il sindacato.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Abbiamo poi provato a chiedere conto delle otto missioni nei ghetti italiani del 2020, dove hanno portato cibo durante il lockdown: hanno raccolto in totale 225.000 euro.

ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO Nel 2020 siamo andati avanti, abbiamo distribuito generi alimentari.

BERNARDO IOVENE Avete fatto le missioni, lei si ricorda quante missioni ha fatto fino al 31 dicembre?

ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO 4 Tutto, tutto, tutto sta all'interno dei due bilanci della Lega braccianti che lei trova on line.

BERNARDO IOVENE Che è questo qua. Allora, io ho un elenco di tutte le missioni che avete fatto: il 9 aprile a Torretta, il 18 aprile a Borgo Mezzanone, il 25 aprile a Rosarno.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il resoconto preciso di Caruso e Sambarè per le otto missioni del 2020 e di 53.640 euro di acquisto merci, mentre dai bilanci dell'onorevole Soumahoro risultano 120.998. Così anche per il trasporto: il conto di Caruso sarebbe 4.200 euro; dai bilanci dell'onorevole ne risultano 38.376. In pratica, nel 2020 Soumahoro dichiara 159.000 euro. Per Caruso e Sambarè, invece, solo 58.000. Mancherebbero 101.000 euro.

BERNARDO IOVENE Praticamente mancano all'appello 101.000 euro del 2020 parlo, no?

ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO Dico sempre che siamo alle leggende.

BERNARDO IOVENE Le uscite delle missioni non corrispondono a quelle del bilancio.

ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO No, no, no, no, no, non è vero questo. O Caruso decide di scrivere le regole della stesura di un bilancio, non so dove lo decide. Io seguo il ministero delle Politiche sociali, per legge, per una questione di legalità e di trasparenza. Questo è.

BERNARDO IOVENE Cioè lei avrebbe modo di documentare attraverso delle fatture tutte queste uscite?

ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO Caruso come mai non cita che Lega Braccianti ha rimborsato giustamente, dico giustamentem l'anticipo del trasporto per le manifestazioni fatte da USB Foggia? Allora è una questione di accanimento da parte di alcuni ambienti della USB.

BERNARDO IOVENE Sì, però lei non ha mai risposto se ha delle fatture che giustificano ad esempio questi 120.000 euro di cibo nel 2020.

ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO Guardi 159 per l'acquisto di beni e servizi.

BERNARDO IOVENE È quello che sto dicendo io, quello che c'è sul bilancio. Io le sto dicendo perché non lo dimostra. 5 ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO Il bilancio conta, queste cose fatte...

BERNARDO IOVENE Se lei riesce a dimostrare.

ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO il bilancio lo dimostra, se lei mi dice devo farlo in base a quello che dice Francesco Caruso per me conta lo Stato italiano, di cui Francesco Caruso è cittadino, anch’io sono cittadino

BERNARDO IOVENE Vabbè non arriviamo da nessuna parte comunque

ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO No, arriviamo da qualche parte. Marzo 2020.

BERNARDO IOVENE Sì, ma le cifre le mette lei non è che presenta le fatture.

ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO 2020, non me le invento. Io non rispondo a illazioni, sa cosa dice Papa Francesco? il silenzio è la strada e anche la risposta alle chiacchiere.

BERNARDO IOVENE Lui dice che quando andavate in giro lei pensava solo a fare i selfie e poi lui risolveva i problemi.

ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO No, è falso posso dirlo falso. Si parlava solo dei braccianti solo quando c'è il morto. Mi sono detto visto: che ci sono i social media, trasformo i miei canali social in uno strumento per rilanciare e condividere con i cittadini che a casa mangiano ma non sanno da dove provengono il cibo. Da quando non sono più in USB è diventato anche quello un problema, poi il selfie l’ho fatto anche col Papa.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Soumahoro e Caruso hanno aperto una raccolta fondi nel periodo del lockdown per portare cibo nei ghetti. Totale 225 mila euro. Ora Caruso dice io mi sono occupato di comprare il cibo a Benevento e poi della gestione dei trasporti, totale costi 58 mila euro. Solo che Soumahoro ha messo a bilancio 159.000 euro. Tra la versione di Caruso, e quella di Soumahoro ballano 101 mila euro. Che fine hanno fatto? Secondo Soumahoro è tutto quanto a posto perché è stato scritto nel bilancio, però quando il nostro Bernardo gli chiede mostrami che hai ragione, mostrami le fatture che hai allegato lui ha sviato. Noi ora aspettiamo che l’onorevole ci dia le prove di quello che dice, questo per sgombrare le ombre alle spalle di quei braccianti che dice tanto di difendere.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. Sarebbero oltre 500.000 i braccianti stranieri che vivono nel nostro Paese, secondo un rapporto del Ministero del Lavoro, realizzato in collaborazione con le Politiche Sociali e ANCI, ci sarebbero 10.000 braccianti stranieri censiti che vivono in 37 ghetti. Che sono sostanzialmente baracche o immobili dismessi. Sono stime perché queste sono state realizzate in base alle autodichiarazioni dei Comuni e non tutti li hanno dichiarati. Il 70% di questi ghetti sono nel sud Italia perché è là che i braccianti per la raccolta di arance, olive, pomodori. Si tratta di invisibili che vivono in condizioni disumane, senza acqua, senza corrente e riscaldamento. I cui nomi emergono solo a delle tragedie. Ora ci sono 200 mln di euro del PNRR per strapparli dalla vergogna dei ghetti, e dal malaffare dei caporali. Il ministero del lavoro ha indetto un censimento, ha incaricato una fondazione dell'Anci di realizzare un censimento. In base alle autocertificazioni dei Comuni ben 114 milioni dei 200 finiranno in Puglia . Saranno in grado i comuni pugliesi di presentare dei progetti nei tempi e all’altezza? E i soldi sono stati distribuiti equamente? E soprattutto serviranno a strappare una volta per tutte i braccianti dalla vergogna dei ghetti? Cominciamo da quello più vecchio realizzato 14 anni fa su una pista di un aeroporto abbandonato e che nel frattempo si è trasformato in una cittadella con dei servizi, servizi si fa per dire.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Dopo mezz'ora di questa strada dissestata, si arriva al ghetto di Borgo Mezzanone. Per il superamento di questo campo, dove vivono 4000 persone, ci sono per il Comune di Manfredonia 53 milioni di euro. Una buona notizia, di cui, però, i braccianti non sanno nulla.

ABDULLAH ISMAIL Buttare fuori soldi per dare un migrante che non lavora su una sedia così sta seduto non ha alcun senso.

BERNARDO IOVENE Cioè secondo te che cosa dovrebbero fare con questi soldi che hanno stanziato?

ABDULLAH ISMAIL Se tu mi fai dormire mi dai 600 mese io non mi piace, non serve! dà loro documenti loro va a lavorare prende case da soli.

BERNARDO IOVENE Servono alla base documenti e lavoro.

ABDULLAH ISMAIL E lavoro, questo due cose, basta.

DANIELE IACOVELLI - SEGRETARIO GENERALE FLAI-CGIL FOGGIA In automatico dovrebbe scattare ad esempio un permesso per lavoro, che però sia istantaneo al momento che un lavoratore possa dimostrare che ha un rapporto di lavoro valido.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I soldi sono stati stanziati in base alla presenza dei lavoratori nel ghetto che sono in gran parte senza documenti

DANIELE IACOVELLI - SEGRETARIO GENERALE FLAI-CGIL FOGGIA Negli anni effettivamente gli sono state fatte tante promesse, però la possibilità e l'occasione di questo PNRR potrebbe essere, come dire, l'ultima possibilità reale.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I 53 milioni di euro arriveranno al Comune di Manfredonia che deve fare un piano di azione e rispettare i tempi, altrimenti questa valanga di soldi si perde.

BERNARDO IOVENE Sono tanti soldi.

GIANNI ROTICE - SINDACO DI MANFREDONIA (FG) Sono tanti soldi. Ma soprattutto non ci veniva detto cosa fare. ho detto alla Regione, scusate, io vengo, sono sindaco da sei mesi in un comune dove abbiamo il dissesto finanziario, una struttura di personale ridotto. Come faccio a adempiere a quelle date che loro avevano predisposto.

BERNARDO IOVENE Arrivano i soldi, è un problema. Siamo al paradosso.

GIANNI ROTICE - SINDACO DI MANFREDONIA (FG) Il rischio è quello, dobbiamo essere onesti su questo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il Sindaco di Manfredonia ma anche gli altri comuni che hanno avuto il finanziamento hanno chiesto aiuto alla Regione Puglia, che ha già esperienza con i progetti europei Supreme di fuoriuscita dai ghetti, e ha creato a ridosso di Torretta Antonacci questi moduli abitativi, e nelle vicinanze, casa Sankara.

PAPA LATYR FAYE - PRESIDENTE CASA SANKARA - ASSOCIAZIONE GHETTO OUT Noi abbiamo portato fuori dalle baracche le persone, e le abbiamo portate a casa Sankara.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Per questi progetti che ospitano 400 persone a insediamento, però, sono stati stanziati pochi milioni di euro, dal PNRR, invece, ne arriveranno 114 e c’è bisogno quindi di tecnici e ingegneri per elaborare in tempi stretti i progetti esecutivi.

RAFFAELE PIEMONTESE - ASSESSORE AL BILANCIO E AGLI AFFARI GENERALI REGIONE PUGLIA Noi non siamo nelle condizioni di mettere nostri dipendenti regionali, nostri tecnici regionali, perché anche noi abbiamo bisogno di ulteriori ingegneri e quindi facciamo 8 in modo che le università, a partire dal Politecnico, possano dare un supporto ai comuni.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il Politecnico di Bari, a spese della Regione, ha individuato cinque piccoli borghi, isolati nelle campagne, dove spostare parte dei migranti, costruiti per la riforma agraria del 1930. Borgo Cervaro, Borgo giardinetto, Borgo Incoronata, il Borgo di Mezzanone e Borgo Segezia.

CARLO MOCCIA - DIRETTORE DIPARTIMENTO DI ARCHITETTURA POLITECNICO DI BARI Sono soprattutto alcuni edifici pubblici, le scuole o l'ex Casa del fascio che non hanno una utilizzazione ma possono benissimo essere riutilizzati invece come edifici della vita collettiva.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ma prima però sarebbe opportuno risolvere la questione dei documenti. In tanti magari potrebbero anche lasciare la Puglia. La CIGL afferma di avere assunto un ruolo guida al tavolo con i Comuni, la Regione, gli altri sindacati, associazioni e il Politecnico.

GIUSEPPE GESMUNDO - SEGRETARIO GENERALE CGIL PUGLIA Bisogna superare quel problema a monte attraverso l'abolizione della Bossi-Fini e provare ad intervenire con una nuova normativa che regolarizzi intanto quelli che ci stanno.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il problema è nazionale, i Comuni dovrebbero essere al corrente della situazione nei ghetti visto che sono stati investiti di tanta responsabilità

BERNARDO IOVENE Però lei ci dovrebbe andare dentro là, perché se non hanno i documenti non hanno il lavoro.

GIANNI ROTICE - SINDACO DI MANFREDONIA (FG) Però ecco questo è interessante che sta dicendo, io veramente andrei proprio in mezzo a loro a parlarci di questo, cioè tu con una cosa minima risolvi un problema grande, però questa cosa non me l’ha mai sottoposta nessuno.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il sindaco di Manfredonia con noi ha scoperto l’acqua calda. Tuttavia, lui in quanto sindaco di un Comune è uno dei soggetti attuatori dei progetti per superare i ghetti e contrastare il caporalato. A decidere così è stato il ministro del Lavoro del passato Governo.

BERNARDO IOVENE Perché avete pensato di dare ai Comuni questi soldi?

ANDREA ORLANDO - MINISTRO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI 2021- 2022 Beh, perché sono l'entità territoriale più vicina, che sono quelle che hanno fatto la mappatura, perché sono quelle poi anche che devono anche poi continuare un'attività che non finirà con la realizzazione diciamo del progetto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Questo invece è il Gran ghetto di Torretta Antonacci: il Comune di San Severo ha dichiarato che qui vivono 2000 persone e quindi riceverà 28 milioni di euro.

SAMBARE SOUMALIA Il progetto che viene fatto sull'immigrazione per aiuti non c'è nessuno che parla dei documenti quello che interessa agli immigrati, non ci sta.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Sambare si occupa di tutte le questioni anche burocratiche dei migranti del ghetto. Ad aiutarlo tra le complicate normative e richieste ai vari enti c'è l'ex deputato Francesco Caruso.

FRANCESCO SAVERIO CARUSO – DELEGATO USB FOGGIA Segnami qua il cellulare, devo controllare quante giornate hai.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO All'interno del ghetto c'è un ufficio dove tutti i giovedì c'è lo sportello aperto. Ad esempio, il Comune di San Severo non riconosce il cedolino della questura che invece è a tutti gli effetti un documento in attesa della consegna del permesso di soggiorno.

FRANCESCO SAVERIO CARUSO – DELEGATO USB FOGGIA Almeno la carta d'identità, quella ce la dovrebbero dare.

BRACCIANTE Io sono arrabbiatissimo, oggi ha detto fuori d'Italia o io torno al mio paese perché sta a Italia senza niente.

FRANCESCO SAVERIO CARUSO – DELEGATO USB FOGGIA Lo sportello USB raccoglie anche la posta.

FRANCESCO SAVERIO CARUSO – DELEGATO USB FOGGIA È Arrivato il codice fiscale che fra due mesi gli scade.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Spesso succede che i migranti si ritrovano con la sovrapposizione di più codici fiscali oppure, e non si sa perché, invece del classico codice gli rilasciano un numero.

BERNARDO IOVENE E che difficoltà, che difficoltà ti crea il codice numerico?

FRANCESCO SAVERIO CARUSO – DELEGATO USB FOGGIA 10 Non gli fanno i contratti, il padrone non glielo riconosce.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Altro servizio è il controllo sul sito dell'Inps delle giornate effettivamente lavorate

FRANCESCO SAVERIO CARUSO – DELEGATO USB FOGGIA al 30 novembre hai 33 giornate, tu da quand'è che lavori con loro?

BRACCIANTE Io lavoro tre mesi

FRANCESCO SAVERIO CARUSO – DELEGATO USB FOGGIA Questa è la solita truffa che gli fanno, non gli segnano le giornate.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E sono stati loro a denunciare alla Guardia di Finanza la truffa di alcuni impiegati di Poste, Agenzia delle Entrate e CAF che hanno intascato i soldi del reddito di emergenza per 700.000 euro destinato agli abitanti del ghetto.

FRANCESCO SAVERIO CARUSO – DELEGATO USB FOGGIA Abbiamo raccolto le denunce di tutte queste persone che gli hanno rubato i soldi all'ufficio postale. Cosa mi raccontavano loro che andavano dai carabinieri: Ah mi hanno rubato, io dovevo avere i soldi e non li ho avuti, e il carabiniere diceva, per piacere, la verità è anch'io all'inizio facevo così, ma mi dicevano non ci sono i soldi

BERNARDO IOVENE Ti sembrava impossibile.

FRANCESCO SAVERIO CARUSO – DELEGATO USB FOGGIA E non ci credevo.

BERNARDO IOVENE Vanno oltre.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Poi quando chiedo a Caruso se come USB partecipano al tavolo con gli altri sindacati e i Comuni sui fondi del PNRR.

FRANCESCO SAVERIO CARUSO – DELEGATO USB FOGGIA Ah, quindi loro stanno facendo e stanno discutendo del piano del PNRR, senza sentire gli abitanti di Torretta Antonacci, i quali sono i beneficiari di questo piano. Con 29 milioni di euro costruisci il mega villaggio, ma dopodiché questi rimarranno qua perché non hanno i documenti.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il Comune di San Severo, dicevamo, non riconosce i cedolini della questura con cui, lo dice la norma, si può chiedere e ottenere l’iscrizione anagrafica.1

BERNARDO IOVENE Questo qua è un cedolino no, voi qua non glielo riconoscete. Il problema più grosso di queste persone sono i documenti, i documenti, i documenti, dico, voi perché non andate incontro a queste persone?

FRANCESCO MIGLIO - SINDACO DI SAN SEVERO (FG) Questo non è possibile fare una cosa del genere.

BERNARDO IOVENE E l’avete fatto voi dal Comune.

FRANCESCO MIGLIO - SINDACO DI SAN SEVERO (FG) C'è un'interlocuzione in atto tra di noi e quindi.

BERNARDO IOVENE All’interno del Comune ci sono queste problematiche che state risolvendo?

FRANCESCO MIGLIO - SINDACO DI SAN SEVERO (FG) Assolutamente.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO San Severo grazie a queste persone con o senza documenti prenderà dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza circa 28 milioni di euro.

FRANCESCO MIGLIO - SINDACO DI SAN SEVERO (FG) Questa misura è per superare gli insediamenti informali per contrastare il caporalato. Proporremo al ministero la creazione di tre siti residenziali a bassa intensità.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Uno dei tre siti individuati è su quest’area e il progetto sarà lo stesso che hanno previsto per la ristrutturazione del vecchio mattatoio per cui già stati stanziati, alcuni anni fa, e sempre per proteggere i lavoratori dal caporalato, con i fondi Pon-legalità, 4 milioni e 300mila euro.

SIMONA VENDITTI - ASSESSORA ALLE POLITICHE SOCIALI COMUNE DI SAN SEVERO (FG) Questo è il mattatoio, il mattatoio. Questo è il layout di come l'abbiamo immaginato. Come vede, i moduli sono pensati per essere moduli abitativi autonomi.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO 28 e 4 sono 32 milioni di euro, ma a Torretta Antonacci non si è visto niente e niente si vedrà a Stornara, in questo campo dove l’anno scorso morirono due bambini in un incendio, ci vivono in 300 sono braccianti di nazionalità bulgara, ma per loro dal PNRR non arriverà neanche un euro.

PINUCCIO GRIPPO - ISPETTORE POLIZIA MUNICIPALE COMUNE DI STORNARA (FG) Non hanno residenza, sono comunitari dalla Bulgaria.

BERNARDO IOVENE Perché non hanno la residenza?

PINUCCIO GRIPPO - ISPETTORE POLIZIA MUNICIPALE COMUNE DI STORNARA (FG) Perché mancano i requisiti di legge, cioè il contratto di lavoro e il contratto di affitto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Sono braccianti senza documenti, lavoreranno a nero, rientrano a pieno titolo nel PNRR. Per ottenere il finanziamento dal ministero del Lavoro, occorreva compilare un questionario inviato dall'Anci a tutti Comuni.

ROBERTO NIGRO - SINDACO DI STORNARA (FG) E ci siamo trovati in pratica fuori.

BERNARDO IOVENE Non avete fatto in tempo a fare il questionario? Come si spiega è colpa vostra oppure è colpa del ministero che non vi ha individuato?

ROBERTO NIGRO - SINDACO DI STORNARA (FG) Secondo me, non era spiegato bene diciamo di che cosa si trattava. Se si parlava chiaramente dice mette a disposizione dei fondi a riguardo penso che uno capiva che.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il Comune di Stornara non è riuscito a compilare il questionario inviato dalla Fondazione Cittalia di ANCI a tutti i Comuni. Ma all’interno si comunicava che il censimento dei ghetti era legato a un finanziamento?

