Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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 L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

ANNO 2023

LA MAFIOSITA’

TERZA PARTE


 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.


 

LA MAFIOSITA’

PRIMA PARTE


 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Ascesa di Matteo Messina Denaro.

L’Arresto di Matteo Messina Denaro.

La Morte di Matteo Messina Denaro.


 

SECONDA PARTE


 

SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Lotta alla mafia: lotta comunista.

L’inganno.

Le Commissioni antimafia e gli Antimafiosi.

I gialli di Mafia: Gelsomina Verde.

I gialli di Mafia: Matteo Toffanin.

I gialli di Mafia: Attilio Manca.

Gli Affari delle Mafie.

La Mafia Siciliana.

La Mafia Pugliese.

La Mafia Calabrese.

La Mafia Campana.

La Mafia Romana.

La Mafia Sarda.

La mafia Abruzzese.

La Mafia Emilana-Romagnola.

La Mafia Veneta.

La Mafia Lombarda.

La Mafia Piemontese.

La Mafia Trentina.

La Mafia Cinese.

La Mafia Indiana.

La Mafia Nigeriana.

La Mafia Colombiana.

La Mafia Messicana.

La Mafia Canadese.


 

TERZA PARTE


 

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Stragi di mafia del 1993.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: l’Arresto di Riina.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Depistaggio.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Depistaggio. La Trattativa.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Depistaggio. La Trattativa-bis: “’Ndrangheta stragista”. 

Gli Infiltrati.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Delitto di Piersanti Mattarella.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Delitto di Pio La Torre.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Strage di Alcamo.


 

QUARTA PARTE


 

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Concorso esterno: reato politico fuori legge.

La Gogna Territoriale.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Ipocrisia e la Speculazione.

Il Caporalato dei Giudici Onorari.

Il Caporalato dei fonici, stenotipisti e trascrittori.

Il Caporalato della Vigilanza privata e Servizi fiduciari - addetti alle portinerie.

Il Caporalato dei Fotovoltaici.

Il Caporalato dei Cantieri Navali.

Il Caporalato in Agricoltura.

Il Caporalato nella filiera della carne.

Il Caporalato della Cultura.

Il Caporalato delle consegne.

Il Caporalato degli assistenti di terra negli aeroporti.

Il Caporalato dei buonisti.


 

QUINTA PARTE


 

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Usura.

Dov’è il trucco.

I Gestori della crisi d’impresa.

SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le Caste.

Pentiti. I Collaboratori di Giustizia.

Il Business delle Misure di Prevenzione.

I Comuni sciolti ed i Commissari antimafia.

Le Associazioni.

Il Business del Proibizionismo.

I Burocrati.

I lobbisti.

Le fondazioni bancarie.

I Sindacati.

La Lobby Nera.

I Tassisti.

I Balneari.

I Farmacisti.

Gli Avvocati.

I Notai.


 

SESTA PARTE


 

LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La P2: Loggia Propaganda 2.

La Loggia Ungheria.

Le Logge Occulte.

CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Censura.

Ladri di Case.


 

LA MAFIOSITA’

TERZA PARTE


 

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le Donne delle Stragi.

Milano.

Firenze.

Roma.

Le Donne delle Stragi.

Le due donne delle stragi di mafia: l’esclusiva Sky conferma L’Espresso. Simona Zecchi su L’Espresso il 31 marzo 2023.

La superteste Marianna Castro racconta gli incontri con le agenti dei Servizi alla vigilia degli attentati del 1993. Intanto, dalla nostra inchiesta, saltano fuori altri elementi inediti. La pista che porta a Gladio

«Quella vicina è la segretaria, Antonella, e quella dietro è la mia collega dei servizi segreti». Così una intervista rilasciata da Marianna Castro al giornalista Massimiliano Giannantoni su Skytg24 andata in onda il 31 marzo riapre la pista - mai chiusa in realtà - sulle donne delle stragi 1992-1993.

Marianna Castro è la testimone sentita da più procure come ex compagna dell’ex agente Giovanni Peluso che, come rivelato dal quotidiano Domani, ha ricevuto un avviso di conclusione delle indagini preliminari per concorso esterno in associazione mafiosa. Peluso entra nella storia sulle indagini delle stragi a seguito delle dichiarazioni del collaboratore Pietro Riggio.

Nel faccia a faccia con il giornalista, la ex compagna di Peluso, le cui parole sono andate in onda anche su Report tempo fa, questa volta è più esplicita e, ritornando sull’incontro avuto dal suo compagno con Giovanni Aiello, alias “faccia da mostro”, presso lo svincolo Roma-Napoli il giorno prima della strage di Firenze la notte fra il 26 e il 27 maggio 1993, dove lo aveva accompagnato, riferisce di Aiello in attesa di Peluso a bordo di una Mercedes scura in compagnia di due donne. Si tratta di Antonella, alias Virginia, e di Rosa, alias Cipollina, proprio come la donna descritta nell’articolo de L’Espresso del 23 febbraio scorso («soprannominata Cipollina a causa della capigliatura»)

Le donne delle stragi: l'intervista di Sky a Marianna Castro

Stesso copione prima della strage di Milano quando tra il 26 e il 27 luglio 1993 scoppia un’autobomba vicino alla Villa comunale e al museo di arte contemporanea (Pac). Cambia solo l’auto sulla quale sono in attesa le stesse tre persone in autostrada, una BMW chiara.

Il servizio del vicecaporedattore di Skytg24, già autore di due libri su vicende che attraversano il mondo Gladio, è un assaggio di uno speciale sulle stragi del 1993 che andrà in onda per intero a maggio prossimo e che già dalle parole riferite dalla Castro nel live trasmesso  promette scintille.

La donna, infatti, incalzata sulla identità delle due accompagnatrici, dice chiaramente che l’Antonella-segretaria (su cui da sempre si indaga) aveva come nome di battesimo Virginia, non tanto alta dai capelli chiari a caschetto; mentre l’altra, mora alta, detta anche Cipollina si chiamava Rosa: l’una con l’accento campano l’altra con un accento del Nord. Tuttavia, nel gioco delle figure femminili messo in scena da chi ha organizzato davvero le stragi, tutto si mescola perché le donne molto probabilmente indossavano una parrucca.

Il documento in possesso de L’Espresso, infatti, riferiva che la bionda della strage di via Palestro, diversa a esempio da quella della strage di via Fauro a Roma il maggio precedente, sarebbe in realtà «bruna con capelli a caschetto». D’altronde, in un corposo altro documento da noi visionato, una sorta di manuale sull’arruolamento di personale esterno utile alle operazioni coperte, denominato esplicitamente “La ricerca occulta”, esiste un riferimento specifico alle donne che «possono essere utilmente impiegate per compiti particolari».

Intanto, dei contenuti del documento dell’Aise (ex Sismi) datato 19 agosto 1993, e da noi pubblicato, emerge un altro elemento inedito: la donna è quella che «avrebbe parcheggiato l’automobile con l’esplosivo» a Milano.

I nuovi documenti Gladio su Virginia Gargano

A distanza di giorni dalla nostra esclusiva, L’Espresso ha potuto consultare la documentazione Gladio inerente alla signora Gargano con spunti interessanti soprattutto quando la ricerca si estende ad alcuni documenti che apparentemente non la riguardano in modo diretto. Il suo fascicolo personale, intanto, è inserito in un lungo elenco di nomi comprensivi anche dei familiari della Gargano (soprattutto due fratelli) e, come già in parte noto anche dell’ex marito, il gladiatore Maurizio Castagna nipote dell’ex capo del Sisde e poi della Polizia, Vincenzo Parisi, a cui Peluso, sempre secondo le dichiarazioni fatte alle procure da Marianna Castro, faceva da scorta.

Nel fascicolo datato marzo 1983 sono presenti una sua fotografia e alcuni dati personali a riempire una scheda che la riguarda. Una parte di questi dati, scritti a quanto pare di proprio pugno dalla Gargano, riguarda una visita compiuta dalla stessa a una sua amica, Rosalba, con una macchina allora di sua proprietà, una Mini Minor blu. Della Rosalba in questione appaiono alcuni particolari che richiamano la descrizione del documento da noi pubblicato e di una Rosalba Scaramuzzino abbiamo scritto a febbraio scorso. Forse una coincidenza. Ma quante Rosa, Rosalba e Virginia esistono raggruppate in documenti o note che si riferiscono a Gladio?

Operazioni clandestine

Altro documento che fa riferimento a una Virginia e questa volta con una chiara descrizione (“Elenco Personale Sad/Cag”) compare in un fascicolo sempre datato marzo 1983, si tratta di un appunto che aggiorna l’elenco del personale da inserire ed è successivo al dossier personale della donna. La sezione Studi e addestramento (Sad) è stata l’antesignana della VII divisione Sismi al cui interno il Centro addestramento guastatori (Cag) poi Cagp, dove “p” sta per paracadutisti, svolgeva il ruolo di reclutamento di componenti esterni e interni per l’Operazione “G” (Gladio), come viene identificata nei documenti ora visibili. L’Operazione “G” (Gladio) è in effetti la descrizione che appare da un certo punto in poi in tutta una serie di documenti presenti nell’Archivio di Stato di Roma sulla Stay behind italiana, lì convogliati dopo l’emanazione della direttiva Draghi dell’agosto 2021. In particolare dagli anni ‘60 in poi (la data della istituzione della Stay Behind ufficiale in accordo con la Cia americana è il 1956) dove l’Operazione “G” sembra alludere ad altro. Inclusi i documenti del 1983 che riferiscono prima di un interesse verso Virginia Gargano e poi di una Virginia inclusa nel personale arruolato appunto dal Cag.

La cosiddetta “raccolta occulta” di personale per utilizzi particolari è dunque il marchio che contraddistingue quelle operazioni che non si possono del tutto indicare nero su bianco, ma le cui tracce in qualche modo restano e giungono fino a noi. In particolare, per le stragi 1992-1993, come riportava l’analisi della intelligence nell’ormai famoso appunto da noi pubblicato, la strategia è stata attuata da «un coacervo di forze politico-massoniche con agganci nell’alta finanza e in organizzazioni straniere».

Le donne delle stragi e quei segreti sulle bombe del 1993. In un'intervista rilasciata a SkyTg24, Marianna Castro, ex compagna del poliziotto Giovanni Peluso, accusato da un collaboratore di giustizia di aver piazzato la bomba della strage di Capaci, rivela retroscena clamorosi sulle bombe del 1993 e sul ruolo di due donne. Gianluca Zanella l’1 Aprile 2023 su Il Giornale.

L’intervista realizzata dal giornalista Massimiliano Giannantoni per SkyTg24 potrebbe scatenare un effetto domino i cui esiti sono al momento imprevedibili. In un momento in cui si torna a parlare dell’organizzazione Gladio e di una struttura creata in seno alla VII Divisione del Sismi con “agenti a perdere” da impiegare per operazioni sporche, l’intervista a Marianna Castro pesa come un macigno.

Castro è stata compagna di Giovanni Peluso, l’ex poliziotto accusato dal mafioso e collaboratore di giustizia Pietro Riggio di aver piazzato l’esplosivo della strage di Capaci e che recentemente – attorno al 15 marzo scorso – ha ricevuto dalla procura di Caltanissetta (che nel frattempo ha archiviato le contestazioni per la strage di Capaci) un avviso di conclusione delle indagini preliminari per concorso esterno in associazione mafiosa.

Se Peluso è stato accostato alla strage che ha spazzato via la vita di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo, le parole della sua ex compagna ora raccolte da Giannantoni sembrano accostarlo ad altri altrettanto gravi eventi stragisti di cui ricorrerà tra poco il trentennale: le stragi di Firenze e di Milano del 27 maggio e del 27 luglio 1993, che insieme fecero contare dieci morti innocenti.

Nell’intervista, la Castro racconta di aver accompagnato il suo ex compagno a uno svincolo dell’autostrada Roma-Napoli il giorno prima della strage di via dei Georgofili. Ad attenderli, all’interno di una Mercedes scura in cui Peluso sarebbe poi salito, Giovanni Aiello – alias faccia da mostro – alla guida in compagnia di due donne. Una bionda, al suo fianco, e una mora seduta sui sedili posteriori.

Il gruppo parte, ma successivamente – la Castro non spiega in che modo – parla con il compagno in viaggio. La Castro chiede a Peluso chi siano quelle donne: “Quella vicino è la segretaria del mio amico, Antonella, quella dietro è una mia collega dei servizi segreti”. Incalzata da Giannantoni, Marianna Castro svela i reali nomi delle due donne: Antonella, la “segretaria” di Aiello, si chiamerebbe in realtà Virginia. Quella dietro, soprannominata “cipollina”, risponderebbe al nome di Rosa. Accento meridionale, precisamente campano, per Virginia, e accento settentrionale per Rosa.

Il racconto si fa ancora più inquietante quando Marianna Castro racconta che un mese dopo la bomba di Firenze, Peluso le chiede nuovamente di essere accompagnato allo stesso svincolo: “dobbiamo andare a Milano a fare dei rilievi” avrebbe detto. Ad attenderli, stavolta, una Bmw chiara. Alla guida sempre faccia da mostro e, ancora una volta, Virginia e Rosa.

Alla domanda del giornalista di quando abbia collegato queste partenze del compagno con il verificarsi delle stragi, Marianna Castro risponde così: “Lui quando tornava gli dico... scusa, ogni volta siete partiti, siete tornati e poi succedono le stragi”. Peluso avrebbe risposto “Che vuoi dire? Che siamo stati noi?”

No”, risponde la Castro, “non dico che siete stati voi, però per Firenze è stato così, per Milano è stato così. Siete andati giù a Capaci ed è stato così, e pure quando c’è stata via D’Amelio [la strage di via d’Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e gli uomini e donne della sua scorta, ndr] lui è mancato quel periodo... come mai tutte le stragi e tu non sei mai stato a casa? Hai sempre detto che sei andato a fare i rilievi, però partendo prima? [...] però siccome era un soggetto molto pericoloso... [ho detto] lasciamo perdere”.

Entrambe le auto, la Mercedes scura e la Bmw bianca, sono state viste rispettivamente a Firenze e Milano da alcuni testimoni prima delle violente esplosioni. Così come è ormai cosa nota, stando sempre alle testimonianze, la presenza di donne sui luoghi delle due stragi. Donne di cui restano tracce anche nei pressi del cratere di Capaci.

Il fatto che poi Giovanni Aiello prediligesse la compagnia di donne al suo fianco non è una novità. Ce l’aveva detto anche Armando Palmeri in una delle due interviste esclusive che ci aveva rilasciato nel settembre 2022. In quel caso, ci aveva raccontato di aver incontrato Aiello in compagnia di una donna con cui aveva collaborato per individuare la prigione del piccolo Giuseppe Di Matteo. Una donna che lavorava a strettissimo contatto con la Dia di Palermo. In quell’occasione, Palmeri ci aveva provocatoriamente chiesto per quale motivo nessuno, fino a quel momento, avesse pensato di mostrargli qualche foto per un confronto. Troppo tardi, l’ex collaboratore di giustizia è morto improvvisamente il 17 marzo.

Sulla possibilità che delle donne legate ai servizi segreti abbiano partecipato con un ruolo operativo alla preparazione e all’esecuzione di attentati abbiamo chiesto un parere al criminologo Federico Carbone, profondo conoscitore delle trame italiane del periodo che va dalla fine degli anni Ottanta alla metà degli anni Novanta e da diversi anni consulente della famiglia di Marco Mandolini, il super-soldato che indagava informalmente sulla morte dell’amico Vincenzo Li Causi e che venne massacrato con decine di coltellate non molto lontano dalla caserma Vannucci di Livorno.

Dai documenti in nostro possesso relativi alla VII Divisione del Sismi – ci dice Carbone - è sempre emersa una componente femminile”. E aggiunge: “I nomi dei componenti della VII Divisione erano molti di più di quei 16 conosciuti attraverso la lista Fulci. Tra questi, appunto, ci sono diverse donne”.

Non è certo un’anomalia la presenza di donne all’interno di apparati d’intelligence. La vera anomalia, in questo caso, è un’altra: “È quella di scoprire che delle donne abbiano avuto parte in attentati e stragi da sempre attribuiti a Cosa nostra. La mafia non ha mai impiegato delle donne per le proprie attività”.

Proprio un anno fa, una donna di Bergamo, Rosa Belotti, è finita sotto i riflettori con il sospetto che sia lei una delle donne viste in via Palestro poco prima della strage. Impossibile non chiedersi se quella “cipollina” citata dalla Castro, quella Rosa, non sia proprio la Belotti. Così come è impossibile non chiedersi se quella Virginia non sia Virginia Gargano, ex gladiatrice e molto vicina a Giovanni Aiello. Siamo certi che presto qualcuno più titolato di noi cercherà di rispondere a queste domande.

Come siamo certi che queste domande – e molte altre – verranno fatte a Giovanni Peluso che, già tirato in ballo per la strage di Capaci, potrebbe vedersi costretto a spiegare la sua eventuale presenza a Firenze e Milano in prossimità delle scoppio delle bombe del 1993.

Milano.

Stragi di mafia del 1993, c’era un’altra donna nel commando. E i Servizi segreti sapevano tutto. Un’ex impiegata dell’Alfa Romeo di Arese nel gruppo che mise a segno l’attentato di via Palestro a Milano. Era legata a uno degli artificieri. Il suo aspetto e una minuziosa descrizione in un appunto del Sisde che L’Espresso ha potuto leggere. Simona Zecchi su L’Espresso il 24 Febbraio 2023.

Sebbene la Procura di Firenze abbia individuato in Rosa Belotti la donna presente in via Palestro a Milano, a seguito di una fotografia trovata nel 1993 in un villino di Alcamo, in realtà, la presenza di più donne per le stragi di quell’anno è un fatto ancora tutto da indagare e L’Espresso è in grado di fornire nuovi elementi.

Firenze.

L'autobomba esplosa nel 1993 in via dei Georgofili. Messina Denaro, l’operazione chiamata Tramonto come la poesia di Nadia: morta a 9 anni nella strage di Firenze. Vito Califano su Il Riformista il 17 Gennaio 2023

Si chiamava Nadia e aveva appena 9 anni quando è morta, una delle vittime dell’attentato della Mafia a Firenze nel maggio 1993. Aveva scritto una poesia intitolata Tramonto. E Tramonto è stata chiamata l’operazione dei Ros dei carabinieri che hanno arrestato ieri presso la clinica La Maddalena, nel quartiere San Lorenzo a Palermo, il superlatitante Matteo Messina Denaro, la “Primula Rossa” di Cosa Nostra, ricercato dal 1993, che per l’attentato di Firenze fu condannato all’ergastolo.

La notte tra il 26 e il 27 maggio del 1993 esplose un’autobomba a Firenze, la strage dei Georgofili, nei pressi della Galleria degli Uffizi. Quei 277 chilogrammi di esplosivo uccisero cinque persone, rientravano nella strategia terroristica e stragistica di Cosa Nostra. Nadia Nencioni morì con la madre Angela Fiume, al padre Fabrizio Nencioni e alla sorellina Caterina di appena 50 giorni. Anche lo studente di architettura Dario Capolicchio, 22 anni, originario di La Spezia, perse la vita. Altre 41 persone rimasero ferite.

Solo tre giorni prima dell’attentato la bimba di nove anni aveva scritto una poesia, intitolata Il Tramonto:

Il pomeriggio se ne va

il tramonto si avvicina, un momento stupendo

il sole sta andando via (a letto)

è già sera tutto è finito

Il quaderno su cui scrisse quelle righe è ancora conservato e riprodotto dall’associazione dei Familiari delle vittime della strage di via de’ Georgofili per raccontare la vicenda nelle scuole.

L’abbiamo saputo stamani anche noi. Aver usato la poesia Il Tramonto di Nadia come titolo dell’operazione che ha portato all’arresto di Matteo Messina Denaro è un simbolo, un bel segnale che viene dato a tutti, oltre ad essere una carezza alle due bambine, nostre nipoti“, ha commentato all’Ansa Luigi Dainelli, zio con la moglie Patrizia Nencioni di Nadia, che vivono a La Romola. “Non so dire se qualcuno di loro, dei carabinieri, scegliendo la parola Tramonto abbia voluto ricordare le bambine e aver voluto richiamare attenzione sulle vittime dell’attentato di Firenze, o se si sia voluto anche interpretare qualcosa di più, forse pure il tramonto personale del boss Matteo Messina Denaro che viene segnato dal suo arresto”.

Di una cosa però lo zio è sicuro: “Al di là di tutto, facendo così, c’è stato un pensiero di investigatori e inquirenti dedicato alla strage di Firenze. Speriamo che Messina Denaro si decida a parlare, a dire la verità completa sulle stragi. Noi speriamo che con questo arresto si possa saperne di più”. A Nadia Nencioni e alla sorellina Caterina è stato intitolato un asilo nido comunale a Corleone, in provincia di Palermo.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Roma.

Estratto dell’articolo di Francesco Persili per Dagospia pubblicato il 29 settembre 2019

Mi occupai molto di mafia in quel periodo”. Poi un giorno Totò Riina disse “questo Costanzo mi ha rotto i co****ni”. A 'Domenica In' Maurizio Costanzo ricorda l’attentato di via Fauro. La maratona tv con Santoro, le interviste al giudice Falcone, la maglietta con la scritta “Mafia made in Italy” bruciata in diretta tv e quella sera del 14 maggio 1993. “L’autobomba venne fatta esplodere fuori dal teatro Parioli con qualche secondo di ritardo. Era venuto un altro autista, avevo cambiato la macchina… Ci fu un’esitazione nello schiacciare il pulsante del telecomando. Il botto fu pazzesco, ci siamo salvati tutti, io, Maria, l’autista e il cane, nessuno è morto. Un miracolo. Io quelli che stavano lì fuori li ho poi visti dietro le sbarre: io ero vivo, loro stavano dietro le sbarre”. Rifarei tutto quello che ho fatto? Se mi garantissero che finisce così, sì”, chiosa Costanzo.

 “Dopo l’attentato ho promesso a Maria che mi sarei occupato meno di mafia“. La De Filippi, per una promessa fatta al padre, da quella sera non è più voluta salire in macchina con Costanzo. “Per fortuna ce ne possiamo permettere due altrimenti uno andava con il tram…”. I due l’anno prossimo festeggeranno i 25 anni di matrimonio. "Mi sono sposato quattro volte e l’unico matrimonio che ha retto è quello con la De Filippi, mi sento in debito con lei e sì, sarà la donna che mi terrà la mano quando morirò. Maria è l’amore della mia vita. Dormiamo in stanze separate perché io russo. L’intimità non è dormire insieme. Pure in treno se dorme con sei sconosciuti. .. ”.

Malcom Pagani per "Il Fatto Quotidiano" pubblicato da Dagospia il 14 maggio 2013

Sono nato una seconda volta fuori dal teatro Parioli, tra via Fauro e via Boccioni, il 14 maggio 1993. Prima il rumore. I vetri rotti. Il botto. Un botto pazzesco. Io che chiedo ‘state bene?', esco dalla macchina e zoppico con i vetri nelle scarpe. Poi la luce. Una lingua di fuoco. De Palo, l'autista, era una maschera di sangue. Ancora lavora con me. Sono passati vent'anni".

 Maurizio Costanzo, che ad agosto ne compirà 75, è in piedi e nella stessa posizione rimarrà senza cedimenti per più di quaranta minuti: "Continuo a lavorare tutti i giorni, a casa mi annoio".

 Una bottiglia di acqua minerale con una cannuccia in tinta. Libri di Flaiano sulla scrivania e fotografie alle pareti. In alto, in un bianco e nero d'epoca che contrasta con il colore dei ricordi, un'istantanea sbiadita. Una puntata congiunta di Samarcanda e del suo show. Fine settembre '91.

Una staffetta Rai-Mediaset pensata con Michele Santoro in cui Cuffaro urla in diretta contro Falcone, un Costanzo poco più che 50enne brucia una maglietta "Mafia made in Italy" e Toto Riina guardandolo, dice soltanto: "Questo ha rotto i coglioni". Ricordando l'attentato del 1993, l'ouverture di un'estate stragista, misteriosa ed eversiva: "Il passaggio strategico e non certo casuale di Cosa Nostra dall'Isola al Continente" Costanzo gioca di sottrazione.

Sbaglia per difetto il numero dei chili di tritolo: "Cento? Mi sembrava fossero 70". Confonde il modello della macchina utilizzata per la detonazione: "Quindi era la uno Bianca, proprio come quella Uno bianca e non una seicento, davvero?".

Traduce in un'immagine cruda il naturale sollievo dello scampato: "Dieci giorni dopo la bomba andammo dalle parti di Nettuno, in una scuola di Polizia per la simulazione di via Fauro. I manichini vennero decapitati dall'esplosione. La fine che avremmo dovuto fare noi. Ci salvammo per tre secondi". Sul televisore scorrono le lamiere dell'autobomba di Bengasi, Costanzo osserva: "Come quella volta".

 Via Fauro anticipò l'incrudirsi della strategia della tensione. Tredici giorni dopo, a Firenze, in via dei Georgofili, le vittime dell'assalto allo Stato saranno cinque.

Di tutto questo all'epoca non sapevo nulla. Avevo ricevuto qualche minaccia e per pura routine l'avevo passata alla Digos. Lettere anonime. Disegni di piatti fumanti con la mia testa. Cose così.

In via Fauro all'inizio pensai allo scoppio di una tubatura del gas. Io e Maria facemmo l'autostop. Ci diedero un passaggio, a bordo salì anche il nostro cane. Tornammo a casa scossi, ma ignari. Tutto sommato tranquilli. Dopo mezz'ora arrivò il cinema.

Il cinema?

Le sirene. La polizia. I carabinieri. L'inferno di cristallo. Ci volle tempo per rendermi conto di cosa era successo e forza d'animo per ascoltare da magistrati straordinari come Saviotti, Vigna e Chelazzi, la ricostruzione di quella vicenda, i racconti sui brindisi alla mia morte tra mafiosi in carcere. Siamo vivi per miracolo. Per un errore. Per una casualità.

Pochissimi secondi di ritardo nel premere il bottone.

L'autista mi chiese di essere liberato per la serata e così feci chiamare una seconda macchina. Gli attentatori sbagliarono bersaglio e i tre secondi di ritardo dell'attentatore nel premere il bottone ci salvarono la vita. Poco tempo dopo andai a Firenze e per la prima e ultima volta vidi in faccia i Graviano e tutti quelli che me volevano ammazzà. Fu dura. Questa storia mi ha insegnato molte cose. Alcune sul valore degli uomini di scorta e dei magistrati. Altre meno belle.

La paura?

Non tanto per me che pure, nell'imminenza dell'attentato avevo pensato: "Se c'è anche un solo morto io smetto di fare ‘sto mestiere", quanto per Maria. Lei, per dire, soffrì moltissimo. Ebbi persino paura non si riprendesse. Vivemmo la cosa in modo diverso, comunque. Io mi considerai molto fortunato. Ripensavo alla dinamica, ai chili di tritolo usati in via Fauro e mi ripetevo: "Ammazza che culo". Lei era turbatissima. Mi dispiaceva di averle provocato una violenta ansia. Così le promisi che sarei stato più attento.

Lo fu?

Non molto. Andai al Politeama con la vedova Borsellino, in Sicilia a deporre senza reticenze in un processo di mafia e non smisi di occuparmi della questione. Quando vedevo le misure di sicurezza e i ponti bonificati non stavo bene. Ma a un ladro devi dire ladro. A un mafioso, mafioso.

Ha mai sentito parlare di una lettera contenente minacce a varie autorità scritta da alcuni sedicenti detenuti al 41-bis nel gennaio 1993. Oltre all'indirizzo del Vaticano e a quello del presidente della Repubblica, tra i molti, c'era anche il suo.

Come no, certo che ne ho sentito parlare. Sono stati colpiti tutti i destinatari, personalmente, o attraverso l'istituzione come nel caso delle Chiese.

 Di lei si sarebbero dovuti occupare i Corleonesi.

All'inizio. Poi subentrarono i catanesi e nella discussione: "Lo faccio io, no lo fai te" si perse molto tempo. Mi dissero, ma non trovai conferma, che Matteo Messina Denaro si fosse spinto personalmente a controllare i miei spostamenti dalle parti del Parioli. Chissà, se fossero saliti a Roma Santapaola e i suoi, come mi dissero i magistrati, per eliminarmi sarebbe bastata una sventagliata di mitra.

In via Fauro abitava anche Lorenzo Narracci, ex vice di Bruno Contrada al Sisde. Mai pensato che la bomba fosse per lui?

Mai. Mi parve inverosimile.

Che impressione le ha fatto vedere lo Stato coinvolto in una possibile trattativa con la mafia?

Un'impressione terribile. Ho letto molto, non abbastanza. Mi auguro sempre che non sia vero. Ci spero il giusto, ma continuo a sperare. Sinceramente. Anche se è astratta-mente possibile che si sia verificata, esprimere una verità storica è molto complicato. Proprio il giorno in cui è morto Andreotti mi è capitato di riflettere su quanti ragionamenti il senatore abbia portato con sé.

Nel 2009 lei dichiarò che D'Alema e Violante le dissero che dietro a via Fauro c'era l'ombra di Berlusconi. Lei era stato tra i più accaniti dissuasori degli ultras che volevano far nascere Forza Italia.

Verissimo. Mi opposi con durezza, meno vero, anzi falso, è che il nome di Berlusconi mi fosse stato fatto da D'Alema e Violante. Lo scrisse il Riformista. Inviai una rettifica.

 Però glielo dissero.

Eccome. Non me lo sono inventato. Nel camerino del teatro Parioli, mi pare. La voce diceva che la soffiata venisse da un pentito. Non ci ho mai creduto. Mai. Era un po' troppo. Anni dopo, quando era già presidente del Consiglio, Berlusconi venne in trasmissione. Uscì per caso il discorso e lui ci scherzò: "Già dicono che io ti ho messo la bomba in via Fauro, adesso diranno che ti ho levato la scorta". Andò tutto in onda.

Estratto dell'articolo di Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera" il 25 febbraio 2023.

La bomba che scoppiò alle 21.25 di quasi trent’anni fa, il 14 maggio 1993, segnò l’inizio dell’assalto mafioso al continente. Per la prima volta Cosa nostra — che un anno prima aveva fatto saltare in aria Giovanni Falcone, sua moglie Francesca, Paolo Borsellino e otto agenti di scorta — organizzò un attentato fuori dalla Sicilia. E l’obiettivo doveva essere lui, Maurizio Costanzo, il giornalista dello Show televisivo che attaccava gli «uomini d’onore», arrivando a invitare le loro donne a lasciarli.

Un attentato senza vittime, ma il messaggio fu subito chiaro: Cosa nostra aveva deciso di allargare il suo raggio d’azione. Non più solo magistrati, investigatori o politici che si mettevano di traverso; adesso toccava anche gli uomini di spettacolo che facevano informazione accusando la mafia davanti a milioni di italiani. Bersagli scelti con cura, ovunque nel Paese.

 «La causa scatenante»

«Si parlò di una trasmissione che fece Costanzo dove si parlava dei ricoveri facili all’ospedale, e che lui in quella trasmissione disse che dovevano effettivamente avere tutti tumori, o dovevano morire tutti di cancro gli uomini d’onore. Questo fu una causa scatenante», rivelò il pentito Vincenzo Sinacori, uno che fece parte del commando spedito a Roma da Totò Riina in persona, a febbraio del 1992, per trovare il modo di uccidere Falcone o l’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli; e poi, appunto, Maurizio Costanzo.

[…]

a gennaio ‘93 Riina fu arrestato, e suo cognato Leoluca Bagarella continuò sulla strada delle bombe, scegliendo di piazzarle anche lungo la penisola. E la prima fu per Costanzo: quasi 100 chili di tritolo e nitroglicerina sistemati nel bagagliaio di una Fiat Uno rubata la sera dell’11 maggio ‘93. E parcheggiata in via Ruggero Fauro — la strada dei Parioli che abitualmente il giornalista percorreva all’uscita dello spettacolo per tornare a casa — già il 13 maggio.

Ma quella sera il telecomando non fece esplodere l’ordigno. L’indomani i mafiosi (tutti della cosca di Brancaccio, quella dei Graviano, con Salvatore Benigno nel ruolo di esecutore materiale) andarono a riparare il guasto e la sera del 14 la bomba scoppiò. Ma Costanzo si salvò perché aveva cambiato macchina; non la solita Alfa 164 attesa dal commando, ma una Mercedes.

 « Benigno ha perso un po’ di tempo nel senso di: “è lui? Non è lui?”... Allora, ha schiacciato il bottone diciamo con qualche secondo diciamo, o millesimo di secondo, in ritardo. Perché si aspettava una 164», racconterà un altro pentito.

l momento dell’esplosione le macchine di Costanzo e della scorta erano appena passate, ma furono ugualmente coinvolte dall’onda d’urto, e danneggiate: Costanzo e Maria De Filippi che era con lui rimasero illesi, l’autista della Mercedes riportò qualche lieve ferita e anche le guardie del corpo a bordo della seconda auto se la cavarono con poco.