BERNARDO IOVENE Lo sapevano loro?

MONIA GIOVANNETTI - DIRETTRICE DIPARTIMENTO STUDI E RICERCHE FONDAZIONE CITTALIA-ANCI Questo lo sapevano perché era scritto

BERNARDO IOVENE Tutti i comuni?

MONIA GIOVANNETTI - DIRETTRICE DIPARTIMENTO STUDI E RICERCHE FONDAZIONE CITTALIA-ANCI Certo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO C'era scritto chiaramente nella lettera di accompagnamento al questionario.

BERNARDO IOVENE Gentile Sindaco, questa qui.

MONIA GIOVANNETTI - DIRETTRICE DIPARTIMENTO STUDI E RICERCHE FONDAZIONE CITTALIA-ANCI Sì. Rappresenta il riferimento informativo.

BERNARDO IOVENE Che condizionerà direttamente l’attivazione di 200 milioni. C’era scritto chiaro insomma.

MONIA GIOVANNETTI - DIRETTRICE DIPARTIMENTO STUDI E RICERCHE FONDAZIONE CITTALIA-ANCI Esatto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Era scritto talmente chiaro che altri comuni, più attenti, e senza nemmeno avere i ghetti, hanno risposto indicando di avere la presenza di solo dieci stranieri, come il comune di Bisceglie, che ha ottenuto ben 2.129.000 euro.

BERNARDO IOVENE Però voi con questi dieci lavoratori che cosa dovreste fare con questi soldi che vi arrivano.

ANGELANTONIO ANGARANO - SINDACO DI BISCEGLIE (BT) L'idea è quella di creare degli alloggi temporanei.

BERNARDO IOVENE Attualmente questi dieci che arrivano dove dormono?

ANGELANTONIO ANGARANO - SINDACO DI BISCEGLIE (BT) Dormono o presso la Caritas oppure, purtroppo, dormono in casolari connessi ovviamente alle aziende agricole che li assumono.

BERNARDO IOVENE Non è stato fatto un controllo sulle dichiarazioni dei Comuni, vi siete fidati diciamo no.

MONIA GIOVANNETTI - DIRETTRICE DIPARTIMENTO STUDI E RICERCHE FONDAZIONE CITTALIA-ANCI Stiamo parlando appunto di Comuni, cioè sono delle istituzioni.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Bisogna fidarsi. Il Comune di Carapelle ha dichiarato anch'esso dieci presenze di migranti in un ghetto che non esiste e il ministero gli ha riconosciuto un finanziamento di 1.129.000 euro.

UMBERTO DI MICHELE - SINDACO DI CARAPELLE (FG) Gli uffici sono riusciti a censirne, hanno messo dieci ma sono sicuramente molto di più.

BERNARDO IOVENE Ah, dodici saranno. Sono stagionali questi qua se ho capito bene.

UMBERTO DI MICHELE - SINDACO DI CARAPELLE (FG) No, sono molti di più, alcuni sono stagionali altri sono fissi.

BERNARDO IOVENE Sì, ma sono 10.

UMBERTO DI MICHELE - SINDACO DI CARAPELLE (FG) Io le dico è stato il finanziamento che abbiamo ottenuto è stato una casualità, chi ha risposto a quei questionari ha avuto i finanziamenti.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Bastava rispondere e indicare il numero di presenze. Il Comune con 1.129.000 euro farà degli uffici informativi, un pulmino e dieci biciclette elettriche a disposizione dei braccianti per andare e tornare dalla campagna.

UMBERTO DI MICHELE - SINDACO DI CARAPELLE (FG) Uno torna dal campo deve pure pedalare sotto 40 gradi. Vedo anche un po' di sarcasmo da parte sua, dieci persone avete avuto tutti questi soldi.

BERNARDO IOVENE No, io sono venuto a dirle bravo mica sono venuto a dirle. Se uno pensa alle biciclette elettriche perché questi si affaticano in campagna e non devono. Io le devo dire solo bravo! Se si trasforma questa zona in una piccola Svizzera, dobbiamo essere solo contenti.

UMBERTO DI MICHELE - SINDACO DI CARAPELLE (FG) Magari.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il comune di Cerignola ha dichiarato che in questo Borgo nel periodo estivo vivono 530 migranti e per questo riceverà quasi nove milioni di euro, ma quando chiediamo al sindaco con nostro stupore ci dice di non saperne nulla e chiama l’assessore.

BERNARDO IOVENE Ma a chi deve ringraziare il comune visto che il sindaco non ne sapeva proprio niente.

MARIA DIBISCEGLIA - VICESINDACA E ASSESSORA AL WELFARE COMUNE DI CERIGNOLA (FG) Sì, devono ringraziare gli uffici sicuramente

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Con i primi 4 milioni di euro sarà ristrutturato questo borgo che ospiterà i braccianti e poi, in pieno centro storico, adibiranno un'ex caserma a centro servizi e alloggi.

BERNARDO IOVENE 60 persone verranno qua.

MARIA DIBISCEGLIA - VICESINDACA E ASSESSORA AL WELFARE COMUNE DI CERIGNOLA (FG) Si

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Anche qui potranno usufruire degli alloggi solo chi è in regola con permesso di soggiorno e lavoro. Ma facendo un giro al Borgo dove vivono attualmente poche persone rispetto ai 530 del periodo estivo, l'unica e sola cosa che chiedono sono i documenti.

MARIA DIBISCEGLIA - VICESINDACA E ASSESSORA AL WELFARE COMUNE DI CERIGNOLA (FG) Per loro è necessaria la prima accoglienza, i documenti, i documenti sanitari, regolarizzarsi ove possibile, ovviamente sotto questo punto di vista.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Documenti regolari e saper far bene il proprio lavoro. Sarebbero questi gli ingredienti per il successo del finanziamento dei 200 milioni di euro. Ma invece di rilascio dei documenti non se ne parla proprio. Poi abbiamo visto che c’è chi ha incassato denunciando la presenza di braccianti nessuno ha controllato. Invece c’è chi avrebbe avuto bisogno di incassare perché ha i braccianti ma non si è reso conto che bastava compilare un modulo per ottenere i finanziamenti. Poi c’è chi invece ha dovuto rinunciare a 4,5 milioni di euro, il Comune di Turi, perché non è riuscito a fare squadra con i Comuni limitrofi. Pure lì c’è un problema di braccianti che si accampano nelle campagne periferiche per la raccolta stagionale delle ciliegie. Poi c’è il Comune Manfredonia, 53 milioni di euro per il ghetto più grande d’Italia, ma lì il sindaco che ha interessi nel campo dell’edilizia non si è affacciato mai nel ghetto per capire quali sono le reali esigenze. Poi c’è invece chi ha uffici talmente competenti che è riuscito a incassare finanziamenti pure non avendo ghetti. Ed è il Comune di Bisceglie, 2,1 milioni. Quello che è mancato sicuramente è un censimento serio della presenza dei braccianti. Questo per evitare il rischio di costruire le ennesime cattedrali nel deserto, e di lasciare che gli invisibili serbatoio di quel malaffare e quelle speculazioni che abbiamo visto fino ad oggi.

Caso Soumahoro, "Striscia la Notizia": quasi 10mila euro in vestiti per lo sciopero. Storia di Redazione Tgcom24 il 30 gennaio 2023.

Prosegue l'inchiesta di "Striscia la Notizia" in merito al deputato  Aboubakar Soumahoro, nell'occhio del ciclone per le presunte attività illecite della sua famiglia con "Lega Braccianti".

Dopo le testimonianze del socio e di alcuni collaboratori, l'inviato del tg satirico Pinuccio torna sul caso e durante la puntata di lunedì 30 gennaio analizza le voci di spesa da quello che è stato pubblicato sul sito della Lega Braccianti, ponendo l'attenzione sulle  rendicontazioni del 2020 e del 2021.

Come raccontato da "Striscia la Notizia", tali documenti proverebbero che degli oltre 31mila euro raccolti per lo sciopero organizzato a Roma, circa 10mila sarebbero stati spesi per indumenti e alimenti, mentre oltre 21mila sarebbero stati dedicati al trasporto dei manifestanti.

Inoltre, dei 16mila euro raccolti per i regali di Natale destinati ai bambini dei ghetti di Torretta Antonacci e Borgo Mezzanone (dove non ci sarebbero bambini), oltre 1.700 euro sarebbero stati pagati, invece, per la realizzazione di un video.

Striscia la Notizia, scoop su Soumahoro: "Quasi 10mila euro in vestiario". Libero Quotidiano il 30 gennaio 2023

Nuovi dettagli mettono in difficoltà Aboubakar Soumahoro. Ancora una volta merito di Striscia la Notizia. Il tg satirico di Canale 5, in onda lunedì 30 gennaio, torna a far luce sulla vicenda che ha tirato in ballo il deputato. In particolare la trasmissione svela qualche cifra, ossia come sono stati spesi alcuni dei soldi delle raccolte fondi lanciate dall'ex esponente di Verdi-Sinistra italiana. Risultato? Quasi 10mila euro in alimenti e vestiario, oltre mille per un video, più di 20mila per i trasporti.

Nonostante l'onorevole continui a non fornire i giustificativi delle donazioni, Pinuccio prova a ricostruire le voci di spesa da quello che è stato pubblicato sul sito della Lega Braccianti, dove ha trovato le rendicontazioni del 2020 e del 2021. Da questi documenti spunta che, degli oltre 31mila euro raccolti per lo sciopero a Roma, circa 10mila sono stati spesi per indumenti e alimenti, mentre oltre 21mila per il trasporto dei manifestanti.

"Ma a noi non risultano migliaia di persone trasportate", commenta l'inviato. Mentre dei 16mila euro raccolti per i regali di Natale destinati ai bambini dei ghetti di Torretta Antonacci e Borgo Mezzanone (dove non ci sono bambini), oltre 1.700 euro sono stati pagati per la realizzazione di un video. Insomma, qualcosa ancora non torna mentre Soumahoro preferisce il silenzio.

Il caso e la gogna. Caso Soumahoro e l’editorialismo inquirente. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 27 Gennaio 2023

C’è un solo motivo per cui a destra e a manca si son rivoltati come vipere calpestate quando qualcuno ha denunciato che era la componente classista e razzista – e questa più che quella – a mobilitare la piazza del linciaggio contro Aboubakar Soumahoro. E il motivo è molto semplicemente questo: perché era così; perché era vero. E perché la vicenda scopriva un disturbo della nostra società, del nostro giornalismo, della nostra giustizia, e insomma del nostro generale tenore civile, ben più profondo rispetto a quello esploso intorno al caso del “talentuoso ivoriano”, per usare una delle definizioni dell’editorialismo inquirente che ha guidato la campagna.

Se non fosse stato così, se non fosse stato vero, se non fosse stata quella componente a motivare in modo magari subdolo ma effettivo quell’aggressione, e se la cosa non avesse implicazioni ben più vaste e significative, il fronte razzial-giustizialista avrebbe trattato quella denuncia come si fa con una gratuita boutade, e soprattutto non avrebbe fatto ricorso al più classico degli espedienti difensivi in argomento: vale a dire la raccolta delle prove a sostegno della pretesa equanimità e neutralità delle requisitorie contro il balordo che cianciava di diritti dei deboli mentre il suo clan familiare affamava i migranti e i lavoratori e ci faceva pure i soldi. Quali prove? Voilà: il fatto che ad accusarlo fossero anche – anzi soprattutto! – persone con il suo stesso tono di epidermide. I braccianti neri che lui stesso avrebbe dovuto rappresentare e difendere.

I migranti di cui avrebbe dovuto occuparsi. Infine (questa è l’ultima puntata) la giornalista nera – quella sì una brava persona, perché non si infila populistici stivali fangosi e non ha parenti con le borse di lusso – che ha fatto un’onorata carriera in Rai dopo un’infanzia migrante di lavori umili: e che ora – lo vedi, tu che blateri di razzismo? – rimprovera a Soumahoro di aver tradito la causa e di aver semmai pregiudicato, altro che difeso, le ragioni degli ultimi della società. Un armamentario probatorio e di giustificazione che assomiglia come una goccia d’acqua a quello dell’antisemita che non è tale perché ha tanti amici ebrei, o chiama al convegno neonazista l’ebreo che sottoscrive il manifesto contro la multinazionale giudaica. O, per star più vicini, è la stessa riprova di non razzismo offerta dal partito politico il cui senatore dà di “orango” a una ministra di colore, il cui capo annuncia le ruspe contro la “zingaraccia”, il cui candidato alla presidenza della regione vagheggia di difesa della “razza bianca”: ma senza nessun razzismo, appunto, com’è comprovato dal fatto che hanno candidato e portato in parlamento un nero.

Solo che dare di razzista a certa destra in questo Paese ancora si può, anzi è quasi facile, mentre se quel pregiudizio lambisce gli intendimenti e produce gli automatismi di un milieu non etichettabile, e investe la natura intima di un atteggiamento diffuso, allora non si può più. Perché il razzismo in Italia non c’è, salvo quello protocollare a braccio teso o a rosario agitato. Perché dare addosso a reti e a giornali unificati a un parlamentare che non ha ripudiato la moglie griffata, e non vive in una baracca ma si è pure preso l’appartamento, e non rinuncia allo stipendio pur avendo una suocera trafficona, è quel che ordinariamente si fa con qualsiasi politico accusato di incoerenza. E lo confermano anche tanti neri perbene, signori miei.

Iuri Maria Prado

I casi Soumahoro e Qatargate. Il garantismo a targhe alterne della destra, vale solo per i ricchi e gli amici. Luigi Manconi su Il Riformista il 26 Gennaio 2023

Caro Direttore,

per i partiti e per i giornali di destra è stato un gioco fin troppo facile quello di denunciare la vocazione giustizialista della sinistra in occasione della polemica sul ministro della Giustizia Carlo Nordio e sulle sue intenzioni di ridurre il ricorso alle intercettazioni telefoniche. Fin troppo facile, e posso dirlo a ragion veduta, perché di quella sinistra – ancorché faticosamente – faccio parte. E, dunque, posso affermare che la vocazione giustizialista alberga tuttora nella maggioranza di questa area politica.

Ma non riesco, non riesco proprio, a evitare la replica (un po’ puerile, lo ammetto): e allora voi? Qui, l’abusata parabola della pagliuzza e della trave si impone, e non solo per ripicca: perché, piuttosto, colpevolizzare esclusivamente la sinistra, come si merita, rischia di assolvere la destra italiana. Che è, poi, la più giustizialista d’Europa. Come sempre, bisogna salvaguardare e valorizzare le eccezioni, ma se i garantisti collocati a sinistra possono contarsi sulle dita di due mani, o poco più, quelli collocati a destra (nei media e nel sistema politico) non superano le dita di una. Innumerevoli le conferme. La fallacia di un presunto garantismo di destra rivela impietosamente tutta la sua povertà rispetto a tre regole fondamentali. Uno: il garantismo vale per tutti, amici e nemici, alleati e avversari, sodali e competitori. Due: il garantismo deve essere universalista. Cioè capace di tutelare ricchi e poveri, potenti e deboli, privilegiati e non garantiti. Tre: il garantismo si afferma a prescindere dall’identità di colui al quale va applicato, dunque a prescindere dal curriculum criminale, dalle idee politiche, dall’adesione al sistema democratico, dalla simpatia che suscita o dalla riprovazione che ispira.

Quanto i partiti e i media di destra facciano strame di questi principi, è sotto gli occhi di tutti. Basti notare che, in occasione delle due più recenti vicende giudiziarie “di sinistra” (caso Soumahoro, Qatargate) la destra compattamente, come un sol uomo e un solo vocabolario, come un unico pensiero e un’unica postura, si è scatenata contro il campo avversario, senza la più esile preoccupazione garantista. (Ricordo una sola eccezione: Iuri Maria Prado). E così è andata, inesorabilmente, nel corso degli ultimi trent’anni. D’altra parte, il connotato classista del garantismo della destra è lampante: non vale mai, dico mai, quando diritti e garanzie dovrebbero tutelare gli individui più deboli e in particolare gli stranieri e le persone private della libertà personale. I decreti sicurezza del ministro Salvini hanno fatto scempio di tutte le garanzie, processuali e penali, e hanno contribuito all’introduzione di un “diritto diseguale” per chi non sia titolare della cittadinanza italiana.

L’abolizione di un grado di giudizio per coloro che ricorrono contro il mancato riconoscimento dello stato di rifugiato (introdotta, peraltro, da un governo di centro – sinistra), la pratica dei respingimenti collettivi, le limitazioni al diritto – dovere di soccorso in mare, sono altrettanti strappi inferti al sistema delle garanzie. Infine, mentre una dozzina di anni fa, la difesa della causa di Stefano Cucchi veniva assunta anche da esponenti della destra (da Melania Rizzoli a Flavia Perina), oggi nulla del genere. Non un solo esponente dell’attuale maggioranza ha pronunciato una sola parola sulla vicenda dello sciopero della fame di Alfredo Cospito contro il 41-bis. E appena un paio di anni fa, in occasione della “mattanza” (parole della procura) ai danni dei detenuti di Santa Maria Capua Vetere, i parlamentari di destra che si sono espressi lo hanno fatto per comunicare la propria solidarietà agli aguzzini. In conclusione, mi sembra innegabile che non possa essere la destra a dare lezioni di garantismo alla sinistra. Come non può essere il contrario. E la cosa riguarda anche il cosiddetto Terzo Polo.

Come dimenticare che, al momento della formazione del suo esecutivo, Matteo Renzi, per il Ministero della Giustizia, fece al capo dello Stato il nome di Nicola Gratteri, il più lisergico e spensierato (in senso letterale) dei giustizialisti italiani? E nel corso di quello stesso governo, le preoccupazioni garantiste del premier si adattavano agevolmente alla valutazione delle opportunità. L’intransigenza garantista di Renzi è, ahilui, acquisizione più recente. Quindi, come si vede, il più pulito c’ha la rogna (anche io, e ne ho fatto pubblica ammenda proprio su queste colonne). La conseguenza è una sola: rinfacciare tentazioni manettare all’opposto schieramento non porta da nessuna parte. Fino a che qualcuno non dismetterà per primo le armi e, dunque, non rinuncerà a colpevolizzare un avversario perché avversario, il populismo penale umilierà tutte le nostre migliori intenzioni. Cordiali saluti. Luigi Manconi

Soumahoro, che tristezza. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2023.

L’immigrato ivoriano difensore dei diritti dei braccianti africani in Italia, eletto a settembre alla Camera, accusa un po’ tutti di averlo tradito. Ma non si rende conto del danno che ha causato all’immagine degli africani in questo Paese

Lunga vita ad Aboubakar Soumahoro, l’immigrato ivoriano per almeno un paio di decenni difensore dei diritti dei braccianti africani ridotti in schiavitù nelle baraccopoli meridionali (e non solo), eletto a settembre alla Camera dove si presentò con gli stivali infangati e poco dopo travolto dalle inchieste sulle cooperative della moglie e della suocera. Se ha commesso dei reati lo diranno i tribunali. Fino ad allora è immacolato. Punto. Ma prima di accusare lui un po’ tutti di averlo tradito e più ancora di insistere su un «linciaggio mediatico razzista» subìto non per certe contraddizioni ma solo perché è nero («Mi han fatto un processo a reti unificate». «Sono un capro espiatorio. Mancava solo che qualcuno dicesse: “Oggi fa freddo, colpa di Soumahoro”. Oppure “Non ci sono più patate, colpa di Soumahoro”», «Bonelli e Fratoianni mi chiedevano i selfie, ora cambiano strada») sarebbe bene che riflettesse anche su quanto gli ha scritto sulla sua pagina social Maria de Lourdes Jesus.

La prima immigrata africana che, nata poverissima a Capo Verde, cresciuta portando bambina mattoni sulla testa e portata quando aveva dodici anni a Lisbona come domestica, riuscì a studiare, a laurearsi, a fare la giornalista fino a lavorare in Rai alla conduzione (la prima in tivù) del programma Nonsolonero: «Eh no, Soumahoro, non ti puoi permettere di continuare a fare il “poverino” e metterti a piangere spettacolarizzando in questo modo ridicolo il tuo vittimismo. (...) Sei riuscito a riportare alla ribalta, e soprattutto nei mezzi di comunicazione, temi riguardanti lo sfruttamento degli immigrati, il razzismo, la richiesta della legalizzazione e la cittadinanza ai figli di immigrati... Sei riuscito a entrare nel Parlamento italiano infrangendo il tetto di cristallo. Sei entrato nella storia di questo Paese e con te il mondo dell’immigrazione, fondamentale soprattutto per i giovani della comunità africana che vedono in te se non la certezza almeno la speranza di un mondo migliore anche per loro. Che tristezza... Onorevole Soumahoro, lei rappresentava un’immagine molto bella e positiva dell’Africa e degli africani in Italia. Un’immagine vincente che ci rendeva tutti molto orgogliosi. Si rende conto del danno che ha causato all’immagine degli africani in questo Paese? (...) No onorevole, lei non si può permettere di spargere lacrime nei social. Lo faccia privatamente, per favore». È razzista anche Lou? Ma dai...

Anticipazione da “Striscia la Notizia” il 25 Gennaio 2023.

A Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35) Pinuccio torna a occuparsi dell’ex sindacalista Aboubakar Soumahoro con la testimonianza di Antonio Maria Mira, giornalista del quotidiano Avvenire, che già nel 2018 aveva scritto sul suo giornale che c’era qualcosa che non andava nell’operato di Soumahoro.

 «Andavo da anni nei ghetti del Foggiano e ho toccato con mano alcuni gesti di violenza per impedire l’accesso ad altre associazioni in nome dell’autogestione», dice il giornalista, che continua:

«Due anni e mezzo fa Aboubakar mi mandò un messaggio in cui c’era scritto che non era vero quello che avevo scritto e che voleva parlarmi per dirmi cosa succedeva davvero a Torretta Antonacci. Io mi resi disponibile, ma a una condizione: permettere l’accesso al ghetto alle altre associazioni. Non mi rispose più».

 Il giornalista conferma anche che Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, gli esponenti politici che hanno appoggiato la candidatura di Soumahoro, erano stati informati di quello che succedeva nei ghetti. «Al momento della candidatura ho parlato con alcuni politici che conoscevo e ho inviato loro i miei articoli. La stessa cosa è stata fatta da rappresentanti dei sindacati».

 E allora perché Bonelli e Fratoianni hanno fatto finta di niente? «Ho sentito dire che c’era un accordo tra il PD e i due partiti più piccoli (Europa Verde e Sinistra Italiana) che si basava, tra le altre cose, sulla candidatura di Aboubakar. Anche perché lui veniva da una presenza mediatica molto forte».

Infine, sulla raccolta fondi per i regali di Natale destinati ai bambini nei ghetti, Mira dice: «È un’evidente falsità. Io vado nei ghetti da quindici anni e posso affermare che i bambini non ci sono. Solitamente lì vivono solo giovani maschi. Poi non c’è neanche un’immagine in cui si vede la consegna dei doni ai bambini. E un personaggio mediatico come Soumahoro non avrebbe mai perso un’occasione del genere».

Il servizio completo questa sera a Striscia la notizia.

Migranti. Nel ghetto foggiano, discarica di lavoratori, vincono degrado e illegalità. Antonio Maria Mira, San Severo (Foggia), su Avvenire mercoledì 17 agosto 2022

La baraccopoli tra San Severo e Rignano è rinata, ma la "foresteria" presenta seri problemi. Aggredito il presidente di Anolf, associazione che si batte per l'accoglienza legale.

Sale la tensione, assieme al degrado, nel "gran ghetto" di Torretta Antonacci, nelle campagne tra San Severo e Rignano Garganico (Foggia). Minacce, intimidazioni, sfociate il 10 agosto nell’aggressione a Mohammed Elmajdi, presidente di Anolf (Associazione nazionale Oltre le frontiere) Puglia e segretario territoriale della Cisl di Foggia. Al centro delle tensioni il campo container, "la foresteria", realizzato dalla Regione nel 2019 dopo l’incendio che aveva distrutto gran parte delle baracche. Ma la baraccopoli è rinata dalle sue ceneri, più ampia e degradata di prima. E ospita, in queste settimane di raccolta del pomodoro, più di 2mila braccianti. Mentre la foresteria, dove vivono 500 persone, è da anni terra di conquista, di affari illeciti, nascosti dietro la parola "autodeterminazione".

Nessuno interviene per bloccare l’illegalità. Anzi quando si prova a mettere ordine scatta la reazione violenta di alcuni personaggi e di alcune sigle pseudosindacali. Ne avevamo già scritto due anni fa quando nel mirino dei violenti erano finiti la Caritas diocesana di San Severo, la Flai Cgil del Foggiano, Intersos e l’associazione Baobab, accusate di voler fare soldi con l’assistenza, mentre erano le uniche presenze efficaci nel ghetto.

Dopo minacce e aggressioni, le attività (scuola, ambulatorio, sportello di ascolto) erano state sospese ed era poi stato possibile riprenderle solo con la presenza delle forze dell’ordine. A minacciare poche persone, allora aderenti al sindacato Usb e capitanate da Aboubakar Soumahoro, poi uscito dal sindacato per fondare la Lega braccianti e ora candidato di Verdi e Si alle politiche. Motivo della protesta la rivendicazione dell’autogestione del campo container. Ma probabilmente altro. Poi la situazione si era calmata e le attività del volontariato erano riprese.

La tensione è tornata quando, scaduta il 30 settembre 2021 la gestione delle Misericordie, la Regione ha fatto un nuovo bando. È andato due volte deserto, fin quando si è presentata l’Anolf, come unica manifestazione di interesse. Appena è corsa voce dell’assegnazione, sono partiti ricorsi alla prefettura per inesistenti irregolarità e poi le prime minacce sempre delle stesse persone (come riportato nell'intervista qui sotto).

Nel mirino proprio la gestione dei container, che questi personaggi non vogliono mollare e, più in generale, la predisposizione finalmente di controlli e sorveglianza. Noi siamo tornati al ghetto accompagnati da don Andrea Pupilla, direttore della Caritas diocesana.

L’unica novità positiva è che è stata asfaltata la strada, prima sterrata e piena di buche. Ma non era certo la prima urgenza. Giriamo tra container e baracche.

«Da due mesi abbiamo cambiato modalità di intervento – ci spiega don Andrea –, ogni giovedì facciamo ascolto girando, per instaurare un rapporto di fiducia. Poi chi vuole approfondire alcuni problemi viene allo sportello Caritas a San Severo aperto due giorni a settimana». Nell’ultimo anno si è riusciti a inserire sette immigrati in attività lavorative regolari: due in un centro sportivo, uno come commesso in un negozio, tre nella ristorazione, uno in un’azienda di barche. «Questo li rende finalmente autonomi ed è fondamentale».

A settembre, nell’ambito del Progetto Sipla, partirà un corso con Adecco di formazione professionale e sulla sicurezza. Iniziative concrete. Incontriamo Domenico Lamarca che con gli altri operatori dell’associazione Baobab porta avanti la scuola di alfabetizzazione. Oggi si impara l’italiano studiando per prendere la patente. Anche lui ci conferma che «c’è una brutta aria, c’è tensione. È difficile operare». Ma loro come altri volontari non si tirano indietro.

Che la situazione sia peggiorata si vede chiaramente. Le baracche sono aumentate, così come le automobili. Sono centinaia, anche alcuni tir, un vero mercato, probabilmente molte sono state rubate, altre vengono smontate per farne ricambi. «Sono alcuni rom a gestire questa attività», ci dicono i volontari. E infatti sono ben visibili. In fondo al ghetto il mercato di abiti, scarpe e oggetti vari. Enormi mucchi a terra, tra rifiuti e cani randagi. C’è davvero tanto degrado.

Ecco dove c’era la baracca di Joof Yusupha, 35 anni del Gambia, morto bruciato il 27 giugno, finito a vivere qui dopo aver perso il permesso di soggiorno a causa del cosiddetto "decreto sicurezza".

C’è tanta disumanità.

Un algerino che sta in Italia da 35 anni vive in un vecchissimo e sgangherato Fiat Fiorino. Ha 55 anni ma ne dimostra molti di più. Parla con accento calabrese perché ha vissuto a lungo a Gioia Tauro, e dice di stare bene lì. Non si muove mai dal suo rifugio di lamiera perché ha problemi alle gambe. Ma beve molto, come dimostrano i tanti cartoni di vino buttati a terra. I più "fortunati" stanno nei 114 container, anche se, come ci dicono tanti immigrati, devono pagare 100 euro al mese, illegalmente, proprio al gruppo dei violenti. Così come si paga 80 euro per avere la residenza, mentre la Caritas lo fa gratis.

In un container abita una ragazza nigeriana di 24 anni, incinta. Faceva la prostituta, come altre donne del ghetto, ci spiega Serena De Michele, mediatrice culturale della Caritas. Una presenza in crescita, un affare in crescita. La giovane voleva abortire ma i volontari della Caritas l’hanno aiutata ad accettare la maternità. Hanno poi convinto lei e il ragazzo ad entrare in un Sai (ex Sprar) ma dopo pochi mesi sono tornati al ghetto. Per fortuna nel container, lo stesso dove vivevano prima, l’evidente conferma di una gestione organizzata. Quella che con l’arrivo dell’Anolf perderà potere e affari. Ed è scattata la reazione violenta.

Il gran ghetto è divenuto una discarica di lavoratori

«No, proprio non mi aspettavo un’aggressione fisica. Opero lì dal 2008, sanno bene chi sono. Ho sempre cercato il dialogo ma queste persone si rifiutano. Dicono che il campo container deve essere autogestito. Ma dietro la scusa dell’autodeterminazione ci sono affari illeciti». Così Mohammed Elmajdi, presidente dell'Associazione nazionale Oltre le frontiere, aggredito il 10 agosto. Marocchino, ma da poco cittadino italiano, e sposato con una polacca, racconta le violenze subite. «Sono stato aggredito da una decina di persone con testate e pugni. Poi mi hanno tolto le chiavi dall’auto impedendomi di andare via per un’ora».

È stata la prima volta?

No. Le minacce sono cominciate a giugno quando si è saputo che avevamo vinto il bando. Il 5 agosto hanno impedito il passaggio delle consegne con le Misericordie. Ci hanno cacciati. Mi hanno detto: «Sei stato già avvisato, non devi più tornare!».

Chi sono?

Fanno riferimento sia alla Lega braccianti che alla nuova associazione Terra e libertà. Non più di 15 persone ma capaci di condizionare gli altri. È un comportamento mafioso. Sono divisi tra di loro, tra le diverse sigle, ma uniti contro gli esterni. Lo hanno già fatto nel passato con la Caritas, la Flai-Cgil, Intersos, Baobab, ora se la prendono con noi.

Ma gli altri lavoratori non reagiscono?

Hanno paura, oppure pensano di poter ottenere favori. Perché forniscono servizi: trasporto, alloggio nei container, documenti. Ovviamente a pagamento. I lavoratori un po’ si fidano perché questi personaggi sono nel "gran ghetto" da anni. Si sono accreditati.

Vi accusano di voler fare soldi con l’accoglienza…

L’affidamento è per 6 mesi, prorogabili, e prevede il pagamento di 50mila euro. Ma dobbiamo garantire custodia e sorveglianza del campo container, attività di accoglienza con una presenza 24 ore su 24. Non mi sembra un affare… Inoltre noi continuiamo la nostra attività al fianco dei braccianti. Ma anche questo non è gradito.

In che senso?

Pochi giorni prima dell’aggressione stavo parlando con un ragazzo per fissare un appuntamento per risolvere i suoi problemi, di lavoro e personali. È passato uno di quei personaggi e lui non ha più voluto parlare. Silenzio. Aveva paura.

Lei ha presentato una denuncia ai carabinieri e venerdì scorso è stato convocato dal prefetto di Foggia, Maurizio Valiante, in una riunione con le forze dell’ordine e rappresentanti sindacali e della Regione. Cosa le hanno detto?

Mi hanno garantito che saremo accompagnati. Ma servirebbe un presidio fisso delle forze dell’ordine per dire che lo Stato è presente. Comunque a settembre torneremo e riprenderemo la nostra attività. C’è tutta la nostra disponibilità a ripristinare la legalità. Non ci tiriamo indietro. Vadano via loro. Noi non lasceremo Torretta Antonacci perché qui c’è gente che ha bisogno di noi.

Intanto le condizioni del "gran ghetto" stanno peggiorando.

Proprio così. È diventata una "discarica" di lavoratori. Soprattutto i senegalesi con più di 50 anni. Stavano al Nord, hanno perso il lavoro ma a quell’età e per di più immigrati, non li vuole nessuno. Così vengono qua, nella "discarica" di Torretta Antonacci.

L'odissea degli ultimi. A scuola nel ghetto: «Aiutateci». Antonio Maria Mira, inviato a San Severo (Foggia), su Avvenire domenica 5 luglio 2020

Viaggio tra i braccianti di San Severo coi volontari e gli operatori della Caritas, tra violenze e soprusi. La sfida delle regolarizzazioni contro il racket degli sfruttatori

Un momento di incontro tra i volontari di Baobab e gli operatori della Caritas con i braccianti del “Gran ghetto” di San Severo. Sotto le tende si fa lezione di italiano

«Tornate. Non ci abbandonate. Abbiamo bisogno di voi, ci dovete aiutare». È quello che si sono sentiti dire i volontari e gli operatori della Caritas di San Severo, della Flai Cgil e del centro culturale Baobab, lo scorso giovedì, nel “Gran ghetto” di Torretta Antonacci. Un ritorno tra i braccianti immigrati che vivono nell’insediamento, dopo la sospensione della scuola e dello sportello informativo sulla regolarizzazione, decisa per le minacce di un gruppo di facinorosi tra i quali alcuni militanti del sindacato Usb. «È andato tutto bene, tranquillo, anche se ci siamo sentiti osservati. Ma dovevamo venire perchè i lavoratori hanno bisogno di aiuto per capire come muoversi per la regolarizzazione», dice il segretario provinciale della Flai, Daniele Iacovelli.

Le associazioni non si sono dunque arrese di fronte alla violenza. Anche perché dopo la pausa decisa il 25 giugno, molti immigrati hanno chiesto che ritornassero. Alcuni hanno pagato anche 10 euro a “taxi” (non regolari, s’intende) per venire alla sede della Caritas, per chiedere aiuto. Soprattutto per le pratiche per la regolarizzazione, per loro molto complesse. E per evitare truffatori e sfruttatori che si sono fatti avanti offrendo a caro prezzo, anche 3.500 euro, la documentazione necessaria, ovviamente falsa. Già più di trenta immigrati sono stati aiutati nella sede di San Severo, tutti braccianti. Così si è deciso di riprendere il percorso interrotto al ghetto. «Proprio per difenderli», dice con convinzione Serena, mediatrice della Caritas. Ma, purtroppo, non in piena libertà. Discreta presenza, ma ben visibile, di alcuni poliziotti in borghese. «Li ringraziamo, ma è brutto che si debba fare volontariato sotto scorta», si sfoga ancora Serena. Ma i motivi per giustificare la presenza degli agenti c’erano tutti. Abbiamo potuto vedere un video del 18 giugno, quando a Caritas, Flai Cgil e Baobab è stato impedito l’accesso. Si vedono alcuni immigrati che portano cartelli con la scritta “Libertà” e col megafono urlano “Non vi vogliamo!”.

A guidarli sono militanti dell’Usb, gli stessi che lo scorso 15 giugno hanno affiancato il loro leader Aboubakar Soumahoro a Roma, nel corso della protesta in occasione degli Stati generali dell’economia, e poi nell’incontro col premier Conte. Due rappresentazioni ben diverse. E anche l’ennesimo invito al dialogo e alla col- laborazione è stato totalmente ignorato. Ma giovedì non c’è stata l’opposizione violenta delle settimane precedenti, che ha obbligato anche i medici di Intersos ad abbandonare la preziosissima presenza quotidiana al “Gran ghetto”. «Appena i ragazzi ci hanno visto sono venuti da noi – racconta Serena –. In più di trenta hanno partecipato alla scuola di italiano, mentre una decina è venuta per regolarizzazione e residenza. Sono stati molto contenti di vederci. E noi continuremo ad andare perché ce lo chiedono e perché è per loro che lo facciamo ». E questo rende ancora più incomprensibile il comportamento dei militanti di un sindacato come l’Usb. Anche se molto critico nei confronti del provvedimento di regolarizzazione. «Molti lavoratori sono venuti per capire come mai non possano accedere all’emersione – spiega Iacovelli –. E noi cerchiamo di vedere con loro come trovare delle soluzioni».

Dopo le minacce dei giorni scorsi da parte di un gruppo di facinorosi (tra cui alcuni militanti del sindacato Usb) riprendono, anche se sotto scorta, le lezioni e le consulenze dello sportello informativo ai lavoratori stranieri: «Hanno bisogno di capire come presentare le domande»

Un servizio prezioso. Eppure, denuncia il sindacalista, «anche questa volta chi è venuto da noi e dalla Caritas è stato avvicinato dicendo che non doveva più venire. Neanche alla scuola». Non si stupisce Domenico Lamarca, di Baobab. «Due giovedì fa hanno fatto irruzione durante le lezioni dicendo 'a noi non importa imparare l’italiano'. Ma il nostro obiettivo è di non tenerli più qui nel ghetto. Li vogliamo far uscire. E per questo la conoscenza dell’italiano è fondamentale. Siamo qui anche per una sola persona e ne abbiamo avute trenta. Ma l’importante è la continuità. Per questo le minacce ci fanno male. Perché si è costruito tanto». E tanto c’è ancora da fare. Soprattutto in questi giorni. Ma restano aperti i problemi. Il container che la Regione Puglia ha assegnato alla Caritas e alle associazioni della Rete di prossimità di Capitanata, resta occupato dall’Usb, obbligando Caritas e Flai Cgil a svolgere al di fuori lo sportello informativo, con le evidenti difficoltà organizzative. «Chi ci minaccia rivendica la libertà, ma questo vuol dire anche rispettare la libertá degli altri», è il messaggio di Domenico che è particolarmente dispiaciuto che sia stata impedita addirittura l’attività ludica che avevano portato, come il calcio o la dama. «Dopo una giornata di lavoro anche loro hanno bisogno di questo. Invece ci hanno aggrediti urlando 'non abbiamo bisogno di giocare!'. Ma i ragazzi ci dicono che non è giusto». E commossa Serana ci riferisce come si sono salutati. «Ci vediamo presto, ci vediamo giovedì».