Estratto dell’articolo di Elena Del Mastro per ilriformista.it il 25 febbraio 2023.

Il curriculum criminale di Matteo Messina Denaro è molto lungo: stragi, omicidi, rapimenti, estorsioni e anche attentati. Crimini che attraversano oltre 40 anni di storia d’Italia, dalla strage di Capaci a via d’Amelio, fino al rapimento e omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di Santino, collaboratore di giustizia ed ex mafioso. La strategia della mafia degli anni 80 e 90 era quella di eliminare fisicamente chiunque risultasse scomodo per qualche motivo. E tra questi c’era anche Maurizio Costanzo, il conduttore televisivo che spesso in quegli anni dal suo Show si schierò apertamente contro la mafia. E per questo per Messina Denaro e i suoi andava eliminato.

 A raccontare questo episodio è stato lo stesso Maurizio Costanzo anni dopo. “Mi risulta dai magistrati di Firenze che Matteo Messina Denaro sia venuto al Teatro Parioli durante il ‘Maurizio Costanzo Show’ per vedere se si poteva fare lì l’attentato, sarebbe stata una strage. Hanno deciso di farlo quando uscivo dal teatro”, ha raccontato Costanzo a “Un giorno da pecora”. Era il 1992 quando Messina Denaro fece parte di un gruppo di fuoco inviato a Roma da Riina per pedinare e uccidere Costanzo, Giovanni Falcone e il Ministro Claudio Martelli. L’attentato a Costanzo si sarebbe dovuto svolgere fuori al teatro Parioli a Roma, dopo che il conduttore televisivo aveva registrato una puntata del suo programma.

 Costanzo insieme a Michele Santoro in quegli anni si esponeva spesso contro la mafia. […] Costanzo non teneva nascosta nemmeno la sua amicizia con il giudice Falcone e così la mafia lo prese di mira. Così un gruppo di fuoco composto da mafiosi di Brancaccio e della provincia di Trapani tra cui Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Vincenzo Sinacori, Lorenzo Tinnirello, Cristofaro Cannella e Francesco Geraci si spostò su Roma per mettere in pratica gli ordini.

Il gruppo per più giorni pedinò Costanzo. Poi quando tutto era pronto il gruppo fu richiamato da Riina in Sicilia e saltò. Ma fu solo rimandato. Nel maggio 1993 un altro gruppo di fuoco composto da mafiosi di Brancaccio e Corso dei Mille in cui però non c’era più Messina Denaro arrivò a Roma per mettere in pratica il piano. […] Venne rubata una Fiat Punto che fu riempita di tritolo e parcheggiata in via Fauro. Secondo quanto ricostruito successivamente dai magistrati, il primo giorno l’attentato fallì perché il congegno non esplose per un difetto. Il secondo giorno invece la bomba esplose ma Salvatore Benigno schiacciò il pulsante in ritardo perché con fuse l’auto su cui avrebbe viaggiato Costanzo. Così il presentatore e la moglie Maria de Filippi rimasero illesi, furono ferite invece due guardie del corpo. La paura fu tanta: nell’esplosione crollò il muro di una scuola, sei auto furono distrutte e sessanta danneggiate.

Nel 2018, Maria De Filippi raccontò, in un’intervista da Fabio Fazio: “Ho avuto paura per almeno due anni. Ero convinta di aver visto la persona che ha azionato la bomba. Vedo questo ragazzo che mi fissa fuori dai Parioli e io fisso lui, magari era un ragazzo qualsiasi”. […]

 Messina Denaro, non sarebbe risultato tra i presenti quel giorno ma fu considerato comunque tra i mandanti di quell’attentato. “Una gran bella notizia che si aspettava da 30 anni, alla fine della vita i peccati si pagano. Un evviva ai carabinieri del Ros, una bella soddisfazione”, ha detto Maurizio Costanzo, intervistato da LaPresse nel commentare l’arresto del superlatitante Matteo Messina Denaro dopo 30 anni di ricerche.

Estratto da www.repubblica.it – articolo del 27 aprile 2022

[…] Michele Santoro […] ha ripercorso quella giornata. "Sono arrivato a casa sua in una scena di guerra - ha detto - Ho visto Maurizio ancora frastornato, Maria (De Filippi, ndr) sul letto che non riusciva a proferire parola. Quello era un avvertimento alla tv: state esagerando, tornate a fare la televisione". 

Da it.wikipedia.org

 Nel febbraio 1992 un gruppo di fuoco composto da mafiosi di Brancaccio e della provincia di Trapani (Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Vincenzo Sinacori, Lorenzo Tinnirello, Cristofaro Cannella, Francesco Geraci) si spostò a Roma per uccidere Maurizio Costanzo; le armi e l'esplosivo necessarie per questi attentati vennero nascoste in un'intercapedine ricavata nel camion di Giovanbattista Coniglio (mafioso di Mazara del Vallo) per essere trasportate a Roma, dove vennero scaricate e occultate nello scantinato dell'abitazione di Antonio Scarano (spacciatore di origini calabresi residente a Roma legato a Messina Denaro).

Dopo alcuni appostamenti nel centro di Roma, il gruppo di fuoco non rintracciò il giudice Falcone e il ministro Martelli, decidendo quindi di ripiegare su Costanzo, che riuscirono a seguire per alcune sere dopo le registrazioni della trasmissione "Maurizio Costanzo Show". Tuttavia il boss Salvatore Riina ordinò a Sinacori di sospendere tutto e tornare in Sicilia perché “avevano trovato cose più importanti giù”.

 Nel maggio 1993 un altro gruppo di fuoco composto da mafiosi di Brancaccio e Corso dei Mille (Cristofaro Cannella, Cosimo Lo Nigro, Salvatore Benigno, Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano) si portò nuovamente a Roma per compiere l'attentato a Costanzo e venne ospitato di nuovo da Scarano nell'appartamento di suo figlio.

Il gruppo, accompagnato da Scarano con la sua auto, effettuò vari sopralluoghi nella zona dei Parioli per individuare Costanzo e infine rubò una Fiat Uno; Scarano procurò anche un garage presso il centro commerciale "Le Torri" a Tor Bella Monaca, dove Lo Nigro e Benigno portarono l'auto rubata e provvidero a sistemarvi all'interno l'esplosivo, dopo averlo prelevato dallo scantinato di Scarano stesso. Nella stessa sera l'autobomba venne parcheggiata in via Fauro ma non esplose per un difetto del congegno, che venne riparato il giorno successivo sempre da Lo Nigro e Benigno.

 Quella sera, l'autobomba venne fatta esplodere ma Benigno schiacciò il pulsante del telecomando con qualche istante di ritardo perché aspettava Costanzo su un'Alfa Romeo 164, mentre comparve una Mercedes blu, non blindata, alla cui guida era l'autista Stefano Degni e al cui interno sedevano il presentatore e la sua compagna Maria De Filippi (che rimasero illesi), seguita da una Lancia Thema con a bordo le due guardie del corpo Fabio De Palo (rimasto ferito) e Aldo Re (che subì lesioni legate allo shock). Nell'esplosione subirono gravi danni i palazzi di via Fauro, della vicina via Boccioni e inoltre crollò il muro di una scuola che si trovava quasi di fronte al luogo della deflagrazione; circa sessanta auto parcheggiate nelle vicinanze rimasero danneggiate e altre sei finirono distrutte nell'esplosione

Le indagini ricostruirono l'esecuzione dell'attentato in base alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Vincenzo Sinacori, Francesco Geraci, Salvatore Grigoli, Pietro Romeo e, in particolare, quelle di Antonio Scarano (che aveva partecipato in prima persona all'attentato): nel 1998 Cristofaro Cannella, Salvatore Benigno, Cosimo Lo Nigro, Giuseppe Barranca, Gaspare Spatuzza, Francesco Giuliano e Antonio Scarano furono riconosciuti come esecutori materiali dell'attentato di via Fauro nella sentenza per le stragi del 1993.

Nel 2008 Spatuzza iniziò a collaborare con la giustizia e negò la sua partecipazione all'attentato di via Fauro, dichiarando che Cosimo Lo Nigro si limitò ad avvertirlo a cose fatte. Nel 2011 nelle motivazioni della sentenza che condannava il boss Francesco Tagliavia per le stragi del 1993 in seguito alle accuse di Spatuzza, si leggeva: «La verità è che Spatuzza in via Fauro e dintorni non c'era [...] perché non gli era stato ordinato di esserci. [...] Della presenza di Spatuzza a Roma per l'attentato a Costanzo parla solo lo Scarano che fu il ricostruttore esclusivo di quella vicenda [...] Grande confusionario Scarano, attendibile nella sostanza e nelle linee generali della vicenda stragista, ma labile di memoria riguardo alle persone, alle date, ai dettagli e alle collocazioni temporali degli avvenimenti».

L’esplosione fuori al Teatro Parioli. Quando Maurizio Costanzo scampò all’attentato di Messina Denaro, la promessa di Maria De Filippi: “Mai più in auto”. Elena Del Mastro su Il riformista il 24 Febbraio 2023

Maurizio Costanzo nella sua lunghissima carriera non ha mai mancato di schierarsi pubblicamente e con forza contro la criminalità organizzata. Anche quando tra gli anni 80 e 90 quando la mafia mise in atto una vera e propria strategia, quella di eliminare fisicamente chiunque risultasse scomodo per qualche motivo. E tra questi c’era anche Maurizio Costanzo. E quindi la mafia provò a uccidere anche lui, per fortuna senza riuscirsi. “Riina disse: ‘Questo Costanzo mi ha rotto’. Cominciarono a pedinarmi, a spedirmi lettere anonime, ma non ci feci caso. Seppi poi che Messina Denaro era venuto nel pubblico dello Show, per vedere il teatro”. Una questione di attimi, quella della sera del 14 maggio 1993: “Fu un miracolo. Il mio autista mi aveva chiesto un giorno libero, e l’avevo sostituito con un altro, che conosceva meno bene la strada. Esitò al momento di girare in via Fauro, e questo confuse il killer che doveva azionare il detonatore. Sentimmo un botto pazzesco. Tra me e Maria passò un infisso”.

Era il 1992 quando Messina Denaro fece parte di un gruppo di fuoco inviato a Roma da Riina per pedinare e uccidere Costanzo, Giovanni Falcone e il Ministro Claudio Martelli. L’attentato a Costanzo si sarebbe dovuto svolgere fuori al teatro Parioli a Roma, dopo che il conduttore televisivo aveva registrato una puntata del suo programma. A raccontare questo episodio è stato lo stesso Maurizio Costanzo anni dopo. “Mi risulta dai magistrati di Firenze che Matteo Messina Denaro sia venuto al Teatro Parioli durante il ‘Maurizio Costanzo Show’ per vedere se si poteva fare lì l’attentato, sarebbe stata una strage. Hanno deciso di farlo quando uscivo dal teatro”, ha raccontato Costanzo a “Un giorno da pecora”.

Secondo quanto ricostruito dal Messaggero, Costanzo in quegli anni si esponeva spesso contro la mafia, realizzò anche una maratona televisiva a reti unificate Rai-Fininvest dedicata alla lotta alle mafie. Durante la trasmissione fu anche bruciata in diretta una maglietta con su scritto “Mafia made in Italy”. Costanzo non teneva nascosta nemmeno la sua amicizia con il giudice Falcone e così la mafia lo prese di mira. Così un gruppo di fuoco composto da mafiosi di Brancaccio e della provincia di Trapani tra cui Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Vincenzo Sinacori, Lorenzo Tinnirello, Cristofaro Cannella e Francesco Geraci si spostò su Roma per mettere in pratica gli ordini.

Il gruppo per più giorni pedinò Costanzo. Poi quando tutto era pronto il gruppo fu richiamato da Riina in Sicilia e saltò. Ma fu solo rimandato. Nel maggio 1993 un altro gruppo di fuoco composto da mafiosi di Brancaccio e Corso dei Mille in cui però non c’era più Messina Denaro arrivò a Roma per mettere in pratica il piano. Secondo quanto ricostruito da Il Messaggero, del gruppo facevano parte Cristofaro Cannella, Cosimo Lo Nigro, Salvatore Benigno, Giuseppe Barranca e Francesco Giuliano. Venne rubata una Fiat Punto che fu riempita di tritolo e parcheggiata in via Fauro. Secondo quanto ricostruito successivamente dai magistrati, iIl primo giorno l’attentato fallì perché il congengo non esplose per un difetto. Il secondo giorno invece la bomba esplose ma Salvatore Benigno schiacciò il pulsante in ritardo perché con fuse l’auto su cui avrebbe viaggiato Costanzo. Così il presentatore e la moglie Maria de Filippi rimasero illesi, furono ferite invece due guardie del corpo. La paura fu tanta: nell’esplosione crollò il muro di una scuola, sei auto furono distrutte e sessanta danneggiate.

Nel 2018, Maria De Filippi raccontò, in un’intervista da Fabio Fazio: “Ho avuto paura per almeno due anni. Ero convinta di aver visto la persona che ha azionato la bomba. Vedo questo ragazzo che mi fissa fuori dai Parioli e io fisso lui, magari era un ragazzo qualsiasi”. De Filippi ha aggiunto “Ho promesso a mio padre che non sarei più salita in macchina con Maurizio e così ho fatto. Non lo faccio. Non posso tradire una promessa fatta a mio padre”. A sua volta la conduttrice si fece promettere da Costanzo che non avrebbe più parlato di mafia, invano. “Ho chiesto a Maurizio di smettere di occuparsi di mafia e così ha fatto, per un po’ di tempo non l’ha fatto. Poi se ne è occupato ancora. Fossi stato in lui, avrei smesso, non so come abbia potuto riparlare di mafia ancora”.

Messina Denaro, non sarebbe risultato tra i presenti quel giorno ma fu considerato comunque tra i mandanti di quell’attentato. “Una gran bella notizia che si aspettava da 30 anni, alla fine della vita i peccati si pagano. Un evviva ai carabinieri del Ros, una bella soddisfazione”, ha detto Maurizio Costanzo, intervistato da LaPresse nel commentare l’arresto del superlatitante Matteo Messina Denaro dopo 30 anni di ricerche.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Non è l'Arena, Giletti e il giallo su Riina: "Un'altra storia". Libero Quotidiano il 26 febbraio 2023

Massimo Giletti torna a occuparsi di mafia a Non è l’Arena su La7. Il conduttore parla di un vero e proprio giallo sulla cattura di Totò Riina, avvenuta la mattina del 15 gennaio 1993, dopo circa 25 anni di latitanza del boss corleonese. "Vi faremo ascoltare un filmato e un audio che pongono nuovi interrogativi sull’arresto di Totò Riina e quello che circonda uno dei tanti misteri della mafia", ha spiegato il giornalista e presentatore del talk.

"Vi porterò all’interno di questo comprensorio, siamo nel cuore di Palermo, questa è via Bernini e proprio in una di queste ville c’era il covo di Totò Riina - ha continuato Giletti -. Fino a oggi sapevamo che i carabinieri erano nascosti all’esterno, in quel van chiamato Balena, e dentro c’erano gli uomini dei Ros che filmavano quello che accadeva. Ma l’audio e il video di questa sera raccontano forse un’altra storia".

 Il conduttore si è sempre occupato in maniera approfondita del fenomeno mafioso nella sua trasmissione. Ma in quest'ultimo periodo l'attenzione si è fatta ancora più forte dopo l'arresto di un altro ex super latitante, Matteo Messina Denaro, rimasto fuori dal carcere per ben 30 anni. 

Estratto dell'articolo di Felice Cavallaro per il “Corriere della Sera” il 28 febbraio 2023.

Nella notte di Non è l’Arena (dopo la mezzanotte di domenica, per via delle dirette sui risultati delle primarie del Partito democratico) Massimo Giletti, aprendo un blocco sulla cattura di Totò Riina, ha mostrato in esclusiva su La7 un inedito filmato amatoriale che riapre il caso sull’arresto del 15 gennaio 1993 e sulla mancata perquisizione del covo, la villa di via Bernini a Palermo.

Un video girato all’università di Chieti, con il generale Mario Mori e l’allora capitano Giuseppe De Donno in cattedra. Interlocutori di una platea di studenti universitari.

Pronti a raccontare una nuova versione delle indagini sfociate nell’arresto del boss di Cosa nostra rispetto alle ricostruzioni approdate nei processi.

L’allora capitano del Ros dei carabinieri Sergio De Caprio, alias «Ultimo», e lo stesso Mori (processati e assolti per la mancata perquisizione) hanno sempre parlato di una osservazione del covo di via Bernini con telecamera celata all’interno di un furgone dalle sei del mattino del 14 gennaio alle ore 16 del giorno successivo, poche ore dopo la cattura.

Rispondendo alle domande degli studenti, De Donno sostiene che «le telecamere» attorno al residence le avevano collocate «da una serie di settimane». Una novità assoluta, dopo le ricostruzioni legate al ruolo del pentito Balduccio Di Maggio.

In questo caso esisterebbero registrazioni non comunicate all’autorità giudiziaria.

[...] De Donno, loquace con la platea di Chieti dove era presente un esponente delle «Agende Rosse», Massimiliano Di Pillo, perplesso per le domande sulla scelta di abbandonare l’osservazione del residence.

Nessun dubbio per De Donno: «Da buon villano di Corleone, Riina non usava le valigette.

Aveva nella sua macchina una borsa di plastica piena di pizzini, cioè piena di documenti che riguardavano collegamenti con politici, appalti, imprenditori e tutta una serie di attività economiche illecite... Per cui l’archivio reale di Riina noi lo abbiamo preso la mattina che lui viaggiava...».

Affermazioni che stupiscono chi ha eseguito la perquisizione ufficiale dopo 18 giorni dall’arresto del boss e ha trovato la villa tinteggiata con la cassaforte totalmente priva di documenti. Anche in questo caso colpo di scena di De Donno: «Quello non era il luogo dove si nascondeva Totò Riina, ma dove abitava la famiglia...».

Forse un modo per soffocare la polemica di chi azzarda l’ipotesi di un ruolo attribuito a Bernardo Provenzano nell’individuazione di via Bernini. Da dove Riina uscì quella mattina culminata nella cattura, in una trionfale conferenza stampa e in una confidenza (smentita) dello stesso De Donno: «Qualcuno dovrà andare via da Palermo, vergognandosi...». Un riferimento che fece pensare alla cassaforte trovata vuota. E adesso al sacchetto con i «pizzini».

Estratto da adnkronos.com il 21 gennaio 2023.

 "Riina era un cretino. […] Era solo un violento. Per essere un capo non devi essere violento, devi essere intelligente". Lo ha detto il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, intervenuto in Senato presso la Sala Caduti di Nassirya alla presentazione del portale 'Scelgo la vita'.

 E mentre Cosa nostra ingaggiò, con lo stragismo, la "guerra stupida contro lo Stato" ad approfittarne fu la 'Ndrangheta, al punto, ha ricordato, che ad oggi "è leader nell'importazione di cocaina in Europa". […]

Estratto dell’articolo di Francesco Grignetti per “La Stampa” il 21 gennaio 2023.

 […] Cosa Nostra non è finita ma anzi riparte dalla stagione di Messina Denaro, soprattutto con un'attenzione diversa agli affari. Si parla molto di suoi investimenti nelle energie rinnovabili. Lo raccontò Totò Riina in una memorabile intercettazione nel carcere di Milano: «A me dispiace dirlo, questo signor Messina... Questo che fa il latitante, che fa questi pali eolici, i pali della luce... Se la potrebbe mettere nel c. la luce, ci farebbe più figura».

 Il boss credeva nel lusso. Camicie firmate. Orologio da 36 mila euro al polso. Etichette prestigiose del vino di Marsala nel portafoglio investimento, come per l'olio di qualità e l'ottimo vino catarratto. Messina Denaro aveva capito il valore dei marchi doc. E l'importanza della grande distribuzione.

Tanto che sarebbe un uomo da 5 miliardi di euro, manovrati grazie ai prestanome. Quanto siamo lontani dai «viddani» di Corleone, uomini di campagna, soddisfatti di pane e ricotta, nascosti in casolari sperduti tra le campagne. Secondo un pentito, Messina Denaro si sarebbe comprato persino un palazzo a Venezia, con vista sui canali, grazie a un prestanome. Cose inimmaginabili per i vecchi capi di Cosa Nostra.

 […] Quindi dopo di lui verrà una mafia imprenditrice, svincolata dall'edilizia e dal movimento terra. […] La mafia che riparte da Messina Denaro, dunque, egemonizza il territorio ma ragiona sui suoi sentimenti. Non si esalta nello scontro per lo scontro. Usa la violenza solo quando serve. E diffida della politica.

[…] Resta il nodo di fondo: come sarà la mafia siciliana del futuro? Forse mutuerà l'organizzazione orizzontale della 'ndrangheta, che riserva al vertice solo ruoli di coordinamento. Messina Denaro qualche anno fa strinse un patto con i capi della 'ndrangheta in Piemonte per «lavorare insieme e diventare un'unica famiglia». È quanto emerge nel processo Carminius-Fenice. Sarebbe una notevole rivoluzione per Cosa Nostra, abituata a dominare e ora non più.

Capitano Ultimo: «Lo sguardo di Totò Riina era impaurito, si sentiva sconfitto». Sergio De Caprio fu il carabiniere che, insieme ai suoi uomini, il 15 gennaio del 1993 a Palermo fermò l’auto in cui viaggiava il boss corleonese. Il Dubbio il 15 gennaio 2023

«Di quel giorno ricordo i carabinieri che erano accanto a me, i loro sguardi, la loro umiltà, il loro coraggio, la loro semplicità. Ricordo il tempo, che aveva una dimensione fisica, l'attesa. E poi lo sguardo di Riina impaurito, come uno che tremava, uno sconfitto. Infine il vuoto, quando abbiamo iniziato a pensare alle altre battaglie. Cos'era quello, in fondo, se non l'inizio di una lunga battaglia?». A parlare all'Adnkronos è Sergio De Caprio, il capitano “Ultimo” che il 15 gennaio 1993, a capo dell'unità Crimor dei Ros dei Carabinieri, arrestò il boss Totò Riina.

Sono passati 30 anni ma le emozioni più grandi De Caprio racconta di averle avute dopo, «quando mi sono letto le sentenze in cui Calogero, Stefano, Domenico e Raffaele Ganci e Francesco Paolo Anselmo seguivano giorno e notte Falcone, Dalla Chiesa, Borsellino e le loro scorte. Vedere i nostri carabinieri che hanno pedinato giorno e notte questi criminali, i loro figli e le loro mogli mi ha dato soddisfazione e orgoglio per aver combattuto bene, con la tecnica del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che si onora e si fa vivere con le nostre azioni. Il resto - risponda commentando la fiction in onda in questi giorni - va tutto bene».

Trent'anni dall'arresto di Riina, il capitano Ultimo: «Il suo archivio non esiste». ANTONIO ANASTASI su Il Quotidiano del Sud il 15 Gennaio 2023

NON crede che Totò Riina abbia lasciato un “archivio” e ritiene che Cosa nostra sia stata ormai “svelata”. Ce l’ha con l’ “antimafia dei salotti” e si sente isolato da pezzi di Stato che si “servono” dello Stato anziché servirlo. Ha una venerazione per il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, al quale fa “onore” che non sia stato nominato procuratore nazionale antimafia, perché accadde anche a Falcone e le analogie si intrecciano e si confondono. E inneggia al “popolo” degli ultimi. Ultimi come lui. Sono pillole dell’Ultimo-pensiero.

A trent’anni dallo storico arresto di Riina, a parlare è il colonnello Sergio De Caprio, colui che mise le mani sul capo di Cosa nostra che dopo 24 anni di latitanza sembrava imprendibile. Oggi ricorderà l’arresto «lontano dalle autorità della propaganda» e con «negli occhi il ricordo delle battaglie vissute sulla strada a difesa della gente», in una casa famiglia di Roma, scrive in un post su Facebook. Con lui ci saranno uno sparuto gruppo di «carabinieri di allora», quelli della squadra che capeggiava, e i familiari del capitano Mario D’Aleo, ucciso su mandato di Salvatore Biondino, che era pressoché sconosciuto agli inquirenti quando venne arrestato insieme a Riina ma che si sarebbe poi rivelato come uno dei capimafia più pericolosi di Palermo.

Quando parla di antimafia dei salotti a chi e a cosa si riferisce?

«A chi minimizza il ruolo di Cosa nostra nella stagione delle stragi. Non è una polemica, sono felice di stare insieme a carabinieri di basso grado e al fratello del capitano Mario D’Aleo ucciso su ordine di Riina da Salvatore Biondino. Sono felice di stare insieme ai parenti delle vittime».

La mattina del 15 gennaio 1993, insieme a tre suoi uomini lei si lanciò sulla vettura su cui viaggiava Riina, nome in codice Sbirulino. Arrestando Riina, ha guardato in faccia la ferocia. Lei lo ha definito “un vigliacco”. Nel suo libro ha scritto che negli occhi aveva il terrore e che questo le dava fastidio. Può spiegare perché?

«Tremava, aveva paura di morire, eppure ha fatto uccidere e ucciso centinaia di persone, mi è sembrato strano. I prigionieri si rispettano, ma è stata una sensazione sgradevole, diceva “chi siete, mi sento male…”. Non me l’aspettavo».

Perché il nome Ultimo e cosa significa per un servitore dello Stato?

«Perché sono cresciuto in un mondo di primi, dove si fa a gara ad emergere, ad essere più belli e più bravi, ad essere premiati e questo mi dava fastidio, specie quando questi comportamenti li ho notati nell’Arma dei carabinieri, un lavoro che bisogna fare per donarsi agli altri. Così quando ho scelto il nome di battaglia, secondo quello che era il volere del generale Dalla Chiesa, volevo far vedere che non competevo con gli altri per arrivare primo ma lavorare per il bene comune. Ridevano. Poi hanno capito che non è il nome che definisce una persona, se è buona o cattiva. Oggi non ridono più».

Ha mai avuto paura?

«Ho paura tutti i giorni, anche di fare questa intervista, di non essere all’altezza delle domande che vengono poste. Ma l’amore per gli umili, gli inermi e gli indifesi è più forte e la paura la prendo a schiaffi e la faccio correre lontano».

Cosa significa fare il proprio dovere per chi, come lei, come Falcone, con cui ha collaborato, come Gratteri oggi, rischia l’isolamento da parte di quello Stato che ha provato a difendere?

«Per quelli come me, come Gratteri o Woodcock, combattere per gli altri è un grande privilegio, è la cosa più bella che c’è combattere per lo Stato fatto dalle persone umili, semplici, abbandonate. L’isolamento c’è, è chiaro, c’era anche per il generale Dalla Chiesa oggi celebrato da chi lo ha abbandonato così come Falcone era celebrato da chi lo delegittimava. Questi funzionari sfruttatori e parassiti non sono lo Stato, perché si servono dello Stato per fini personali, vanno combattuti con l’esempio, facendo l’opposto di quello che fanno loro, donandosi, servendo il popolo e non servendosi del popolo».

Nel suo libro ha raccontato di avere detto a Riina, al momento dell’arresto, che era prigioniero dell’Arma e che non doveva parlare. Trent’anni dopo, col senno di poi, difenderebbe la scelta – peraltro finita al centro di una vicenda giudiziaria nella quale è stato scagionato – di non eseguire subito la perquisizione nel suo covo, che venne “ripulito” di ogni traccia, forse di documenti riservati, perché passarono 18 giorni?

«Non gli ho detto che non doveva parlare, ma che gli spettava una sigaretta e un bicchiere d’acqua perché prigioniero. Trent’anni dopo dico che non era nel mio potere e nella mia responsabilità fare o non fare la perquisizione ma esclusivamente della Procura di Palermo. Ho fatto una proposta, come linea strategica secondo me sarebbe stato meglio seguire i fratelli Sansone anziché fare la perquisizione, loro hanno accettato, poi ci hanno ripensato dieci giorni dopo e hanno impedito di seguire i fratelli Sansone e quindi di annientare l’intera Cosa nostra. Tanto è vero che nel 2013 il Capitano Ultimo insieme ad altri carabinieri indaga su altri mafiosi e scopre che il figlio di quel Sansone a cui era intestata la casa in cui si nascondeva Riina è fidanzato ufficialmente con una nipote di Matteo Messina Denaro. Era una scelta strategica, chi ci ha ripensato se ne deve assumere la responsabilità».

La sentenza dice altro, ma restano ombre sulla cattura che alcuni autorevoli osservatori definiscono misteriosa. Come giudica la tesi secondo cui Riina sarebbe stato venduto dai boss che volevano la fine della strategia stragista?

«Ho raccontato come sono andati i fatti, non mi frega di emergere o essere famoso o interessante, ci sono tanti pagliacci che dicono cose false. Ci sono dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, Salvatore Cancemi, ormai morto, ma confermate da altri pentiti, che diceva che quando Cosa nostra aveva bisogno di mettere le cose a posto con la Procura di Palermo si rivolgeva al dottor Di Miceli. Purtroppo ad oggi non abbiamo saputo chi sono questi funzionari o magistrati a cui si rivolgeva Di Miceli. Queste sono le cose gravi su cui bisogna dare risposte. Io ho detto come sono andati i fatti. Se ci fosse stato uno che aveva venduto Riina l’avremmo detto, io carabiniere ero e carabiniere rimanevo».

Ha sempre il viso coperto, per ovvi motivi. Non le sembra il simbolo di un Paese alla rovescia, perché a nascondersi dovrebbero essere i mafiosi e i corrotti?

«Dovremmo creare leggi per cui ai mafiosi è impedito di vivere nella società civile se non collaborano, e ai loro familiari è impedito l’accesso al mondo del lavoro se non si dissociano. Le telecamere dovremmo usarle non solo per fare le multe a chi supera i limiti di velocità ma piazzarle davanti alle case di tutti coloro che sono stati condannati per mafia. Potrebbe essere un tema da discutere, magari contestare, ma secondo me sarebbe centrale in una politica antimafia seria e non di salotto, fatta di insinuazioni di pagliacci».

Dopo aver affrontato Cosa Nostra, ha fatto l’assessore regionale in terra di ‘ndrangheta. Andando via dalla Calabria, ha detto che questa regione le è rimasta nel cuore. Che esperienza è stata in Calabria, quali sono le prospettive e i limiti di questa regione?

«È stata un’esperienza bellissima, entusiasmante, la porto nel cuore, porto nel cuore gli sguardi della gente della Sila, del Pollino e dell’Aspromonte, delle coste, ho ancora negli occhi la luce che avete, che hanno i ragazzi calabresi, gli studenti, ma ho ancora negli occhi anche il loro senso di abbandono per come la regione viene trattata a livello centrale, e mi ha fatto molto male. Ma ho visto grandi potenzialità, forse è la terra più bella che abbiamo, dobbiamo difenderla, proteggerla, e diventare fieri di dare la Calabria ai calabresi».

Come è cambiata la lotta alla criminalità organizzata negli ultimi trent’anni?

«Il gip del Tribunale di Palermo Claudia Rosini nel 2021 fa un’ordinanza di custodia cautelare per Giuseppe e Carlo Guttadauro, cognati di Messina Denaro, accusati di organizzare un traffico internazionale di stupefacenti con Antonino e Carlo Zacco, a Milano, con altri mafiosi in Brasile, Albania, Olanda. Ma Antonino Zacco era il mafioso che avevamo seguito a Milano nel 1987, da qui nacque l’indagine Duomo Connection. La mafia è sempre la stessa, la tecnica per vincerla è pedinare in maniera sistematica i mafiosi, se non lo si fa ci saranno delle belle operazioni di tanto in tanto, ma così non la si estirpa. Occorre una normativa più stringente e uno sforzo straordinario di uomini e risorse, perché dobbiamo spazzarli via i mafiosi, e sono certo che accadrà».

Trent’anni dopo, Cosa Nostra non è più potente come prima. La più potente delle organizzazioni criminali oggi è la ‘ndrangheta. Come valuta i metodi d’indagine del procuratore Gratteri?

«Gratteri deve essere aiutato, non valutato. Dev’essere sostenuto col cuore e con le risorse, è una persona che combatte, che dà la sua vita per gli altri e dobbiamo essergli riconoscenti. Dobbiamo chiedergli di cosa ha bisogno e dargli quello che gli serve per vincere, non dev’essere lasciato solo, la sua lotta dev’essere di tutti i magistrati e di tutte le forze dell’ordine, la lotta è del popolo».

Come giudica la mancata nomina di Gratteri a procuratore nazionale antimafia?

«Il popolo sa chi è che si dona senza volere nulla in cambio e chi sfrutta per avidità. Anche Falcone non venne nominato primo capo della Dna, non essere stato nominato fa onore a Gratteri».

L’erede di Riina, il nuovo capo dei capi, viene ritenuto Matteo Messina Denaro, latitante tra i più ricercati al mondo ma anche boss affarista e depositario dei segreti della mafia, forse anche di segreti di Stato. Che importanza rivestirebbe il suo arresto per lo Stato e per i territori in cui la mafia si è sostituito ad esso?