Antonio Maria Mira da cittanuova.it

Toni Mira, sposato e con quattro figli, è capo redattore e inviato speciale della redazione romana di Avvenire, giornale per il quale da anni cure le inchieste e i reportage. È tra i collaboratori dei dossier annuali “Ecomafia” di Legambiente e “Sindaci sotto tiro” di Avviso Pubblico. Fa parte del Comitato scientifico del bimestrale di Libera “lavialibera”, dell’Osservatorio ambiente e legalità di Legambiente, della Commissione consultiva di Avviso Pubblico.

Nel 2006 ha vinto il premio “Ambiente e legalità”, nel 2007 il “Premio Saint Vincent” per il giornalismo d’inchiesta, nel 2016 il “Premio per l’impegno civile Marcello Torre”, nel 2018 il “Premio Franco Giustolisi”, nel 2019 il “Premio Paolo Borsellino”.

Nel 2019 ha pubblicato con la collega Alessandra Turrisi il libro Dalle mafie ai cittadini. La vita nuova dei beni confiscati alla criminalità (San Paolo), e il libro Spezzare le catene (Città nuova) sul caporalato.

CURRICULUM DI ANTONIO MARIA MIRA da lanuovaecologia.it.

Antonio Maria Mira è nato a Roma il 5 gennaio 1954. E’ sposato e ha quattro figli. E’ caporedattore, inviato e editorialista nella redazione romana di Avvenire, giornale per il quale da anni cura le inchieste e i dossier di approfondimento. Dal 1989 è giornalista parlamentare e si è occupato in particolare del settore tra politica e giudiziaria seguendo, tra l’altro, le attività delle commissioni parlamentari di inchiesta e di controllo (Servizi di informazione e sicurezza, Stragi, Antimafia, Ciclo dei rifiuti, Bnl-Atlanta, Cooperazione allo sviluppo), la vicenda di “Tangentopoli” nel suo versante politico (le richieste di autorizzazione a procedere), il commercio delle armi. Da sedici anni tiene una propria rubrica sui rapporti tra politica e ambiente sul mensile “La Nuova Ecologia” per il quale scrive anche inchieste sui temi dell’illegalità ambientale. Dal 2001 insegna al corso di giornalismo ambientale organizzato da “La Nuova ecologia”. Tra il 2001 e il 2003 ha realizzato per “Raisat Album” (il canale satellitare della Rai) una serie 36 puntate dedicata alla “Storia delle rogatorie”; uno speciale per i dieci anni dalla morte di Giovanni Falcone; una serie di 55 puntate sul rapimento di Aldo Moro; uno speciale sugli interventi politici di Moro; uno speciale sul disastro del Vajont in occasione del quarantesimo anniversario. E’ stato chiamato a collaborare a numerose iniziative (seminari e incontri su tematiche relative a criminalità organizzata, legalità, beni confiscati, ecomafie, ambiente, sicurezza scuole, informazione, azzardo) della Conferenza episcopale italiana, Anci, Cisl, Cgil, Pd, Protezione civile, Azione Cattolica, Acli, Legambiente, Cittadinanzattiva, Libera, Avviso Pubblico, Federparchi, Greenaccord, Università di Camerino, Università Cattolica, Università di Roma La Sapienza, Fnsi, Regione Campania, Regione Toscana, Provincia autonoma di Trento, Comunità della Val di Non, Politicamente scorretto, Trame, Diocesi di Roma, Napoli, Acerra, Aversa, Nola, Sessa Aurunca, Locri, Cassano, Reggio Calabria, Frosinone, e vari Comuni e Regioni. E’ tra i promotori di Libera Informazione, scrive sul sito e partecipa a incontri nelle regioni assieme ai giornalisti locali. Collabora a Narcomafie. Fa parte della Commissione Consultiva Permanente di Avviso pubblico ed è tra gli autori del rapporto annuale “Amministratori sotto tiro”. Ha collaborato al rapporto "Lose for life" sul gioco d'azzardo. Fa parte del Comitato scientifico del Centro Internazionale di Documentazione sulla Mafia e del Movimento antimafia di Corleone. Fa parte del Comitato scientifico del progetto “Libera il bene” promosso da Libera e dalla Conferenza episcopale italiana. Ha coordinato incontri e dibattiti in occasione di varie edizioni della Giornata della memoria e dell’impegno e di Contromafie. Nel 2006 ha coordinato gli incontri-seminari sui beni confiscati organizzati da Libera in Campania e collaborato alla realizzazione della prima edizione di “Contromafie” gli Stati generali dell’antimafia. Nel 2007 è stato docente del corso di formazione professionale sulla gestione dei beni confiscati, organizzato nell’ambito del Pon sicurezza del ministero dell’Interno e coordinato da Libera. E’ stato consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’omicidio Alpi-Hrovatin. E stato vicepresidente dell’Associazione Stampa Romana, il sindacato dei giornalisti del Lazio. Nel 2006 ha vinto il premio “Ambiente e lagalità”, assegnato da Legambiente alle persone che in vari settori si sono particolarmente impegnati nella difesa della legalità e dell’ambiente, e il premio “Il Parco in prima pagina” promosso da Federparchi, Regione Liguria, Provincia di Genova, Parco regionale del Beigua. Nel 2007 ha vinto il “Premio Saint Vincent” per il giornalismo d’inchiesta, il maggior riconoscimento italiano nel campo dell’informazione. Nel 2010 ha vinto il premio “Sentinella del Creato” promosso da Greenaccord, Ucsi e Ordine dei giornalisti. Nel 2013 ha vinto il Premio Costruttori di Pace, promosso dalla Rete del Servizio civile e del disarmo, per l’informazione sulla lotta alle mafie e il Premio Giornalistico Nazionale per il turismo e l’ambiente “Gennaro Paone”, per le inchieste sulla “Terra dei fuochi”. Nel 2016 ha vinto il Premio Nazionale per l'Impegno Civile, dedicato alla memoria di Marcello Torre, il Sindaco di Pagani assassinato brutalmente dalla camorra l'11 dicembre 1980. Nel 2017 ha vinto il premio "IoSonoUnaPersonaPerbene".

Matteo Pucciarelli per repubblica.it il 9 gennaio 2023. 

"Mi ha francamente stupito e amareggiato, ad eccezione di qualche parlamentare, l'assenza della solidarietà umana e del supporto politico da parte del gruppo parlamentare Alleanza Verdi-Sinistra (AVS), con il quale sono stato eletto da indipendente. Dopo un'attenta e sofferta meditazione sul piano umano e politico, ho maturato la decisione di aderire al gruppo parlamentare Misto, lasciando il gruppo AVS, per proseguire la mia attività di parlamentare".

Ad annunciare il passaggio al nuovo gruppo è proprio il deputato Aboubakar Soumahoro che in un corposo dossier ribalta le accuse che gli sono piovute addosso in questi mesi. L'esito era nell'aria: o per sua decisione o per quella del gruppo parlamentare, il deputato era ormai da settimane a un passo dal misto.

 Soumahoro si era autosospeso dal gruppo parlamentare dell'Alleanza verdi sinistra lo scorso novembre. Una decisione 'spintanea', nel senso che fu decisamente caldeggiata da Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, i due promotori della lista rossoverde. Angelo Bonelli, co-portavoce di Europa Verde e deputato di Alleanza Verdi Sinistra, replica con poche parole: "Non ho nulla da dire su questo, se non che siamo terribilmente delusi umanamente da questa persona".

Le richieste di chiarimento sulla vicenda che ha coinvolto la sua famiglia, ma pure la gestione dei fondi della Lega Braccianti, non sono mai arrivate, perlomeno non a coloro che lo aveva candidato e portato in Parlamento. "Ha fatto tutto da solo, non abbiamo più avuto nessun confronto, ne sappiamo di dossier. Mi sarei aspettata una comunicazione più diretta e meno burocratica, mentre ho solo ricevuto per conoscenza la sua lettera al presidente Fontana", si lamenta la capigruppo di Alleanza Verdi e Sinistra alla Camera Luana Zanella.

Poi torna a parlare della moglie, Liliane Murekatete, e della sua dichiarazione sul "diritto alla moda e all'eleganza" fatto durante una trasmissione televisiva: "Non sono stato compreso. Mi riferivo al diritto di chiunque di vestirsi come meglio crede. Tuttavia trovo davvero singolare che mi si chieda di esprimere un giudizio di valore circa foto della mia compagna risalenti a 4 anni prima che io la conoscessi".

E sull'indagine aperta dalla Procura di Latina sulle condizioni dei lavoratori nella cooperativa Karibu, si legge nel dossier, le foto di Liliane Murekatete sono state riprese "da quotidiani, siti e rotocalchi che hanno sottolineato e commentato il suo modo di vestirsi, la tipologia di abbigliamento e accessori utilizzati, etc. Soprannominata provocatoriamente 'lady Gucci' - prosegue il dossier - la donna è stata al centro di una serie di pesanti commenti e insinuazioni da parte della stampa e di opinionisti di varia natura".

Una persona di colore "va bene finché è un 'negro da cortile', finché protesta con gli striscioni, cosa che peraltro ho fatto mille volte e non smetterò mai di fare, se è povero e sta ai margini. Ma se prova a fare un salto di qualità immediatamente disturba". E' questo, secondo Aboubakar Soumahoro, uno dei motivi che hanno portato ad un "ingiustificato accanimento" nei suoi confronti.

Si tratta di una "dimensione relativa a me come individuo", sottolinea nel dossier parlando poi di una seconda dimensione, relativa questa al "modello sociale": il modello della Lega Braccianti, con i lavoratori dei campi non solo stranieri ma anche italiani - afferma - che si autodeterminano e si autogestiscono".

 Questo "fa molta paura, toglie potere a un sistema di assistenzialismo che ha come obiettivo quello di mantenere lo stato di emergenza, semplicemente perché finché c'è emergenza ci sono soldi a pioggia per gestire l'emergenza, e, dal momento che nulla accade per caso, forse questo può far comprendere perché vi sia stato così tanto ingiustificato accanimento nei miei confronti".

"A fine 2021 lessi da alcuni articoli di stampa sulla mancata retribuzione ad alcuni dipendenti della Karibu e - pur non avendo alcun interesse diretto nelle cooperative - chiesi immediati chiarimenti a riguardo. Venni informato del fatto che non erano ancora pervenuti tutti i soldi necessari per pagare gli stipendi, che si erano sollecitati gli Enti pubblici, e - così mi venne detto - che auspicabilmente tutto si sarebbe risolto in tempi ragionevoli", conclude in un dossier il deputato Aboubakar Soumahoro.

Estratto dell’articolo di Alessandro Gonzato per “Libero quotidiano” il 16 gennaio 2023.

Nel 2021 Aboubakar Soumahoro ha guadagnato 9.150 euro. Lo si legge nella dichiarazione dei redditi pubblicata in queste ore sul sito della Camera. […]

 […] Se è vero, e non ne dubitiamo, che il reddito complessivo di Soumahoro è di 9.150 euro, viene da pensare che la compagna, Liliane Murekatate, ne guadagni parecchi di più, ma molti di più, perché- ha detto l'ivoriano e gli crediamo di nuovo - al mutuo da 270mila euro concesso per il villino da quasi mezzo milione a Roma ha contribuito anche la signora, così ha detto Soumahoro la cui compagna e suocera sono indagate per i mancati pagamenti ai dipendenti delle cooperative Karibu e Consorzio Aid. E in effetti dalla dichiarazione sul sito della Camera risulta che l'abitazione è al 50%: il nome del proprietario dell'altro 50 è annerito, ma insomma, si capisce.

Poco più di 9mila euro in un anno sono 750 euro circa al mese, al di sotto della soglia di povertà, poco più dell'importo medio di un reddito di cittadinanza. Soumahoro ha anche dichiarato 7.291 euro ricevuti da finanziatori in campagna elettorale, quasi come il suo reddito complessivo. [...] 

Solidarietà per Soumahoro. “Questa vicenda diventerà un caso che farà scuola”. Caso Soumahoro, svolta nelle indagini: la firma che incriminava la moglie è falsa. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 14 Gennaio 2023

Si dirada il polverone sul caso Soumahoro. Un caso che non esiste, basato su prove inesistenti. Il procedimento – che per la verità non riguarda affatto lui, ma la moglie – è infatti innervato su un atto notarile del 2019 che attribuisce le deleghe statutarie della cooperativa Karibù. Istanza presentata al Tribunale del riesame di Latina per verificare il compendio probatorio. Modifica statutaria che integra nuove voci di competenza e funzioni della cooperativa. A differenza di chi si è avvalso della facoltà di non rispondere, il legale di Liliane Murakatete, l’avvocato Lorenzo Borré ha iniziato a suffragare a suon di documenti medico-sanitari l’estraneità della sua assistita dalla gestione della cooperativa.

Dimostrando la sostituzione della firma, e rendendo pacifica l’inefficacia dell’atto che riassetta le deleghe e le funzioni direttive, viene meno uno dei presupposti in forza dei quali l’accusa ritiene che la Murekatete abbia svolto, nel periodo oggetto di contestazione, attività gestionali. Lo conferma l’ammissione stessa della firmataria. “Quella firma chiaramente non è di Liliane Murekatete (moglie di Soumahoro, ndr) ma la mia. Quel giorno lei non c’era, era in maternità. È stata la madre di Liliane, Marie Terese, a chiedermi di firmare al posto suo”. Sono le parole di Hassenatu Sow, ex dipendente della cooperativa Karibu – fondata da Marie Terese Mukamitsindo, suocera del deputato Aboubakar Soumahoro – sulla quale sta indagando la Procura di Latina. Il riferimento della donna, originaria della Guinea, è a un allegato di un atto notarile risalente al 2019, che secondo gli inquirenti contribuirebbe a dimostrare il ruolo gestionale nella cooperativa ricoperto da Murekatete, indagata insieme alla madre nell’ambito dell’inchiesta sull’uso dei fondi destinati alla coop per l’accoglienza degli immigrati. Ma la firma apposta accanto al nome di Murekatete sul foglio delle presenze all’assemblea straordinaria dei soci non è della moglie di Soumahoro.

Per comprendere bene la vicenda occorre tornare indietro al 28 maggio 2019. In quella data i soci della Karibu vengono convocati da un notaio di Latina per un’assemblea straordinaria: devono aggiornare lo statuto della cooperativa per modificare alcune attività della Karibu. Nell’elenco dei soci (in tutto 16) figura anche il nome di Murekatete ma in corrispondenza non c’è la firma della moglie di Soumahoro bensì quella di un’altra socia della coop, che peraltro avrebbe visto interrompersi la sua collaborazione pochi giorni dopo l’assemblea: “Alla fine di quel mese ho smesso di lavorare per la Karibu. Il mio contratto è scaduto e non è stato più rinnovato”, racconta. Inoltre, a Murekatete viene contestata la partecipazione a un’altra assemblea, quella del 22 giugno 2021, con verbale riportante il suo nominativo, per l’approvazione del bilancio: la difesa però sostiene che esistano prove informatiche che collocherebbero geograficamente Murekatete nella provincia di Rieti in orari che si ritengono incompatibili con la partecipazione all’assemblea.

Quel giorno, secondo quanto si apprende, Liliane avrebbe accompagnato il compagno Aboubakar Soumahoro in un centro vaccinale a Rieti. “La firma che secondo alcuni giornalisti ‘inchiodava’ la mia assistita non esiste. Chi ha dato della bugiarda alla mia assistita inizi a chiedere in scusa, e faccia in fretta perché la fila è lunga”, dice l’avvocato Borrè, legale della moglie di Soumhaoro: “Questa vicenda diventerà un caso che farà scuola e spero servirà ad essere più cauti nel tranciare giudizi su una persona che, lo ricorda la Costituzione ma anche una recente direttiva Ue, è da considerarsi non colpevole, come in effetti non è colpevole”.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 9 gennaio 2023.

L’onorevole Soumahoro ha deciso di abbandonare il gruppo parlamentare rossoverde dei Fratoianni e dei Bonelli perché nella nota vicenda che ha coinvolto moglie e suocera. Ohibò, questa si chiama inversione dell’onere della scusa. Invece di chiedere lui venia ai compagni di strada (e agli elettori) per averli messi in imbarazzo, e magari rassicurarli riguardo alla propria affidabilità con una spiegazione convincente, Soumahoro recita il lamento dell’offeso, come se fosse la vittima di un raggiro. Vive da anni con una persona che, secondo il gip, «ha mostrato elevata spregiudicatezza criminale nell’attuare un programma delinquenziale» a scapito dei migranti per i quali egli si batte. E, anziché farsi delle domande, si dà solo delle risposte. Stereotipate, per giunta: sarebbe tutto un complotto dovuto al colore della sua pelle e toccava allo Stato vigilare sulle eventuali malefatte delle parenti strette. Sta scherzando, onorevole? No, perché se il suo fosse un ricatto morale, sarebbe quantomeno ridicolo. Il razzismo non c’entra un fico, anzi un comportamento così lamentoso e sfuggente non fa che portare nuovi argomenti ai razzisti veri, ben felici di poter bollare come ipocriti coloro che credono in una società aperta ma che si sono anche stufati di vedersi rappresentati da figurine simboliche che pretendono solidarietà senza mai dare nulla in cambio che assomigli alla serietà. Il Caffè di Gramellini vi aspetta qui, da martedì a sabato. Chi è abbonato al Corriere ha a disposizione anche «PrimaOra», la newsletter che permette di iniziare al meglio la giornata. Chi non è ancora abbonato ple modalità per farlo — — e avere accesso a tutti i contenuti del sito, tutte le newsletter e i podcast, e all’archivio st

Antonio Bravetti per “la Stampa” il 10 gennaio 2023.

Aboubakar Soumahoro è uscito dal gruppo. L'ex sindacalista dei braccianti entrato a Montecitorio da «indipendente» lascia il gruppo di Alleanza Verdi-Sinistra alla Camera, «stupito e amareggiato per l'assenza di solidarietà umana e supporto politico», e si iscrive al Misto. «Non esiste alcun caso Soumahoro» è il titolo del lungo dossier che pubblica sul suo sito per annunciare l'addio e chiarire alcune delle vicende che riguardano lui e la sua famiglia, coinvolta in un'inchiesta della procura di Latina. Incolmabile ormai la distanza con i compagni di viaggio che l'hanno candidato. «Non sono per nulla sorpreso, perché non ci ha mai dato sufficienti spiegazioni - dice il co-portavoce dei Verdi Angelo Bonelli - Sono però umanamente deluso».

Nel corposo dossier, Soumahoro ribadisce la sua estraneità alla vicenda giudiziaria: «Non sono stato né sono indagato, non sono accusato di alcunché, non c'entro nulla con gli eventuali problemi in quelle cooperative. Eppure il mio nome è stato per 2 mesi sulle pagine di tutti i giornali, in tutte le televisioni ogni sera, e sono stato infangato e diffamato sistematicamente. È stato puro sciacallaggio».

 Parla della moglie, «soprannominata provocatoriamente "lady Gucci", è stata al centro di una serie di pesanti commenti e insinuazioni». Torna sul «diritto all'eleganza» declamato in tv e che gli è valso secchiate di critiche, anche feroci. «Intendevo riferirmi al diritto di chiunque di vestirsi come meglio crede. Tuttavia trovo davvero singolare che mi si chieda di esprimere un giudizio di valore circa foto della mia compagna risalenti a 4 anni prima che io la conoscessi».

L'inchiesta di Latina verte sulle due cooperative pro-migranti Karibu e Consorzio Aid e vede indagate sei persone, collegate a vario titolo ai vertici: la suocera di Soumahoro Marie Terese Mukamitsindo, la moglie del deputato Liliane Murekatete e due suoi fratelli, oltre a due collaboratrici. I reati ipotizzati sono legati a presunte false fatturazioni per evadere il fisco. In più, ci sono decine di ex dipendenti rimasti senza stipendio per mesi e accertamenti sulla presunta scarsa qualità dei servizi offerti ai migranti ospiti.

 Soumahoro ribatte colpo su colpo, prova a spiegare la sua verità contro quella che definisce la «campagna disinformativa dell'anno». Dice di aveva saputo delle mancate retribuzioni ai dipendenti Karibu nel 2021: «Chiesi chiarimenti e venni informato che non erano ancora pervenuti tutti i soldi necessari» dagli enti pubblici, ma «tutto si sarebbe risolto in tempi ragionevoli».

Nega irregolarità nei fondi e nei bilanci della Lega Braccianti; tutto regolare anche il mutuo sulla casa («dal 2008 ho lavorato come dipendente della Rdb, da fine 2018 a febbraio 2022 sono stato opinionista per l'Espresso»). Parla di «ingiustificato accanimento» nei suoi confronti, dettato anche dal razzismo: «Una persona di colore va bene finché è un "negro da cortile", finché protesta con gli striscioni, che peraltro ho fatto mille volte e non smetterò mai di fare, se è povero e sta ai margini. Ma se prova a fare un salto di qualità immediatamente disturba».

Soumahoro lascia i Verdi e sbatte la porta. “Mai alcuna solidarietà”. Ma non fa chiarezza sul suo arricchimento improvviso…Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 10 Gennaio 2023.

Soumahoro ha una sua idea sul "colpevole", affermando di aver fiducia nella magistratura, e la spiega nella sua memoria rispolverando i decreti sicurezza di Salvini ed accusa che "La situazione del mondo dell'assistenza è critica e non certamente da oggi. Lo Stato paga poco, male e tardi, soprattutto dopo l'entrata in vigore del decreto sicurezza nel 2018".

Aboubakar Soumahoro come prevedibile ha lasciato l’alleanza Verdi-Sinistra Italiana grazie alla quale era entrato in Parlamento come “indipendente”, e si trasferisce nel gruppo misto, risparmiando sulla quota da versare al suo ex-partito. La fuoriuscita era nell’aria da tempo. La “notizia” è che sfacciatamente lo fa sbattendo la porta.

Dopo i mesi di accuse e critiche per lo scandalo collegato all’inchiesta giudiziaria sulla della cooperativa Karibu gestita sua suocera, il parlamentare ribalta tutto e parte all’attacco, prendendosela per cominciare incredibilmente proprio con i suoi compagni di partito. Soumahoro, a novembre 2022 si era autosospeso con una decisione caldeggiata dai vertici di Verdi e Sinistra Italiana, ora se la prende proprio con l’accoppiata Bonelli–Fratoianni che a suo dire non l’avrebbero sostenuto.

Mi ha francamente stupito e amareggiato, ad eccezione di qualche parlamentare, l’assenza della solidarietà umana e del supporto politico da parte del gruppo parlamentare alleanza Verdi-Sinistra“, dice il deputato, che sostiene poi di aver deciso di proseguire la sua esperienza di parlamentare nel gruppo misto “dopo un’attenta e sofferta meditazione sul piano umano e politico”. O forse facendosi quattro conti in tasca ?

Soumahoro, nel dossier al veleno con cui divide la propria strada da quella degli ormai ex alleati, arriva a sostenere di essere stato “vittima” di una “violenta campagna di diffamazione» e parla di un «vergognoso linciaggio mediatico”, ringraziando solo quanti anche in questi mesi gli sono rimasti vicini. Poi, più che chiarire, mette la parola fine alle chiacchiere sull’indagine che ha riguardato sua suocera e sua moglie, affermando di trovare “assurdo continuare a discutere dell’inesistente caso Soumahoro“.

Una vicenda che secondo lui è stata “montata” e non è “accaduta a caso“. Soumahoro si discolpa ancora una volta, sostenendo di aver chiesto chiarimenti sui mancati pagamenti dei dipendenti, “a fine 2021″, ma di aver ricevuto rassicurazioni e di averci creduto perché la coop di famiglia “aveva un’ottima reputazione”, e “dunque non avevo motivo di ritenere vi fossero criticità insanabili”.

Soumahoro ha una sua idea sul “colpevole“, affermando di aver fiducia nella magistratura, e la spiega nella sua memoria rispolverando i decreti sicurezza di Salvini ed accusa che “La situazione del mondo dell’assistenza è critica e non certamente da oggi. Lo Stato paga poco, male e tardi, soprattutto dopo l’entrata in vigore del decreto sicurezza nel 2018″. Dopodichè non contento, con somma sfacciataggine arriva ad una sua personale possibile morale da trarre dalla sua vicenda. Secondo lui, una persona di colore “va bene finché è un negro da cortile’ (…) se è povero e sta ai margini. Ma se prova a fare un salto di qualità immediatamente disturba”.

Tra libri, ospitate TV ed una candidatura bagnata dal successo, Soumahoro il salto l’aveva certamente fatto, ed aggiunge nel suo dossier che questa vicenda sarebbe stata messa in piedi per mettere il bastone tra le ruote a lui e al modello della Lega Braccianti e «forse c’è stato così tanto ingiustificato accanimento nei miei confronti». Ma non risponde alle domande che Striscia la Notizia aveva fatto, rifiutando qualsiasi intervista. Nè tantomeno fa chiarezza sulla provenienza di quel circa mezzo milione di euro con cui ha comprato una villetta alle porte di Roma. Redazione CdG 1947

Soumahoro dopo le lacrime, ed il silenzio adesso tira in ballo il figlio: “Perché ho comprato casa”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l’11 Gennaio 2023.

Da ragazzo Aboubakar Soumahoro aveva scritto la tesi sulla "condizione dei migranti nel mercato del lavoro italiano" e vent' anni viene a galla che sua moglie e la suocera, a capo di due coop di lavoratori migranti a Latina, non pagavano i migranti

Ieri sera a DiMartedì su La7, il direttore del quotidiano “Libero”, Alessandro Sallusti si è trovato faccia a faccia con Aboubakar Soumahoro : “Lei ha comprato una casa e quando le è stato chiesto come l’ha comprata lei ha risposto dicendo di aver fatto un mutuo pagato con i proventi del suo libro. Io sono andato a vedere ma con il ricavato di quel libro lei non compra nemmeno il tavolo di quella casa”:  Sallusti si è rivolto di nuovo al deputato, fuoriuscito dal Gruppo Alleanza Verdi-Sinistra Italiana al Gruppo Misto: “Perché dice che ha campato con i proventi di quel libro quando quel libro ha venduto poche migliaia di copie con le quali sicuramente non si può comprare una casa? Perché ci ha raccontato quella storia?“.

Di recente s’ era scoperto che Soumahoro, (anche questo l’ha detto lui), s’ è comprato un villino da 450mila euro coi proventi di un libro che ha venduto appena 9mila copie; che ha lanciato una colletta vestito da Babbo Natale per comprare i regali ai bimbi del ghetto foggiano di San Severo dove però il prete responsabile della locale Caritas ha rivelato che di bambini non ce ne sono e quindi gli ex soci si chiedono cosa ne abbia fatto di quei soldi; e poi ancora sempre gli ex soci lo accusano di aver pagato 50 euro a clic i braccianti di San Severo per scioperare e farsi i video con lui. Soumahoro nel frattempo è diventato parlamentare, oltre 10mila euro al mese.

Io ho anche scritto un libro – ha risposto Soumahoro – ma per vent’anni ho lavorato in Italia come qualsiasi altro cittadino. E la casa è stata comprata davanti a un notaio con degli atti che sono presso l’Agenzia delle Entrate. Inoltre aggiungo: finché una persona, direi diversamente abbronzata, vive nei sottoboschi e paga un affitto va bene, se compra una casa…“. Eppure sarebbe stato molto facile esibire le proprie dichiarazioni dei redditi e dimostrare la provenienza dei soldi con cui ha acquistato la villa.

Dopodichè Soumahoro ha tirato fuori un altro motivo alla base dell’acquisto dell’abitazione: “Io ho comprato quella casa come qualsiasi altro cittadino non solo coi proventi di attività lecite, ma anche perché mio figlio non sta bene. Mio figlio non sta bene e il dottore di famiglia ci ha consigliato di portarlo in una zona di mare“. 

Parlando della sua attuale situazione, il deputato ha detto: “Sono in uno stato di serenità spirituale, non mi dimetto da parlamentare. Sono stato eletto per una missione, dare una rappresentanza ai diseredati, ai senza casa, ai precari, a chi viene discriminato per il genere e l’orientamento sessuale, ai braccianti, ai zappatori, ai rider, ai lavapiatti, ai pendolari“. Non contento ha detto di aver vissuto un periodo difficile: “Una mattina, il 17 novembre scorso, lascio mio figlio piccolo a scuola, apro il telefono e vedo il mio viso sulla quasi totalità dei quotidiani online. Da quel momento in poi mi sono ritrovato all’interno di una betoniera. Al posto del calcestruzzo c’erano menzogne, diffamazione, minacce di morte e giornalisti nel cortile di casa con un bambino di 3 anni che si svegliava di notte e chiedeva ‘papà, perché?’“. Ve l’immaginate un bambino di tre anni che non sa leggere e scrivere ed a stento capisce le parole che pronuncia, fare una domanda del genere al padre ?

Mi sono pentito di tante cose che ho fatto, ma di quello proprio no”. Giovanni Floris chiede conto ad Alessandro Sallusti del titolo del quotidiano  Libero che dirige, sulle foto osè di Liliane Murekatete, la moglie del deputato Aboubakar Soumahoro indagata insieme alla madre per le irregolarità delle loro cooperative. E’ uno dei momenti del dibattito, a tratti molto duro, tra il direttore di Libero e lo stesso Soumahoro, presentatosi in studio a DiMartedì per difendersi.  “In quel momento mi sembrava una notizia – ha risposto Sallusti -. C’era una signora che piangeva miseria, ‘non ricevevo soldi…’ e poi conduceva tutto un altro genere di vita”. Giravano anche le foto di “Lady Soumahoro” con borse e vestiti griffati. “La mia compagna l’ho conosciuta nell’estate del 2018, hanno preso una foto di 8 anni fa, decontestualizzata e riportata in un contesto drammatico dove ci sono lavoratrici e lavoratori in attesa di un salario per un ritardo dovuto alla pubblica amministrazione”. “E’ qui che lei cade”, contesta Sallusti. “E’ una manipolazione, un cattivo senso del giornalismo”. 

Capisco che lei debba recitare un ruolo, è quello che l’ha portato a essere eletto. Lei ha citato quella foto di sua moglie: era sul profilo Facebook di sua moglie, se io sposo uno quelle foto le sarò andate a vedere… Detto questo, lei dice lo Stato non pagava. In quei campi, in quelle cooperative, la gente viveva come bestie”. “Io non sono membro di quelle cooperative”. “Non c’era da mangiare per i bambini!“. “Le risulta?“, risponde Soumahoro in evidente difficoltà. “Ci sono due elementi: fin quando i neri vivono nelle baraccopoli sono degni della nostra compassione“. “Ma lasci stare i neri, cosa c’entrano i neri?“, ribatte Sallusti. “Secondo elemento: se una donna si veste bene c’è il sottinteso ‘chissà che lavoro fa’“.

Viviamo in uno Stato di diritto – ha continuato Soumahoro – e gli organi competenti se ne occuperanno. Ma la mia vita è stata segnata per la difesa dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, e io qui quelle lavoratrici e lavoratori della cooperativa sarò sempre a loro disposizione fino all’ultimo stipendio”. “Ci sono molti  lavoratori che sostengono il contrario“, lo ha incalzato Sallusti.

Nel frattempo Striscia la notizia continua a indagare su Aboubakar Soumahoro che 48ore fa ha lasciato i Verdi per passare al Gruppo misto accusando i suoi colleghi di partito di non averlo difesa. Ieri su Canale 5 è andata quindi in onda l’inchiesta di Pinuccio sulle raccolte fondi lanciate dalla Lega Braccianti di Soumahoro e veicolate dalla piattaforma GoFundMe. Mentre la campagna per comprare cibo durante la pandemia, al centro dell’inchiesta del Tg satirico, è stata rimossa, altre due sono ancora online. E risultano ancora attive – ed accettano ancora donazioni – nonostante siano di fatto scadute. Una infatti, denuncia Striscia la notizia, era stata lanciata per raccogliere fondi per comprare regali ai bambini del ghetto per il Natale 2021, un’altra per organizzare lo sciopero dei braccianti a Roma del maggio 2021.

L’inviato pugliese di Striscia la Notizia ha provato a fare una donazione che clamorosamente è andata a buon fine. Allora la domanda del Tg satirico sorge spontanea: “Soumahoro cosa se ne fa di questi soldi se le cause per cui venivano raccolti sono superate?”. E ancora: “Come li rendiconta? E, soprattutto, GoFundMe come gestisce le raccolte fondi?“. Nuove domande che come tutte le altre sono ancora rimaste senza risposta. 

Da ragazzo Aboubakar Soumahoro aveva scritto la tesi sulla “condizione dei migranti nel mercato del lavoro italiano” e vent’ anni viene a galla che sua moglie e la suocera, a capo di due coop di lavoratori migranti a Latina, non pagavano i migranti . Mentre venivano fuori i selfie della moglie Liliane, con vestiti e borse di lusso da lì il soprannome “Lady Gucci“. Soumahoro fa la vittima: ce l’hanno tutti con lui, non perché è piccolo, ma solo perché è nero, ha detto così nel mitologico video in cui fingeva di piangere e giura che degli affari di consorte e suocera non sapeva nulla.

Sempre su La7 Soumahoro ha invocato per la moglie “diritto all’eleganza”, e pochi giorni dopo s’ è scoperto che la moglie (o compagna, non s’ è ancora capito) per sé rivendicava anche il diritto alle foto erotiche, ne sono spuntate una manciata e chissà se Aboubakar stavolta ne era conoscenza. Così come della provenienza degli stivali di gomma sporchi di fango con cui ha fatto il suo show entrando il primo giorno in parlamento da deputato di Verdi e Sinistra Italiana: subito dopo è saltato fuori un ex socio della Lega Braccianti che ha detto che quegli stivali sono suoi. “Ridammeli, mi servono per lavorare”. Redazione CdG 1947

Da “Libero quotidiano” il 12 gennaio 2023.

Prima la difesa da Giovanni Floris l'altra sera a Dimartedì su La7, poi l'intervista rilasciata ieri al quotidiano Il Riformista. In entrambi i casi, il filo conduttore è lo stesso: l'accusa di essere vittima del razzismo degli italiani. Aboubakar Soumahoro, al centro della bufera per l'inchiesta che ha coinvolto le Cooperative gestite dalla "suocera" - e nelle quali ha lavorato anche la moglie Liliane Murekatete - parla di «un linciaggio a reti unificate».

Su La7, al direttore di Libero Alessandro Sallusti che gli ha chiesto di fare chiarezza sulle sue entrate economiche al centro della polemica, ha tirato in ballo il razzismo: «Fin quando una persona con la melanina diversa, io direi diversamente abbronzato, vive nei sottoboschi e paga un affitto va bene... Io ho comprato quella casa come qualsiasi altro cittadino con proventi di attività lecita, ma anche perché mio figlio non sta bene».

Quest' ultima frase ha lasciato per qualche secondo senza parole ospiti e conduttore. «Il dottore di famiglia ci ha consigliato di portarlo in una zona di mare».

Al Riformista, il deputato ivoriano parla addirittura di una grande operazione di disinformazione, quando in realtà i primi a mollarlo sono stati i suoi compagni di viaggio dell'Alleanza Verdi-Sinistra. «Sono saltate le regole del vivere civile, della buona informazione». Secondo Soumahoro «in questo Paese pesa molto essere neri. Rende tutto molto più complicato, e lo sappiamo, non lo scopriamo oggi».

Per questo «prendere coscienza è urgente. E ancor di più lavorare alle leggi di civiltà che mancano». E dopo il passaggio al Gruppo misto, sul rapporto con Fratoianni e Bonelli dell'alleanza Sinistra-Verdi, racconta: «Quelli che erano venuti a cercarmi per candidarmi e che in campagna elettorale mi chiedevano i selfie, a un certo punto li ho visti attraversare la strada per non incontrarmi».

Parla il deputato. La verità di Aboubakar Soumahoro: “Bonelli e Fratoianni mi cercavano per i selfie, ora cambiano strada”. Aldo Torchiaro su Il Riformista l’11 Gennaio 2023

Aboubakar Soumahoro torna sulle barricate. Il deputato di origini ivoriane eletto con l’Alleanza Verdi-Sinistra dice basta con la campagna di odio che ha vissuto. Rompe il silenzio stampa per parlare con il Riformista: “Siete i soli che mi hanno sempre sostenuto”, poi va anche in televisione, da Giovanni Floris a La7. La bufera è durata anche troppo. Le accuse contro di lui sono cadute come foglie d’autunno, tutte tanto infondate da non avergli aizzato contro le Procure. Adesso è il momento della chiarezza: Soumahoro ha predisposto un dossier informativo ed è tornato a indossare gli stivali, stavolta per cavarsi fuori dal fango del processo mediatico che ha subìto.

E dire che si era presentato in Parlamento con gli stivali per il fango…

Sì ma non potevo immaginare quale tritacarne mediatico può costruirsi sul nulla. Ho subìto un processo a reti unificate. Con un dolore, una sofferenza che non auguro a nessuno in questa vita. Sono saltate le regole del vivere civile, della buona informazione. La disinformazione si è sostituita all’informazione. Ed è saltata la capacità di essere razionali.

In che senso, onorevole?