«Non credo che una persona sia tutto, dobbiamo disarticolare le organizzazioni. Così come sono state disarticolate le Brigate rosse bisogna fare con Cosa nostra e ‘ndrangheta: è facile, è stato dimostrato che è facile, facciamolo».

Messina Denaro non ha mai conosciuto il carcere e, a differenza di Riina, è un boss amante del lusso e della bella vita. Ritiene che, una volta sottoposto al 41 bis, vuoterebbe subito il sacco?

«Non so di che sacco vogliamo parlare. Ci sono centinaia di collaboratori di giustizia in Cosa nostra e tra questi i massimi vertici, da Brusca a Cancemi a Ganci. Non so cosa ancora dobbiamo sapere. Sappiamo chi sono, cosa fanno, l’organizzazione è stata svelata, Cosa nostra non è più segreta, e neanche la ‘ndrangheta. È il tempo di chiedere quanti pedinamenti al giorno vengono fatti sui mafiosi e i figli dei mafiosi. Per fare un pedinamento ci vogliono 20 carabinieri. Ma quanti carabinieri ci sono a Crotone, Cosenza o Catanzaro? Fatevi due conti e traiamo le conclusioni. La sicurezza è di tutti e tutti devono partecipare, ma spesso è polemica e propaganda».

L’archivio di Riina oggi è nelle mani del suo ex pupillo Messina Denaro?

«Forse poteva averlo Provenzano, ma sono stati arrestati quasi tutti, se lo giocano di notte l’archivio? Ne ho arrestati a centinaia e non ne ho mai trovati archivi, magari l’archivio c’è ma bisogna chiederlo a chi fa le indagini. Forse sono io troppo ingenuo, ma se uno ha un’arma la usa e fa un ricatto. Altrimenti sono stupidi tutti questi che sono morti in carcere».

Trent’anni fa l’arresto di Totò Riina. Ma la lotta alla mafia non è ancora finita. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 15 Gennaio 2023

Il 15 gennaio del 1993 veniva catturato il boss di Corleone, e nulla è stato più come prima. Le cosche mafiose reagirono con ferocia. Lo Stato si impose senza però riuscire a chiudere la partita

Di quel giorno ricordo i carabinieri che erano accanto a me, i loro sguardi, la loro umiltà, il loro coraggio, la loro semplicità. Ricordo il tempo, che aveva una dimensione fisica, l’attesa. E poi lo sguardo di Riina impaurito, come uno che tremava, uno sconfitto. Infine il vuoto, quando abbiamo iniziato a pensare alle altre battaglie. Cos’era quello, in fondo, se non l’inizio di una lunga battaglia?“. A parlare è Sergio De Caprio, il “capitano Ultimo” a capo dell’unità Crimor dei Ros dei Carabinieri, che il 15 gennaio 1993, arrestò il boss Totò Riina, e che ora è andato in quiescenza.

L’ho steso a terra per un attimo, per vedere se aveva armi, è stata un’azione rapidissima, non aveva niente, aveva una gran paura e questo mi dava fastidio, perchè un capo non deve avere mai paura, e allora in macchina gli ho spiegato che era prigioniero dell’Arma, gli ho detto che non doveva parlare.Siamo arrivati in caserma, abbiamo attraversato il cortile tranquillamente, Vichingo ci controllava, siamo saliti per le scale, siamo andati in ufficio. C’era Oscar che aspettava con il passamontagna. Abbiamo messo Riina sotto la foto del Generale Dalla Chiesa con la faccia al muro in attesa che venissero i superiori e i magistrati” racconta Ultimo .

Sono passati trent’anni da quel giorno ma De Caprio racconta di avere vissuto le emozioni più grandi dopo, cioè “quando mi sono letto le sentenze in cui Calogero, Stefano, Domenico e Raffaele Ganci e Francesco Paolo Anselmo seguivano giorno e notte Falcone, Dalla Chiesa, Borsellino e le loro scorte. Vedere i nostri carabinieri che hanno pedinato giorno e notte questi criminali, i loro figli e le loro mogli mi ha dato soddisfazione e orgoglio per aver combattuto bene, con la tecnica del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che si onora e si fa vivere con le nostre azioni”

Per il capitano Ultimo, che serrò le manette ai polsi del boss più sanguinario di Cosa Nostra, a distanza di trent’anni “la mafia è la stessa di sempre. Basta leggere l’ordinanza di custodia cautelare del gip Claudia Rosini del 2021 contro Giuseppe e Carlo Guttadauro: la mafia è esattamente la stessa – dice – ed evolve per linee di sangue. Occorre, quindi, una normativa diversa da tutte le altre strutture e una lotta diversa“. Incredibilmente Sergio De Caprio, venne messo in discussione, perseguitato dalla giustizia e assolto, sottolinea all’Adnkronos come la storia del frullatore mediatico nel quale finì dopo l’arresto di Totò Riina sia di insegnamento che “da una parte ci sono quelli che si donano e servono lo Stato, dall’altra una marea di pagliacci che si servono dello Stato per fini propri e praticano il dominio“.

Ultimo riferendosi in particolare alle dichiarazioni agli atti di Salvatore Cangemi, di Anselmo e Calogero Gangi precisa che “queste menti raffinatissime hanno avuto buon gioco ad avere utili idioti che hanno indirizzato l’attenzione mediatica su semplici carabinieri, distogliendo invece quelli che hanno abbandonato e ostacolato Falcone dall’interno. Fa sempre audience parlare male dei Carabinieri, e poi chi li difende? ” ed aggiunge «Pure i professionisti dell’antimafia sono in declino avevano il giochino della trattativa che gli si è sgretolato tra le mani, sono riusciti a delegittimare le istituzioni e a minimizzare il ruolo di Cosa Nostra nelle stragi e forse se ne stanno rendendo conto. Alla fine sono rimasti nel nulla che sono, quello da cui venivano“. Incredibilmente, dopodomani ancora una volta un TAR dovrà esprimersi sulla opportunità di lasciare la scorta a Di Caprio o toglierla come qualche squallido burocrate del Ministero dell’ Interno vorrebbe fare. Quasi che la mafia e la sua sete di vendetta sia scomparsa. E’ questo il riconoscimento, il premio dello Stato che non difende coloro che hanno dato la vita per la giustizia e la sicurezza ? Ma quante scorte inutili vediamo al seguito dei politicanti di turno ?

La conferma che alla lotta alla mafia non è finita arriva anche da un altro protagonista, il magistrato Giancarlo Caselli arrivato a Palermo per insediarsi in Procura lo stesso giorno, 15 gennaio 1993. “Mi accoglie e deflagra come un fulmine la notizia della cattura di Riina. Il capo della “cupola”, latitante da più di vent’anni, si poteva finalmente guardare in faccia mentre stava nella “gabbia” degli imputati detenuti. Mi dico che Falcone e Borsellino hanno avuto ragione: la mafia si può abbattere; purché lo si voglia davvero.” racconta Caselli questa mattina sul quotidiano LA STAMPA.

L’importanza storica della cattura di Riina sta anche nel fatto che innesca una efficace reazione dello Stato. La procura di Palermo mise a punto, in continuità con l’opera avviata ed istruita da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, una strategia giudiziaria fondata, non sul “semplice” contenimento dell’emergenza, ma su una visione complessiva della mafia e del suo sistema di relazioni con l’economia e la politica. Le indagini grazie al lavoro della polizia giudiziaria in tutte le sue articolazioni e al forte sostegno della Palermo delle “lenzuola bianche” portarono a successi di rilievo. Dopo Riina vennero assicurati alla giustizia e processati – con condanne per ben 650 ergastoli oltre ad un’infinità di anni di reclusione – capi, gregari e killer di Cosa Nostra, tra cui pericolosissimi latitanti del calibro di Raffaele Ganci, Giuseppe e Filippo Graviano, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Pietro Aglieri, Gaspare Spatuzza e decine di altri.

La conseguenza, dirompente, è un sensibile disorientamento” scrive e racconta Giancarlo Caselli – sia nel popolo mafioso, che viene decimato con centinaia di arresti; sia sulle relazioni esterne, che registrano una presa di distanza dei settori della società e delle istituzioni in passato disponibili a fornire appoggi e coperture. Sembra che Cosa Nostra sia finalmente alle corde. Lo stato di grave difficoltà in cui versa è evidenziato dalla slavina di uomini d’onore arrestati che decidono in tempi brevissimi di collaborare con la magistratura”.

Ma vi è un copione che si ripete: la risposta dello Stato alla mafia è altalenante, ondivaga. Da sempre un’antimafia dello “stop and go”. Sulla scia di delitti clamorosi, un’ondata di indignazione nell’opinione pubblica determina una forte reazione dello Stato. Ma non appena rischiano di venire alla luce gli scheletri nell’armadio di chi faceva e continua a fare affari con i mafiosi, cala il silenzio e la mafia non è più un’emergenza da contrastare. Al contrasto si preferiscono rapporti di sostanziale convivenza con la mafia, i cui “servizi” fanno comodo a tanti. È accaduto anche per la stagione apertasi con la cattura di Riina. “Ma questa è un’altra storia: quella di una ciclica “marcia del gambero” che arriva fino ai giorni nostri” conclude Caselli.

Redazione CdG 1947

Totò Riina, 30 anni dalla cattura. Il covo mai perquisito: «Era tutto pronto, mi adeguai». Storia di Giovanni Bianconi Garofano su Il Corriere della Sera il 14 gennaio 2023.

Il più giovane dei cinque magistrati al cospetto del boss appena catturato, in caserma e sotto una foto del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, era il trentaduenne Luigi Patronaggio, sostituto procuratore di turno a Palermo da meno di un anno. Aveva fatto in tempo a lavorare qualche mese con Paolo Borsellino, prima che la bomba di via D’Amelio lo uccidesse dopo Giovanni Falcone a Capaci. «Ricordo la rabbia e la voglia di fare di Borsellino in quei 57 giorni tra le due stragi — racconta —, l’agitazione e la determinazione ad approfondire spunti importanti, tra cui il famoso rapporto su mafia e appalti».

Poi il 15 gennaio 1993, eccolo davanti a Totò Riina, il corleonese regista degli eccidi e degli omicidi eccellenti che da oltre un decennio aveva preso il comando di Cosa Nostra portandola alla guerra contro lo Stato, arrestato poche ore prima dai carabinieri guidati dal capitano Ultimo che fermarono in strada, a bordo di una Citroën.

Il silenzio del boss

«L’ho identificato ufficialmente e gli ho notificato i nove ordini di cattura a suo carico», ricorda Patronaggio. Erano nove, uno per una condanna definitiva all’ergastolo. « Gian Carlo Caselli, che aveva preso servizio a Palermo proprio quella mattina, si presentò: “Buongiorno, io sono il procuratore della Repubblica e rappresento lo Stato, se ha qualcosa da dire questo è il momento”. Ma Riina preferì rimanere in silenzio».

Trent’anni dopo, dei magistrati radunati intorno al « capo dei capi» della mafia, Patronaggio è l’unico ancora in attività. Dopo una carriera trascorsa in Sicilia — è stato lui, da procuratore di Agrigento, a ordinare lo sbarco dei migranti dalla Open Arms nell’estate 2019, avviando il processo a carico di Matteo Salvini — oggi è procuratore generale di Cagliari. E definisce il 15 gennaio 1993 «una grande giornata per la giustizia e per i siciliani, rovinata purtroppo dalle successive polemiche».

Operazione sospesa

Il riferimento è alla mancata perquisizione del covo di Riina, e ai conseguenti dubbi e veleni che hanno inquinato quello storico successo. «Era tutto predisposto — prosegue Patronaggio — con i carabinieri del comando provinciale schierati, le macchine pronte e pure gli elicotteri. Ma all’improvviso si decise di sospendere l’operazione, adottando la strategia dell’attesa e del controllo della base, già sperimentata dai carabinieri di dalla Chiesa nelle indagini sui terroristi. Tutti concordarono e io, che ero di turno e avrei dovuto occuparmi della perquisizione, mi adeguai a una scelta che poteva avere un senso, se fosse stata perseguita fino in fondo».

La fine è nota. La sorveglianza del covo fu smantellata poche ore dopo l’arresto del boss, nessuno vide la famiglia Riina uscirne per rientrare a Corleone e nessuno si accorse dei mafiosi che, secondo il racconto dei pentiti, tornarono per portare via tutto. A cominciare dall’archivio di Riina, che chissà se esisteva e se davvero è l’arma di ricatto che — sostiene qualcuno — protegge ancora la latitanza di Matteo Messina Denaro. Ma proprio la perquisizione rinviata e mai eseguita alimenta i sospetti, veri o falsi che siano.

Processi e sentenze

L’idea, ha spiegato l’allora vicecomandante del Ros dei carabinieri Mario Mori, fu del capitano Ultimo, al secolo Sergio De Caprio, e il mancato controllo solo il frutto di malintesi e convinzioni che nella casa dove viveva con moglie e figli il boss non avrebbe mai conservato nulla di importante. Tesi fragile, contestabile e contestata, ma tant’è. Mori e Ultimo sono stati processati e assolti per l'ipotetico favoreggiamento a Riina e Cosa Nostra; tuttavia le sentenze che li hanno dichiarati innocenti e altre che si sono occupate della vicenda (compresa l’ultima sulla trattativa Stato-mafia) hanno sempre definito la loro scelta inspiegabile e fonte di «profonde perplessità mai chiarite».

L’ex magistrato Giuseppe Pignatone (un altro dei cinque pm che videro subito Riina, oggi presidente del tribunale vaticano dopo essere stato procuratore a Reggio Calabria e Roma) l’ha chiamata «una ferita rimasta aperta per la Procura di Palermo, a volte sanguinante, a volte meno». E Caselli, anche lui in pensione, ricorda: «Fu una mazzata che però rafforzò la coesione all’interno dell’ufficio e ci aiutò a superare i veleni».

Il pentito Di Maggio

Una vittoria contaminata, insomma. Ma l’ormai ex capitano Ultimo — in pensione da due anni dopo una «militanza» non semplice nell’Arma e una breve esperienza da assessore in Calabria — continua a rivendicare con orgoglio, in un’intervista a volto coperto sul suo canale web-tv: «Ho provato quello che si prova nella battaglia, la voglia di vincere, di trovare un nemico invisibile e quindi diventare invisibile, riuscire a prenderlo. E lo abbiamo fatto con forza».

Da trent’anni Ultimo rigetta sdegnato ogni sospetto, rovesciandoli contro chiunque osi avanzare riserve su «un’indagine condotta con il metodo del generale dalla Chiesa, clandestinità e compartimentazione, i pedinamenti in strada abbinati al contributo informativo del collaboratore Balduccio Di Maggio».

Era stato l’autista di Riina, preso in Piemonte un mese prima e subito pentitosi con quel biglietto da visita. Fu lui a riconoscere il latitante facendo scattare il blitz. Poi raccontò il famoso «bacio» di Riina ad Andreotti, uscì dal programma di protezione e fu riarrestato in Sicilia con l’accusa di omicidio. Alimentando vecchi e nuovi misteri che seguitano a intossicare la storia della mafia e dell’antimafia.

Trent’anni fa l’arresto di Totò Riina. La scia di misteri sulla fine del boss. Enrico Bellavia su L’Espresso il 13 gennaio 2023.

La soffiata decisiva arrivata dal Piemonte dove abitavano Balduccio Di Maggio e i fratelli Graviano, la riunione della Cupola dove era atteso il boss, la mancata perquisizione dell’ultima residenza e gli obliqui messaggi dalla cella e in aula

Nel pantheon del crimine, dove l’ignominia abita la leggenda, era entrato in bianco e nero. Una segnaletica ingiallita, l’istantanea cartolina da piazza San Marco in mezzo ai piccioni. Baldanzoso, in maglia chiara, a sorridere alla compagna di vita e di una fuga agiata durata 23 anni.

La mattina di quel venerdì 15 gennaio del 1993 gli tolse la libertà ma non il ghigno sardonico. Lo ricacciò presto nelle nebbie che avvolgevano l’opaca cattura, viziata dal sospetto di indicibili compromessi. Ne alimentò la tetra fama, pur nell’angolo di una cella al 41 bis, rischiarata notte e giorno dai neon, fino alla fine, nel 2017.

Quella mattina di trent’anni fa, però, Salvatore, Totò, Riina, ebbe il colore. Non lo spessore, non la luce, ma il colore. La giacca a quadri su fondo marrone sopra una polo verde, la sciarpa ton sur ton, i pantaloni scuri e l’immancabile borsello, rivelarono il contegno artefatto di un borghese che si spacciava per contabile, alle prese con i riti e le miserie del vivere cittadino. Le guance rosee, più paffute che cadenti, i capelli ingrigiti sulla fronte aggrottata, il corpo appesantito ma non troppo, erano lo scotto pagato al giro di boa dei 62 anni trascorsi nel benessere conquistato nell’agio dell’ozio. Gli occhi, che dissero di ghiaccio, dardeggiavano l’odio sprezzante che hanno i despoti al tramonto.

Incappò, dissero, nel traffico che di tutte le iatture metropolitane è stato sempre interclassista. Nessuno, a trent’anni di distanza da allora, si è mai fatto avanti per dire che sì era andata proprio come l’avevano raccontata. L’azione, riferirono, era stata fulminea. Consegnò il suo cacciatore, l’allora capitano Ultimo a una mitologia da fiction e a una taglia sulla testa. Erano le otto di una mattina. Le strade sbavavano ancora dell’umidità notturna. Allora, come ora, sarebbe stato un gennaio per nulla rigido. La temperatura sfiorava già i dieci gradi e con il sole alto sarebbe arrivata ai 16. Nessuna minaccia di pioggia, nonostante qualche nuvola.

Lungo la circonvallazione, al centro della rotonda di quello che era ancora uno degli imbuti viari più inconcludenti della sconclusionata urbanistica palermitana, di fronte a quello che per generazioni, nonostante i ripetuti cambi di insegna, era e sarà, fino a esaurimento di memoria, il Motel Agip, la Citroen guidata da Salvatore Biondino, con accanto il dittatore che aveva espugnato Cosa nostra per distruggerla nei suoi deliri da stratega truculento, si ritrovò bloccata. La squadra di ombre installatasi in Sicilia per scovare l’imprendibile che era dappertutto e in nessun luogo, quasi lo trascinò a forza fuori dall’abitacolo, gli scaraventò addosso una coperta per spingerlo sul sedile posteriore di una vettura senza insegne e sgommare via. In pratica una scena da film. Senza spettatori.

Gli avessero lasciato proseguire il tragitto, lo avessero seguito per altri tre chilometri. Gli fossero stati alle costole per altri quindici minuti si sarebbero trovati a una riunione della Cupola. Perché era lì, nella villa di Salvatore Biondino, tra la linea ferrata della stazione di San Lorenzo e l’ultimo tratto della circonvallazione, prima della bretella che porta all’autostrada per Trapani che erano diretti quei due e dove i compari erano già in attesa.

Ma di Biondino i cacciatori non sapevano nulla. Balduccio Di Maggio, l’ambiguo collaboratore di giustizia che da Borgomanero, in Piemonte - a due passi da Omegna, rifugio, guarda un po’ le coincidenze, dei terribili fratelli Graviano - li aveva condotti per mano fin lì, lo conosceva appena. Comunque quel tanto che bastava ad assicurare che dove c’era lui quasi sempre spuntava Riina. E lo chiamava “Biondolillo”. Eppure, era tutto tranne che un autista.

Governava da un pezzo il Nord della città, aveva una rete di informatori anche tra le forze dell’ordine, un controspionaggio che funzionava quasi alla perfezione e gli aveva permesso di stanare talpe e infiltrati. E, certo, per rango, prestigio e affidabilità, gli era concesso di custodire la latitanza del “corto”, come i suoi chiamavano il capo. Ma alle spalle. Al suo cospetto pochi potevano permettersi un confidenziale “Totuccio”. Ai più era permesso al massimo un riverente “zu’ Totò”, zio Totò. Avessero aspettato, avrebbero, per dirne una, visto con i loro occhi, il baffone che camuffava l’aspetto di Leoluca Bagarella, Luchino, il cognato di Totò, il fratello lesto di grilletto della maestrina Ninetta. Invece ci sarebbero voluti altri due anni, le stragi a Milano, Roma e Firenze, decine di delitti, e una manciata di nuovi pentiti per decretare la fine della dittatura corleonese su Cosa nostra.

Quel venerdì 15 dicembre 1993, invece, con i carabinieri inorgogliti da una preda esibita al prezzo di mille omissioni, Riina e Biondino furono il solo bottino.

Del superboss circolò quasi subito la foto scattatagli in caserma sotto al ritratto del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che i suoi avevano voluto morto 11 anni prima. Poi un filmato che lo ritraeva, con le mani annodate in avanti dalle manette, correre a passetti veloci incontro all’elicottero che lo avrebbe condotto al rigore del carcere duro dal quale non sarebbe più uscito.

Qualche tempo dopo, alla prima apparizione nell’aula di una giustizia che non era più quella con la quale gli era riuscito di vincere ai tempi delle assoluzioni di massa di Bari e Catanzaro, divenne anche un suono dentro gli stessi abiti del giorno dell’arresto. La voce stridula consegnò alle piste di registrazione le oblique correzioni alla sua biografia ufficiale. Se gli chiedevano di Cosa nostra, ovviamente diceva di non saperne nulla. Se gli davano del latitante, ribatteva, non senza fondamento, che nessuno lo aveva mai cercato. Se provavano a chiedergli come avesse cresciuto i figli in latitanza, lasciava che fossero loro a spiegare la loro surreale esistenza in anonimato divisi tra un padre amorevole e il sanguinario mostrato in tv. Più avanti, a un detenuto provocatore, avrebbe consegnato troppe verità sul suo ruolo nelle stragi Falcone e Borsellino, troppo limpide per non sembrare sospette, e sui suoi propositi di vendetta.

Il giorno del successo dello Stato che mostrava di saper rialzare la testa a sei mesi dagli eccidi dell’estate del 1992, Ninetta Bagarella, con i figli Giovanni, Maria Concetta, Lucia e Giuseppe Salvatore, tornarono a Corleone. Dove tutto era cominciato. I ragazzi presero a girare per la cittadina riappropriandosi di un passato che non doveva essergli ignoto. Giovanni si immedesimò nel contesto fino a farsi trascinare all’ergastolo dallo zio Luchino che se lo portò appresso per un omicidio a tre isolati da casa.

Dopo il 15 gennaio del 1993, la villa di via Bernini che la famiglia aveva abitato nel complesso di un piccolo parco discreto e riservato, a monte della circonvallazione, fu svuotata con calma. Restarono dietro la porta un santino della Madonna di Tagliavia, eremo per i devoti del Corleonese, qualche indumento e le istruzioni della pista elettrica per far giocare i bambini. Un’incomprensione, spiegarono, aveva indotto i magistrati a credere sorvegliata la residenza del padrino e i carabinieri, invece, a sospendere il controllo. Il buco nella vigilanza inghiottì molto del tantissimo che ancora non sappiamo su come andarono veramente le cose. La procura di Palermo che si era vista recapitare come un pacco dono nel giorno dell’insediamento di Gian Carlo Caselli la preda più ambita dell’elenco dei superlatitanti, provò anche a indagare sulla mancata perquisizione ma non ne cavò molto. Se non, appunto, che di equivoco si era trattato.

Nelle ore febbrili successive alla notizia della cattura di Riina, i cronisti avevano battuto palmo a palmo la zona intorno a via Bernini provando a trovare da soli quale fosse l’ultima abitazione del boss. E si erano pericolosamente avvicinati al vero rifugio quando i carabinieri si inventarono una grottesca messinscena con tanto di irruzione nel giardino di un fondo agricolo coltivato da fittavoli inadempienti della distratta Regione.

L’irruzione con la ruspa, rovesciando tra le lattughe quel che restava di un muro, senza passare per il cancello difeso da un timido lucchetto, fu un’altra scena da film ma questa volta a favore di telecamere. Ovviamente Riina non aveva mai messo piede nella catapecchia che indicarono come l’ultima sua dimora. E la Regione, travolta dallo sdegno, dovette correre a far di conto per presentare una cifra stellare di canoni rivalutati agli affittuari di cui si era dimenticata. In fondo, la più trascurabile delle distrazioni in mezzo a tante sviste.

Estratto da quotidiano.net mercoledì 20 settembre 2023.

"Adesso attacco e comincio a divertirmi io. Mi sto curando, faccio ogni giorno 4-5 chilometri a piedi, cerco di non ingrassare perché li devo veder morire tutti. Lo dico con trasporto, con odio. Vuole i nomi?". Li vorrebbe fare? "No". Ma il riferimento è a quanti l’hanno voluto alla sbarra per 17 anni. 

"Io ero il nemico necessario a questo circo mediatico giudiziario e politico", aggiunge con l’amarezza che diventa rabbia. “Non sono stato un imputato normale, conoscevo le carte quanto, se non più, dei miei accusatori, conoscevo quell’ambiente e mi ci sapevo muovere. Avevo il sostegno dei miei uomini, avevo i soldi per andare a Palermo a difendermi. Un altro al posto mio si sarebbe dovuto affidare alla clemenza della Corte, altrimenti sarebbe stato fottuto”. 

Il generale Mario Mori, già comandante del Ros e direttore di Servizi segreti civili (Sisde) è a Isola del Libro al Trasimeno, in Umbria, insieme al già procuratore generale Fausto Cardella (il magistrato che indagò sulle stragi insieme a Ilda Bocassini), alla sua prima uscita pubblica dopo l’assoluzione in Cassazione il 23 aprile scorso nel processo ’Trattativa’, ovvero l’accusa mossa ai carabinieri di aver tramato con cosa nostra nel 1992-1994 per minacciare lo Stato e ottenere benefici per i mafiosi. 

Per minaccia a corpo dello stato Mori, l’ex comandante Antonio Subranni e il colonnello Giuseppe De Donno furono prima condannati, poi assolti in appello perché ’il fatto non costituisce reato’. Un verdetto che pur riconoscendo ai carabinieri di aver agito per disinnescare le stragi bacchettò come "improvvida" l’iniziativa dei Ros di cercare un canale di comunicazione attraverso Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo, con i vertici mafiosi. 

La Cassazione l’ha assolta perché il fatto non sussiste ma le motivazioni non sono ancora state depositate, si aspetta una riabilitazione completa?

Mi aspetto ragionevolmente che la sentenza metta in risalto cosa ho fatto. Sì, di essere riabilitato mentre non mi aspetto nulla dalle persone che mi hanno attaccato perché è povera gente. 

Passo indietro. Come andò la Trattativa. Ne parlò lei stesso alla Corte d’assise di Firenze che indagava sulle bombe nel continente nel ’98.

Sì, usai io quella parola, avrei potuto dire relazione ma quando parlai con Ciancimino sapevamo entrambi che io chiedevo qualcosa a lui e lui voleva qualcosa in cambio: era una trattativa. 

Che successe?

Dovevamo trovare chi era già nel sistema degli appalti e quell’uomo era Vito Calogero Ciancimino. Subito dopo la morte di Falcone e prima dell’omicidio di Borsellino lo incontrammo con De Donno che lo aveva già arrestato per gli appalti. Lo feci senza avvertire i miei superiori perché mi avrebbero bloccato… io nelle indagini ho bisogno di lavorare per conto mio. 

Nemmeno al suo superiore, il generale Subranni?

Sì, ma dopo il secondo incontro. 

E ai magistrati?

No, perchè nel frattempo ero in rottura con la procura di Palermo rappresentata dal procuratore Pietro Giammanco. 

Chi era Ciancimino?

Si considerava un’autorità, era stato sindaco di Palermo, diceva di non essere mafioso e forse non era formalmente affiliato. Non gli bastava De Donno ma aveva bisogno di un ’parigrado’, la prima discussione fu strana. Parlammo di tutt’altro, cose che non c’entravano niente. Al secondo mi disse ’che volete da me’? E io usai il termine ’Trattativa’. 

‘Signor Ciancimino così è un muro contro muro’. Non potevamo permetterci di fare gli sbruffoni perchè a quel tempo avevano vinto loro: era morto Falcone, era morto Borsellino, erano morti i migliori di noi. Stavamo sotto. Non ho avuto un’indicazione da nessuno dei miei superiori, dai ministri. Inutile negarlo: eravamo in difficoltà. Comandavo il reparto operativo più importante di Italia ma nessuno che mi abbia detto ‘facciamo qualcosa’. Erano tutti terrorizzati, nascosti sotto le scrivanie aspettando che passasse la piena. 

Come andò?

Ero un professionista, sapevo quali erano i miei limiti in quel momento, l’ho trattato da pari. Ai primi di ottobre mi sorprende. Io da Ciancimino speravo qualche informazione per arricchire la mia capacità informativa e svilupparla. E invece mi disse ‘Ho parlato con chi di dovere’ e mi chiese cosa offrivamo in cambio. La mia risposta era molto facile. ‘Se loro si consegnano trattiamo bene loro e le loro famiglie. Ciancimino era sulla poltrona, sbattè le mani sulle ginocchia, si alzò. ‘Voi mi volete morto, anzi volete morire anche voi’. Ci cacciò di casa. Per De Donno avevamo fatto un buco nell’acqua, io no, mi resi conto che era terrorizzato e aveva realmente preso contatti. Sarebbe tornato”. 

L’ultimo incontro il 18 dicembre…

“Andò solo De Donno perché io lo avevo trattato male ma intorno c’era odore di sbirri, il giorno dopo Ciancimino fu arrestato per pericolo di fuga. Ma si figuri, dove andava con quella faccia, anche al Polo nord lo avrebbero riconosciuto. Se fosse rimasto libero ce lo avrebbe fatto prendere Riina, perché sapeva che attraverso quell’informazione avrebbe potuto mercanteggiare”. 

Lo avete preso lo stesso

Sì, ma per altra via. 

Trent’anni dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro da parte del Ros. Le perquisizioni dei covi quasi in diretta. Ci ha letto una riabilitazione rispetto alla polemica mai chiarita sulla mancata perquisizione di casa Riina?

L’ho pensato anche io. Le circostanze che hanno preceduto l’arresto di Messina Denaro l’hanno quasi imposto ma dal punto di vista tecnico-professionale quello di esibire queste perquisizioni è una sciocchezza. Le rendo pubbliche quando le avrei potute gestire diversamente. 

Ma voi non perquisiste, eppure Riina fu trovato con i pizzino in tasca…

Non era il covo ma l’abitazione dove viveva la moglie. La decisione è stata presa dai magistrati con la polizia giudiziaria accettando il rischio che andavano perse alcune informazioni.

(...)

C’è un successore di Messina Denaro?

La mafia è morta. 

(...)

 Lei ha scritto un libro: Mafia e appalti: la storia di un’informativa che sarà presto in libreria…

Sì, l’informativa… Almeno consegnatela a me, mi disse Falcone, che così avallo con la mia firma. Cos’era quel rapporto? La mafia degli affari. Falcone disse durante un convegno: ’La mafia è entrata in borsa’ e intendeva proprio quello. Cioè era passata dal pizzo ai livelli superiori. La morte di Borsellino però accelerata anche per questo motivo. Mafia e appalti è la storia del mio percorso professionale. Finché avrò un giorno di vita, lo presenterò in tutta Italia, mi toglierò tanti sassolini dalle scarpe e chiederò conto di tutti gli atti avvenuti tra la morte di Falcone e Borsellino. Sono agghiaccianti. 

L’ARRESTO DEL CAPO DEI CAPI. La cattura di Totò Riina, un mistero lungo trent’anni. ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA su Il Domani il 14 gennaio 2023.

Dopo trent'anni sappiamo ancora molto poco. Ci sono state indagini, ci sono stati processi, sentenze di assoluzione ma nessuno ha ancora capito esattamente cosa è avvenuto a Palermo la mattina del 15 gennaio 1993, il giorno della cattura di Totò Riina...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini.

Dopo trent'anni sappiamo ancora molto poco. Ci sono state indagini, ci sono stati processi, sentenze di assoluzione ma nessuno ha ancora capito esattamente cosa è avvenuto a Palermo la mattina del 15 gennaio 1993, il giorno della cattura di Totò Riina.

La storia, per come ce l'hanno raccontata, è nota. Il capitano “Ultimo”, al secolo Sergio De Caprio, con la sua squadra arresta in mezzo al traffico di Palermo, alla rotonda di Viale Lazio, il latitante più ricercato d’Italia, scomparso nel nulla per ventiquattro anni e sette mesi.

Totò Riina si era dato alla macchia nel giugno del 1969, un quarto di secolo e più di mille morti ammazzati dopo, il capo dei capi di Cosa nostra è scivolato in trappola.

Come sono arrivati a lui? Quali le tracce seguite? Qualcuno l'ha tradito?

La versione ufficiale presenta fin da subito lati oscuri. A cominciare dalle soffiate di Balduccio Di Maggio, un boss che era stato autista di Riina e che viene arrestato pochi giorni prima di quel 15 gennaio in Piemonte.