Lo capisci quando diventi un capro espiatorio. Mancava solo che qualcuno dicesse: “Oggi fa freddo, colpa di Soumahoro”. Oppure “Non ci sono più patate, colpa di Soumahoro”. In pochi giorni sono diventato il simbolo di ogni male, di ogni cattiva condotta. Senza la capacità minima di tenere in piedi la buona informazione. Ho subìto un linciaggio. Con giornalisti che entravano nel cortile di casa, che rubavano le immagini di mio figlio.

Appena un nero si affaccia in politica, scattano gli esami”, ha scritto Paolo Mieli. È stato questo, il suo primo problema? Lei è nero, e l’hanno fatta nero…

Sono diversamente abbronzato, è innegabile. In questo paese pesa molto, essere neri. Rende tutto molto più complicato, e lo sappiamo. Non lo scopriamo oggi.

Quando l’ha scoperto?

Io vengo dalla lotta. Ho lottato per il pane. Ho sempre lavorato duro, e da lavoratore ho incontrato lo sfruttamento. Mi svegliavo alle 4,30 del mattino per andare nei cantieri edili. In uno di questi feci amicizia con un giovane napoletano, Salvatore. Facevamo lo stesso lavoro ma prendevano una paga diversa. Lui prendeva di più perché è un italiano bianco. Io prendevo di meno perché nero. Chi passa per questo processo, impara presto cosa significa essere vittima del doppio ricatto che nasce dall’intreccio perverso tra la Bossi-Fini prima e lo sfruttamento dei padroni poi. Se ti ribelli alla paga dimezzata, ti tolgono il contratto, ti ritrovi spalle al muro con il foglio di via. Se non ti ribelli, vivi in una sorta di schiavitù. E in molti casi rischi la vita, lavorando per paghe da fame senza le dotazioni di sicurezza, nei cantieri. E allora ho deciso di dedicarmi alla lotta. Non per me, ma per noi. Per emancipare non solo me stesso ma i tantissimi sfruttati di questo paese. Invisibili per i grandi media, ma che esistono eccome.

Delle indagini della magistratura sulla cooperativa Karibu cosa può dirci?

A fine 2021 lessi alcuni articoli di stampa sulla mancata retribuzione di alcuni dipendenti della Karibù e, pur non avendo alcun interesse diretto nelle cooperative, chiesi immediati chiarimenti al riguardo. Mi dissero che non erano arrivati tutti i soldi necessari per pagare gli stipendi e che erano stati sollecitati gli enti pubblici ritardatari. Chiesi di far presto, per quanto possibile. Una situazione sulla quale non potevo però influire e sulla quale non ho responsabilità di alcun genere.

Poi se la sono presa con le attività di Lega Braccianti, la sua associazione sindacale.

La devo correggere: Lega Braccianti non è un sindacato. È una associazione iscritta al registro del Terzo Settore. Hanno contestato le raccolte fondi con la piattaforma GoFundMe, che traccia tutto in trasparenza. Sono accuse inconsistenti e sempre intrecciate con un gossip su di me e su mia moglie che francamente fa cadere le braccia. La stessa piattaforma non ha evidenziato anomalie e tutti i fondi raccolti sono stati usati per acquistare e distribuire cibo, mascherine e dispositivi socio-sanitari per il Covid. Voglio anzi dire grazie a chi ha generosamente contribuito a far arrivare quello che serviva nell’emergenza della pandemia.

I suoi conti correnti personali, ce lo conferma, erano sempre distinti e separati?

Assolutamente sì, come è facile verificare. L’associazione ha tutto certificato, conti e bilanci. Il mio conto corrente è sempre stato distinto. Le donazioni sono rendicontate e i tanti beneficiari possono testimoniarlo.

Perché ha lasciato l’impegno sindacale per la politica?

Non ho lasciato nessun impegno ma ho provato a portarlo in Parlamento. Non vedo le cose come ambiti separati. Per me la politica è una cosa alta, seria. Dove continuare la mia lotta con le forme che mi vengono consentite.

A chi si ispira?

A Sandro Pertini, Giuseppe Di Vittorio, Nelson Mandela e Martin Luther King. Persone che hanno lottato e sofferto, conosciuto la gogna e fatto la storia. Quello che ho vissuto in questa fase, con gli attacchi personali, non è politica.

È degenerazione della politica?

No, mi rifiuto di associarlo alla politica. Un’amica mi disse: “Ti candidi? Ricordati che vai a nuotare in una vasca di squali”. Io le ho risposto che non so nuotare e che anche se fossi circondato dagli squali, sono un uomo e rimango umano. Però, mi chiedo: come mai ogni volta che una persona viene dai bassifondi dell’umanità vi è una sorta di accanimento?

Domanda retorica, che risposta si è dato?

Non vorrei che la differenza della melanina abbia inciso. Sono portatore di istanze scomode, di disagio, della richiesta di cittadinanza per milioni di bambini nati in questo Paese. Delle battaglie di chi rischia la vita per guadagnare dieci euro. Di chi sta in quelle discariche sociali che sono le carceri italiane, gironi di dannati spesso ignari di come ci siano finiti dentro… Se sommiamo a questo la mia condizione di partenza, capisco di risultare un corpo estraneo. Ma chiedo che queste battaglie trovino respiro nella vita politica.

L’ha delusa la sua parte politica, il gruppo Avs?

Sono umanamente deluso da molte persone. Alle minacce di morte alla mia persona e alla mia famiglia non è seguita la tutela che doveva esserci. Mi aspettavo una solidarietà che non c’è stata.

Fratoianni e Bonelli l’hanno delusa?

Quelli che mi erano venuti a cercare per candidarmi, e che in campagna elettorale mi chiedevano i selfie, a un certo punto li ho visti attraversare la strada per non incontrarmi. Con una dinamica che si fatica a capire, il giorno prima ti incensano e il giorno dopo ti allontanano.

Adesso si allontana lei, si è iscritto al gruppo Misto.

Continuerò con umiltà, insieme a tante persone che mi hanno manifestato vicinanza, le mie battaglie. Ho avuto solidarietà anche trasversale, non solo dal centrosinistra, da parlamentari e anche da europarlamentari che in privato mi hanno detto che avevo ragione. Fare politica dovrebbe significare avere coraggio anche e soprattutto quando davanti hai la betoniera del fango.

De André diceva che dal fango nascono i fiori. Il suo fiore quale sarà?

Hanno provato a sotterrarmi senza capire che i semi, sotto terra, germogliano. Odio e minacce dalla rete mi hanno fatto capire che bisogna educare ai diritti di cittadinanza digitale, lo dobbiamo ai più giovani e ai più vulnerabili. E poi questa esperienza mi ha fatto capire quanto sia urgente lavorare sulla presunzione di innocenza, un principio troppo spesso ignorato a sinistra. La nostra Carta costituzionale dice chiaramente che si è innocenti fino al terzo grado di giudizio, bisogna che la stampa prenda atto di questo principio. Anche se io, non indagato, non ho avuto nemmeno il beneficio del dubbio.

L’Italia è più razzista di quello che si dice?

La mia vicenda è sotto gli occhi di tutti. Per questo prendere coscienza è urgente, e ancor di più lavorare alle leggi di civiltà che mancano. Il diritto alla cittadinanza per chi nasce in Italia. E creare le condizioni affinché il viaggio dall’Africa all’Italia possa svolgersi tutelando la vita umana di chi si sposta alla ricerca di una vita migliore.

Qual è la sua proposta?

Scriviamo un piano insieme ai paesi africani. Stabiliamo una modalità di arrivo in Europa dall’Africa che consenta spostamenti in sicurezza, anche coinvolgendo la rete consolare italiana nelle capitali africane, per individuare via legale di ingresso in Italia deve consentire di scongiurare il cimitero del mare. E smettiamola di finanziare i lager in Libia, una misura che davvero non ci fa onore.

Continuerà queste sue battaglie in un altro partito?

Continuerò ad andare casa per casa e strada per strada, come diceva Enrico Berlinguer.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Soumahoro, donazioni attive e giallo sui soldi: cosa ha scoperto Striscia La Notizia. Il Tempo il 10 gennaio 2023

È un vero e proprio giallo quello sulle raccolte fondi lanciate dalla Lega Braccianti di Aboubakar Soumahoro e veicolate dalla piattaforma GoFundMe. Nel giorno in cui il parlamentare - finito nell'occhio del ciclone per l'inchiesta sulle coop - lascia Verdi-Sinistra per il Gruppo misto dopo aver accusato i suoi colleghi di partito di non averlo difeso, Striscia la Notizia continua a indagare sul caso migranti e manda in onda un servizio esplosivo. Si tratta dell’inchiesta di Pinuccio sulle raccolte fondi lanciate dalla Lega Braccianti di Soumahoro e veicolate proprio dalla piattaforma GoFundMe.

Mentre la campagna per comprare cibo durante la pandemia, al centro dell’inchiesta del Tg satirico, è stata rimossa, altre due sono ancora online. E risultano ancora attive – e accettano donazioni – nonostante siano di fatto scadute: una infatti era stata lanciata per raccogliere fondi per comprare regali ai bambini del ghetto per il Natale 2021, un’altra per organizzare lo sciopero dei braccianti a Roma del maggio 2021. L’inviato di Striscia fa una donazione a va a buon fine. Allora si domanda: "Soumahoro cosa se ne fa di questi soldi se le cause per cui venivano raccolti sono superate? Come li rendiconta? E, soprattutto, GoFundMe come gestisce le raccolte fondi?". Mistero. 

Comunicato stampa di “Striscia la notizia” il 18 gennaio 2023.

Questa sera a Striscia la notizia (eccezionalmente alle ore 19.30) Pinuccio torna a occuparsi delle bugie dell’ex sindacalista Aboubakar Soumahoro contenute nel corposo dossier difensivo in cui l’onorevole ha provato a rispondere ai tanti dubbi sollevati dal tg satirico riguardo al suo operato con la Lega Braccianti.

 L’inviato di Striscia torna sulla raccolta fondi “Cibo e diritti”, nata in teoria per aiutare i braccianti durante la pandemia. In particolare, sulla mai avvenuta consegna di beni di prima necessità in Abruzzo, evento organizzato dall’ex amico fraterno di Soumahoro, Yacouba Saganogo. Nel dossier, l’ex sindacalista sostiene di non essersi potuto recare a Pescara a causa di un lutto e dà la colpa a Saganogo per non aver riorganizzato l’evento.

Eppure, fu proprio il suo amico, ai microfoni di Striscia, a raccontare che «la consegna fu rinviata almeno quattro volte e lui non è mai venuto. Ho chiesto ad Abù che, se non poteva venire di persona, poteva almeno mandarci il furgone con il cibo, ma niente: ha sempre voluto rimandare. La gente ha pensato che l’avessimo fregata».

Di sicuro non una bella figura, da parte di chi si erge a paladino dei braccianti: «Ho fatto il bracciante e lo zappatore», ha ribadito Soumahoro in tv. Ma, anche in questo caso, era stato proprio Yacouba Saganogo a confidare a Pinuccio che «Abù non ha mai fatto il bracciante, non ha mai lavorato la terra o i campi».

Il mistero del mutuo a Soumahoro. Bianca Leonardi il 19 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Villino da 360mila euro comprato con prestito. E il reddito era appena 9mila euro

«Non è così, la verità è un'altra». Così l'onorevole Soumahoro, dopo il salto al Gruppo misto, ha annunciato la pubblicazione di un dossier che dovrebbe chiarire tutti i nodi della vicenda che lo ha reso protagonista negli ultimi mesi. Una serie di documenti che Soumahoro ha pubblicato nell'intento di sbugiardare le notizie di un «livello disumano al quale è arrivato il giornalismo in Italia», come si legge proprio nel dossier. Tra le carte fornite, anche la dichiarazione dei redditi del parlamentare, che mostra un reddito complessivo di 24mila euro nel 2020 e di 9mila euro nel 2021. Come è noto, il parlamentare, nel giugno scorso, ha comprato un villino del valore di 360 mila euro a Casalpalocco, in provincia di Roma, insieme alla compagna. Al tempo Soumahoro non faceva più il sindacalista per Usb e ancora non era parlamentare, mentre la Murekatete era nel Cda della Karibu, dalla quale si è licenziata lo scorso settembre e ora indagata per fatturazioni false. L'acquisto ha fin da subito sollevato molti dubbi. Per questo sono due i documenti di cui siamo entrati in possesso: l'atto di compravendita del villino e il contratto di mutuo stipulato dai Soumahoro, entrambi firmati dal notaio Giovanni Floridi. Nell'atto di compravendita compaiono 50mila euro pagati subito dalla famiglia e i restanti 310 mila «mediante due bonifici effettuati a mezzo Credito Emiliano Spa, utilizzando un mutuo concesso dal predetto istituto alla parte acquirente». Così si legge sul documento. Soldi concessi, sembrerebbe, dalla Credem Banca anche se il contratto del mutuo dice altro: è Intesa San Paolo, infatti, ad erogare 266 mila euro, da saldare entro il 2052 con rette mensili. Il contratto è infatti firmato anche dalla rappresentante di Intesa San Paolo.

Chi ha concesso, quindi, realmente il mutuo: Credem Banca o Intesa San Paolo? E anche sulle somme di denaro qualcosa sembrerebbe non tornare. A fronte del costo della villetta di 360mila euro, l'importo massimo finanziabile con il mutuo, è prassi, sia dell'80% e cioè 288 mila euro, contro i 266 mila scritti nel contratto. Quei 22mila euro da dove provengono? «Probabilmente da un conto personale - ci spiega un consulente finanziario - intestato a Soumahoro o alla compagna che, però, sarebbe stato opportuno precisare nell'atto».

Si scopre, inoltre, che il venditore del villino è un private banker executive presso Fideuram - proprio nelle sedi di Roma centro e Casalpalocco - controllata interamente da Intesa San Paolo. Inoltre gli atti non presentano nessun terzo garante.

Su come si sia potuto permettere una villetta del genere, Soumahoro ha sempre risposto con «ho scritto un libro». Si scopre, però, che i ricavi ottenuti da «Umanità in rivolta» corrispondono a 13900 euro nel 2019, anno di uscita, 3300 euro nel 2020 e 12000 nel 2021. Al contrario, i proventi ottenuti dalle campagne crowdfunding, nel solo 2021, ammontano a 130 mila euro. Soldi che non sono soggetti a tassazione né a dichiarazione e che arrivano su un conto corrente intestato proprio a Soumahoro che, nonostante affermi sia destinato solo ed esclusivamente alle finalità benefiche della Lega Braccianti, non presenta il rendiconto. I dubbi sull'acquisto della casa sembrerebbero quindi concreti: «Negli atti mancano oggettivamente dei passaggi. Nessuna banca concederebbe un mutuo di 360 mila euro a fronte di un reddito di 9 mila euro, senza garanzie di terzi e con le sole informazioni che risultano dalle carte», afferma l'esperto. Resta la possibilità che i soldi li abbia versati Liliane Muraketate, derivati dal suo ruolo nel Cda della coop indagata proprio per malversazione di fondi e truffa.

Soumahoro, la verità nascosta: quello che nessuno ha mai detto. Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano l’1 gennaio 2023

Novanta giorni di scandali, supercazzole e sbertucciamenti. Buon per lui che ad offuscarli un po', per ora, è arrivato il Qatargate. Da ragazzo Aboubakar Soumahoro ha scritto la tesi sulla "condizione dei migranti nel mercato del lavoro italiano" e vent' anni dopo s' è scoperto che la moglie e la suocera, a capo di due coop di lavoratori migranti a Latina, i migranti non li pagavano. Nel mentre Libero ha scoperto i selfie della moglie Liliane, con vestiti e borse di lusso - se è finito il pane i migranti mangino brioche - e da lì il soprannome Lady Gucci. Povero Abou: ce l'hanno tutti con lui, non perché è piccolo, ma solo perché è nero, ha detto così nel mitologico video in cui finge di piangere (altro che Dan Harrow che all'Isola dei Famosi confessa alla sua di moglie di aver rubato i cestini perché aveva fame) e giura che degli affari di consorte e suocera non sapeva nulla. Su La7 Abou per la moglie ha invocato il "diritto all'eleganza", e pochi giorni dopo - bomba-bombastica di Dagospia - s' è scoperto che la moglie (o compagna, non s' è ancora capito) per sé rivendicava anche il diritto alle foto erotiche (e ci mancherebbe), ne sono spuntate una manciata e chissà se Abou stavolta ne era conoscenza. Così come della provenienza degli stivali di gomma sporchi di fango con cui ha fatto il suo show entrando il primo giorno in parlamento da deputato di Verdi e Sinistra Italiana: è saltato fuori un ex socio della Lega Braccianti che ha detto che quegli stivali sono suoi. «Ridammeli, mi servono per lavorare».

Di recente s' è scoperto anche che Abou, anche questo l'ha detto lui, s' è comprato un villino da 450mila euro coi proventi di un libro che ha venduto appena 9mila copie; che ha lanciato una colletta vestito da Babbo Natale per comprare i regali ai bimbi del ghetto foggiano di San Severo dove però il prete ha detto che di bimbi non ce ne sono e quindi gli ex soci si chiedono cosa ne abbia fatto di quei soldi; e poi ancora gli ex soci lo accusano di aver pagato 50 euro a clic i braccianti di San Severo per scioperare e farsi i video con lui. Il 2022 per Soumahoro sarà anche stato l'anno in cui è diventato parlamentare, 8mila euro al mese, e però quante scoperte. Quante delusioni.

 L'hanno scaricato tutti: i padri putativi Bonelli e Fratoianni che dopo averne fatto il paladino degli ultimi non gli parlano più; quelli del Pd hanno cancellato il numero; in parlamento, se non per il tempo necessario a votare, attorno al deputato ivoriano non si siede più nessuno. Di lui non parla più Marco Damilano che da direttore dell'Espresso aveva accompagnato Abou all'udienza generale del Papa e s' è scoperto che a dispetto dei racconti non c'è stata alcuna udienza privata, solo un seflie in piazza. L'Espresso a Soumahoro non dedica più una copertina perché quella in cui l'ivoriano era un uomo perché difendeva i migranti e Salvini no, be', basta e avanza. Per fortuna di Abou il 2022 è finito. Altrimenti chissà quante altre scoperte, tra suocera e moglie. Certe cose meglio non saperle. Buona fine Aboubakar. E buon inizio. Gli ultimi tre mesi sono stati una stivalata. Per lei e per la sinistra, che già non se la passava troppo bene.

Dalle lacrime di Soumahoro alle minacce di querela di Liliane Murekagtete, la magistratura scopre un castello di bugie. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 28 Dicembre 2022

Il Gip Giuseppe Molfese nelle motivazioni di rigetto dell'istanza, ha invece evidenziato come non sia possibile revocare il provvedimento cautelare in quanto Liliane Murekatete sarebbe stata perfettamente consapevole ed attiva operativamente nella partecipazione del meccanismo fraudolento. Inoltre il giudice ha messo in chiaro un probabile sotteso interesse economico in quanto la donna ha continuato ad essere pagata dalla cooperativa Karibù.

I magistrati della procura di Latina non ci hanno messo molto a scoprire il “bluff” di Liliane Murekatete, moglie del deputato Aboubakar Soumahoro e a rigettare la richiesta di sospensione del provvedimento di interdizione nell’inchiesta sulle cooperative Karibù e Aid. Mentre la Murekatete affermava di non aver avuto ruoli nella cooperativa in quanto era in gravidanza, i magistrati hanno ritrovato documenti gestionali firmati da “lady Soumahoro” e riscontrato come la stessa abbia percepito lo stipendio regolarmente dal 2018 al 2021.

Liliane Murekatete

Perdono quindi “peso” e consistenza i documenti consegnati dalla donna e dal suo legale Lorenzo Borrè ai magistrati di Latina nel corso dell’interrogatorio avvenuto lo scorso 12 dicembre. Il dossier depositato dalla difesa avrebbe voluto dimostrare la sua estraneità alle evidenze a fondamento delle accuse emerse dall’inchiesta. Il Gip Giuseppe Molfese nelle motivazioni di rigetto dell’istanza, ha invece evidenziato come non sia possibile revocare il provvedimento cautelare in quanto Liliane Murekatete sarebbe stata perfettamente consapevole ed attiva operativamente nella partecipazione del meccanismo fraudolento. Inoltre il giudice ha messo in chiaro un probabile sotteso interesse economico in quanto la donna ha continuato ad essere pagata dalla cooperativa Karibù.

l’ avvocato Lorenzo Borrè e Liliane Murekatete

La linea difensiva durante l’interrogatorio a cui la donna non ha voluto sottoporsi avvalendosi della facoltà di non rispondere, preferendo presentare il dossier era stata indirizzata su un argomento “chiave”: la moglie di Soumahoro all’epoca dei fatti a suo dire non sarebbe stata a conoscenza di quello che accadeva nelle cooperative gestite e controllate dalla madre. Il giudice ha però fatto chiarezza spiegando che le cose starebbero diversamente, in quanto la Murekatete avrebbe continuato a ricevere lo stipendio e la sua presenza sarebbe riscontrabile da alcune firme sui documenti in mano agli inquirenti. Infine il Gip Molfese ha rimarcato che anche in gravidanza, Liliane Murekatete ha continuato a partecipare a tutte le attività. Adesso la battaglia della difesa, persa davanti al Gip, si sposta davanti ai giudici del Riesame.

Questa non è la prima volta che “lady Soumahoro” sostiene qualcosa che subito dopo viene smentita dai fatti. Da sempre sostiene estraneità nella gestione della cooperativa, ma già qualche settimana fa sono venuti alla luce gli screenshot di alcuni suoi messaggi scambiati con ex dipendenti che indicavano come fosse pienamente cosciente di quanto accadeva nella cooperativa, in particolare per le fatture non pagate.

Un’altro episodio in cui lady Soumahoro è stata smentita è stato quella delle foto “hot” pubblicate qualche settimana fa e rilanciate online da diversi siti web. Lei ha sostenuto con determinazione di non aver mai dato il consenso alla pubblicazione di quegli scatti, ma il fotografo Elio Leonardo Carchidi ha dichiarato di essere in grado di provare, documenti alla mano, che invece aveva tutte le autorizzazioni.

L’inchiesta condotta dalla Guardia di Finanza e dalla Polizia e coordinata dal pubblico ministero Andrea D’Angeli, procede concentrandosi su diversi fronti ancora aperti che vanno dalle ipotesi di raggiri da parte delle cooperartive dei familiari di Soumahoro per ottenere fondi pubblici a frodi relative a servizi resi ben diversi da quelli oggetto degli affidamenti, fino allo stato in cui erano lasciati appunto i migranti.

Per Liliane Murekatete le cose non si mettono bene ed adesso la sua speranza è riposta nel tribunale del Riesame di Roma, al quale il suo legale presenterà ricorso.

Se lady Soumahoro piange e si lamenta, il marito, il neo-deputato con gli stivali Aboubakar Soumahoro quello che si faceva i selfie davanti alle baracche del ghetto foggiano dove vivono tanti lavoratori immigrati che la sua Lega Braccianti secondo i proclami avrebbe dovuto tutelare e invece le accuse nei suoi confronti sono note, pochi aiuti e soltanto “show” a fini elettorali, compresi i 50 euro a bracciante (in questo caso sì che li avrebbe aiutati !) per protestare assieme a lui a favore di smartphone e telecamere invece di lavorare, ha ben poco da ridere.

Angelo Bonelli quando applaudiva Aboubakar Soumahoro

Aboubakar nelle campagne di San Severo nel foggiano, si faceva i selfie anche coi soci della Lega Braccianti che oggi gli chiedono conto della raccolta fondi da 16mila euro che doveva servire pure a regalare dei giocattoli ai bimbi del ghetto, ma don Andrea Pupilla direttore della Caritas di San Severo abbia reso noto che i bimbi si contano sulle dita di una mano, e quindi in molti si chiedono che fine abbiano fatto quei soldi raccolti.

Le feste di Natale per il deputato ivoriano è stata squallida propaganda ma anche tanta rabbia e odio politico indirizzato un po’ a tutti: “Auguri di un sereno Natale all’insegna dell’amore che ci permette di resistere alla malvagità e alla cattiveria per coltivare l’altruismo e la solidarietà” ha postato su Twitter il giorno di Natale, il 25 dicembre. “Come disse Martin Luther King: alla fine non ricorderemo le parole dei nostri nemici, ma il silenzio dei nostri amici“.

I “nemici” di Aboubakar Soumahoro sono ben noti, li aveva già nominati nei tragicomici tentativi di difendere sua moglie e la suocera entrambe indagate a vario titolo per frode, bilanci falsi, lavoratori senza stipendio, nell’inchiesta della procura di Latina sulle cooperative di famiglia: sono la destra, ma non solo i politici ma anche i quanto i giornali, quelli che secondo lui lo vorrebbero come “il nero da giardino”, come aveva detto nel suo video in lacrime (finte) di coccodrillo.

Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni

Il problema è che gli “amici”, quelli che all’insorgere dello scandalo l’hanno scaricato, l’ex onorevole di Sinistra e Verdi si è autosospeso dal gruppo parlamentare, non dall’incarico di onorevole, ma continua a sedersi accanto a loro in aula, non fa esplicito riferimento, sono tre: Nicola Fratoianni (leader di Sinistra Italiana), Angelo Bonelli (leader dei Verdi ) ed i vertici del Pd che in campagna elettorale l’avevano eretto a paladino degli ultimi, e poi sono stati i primi a tacere e disconoscerne vita opere e operette.

Nel frattempo le domande di Striscia la Notizia, attendono ancora, ma a casa Soumahoro tutti hanno perso la parola….Redazione CdG 1947

Inchiesta Soumahoro. La Procura accelera sugli illeciti della coop. Tonj Ortoleva il 29 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Nell'inchiesta sulle cooperative della famiglia del deputato Soumahoro che gestivano l'accoglienza dei migranti in provincia di Latina, la procura ha avviato una serie di audizioni convocando alcune persone informate sui fatti. Si tratta di professionisti che hanno collaborato con Karibù e Consorzio Aid e di dipendenti che lavoravano nelle coop.

I magistrati inquirenti della Procura di Latina stanno provando in questi giorni a ricostruire tutta una serie di passaggi poco chiari emersi dalle carte dell'inchiesta e contenuti, in parte, anche nell'ordinanza che ha portato al sequestro preventivo di oltre 650 mila euro a tre indagati e alla loro interdizione per un anno dalle attività gestionali.

Gli inquirenti si stanno concentrando ora sulle ultime annualità, 2020 e 2021, della Karibù, la cooperativa gestita dalla suocera e dalla moglie del il sindacalista di origini ivoriane e deputato eletto con l'alleanza Verdi-Sinistra. Sono gli anni in cui le difficoltà economiche della coop sono esplose in modo deflagrante.

Tra i documenti contabili sono emersi atti giudiziari mossi da persone che non sono state pagate per i servizi effettuati. Tra esse, c'è un consulente aziendale di Gaeta, Emiliano Scinicariello, che è stato convocato nei giorni scorsi dai magistrati di Latina per essere ascoltato come persona informata sui fatti.

Scinicariello, ovviamente, non può dire molto rispetto al colloquio coi magistrati, che è coperto dal segreto istruttorio. Ma conferma il fatto «di aver avuto un incarico di consulenza da parte della Karibu che mi ha visto impegnato dal febbraio 2021 all'agosto dello stesso anno. Un incarico che non è stato retribuito». Da qui una ingiunzione di pagamento avanzata nei confronti della cooperativa. Una situazione che lo accomuna a diversi ex lavoratori che attraverso il sindacato Uiltucs hanno denunciato il fatto di non aver ricevuto gli stipendi per mesi.

Anche alcuni di loro potrebbero essere ascoltati dagli inquirenti come persone informate sui fatti, come già accaduto ad altri ex dipendenti, le cui dichiarazioni sono contenute all'interno della recente ordinanza firmata dal gip Giuseppe Molfese. La sensazione è che la procura di Latina stia trovando una corsia veloce nell'indagine, con diversi riscontri come quelli emersi relativamente ai documenti gestionali legati alla figura di Liliane Murekatete, moglie del deputato Aboubakar Soumahoro, che la porrebbero come consapevole di quanto accadeva della coop nonostante abbia affermato di essersi fatta da parte, nel periodo in cui ricade l'inchiesta, in quanto in stato di gravidanza.

L'inchiesta di Latina è relativa alle cooperative gestite in passato dalla moglie del deputato Soumahoro, Liliane Murekatete, da sua madre Marie Terese Mukamitsindo e dal fratellastro Michel Rukundo. Per i tre è scattato ai primi di dicembre un pesante provvedimento cautelare che ha disposto il divieto per un anno di contrattare con la pubblica amministrazione e esercitare imprese e uffici direttivi di persone giuridiche, oltre al sequestro di oltre 639 mila euro alla madre e di circa 13 mila ai due figli. Intanto il prefetto di Latina Maurizio Falco ha annunciato che nel 2023 sono stati programmati 140 interventi ispettivi nelle cooperative che gestiscono i migranti e che hanno preso in carico quelli di Karibù e Aid.

Stipendi, firme e sms: tutte le bugie di Lady Soumahoro. Si era dichiarata estranea alle malversazioni delle coop perché in gravidanza: smentita. Tonj Ortoleva su Il Giornale il 27 Dicembre 2022.

Non ci hanno messo molto i giudici di Latina a scoprire il bluff di Liliane Murekatete, moglie del deputato Aboubakar Soumahoro e a rigettare la richiesta di sospensione del provvedimento di interdizione nell'inchiesta sulle coop Karibù e Aid. Mentre lei affermava di non aver avuto ruoli nella cooperativa in quanto era in gravidanza, i magistrati hanno ritrovato documenti gestionali firmati da lady Soumahoro e riscontrato come la stessa abbia percepito lo stipendio regolarmente dal 2018 al 2021.

Perdono dunque definitivamente consistenza i documenti consegnati dalla donna e dal suo avvocato Lorenzo Borrè ai magistrati di Latina nel corso dell'interrogatorio avvenuto lo scorso 12 dicembre. Il dossier avrebbe dovuto dimostrare la sua estraneità alle accuse mosse dall'inchiesta. Invece il gip, nelle motivazioni di rigetto dell'istanza, ha sottolineato come non sia possibile revocare il provvedimento cautelare in quanto Liliane sarebbe stata consapevole e attiva nella partecipazione del meccanismo fraudolento. Il giudice Giuseppe Molfese ha messo in luce un probabile sotteso interesse economico perché la donna ha continuato ad essere pagata dalla cooperativa Karibù. La linea difensiva durante l'interrogatorio (a cui la donna non ha risposto, presentando il dossier) era stata indirizzata su un punto chiave: lady Soumahoro all'epoca dei fatti non sarebbe stata a conoscenza di quello che accadeva nelle coop di famiglia. Ma il giudice ha fatto capire che le cose starebbero diversamente, in quanto Murekatete avrebbe continuato a ricevere lo stipendio e la sua presenza sarebbe riscontrabile da alcune firme sui documenti in mano agli inquirenti. Infine il gip ha rimarcato che anche in gravidanza, Liliane ha continuato a partecipare a tutte le attività. La battaglia adesso si sposta davanti ai giudici del Riesame.

Non è la prima volta che lady Soumahoro afferma qualcosa che subito dopo viene smentita dai fatti. Da sempre sostiene estraneità nella gestione della cooperativa, ma già qualche settimana fa emersero gli screenshot di alcuni messaggi scambiati con ex dipendenti che indicavano come fosse pienamente cosciente di quanto accadeva nella cooperativa, in particolare per quanto concerne le fatture non pagate. Altra vicenda in cui lady Soumahoro è stata smentita è quella delle foto hot pubblicate qualche settimana fa e rilanciate online da diversi siti web. Lei ha sostenuto con determinazione di non aver mai dato il consenso alla pubblicazione di quegli scatti, ma il fotografo Elio Leonardo Carchidi ha detto di essere in grado di dimostrare, carte alla mano, che aveva tutte le autorizzazioni.

Insomma, per Liliane Murekatete le cose non si mettono bene e ora la sua speranza è il tribunale del Riesame di Roma, a cui il suo legale presenterà ricorso. L'inchiesta condotta dalla Guardia di Finanza e dalla Polizia e coordinata dal pubblico ministero Andrea D'Angeli, prosegue concentrandosi su diversi fronti ancora aperti che vanno dalle ipotesi di raggiri da parte delle coop dei familiari di Soumahoro per ottenere fondi pubblici a frodi relative a servizi resi ben diversi da quelli oggetto degli affidamenti, fino allo stato in cui erano lasciati appunto i migranti.

Soumahoro tra pianti e silenzi. Ma le donazioni sono ancora attive. Ancora attiva la raccolta fondi della discordia. Su GoFundMe, la campagna dei 220mila euro mai arrivati nel ghetto non è mai stata chiusa e dopo un aggiornamento del deputato sono ripartite le donazioni. Bianca Leonardi su Il Giornale il 27 Dicembre 2022.

Prima il silenzio, poi il pianto isterico sfociato in accuse contro tutti coloro che "mi vogliono morto". Quindi il diritto all'eleganza e - a correlare il tutto - l'ormai noto slogan "non sapevo niente". Questa la parabola dell'onorevole Aboubakar Soumahoro, sempre più in picchiata verso un baratro che sembrerebbe irrecuperabile, soprattutto alla luce degli ultimi colpi messi a segno dagli inquirenti nel cui mirino non sono finite soltanto le cooperative gestite dalla famiglia della compagna - indagata insieme alla madre e al fratellastro - ma anche le testimonianze dei braccianti che IlGiornale.it ha raccolto sul posto.

A Foggia, infatti, l’ex sindacalista è stato sbugiardato più volte proprio dai propri compagni, il tutto nel silenzio delle istituzioni. Se è vero che Soumahoro si è trovato esposto su un fronte da cui vorrebbe tirarsi fuori (non a caso rimanda le dichiarazioni al legale, Maddalena Del Re), è anche vero che il tempo per pensare ai soldi sembra trovarlo.

La famosa raccolta fondi della discordia, quella dei 220mila euro mai arrivati nel ghetto di Torretta Antonacci - come ci hanno raccontato personalmente i braccianti - è infatti ancora attiva su GoFunMe. Questo significa che ancora oggi è possibile inviare soldi alla Lega Braccianti, di cui Soumahoro è il Presidente - nonché, stando ai documenti (non) forniti, l'unico rappresentante formale dell'ente - e ne detiene il conto corrente. Si legge sul sito un aggiornamento, pubblicato negli ultimi mesi di bufera, che riporta le stesse parole scritte sul profilo facebook di Soumahoro e che punta il dito contro il "fango mediatico".

"Non consentirò mai a nessuno - indipendentemente dal colore della pelle, dal collocamento giornalistico, dal posizionamento sindacale e dall’appartenenza politica - di gettare ombre sul nostro operato e sulla mia integrità per rancore, per odio o per invidia”. E ancora: “Tutte le nostre azioni sono compiute in trasparenza e da uomini che rispettano la legge. Per questo, so che i processi di ricerca della verità e della giustizia si celebrano in tribunale e non si sentenziano sui giornali o in rete, a meno che siano animati dall’intento diffamatorio finalizzato a ledere la reputazione. Al riguardo, ho dato mandato ai miei legali di procedere nelle sedi opportune contro chiunque in queste ore tenterà di gettarmi del fango”.

La dichiarazione strappa lacrime che, però, non riporta giustificazione o spiegazioni concrete sui fatti avvenuti ha comunque fatto breccia nei cuori degli idealisti e di chi ancora crede nella bontà e correttezza del deputato tanto che, proprio dopo questo exploit, le donazioni sono riprese aumentando così il valore raggiunto.

Stesso discorso sul sito della Lega Braccianti dove gli obiettivi concreti non sono riportati, i bilanci sono fermi al 2020 - e sono quelli contestati che riportano la spesa di circa 50mila euro per qualche missione, a fronte dei più di 200mila raccolti con il crowfunding - ma il modulo per le donazioni è ben in vista.

Chiedendo poi informazioni all'unico indirizzo mail indicato, a rispondere - come IlGiornale.it hapotuto verificare - è proprio l'addetta stampa di Soumahoro, pronta a indicare le modalità di pagamento, senza far riferimento a chiarimenti aggiuntivi.

Insomma, il deputato con gli stivali continua a "non sapere niente" ma, almeno due cose sembrerebbe le avesse chiare: il posto da parlamentare e le tasche che, nonostante tutto, continuano a riempirsi.

Sinistra umanitaria, Sallusti: fanno i buoni, ma non gratis. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 24 dicembre 2022

È Natale, dobbiamo essere tutti più buoni. Ci sto, a una sola condizione: non passare per fessi, che nel mio mestiere significa andare appresso ai furbi che si fanno passare per saggi, o se preferite ai furbi che intrallazzano facendosi scudo con "l'aiuto umanitario", pratica nobile ma scivolosa. E non è un caso se a scivolare sono soprattutto esponenti della sinistra comunista nel cui pantheon ci sono solo figure che all'umanità hanno fatto più male che bene. Nessuno in queste ore ha il coraggio di mettere in fila tre fatti di cronaca e dimostrare che il vero problema non sono le singole storie ma la cultura comune che le ha generate, per l'appunto la cultura comunista.

Proviamoci. Antonio Panzeri, regista dello scandalo Qatar, è stato un potente segretario della Cgil, poi membro della direzione dei Ds, deputato europeo del Pd e infine socio di Articolo 1, il partito di Speranza, D'Alema e Bersani. A Bruxelles è stato presidente della sottocommissione europea per i diritti umani e ha fondato l'Ong umanitaria Fight Impunity che oggi sappiamo essere un bancomat di famiglia (ieri gli hanno sequestrato altri 240 mila euro di provenienza sospetta).

La storia di Panzeri è molto simile a quella della famiglia Soumahoro, l'immigrato adottato dagli intellettuali di sinistra e portato da Nicola Fratoianni, leader di Sinistra Italiana, a sedere in Parlamento come paladino degli ultimi. Oggi sappiamo che anche l'Ong, ovviamente umanitaria, dei Soumahoro era un bancomat personale che ha dissipato milioni di soldi pubblici.