Il caso però si tinge di altro mistero quando si scopre che i carabinieri del Ros, i reparti speciali dell'Arma, abbandonano - appena cinque ore dopo l'arresto del capo dei capi - la sorveglianza del covo dove lui abitava con la moglie Ninetta Bagarella e i loro quattro figli.

Nessuno perquisirà quel rifugio per diciannove giorni. E quando il nuovo procuratore capo della repubblica di Palermo Gian Carlo Caselli entrerà lì dentro, il 2 febbraio, troverà un covo vuoto. Era stato ripulito.

Il colonnello Mario Mori e Sergio De Caprio finiranno sotto processo e saranno assolti fino in Cassazione «perché il fatto non costituisce reato». Molti dubbi su ciò che è accaduto però restano. Oggi abbiamo un resoconto più accettabile sulla vicenda ma, certamente, ancora incompleto.

Intanto continuano a circolare bufale e ricostruzioni fantasiose, si ripropongono cronache approssimative e perfino libri che sembrano sceneggiature di fiction nonostante i fatti abbiano sufficientemente dimostrato il contrario

Per i prossimi trenta giorni pubblicheremo sul Blog Mafie ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini.

ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA. Attilio Bolzoni è un giornalista che, da quarant'anni, racconta storie in fondo all'Italia. Francesco Trotta è un blogger e direttore dell'associazione Cosa Vostra.

I carabinieri “in campo” dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE DI PALERMO su Il Domani il 14 gennaio 2023.

Nell’anno 1992, dopo le note stragi di via Capaci e di via D’Amelio, si ritrovarono impegnati sul territorio siciliano, nel comune intento di portare avanti azioni investigative di contrasto alla mafia, da una parte, il Nucleo Operativo del reparto territoriale dell’Arma dei Carabinieri, dall’altra la prima delle quattro sezioni in cui era suddiviso il reparto criminalità organizzata del Raggruppamento operativo speciale...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini.

Nell’anno 1992, dopo le note stragi di via Capaci e di via D’Amelio, si ritrovarono impegnati sul territorio siciliano, nel comune intento di portare avanti azioni investigative di contrasto alla mafia, da una parte, il nucleo operativo del reparto territoriale dell’arma dei carabinieri, articolato nei gruppi 1 e 2, rispettivamente comandati dal capitano Marco Minicucci e dal maggiore Domenico Balsamo, dall’altra la prima delle quattro sezioni in cui era suddiviso il reparto criminalità organizzata del Raggruppamento Operativo Speciale (d’ora in poi denominato Ros), con a capo l’allora cap. Sergio De Caprio.

I compiti tra i due gruppi del nucleo operativo erano ripartiti in base ad un criterio di competenza territoriale: al primo spettavano le investigazioni da svolgere nell’ambito territoriale della città di Palermo, nonché dei centri urbani di Misilmeri e Bagheria; il secondo, avente sede a Monreale, era invece titolare delle indagini ricadenti nell’ambito del territorio della Provincia di Palermo.

Il Ros era articolato, per un verso, in un reparto criminalità organizzata, avente sede a Roma, a sua volta suddiviso in quattro sezioni e, per altro verso, nella sezione anticrimine locale, con sede a Palermo, comandata, all’epoca dei fatti, dal cap. Giovanni Adinolfi.

Il reparto criminalità organizzata era strutturato, al suo interno, in base ad un criterio che individuava la competenza di ciascuna sezione con riferimento alla natura del fenomeno criminale oggetto delle investigazioni: alla prima sezione, diretta dal cap. De Caprio, erano demandate le indagini sull’organizzazione mafiosa denominata “cosa nostra”; alla seconda sezione, comandata dall’allora cap. Giuseppe De Donno, spettavano quelle sui circuiti imprenditoriali collegati ad organizzazioni di tipo “mafioso”; la terza e la quarta dovevano, invece, occuparsi, rispettivamente, di organizzazioni criminali di matrice non italiana e del traffico di stupefacenti.

SUBRANNI E MORI AL COMANDO DEL ROS

Il comando del Ros fu assunto, negli anni 1990-1993, dal gen. Antonio Subranni; il vice comandante operativo era il col. Mori, mentre il magg.Mauro Obinu, a far data dal 1 settembre 1992, assunse la carica di comandante del reparto criminalità organizzata.

A luglio 1992, l’allora col. Sergio Cagnazzo (cfr. deposizione resa all’ud. 1.6.05), all’epoca vicecomandante operativo della Regione Sicilia, prese parte ad una riunione che si tenne presso la stazione dei carabinieri di Terrasini, cui parteciparono il comandante di quella stazione mar.llo Dino Lombardo, il superiore gerarchico di quest’ultimo, cap. Baudo, all’epoca comandante della stazione di Carini, il magg. Mauro Obinu (sentito all’ud. 29.6.05), in servizio al Ros, i capitani Sergio De Caprio e Giovanni Adinolfi. Lo scopo era quello di costituire una squadra, composta sia da elementi del Ros che della territoriale, che avrebbe dovuto occuparsi in via esclusiva delle indagini finalizzate alla cattura di Salvatore Riina.

Al mar.llo Lombardo, soggetto ben inserito nel territorio e profondo conoscitore della realtà mafiosa, in grado di disporre di utili canali confidenziali (tra questi, quel Salvatore Brugnano che, successivamente all’arresto del Riina, sarà sospettato dal gotha mafioso – come ha riferito in dibattimento il collaboratore Brusca – di aver contribuito alla cattura del latitante), venne affidato l’incarico di attivare le sue fonti al fine di reperire notizie che potessero essere sviluppate dal Ros, con l’effettuazione delle necessarie e conseguenziali attività di indagine, in direzione della ricerca del boss corleonese.

A quella riunione ne fece seguito una seconda, in settembre, cui parteciparono i medesimi col. Cagnazzo, mar.llo Lombardo, magg. Obinu, cap. De Caprio ed il mar.llo Pinuccio Calvi, in servizio presso la prima sezione del Ros, nella quale il Lombardo indicò in Raffaele Ganci, a capo della famiglia mafiosa del quartiere denominato “Noce” di Palermo, e nei suoi figli le persone più vicine al Riina in quel momento, in quanto incaricate di proteggerne la latitanza.

Sulla scorta di queste informazioni, tra l’altro coincidenti con quelle già in possesso del cap. De Caprio circa il particolare legame che univa i Ganci al Riina, la prima sezione del Ros avviò, a fine settembre 1992, una complessa attività di indagine sul territorio.

A tal fine tutto il gruppo di lavoro, composto da 14/15 elementi, fu distaccato da Milano, ove era stato impegnato in altre attività di indagine, a Palermo per svolgere servizi di intercettazione, pedinamento, osservazione diretta e video ripresa sull’ “obiettivo Ganci”, localizzato in un cantiere edile sito in Palermo ed in un’abitazione in Monreale.

Il servizio di osservazione filmata fu attuato a mezzo di una telecamera, situata all’interno di un furgone posteggiato in prossimità dei predetti siti sottoposti a controllo.

Il 7 ottobre 92 (cfr. relazione di servizio all. n. 1 della produzione documentale della difesa dell’imputato Mori, acquisita all’ud. 9.5.05) il Ros eseguì un servizio di pedinamento nei confronti di Domenico Ganci, figlio di Raffaele, il quale alle ore 17.05 venne osservato percorrere in auto via Lo Monaco Ciaccio Antonino in Palermo, via Uditore, v.le Regione Siciliana, il controviale in direzione motel Agip per fermarsi nei pressi del bar Licata, sito all’angolo con via Bernini, in conversazione con un soggetto; alle ore 17.12 veniva visto risalire sulla propria auto e percorrere v.le Regione Siciliana, il controviale e via Giorgione, dove si dileguava facendo perdere le sue tracce, probabilmente accedendo ad un garage.

SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE DI PALERMO

La soffiata di Balduccio Di Maggio, il mafioso spione di San Giuseppe Jato. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE DI PALERMO su Il Domani il 15 gennaio 2023

Baldassare Di Maggio era un soggetto all’epoca incensurato e, sostanzialmente, sconosciuto alle forze dell’ordine, ma veniva indicato da una fonte confidenziale come persona di un certo rilievo per l’organizzazione criminale nel mandamento di S. Giuseppe Iato, che aveva svolto le funzioni di autista per Salvatore Riina

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini.

Nello stesso periodo di tempo, il gruppo 2 del Nucleo Operativo aveva avviato, su segnalazione proveniente dalle stazioni CC di Monreale e di S. Giuseppe Iato, un proprio filone investigativo con lo scopo di ricercare sul territorio nazionale Baldassare Di Maggio.

Costui era un soggetto all’epoca incensurato e, sostanzialmente, sconosciuto alle forze dell’ordine, ma veniva indicato da una fonte confidenziale come persona di un certo rilievo per l’organizzazione criminale nel mandamento di S. Giuseppe Iato, che aveva svolto le funzioni di autista per Salvatore Riina e che si era dovuto allontanare dal territorio siciliano, andando a riparare nel nord Italia, a causa di un forte contrasto maturato all’interno del sodalizio criminale con Giovanni Brusca, tale da avergli fatto temere per la sua stessa incolumità.

Si veniva, pertanto, a profilare la potenziale importanza di questo personaggio, che in quanto al centro di un feroce dissidio interno alla compagine mafiosa, tale da costringerlo ad una precipitosa fuga in un territorio a sé totalmente estraneo, avrebbe potuto rappresentare una preziosa occasione per futuri spunti investigativi, anche e soprattutto nella direzione della cattura dello stesso Brusca.

In effetti, il Di Maggio - come ha dichiarato in dibattimento, concordemente agli altri collaboratori di giustizia, tra i quali La Rosa Giuseppe, Brusca Giovanni, Di Matteo Mario Santo, Camarda Michelangelo, Giuffré Antonino, tutti escussi nel presente procedimento - aveva ricoperto negli anni 1985-1989, proprio su investitura del Riina, il ruolo di capo mandamento reggente di S. Giuseppe Iato al posto di Bernardo Brusca, che era stato raggiunto da provvedimenti giudiziari restrittivi della libertà personale.

Negli ultimi anni ’80, tuttavia, non godeva più della completa fiducia di Salvatore Riina e del noto latitante Bernardo Provenzano, a causa di contrasti legati alla gestione degli appalti in Sicilia che allora era affidata ad Angelo Siino, uomo assai vicino allo stesso Di Maggio, il cui ruolo cominciava però a divenire inviso ai due capomafia, che ne volevano ridimensionare il potere e l’ambito decisionale. Giovanni Brusca, d’altra parte, ormai tornato dal confino cui era stato costretto per vicende giudiziarie, aspirava, in quanto figlio di Bernardo, ad assumere il comando del mandamento, ragione per cui intraprese con il Di Maggio, sin dal 1990, una feroce lotta per la conquista del potere.

LA GUERRA A BALDUCCIO

Questi fattori determinarono (cfr. deposizioni rese dai collaboratori di giustizia già citati) un progressivo ed irreversibile deterioramento dei rapporti tra l’organizzazione criminale ed il Di Maggio, tanto che quest’ultimo nel 1990/1991 decise di allontanarsi dalla Sicilia ed intraprese una serie di viaggi all’estero, continuando a mantenere, tuttavia, i contatti con il territorio, soprattutto a mezzo dell’amico Giuseppe La Rosa, che spesso incontrava in Toscana, presso dei propri parenti che ivi risiedevano.

A marzo dell’anno 1992 fu mandato a chiamare dal Riina e partecipò ad una riunione con Raffaele Ganci e Giovanni Brusca, che si svolse vicino la clinica Villa Serena a Palermo, avente ad oggetto la risoluzione della questione relativa ai contrasti sorti tra i due esponenti mafiosi; in tale occasione, il Riina decise che il mandamento fosse governato dal Brusca, rispetto al quale il Di Maggio sarebbe dovuto restare in posizione subordinata.

Quest’ultimo realizzò di non avere più spazi e, dopo un tentativo di ottenere il permesso di soggiorno in Canada, decise di trasferirsi nel nord Italia, a Borgomanero, dove già risiedeva un suo vecchio conoscente di nome Salvatore Mangano.

A fine agosto 1992 Giuseppe La Rosa, nel corso di uno dei loro incontri in Toscana, gli confermò quanto già aveva intuito nella riunione di Palermo, ovvero che l’associazione aveva deciso di sopprimerlo, prendendo a pretesto la circostanza che avesse intrapreso una relazione sentimentale non consentita, in violazione dei suoi obblighi di “uomo d’onore”.

Tuttavia “Balduccio”, come veniva soprannominato dai suoi sodali, non si diede per vinto ed anzi, ha riferito il La Rosa, proprio perché ormai non vedeva altra via d’uscita maturò l’intenzione di eliminare Giovanni Brusca, proponendosi, a tal fine, di ottenere l’autorizzazione del Riina, ovvero, in caso contrario, di sbarazzarsi anche del boss corleonese, sfruttando i dissapori che nel frattempo erano sorti tra quest’ultimo e parte dell’organizzazione, che si riconosceva nel Provenzano, la quale aveva mal tollerato la strategia dell’attacco frontale allo Stato che il Riina aveva deciso di intraprendere, da molti ritenuta la causa dell’inasprimento del trattamento carcerario per gli affiliati ed un fattore di rischio per la continuità e la produttività degli affari del sodalizio.

SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE DI PALERMO

Quegli incontri ravvicinati tra don Vito e gli ufficiali del Ros. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE DI PALERMO su Il Domani il 16 gennaio 2023

Al primo incontro con il capitano De Donno, Vito Ciancimino si dichiarò disponibile a collaborare ma richiese di parlare ad un “livello superiore”; De Donno fece il nome del colonnello Mori e tutti e tre si incontrarono a Roma, in agosto 1992, nella casa del Ciancimino, il quale si disse pronto a cercare un contatto con l’associazione mafiosa per avviare un dialogo...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini.

A Roma, all’indomani della strage di Capaci, il cap. Giuseppe De Donno aveva, difatti, chiesto a Massimo Ciancimino, che aveva conosciuto in occasione delle inchieste da lui stesso avviate sul padre Vito Calogero Ciancimino, di procurargli un incontro con quest’ultimo, al fine di avviare un colloquio che potesse fornire utili informazioni per le indagini in corso, nonché per la cattura dei latitanti Riina e Provenzano, e che potesse anche offrire una qualificata “chiave di lettura” sulle dinamiche interne a “cosa nostra” e sugli obiettivi che l’organizzazione intendeva perseguire con l’attacco allo Stato.

Questi tentativi di approccio furono in un primo tempo respinti dal Ciancimino, che poi invece, a fine luglio, dopo la strage di via D’Amelio, mutò opinione, acconsentendo ad incontrare il cap. De Donno.

Per ricostruire questa complessa e per molti versi, “prima facie”, anomala vicenda è necessario richiamare il contesto nell’ambito del quale essa maturò: è evidente che gli assassinii di Salvo Lima (il 12 marzo), dei giudici Falcone (il 23 maggio) e Borsellino (il 19 luglio) ponevano lo Stato italiano, nelle persone dei rappresentanti delle sue istituzioni e dei responsabili del mantenimento della sicurezza e dell’ordine pubblico, di fronte alla gravissima emergenza costituita dalla volontà stragista inequivocabilmente manifestata da “cosa nostra”, e dunque di fronte alla necessità di reperire, con ogni iniziativa utile, informazioni od elementi capaci di decifrare ed auspicabilmente neutralizzare la strategia dell’organizzazione.

Vito Ciancimino, per il ruolo di “dominus” degli appalti che aveva rivestito ed all’epoca ancora in parte rivestiva, come accertato dallo stesso cap. De Donno titolare delle investigazioni sfociate nel cd. rapporto “mafia-appalti”, costituiva senz’altro una cerniera con l’organizzazione e poteva fungere da canale privilegiato di collegamento con il gotha mafioso, sia per i sicuri contatti in suo possesso, che lo collocavano vicino al clan corleonese ma anche al Provenzano, sia perché, in attesa degli esiti definitivi di un procedimento a suo carico, versava in condizioni di particolare “fragilità psicologica” che potevano indurlo a rendersi disponibile ad una collaborazione, al fine di evitare il rischio di una nuova carcerazione (che invece di lì a pochissimo, in piena “trattativa”, sarebbe giunta) che, dal punto di vista umano e per le sue condizioni di salute, non si sentiva più in grado di sopportare, essendo già stato duramente provato dall’esperienza del carcere subita con il primo arresto del 3 novembre 1984.

Il predetto De Donno ed il col. Mori erano ben consapevoli di questa superiorità psicologica ed agirono decisi a sfruttarla (v. dichiarazioni rese dallo stesso Mori nel verbale di ud. del 16.1.03 innanzi al tribunale di Milano, acquisite al giudizio il 9.5.05 e deposizione resa all’ud. del 11.7.05 dal cap. De Donno).

I contatti - per come riferito in termini assolutamente coincidenti dal Ciancimino nel suo manoscritto “I carabinieri”, sequestrato il 17 febbraio 2005 nell’ambito di un procedimento avviato nei confronti del figlio Massimo ed acquisito in copia all’ud. del 9.5.05, e dai due ufficiali coinvolti - si articolarono nei seguenti punti: al primo incontro con il cap. De Donno, Vito Ciancimino si dichiarò disponibile a collaborare ma richiese di parlare ad un “livello superiore”; il cap. De Donno fece il nome del col. Mori e tutti e tre si incontrarono a Roma, in agosto 1992, nella casa del Ciancimino, il quale si disse pronto a cercare un contatto con l’associazione mafiosa per avviare un dialogo, chiedendo l’autorizzazione a spendere i loro nomi; una volta trovato questo interlocutore, che viene definito nel manoscritto “l’ambasciatore” (e che solo successivamente identificherà in Antonino Cinà, medico della famiglia Riina, legato anche al Provenzano), il Ciancimino gli rivelò i nomi dei due esponenti dell’Arma con cui era in contatto, ma avrebbe ottenuto una reazione di iniziale diffidenza, in quanto l’intermediario gli avrebbe risposto che i due ufficiali avrebbero dovuto prima pensare a risolvere le sue vicende giudiziarie; in un secondo momento, “l’ambasciatore” avrebbe invece superato tale diffidenza, decidendosi a ricontattarlo per rilasciargli una sorta di “delega” a trattare; il Ciancimino convocò allora il col. Mario Mori ed il cap. De Donno per un altro incontro nella sua casa di Roma a fine settembre 1992, nel quale finalmente precisare i termini di quell’inconsueto “negoziato”, termini che tuttavia gli si rivelarono deludenti e tali da non consentire margini di trattativa.

Difatti, come testualmente annotato dal Ciancimino e confermato dai protagonisti in dibattimento, “i Carabinieri mi dissero di formulare questa proposta: consegnino alla giustizia alcuni latitanti grossi e noi garantiamo un buon trattamento alle famiglie”, proposta che venne ritenuta totalmente inadeguata dal Ciancimino stesso e come tale neppure comunicata all’ “ambasciatore”, con il quale si voleva mantenere comunque aperto un canale di dialogo.

Per questo motivo, scriveva il Ciancimino nel proprio manoscritto, egli avrebbe riferito una proposta “bluff”, secondo cui un noto esponente politico si sarebbe prestato a garantire la salvezza del circuito imprenditoriale di interesse dell’organizzazione, minacciato da “tangentopoli”, che però non avrebbe avuto alcun seguito.

A questo punto il Ciancimino – si legge negli appunti – avrebbe realizzato che non c’erano margini per alcuna trattativa, alla quale, tra l’altro, neppure “l’ambasciatore” aveva dimostrato vero interesse, per cui decise – come da sua annotazione testuale - di “passare il Rubicone”, ovvero intraprendere una reale collaborazione con i carabinieri, proponendo di infiltrarsi nell’organizzazione per conto dello Stato, intenzione che esplicitò ai nominati Mori e De Donno nel corso di un successivo incontro avvenuto a dicembre 1992, chiedendo in cambio che i suoi processi “tutti inventati” si concludessero con esito a lui favorevole ed il rilascio del passaporto.

Nella medesima occasione, domandò – come si legge nel manoscritto e confermato dagli ufficiali – che gli fossero esibite le mappe di alcune zone della città di Palermo ed atti relativi ad utenze Amap, in quanto, essendo a suo dire a conoscenza di alcuni lavori che erano stati eseguiti anni addietro da persone vicine al Riina, avrebbe potuto fornire qualche elemento utile alla sua localizzazione.

L’arresto “casuale” di Balduccio e il colloquio che voleva con un generale. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE DI PALERMO su Il Domani il 17 gennaio 2023

L’8 gennaio 1993 i militari captarono una conversazione che li indusse a sospettare fosse in atto un traffico di stupefacenti, per cui richiesero ai colleghi di Novara di intervenire con una perquisizione di loro iniziativa nei locali. A seguito di tale perquisizione venne rinvenuto e tratto in arresto, perché colto in possesso di un giubbotto antiproiettile e di armi, il Di Maggio...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini.

Parallelamente, tornando ad osservare quanto stava accadendo a Palermo nello stesso lasso temporale, il Ros, nella persona dell’imputato De Caprio e dei suoi uomini, dopo le riunioni di luglio e settembre 1992 a Terrasini, si trovava impegnato nelle attività di osservazione, controllo e pedinamento della famiglia Ganci.

Il nucleo operativo, invece, aveva avviato le indagini dirette a localizzare, grazie alle notizie fornite da fonti confidenziali, il Di Maggio che, come detto, si era rifugiato in Piemonte.

Quest’ultimo, come già accennato, era intento ad orchestrare un suo piano di azione per la ripresa del potere in quello che considerava ancora il suo mandamento (il territorio di S. Giuseppe Iato) e nel perseguimento di questo obiettivo aveva deciso di uccidere Giovanni Brusca, come dichiarato – e poi negato nel corso della sua deposizione nel presente dibattimento – in data 9.1.93 ai carabinieri che lo trarranno in arresto.

Una volta eliminato il rivale, e se del caso anche lo stesso Riina, contava infatti di tornare ad essere l’unico possibile punto di riferimento in quel territorio, nel quale non aveva mai interrotto i rapporti e dove conservava stabili posizioni di potere.

In proposito, Giuseppe La Rosa ha riferito che ai primi di dicembre 1992 il Di Maggio lo incaricò di scoprire dove potesse trascorrere la latitanza il Riina ed a tal fine gli suggerì di osservare gli spostamenti di Vincenzo Di Marco, che ne accompagnava i figli a scuola, di “Faluzzo” Ganci che aveva delle macellerie nel quartiere “Noce” di Palermo e di Salvatore Biondolillo, che provvedevano ai suoi spostamenti ed alle sue necessità.

In una occasione vide Franco Spina, che già conosceva anche come il titolare del negozio “Amici in tavola” assieme a Stefano Ganci (figlio del “Faluzzo”), incontrarsi proprio con il Biondolillo di fronte al motel Agip, su viale Regione Siciliana; il Biondolillo sparì per circa due ore con un carico di buste per la spesa, cosa che lo fece sospettare sul fatto che quella spesa fosse destinata proprio al Riina ed a questi fosse stata consegnata nella zona.

Il La Rosa riferì l’episodio al Di Maggio durante un incontro in Toscana, avvenuto prima del Natale 1992, il quale gli disse che di lì a poco sarebbe sceso in Sicilia ed «avrebbe fatto ciò che doveva».

I carabinieri di Monreale, appartenenti al gruppo 2 del nucleo operativo, erano frattanto riusciti ad individuare il Di Maggio in Borgomanero, provincia di Novara, ove intratteneva contatti con un proprio compaesano che vi si era trasferito da diversi anni, Natale Mangano, titolare di un’officina meccanica, le cui utenze telefoniche vennero immediatamente sottoposte ad intercettazione (v. deposizione resa dal ten. col. Domenico Balsamo all’ud. del 16.5.05).

L’8.1.1993 i militari captarono una conversazione che li indusse a sospettare fosse in atto un traffico di stupefacenti, per cui richiesero ai colleghi di Novara di intervenire con una perquisizione di loro iniziativa nei locali.

A seguito di tale perquisizione venne rinvenuto e tratto in arresto, perché colto in possesso di un giubbotto antiproiettile e di armi, il Di Maggio che, come riferito dal teste col. Balsamo, nonostante il suo stato di incensuratezza e l’accusa non particolarmente grave elevata a suo carico, limitata alla detenzione di armi, cominciò subito a comportarsi in modo anomalo, manifestando grande agitazione e forte paura.

Portato in caserma, cominciò a riferire agli operanti che temeva per la sua vita e che avrebbe potuto fornire informazioni preziose per le investigazioni in Sicilia, soprattutto in merito a Salvatore Riina.

Queste circostanze, subito comunicate dal personale locale ai colleghi del Nucleo Operativo di Palermo, confermarono a questi ultimi la veridicità delle notizie apprese in via confidenziale circa l’effettiva esistenza di una grave frattura consumatasi all’interno di “cosa nostra”, che aveva indotto il Di Maggio a lasciare il territorio isolano, ed indussero l’autorità giudiziaria ad inviare subito a Novara personale dell’Arma per sentire cosa avesse da riferire il prevenuto.

La sera stessa di quell’8.1.93 (alle ore 24 circa), l’allora magg. Domenico Balsamo, comandante del gruppo 2 del Nucleo Operativo, ed il proprio collaboratore mar.llo Rosario Merenda giunsero nella caserma ove era trattenuto il Di Maggio, il quale, come appresero dai colleghi della stazione, aveva già iniziato a dialogare con il comandante CC della Regione Piemonte, gen. Francesco Delfino.

DI MAGGIO CHIEDE UN COLLOQUIO CON DELFINO

L’istruzione dibattimentale ha consentito di accertare, tramite la deposizione dello stesso Di Maggio resa all’udienza del 21.10.05 e l’acquisizione ( ud. 9.5.05) del verbale delle dichiarazioni rilasciate da Francesco Delfino in data 21.2.97 innanzi alla Corte d’Assise di Caltanissetta, i motivi per i quali avvenne questo colloquio, apparentemente anomalo perché riguardante un soggetto all’epoca sconosciuto alle autorità investigative ed il generale che comandava l’Arma territoriale a livello locale.

Al riguardo è emerso che:

fu il Di Maggio a chiedere, appena giunto in caserma a Novara, di poter parlare con la persona più alta in grado, aggiungendo che aveva informazioni da riferire su latitanti di mafia ed in particolare su Salvatore Riina;

il Di Maggio non conosceva il gen. Francesco Delfino e viceversa;

il gen. Delfino assunse il comando delle Regioni Piemonte e Valle D’Aosta il 6.9.1992;

precedentemente egli aveva prestato servizio proprio in Sicilia, ove, in data 28 o 29 giugno 1989, quale vice comandante della regione Palermo, aveva diretto un’operazione nel territorio di San Giuseppe Iato, contrada Ginostra.

Tale ultima attività aveva avuto lo scopo di localizzare e perquisire una grande e lussuosa villa in costruzione, che fonte confidenziale aveva indicato come di titolarità proprio di tale Baldassare Di Maggio, il quale svolgeva mansioni di autista per il Riina e che proprio in quella villa poteva dare ospitalità al latitante.

La perquisizione aveva dato esito negativo, in quanto non vi era stato rinvenuto nessuno dei sopra nominati soggetti né alcun elemento di riscontro alle informazioni ricevute dal confidente, tanto che al Di Maggio furono in seguito notificati solo verbali di accertamento di violazioni di tipo edilizio.

Il gen. Delfino (cfr. verbale del 21.2.97), all’atto del suo insediamento al comando della Regione Piemonte, era stato informato dal comandante provinciale di Novara che già dal mese di giugno 1992 erano in corso delle indagini, sollecitate dalla stazione di Monreale, per ricercare in Piemonte tale Di Maggio, indicato da fonte confidenziale come soggetto capace di fornire notizie utili su Giovanni Brusca, che ne aveva ordinato, con tutta probabilità, l’eliminazione.

Egli, grazie a quell’operazione condotta in contrada Ginostra, fu, pertanto, in grado di cogliere subito la rilevanza investigativa del nominativo che gli veniva fatto e, collegandolo alla possibile presenza in Piemonte anche del Riina, forse malato, decise, senza riferire a nessuno l’episodio del 1989, di attivare, in segretezza, un gruppo di investigatori con il compito di ricercare eventuali tracce sul territorio della presenza del boss corleonese.

Il personale di Novara, intanto, aveva proseguito gli accertamenti e le ricerche sul Di Maggio ed a dicembre il comandante provinciale gli aveva comunicato che erano riusciti infine a localizzarlo a Borgomanero.

SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE DI PALERMO

E il mafioso comincia a parlare di un nascondiglio di Totò Riina. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE DI PALERMO su Il Domani il 18 gennaio 2023

Si legge nel verbale del 9 gennaio 93, redatto alle ore 2.00 che il Di Maggio, dopo avere parlato di diversi episodi omicidiari e di varie vicende relative ai boss Riina e Provenzano, indicò due luoghi nei quali aveva incontrato il Riina, nonché le persone incaricate di accompagnare il boss nei suoi spostamenti a Palermo, Raffaele Ganci e Giuseppe, detto Pino, Sansone...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini.

Per tali ragioni, quell’8.1.93, quando il medesimo comandante lo chiamò comunicandogli che avevano arrestato il Di Maggio e che questi aveva dichiarato di avere informazioni da riferire su Salvatore Riina ed aveva altresì richiesto la presenza dell’ufficiale più alto in grado, il gen. Delfino si precipitò negli uffici del Nucleo Operativo del Comando Provinciale di Novara, ove iniziò a raccogliere le spontanee dichiarazioni del Di Maggio.

Oltre la mezzanotte arrivò anche l’allora magg. Balsamo, insieme al mar.llo Merenda, che, dopo poco tempo, una volta puntualizzate con i colleghi le competenze in ordine alle indagini che erano state avviate ed all’arresto che ne era conseguito e superato il problema della riluttanza manifestata dal Di Maggio a parlare con ufficiali del capoluogo siciliano, venne introdotto alla presenza dell’arrestato e partecipò alla verbalizzazione delle sue dichiarazioni.

Si legge nel verbale del 9.1.93, redatto alle ore 2.00 (all. n. 14 della produzione documentale della difesa De Caprio, acquisita all’ud. del 9.5.05), che il Di Maggio, dopo avere parlato di diversi episodi omicidiari e di varie vicende relative ai boss Riina e Provenzano ed al medico del Riina dott. Cinà, indicò due luoghi nei quali aveva incontrato il Riina, specificando però di non essere in grado di fornirne il nome della via né il numero civico, nonché le persone incaricate di accompagnare il boss nei suoi spostamenti a Palermo, Raffaele Ganci e Giuseppe, detto Pino, Sansone.

Quanto al primo luogo, fece un disegno della zona e lo descrisse come una villetta, ubicata nel quadrivio tra via Regione Siciliana, via Leonardo Da Vinci e via Notarbartolo, nella quale aveva visto circa cinque anni prima entrare il Riina accompagnato da Raffaele Ganci. Aggiunse che accedendo da via Leonardo Da Vinci, sulla destra, in una via di cui non conosceva il nome, ci si immetteva in un fondo ove era ubicata questa villa, tutto delimitato da un muro di cinta e, tramite un cancelletto in ferro di grandezza appena sufficiente a far passare una piccola auto, si accedeva ad un giardino al centro del quale vi era una vecchia casa, probabilmente di proprietà di Sansone Tanino, che provvedeva agli spostamenti del Riina.

Sempre nello stesso quartiere, circa 300 metri prima della villetta di cui sopra, sul lato sinistro di viale Regione Siciliana, in direzione aeroporto, sulla sinistra di via Leonardo Da Vinci, ubicò la seconda casa doveva aveva incontrato il Riina, al primo piano di una abitazione cui si accedeva tramite un cancello automatico che gli era stato aperto da un uomo che abitava al piano terra.

Inoltre, il Di Maggio dichiarò di ricordare, visivamente, anche altri luoghi e di poterli individuare una volta presente fisicamente a Palermo, ed indicò in Vincenzo De Marco, abitante a S. Giuseppe Jato, colui che tutte le mattine si recava a Palermo con la sua autovettura tipo Golf a prendere i figli del Riina per accompagnarli a scuola ed andarli a riprendere, mentre in un certo Salvatore di Palermo, cugino di Salvatore Biondolillo, un soggetto che aveva il compito di precedere con la sua auto quella del Riina, in ogni suo spostamento, per controllare la sicurezza del percorso e dare il via libera.

Subito dopo questi colloqui, secondo quanto dichiarato dal gen. Delfino in data 21.2.97 alla Corte d’Assise di Caltanissetta e dal dott. Caselli a dibattimento (ud. 7.11.05), il primo comunicò telefonicamente al secondo, il quale si sarebbe dovuto insediare il 15.1.93 come nuovo Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, che era stato catturato un soggetto il quale poteva rivelare notizie utili all’individuazione di Salvatore Riina ed il dott. Caselli gli chiese subito di convocare presso il suo ufficio anche l’allora col. Mori, presente a Torino quel giorno, come sapeva per il fatto che avevano convenuto un appuntamento per il pranzo assieme al col. Sechi.

Come seconda cosa il dott. Caselli informò telefonicamente il Procuratore Aggiunto di Palermo dott. Vittorio Aliquò, al quale spettava sino al suo insediamento la responsabilità nella direzione e nel coordinamento delle indagini antimafia, in modo che fossero avviate tutte le attività necessarie e si cominciasse a predisporre il futuro trasferimento del collaborante a Palermo.

Il gen. Delfino, all’appuntamento presso il suo ufficio con il dott. Caselli ed il col. Mori, illustrò la nuova emergenza investigativa, riferendo anche tutti i particolari della vicenda.

LA SCELTA DI CASELLI

La scelta di coinvolgere il ROS, che il dott. Caselli ha rivendicato come propria ed esclusiva, fu dovuta sia, e soprattutto, alla considerazione che nutriva per la persona di Mario Mori, con il quale aveva instaurato negli anni un rapporto fiduciario di intensa e proficua collaborazione in occasione delle inchieste portate avanti contro il terrorismo, sia al fatto che il ROS era in quel momento impegnato in azioni antimafia con proiezioni sul territorio siciliano. A quella data il dott. Caselli ignorava i contatti che Mario Mori aveva intrapreso ormai da diversi mesi con Vito Ciancimino, così come solo successivamente venne a conoscenza del fatto che i rapporti tra il Mori e l’allora comandante della Regione Piemonte Delfino si erano da tempo irrigiditi.

I verbali contenenti le dichiarazioni del Di Maggio furono spedite in plico chiuso a Palermo e recapitati da Giorgio Cancellieri (v. deposizione del medesimo all’ud. 6.6.05), all’epoca comandante della Regione Sicilia, al dott. Aliquò, che immediatamente dispose l’invio di alcuni magistrati a Novara per prendere contatto con il collaboratore e riportarlo a Palermo.

Il giorno 11.1.93 Baldassare Di Maggio fece rientro a Palermo, ove fu affidato in custodia al gruppo 2 del Nucleo Operativo, il quale dapprima lo sistemò nei propri locali sotterranei della stazione di Monreale per poi trasferirlo, per motivi di sicurezza, presso il Comando della Regione Sicilia.

Il vicecomandante operativo della Regione, col. Sergio Cagnazzo, convocò una riunione con i comandanti del Nucleo Operativo, magg. Balsamo e cap. Minicucci, la sezione distaccata del ROS, che stava già lavorando sulla famiglia Ganci, e la sezione anticrimine per coordinare le attività investigative che andavano condotte a riscontro ed in conseguenza delle nuove informazioni fornite dal collaboratore.

Il medesimo Cagnazzo, si legge nella direttiva del 12.1.93 (all. n. 15, doc. difesa De Caprio), affidò, per competenza territoriale, al gruppo 1 le indagini su Salvatore Biondolillo ed Angelo La Barbera, da svolgere unitamente al ROS, al gruppo 2 quelle su Vincenzo De Marco, Anselmo Francesco Paolo ed altri; gli accertamenti sulle abitazioni di via Uditore, nonché su quelle site dietro la clinica “Casa del Sole”, altro luogo di cui aveva parlato nel frattempo il collaboratore, e sui Sansone furono affidati anch’essi al gruppo 1 ed al ROS, al quale spettava altresì continuare i servizi in corso sui Ganci.

SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE DI PALERMO

I sopralluoghi a Palermo, si stringe il cerchio intorno allo “zio Totò”. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE DI PALERMO su Il Domani il 19 gennaio 2023

Il maresciallo Merenda fu incaricato di eseguire, personalmente, i sopralluoghi con il collaboratore Di Maggio sulle località che quest’ultimo aveva indicato. Di Maggio aveva anche individuato un altro luogo di pertinenza di Giuseppe detto Pino Sansone: lo stabile sito in via Bernini dove risiedevano gli uffici di alcune sue società...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini.

Pertanto, la sezione comandata dal cap. De Caprio avrebbe dovuto collaborare e coordinarsi con il gruppo 1 del Nucleo Operativo, per le investigazioni da condurre sia in ordine ai luoghi indicati dal Di Maggio nella zona Uditore che in relazione ai Sansone.

Osserviamo come si svilupparono in concreto ciascuno di questi filoni investigativi.

Su Vincenzo Di Marco (che sarà arrestato solo in data 6.2.93) venne predisposto il 14.1.93, a cura del gruppo operativo dei CC di Monreale e di S. Giuseppe Jato, un servizio di osservazione presso la sua abitazione, con esito negativo.

In merito al Biondolillo, l’indicazione di tale cognome si rivelò in un primo momento erronea in quanto non corrispondeva a nessun soggetto di possibile rilevanza ai fini delle indagini. Tuttavia, in data 12.1.93, il Di Maggio, nel corso di uno dei sopralluoghi effettuati con il mar.llo Rosario Merenda del gruppo 2 del Nucleo Operativo, ne indicò l’abitazione in via San Lorenzo, sicché si pensò di mostrargli la fotografia di un certo Salvatore Biondino, residente in quella stessa zona e già all’attenzione delle forze dell’ordine: questa intuizione investigativa consentì l’identificazione del Biondolillo proprio nel suddetto Biondino (v. deposizione di Marco Minicucci all’ud. del 25.5.05).

Quanto a Giuseppe, detto Pino, Sansone, si accertò inizialmente l’esistenza, tramite accertamenti anagrafici, di circa sedici individui che avevano quelle stesse generalità.

Il mar.llo Merenda, come attestato nelle relazioni di servizio a sua firma del 12 e 13.1.93 (riferite alle attività svolte nella notte del giorno precedente, all. n. 2 doc. difesa Mori), fu incaricato di eseguire, personalmente, i sopralluoghi con il collaboratore Di Maggio sulle località che quest’ultimo aveva indicato.

A tal fine effettuò le seguenti individuazioni:

1. cancelletto alla via Uditore n. 13/a (cd. Fondo Gelsomino), che veniva riconosciuto come quello di pertinenza della vecchia casa ove il Di Maggio aveva dichiarato di aver visto entrare il Riina circa cinque anni addietro in compagnia di Raffaele Ganci;

2. villino La Barbera in via Castellana;

3. casa “Pauluzzu” in via Mammana;

4. via Casa Del Sole dove il Di Maggio riconosceva esservi l’impresa di calcestruzzi Buscemi;

5. Casa Del Sole, via Villaba, dove ubicava il pollaio usato dal Riina per i suoi incontri;

6. l’abitazione di Salvatore Biondolillo e cugino in zona S. Lorenzo;

7. uffici del Sansone ubicati nel condominio di via Cimabue n. 41 (individuati solo alle ore 23 del 12.1.93);

8. casa in via Asmara; 9. villino a 300 metri dalla chiesa ed abitazione in località Aquino che non era possibile individuare.

Per come ha riferito il teste Merenda (ud. 16.5.05), il Di Maggio aveva anche individuato un altro luogo di pertinenza di Giuseppe detto Pino Sansone: lo stabile sito in via Bernini dove risiedevano gli uffici di alcune sue società, che era situato a circa 200/300/400 metri più avanti, sulla sinistra, rispetto al complesso che solo in seguito verrà localizzato ai nn. 52/54 di via Bernini.

A quel punto l’individuazione di Giuseppe (Pino) Sansone era completata e consentiva di identificarlo in uno dei fratelli Sansone, imprenditori edili e titolari di diversi organismi societari, tra i quali la Sicor, l’Agrisan, la Icom, l’edilizia Sansone tutti aventi sede in via Cimabue n. 41, e la Sicos con sede a via Bernini n. 129 (cfr. decreti di perquisizione e verbali di sequestro del 2 e 3 febbraio 1993, all. n. 29 doc. difesa De Caprio).

L’ATTENZIONE SI SPOSTA SUI SANSONE

Il cap. Sergio De Caprio decise di concentrare l’attenzione investigativa proprio su questi individui, e ciò per tre ordini di ragioni.

La prima, in quanto quel “Pino” era stato indicato dal Di Maggio come la persona che accompagnava il Riina nei suoi spostamenti, assieme a Raffaele Ganci il quale, tuttavia, già sotto osservazione del Ros da ottobre 1992 (ed il servizio sarebbe continuato sino alla data del suo arresto nel giugno 1993) non era mai stato visto in compagnia del Riina, né aveva fornito elementi utili per la sua individuazione; la seconda, perché il nominativo Sansone era già emerso, come riferito dall’imputato e confermato anche dalla dott.ssa Ilda Boccassini (sentita all’ud. del 21.11.05), nel corso del processo Spatola Rosario + 74 (sentenza n. 1395 del 6.6.1983), per cui si trattava di soggetti che già da tempo intrattenevano contatti con l’organizzazione criminale; la terza, in quanto Domenico Ganci, nel corso di quel pedinamento eseguito dalla sua sezione il 7.10.92, aveva fatto perdere le sue tracce proprio in via Giorgione, ovvero in una via limitrofa a quelle ove – si era scoperto - erano ubicati i loro uffici.

Conseguentemente, dal 13.1.93 furono sottoposte ad intercettazione telefonica (cfr. verbale relativo alle operazioni di ascolto, all. n. 27 doc. difesa De Caprio) le utenze intestate a Sansone Gaetano, alla moglie Matano Concetta, alla sua ditta individuale ed alle società a r.l. Sicos, Sicor, Soren, nonché quella intestata alla ditta individuale Sansone Giuseppe.

Nella stessa giornata (13 gennaio), il mar.llo Santo Caldareri, in servizio alla prima sezione del Ros, eseguì (come riferito all’udienza del 29.6.05), su ordine del suo comandante De Caprio, approfonditi accertamenti anagrafici e documentali sui fratelli Sansone, dai quali emerse che Giuseppe, pur risiedendo come gli altri in via Beato Angelico n.51, era titolare di un’utenza telefonica fissa numero 0916761989 sita in via Bernini nn. 52/54.

Questo dato risultò importantissimo per l’imputato De Caprio, in quanto il prolungamento di quella via Giorgione, dove ad ottobre si era dileguato il Ganci, andava a terminare proprio su via Bernini, in prossimità del numero civico 52/54: ne risultava, anche per questa via, confermato il sospetto circa l’importanza che i Sansone avrebbero potuto avere per le attività investigative che il Ros aveva in corso, prima fra tutte quella diretta alla ricerca del Riina.

L’imputato inviò, nel pomeriggio di quello stesso 13 gennaio 1993, due componenti del suo gruppo, i mar.lli Riccardo Ravera e Pinuccio Calvi (coma da loro deposto all’udienza del 15.6.05), ad effettuare un sopralluogo presso quel numero civico di via Bernini, ove i due operanti accertarono l’esistenza di un complesso di villette, cui si accedeva tramite un cancello automatico che consentiva il passaggio delle auto, nonché, sul citofono, il nominativo dei Sansone e delle rispettive mogli.

Pertanto, risultava accertato che i Sansone, pur risiedendo formalmente altrove, abitavano in quel complesso residenziale.

SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE DI PALERMO

La prudenza del capitano “Ultimo” sui possibili covi del boss. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE DI PALERMO su Il Domani il 20 gennaio 2023

Il capitano Sergio De Caprio riteneva, avendo cognizione diretta dal punto di vista operativo delle indagini, che fosse più utile e proficuo, in vista di futuri risultati, evitare iniziative dirette sul campo che avrebbero potuto mettere in allarme l’organizzazione mafiosa e vanificare le attività in corso...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini.

Venne allora inoltrata alla procura della Repubblica una richiesta urgente di autorizzazione all’intercettazione telefonica dell’utenza fissa di titolarità del Sansone, localizzata all’interno del complesso, in merito alla quale le operazioni di ascolto iniziarono il giorno seguente, 14.1.93, alle ore 16.50 (cfr. verbale relativo alle operazioni di ascolto, all. n. 27 difesa De Caprio), protraendosi sino al 20.1.93, data in cui verrà emesso dalla Procura della Repubblica un decreto di revoca.

In quei giorni, sino alla data dell’arresto di Salvatore Riina, si svolgevano con cadenza quotidiana riunioni operative tra i due gruppi della territoriale ed il Ros, alla presenza dell’Autorità Giudiziaria, al fine, fondamentale per il buon esito delle iniziative intraprese, dello scambio di informazioni e del raccordo dell’attività svolta.

Una di queste ebbe luogo proprio quello stesso 13.1.93, con il proposito specifico di fare il punto sulle indagini relative ai luoghi che il Di Maggio aveva riconosciuto e di decidere gli sviluppi investigativi che andavano intrapresi.

Tra questi luoghi, l’attenzione era senz’altro focalizzata sul cd. “fondo Gelsomino”, che il Di Maggio aveva prima indicato come area nella quale si trovava la vecchia casa dove aveva visto entrare il Riina in compagnia di Raffaele Ganci, anni addietro, e poi aveva esattamente individuato in sede di sopralluogo nella via Uditore n. 13/a.

Nel corso della suddetta riunione, il vicecomandante col. Cagnazzo ed il procuratore aggiunto dott. Vittorio Aliquò proposero, di comune accordo, di eseguire una perquisizione del manufatto che si trovava all’interno del fondo, il quale, nel frattempo, era già stato oggetto di riprese fotografiche effettuate per via aerea.

DUE “ORIENTAMENTI” INVESTIGATIVI

In quest’occasione emersero per la prima volta due diversi orientamenti investigativi, tra loro contrapposti: l’uno, portato avanti dai superiori gerarchici della territoriale e dalla procura, favorevole ad un’azione immediata sul territorio; l’altro, sostenuto dal magg. Domenico Balsamo e dal cap. Sergio De Caprio che, invece, riteneva, avendo cognizione diretta dal punto di vista operativo delle indagini, fosse più utile e proficuo, in vista di futuri risultati, evitare iniziative dirette sul campo che avrebbero potuto mettere in allarme l’organizzazione mafiosa e vanificare le attività in corso. Anche perché le vedute aeree del sito non avevano evidenziato movimenti di una qualche utilità investigativa e dunque non poteva esservi alcuna certezza sulla presenza in loco del latitante Riina, che il Di Maggio vi aveva visto ben cinque anni addietro.

Il De Caprio, come riferito in sede di esame, propose di non procedere con la perquisizione ed invece concentrare le investigazioni sui Sansone, da lui ritenuti, per i motivi già innanzi esposti, soggetti di particolare rilevanza nell’ambito delle indagini che stavano conducendo, riuscendo ad ottenere, all’esito della discussione, l’autorizzazione a mettere sotto osservazione il complesso di via Bernini, purché assicurasse analogo servizio anche sul “fondo Gelsomino” che rimaneva, per l’Autorità Giudiziaria, il principale obiettivo.

In proposito, il dott. Aliquò (sentito all’ud. del 3.10.05) ha dichiarato di non ricordare che nel corso della riunione venne menzionata via Bernini, ma poiché ha anche riferito di una discussione avuta con il Ros circa le modalità del servizio di osservazione che ivi andava eseguito nei giorni seguenti (v. al prossimo par.), appare certo che il sito, che era stato appena individuato, fu effettivamente uno degli argomenti trattati nel corso della riunione suddetta.

Come convenuto, il 14.1.93 il mar.llo Orazio Passante (v. dichiarazioni rese all’ud. del 15.6.05), in servizio alla prima sezione del Ros, iniziò alle ore 6.00 un servizio di osservazione sul fondo di via Uditore, a bordo di un furgone attrezzato con telecamera, video riprendendo movimenti di contadini che trasportavano frutta. Al calar del buio, non permanendo più le condizioni di visibilità, chiese ed ottenne di rientrare in caserma; il giorno seguente fu dispensato dal servizio per motivi di salute.

 SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE DI PALERMO

Pedinamenti e telecamere per seguire l’uomo che teneva nascosto il suo capo. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE DI PALERMO su Il Domani il 21 gennaio 2023

La telecamera, però, era in grado di riprendere solo per pochi metri il viale interno e dunque non era possibile “seguire” le auto che vi transitavano sino alle singole unità immobiliari. La scelta della tecnologia da impiegare per l’effettuazione delle video riprese era di pertinenza esclusiva del ROS, che ritenne che il mezzo più appropriato non fosse una telecamera fissa..

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini.

Quello stesso 14 gennaio, alle ore 6.53, un altro appuntato della sezione, Giuseppe Coldesina, si era appostato, su ordine di Sergio De Caprio, all’interno di un furgone dotato di telecamera di fronte al cancello di ingresso al complesso immobiliare di via Bernini.

L’istruzione dibattimentale ha consentito di accertare le modalità di espletamento del servizio di osservazione: un furgone, dotato di telecamera interna, venne posizionato a circa una decina di metri dal cancello, di tipo automatico, che consentiva sia l’ingresso che l’uscita delle autovetture dalla via principale al viale interno del residence, conducente alle varie villette da cui era costituito.

La telecamera, però, era in grado di riprendere solo per pochi metri il viale interno e dunque non era possibile “seguire” le auto che vi transitavano sino alle singole unità immobiliari, alle quali erano dirette o dalle quali uscivano; pertanto, non era neppure possibile stabilire quante fossero le villette esistenti nel residence (v. dichiarazioni rese dal Coldesina all’ud. del 25.5.05, nonché le deposizioni dei magg. Balsamo e mar.llo Merenda che visionarono le immagini filmate e dei dott.ri Aliquò e Caselli ).

La scelta della tecnologia da impiegare per l’effettuazione delle video riprese era di pertinenza esclusiva del Ros, il quale ritenne che il mezzo più appropriato in considerazione dello stato dei luoghi non fosse una telecamera fissa, che avrebbe avuto bisogno di un adeguato supporto logistico, quale un palo della luce o altro, e di idonea copertura per rendersi invisibile, bensì una mobile, che poteva essere facilmente occultata all’interno di un automezzo; così come era stato fatto anche nell’indagine sui Ganci.

È stato chiarito dal magg. Balsamo, dal cap. Minicucci (sentito all’ud. del 25.5.05) e dai dott.ti Aliquò e Caselli, che i dettagli tecnici relativi a come dovesse essere eseguita l’osservazione non erano noti né alla territoriale né alla Procura, proprio perché rimessi alla valutazione discrezionale della sezione che doveva porre in essere l’attività (v. prossimo par.).

Quel 14.1.93, tutto era stato predisposto per assicurare il controllo ed il pedinamento di Giuseppe Sansone, che era stato individuato all’interno del residence e che il Di Maggio aveva indicato come fiancheggiatore del Riina, nonché l’osservazione di tutti coloro che fossero pervenuti o fuoriusciti dal complesso di via Bernini.

Uno degli uomini della squadra di “appoggio” provvide a parcheggiare il furgone, con all’interno l’app.to Coldesina, nel luogo prestabilito, di fronte al cancello di ingresso, dal quale si allontanò a piedi per essere recuperato da altra autovettura; i mar.lli Pinuccio Calvi e Riccardo Ravera (cfr. deposizione resa all’udienza del 15.6.05), assieme ad altri colleghi della sezione, si occuparono personalmente del pedinamento del Sansone, che fu visto uscire a bordo di una Fiat Tipo.

Presto i predetti si resero conto che sarebbe stato impossibile proseguire il servizio senza essere notati, a causa del comportamento particolarmente guardingo ed accorto del sopra nominato individuo, che procedeva a bassissima velocità e addirittura si fermava per guardare chi vi fosse all’interno delle auto che lo sorpassavano.

LA RIUNIONE SERALE

Pertanto, nel pomeriggio, comunicarono al cap. De Caprio la necessità di sospendere le attività di pedinamento per evitare di essere scoperti e fecero rientro in caserma.

Il servizio di video sorveglianza, invece, continuò sino alle ore 16.58, quando un altro componente della sezione andò a prelevare il furgone, al cui interno era celato il Coldesina, per ricondurlo in caserma, ove l’appuntato relazionò il comandante sul servizio svolto, consegnandogli le videocassette delle registrazioni effettuate senza segnalargli nulla di particolare (non conosceva le sembianze fisiche della Bagarella, moglie del Riina, e del Di Marco, che sarebbero stati individuati, poche ore dopo, dal Di Maggio); il cap. De Caprio prese in consegna le cassette e gli ordinò di riprendere il servizio la mattina seguente.

Quella sera stessa, in caserma, (come riferito dai protagonisti) il magg. Domenico Balsamo, su ordine dell’allora vice comandante col. Cagnazzo che gli aveva chiesto di verificare se dal servizio di osservazione fosse emerso qualche elemento utile, il suo collaboratore mar.llo Rosario Merenda, il cap. De Caprio e Baldassare Di Maggio, appositamente convocato per riconoscere nelle persone video riprese eventuali personaggi di interesse investigativo, procedettero alla visione dei filmati.

Non vi partecipò, invece, il comandante del gruppo 1 del nucleo operativo cap. Marco Minicucci, che andò via prima che avesse inizio l’attività a causa – come ha riferito in dibattimento – di non meglio precisate “incomprensioni” maturate con i colleghi sulla gestione del collaboratore, affidata alla sua responsabilità.

In quegli stessi locali dove si trovavano riuniti si affacciò anche il capitano De Donno, allora comandante della II sezione del Ros, che si limitò a salutare i colleghi, senza prendere alcuna parte a quanto vi si stava svolgendo. Giuseppe De Donno era infatti arrivato a Palermo nella stessa giornata, dovendo, la mattina successiva (15.1.93), rendere testimonianza nel cd. processo “mafia appalti”, in corso contro Angelo Siino ed altri. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE DI PALERMO

Il grande colpo dei carabinieri e Totò Riina è in trappola. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE DI PALERMO su Il Domani il 22 gennaio 2023

La notizia dell’arresto di Salvatore Riina provocò anche un comprensibile stupore per la velocità con cui si era giunti a quel risultato straordinario. Anche le modalità che l’avevano reso possibile erano straordinarie, sia perché il Riina non aveva opposto resistenza, sia perché la collaborazione del Di Maggio era iniziata appena sei giorni prima...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini.

Baldassare Di Maggio riconobbe, nelle immagini che stava visionando, uno dei figli di Salvatore Riina, la moglie “Ninetta” Bagarella e l’autista Vincenzo De Marco, che lo stesso magg. Balsamo, in quanto comandante del gruppo 2 del Nucleo Operativo, aveva inutilmente ricercato a S. Giuseppe Iato, mediante servizio svolto dal personale locale, quella stessa mattina del 14 gennaio.

La scoperta dei familiari del latitante e di colui che era incaricato di portarne i figli a scuola in quel complesso di via Bernini, che era stato posto sotto osservazione in quanto luogo di pertinenza di Giuseppe Sansone, costituì per tutti una enorme quanto insperata sorpresa, che poteva consentire, finalmente, di stringere il cerchio attorno al noto boss.

All’alba del 15.1.93, quando ebbero finito dopo diverse ore di vedere tutti i filmati, il magg. Balsamo ed il cap. De Caprio decisero che il nuovo servizio si sarebbe dovuto svolgere con la presenza fisica del Di Maggio sul furgone, assieme all’appuntato Coldesina (cui furono mostrati i fotogrammi relativi alla Bagarella ed a Di Marco), in modo da assicurare anche un’osservazione diretta ed immediata delle persone che potevano accedere al complesso o che ne sarebbero fuoriuscite.

Furono, quindi, impartite le successive disposizioni. Tutti gli uomini della sezione – che furono per l’effetto messi a conoscenza, nelle prime ore della mattinata, dal De Caprio di quanto era emerso – si sarebbero posizionati nella zona - cosa che, contrariamente a quanto era avvenuto il giorno prima, avrebbe fatto anche l’imputato - pronti ad eseguire tutti gli eventuali pedinamenti e le attività che si fossero rese necessarie.

Il servizio, difatti, si prestava a diversi esiti, in quanto la presenza della Bagarella, dei figli e del De Marco non significava necessariamente che nel complesso di via Bernini vi abitasse anche lo stesso Riina, ben potendo la donna recarsi ad incontrare il marito all’esterno del residence, dove invece il boss poteva aver scelto di fare alloggiare la famiglia per ragioni di sicurezza. L’obiettivo immediato e certo era dunque pedinare la moglie e l’autista del Riina, mentre ogni altra eventualità rappresentava in quel momento solo un’ipotesi e come tale fu presa in considerazione. Vista l’ora tarda, i due comandanti convennero di non relazionare.

UN ARRESTO NON “IMMEDIATO”

Immediatamente i propri superiori circa gli esiti emersi dalle riprese filmate ma di provvedervi più tardi nel corso della mattinata, come il cap. Sergio De Caprio poi in effetti fece, comunicando le novità al col. Mario Mori il quale, a sua volta, prima dell’arresto del Riina, ne rese edotto il magg. Mauro Obinu, come da questi riferito in dibattimento.

Il magg. Domenico Balsamo, invece, quando incontrò i propri superiori all’arrivo in ufficio, verso le 7.30, preferì – come dallo stesso dichiarato in aula – rinviare ad un momento più opportuno la dovuta comunicazione circa gli sviluppi delle indagini, sia perché troppe persone erano presenti sia perché non v’era alcuna certezza, bensì solo la speranza, che si potesse arrivare alla localizzazione di Salvatore Riina, il quale, invece, inopinatamente, sarebbe stato arrestato dopo neppure un paio d’ore.

Il verbale redatto e sottoscritto dall’app.to Giuseppe Coldesina (cfr. all. n. 23 doc. difesa De Caprio) fotografa esattamente quali attività di osservazione furono compiute il 15.1.1993:

alle ore 8.52 Salvatore Biondino, che ancora non era stato individuato, entrò nel complesso e ne uscì alle ore 8.55 in compagnia del Riina, seduto sul lato passeggero;

Baldassare Di Maggio li riconobbe ed il Coldesina informò immediatamente via radio il comandante De Caprio che con i suoi uomini procedette all’arresto alle ore 9.00 su v.le Regione Siciliana, altezza P.le Kennedy, a circa 800 metri di distanza dal complesso di via Bernini.

In ordine al motivo per il quale l’arresto non venne eseguito immediatamente ma si aspettò qualche minuto, quando ormai l’auto si era allontanata approssimandosi alla rotonda del Motel Agip, il teste mar.llo Calvi, che si trovava sulla stessa auto con il cap. Sergio De Caprio, ha riferito che ciò avvenne in quanto solo in quel momento maturarono le condizioni di sicurezza per potere intervenire, essendosi venuta a trovare l’auto sulla quale viaggiava il Riina ferma dietro ad altre autovetture.

Il Coldesina, cui nel frattempo era stata data la notizia dell’arresto, ricevette l’ordine di continuare il servizio, che difatti proseguì con le stesse modalità e dunque con la presenza del Di Maggio sino alle ore 16.00, quando gli venne comunicato che un collega sarebbe giunto a prelevare il furgone e li avrebbe riportati in caserma.

I testimoni mar.lli Santo Caldareri e Pinuccio Calvi hanno riferito che quella sera stessa commentarono con il De Caprio quanto era successo ed il capitano espresse l’intenzione di non proseguire il servizio l’indomani, per ragioni di sicurezza per il personale, ed anche – ha riferito il Caldareri – in considerazione del comportamento che aveva tenuto Giuseppe Sansone il giorno prima e delle investigazioni che dovevano essere proseguite nei suoi confronti.

In altre parole c’era l’elevata probabilità che il Sansone scoprisse il dispositivo di osservazione, se fosse stato immediatamente ripristinato il giorno seguente. Come testimoniato da coloro che erano presenti (più avanti citati), quella mattina, nella caserma Buonsignore, la notizia dell’arresto di Salvatore Riina provocò un clima di grande agitazione e fermento che si diffuse rapidamente tra tutti, assieme al comprensibile entusiasmo con cui fu accolta sia da parte dell’Autorità Giudiziaria che delle varie articolazioni dell’Arma, e ad un altrettanto comprensibile stupore per la velocità con cui si era giunti a quel risultato straordinario ed al contempo insperato in così breve tempo.

Anche le modalità che l’avevano reso possibile erano straordinarie, sia perché il Riina non aveva opposto resistenza, sia perché la collaborazione del Di Maggio era iniziata appena sei giorni prima.

SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE DI PALERMO

Perquisire o non perquisire il covo? Gli investigatori si dividono. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE DI PALERMO su Il Domani il 23 gennaio 2023

Fu in quel contesto che iniziarono ad emergere due diverse linee d’azione: quella che sosteneva la necessità di irrompere immediatamente nel complesso di via Bernini; l’altra, sostenuta dal ROS e dal De Caprio in particolare, che invece riteneva si aprisse la possibilità di svolgere ulteriori indagini, sfruttando l’effetto sorpresa...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini

In caserma, quando la notizia iniziò a circolare, accorsero, numeRosissimi, magistrati ed ufficiali dei CC; tra gli uni, il nuovo Procuratore della Repubblica dott. Giancarlo Caselli, che si insediava proprio quel giorno, il procuratore aggiunto dott. Aliquò, i dott.ri Lo Voi, Spallitta, il sostituto procuratore di turno dott. Luigi Patronaggio, tra gli altri, il col. Sergio Cagnazzo ed il comandante della Regione Sicilia gen. Cancellieri, il magg. Mauro Obinu, il comandante del Ros gen. Antonio Subranni, il vice comandante operativo col. Mori, dal quale tutti avevano ricevuto la notizia, e poi i comandanti dei gruppi 1 e 2 del Nucleo Operativo ed, ancora, il cap. Giuseppe De Donno ed il mar.llo Rosario Merenda.

La concitazione di quei momenti, il gran numero di individui che affollava il cortile dove tutti si erano informalmente riuniti e ritrovati, spiega – come riferito da tutti i testimoni che vi presero parte – il perché non si svolse alcuna riunione di carattere formale, sostituita, di fatto, da discussioni, che ormai evidentemente si concentravano “sul che fare ora” e come pRoseguire l’azione di contrasto a “cosa nostra”, e che avvenivano proprio in quel medesimo contesto di luogo, di tempo e di persone.

Fu in quel contesto, dunque, che iniziarono ad emergere e profilarsi, come riferito dalle testimonianze acquisite e come si legge nella nota successivamente scritta dal dott. Caselli in data 12.2.93 (all. f produzione documentale P.M., acquisita all’ud. del 9.5.05), due diverse linee d’azione: quella che sosteneva la necessità di irrompere immediatamente nel complesso di via Bernini, individuare la villa da cui era uscito il latitante e procedere alla sua perquisizione, l’altra, sostenuta dal Ros e dal De Caprio in particolare, che invece riteneva si aprisse la possibilità di svolgere ulteriori indagini, sfruttando l’effetto sorpresa, costituito dal fatto che, essendo stato catturato il boss alla rotonda del motel Agip invece che all’uscita dal complesso di via Bernini, gli altri affiliati a “cosa nostra” non avrebbero potuto mettere in collegamento l’arresto con quel sito e dunque non sarebbero stati in grado di risalire a come i carabinieri erano riusciti a localizzare Salvatore Riina.

LA CONFERENZA STAMPA DI CANCELLIERI

Questa seconda linea fu quella adottata in sede di conferenza stampa, nel corso della quale il generale Cancellieri riferì la versione concordata, secondo cui il Riina era stato intercettato, casualmente, a bordo della sua auto guidata da Salvatore Biondino mentre transitava sul piazzale antistante il Motel Agip. Nessun riferimento venne fatto a via Bernini ed a tutta l’attività che ivi era stata espletata.

Tuttavia – come emerge dalle deposizioni rese, che pure non hanno potuto scandire con chiarezza come si succedettero le varie determinazioni – l’idea di procedere alla perquisizione era tuttora “in piedi” al momento della conferenza stampa, ed anzi il dott. Luigi Patronaggio, in quanto pubblico ministero di turno, già nella mattinata aveva, d’accordo con il dott. Giancarlo Caselli, predisposto i relativi e necessari provvedimenti, così come già era stata disposta la costituzione di due squadre, con gli uomini dei gruppi 1 e 2 del Nucleo Operativo guidati dal magg. Balsamo e dal cap. Minicucci, che avrebbero dovuto procedere dapprima agli accertamenti sui luoghi ed in seconda battuta, una volta individuata la villa, alla perquisizione.

Le squadre, che ormai in tarda mattinata erano pronte, rimasero in attesa, nel cortile della caserma, dell’ordine di partire che tuttavia non arrivava.

A quel punto si era fatta ora di pranzo, per cui i magistrati e gli ufficiali dell’Arma, ad eccezione del col. Cagnazzo, che si era allontanato per occuparsi del trasferimento del Riina in un luogo di sicurezza, e del gen. Subranni, cui spettava la redazione delle comunicazioni da inviare agli organi istituzionali, decisero di fermarsi al circolo ufficiali.

Nel frattempo, subito dopo la conferenza stampa – come dichiarato dal cap. De Donno, da Attilio Bolzoni (ud. 11.7.05) e da Saverio Lodato (ud. 26.9.05) – Giuseppe De Donno, che quella mattina era stato a testimoniare nel processo cd. “mafia-appalti”, era intento a conversare con alcuni giornalisti (Felice Cavallaro del Corriere della Sera, il Bolzoni ed il Lodato).