E arriviamo alla terza storia. Anche in questo caso ci sono di mezzo Fratoianni, Sinistra Italiana e una Ong va da sé umanitaria, specializzata nel soccorso di naufraghi. Fratoianni è infatti l'ultimo padrino politico di Luca Casarini, già attivista no global e comunista a tempo pieno. Il tribunale di Ragusa ha disposto ieri il sequestro di 125 mila euro che l'Ong di Casarini aveva intascato da un armatore danese per liberarlo dalla scocciatura di avere a bordo 27 immigrati casualmente intercettati in mare aperto. L'accusa è di favoreggiamento di immigrazione clandestina, un taxi del mare alla modica cifra di 4600 euro a immigrato. Ma quanto sono umanitari 'sti comunisti? Ma soprattutto, quanto sono fessi i non pochi che ancora gli tengono bordone?

*** Ps. Con affetto e riconoscenza buon Natale a tutti voi lettori. Libero, come tutti i quotidiani, tornerà in edicola martedì 27 dicembre. 

Dalle lacrime di Soumahoro alle minacce di querela di Liliane Murekagtete, la magistratura scopre un castello di bugie. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 28 Dicembre 2022

Il Gip Giuseppe Molfese nelle motivazioni di rigetto dell'istanza, ha invece evidenziato come non sia possibile revocare il provvedimento cautelare in quanto Liliane Murekatete sarebbe stata perfettamente consapevole ed attiva operativamente nella partecipazione del meccanismo fraudolento. Inoltre il giudice ha messo in chiaro un probabile sotteso interesse economico in quanto la donna ha continuato ad essere pagata dalla cooperativa Karibù.

I magistrati della procura di Latina non ci hanno messo molto a scoprire il “bluff” di Liliane Murekatete, moglie del deputato Aboubakar Soumahoro e a rigettare la richiesta di sospensione del provvedimento di interdizione nell’inchiesta sulle cooperative Karibù e Aid. Mentre la Murekatete affermava di non aver avuto ruoli nella cooperativa in quanto era in gravidanza, i magistrati hanno ritrovato documenti gestionali firmati da “lady Soumahoro” e riscontrato come la stessa abbia percepito lo stipendio regolarmente dal 2018 al 2021.

Liliane Murekatete

Perdono quindi “peso” e consistenza i documenti consegnati dalla donna e dal suo legale Lorenzo Borrè ai magistrati di Latina nel corso dell’interrogatorio avvenuto lo scorso 12 dicembre. Il dossier depositato dalla difesa avrebbe voluto dimostrare la sua estraneità alle evidenze a fondamento delle accuse emerse dall’inchiesta. Il Gip Giuseppe Molfese nelle motivazioni di rigetto dell’istanza, ha invece evidenziato come non sia possibile revocare il provvedimento cautelare in quanto Liliane Murekatete sarebbe stata perfettamente consapevole ed attiva operativamente nella partecipazione del meccanismo fraudolento. Inoltre il giudice ha messo in chiaro un probabile sotteso interesse economico in quanto la donna ha continuato ad essere pagata dalla cooperativa Karibù.

l’ avvocato Lorenzo Borrè e Liliane Murekatete

La linea difensiva durante l’interrogatorio a cui la donna non ha voluto sottoporsi avvalendosi della facoltà di non rispondere, preferendo presentare il dossier era stata indirizzata su un argomento “chiave”: la moglie di Soumahoro all’epoca dei fatti a suo dire non sarebbe stata a conoscenza di quello che accadeva nelle cooperative gestite e controllate dalla madre. Il giudice ha però fatto chiarezza spiegando che le cose starebbero diversamente, in quanto la Murekatete avrebbe continuato a ricevere lo stipendio e la sua presenza sarebbe riscontrabile da alcune firme sui documenti in mano agli inquirenti. Infine il Gip Molfese ha rimarcato che anche in gravidanza, Liliane Murekatete ha continuato a partecipare a tutte le attività. Adesso la battaglia della difesa, persa davanti al Gip, si sposta davanti ai giudici del Riesame.

Questa non è la prima volta che “lady Soumahoro” sostiene qualcosa che subito dopo viene smentita dai fatti. Da sempre sostiene estraneità nella gestione della cooperativa, ma già qualche settimana fa sono venuti alla luce gli screenshot di alcuni suoi messaggi scambiati con ex dipendenti che indicavano come fosse pienamente cosciente di quanto accadeva nella cooperativa, in particolare per le fatture non pagate.

Un’altro episodio in cui lady Soumahoro è stata smentita è stato quella delle foto “hot” pubblicate qualche settimana fa e rilanciate online da diversi siti web. Lei ha sostenuto con determinazione di non aver mai dato il consenso alla pubblicazione di quegli scatti, ma il fotografo Elio Leonardo Carchidi ha dichiarato di essere in grado di provare, documenti alla mano, che invece aveva tutte le autorizzazioni.

L’inchiesta condotta dalla Guardia di Finanza e dalla Polizia e coordinata dal pubblico ministero Andrea D’Angeli, procede concentrandosi su diversi fronti ancora aperti che vanno dalle ipotesi di raggiri da parte delle cooperartive dei familiari di Soumahoro per ottenere fondi pubblici a frodi relative a servizi resi ben diversi da quelli oggetto degli affidamenti, fino allo stato in cui erano lasciati appunto i migranti.

Per Liliane Murekatete le cose non si mettono bene ed adesso la sua speranza è riposta nel tribunale del Riesame di Roma, al quale il suo legale presenterà ricorso.

Se lady Soumahoro piange e si lamenta, il marito, il neo-deputato con gli stivali Aboubakar Soumahoro quello che si faceva i selfie davanti alle baracche del ghetto foggiano dove vivono tanti lavoratori immigrati che la sua Lega Braccianti secondo i proclami avrebbe dovuto tutelare e invece le accuse nei suoi confronti sono note, pochi aiuti e soltanto “show” a fini elettorali, compresi i 50 euro a bracciante (in questo caso sì che li avrebbe aiutati !) per protestare assieme a lui a favore di smartphone e telecamere invece di lavorare, ha ben poco da ridere.

Angelo Bonelli quando applaudiva Aboubakar Soumahoro

Aboubakar nelle campagne di San Severo nel foggiano, si faceva i selfie anche coi soci della Lega Braccianti che oggi gli chiedono conto della raccolta fondi da 16mila euro che doveva servire pure a regalare dei giocattoli ai bimbi del ghetto, ma don Andrea Pupilla direttore della Caritas di San Severo abbia reso noto che i bimbi si contano sulle dita di una mano, e quindi in molti si chiedono che fine abbiano fatto quei soldi raccolti.

Le feste di Natale per il deputato ivoriano è stata squallida propaganda ma anche tanta rabbia e odio politico indirizzato un po’ a tutti: “Auguri di un sereno Natale all’insegna dell’amore che ci permette di resistere alla malvagità e alla cattiveria per coltivare l’altruismo e la solidarietà” ha postato su Twitter il giorno di Natale, il 25 dicembre. “Come disse Martin Luther King: alla fine non ricorderemo le parole dei nostri nemici, ma il silenzio dei nostri amici“.

I “nemici” di Aboubakar Soumahoro sono ben noti, li aveva già nominati nei tragicomici tentativi di difendere sua moglie e la suocera entrambe indagate a vario titolo per frode, bilanci falsi, lavoratori senza stipendio, nell’inchiesta della procura di Latina sulle cooperative di famiglia: sono la destra, ma non solo i politici ma anche i quanto i giornali, quelli che secondo lui lo vorrebbero come “il nero da giardino”, come aveva detto nel suo video in lacrime (finte) di coccodrillo.

Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni

Il problema è che gli “amici”, quelli che all’insorgere dello scandalo l’hanno scaricato, l’ex onorevole di Sinistra e Verdi si è autosospeso dal gruppo parlamentare, non dall’incarico di onorevole, ma continua a sedersi accanto a loro in aula, non fa esplicito riferimento, sono tre: Nicola Fratoianni (leader di Sinistra Italiana), Angelo Bonelli (leader dei Verdi ) ed i vertici del Pd che in campagna elettorale l’avevano eretto a paladino degli ultimi, e poi sono stati i primi a tacere e disconoscerne vita opere e operette.

Nel frattempo le domande di Striscia la Notizia, attendono ancora, ma a casa Soumahoro tutti hanno perso la parola….Redazione CdG 1947

Inchiesta Soumahoro. La Procura accelera sugli illeciti della coop. Tonj Ortoleva il 29 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Nell'inchiesta sulle cooperative della famiglia del deputato Soumahoro che gestivano l'accoglienza dei migranti in provincia di Latina, la procura ha avviato una serie di audizioni convocando alcune persone informate sui fatti. Si tratta di professionisti che hanno collaborato con Karibù e Consorzio Aid e di dipendenti che lavoravano nelle coop.

I magistrati inquirenti della Procura di Latina stanno provando in questi giorni a ricostruire tutta una serie di passaggi poco chiari emersi dalle carte dell'inchiesta e contenuti, in parte, anche nell'ordinanza che ha portato al sequestro preventivo di oltre 650 mila euro a tre indagati e alla loro interdizione per un anno dalle attività gestionali.

Gli inquirenti si stanno concentrando ora sulle ultime annualità, 2020 e 2021, della Karibù, la cooperativa gestita dalla suocera e dalla moglie del il sindacalista di origini ivoriane e deputato eletto con l'alleanza Verdi-Sinistra. Sono gli anni in cui le difficoltà economiche della coop sono esplose in modo deflagrante.

Tra i documenti contabili sono emersi atti giudiziari mossi da persone che non sono state pagate per i servizi effettuati. Tra esse, c'è un consulente aziendale di Gaeta, Emiliano Scinicariello, che è stato convocato nei giorni scorsi dai magistrati di Latina per essere ascoltato come persona informata sui fatti.

Scinicariello, ovviamente, non può dire molto rispetto al colloquio coi magistrati, che è coperto dal segreto istruttorio. Ma conferma il fatto «di aver avuto un incarico di consulenza da parte della Karibu che mi ha visto impegnato dal febbraio 2021 all'agosto dello stesso anno. Un incarico che non è stato retribuito». Da qui una ingiunzione di pagamento avanzata nei confronti della cooperativa. Una situazione che lo accomuna a diversi ex lavoratori che attraverso il sindacato Uiltucs hanno denunciato il fatto di non aver ricevuto gli stipendi per mesi.

Anche alcuni di loro potrebbero essere ascoltati dagli inquirenti come persone informate sui fatti, come già accaduto ad altri ex dipendenti, le cui dichiarazioni sono contenute all'interno della recente ordinanza firmata dal gip Giuseppe Molfese. La sensazione è che la procura di Latina stia trovando una corsia veloce nell'indagine, con diversi riscontri come quelli emersi relativamente ai documenti gestionali legati alla figura di Liliane Murekatete, moglie del deputato Aboubakar Soumahoro, che la porrebbero come consapevole di quanto accadeva della coop nonostante abbia affermato di essersi fatta da parte, nel periodo in cui ricade l'inchiesta, in quanto in stato di gravidanza.

L'inchiesta di Latina è relativa alle cooperative gestite in passato dalla moglie del deputato Soumahoro, Liliane Murekatete, da sua madre Marie Terese Mukamitsindo e dal fratellastro Michel Rukundo. Per i tre è scattato ai primi di dicembre un pesante provvedimento cautelare che ha disposto il divieto per un anno di contrattare con la pubblica amministrazione e esercitare imprese e uffici direttivi di persone giuridiche, oltre al sequestro di oltre 639 mila euro alla madre e di circa 13 mila ai due figli. Intanto il prefetto di Latina Maurizio Falco ha annunciato che nel 2023 sono stati programmati 140 interventi ispettivi nelle cooperative che gestiscono i migranti e che hanno preso in carico quelli di Karibù e Aid.

Stipendi, firme e sms: tutte le bugie di Lady Soumahoro. Si era dichiarata estranea alle malversazioni delle coop perché in gravidanza: smentita. Tonj Ortoleva su Il Giornale il 27 Dicembre 2022.

Non ci hanno messo molto i giudici di Latina a scoprire il bluff di Liliane Murekatete, moglie del deputato Aboubakar Soumahoro e a rigettare la richiesta di sospensione del provvedimento di interdizione nell'inchiesta sulle coop Karibù e Aid. Mentre lei affermava di non aver avuto ruoli nella cooperativa in quanto era in gravidanza, i magistrati hanno ritrovato documenti gestionali firmati da lady Soumahoro e riscontrato come la stessa abbia percepito lo stipendio regolarmente dal 2018 al 2021.

Perdono dunque definitivamente consistenza i documenti consegnati dalla donna e dal suo avvocato Lorenzo Borrè ai magistrati di Latina nel corso dell'interrogatorio avvenuto lo scorso 12 dicembre. Il dossier avrebbe dovuto dimostrare la sua estraneità alle accuse mosse dall'inchiesta. Invece il gip, nelle motivazioni di rigetto dell'istanza, ha sottolineato come non sia possibile revocare il provvedimento cautelare in quanto Liliane sarebbe stata consapevole e attiva nella partecipazione del meccanismo fraudolento. Il giudice Giuseppe Molfese ha messo in luce un probabile sotteso interesse economico perché la donna ha continuato ad essere pagata dalla cooperativa Karibù. La linea difensiva durante l'interrogatorio (a cui la donna non ha risposto, presentando il dossier) era stata indirizzata su un punto chiave: lady Soumahoro all'epoca dei fatti non sarebbe stata a conoscenza di quello che accadeva nelle coop di famiglia. Ma il giudice ha fatto capire che le cose starebbero diversamente, in quanto Murekatete avrebbe continuato a ricevere lo stipendio e la sua presenza sarebbe riscontrabile da alcune firme sui documenti in mano agli inquirenti. Infine il gip ha rimarcato che anche in gravidanza, Liliane ha continuato a partecipare a tutte le attività. La battaglia adesso si sposta davanti ai giudici del Riesame.

Non è la prima volta che lady Soumahoro afferma qualcosa che subito dopo viene smentita dai fatti. Da sempre sostiene estraneità nella gestione della cooperativa, ma già qualche settimana fa emersero gli screenshot di alcuni messaggi scambiati con ex dipendenti che indicavano come fosse pienamente cosciente di quanto accadeva nella cooperativa, in particolare per quanto concerne le fatture non pagate. Altra vicenda in cui lady Soumahoro è stata smentita è quella delle foto hot pubblicate qualche settimana fa e rilanciate online da diversi siti web. Lei ha sostenuto con determinazione di non aver mai dato il consenso alla pubblicazione di quegli scatti, ma il fotografo Elio Leonardo Carchidi ha detto di essere in grado di dimostrare, carte alla mano, che aveva tutte le autorizzazioni.

Insomma, per Liliane Murekatete le cose non si mettono bene e ora la sua speranza è il tribunale del Riesame di Roma, a cui il suo legale presenterà ricorso. L'inchiesta condotta dalla Guardia di Finanza e dalla Polizia e coordinata dal pubblico ministero Andrea D'Angeli, prosegue concentrandosi su diversi fronti ancora aperti che vanno dalle ipotesi di raggiri da parte delle coop dei familiari di Soumahoro per ottenere fondi pubblici a frodi relative a servizi resi ben diversi da quelli oggetto degli affidamenti, fino allo stato in cui erano lasciati appunto i migranti.

Soumahoro tra pianti e silenzi. Ma le donazioni sono ancora attive. Ancora attiva la raccolta fondi della discordia. Su GoFundMe, la campagna dei 220mila euro mai arrivati nel ghetto non è mai stata chiusa e dopo un aggiornamento del deputato sono ripartite le donazioni. Bianca Leonardi su Il Giornale il 27 Dicembre 2022.

Prima il silenzio, poi il pianto isterico sfociato in accuse contro tutti coloro che "mi vogliono morto". Quindi il diritto all'eleganza e - a correlare il tutto - l'ormai noto slogan "non sapevo niente". Questa la parabola dell'onorevole Aboubakar Soumahoro, sempre più in picchiata verso un baratro che sembrerebbe irrecuperabile, soprattutto alla luce degli ultimi colpi messi a segno dagli inquirenti nel cui mirino non sono finite soltanto le cooperative gestite dalla famiglia della compagna - indagata insieme alla madre e al fratellastro - ma anche le testimonianze dei braccianti che IlGiornale.it ha raccolto sul posto.

A Foggia, infatti, l’ex sindacalista è stato sbugiardato più volte proprio dai propri compagni, il tutto nel silenzio delle istituzioni. Se è vero che Soumahoro si è trovato esposto su un fronte da cui vorrebbe tirarsi fuori (non a caso rimanda le dichiarazioni al legale, Maddalena Del Re), è anche vero che il tempo per pensare ai soldi sembra trovarlo.

La famosa raccolta fondi della discordia, quella dei 220mila euro mai arrivati nel ghetto di Torretta Antonacci - come ci hanno raccontato personalmente i braccianti - è infatti ancora attiva su GoFunMe. Questo significa che ancora oggi è possibile inviare soldi alla Lega Braccianti, di cui Soumahoro è il Presidente - nonché, stando ai documenti (non) forniti, l'unico rappresentante formale dell'ente - e ne detiene il conto corrente. Si legge sul sito un aggiornamento, pubblicato negli ultimi mesi di bufera, che riporta le stesse parole scritte sul profilo facebook di Soumahoro e che punta il dito contro il "fango mediatico".

"Non consentirò mai a nessuno - indipendentemente dal colore della pelle, dal collocamento giornalistico, dal posizionamento sindacale e dall’appartenenza politica - di gettare ombre sul nostro operato e sulla mia integrità per rancore, per odio o per invidia”. E ancora: “Tutte le nostre azioni sono compiute in trasparenza e da uomini che rispettano la legge. Per questo, so che i processi di ricerca della verità e della giustizia si celebrano in tribunale e non si sentenziano sui giornali o in rete, a meno che siano animati dall’intento diffamatorio finalizzato a ledere la reputazione. Al riguardo, ho dato mandato ai miei legali di procedere nelle sedi opportune contro chiunque in queste ore tenterà di gettarmi del fango”.

La dichiarazione strappa lacrime che, però, non riporta giustificazione o spiegazioni concrete sui fatti avvenuti ha comunque fatto breccia nei cuori degli idealisti e di chi ancora crede nella bontà e correttezza del deputato tanto che, proprio dopo questo exploit, le donazioni sono riprese aumentando così il valore raggiunto.

Stesso discorso sul sito della Lega Braccianti dove gli obiettivi concreti non sono riportati, i bilanci sono fermi al 2020 - e sono quelli contestati che riportano la spesa di circa 50mila euro per qualche missione, a fronte dei più di 200mila raccolti con il crowfunding - ma il modulo per le donazioni è ben in vista.

Chiedendo poi informazioni all'unico indirizzo mail indicato, a rispondere - come IlGiornale.it hapotuto verificare - è proprio l'addetta stampa di Soumahoro, pronta a indicare le modalità di pagamento, senza far riferimento a chiarimenti aggiuntivi.

Insomma, il deputato con gli stivali continua a "non sapere niente" ma, almeno due cose sembrerebbe le avesse chiare: il posto da parlamentare e le tasche che, nonostante tutto, continuano a riempirsi.