In questo contesto, ebbe a profferire la frase - poi pubblicata sul Corriere della Sera e da lì ripresa su altre testate - secondo cui “qualcuno per la vergogna sarebbe dovuto andare via da Palermo”, frase che gli esponenti della stampa misero all’epoca in diretto collegamento con l’arresto di Riina e che successivamente - quando ormai sarebbe stato noto che il cd. “covo”, invece di essere perquisito dalle forze dell’ordine, era stato svuotato da ogni cosa ad opera di terzi di fatto lasciati liberi di agire indisturbati – sarebbe stata riletta proprio in correlazione con la vicenda della mancata perquisizione.

In dibattimento, il teste De Donno ha chiarito che in realtà quella frase non aveva alcuna attinenza con l’arresto di Salvatore Riina, vicenda alla quale era rimasto completamente estraneo, ma si riferiva alle indagini condotte dalla sua sezione, che erano sfociate nel rapporto cd. “mafia-appalti”.

I giornalisti ignoravano, invece, che egli non avesse preso parte alle indagini relative alla cattura del Riina e, visto il contesto nel quale il capitano aveva rilasciato quella esternazione, la misero in diretta correlazione con la “notizia del giorno” e, successivamente, con le anomalie che la contraddistingueranno.

SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE DI PALERMO

I magistrati accettano la richiesta del Ros, la perquisizione non si fa. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE DI PALERMO su Il Domani il 24 gennaio 2023

La procura scelse di aderire alle richieste avanzate dal Ros e di assumere il rischio di ritardare la perquisizione, convenendo - ha precisato il dott. Aliquò - di aspettare non oltre le 48 ore. Sul punto, il dott. Caselli fece riferimento all’assicurazione, fornita da ufficiali del Ros il mattino e ribadita specificatamente dal De Caprio nel corso del pranzo, di un “costante ed attento controllo” su tutti i luoghi d’indagine e sul complesso di via Bernini...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini

Invero, considerato il momento temporale nel quale avvenne questo colloquio (tarda mattinata, dopo la conferenza stampa come hanno riferito concordemente i citati testi), appare evidente che il cap. De Donno non potesse certo alludere a circostanze connesse alla mancata perquisizione del cd. “covo”, che ancora non era stata decisa.

Difatti, nello stesso frangente temporale, il cap. Minicucci si trovava nel cortile della caserma, pronto a partire per via Bernini, quando incontrò l’imputato De Caprio, che gli domandò cosa stesse succedendo; gli rispose che aveva ricevuto l’incarico di procedere agli accertamenti sul complesso immobiliare ed alla perquisizione della villa abitata dal Riina, una volta che fosse stata individuata.

L’imputato, che dal punto di vista gerarchico era suo superiore, gli disse di aspettare perché si doveva valutare l’opportunità di procedere all’operazione (cfr. deposizione resa dal Minicucci); quindi si recò al circolo ufficiali, dove si erano riuniti per pranzare sia i magistrati della Procura che gli ufficiali della territoriale e del Ros, e lì ribadì quella che era la linea d’azione che secondo lui andava seguita, già espressa nella mattinata prima della conferenza stampa, ovvero non dare luogo alla perquisizione e sfruttare il fatto che l’arresto del Riina fosse stato fatto apparire come casuale.

La contrapposizione tra i due orientamenti investigativi sopra delineati avvenne, dunque, in due momenti temporali distinti, e cioè sia prima che dopo la conferenza stampa, come si evince chiaramente dalla nota del 12.2.93, inviata dal dott. Caselli sia al Ros che alla territoriale, per richiedere chiarimenti sulla vicenda.

Nella nota, il Procuratore distingue due momenti diversi, riferendo che “nelle ore successive all’arresto del Riina, vari ufficiali dell’Arma, in particolare del Ros, ebbero a manifestare che i vari luoghi di interesse per le indagini, in particolare il complesso immobiliare (di via Bernini), erano sotto costante ed attento controllo e che era assolutamente indispensabile, per non pregiudicare ulteriori importanti acquisizioni, che dovevano consentire di disarticolare la struttura economica e quella operativa facente capo al Riina, evitare ogni intervento immediato, o comunque affrettato”; nel pomeriggio, poi, il De Caprio “addusse le medesime ragioni per richiedere espressamente che non venisse eseguita la perquisizione”, e la richiesta fu accolta.

L’episodio del pranzo, con le frasi che ivi il col. Mori ed il cap. De Caprio ebbero a pronunziare, costituisce evidentemente un punto cruciale per l’esatta ricostruzione dell’intera vicenda, essendo il momento in cui, nella prospettiva accusatoria, si sarebbe manifestato l’inganno da parte degli imputati ovvero, secondo quella difensiva, si sarebbe ingenerato l’equivoco tra, da una parte, l’Autorità Giudiziaria e la territoriale, e, dall’altra, gli imputati.

Pertanto si rende necessario, ai fini di una maggiore intellegibilità della vicenda – sulla quale in questa sede si omette ogni valutazione che sarà esaminata nella parte conclusiva di questa sentenza – riportare esattamente le diverse versioni, per come riferite da ciascun protagonista, in merito ai termini con i quali avvenne questo scambio di opinioni ed a come si pervenne alla decisione finale di non dare più seguito alla perquisizione già predisposta.

DIVERSE VERSIONI

Il dott. Vittorio Aliquò ha dichiarato che ad un certo punto - durante il pranzo cui stavano partecipando numerosi magistrati ed ufficiali dell’Arma in un clima di confusione e di concitazione generale - sopraggiunse Sergio De Caprio il quale manifestò vivo “disappunto” per la decisione che era stata presa di procedere alla perquisizione, aggiungendo che così si rischiava di far fallire tutta l’operazione.

Disse, infatti, che, come avevano fatto in precedenti esperienze, mantenere l’osservazione, senza alcun intervento operativo immediato, avrebbe potuto portare risultati investigativi di gran lunga maggiori, consentendo di scoprire dove il gruppo corleonese avesse i propri interessi economici ed associativi, od individuare eventuali altre persone, anche insospettabili, che si fossero “allertate”, recandosi al complesso, per verificare come le forze dell’ordine erano pervenute all’individuazione del Riina e pianificare eventuali ulteriori azioni criminose da intraprendere. Tale proposta fu condivisa anche dal col. Mori che godeva, come il capitano d’altronde, della massima stima e fiducia degli inquirenti.

Sentimenti che si erano altresì fortificati ed incrementati con l’eccezionale risultato dell’arresto del Riina, evento tanto più eccezionale se parametrato non solo alla “caratura” del personaggio catturato, ma al momento storico in cui era avvenuto, particolarmente critico per le istituzioni umiliate dalle stragi dell’estate precedente, ed alle modalità di luogo e di tempo del tutto particolari con le quali si era realizzato, nella città di Palermo, senza neppure la necessità di intraprendere un conflitto armato, appena sei giorni dopo il concreto avvio delle indagini costituito dalle rivelazioni del Di Maggio.

Si poneva, dunque, una delicata scelta di politica investigativa, tra l’agire subito ovvero ritardare ogni iniziativa diretta sul sito, per mantenerlo sotto osservazione in attesa di auspicabili sviluppi ancora più soddisfacenti.

La procura scelse di aderire alle richieste avanzate dal Ros e di assumere il rischio di ritardare la perquisizione, convenendo - ha precisato il dott. Aliquò - di aspettare non oltre le 48 ore.

Sul punto, il dott. Caselli ha dichiarato in dibattimento che il perimetro dei suoi ricordi è solo quello cristallizzato nella nota redatta il 12.2.93, ove fece riferimento all’assicurazione, fornita da ufficiali del Ros il mattino e ribadita specificatamente dal De Caprio nel corso del pranzo, di un “costante ed attento controllo” su tutti i luoghi d’indagine e sul complesso di via Bernini in merito ai quali, nella prospettazione del Ros, “era assolutamente indispensabile, per non pregiudicare ulteriori importanti acquisizioni, che dovevano consentire di disarticolare la struttura economica e quella operativa facente capo al Riina, evitare ogni intervento immediato, o comunque affrettato”. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE DI PALERMO

Il piano di ”Ultimo”: indagare sui Sansone e sui suoi complici. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE DI PALERMO su Il Domani il 25 gennaio 2023

La scelta del Ros fu quella di “far raffreddare i luoghi”, in attesa di una ripresa delle attività investigative quando le condizioni di recuperata “tranquillità” dell’area lo avessero consentito, e, cioè, quando i Sansone avessero ripreso i loro normali contatti, cosa che però non avvenne mai...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini

Il medesimo dott. Caselli, tuttavia, non ha saputo precisare i termini di tale rinvio e, difatti, non venne concordato un preciso momento finale, trascorso il quale, in difetto di nuove acquisizioni investigative provenienti dall’osservazione del complesso, si sarebbe dovuto procedere alla perquisizione, ma tale valutazione fu rimessa all’esito degli sviluppi dell’operazione che – si credeva – il Ros avrebbe portato avanti.

Operazione complessa, “che voleva i suoi tempi” – ha dichiarato il dott. Caselli – atteso lo stato dei luoghi (non era noto da quale villetta, delle numerose ivi esistenti, fosse uscito il Riina) e la “ben ipotizzabile presenza di pezzi dell’organizzazione nei pressi e nei dintorni”.

Che la rivalutazione della decisione di soprassedere all’immediata perquisizione fosse affidata a quelle che sarebbero state le risultanze dell’operazione condotta dal Ros è stato confermato anche dal magg. Domenico Balsamo, il quale ha riferito che, quando ormai erano state approntate le squadre che avrebbero dovuto procedere alla perquisizione, sopraggiunse il De Caprio, dicendo che sarebbe stato più utile sfruttare il vantaggio costituito dal fatto che il collegamento tra il Riina e via Bernini non era stato reso noto e, quindi, proseguire l’osservazione ed il controllo sul complesso.

A suo dire, in questo modo, sarebbe stato possibile anche arrivare al cuore degli interessi economici di “cosa nostra” e disarticolare la struttura imprenditoriale facente capo ai Sansone che di quella costituiva proiezione diretta nel circuito affaristico.

Il magg. Mauro Obinu, all’epoca dei fatti comandante del reparto criminalità organizzata del Ros, ha riferito che nell’occasione del pranzo si profilarono due prospettive di lavoro, quella “a caldo”, sostenuta da qualche magistrato e dai suoi colleghi della territoriale, che voleva entrare subito nel comprensorio di via Bernini e vedere cosa si sarebbe trovato, l’altra, da lui stesso sostenuta assieme al De Caprio, che propugnava, in modo peraltro fedele allo spirito iniziale delle attività investigative, di astenersi da alcun movimento sul territorio, al fine di sviluppare un’attività d’indagine di medio-lungo periodo sull’obiettivo Sansone, che sin dall’inizio era stato l’oggetto del servizio di osservazione svolto in via Bernini.

Ciò nell’intento di giungere alla destrutturazione della leadership corleonese, attraverso l’intelligente sfruttamento di quel dato – via Bernini in correlazione con gli imprenditori Sansone – che “cosa nostra” ignorava fosse stato acquisito al loro patrimonio informativo.

Nei giorni seguenti, ha aggiunto il teste, la scelta del Ros fu quella di “far raffreddare i luoghi”, in attesa di una ripresa delle attività investigative quando le condizioni di recuperata “tranquillità” dell’area lo avessero consentito, e, cioè, quando i Sansone avessero ripreso i loro normali contatti, cosa che però non avvenne mai perché le perquisizioni al cd. “fondo Gelsomino” del 21.1.93 ed a “Casa del Sole” vanificarono, a suo dire, questi intenti, così come le iniziative giudiziarie che condurranno ai primi di febbraio all’arresto dei Sansone.

In quest’ottica – ha precisato il teste – appariva scontato, e come tale non fu oggetto di alcuna specifica discussione né con il De Caprio né con altri, che non sarebbe stato possibile proseguire il servizio di osservazione con quelle modalità con le quali si stava ancora svolgendo quello stesso 15.1.93.

IMPOSSIBILE RIPOSIZIONARE IL FURGONE DELLA SORVEGLIANZA

Difatti, la conformazione dei luoghi (via Bernini presentava un andamento lineare in quel tratto, con auto parcheggiate su entrambi i lati), le caratteristiche del comprensorio (era visibile solo la cancellata di ingresso per le auto e non le singole unità immobiliari), la sua ubicazione nella zona Uditore della città, sottoposta al controllo sistematico del territorio da parte della famiglia mafiosa di appartenenza, rendeva evidente l’impossibilità di replicare, il giorno dopo l’eclatante cattura del boss corleonese, il servizio riposizionando il furgone di fronte all’ingresso del complesso.

La presenza di tale mezzo, estraneo a quelli solitamente presenti sulla via, sarebbe stata senz’altro notata – ha concluso il teste – vanificando ogni futura proiezione investigativa. Date queste premesse, il magg. Obinu ha anche negato che il De Caprio avesse motivato la proposta di non procedere alla perquisizione con il fatto che contava di vedere chi sarebbe venuto a prelevare i familiari del Riina; quanto al fatto relativo alla dismissione del servizio, ha aggiunto che ne venne a conoscenza nella serata dello stesso 15 gennaio od il giorno seguente, senza essere in grado di specificare altro.

Alla domanda se l’Autorità Giudiziaria avesse condiviso questo piano operativo di indagine strutturato sul lungo periodo, richiedendo però nel contempo al Ros anche l’espletamento di un’attività di osservazione su via Bernini e se il raggruppamento avesse assicurato che avrebbe svolto tale servizio, il teste ha risposto che la linea operativa fu autorizzata dalla magistratura con “l’ovvia necessità di mantenere un velo di contatto” con l’area di via Bernini, contatto inteso come mantenimento della presenza del furgone sul posto sino a quando fosse stato ritenuto possibile.

Il gen. Giorgio Cancellieri, comandante della Regione carabinieri Sicilia all’epoca dei fatti, ha riferito che, nelle prime ore del pomeriggio del 15 gennaio 1993, il cap. De Caprio richiese di non andare a modificare la linea che era stata seguita nella conferenza stampa, ovvero di procastinare la perquisizione per non danneggiare le indagini che il Ros stava svolgendo; si parlò, in quell’occasione, di accertamenti che andavano condotti sul patrimonio e su una serie di società aventi sede nel complesso residenziale di via Bernini.

Il cap. Marco Minicucci ha dichiarato che l’imputato De Caprio, dopo averlo bloccato nel cortile della caserma dove si trovava già pronto a partire per l’irruzione al complesso, tornò dicendogli che era stata presa la decisione di rinviare la perquisizione, per non pregiudicare le attività di osservazione in corso e le investigazioni sui Sansone che erano ancora aperte.

Il col. Sergio Cagnazzo, che non era presente al pranzo in quanto stava predisponendo il trasferimento del Riina in un carcere di sicurezza, ha riferito di aver saputo dal magg. Balsamo e dal cap. Minicucci che era stata presa la decisione di rinviare la perquisizione per sfruttare il successo che si era ottenuto con l’arresto e continuare l’attività investigativa, vedendo chi si sarebbe recato al complesso.

L’imputato De Caprio ha riferito, in proposito, che chiese, già nella mattina e poi di nuovo al pranzo, dopo avere incontrato il cap. Minicucci, di non procedere alla perquisizione perché avrebbe “bruciato” l’indagine sui Sansone, la cui utenza in via Bernini continuava ad essere intercettata, rendendo noto a “cosa nostra” l’esistenza di un collaboratore, che doveva aver fornito il nominativo degli imprenditori, altrimenti sconosciuti alle forze dell’ordine, attraverso cui si era arrivati al complesso immobiliare ed alla cattura del Riina.

L’esigenza primaria – a suo avviso – era garantire la segretezza della collaborazione del Di Maggio ed avviare anche sui Sansone un’indagine a medio-lungo termine, analoga a quella già in corso sui Ganci, in modo da arrivare, tramite i primi, a disarticolare l’intera struttura che faceva capo al Riina e così colpire gli interessi economici del gruppo criminale. Nessuno gli rappresentò una volontà diversa, ed anzi sia i magistrati che gli ufficiali dell’Arma presenti concordarono con lui sulla necessità di proseguire l’indagine, per cui la decisione di effettuare la perquisizione fu annullata.

In aderenza al suo progetto investigativo, che riteneva evidente a tutti in quanto era nota a tutti l’importanza per le indagini degli imprenditori, assicurò di proseguire l’attività di osservazione e controllo sui Sansone, cosa ben diversa e più ampia del servizio di osservazione visiva sul complesso di via Bernini.

Tra l’altro, erano note le caratteristiche morfologiche della strada, che già aveva impedito di collocare telecamere fisse – in quanto era priva di supporti adeguati ad ospitare ed occultare efficacemente mezzi di video ripresa – e che non consentivano – per la limitata ampiezza della carreggiata nonché l’ampia visibilità delle auto che si fossero parcheggiate in prossimità del civico nn. 52/54 – di farvi rimanere posizionato il furgone per un tempo prolungato e continuato, la cui presenza sarebbe stata senz’altro notata da esponenti dell’organizzazione, resi vieppiù attenti ed accorti dalla cattura del Riina.

L’imputato non ha escluso che, nella concitazione di quei momenti e nella foga di quelle discussioni, si sia parlato anche, in modo generico, di vedere dove sarebbero andati non tanto la moglie del boss, che non aveva uno specifico rilievo per le investigazioni, quanto l’autista Vincenzo De Marco, ma poi, nel pomeriggio, realizzò che per quel giorno non si poteva fare di più e che, dopo la diffusione da parte dei mezzi di informazione della notizia sull’arresto, era fortissimo il rischio che il furgone, a bordo del quale c’era pure il collaboratore, venisse notato. Le condizioni di sicurezza erano a suo avviso compromesse, per cui decise di fare rientrare il mezzo e di sospendere, per il giorno seguente, l’attività. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE DI PALERMO

Equivoci e disguidi, la sorveglianza del covo è sospesa ma nessuno lo sa. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE DI PALERMO su Il Domani il 26 gennaio 2023.

Sia la territoriale che la Procura rimasero convinte che il Ros proseguisse quella “osservazione”, sia pure non esattamente conosciuta nelle sue modalità tecniche, che aveva iniziato il 14 gennaio 1993 e che il 15 aveva portato all’arresto del Riina. Invece, come detto, nel pomeriggio di quella stessa giornata, alle ore 16.00, il furgone con a bordo l’app.to Coldesina e Baldassare Di Maggio faceva rientro in caserma su ordine dell’imputato De Caprio, ed il servizio non venne più riattivato.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini

Il 16 gennaio accadde un fatto nuovo, e difatti il predetto De Caprio vide in televisione diverse troupes di giornalisti che passavano davanti al cancello del complesso di via Bernini alla ricerca del cd. “covo”.

Ne rimase sconcertato, ma ciò valse, da una parte, a confermargli l’esattezza della decisione che aveva preso nel pomeriggio precedente di non riattivare il servizio con il furgone l’indomani, che altrimenti sarebbe stato certamente scoperto, dall’altra, a consolidare questa sua decisione, determinandolo a non ripristinarlo neppure i giorni successivi, in attesa che “si calmassero le acque” per poi avviare l’attività di indagine dinamica, mediante pedinamenti ed osservazione con mezzi di video ripresa, mirata sui Sansone.

Al riguardo l’imputato ha dichiarato che non comunicò ad alcuno la sua decisione, che riteneva fisiologica alla scelta investigativa già fatta il giorno dell’arresto del Riina, neppure al proprio superiore Mario Mori con il quale ne parlò solo a fine gennaio.

Nel frattempo, il suo gruppo completò gli accertamenti patrimoniali e societari già iniziati prima dell’arresto, i cui esiti furono relazionati alla procura della Repubblica con nota del 26.1.93; fu impegnato nella redazione delle relazioni di servizio in merito alle videoriprese effettuate il 14 ed il 15 gennaio; si occupò della individuazione dei soggetti sconosciuti che erano stati visti accedere al complesso di via Bernini, nonché degli accertamenti relativi alla localizzazione dell’altra villa di cui aveva parlato il Di Maggio, situata in via Leonardo Da Vinci, che però non fu possibile individuare.

L’attività dinamica sui Sansone, tuttavia, non venne mai intrapresa, a causa – ha dichiarato l’imputato – del precipitare degli eventi e, cioè, dell’ulteriore fattore di disturbo costituito dalla perquisizione del cd. “fondo Gelsomino”, avvenuta in data 21.1.93.

L’imputato Mori, in sede dichiarazioni spontanee, ha ribadito le stesse argomentazioni: una volta catturato Salvatore Riina, l’attenzione investigativa del Ros si concentrò sui Sansone, attraverso i quali si confidava di poter arrivare a destrutturare tutto il gruppo corleonese; la perquisizione al complesso di via Bernini avrebbe svelato agli uomini di “cosa nostra” il fatto che gli imprenditori erano stati individuati; era noto sia all’Autorità giudiziaria che ai reparti territoriali che dal punto di osservazione in cui era stato possibile collocare il furgone si era in grado di vedere solo il cancello del complesso e non all’interno; dunque, in ogni caso, non sarebbe stato possibile osservare chi si fosse recato alla villa del Riina né quali attività vi avesse svolto; era altresì noto che lo stato dei luoghi non consentiva di lasciare a lungo posizionato sulla via un mezzo estraneo, quale il furgone, perché sarebbe stato notato.

Quanto alle indagini sui Sansone, ordinò la costituzione di un gruppo “ad hoc” che avrebbe dovuto essere diretto dal cap. De Donno, il quale, come confermato da quest’ultimo in dibattimento, non ebbe mai il tempo di entrare in attività, a causa delle iniziative intraprese dall’Autorità Giudiziaria sull’obiettivo, che vanificarono quello che doveva essere il loro metodo di indagine, basato sull’osservazione a lungo termine.

Tale prospettazione si ritrova esplicitata anche nella nota del 18.2.93 (all. h doc. pm), inviata da col. Mario Mori al Procuratore dott. Caselli, in risposta alla richiesta di chiarimenti che gli era stata avanzata da quest’ultimo, ove si legge che “nelle ore successive all’arresto in effetti tutti gli ufficiali dipendenti da questo Ros presenti in Palermo, lo scrivente, Magg. Mauro Obinu, Cap. Giovanni Adinolfi, Cap. Sergio De Caprio, suggerivano la necessità, dettata da una logica investigativa di agevole comprensione, di far apparire l’arresto come un’azione episodica in modo da consentire la successiva osservazione ed analisi della struttura associativa esistente intorno ai fratelli Sansone”, per cui “veniva ritenuto contrario allo scopo qualunque intervento sull’obiettivo localizzato nel civico n. 54 di via Bernini.

Tale attività, per motivi di opportunità operativa ed anche di sicurezza, veniva sospesa in attesa di una successiva riattivazione, allorché, le condizioni ambientali lo avessero consentito in termini di mimetismo. Quando cioè, dopo alcuni giorni, vi fosse stata la ragionevole certezza che il dispiegamento sul territorio di un pertinente dispositivo di osservazione e pedinamento non avrebbe allarmato eventuali “osservatori” di Cosa Nostra, certamente attivati dopo la cattura di Riina.

Atteso, peraltro, che l’utenza del Sansone continuava, con altre, ad essere tenuta sotto controllo. Appariva scontato, per un sempre più incisivo prosieguo dell’azione di contrasto al gruppo corleonese, come l’interesse superiore fosse quello di lasciare “muovere” per un periodo di media durata i fratelli Sansone, al fine di potere successivamente verificare sotto l’aspetto dinamico i loro contatti e lo svolgersi delle (loro) attività nell’intento di acquisire ulteriori ed originali elementi di investigazione per smantellare l’intera struttura”.

UN’INDAGINE MAI AVVIATA

Sui motivi per cui tale indagine, di tipo dinamico, non fu poi in effetti avviata, si legge che “una inopinata fuga di notizie sui luoghi e sui personaggi imponeva una accelerazione dei tempi di intervento sui Sansone che ha nociuto all’iniziale piano di contrasto, in quanto le investigazioni avrebbero dovuto essere improntate sulla distanza”, concludendo che si era trattato di un equivoco, causato dalle “successive necessarie varianti sui tempi di realizzazione e sulle modalità pratiche di sviluppo, sulla cui professionalità d’attuazione garantisco di persona”.

Circa il servizio di osservazione su via Bernini, nella medesima nota si dà atto che in effetti vi fu la “mancata, esplicita comunicazione all’A.g. competente della sospensione dei servizi di sorveglianza su via Bernini”, aggiungendo che anche questa circostanza “va inserita in tale quadro, poiché chi ha operato ha sicuramente inteso di potersi muovere in uno spazio di autonomia decisionale consentito”.

In definitiva, la decisione, da tutti condivisa, di non effettuare la perquisizione fu assunta, nella ricostruzione che ne danno i diretti protagonisti, sulla base di presupposti tra loro antitetici: quello della continuazione del servizio di osservazione sul complesso di via Bernini, nelle valutazioni della Procura della Repubblica e dell’Arma territoriale; quello della pianificazione di un’attività di indagine a medio-lungo termine da intraprendere una volta “raffreddato” il luogo, nelle argomentazioni del Ros.

Il primo, supportato dalla considerazione di carattere logico, poi confermata dai fatti di successiva realizzazione, che avesse senso omettere la perquisizione se ed in quanto si continuasse a video riprendere il residence; il secondo motivato, invece, dalle considerazioni legate alle modalità tecniche di esecuzione del servizio ed allo stato dei luoghi, che ne avrebbero reso impossibile la reiterazione nei giorni seguenti in condizioni di sicurezza, nonché dalla finalità, asseritamente perseguita, di voler sviluppare indagini nel lungo periodo sul circuito associativo dei Sansone.

Per gli uni, l’attività di osservazione non poteva che consistere nella prosecuzione di quella già in atto, ovvero del contatto visivo con l’area di interesse; per gli altri, secondo le riferite argomentazioni difensive, l’osservazione andava, invece, intesa in senso lato e più ampio, come controllo e sorveglianza dell’obiettivo investigativo in un ambito temporale prolungato, nel quale il contatto visivo con il sito era un elemento certamente essenziale ma che poteva essere rinviato a quando le condizioni ambientali fossero divenute favorevoli, consentendone l’utile e sicura ripresa.

Appare decisivo, al riguardo, accertare anche se fu spiegato all’Autorità Giudiziaria quale tipo di importanti acquisizioni si sarebbero potute ottenere con l’attività che il Ros si riprometteva di intraprendere.

In proposito, i vari soggetti direttamente coinvolti hanno dichiarato che valutarono la possibilità che qualcuno si recasse al complesso di via Bernini a prelevare i familiari del Riina, ad esempio lo stesso Leoluca Bagarella in quanto fratello di “Ninetta”, o che, comunque, vi si recassero altri affiliati per riunirsi e decidere che fare dopo la cattura del boss, ma nessuno ha saputo riferire, con certezza, se anche gli imputati espressero tali considerazioni.

LA PROCURA ATTENDE AGGIORNAMENTI

Ed anzi, in merito al tipo di esiti che si contava di acquisire e, dunque, specularmente, al tipo di servizio tecnico che il Ros avrebbe dovuto svolgere, il dott. Caselli ha risposto chiarendo che non se ne parlò affatto, nello specifico.

Questo in quanto – ha aggiunto – lo spazio di autonomia decisionale ed operativa lasciato ai membri del raggruppamento era amplissimo, sia perché il profilo tecnico di esecuzione delle attività di investigazione era rimesso alla loro precipua competenza quali organi di polizia giudiziaria, sia per ragioni di sicurezza legate all’eventualità di trovarsi coartato, in eventuali frangenti di privazione della libertà personale, a rivelare notizie sulle operazioni in corso.

Il dott. Aliquò ha dichiarato di conoscere che, a seguito delle dichiarazioni del Di Maggio, il Ros aveva avviato accertamenti sui Sansone, nell’ambito delle attività mirate alla ricerca dei grandi latitanti, poi individuandoli in via Bernini, ma questa indagine era autonoma – nella sua valutazione – rispetto a quella sul Riina, per cui, quando la procura, nella mattinata del giorno dell’arresto, diede le iniziali disposizioni per procedere alla perquisizione aveva “accantonato l’idea che potessero influirsi reciprocamente”, anche perché, nonostante l’ubicazione nello stesso complesso, non si sapeva quale fosse la distanza tra la villa abitata dai Sansone e quella del Riina.

In definitiva, l’Autorità Giudiziaria non considerò affatto che la perquisizione avrebbe inciso negativamente sull’indagine in merito ai Sansone, la cui utenza telefonica era peraltro sottoposta ad intercettazione.

Sulle modalità dell’osservazione, il teste ha riferito che: nei giorni precedenti la cattura del boss, doveva essere il 13 gennaio, parlò con la prima sezione di come dovesse svolgersi il servizio di osservazione su via Bernini, suggerendo di mettere una o più telecamere fisse sui pali dell’elettricità o da qualche altra parte, ma gli fu risposto che era impossibile perché sarebbero state scoperte; per tale ragione bisognava dunque utilizzare il furgone, ma anche questo – gli fu detto dal Ros – era molto rischioso.

D’altronde, sin dall’avvio dell’indagine mirata alla ricerca del latitante in seguito alle dichiarazioni del Di Maggio, aveva sempre raccomandato che tutte le operazioni si svolgessero con la massima attenzione per l’incolumità del personale, considerato che il Riina non era un personaggio qualunque per cui i rischi erano enormemente superiori rispetto ad altre indagini.

Tuttavia, da quel giorno, non furono più affrontati né l’argomento relativo al servizio di osservazione né il problema della sicurezza del personale e, difatti, ha dichiarato il dott. Aliquò, da quel 13 gennaio non ebbe mai più occasione di riparlarne.

Sia il dott. Aliquò che il dott. Caselli hanno, inoltre, riferito che, per quanto a loro conoscenza, questi servizi riguardavano diversi siti e non solo via Bernini.

Il primo ha precisato che tutti i luoghi di cui il Di Maggio aveva parlato, risultati ancora “attivi” cioè abitati (perché molti in realtà risultarono essere ormai ruderi abbandonanti), erano sottoposti ad osservazione, fosse essa diretta oppure a mezzo di apparecchiature di video ripresa, nei giorni precedenti alla cattura di Riina.

Ma anche dopo l’evento si riteneva che fossero sotto sorveglianza, come esplicitato nella nota del dott. Caselli portante la data del 12.2.93, ove si legge che il Ros ebbe a manifestare quel 15.1.93 che “i vari luoghi di interesse per l’indagine” erano “sotto costante e attento controllo”.

In realtà – per quanto risulta dalle acquisizioni processuali - l’area di via Bernini fu l’unica ad essere oggetto dell’osservazione del Ros, eccettuato il servizio del 14 gennaio 1993 sul cd. “fondo Gelsomino”, mentre sugli altri siti furono condotte solo attività di sopralluogo.

D’altronde, le modalità con le quali il raggruppamento effettuava i servizi di propria pertinenza erano sconosciute pure agli altri organi investigativi chiamati ad operare direttamente sul campo, quale il Nucleo Operativo nelle persone del magg. Balsamo, che pure aveva visto i filmati relativi alle video riprese di via Bernini, ma che solo successivamente apprese che non era stata utilizzata una telecamera fissa esterna, bensì un furgone attrezzato con telecamera, e del cap. Minicucci, che, addirittura, ignorava fosse stata utilizzata una telecamera e riteneva che l’osservazione fosse stata di tipo diretto.

In definitiva, sia la territoriale che la Procura rimasero convinte che il Ros proseguisse quella “osservazione”, sia pure non esattamente conosciuta nelle sue modalità tecniche, che aveva iniziato il 14 gennaio 1993 e che il 15 aveva portato all’arresto del Riina. Invece, come detto, nel pomeriggio di quella stessa giornata, alle ore 16.00, il furgone con a bordo l’app.to Coldesina e Baldassare Di Maggio faceva rientro in caserma su ordine dell’imputato De Caprio, ed il servizio non venne più riattivato.

Nei giorni immediatamente successivi, i militari Coldesina, Riccardo Ravera, Pinuccio Calvi ed Orazio Passante rientrarono in sede a Milano.

I magistrati, invece, che erano rimasti in attesa degli sviluppi dell’operazione, non ricevettero più alcuna notizia ed anzi cominciarono a circolare in procura dubbi e perplessità sull’operato del Ros, in conseguenza del rientro della Bagarella a Corleone e del prolungato silenzio sugli esiti del servizio di osservazione.

SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE DI PALERMO

Il clamoroso ritorno a Corleone di Ninetta Bagarella insieme ai figli. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE su Il Domani il 27 gennaio 2023

Il giorno 16 gennaio 1993 accaddero altri due fatti che avrebbero condizionato il successivo decorso degli eventi. Salvatore Certa, all’epoca dirigente del commissariato di Corleone, ha riferito in dibattimento di aver appreso quel giorno, dal tenore delle conversazioni telefoniche intercettate sulle utenze della casa abitata dai familiari del Riina, che la Bagarella con i figli aveva fatto ritorno in paese, come in effetti verificò...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini

Il giorno 16 gennaio 1993 accaddero altri due fatti che avrebbero condizionato il successivo decorso degli eventi.

Salvatore Certa, all’epoca dirigente del commissariato P.S. di Corleone, ha riferito in dibattimento di aver appreso quel giorno, dal tenore delle conversazioni telefoniche intercettate sulle utenze della casa abitata dai familiari del Riina, che la Bagarella con i figli aveva fatto ritorno in paese, come in effetti verificò procedendo alla loro identificazione presso gli uffici del commissariato.

La notizia fu immediatamente comunicata per via telefonica al dott. Aliquò (v. sua deposizione), che richiese oralmente al col. Curatoli di avviare degli accertamenti in merito, rimasti senza esito.

L’indomani il procuratore aggiunto prese parte, con il dott. Caselli e diversi ufficiali dell’arma territoriale, ad una riunione nel corso della quale questi ultimi manifestarono alcune perplessità, in considerazione del fatto che il Ros non aveva comunicato l’allontanamento della Bagarella dal sito di via Bernini.

Le medesime perplessità cominciarono a circolare anche tra alcuni sostituti procuratori, come testimoniato dal dott. Luigi Patronaggio (ud. 26.9.05), secondo il quale quell’episodio suonò come un primo “campanello d’allarme”.

Tuttavia, la fiducia nel Ros e nella persona di Mario Mori era assoluta, così come la convinzione che il complesso fosse sotto controllo, tanto che il dott. Caselli concluse quella riunione dicendo che bisognava lasciare altro spazio agli investigatori che stavano lavorando, e vedere cosa succedeva. Sempre quel 16.1.93 diversi giornalisti, tra cui Alessandra Ziniti ed Attilio Bolzoni – come da loro deposto in dibattimento all’udienza dell’11.7.05 - ricevettero da parte dell’allora magg. Roberto Ripollino una telefonata con la quale quest’ultimo gli rivelò che il luogo in cui Salvatore Riina aveva trascorso la sua latitanza era situato in Via Bernini, senza però specificarne il numero civico.

Si recarono, quindi, immediatamente sul posto, ove furono raggiunti anche da altri giornalisti e troupes televisive, tutti alla ricerca del cd. “covo”.

Quella sera stessa la Ziniti mandò in onda, sulla televisione locale per la quale lavorava, un servizio nel quale mostrava le riprese di via Bernini e tra queste anche quella relativa al complesso situato ai nn. 52/54, aggiungendo che in base ad “indiscrezioni” che le erano pervenute quella era la zona ove il Riina aveva abitato.

Lo stesso 16.1.93 apparve sulla stampa la notizia che “un siciliano di nome Baldassarre” stava collaborando con i carabinieri ed aveva dato dal Piemonte, ove si era trasferito, un input fondamentale alla individuazione del Riina (cfr. lancio Ansa acquisito all’udienza del 9.1.06).

Posto dinnanzi a queste risultanze di fatto, il magg. Roberto Ripollino – escusso all’udienza del 21 novembre 2005 – ha dichiarato che all’epoca dei fatti era addetto all’ufficio Operazioni Addestramento Informazioni e Ordinamento (Oaio) del comando Regione Carabinieri Sicilia, il quale aveva competenze meramente gestionali, a livello regionale, in merito ai fenomeni criminali ed alle operazioni condotte sul territorio, con compiti informativi all’interno del comando.

A seguito dell’arresto del Riina, ricevette dal comando l’incarico di gestire i rapporti con i giornalisti accreditati (diverse decine) che contattò telefonicamente in occasione della prima conferenza stampa e di tutte quelle che ne seguirono.

Interrogato specificatamente in merito alle telefonate effettuate il 16 gennaio, il teste ha precisato di avere solo un ricordo generale di continui contatti con i giornalisti, ma di non ricordare la circostanza contestata né di aver fornito l’indicazione su via Bernini come possibile sito di localizzazione del “covo” del Riina, e difatti non conosceva tale via, in quanto gli era stato detto solo che il Riina era stato catturato in pRossimità del motel Agip.

Se pure avesse dato tale indicazione – ha dichiarato in sede di indagini preliminari e confermato in dibattimento – non potrebbe che averlo fatto in esecuzione di specifiche disposizioni impartitegli dal suo superiore col. Sergio Cagnazzo il quale, tuttavia, ha negato, in dibattimento, di avergli mai dato ordine in tal senso, aggiungendo che non era certamente interesse di nessuno “bruciare” il sito di via Bernini.

Il gen. Cancellieri ha, sul punto, dichiarato di non essere mai stato a conoscenza di tale fuga di notizie, che avrebbe appreso solo nel corso della sua deposizione nel presente dibattimento.

L’imputato De Caprio ha, invece, dichiarato di avere visto in televisione, quello stesso 16.1.93, un servizio che mostrava il cancello del complesso di via Bernini, apprendendo così che la notizia era in qualche modo filtrata, e di avere commentato la cosa con il proprio collaboratore mar.llo Santo Caldareri, dicendogli che il sito era stato “bruciato”; circostanza che ha trovato conferma nella deposizione resa dallo stesso Caldareri.

SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE

Indagini senza più informazioni sul covo e il diario di un procuratore. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE su Il Domani il 28 gennaio 2023.

Sino a quel momento il Ros ed il Nucleo Operativo, per esigenze di coordinamento delle indagini e di scambio di informazioni, avevano avuto contatti continui ed erano stati coinvolti, con cadenza quotidiana, in riunioni operative; dopo la cattura ciascuno si concentrò sulle attività di propria competenza e tra i due organismi il flusso di notizie e comunicazioni si interruppe. Così come, parimenti, cessò ogni contatto anche tra i magistrati e Sergio De Caprio

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini

Altro elemento di fatto che l’istruzione dibattimentale ha consentito di accertare è che Sergio De Caprio, dal giorno dell’arresto di Riina, non partecipò più ad alcuna riunione né con l’Autorità Giudiziaria in Procura né con l’Arma territoriale.

Difatti, mentre sino a quel momento il Ros ed il Nucleo Operativo, per esigenze di coordinamento delle indagini e di scambio di informazioni, avevano avuto contatti continui ed erano stati coinvolti, con cadenza quotidiana, in riunioni operative, dopo la cattura ciascuno si concentrò sulle attività di propria competenza e tra i due organismi il flusso di notizie e comunicazioni si interruppe. Così come, parimenti, cessò ogni contatto anche tra i magistrati e l’imputato.

Va qui precisato che l’annotazione in senso contrario riportata nella comunicazione del 12.2.93 a firma del dott. Caselli, laddove menziona una riunione del 20.1.93 nel corso della quale il cap. De Caprio avrebbe suggerito, unitamente ad altri colleghi della territoriale, di effettuare al più presto la perquisizione al cd. “fondo Gelsomino” “al fine di deviare l’attenzione dall’obiettivo reale delle indagini al quale – fu detto – alcuni giornalisti erano ormai arrivati assai vicini e che invece conveniva tenere ancora sotto controllo”, si è rivelata erronea.

In proposito, deve rilevarsi che per la redazione di quella nota il dott. Caselli si basò su un appunto manoscritto redatto dal dott. Aliquò - che ne ha riconosciuto la paternità in dibattimento - il 7 o l’8 febbraio 1993, quando, eseguita la perquisizione ed appurato che il cd. “covo” di Riina era stato svuotato da ignoti, si pose il problema di chiedere all’Arma ed al Ros chiarimenti su quanto era accaduto.

Fu allora che il procuratore aggiunto, che aveva partecipato a tutte le riunioni operative, redasse, a mano, un diario degli avvenimenti nonché la bozza della lettera per il dott. Caselli, utilizzando quelli che erano i suoi ricordi ed i dati contenuti in una nota dattiloscritta elaborata, sempre successivamente agli eventi, dai colleghi sostituti procuratori.

Documenti a loro volta contenenti alcuni dati erronei, come l’istruzione dibattimentale ha consentito di accertare.

In merito alla riunione in oggetto, è stato provato – sulla base di quanto riferito concordemente da tutti testi di seguito nominati - che non vi partecipò personalmente il dott. Caselli ma il dott. Aliquò, e che vi prese parte solo l’Arma territoriale nelle persone del gen. Cancellieri, del col. Cagnazzo e del cap. Minicucci. Fu proprio il col. Cagnazzo a suggerire - avendo appreso da notizie di stampa che i giornalisti stavano battendo la zona di via Bernini alla ricerca del cd. “covo” - di effettuare quella perquisizione a scopo diversivo. Valutazione che venne accolta e condivisa dall’Autorità Giudiziaria e che portò, il giorno seguente (21.1.93), all’esecuzione ex art. 41 TULPS dell’operazione, con grande clamore e dispiegamento di mezzi per garantirne la più ampia pubblicità.

Anche l’annotazione manoscritta del dott. Aliquò non menziona, tra i partecipanti, gli imputati; in proposito però l’allora procuratore aggiunto ha dichiarato, in dibattimento, che qualcuno del raggruppamento doveva essere presente e ciò non per un suo preciso ricordo – inesistente sul punto – ma perché, comunque, il raggruppamento non poteva non esserne informato. Deduzione di carattere logico che è stata espressa anche dal gen. Cancellieri, secondo cui la territoriale era “servente” rispetto al Ros in quell’operazione e che vale a spiegare come mai il cap. De Caprio fu indicato come presente nella lettera del 12.2.93, quando invece non lo era.

Neppure vi partecipò il col. Mori che quel giorno alle ore 13.00 fece rientro da Palermo a Roma (cfr. consuntivo dei servizi fuori sede depositato dalla difesa), della cui presenza, difatti, non ha riferito alcuno.

Il Ros, nella persona del magg. Mauro Obinu – come ha riferito in dibattimento - era a conoscenza dei preparativi della perquisizione, ma non partecipò alla riunione che la deliberò, non condivise la decisione che ne scaturì e non prese parte all’operazione, che fu eseguita solo dalla territoriale.

La finalità dell’iniziativa – ha riferito il gen. Cancellieri – era duplice, ovvero investigativa, tenuto conto che il fondo “Gelsomino” era stato sempre considerato uno degli obiettivi dell’indagine, avendone parlato il Di Maggio come uno dei luoghi che il Riina aveva frequentato, e di depistaggio della stampa, che proprio per questo fu preavvertita della perquisizione dal magg. Ripollino.

SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE

Mori e i suoi uomini, un reparto molto speciale e “indipendente”. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE su Il Domani il 29 gennaio 2023

In merito a questi ultimi, nei giorni successivi all’arresto, il cap. De Donno ricevette l’incarico da parte del vicecomandante operativo Mori di costituire un gruppo, con componenti sia del Ros che della territoriale, che avrebbe dovuto occuparsi di indagare in via esclusiva sulla struttura economico- imprenditoriale dei Sansone e sugli interessi riconducibili a “cosa nostra”, ma non ebbe il tempo di avviare, dal punto di vista operativo, le attività in quanto, come detto, ai primi di febbraio i Sansone furono arrestati

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini

Sempre il gen. Cancellieri ha aggiunto che in considerazione di quella finalità investigativa, quando si scoprirà che non vi era alcun servizio di osservazione in atto su via Bernini, non avvertì la necessità di riparlare della perquisizione eseguita il 21 gennaio, sulla base di un presupposto inesistente, in quanto quell’operazione “andava comunque fatta”.

Le superiori emergenze, quindi, portano a ritenere che l’Arma territoriale agì in quell’occasione in piena autonomia, nell’intento di rendere un servizio al Ros ma senza interloquire ed interagire con il medesimo.

In proposito, il Collegio osserva che la mancanza di raccordo tra i due organismi debba essere valutata tenendo conto del fatto che ciascuno, all’epoca in oggetto, conservava e proteggeva gelosamente le proprie prerogative ed era impegnato a portare avanti il proprio filone di indagini.

La prima sezione del raggruppamento, sin dal giorno dell’arresto di Riina, si occupò di eseguire gli accertamenti e le analisi di riscontro sul materiale sequestrato, al momento della cattura, al boss corleonese ed al Biondino, consistente in decine di fogli manoscritti, i cd. “pizzini”, ed altra documentazione, i cui risultati furono relazionati all’a.g. con note del 22 e 26.1.93; avanzò richieste di intercettazione telefonica in relazione a decine di utenze riconducibili a società o a persone fisiche menzionati, direttamente od indirettamente, nei sopradetti “pizzini”; collaborò ad accertamenti di carattere societario e patrimoniale sui fratelli Sansone (cfr. nota 26.1.93 all. n. 28 doc. difesa De Caprio; deposizioni dei testi Obinu e Caldareri).

In merito a questi ultimi, nei giorni successivi all’arresto, il cap. De Donno ricevette l’incarico da parte del vicecomandante operativo Mori di costituire un gruppo, con componenti sia del Ros che della territoriale, che avrebbe dovuto occuparsi di indagare in via esclusiva sulla struttura economico- imprenditoriale dei Sansone e sugli interessi riconducibili a “cosa nostra”, ma non ebbe il tempo di avviare, dal punto di vista operativo, le attività in quanto, come detto, ai primi di febbraio i Sansone furono arrestati.

Il Nucleo Operativo proseguiva, invece, l’attività di riscontro sulle ulteriori propalazioni del Di Maggio ed era impegnato, specificatamente il gruppo 2, nelle operazioni di ascolto delle utenze intestate ai Sansone, tra cui quella di via Bernini, operazioni che cessarono il 20.1.93 – lo stesso giorno in cui venne deliberata la perquisizione al “fondo Gelsomino” - giusta decreto di revoca dell’Autorità Giudiziaria (cfr. all. n. 27 doc. difesa De Caprio).

Inoltre, doveva essere localizzata, all’interno del complesso, la villa dalla quale Salvatore Riina era uscito e dovevano svolgersi i necessari accertamenti in merito allo stato dei luoghi nonché alla proprietà del residence e delle varie unità immobiliari che lo componevano.

Con nota del 26.1.93, pervenuta in Procura il giorno seguente, il Ros inviò le riprese filmate, con allegate relazioni illustrative, relative ai giorni 14 e 15 gennaio 1993, che furono visionate – ha riferito il dott. Patronaggio – dal sostituto procuratore dott. Vittorio Teresi, il quale, constatante l’interruzione lo stesso giorno dell’arresto di Riina, espresse ai colleghi, in diverse riunioni ed alla presenza dello stesso teste, le sue perplessità in merito.

Bisognava capire – ha riferito il teste - cosa era successo, ma nessuno lo chiese al Ros.

Anche alla riunione del 26 gennaio in procura non presero parte gli imputati e difatti, come si legge nella nota del 12.2.93 del dott. Caselli, alcuni ufficiali dell’arma, alla presenza del dott. Aliquò e di altri magistrati nonché della sezione anticrimine, “affermarono, sia pure non in termini di certezza, dato che essi non seguivano direttamente questo aspetto delle indagini, che ogni attività di controllo era forse cessata da tempo”.

L’istruzione condotta ha consentito di accertare che gli ufficiali presenti furono il gen. Cancellieri, il col. Sergio Cagnazzo, nonché il magg. Balsamo ed il cap. Minicucci, e che fu proprio il col. Cagnazzo a prospettare che, probabilmente, c’erano stati dei problemi circa l’osservazione e che, forse, la stessa non era più in corso già da diversi giorni.

Sul punto il teste Cagnazzo ha affermato di non avere il ricordo di quella riunione ed ha negato di avere espresso dubbi in ordine alla sussistenza del servizio di osservazione in quanto era certo, sino al 30 gennaio, quando il cap. Minicucci gli riferì che il servizio era stato abbandonato da tempo, che l’attività continuasse, ma è stato contraddetto dalle concordi risultanze testimoniali rese da coloro, sopra già citati, che vi parteciparono. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE

La perquisizione scatta diciassette giorni dopo, ma il covo è già svuotato. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE su Il Domani il 30 gennaio 2023

Il 30 gennaio 1993, ebbe luogo in procura un’altra riunione, alla presenza del dott. Caselli, del dott. Aliquò, della territoriale, degli imputati, nel corso della quale questi ultimi esplicitarono ciò che, in verità, era ormai noto, e cioè: che il servizio di osservazione e controllo non esisteva...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini

Alla data del 27.1.93 si legge, nel memoriale manoscritto del dott. Aliquò, l’annotazione relativa ad una riunione nella quale, alla presenza dello stesso procuratore aggiunto e del dott. Caselli, l’imputato Mori avrebbe sollecitato indagini patrimoniali e bancarie sui Sansone, aggiungendo di non avere urgenza in merito alla perquisizione e che l’osservazione su via Bernini stava creando “tensione e stress al personale operante, accennando alla sua sospensione”.

In realtà, il dott. Aliquò ha chiarito che non si parlò di un problema di affaticamento per gli uomini bensì di rischio per la loro sicurezza e, quanto al significato di questo “accenno” alla sospensione, che il col. Mori né disse esplicitamente che l’osservazione era in corso, né che era stata dismessa da tempo; in sostanza, egli “lasciò la cosa un po’ in aria, lasciando capire che poteva essere stata effettivamente tolta” .

Si ebbe dunque, in quel momento, la “quasi certezza” – ha riferito il dott. Aliquò - che l’osservazione non fosse attiva, ma nessuna richiesta di chiarimento venne avanzata al col. Mori, il quale – nel ricordo del teste – “glissava” sull’argomento, nel senso che cominciò a parlare di altre cose, sollecitando gli accertamenti in merito ai Sansone.

In ogni caso, quella fu l’unica occasione in cui si parlò del servizio di osservazione dal giorno della cattura di Salvatore Riina.

Anche il magg. Domenico Balsamo ha riferito di aver partecipato ad una riunione che si svolse in procura, di cui non ricorda la data, alla presenza del dott. Aliquò, del gen. Cancellieri e del col. Mori, nel corso della quale si parlò di come stava andando l’attività di pertinenza del Ros, che si credeva evidentemente in atto, ottenendo dall’imputato una risposta di tipo “interlocutorio”, nel senso che “si stava valutando la situazione”, cui non diede attenzione dal momento che le attività su via Bernini erano estranee a quelle rimesse alla propria competenza.

Il gen. Cancellieri ha escluso di avere mai partecipato ad una riunione nella quale fossero presenti solo i vertici del Ros, in quanto neppure ne avrebbe avuto titolo, ma ha dichiarato di avere preso parte ad una riunione con i vertici della territoriale, nella quale c’era anche l’imputato, aggiungendo di non ricordare né la data né la frase attribuita al Mori dal dott. Aliquò nel suo manoscritto.

Le concordi dichiarazioni del dott. Aliquò e dell’allora magg. Balsamo, nonché del gen. Cancellieri laddove ricorda una riunione cui prese parte l’imputato, consentono di ritenere provata, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, la partecipazione dell’imputato Mori ad un incontro in procura nel corso del quale si parlò dell’attività in corso, ma esso non dovette avere luogo il 27 gennaio, data nella quale è stata provata documentalmente dall’imputato la sua presenza a Roma all’interrogatorio di Vito Ciancimino e ad un appuntamento con il giornalista Giancarlo Zizola, bensì successivamente oppure nei giorni precedenti.

Dal consuntivo dei servizi fuori sede effettuati dall’imputato ed acquisito al giudizio, risulta che il Mori si recò a Palermo nel pomeriggio del 22 gennaio, facendo ritorno a Roma il giorno seguente, e che partì nuovamente da Roma il 28 gennaio per Catania e Palermo, dove il 29, come da annotazione contenuta nella sua agenda personale depositata in atti, doveva contattare il gen. Cancellieri ed il col. Cagnazzo e, nel tardo pomeriggio, incontrare il cap. De Caprio, il cap. Adinolfi, il cap. Baudo ed il mar.llo Lombardo.

In assenza di ogni altro elemento significativo, non è stato possibile accertare se tali riunioni (di cui è cenno nell’agenda dell’imputato) abbiano avuto effettivamente luogo e quale ne sia stato l’oggetto.

LA RIUNIONE “DECISIVA”

Il giorno seguente, 30 gennaio 1993, ebbe luogo in procura un’altra riunione, alla presenza del dott. Caselli, del dott. Aliquò, della territoriale nelle persone del gen. Cancellieri, del col. Cagnazzo, del comandante della sezione anticrimine cap. Adinolfi, del cap. Minicucci, degli imputati, nel corso della quale questi ultimi esplicitarono ciò che, in verità, era ormai noto, e cioè: che il servizio di osservazione e controllo non esisteva; che era cessato nello stesso pomeriggio del 15 gennaio; che aveva riguardato solo il cancello esterno dell’intero complesso; che era stato sospeso perché la permanenza di personale adeguatamente attrezzato sarebbe stata notata con grave rischio per gli operanti.

La Procura della Repubblica decise, allora, d’accordo con la territoriale, di disporre le perquisizioni domiciliari in tutte le ville di via Bernini, che vennero eseguite il giorno 2.2.93, a seguito dell’accelerazione dei tempi dei provvedimenti imposta da un lancio di agenzia Ansa di Palermo dell’1.2.93, secondo il quale le forze dell’ordine avevano finalmente individuato il covo del Riina nel complesso di via Bernini.

Nel frattempo, però, l’abitazione dove il Riina aveva alloggiato con la famiglia era stata svuotata di ogni cosa; erano state ritinteggiate le pareti, ristrutturati i bagni, smontati e ripristinati gli impianti, accatastati i mobili in ciascuna stanza, tutto allo scopo evidente di ripulirla da qualsiasi traccia che potesse consentire di risalire a chi vi aveva abitato.

Ma una traccia comunque rimase: un lembo di foglio di un quaderno di scuola, con la scritta a mano “numero di telefono delle mie amiche Rita Biondino – Rosi Gambino – Gianni Sansone – questi sono tutti i numeri delle mie amiche e dei miei amici” siglato “LB”, che ne avrebbe consentito l’attribuzione alla figlia di Salvatore Riina.

L’irruzione nel complesso di via Bernini fu eseguita dall’Arma territoriale, senza la partecipazione del Ros.

L’individuazione dell’unità dove aveva abitato Salvatore Riina si rivelò piuttosto agevole, dal momento che il complesso si componeva di 14 villette, di cui la metà erano ancora in corso di costruzione, mentre delle rimanenti, sei erano di fatto abitate per cui furono perquisite ed identificati i proprietari, tra i quali i fratelli Sansone Giuseppe, Gaetano ed Agostino; successivamente si scoprirà che le ville erano di proprietà della Sama Costruzioni s.r.l. di Sansone Gaetano e della moglie Matano Concetta e che quella abitata dal Riina era stata alienata alla società Villa Antica di Montalbano Giuseppe, che sarà sottoposto ad autonomo procedimento penale. Si accertò che la villa del Riina era ubicata nella parte sinistra del complesso, completamente immersa nella vegetazione e non visibile dall’ingresso al residence; inoltre si scoprì l’esistenza di un secondo accesso al complesso, un’uscita da cantiere situata sul retro che fu utilizzata per consentire il passaggio, in condizioni di sicurezza, del dott. Caselli.

Come analiticamente descritto nel verbale di sopralluogo del 2.2.93 di cui al fascicolo dei rilievi tecnici in atti, il Nucleo Operativo che procedette alla perquisizione constatò, limitandoci a quanto nella presente sede di interesse, l’esistenza di: un guardaroba blindato all’interno della camera da letto matrimoniale; all’altezza del pianerottolo, una intercapedine in cemento armato di forma rettangolare di mt. 3x4 di larghezza e 75 cm di altezza, chiusa da un pannello di legno con chiusura a scatto e chiavistello; nel sottoscala, a livello del pavimento, una botola lunga circa mt 2 chiusa da uno sportello in metallo con serratura esterna; nel vano adibito a studio, una cassaforte a parete chiusa che, aperta dall’adiacente vano bagno, risultò vuota.

Lo stesso giorno, l’Autorità Giudiziaria dispose la perquisizione negli uffici e nelle società di Giuseppe e Gaetano Sansone (tra le altre, Sicos, Soren, Sicor, Agrisan, Icom, Sama e diverse ditte individuali) che furono eseguite il giorno successivo (cfr. all. n. 29 doc. difesa De Caprio). Il 4.2.93 i fratelli Sansone furono raggiunti da ordinanza di custodia cautelare, così come, due giorni dopo, Vincenzo De Marco (cfr. sentenza gup presso il Tribunale di Palermo n. 418/94, irrevocabile il 29.1.96, acquisita all’ud. del 11.1.06). Il 26 marzo 1993, come da richiesta avanzata il precedente 20 marzo, tutti beni di Giuseppe Sansone furono sottoposti a sequestro giudiziario (cfr. all. n. 36 doc. difesa De Caprio). SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE

L’archivio segreto di Totò Riina, un “tesoro” di informazioni mai trovato. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE su Il Domani il 31 gennaio 2023

Giovanni Brusca ha dichiarato che Riina aveva sempre tenuto appunti e conteggi delle sue attività criminose, in quanto aveva l’abitudine di scrivere tutto su un block notes che considerava il suo “ufficio volante”; tutta documentazione che Riina conservava in casseforti o in bombole del gas, trasferendola con sé ad ogni trasloco

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini

Le deposizioni rese dai collaboratori di giustizia (udienze 21 e 22 ottobre 2005; 18 e 19 novembre 2005; 10 dicembre 2005) hanno consentito di accertare come avvenne lo svuotamento e la ristrutturazione della casa del Riina.

Giovanni Brusca ha riferito che il 15 gennaio 1993 il boss corleonese era atteso ad una riunione che vedeva coinvolti tutti i maggiori esponenti dell’organizzazione mafiosa, ad eccezione di Bernardo Provenzano; arrivò invece, portata da Salvatore Biondo, la notizia che “Totò” era stato arrestato, assieme al Biondino.

A quel punto si recò, assieme a Leoluca Bagarella, nell’officina di Michele Traina, per avere la conferma della notizia dai mezzi di informazione ed i particolari di come era avvenuta la cattura; c’era inoltre la preoccupazione di capire cosa fosse successo alla famiglia.

Non conosceva il luogo preciso in cui dimorasse Salvatore Riina, ma sapeva che si trovava nella zona Uditore, che vi si recava Vincenzo De Marco e che lo accompagnava nei suoi spostamenti Pino Sansone.

Visto che sulla stampa non usciva alcuna ulteriore notizia, diede incarico al Traina di recarsi a casa di Biondino Salvatore per verificare se fosse in atto la perquisizione dell’abitazione, ove quegli in effetti constatò la presenza di forze dell’ordine.

A quel punto mandò a chiamare Giovanni Sansone, genero di Salvatore Cancemi e cugino di quei fratelli Sansone che avevano curato sino ad allora la latitanza del Riina, per incaricarlo di mettere al riparo la Bagarella con i figli e far sparire tutte le tracce riconducibili al boss; a tal fine lo incontrò nei pressi del carcere “Pagliarelli” di Palermo e gli ordinò di tenere i contatti, da quel momento in avanti, con Antonino Gioè, il quale a sua volta avrebbe contattato Gioacchino La Barbera, che era allora incensurato e dunque si poteva muovere per la città senza eccessivi rischi.

Il Brusca ha spiegato che l’incarico fu dato al Sansone perché era l’unica persona che potesse recarsi, senza destare sospetto nelle forze dell’ordine, al complesso di via Bernini, in quanto vi abitavano quei suoi familiari, per cui, anche se fosse stato fermato, avrebbe senz’altro potuto giustificare la sua presenza sui luoghi.

Fu dunque uno dei Sansone (Giuseppe), che risiedeva nel complesso di via Bernini, ad accompagnare la Bagarella ed i figli nei pressi del motel Agip, dove furono prelevati da La Barbera e Gioè e condotti alla stazione ferroviaria, ove presero un taxi per rientrare a Corleone.

E fu sempre il Sansone ad occuparsi di ripulire la casa da ogni traccia, affidando anche ad una ditta di operai edili i lavori di ristrutturazione della villa; operazioni in merito alle quali relazionava, giorno per giorno, Gioacchino La Barbera che a sua volta riferiva le notizie a Leoluca Bagarella ed al Brusca. La preoccupazione iniziale, dovuta al timore che da un momento all’altro gli organi investigativi facessero irruzione nel comprensorio, cedette il posto, con il passare dei giorni, alla soddisfazione di constatare che tutto stava procedendo per il meglio, tanto che, addirittura, c’era stato il tempo di modificare radicalmente lo stato dei luoghi (cfr. deposizione del La Barbera e del Brusca). In definitiva – disse il Sansone a Gioacchino La Barbera che lo ha riferito in dibattimento - “abbiamo salvato il salvabile” .

Per quanto il La Barbera riferì al Brusca, gli oggetti che potevano essere ricomprati, quali la biancheria ed articoli di vestiario, furono bruciati; mentre i gioielli, l’argenteria, i quadri, i servizi di porcellana, e cioè tutti gli oggetti di valore furono invece dati in affidamento a terzi, prima a Giuseppe Gelardi e poi nel 1994 a Giusto Di Natale che, come deposto in dibattimento, li conservò nella propria villa a Palermo sino al 1996, quando venne arrestato. Quest’ultimo ha riferito che, colloquiando in carcere con Giovanni Riina, apprese che qualcuno era andato successivamente a prelevarli.

Quando “uscirono” le notizie di stampa sulla collaborazione del Di Maggio, il Brusca commentò con il Bagarella ed altri esponenti mafiosi il ruolo che costui doveva aver avuto nella cattura del Riina, ma successivamente seppe, dalla famiglia dei Vitale di Partinico, che Salvatore Bugnano, uomo vicino alle famiglie mafiose operanti in quel territorio ed in particolare ai Coppola ed a Lo Iacono Francesco, era un confidente del comandante della stazione dei carabinieri di Terrasini, il mar.llo Lombardo, per cui si cominciò a sospettare che l’attività di quest’ultimo avesse avuto un ruolo preponderante nell’arresto del Riina e che la vicenda Di Maggio potesse essere solo una copertura a quest’indagine portata avanti dai carabinieri; sospetti che il suicidio del mar.llo Lombardo, avvenuto a marzo 1995, non fece che avvalorare.

Il Lo Iacono, difatti, conosceva Raffaele Ganci ed il figlio Domenico, detto Mimmo, che godeva della completa fiducia del Riina e ne conosceva l’abitazione, e, dunque, tramite questo canale, la notizia sarebbe potuta arrivare al Brugnano; inoltre, sia i Coppola che il Lo Iacono erano uomini di Bernardo Provenzano, il quale, nonostante continuasse ad essere completamente sottoposto al Riina, aveva maturato nei confronti del boss corleonese una “spaccatura” in ordine alla gestione degli affari e delle linee “programmatiche” dell’organizzazione.

I FAMIGERATI “DOCUMENTI” DI RIINA

In ordine all’esistenza di documenti, Giovanni Brusca ha dichiarato che il Riina aveva sempre tenuto appunti e conteggi delle sue attività criminose, in quanto aveva l’abitudine di scrivere tutto su un block notes che considerava il suo “ufficio volante”, dove teneva pure la contabilità dei profitti provenienti dagli appalti, dal traffico di stupefacenti, dalle estorsioni; tutta documentazione che il Riina conservava in casseforti od in bombole del gas, trasferendola con sé ad ogni trasloco.

Anche Antonino Giuffré ha dichiarato che Salvatore Riina scriveva sempre appunti in relazione alle riunioni dell’organizzazione, agli appuntamenti, alla contabilità degli affari illeciti, e che, inoltre, intratteneva una fitta corrispondenza (i cd. “pizzini”) con Bernardo Provenzano ed altri uomini di “cosa nostra” o fiancheggiatori per la gestione degli appalti. Il Giuffré ha, infine, aggiunto che il nominato Riina utilizzava come porta documenti una borsa in pelle con blocco di chiusura in posizione centrale.

Nessuno dei collaboratori di giustizia ha, però, dichiarato di aver mai visto questi documenti, dopo l’arresto del Riina e negli anni a seguire, o di avere appreso quale sorte abbiano avuto.

Si può solo ritenere, allo stato degli atti, che, se effettivamente esistenti nella villa di via Bernini, essi furono trafugati e consegnati a terze persone rimaste, ancora oggi, ignote, ovvero furono distrutti.

In proposito, Giovanni Brusca ha detto di ritenere che furono bruciati dalla Bagarella, perché, se c’era qualcosa di importante, la moglie sapeva che andava eliminata, come imponevano le regole dell’organizzazione.

Antonino Giuffré, interrogato sulla sorte di questi eventuali documenti, ha riferito che quando ne parlò con Benedetto Spera, poco dopo l’avvenuta perquisizione a via Bernini, e, successivamente, con il Provenzano, entrambi gli dissero che “per fortuna non era stato trovato nulla” nella casa del Riina, con ciò intendendo proprio riferirsi al fatto che non era stato ritrovata alcuna documentazione. E il Provenzano aggiunse anche di temere che potessero essere finiti nelle mani di

Matteo Messina Denaro.

Michelangelo Camarda ha dichiarato che nel 1995 si ritrovò a commentare la vicenda dello svuotamento della casa del Riina con il La Rosa ed il Di Maggio, che nel frattempo, pur collaborando con le forze dell’ordine, aveva costituito un proprio gruppo criminale con il proposito di eliminare i rivali e riconquistare il potere (rendendosi responsabile di diversi omicidi per i quali sarà in seguito processato).

In quell’occasione il La Barbera gli rivelò di avere portato via i familiari lo stesso giorno dell’arresto o quello successivo e che a “ripulire” la casa ci avevano pensato i Sansone che abitavano nello stesso residence, i quali gli avevano raccontato che erano riusciti a portare via tutto, a ristrutturare i locali della villa, e che avevano avuto persino il tempo di estrarre dal muro una cassaforte e murare il vano in cui era posizionata.

Accennò anche alla possibilità che vi fossero dei documenti importanti, manifestando perplessità per il fatto che gli era stato consentito di agire così indisturbati.

La mancata perquisizione di via Bernini – per come hanno riferito i collaboratori escussi - aveva suscitato dubbi, interrogativi, stupore, anche all’interno di “cosa nostra”, che determinarono una ridda di commenti e di strumentalizzazioni della vicenda.

In proposito, Mario Santo Di Matteo dichiarava (a verbale del 17.11.97) di aver saputo dal Di Maggio che erano stati i carabinieri ad entrare nel cd. “covo” per portare via documenti importanti. Tale stupefacente dichiarazione è stata smentita nel presente dibattimento ed è stata smentita anche dal Di Maggio, il quale, a sua volta, ha negato tutta una serie di circostanze riferite dagli altri collaboratori escussi (i suoi propositi omicidiari verso Giovanni Brusca; le confidenze fatte sul gen. Delfino, che riteneva responsabile, a causa del fratello giornalista, di aver fatto trapelare sulla stampa la notizia della sua collaborazione; l’avere commentato in diverse occasioni la vicenda della mancata perquisizione; l’avere riferito dell’esistenza di documenti importanti in via Bernini).

Anche Giusy Vitale ha, infine, dichiarato di avere sentito il fratello Vito parlare con il Brusca di documenti di grande valore in possesso del Riina, tanto che – le disse una volta, commentando un servizio televisivo sulla vicenda – se la perquisizione fosse stata eseguita sarebbe accaduto un “finimondo”.

SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE

Il sospetto: dentro Cosa Nostra qualcuno si è venduto il capo dei capi? SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE su Il Domani l’01 febbraio 2023

Subito dopo l’arresto si diffuse in Cosa nostra la convinzione che il Riina fosse stato consegnato ai carabinieri. D’altronde, sospetti di tal genere circolavano in modo incontrollato e potevano riguardare chiunque, tanto che – ha riferito Giuffré – anche sullo stesso Provenzano circolavano voci insistenti che lo accusavano di passare informazioni ai carabinieri...

Su Domani posegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini

Le numerose, gravi, contraddizioni in cui sono incorsi il Di Matteo ed il Di Maggio impongono la trasmissione dei verbali delle dichiarazioni dalle stessi rese al p.m. per l’eventuale esercizio dell’azione penale, essendo evidente che i medesimi hanno dichiarato il falso, o nelle precedenti occasioni in cui furono escussi oppure al presente dibattimento.

In merito, invece, a come i carabinieri riuscirono a localizzare Salvatore Riina, il Di Maggio ha confermato di non aver mai saputo dove esattamente abitasse il boss, ma di aver indicato alle forze dell’ordine solo la zona ed il nominativo di coloro che ne curavano la latitanza (il Sansone ed il De Marco).

Tale circostanza è stata confermata dagli altri collaboratori escussi (nello specifico La Rosa e Di Matteo), i quali, riferendo il contenuto di conversazioni avvenute negli anni successivi con il Di Maggio circa il suo ruolo nella vicenda, hanno precisato che quest’ultimo dichiarò sempre di non sapere come gli investigatori fossero pervenuti all’individuazione del complesso di via Bernini.

Antonino Giuffré ha dichiarato, inoltre, che, nel corso degli anni, si erano formati in seno a “cosa nostra” due schieramenti contrapposti facenti capo al Riina (che poteva contare su Bagarella, Brusca, Messina Denaro, i fratelli Graviano) ed al Provenzano (cui si erano legati lo stesso Giuffré, Carlo Greco, Pietro Aglieri), tra i quali si era determinato “un solco”, via via aggravatosi nel tempo, sin dal 1987, e che, con l’arresto del boss corleonese, esplose tra i due la rivalità su chi dovesse prendere “le redini” dell’organizzazione a livello provinciale e regionale.

Subito dopo l’arresto - ha aggiunto il collaboratore - si diffuse in “cosa nostra” la convinzione che il Riina fosse stato consegnato ai carabinieri.

D’altronde, sospetti di tal genere circolavano in modo incontrollato e potevano riguardare chiunque, tanto che – ha riferito il Giuffré – anche sullo stesso Provenzano circolavano dal 1990 voci insistenti, provenienti dall’ambiente mafioso catanese ed in particolare dalla famiglia Mazzei e da Eugenio Galea (vicinissimo al boss Santapaola), che lo accusavano di passare informazioni ai carabinieri, come commentò in più occasioni con altri appartenenti all’organizzazione mafiosa (Giovanni Marcianò, i Ganci) e con lo stesso Provenzano che diverse volte gli chiese se credesse a queste illazioni.

VOCI SU CIANCIMINO

Anche su Vito Ciancimino, che era persona particolarmente vicina al Provenzano, si diffusero delle “voci” in ordine a presunti contatti che aveva avuto con esponenti delle forze dell’ordine, e serpeggiava il timore che il medesimo potesse iniziare un percorso di collaborazione.

In proposito, quando uscì dal carcere a gennaio 1993, prima che Salvatore Riina fosse catturato, Antonino Giuffré chiese al Provenzano come fosse “combinato” Vito Ciancimino, ottenendo la risposta che era “andato in missione” per cercare di sistemare le cose all’interno dell’organizzazione, che stava vivendo un periodo storico particolare.

Null’altro è stato riferito sul punto, né dal Giuffré né dagli altri collaboratori, mentre Giovanni Brusca ha saputo (o voluto) soltanto riferire che spesso il Riina gli esprimeva delle imprecisate “rimostranze” nei confronti di Vito Ciancimino.

Salvatore Cancemi ha riferito che Salvatore Biondo il 15 gennaio 1993, mentre si trovava, assieme a Raffaele Ganci e ad altri, in una villetta nei pressi di San Lorenzo dove avrebbe dovuto svolgersi una riunione della commissione convocata dallo stesso Riina, portò la notizia che il boss era stato arrestato su viale Lazio.

Successivamente, apprese dai giornali che il Riina aveva trascorso la latitanza in via Bernini, vicino a dove abitava anche sua figlia.

Quando a luglio 1993 decise di costituirsi, presentandosi ai carabinieri di Piazza Verde a Palermo, raccontò che il Provenzano, in una riunione svoltasi a maggio 1993 con la sua partecipazione, quella del Ganci e di La Barbera Michelangelo, aveva dichiarato che “c’era la possibilità di prendere vivo il capitano Ultimo” (nome in codice dell’imputato De Caprio) o, in alternativa, di ucciderlo, senza però specificare i motivi per i quali intendeva prenderlo vivo.

Anche Giuseppe Guglielmini ha riferito che, nel corso di una riunione, Giovanni Brusca ed in seguito anche Giovannello Greco gli dissero che si stava cercando questo “capitano Ultimo”, che rappresentava un “chiodo fisso” per Provenzano, al quale si sarebbe potuti arrivare tramite una persona che conosceva un amico del capitano, con il quale costui giocava a tennis, e che avrebbe potuto fare sapere dove i due si sarebbero recati a pranzare.

Infine, Raffaele Ganci, figlio di quel Raffaele Ganci a capo della famiglia mafiosa del quartiere della “Noce” a Palermo, ha dichiarato di aver saputo dal padre che, nel corso di una riunione con il Provenzano successiva all’arresto del Riina, si era convenuto di sequestrare il “capitano Ultimo”, ma che poi non se ne fece più nulla. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE

Le accuse contro Mori e Ultimo (poi assolti): avere favorito Cosa nostra. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE su Il Domani il 02 febbraio 2023

La pluralità di condotte contestate si rivolge nei confronti di uno stesso soggetto beneficiato, “Cosa nostra”; si consuma il giorno della scoperta della inesistenza del servizio di osservazione su via Bernini, ovvero il 30.1.93 quando il col. Mario Mori, nel corso di una riunione, comunicò questa situazione di fatto ai magistrati della Procura di Palermo ed agli ufficiali dell’Arma.

Su Domani posegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini

Ciò premesso, secondo l’impostazione accusatoria gli imputati avrebbero posto in essere una condotta agevolatrice dell’attività dell’associazione mafiosa denominata “cosa nostra” attraverso quattro condotte, consistite:

nell’avere dato il 15.1.93 false assicurazioni ai magistrati della Procura di Palermo che la casa di Salvatore Riina sarebbe rimasta sotto stretta osservazione, così ottenendo la dilazione della perquisizione che stava per essere effettuata lo stesso giorno;

nell’aver disposto, invece, la cessazione del servizio di osservazione sul complesso immobiliare di via Bernini n. 54 a far data da quello stesso pomeriggio;

nell’averne omessa la comunicazione all’autorità giudiziaria;

nell’aver, quindi, posto in essere un comportamento reiterato volto a rafforzare la convinzione che il servizio fosse ancora in corso, così inducendo intenzionalmente in errore i predetti magistrati ed i colleghi dei reparti territoriali dell’Arma dei carabinieri e, pertanto, agevolando gli uomini di “cosa nostra”, che svuotarono il covo di ogni cosa di eventuale interesse investigativo, il tutto al fine specifico di agevolare proprio l’organizzazione criminale.

La pluralità di condotte contestate ha un unico reato presupposto, l’associazione per delinquere di tipo mafioso, e si rivolge nei confronti di uno stesso soggetto beneficiato, “Cosa nostra”, onde non vale ad integrare una molteplicità di reati di favoreggiamento aggravato, ma un’unica fattispecie delittuosa a carattere permanente perfezionatasi il giorno della cattura del Riina e consumatasi il giorno della scoperta della inesistenza del servizio di osservazione su via Bernini, ovvero il 30.1.93 quando il col. Mario Mori, nel corso di una riunione, comunicò questa situazione di fatto ai magistrati della Procura di Palermo ed agli ufficiali dell’Arma.

Non v’è dubbio, infatti, come già precisato in punto di diritto, che l’eventuale reiterazione dello stesso comportamento criminoso integrante sia sotto il profilo oggettivo che con riguardo a quello soggettivo il delitto di favoreggiamento personale, in presenza dello stesso reato presupposto e del medesimo soggetto aiutato, non vale ad integrare una molteplicità di reati riconducibili ad un unico disegno criminoso, come contestato nella fattispecie, bensì un solo delitto, con le caratteristiche del reato permanente (Cass. Martinelli, cit.).

La peculiarità della fattispecie si coglie già al livello dogmatico di inquadramento nella previsione di cui alla norma incriminatrice, difatti, da un lato, solo quel segmento della complessiva condotta che ha avuto luogo il 15.1.93 consiste in un comportamento commissivo, mentre per i restanti quattordici giorni il reato si sarebbe realizzato mediante un atteggiamento puramente omissivo degli imputati, consistito nel non avere riattivato il giorno 16 gennaio, e per tutti i giorni a seguire, il servizio in atto il giorno dell’arresto del Riina e nel non avere comunicato tale decisione all’Autorità Giudiziaria; dall’altro, nel fatto che il soggetto beneficiato sia venuto ad essere non una persona fisica ma la stessa “mafia”, nella sua dimensione collettiva e strutturale, venendo così a coincidere con quello oggetto dell’ulteriore finalismo previsto dall’aggravante a dolo specifico ex art. 7 L. n. 203/91.

Tralasciando quest’ultimo profilo, che verrà ripreso in punto di esame del dolo degli imputati, deve preliminarmente rilevarsi che, come anticipato nelle precedenti argomentazioni svolte in punto di diritto, la natura omissiva della condotta contestata non osta alla configurabilità del favoreggiamento, sia perché l’ampia locuzione di “aiuto” di cui all’art. 378 C.P. è idonea a ricomprendere qualsivoglia comportamento positivo o negativo, sia perché è rinvenibile, nella fattispecie, un preciso obbligo di garanzia in capo agli imputati, quali organi di polizia giudiziaria, di impedire l’evento pericoloso ex art. 40 cpv. C.P..

Quanto alle caratteristiche dell’elemento oggettivo del reato, la norma – come già detto - richiede solo il pericolo di lesione del bene protetto, e cioè prescinde dalla verificazione di un effettivo sviamento od intralcio alle indagini, occorrendo solo che la condotta, sulla base di una valutazione ex ante da condursi tenendo conto di tutti gli elementi che erano a conoscenza del soggetto agente, o comunque conoscibili secondo criteri di ordinaria diligenza, si presentasse idonea a produrre un tale risultato.

Anche da questo punto di vista, la vicenda in oggetto presenta indubbie particolarità, in quanto il potenziale vantaggio procurato al sodalizio mafioso dall’abbandono del sito di via Bernini può ipotizzarsi sotto diverse forme.

Come dispersione di prezioso materiale investigativo, può avere impedito l’individuazione di altre persone, intranee o fiancheggiatrici dell’organizzazione, che ivi erano citate o alle quali sarebbe stato possibile risalire; può avere consentito all’associazione la regolare prosecuzione dei suoi affari illeciti, estorsioni, appalti, traffico di stupefacenti, che invece avrebbero potuto essere individuati e colpiti dalle forze dell’ordine; può avere impedito l’acquisizione di informazioni rilevanti ai fini delle indagini in corso, quali quelle sulle stragi di via Capaci e di via D’Amelio commesse nell’estate precedente.

Come omessa osservazione visiva del cd. “covo”, infine, potrebbe avere direttamente agevolato qualche latitante che vi si fosse recato indisturbato, come ad esempio Leoluca Bagarella nell’intento di prelevare la sorella, moglie del Riina.

Il rilievo che l’istruzione dibattimentale non abbia consentito di provare l’esistenza di documenti in casa del Riina, od abbia addirittura escluso che si sia recato in via Bernini il suddetto Bagarella, non vale per negare che gli esiti sopra prospettati fossero pienamente possibili, secondo massime di esperienza, e perfettamente prevedibili dagli imputati.

La posizione apicale del Riina, ai vertici dell’organizzazione criminale, ben poteva far ritenere che lo stesso conservasse nella propria abitazione un archivio rilevante per successive indagini su “cosa nostra” e, tenuto conto che la di lui famiglia era rimasta in via Bernini, poteva di certo ipotizzarsi che altri sodali, aventi l’interesse a mettersi in contatto con la stessa, vi si recassero.

Al di là di queste argomentazioni di carattere logico, il fatto che il Riina fosse stato trovato, al momento del suo arresto, in possesso di diversi “pizzini”, ovvero di biglietti cartacei contenenti informazioni sugli affari portati avanti dall’organizzazione, con riferimento ad appalti, alle imprese ed alle persone coinvolte, costituisce un ulteriore preciso elemento, in questo caso di fatto, che vale a rendere la condotta contestata agli imputati oggettivamente idonea ad integrare il reato. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE

Molti sospetti e poche certezze su un patto segreto tra Ros e Cosa nostra. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE su Il Domani il 03 febbraio 2023

Il dato certo del ritrovamento indosso al Riina di materiale cartaceo, unito ad indizi di carattere logico, pienamente confermati dalle deposizioni testimoniali acquisite, già di per sé consente di ritenere che l’omessa perquisizione della casa e l’abbandono del sito sino ad allora sorvegliato abbiano comportato il rischio di devianza delle indagini che, difatti, nella fattispecie si è pienamente verificato, stando alle manifestazioni di sollievo e di gioia manifestate da Bernardo Provenzano e da Benedetto Spera al Giuffré

Su Domani posegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini

Le argomentazioni difensive riferite sul punto, secondo le quali si riteneva che il latitante non conservasse cose di rilievo nella propria abitazione, perché “il mafioso” non terrebbe mai cose che possono mettere in pericolo la famiglia, appaiono fondate su una massima di esperienza elaborata dagli stessi imputati ma non verificata empiricamente ed anzi contraddetta dalla risultanza offerta proprio dal materiale rinvenuto indosso al boss.

Pertanto, già il 15.1.93, sussisteva la concreta e rilevante probabilità che esistesse altra documentazione in via Bernini; probabilità che è stata confermata in dibattimento dal Brusca e dal Giuffré, secondo cui Salvatore Riina era solito prendere appunti, teneva una contabilità dei proventi criminali, annotava le riunioni e teneva una fitta corrispondenza sia con il Provenzano che con altri esponenti mafiosi, per la “messa a posto” delle imprese e la gestione degli affari.

Accertare se tali documenti effettivamente esistessero, se fossero custoditi all’interno della villa e quale sorte abbiano avuto, non può avere alcuna refluenza – ad avviso del Collegio – sulla sussistenza del reato contestato, atteso che il dato certo del ritrovamento indosso al Riina di materiale cartaceo, unito ad indizi di carattere logico, pienamente confermati dalle deposizioni testimoniali acquisite, già di per sé consente di ritenere che l’omessa perquisizione della casa e l’abbandono del sito sino ad allora sorvegliato abbiano comportato il rischio di devianza delle indagini che, difatti, nella fattispecie si è pienamente verificato, stando alle manifestazioni di sollievo e di gioia manifestate da Bernardo Provenzano e da Benedetto Spera al Giuffré (i quali ebbero a dichiarare che per fortuna le forze dell’ordine non avevano potuto trovare “nulla” con ciò intendendo riferirsi proprio a documenti) ed, ancora, alla soddisfazione espressa, durante le fasi dello svuotamento della casa, da parte del Sansone, e condivise dal La Barbera, dal Gioè, dal Brusca, dal Bagarella per il fatto che stava procedendo tutto “liscio” (cfr. in particolare le dichiarazioni di Gioacchino La Barbera).

D’altronde, appare evidente che l’ambito di un’indagine per il delitto di cui all’art. 416 bis C.P. si presenta particolarmente ampio, potendo ricomprendere una molteplicità di condotte e dispiegare i suoi effetti in relazione ad una pletora di personaggi, quali altri correi indagati in diversi filoni di inchiesta, per cui l’omessa perquisizione e la disattivazione del dispositivo di controllo di un luogo di pertinenza di un affiliato, e qui si trattava del capo di “cosa nostra”, appare condotta astrattamente idonea ad integrare non solo il favoreggiamento aggravato, ma lo stesso concorso nel reato associativo, ove si dimostri la sussistenza degli altri presupposti in punto di dolo e di efficienza causale del contributo di cui agli artt. 110 e 416 bis C.P..

Ne deriva che – ad avviso del Collegio - il punto nodale per la ricostruzione della vicenda in esame non può essere ricercato – contrariamente a quanto prospettato dalle difese – sul piano oggettivo, occorrendo invece indagare anche il “perché” siano accaduti gli avvenimenti che ci occupano.

Richiamata la narrazione degli accadimenti fattuali già esposta nella prima parte di questa sentenza, si osserva, sinteticamente, che la prospettiva accusatoria rimane ancorata ai seguenti elementi indiziari:

il giorno dell’arresto del Riina Sergio De Caprio chiese insistentemente, con l’appoggio di Mario Mori, che la perquisizione già predisposta sul complesso di via Bernini, non venisse eseguita, garantendo l’osservazione sul sito;

il pomeriggio alle ore 16.00 il furgone, con a bordo l’app.to Coldesina ed il Di Maggio, fu fatto rientrare ed il servizio non venne più predisposto;

tale decisione non fu oggetto di alcuna comunicazione;

il Ros non svolse più alcuna attività di indagine;

il 20.1.93 il De Caprio chiese che si effettuasse una perquisizione al cd. “fondo Gelsomino” come attività diversiva di depistaggio, nel presupposto che via Bernini fosse sotto osservazione;

in una riunione in data 27.1.93 Mario Mori accennò al fatto che il servizio era stato sospeso da tempo, decidendosi a rivelarlo solo il 30.1.93;

già a dicembre 1992 Mario Mori, con la consapevolezza del Di Caprio, aveva intavolato una trattativa segreta con “cosa nostra” tramite Vito Calogero Ciancimino, per ottenere una resa dei latitanti;

il Ros non poteva conoscere il sito di via Bernini, in quanto non era tra quelli indicati dal Di Maggio, dunque il Riina fu “consegnato” dalla stessa associazione criminale, ed in particolare da Bernardo Provenzano, in ossequio ad un patto di “non belligeranza” stipulato con il Mori. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE

Cosa accadde davvero il giorno della cattura del capo dei capi? SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE su Il Domani il 04 febbraio 2023

Tornando ad analizzare quanto accadde il 15 gennaio 1993, in quelle ore, descritte come concitate e frenetiche, che seguirono alla cattura del Riina, doveva decidersi come proseguire ed in quale direzione indirizzare le successive attività di indagine

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Tornando ad analizzare quanto accadde il 15 gennaio 1993, in quelle ore, descritte come concitate e frenetiche, che seguirono alla cattura del Riina, doveva decidersi come proseguire ed in quale direzione indirizzare le successive attività di indagine.

Sino ad allora il potere di direzione e coordinamento delle attività di polizia giudiziaria era stato espletato dal dott. Aliquò, in attesa dell’insediamento del dott. Caselli che sarebbe avvenuto proprio quel giorno.

La discussione nacque spontanea tra tutti i presenti, ufficiali dell’Arma e magistrati, nel cortile della caserma Buonsignore, in modo informale, portando all’emersione di due orientamenti, uno maggioritario, condiviso dall’Autorità Giudiziaria e dai reparti territoriali, che intendeva procedere subito alla perquisizione del complesso di via Bernini, al fine di individuare da quale unità abitativa fosse uscito il Riina e perquisirla, l’altro portato avanti dal Ros, ed in modo particolare da Sergio De Caprio, che riteneva dannosa quest’iniziativa per lo sviluppo delle indagini, proponendo di sfruttare il vantaggio costituito dall’avere catturato il boss a distanza rispetto al residence.

I due orientamenti si contrapposero e si alternarono, in una dialettica fluida e continuativa, che portò prima alla predisposizione delle due squadre che avrebbero dovuto procedere alla perquisizione, poi alla conferenza stampa nella quale si fece apparire l’arresto come casuale, evitando ogni riferimento a via Bernini, quindi a rinviare il momento della partenza sino a dopo il pranzo al circolo ufficiali. Sia nella mattinata, che al momento del pranzo, dove il De Caprio sopraggiunse “indispettito” – secondo quanto riferito dal dott. Aliquò - per il fatto che, come gli aveva detto il cap. Minicucci incontrato in cortile, stava per essere eseguita la perquisizione, l’imputato chiese insistentemente di evitare ogni intervento, perché avrebbe pregiudicato ulteriori acquisizioni che avrebbero consentito di disarticolare il gruppo corleonese.

L’intento, concordemente riferito da tutti i partecipanti a quelle discussioni, in aderenza con quanto altresì cristallizzato nelle note scritte del dott. Caselli e dell’imputato Mori, era quello di avviare un’indagine a lungo termine sui Sansone, che consentisse di risalire ad altri personaggi del sodalizio e colpire gli interessi affaristici del gruppo.

L’importanza dei Sansone, ha riferito il De Caprio, era evidente a tutti ma, in verità, proprio su questo punto le valutazioni dell’Autorità Giudiziaria e del Ros appaiono essere state radicalmente diverse.

Nelle argomentazioni difensive queste investigazioni assumono un’importanza centrale, addirittura assorbente rispetto alla individuazione della villa da cui era uscito il Riina, e proprio per consentire che venissero sviluppate il De Caprio chiese ed ottenne che la perquisizione fosse annullata.

I Sansone erano già emersi nel corso del cd. processo Spatola degli anni ‘80; per loro tramite, grazie all’indicazione del Di Maggio, era stato possibile individuare il complesso di via Bernini, dove abitavano, e catturare Salvatore Riina; Domenico Ganci, quando fu pedinato ad ottobre del 1992 (cfr. relazione di servizio in atti), fece perdere le sue tracce in prossimità dello sbocco di via Giorgione su via Bernini, per cui poteva ragionevolmente ipotizzarsi l’esistenza di collegamenti tra i Sansone e gli stessi Ganci, sui quali l’indagine del Ros era ancora in corso; i Sansone, in quanto titolari di diverse ditte e società, erano portatori degli interessi economici del gruppo corleonese; la perquisizione del complesso avrebbe reso noto all’associazione mafiosa la conoscenza da parte delle forze dell’ordine del luogo ove aveva alloggiato Salvatore Riina e dunque del ruolo dei Sansone nella cattura del boss, svelando così anche la collaborazione del Di Maggio.

Sulla base di tutti questi elementi, avviare un’indagine sistematica su questi soggetti, in parallelo a quella già in corso sui Ganci, avrebbe potuto portare

nella prospettazione difensiva - ad acquisizioni investigative di grande rilevanza, se non addirittura decisive per la sopravvivenza del gruppo che faceva capo al Riina, il quale appunto, proprio sui Sansone e sui Ganci, aveva potuto contare durante la latitanza, per i suoi spostamenti nella città e per il soddisfacimento delle proprie esigenze di vita quotidiana.

Questa opzione investigativa comportava evidentemente un rischio che l’Autorità Giudiziaria scelse di correre, condividendo le valutazioni espresse dagli organi di polizia giudiziaria, direttamente operativi sul campo, sulla rilevante possibilità di ottenere maggiori risultati omettendo di eseguire la perquisizione.

Nella decisione di rinviarla appare, difatti, logicamente, insita l’accettazione del pericolo della dispersione di materiale investigativo eventualmente presente nell’abitazione, che non era stata ancora individuata dalle forze dell’ordine, dal momento che nulla avrebbe potuto impedire a “Ninetta” Bagarella, che vi dimorava, o ai Sansone, che dimoravano in altre ville ma nello stesso comprensorio, di distruggere od occultare la documentazione eventualmente conservata dal Riina – cosa che in ipotesi avrebbero potuto fare anche nello stesso pomeriggio del 15 gennaio, dopo la diffusione della notizia dell’arresto in conferenza stampa, quando cioè il servizio di osservazione era ancora attivo - od anche a terzi che, se sconosciuti alle forze dell’ordine, avrebbero potuto recarsi al complesso ed asportarla senza destare sospetti.

L’osservazione visiva del complesso, in quanto inerente al solo cancello di ingresso dell’intero comprensorio, certamente non poteva essere diretta ad impedire tali esiti, prestandosi solo ad individuare eventuali latitanti che vi avessero fatto accesso ed a filmare l’allontanamento della Bagarella, che non era comunque indagata, e le frequentazioni del sito.

Questa accettazione del rischio fu condivisa da tutti coloro che presero parte ai colloqui del 15.1.93, Autorità Giudiziaria e reparti territoriali, dal momento che era più che probabile che il Riina, trovato con indosso i cd. “pizzini”, detenesse nell’abitazione appunti, corrispondenza, riepiloghi informativi, conteggi, comunque rilevanti per l’associazione mafiosa, e non potendo tutti coloro che la condivisero non essersi rappresentati che con il rinvio della perquisizione non si sarebbe potuto impedirne la distruzione o comunque la dispersione ad opera di terzi.

Inoltre, come ha riferito il dott. Caselli, i tempi del servizio di osservazione che il De Caprio avrebbe assicurato di continuare “in loco” non si annunciavano brevi, in quanto l’operazione da sviluppare si presentava molto complessa, considerato lo stato dei luoghi (bisognava individuare da quale unità il Riina fosse uscito) e la probabile presenza in loco di “pezzi” dell’organizzazione allertati dalla cattura del latitante, per cui dall’iniziale proposito di aspettare e vedere cosa sarebbe successo nelle prossime 48 ore si giunse ad aspettare ben 15 giorni.

Un lasso di tempo che sarebbe stato ampiamente sufficiente a terzi – che pure fossero stati video ripresi dal Ros entrare ed uscire dal complesso – per asportare o distruggere ogni cosa pertinente al Riina.

L’ADESIONE AL “RISCHIO”

Il profilo dell’adesione al rischio connaturato alla proposta ed alla decisione di rinviare la perquisizione appare, dunque, di per sé non rilevante ai fini di determinare l’elemento psicologico degli imputati, dovendo piuttosto verificarsi se i successivi comportamenti, cioè l’omessa riattivazione del servizio di osservazione e l’omessa comunicazione di tale decisione, siano valsi ad integrare la volontà di aiuto all’organizzazione denominata “cosa nostra”.

L’Autorità Giudiziaria, nell’eccezionalità dell’evento che vedeva in stato di arresto il capo della struttura mafiosa e che poteva costituire un’occasione unica ed irripetibile di assestare un colpo forse decisivo all’ente criminale, operò una scelta anch’essa di eccezione, rispetto alla alternativa che avrebbe imposto di procedere alla perquisizione del luogo di pertinenza del soggetto fermato, e ciò fece nell’ambito della propria insindacabile discrezionalità nella individuazione della tipologia degli atti di indagine utilizzabili per pervenire all’accertamento dei fatti.

Tale scelta, però, fu adottata certamente sul presupposto indefettibile che fosse proseguito il servizio di video sorveglianza sul complesso di via Bernini.

Che questa fosse la condizione posta al rinvio della perquisizione, è un dato certo ed acclarato non solo dalle deposizioni dei magistrati e degli ufficiali dell’Arma territoriale che presero parte a quei colloqui, durante i quali comunque si considerò la possibilità di vedere chi sarebbe venuto al complesso, eventualmente anche a prelevare i familiari, ma anche dalla stessa nota del col. Mori del 18.2.93 ove si dice, con riferimento all’attività di “osservazione ed analisi” della struttura associativa esistente intorno ai fratelli Sansone, suggerita il 15 gennaio, che tale attività veniva in effetti sospesa, per motivi di opportunità operativa e di sicurezza, in attesa di una sua successiva riattivazione, esplicitando, poi, nell’ultimo periodo, che si verificò una “mancata, esplicita comunicazione all’A.g. della sospensione dei servizi di sorveglianza su via Bernini”.

Al di là delle, in più punti, confuse (v. dichiarazioni sulla asserita non importanza dell’abitazione ove il latitante convive con la famiglia, perché non vi terrebbe mai cose che possano compromettere i familiari) argomentazioni addotte dagli imputati, che sono sembrate dettate dalla logica difensiva di giustificare sotto ogni profilo il loro operato, deve valutarsi se quei comportamenti omissivi valgano ad integrare un coefficiente di volontà diretta ad agevolare “cosa nostra”. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE

Il covo di Totò Riina abbandonato, solo equivoci e “scarsa comunicazione”? SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE su Il Domani il 05 febbraio 2023

Appare certo che l’attenzione investigativa del Ros avesse ad oggetto i fratelli Sansone e che in considerazione di tale indagine, la cui importanza fu esplicitata alla procura della Repubblica e da questa condivisa, si decise di nascondere il dato di conoscenza costituito da via Bernini. Tuttavia, l’Autorità Giudiziaria non vi diede lo stesso peso attribuito dal Ros

Su Domani posegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini

Sulla base degli elementi fattuali più innanzi richiamati, appare certo che l’attenzione investigativa del Ros, per come riferito anche dal comandante del reparto magg. Mauro Obinu, avesse ad oggetto, effettivamente, i fratelli Sansone e che in considerazione di tale indagine, la cui importanza fu esplicitata alla procura della Repubblica e da questa condivisa, si decise di nascondere il dato di conoscenza costituito da via Bernini.

Tuttavia, l’Autorità giudiziaria non vi diede lo stesso peso attribuito dal Ros.

Le indagini sui Sansone e sul cd. “covo” di Riina, costituivano, ad avviso della Procura, due filoni autonomi di investigazione, che dovevano procedere su binari paralleli, e difatti, quando, nella mattinata, si decise di procedere a perquisizione, non ne fu valutata l’interferenza sull’indagine in corso sui Sansone, che pure abitavano nello stesso complesso ed i cui telefoni erano sotto intercettazione, anzi, ha precisato il dott. Aliquò, fu addirittura accantonata l’idea di una refluenza dell’una sull’altra, anche perché non si sapeva quanto distassero le rispettive ville.

Così però non era, e non poteva essere, nelle valutazioni del De Caprio, per il quale assumeva un’importanza decisiva assicurare la “tranquillità” ai Sansone, in modo che riprendessero i loro contatti e si potesse avviare un sistematico servizio di osservazione, analogo a quello in atto sui Ganci, senza pericolo di essere scoperti.

Che ci fosse il pericolo, gravissimo, di essere notati e così svelare le acquisizioni investigative possedute è indubitabile, in considerazione del fatto che il territorio (zona Uditore), ove aveva trascorso la latitanza il Riina, era sotto il sistematico controllo mafioso della “famiglia” del quartiere e la cattura del boss costituiva senz’altro un evento idoneo ad allertare gli “osservatori” dell’organizzazione criminale.

Se questa considerazione di carattere logico vale a spiegare la decisione assunta dal cap. De Caprio il pomeriggio del 15 gennaio di non ripetere il servizio il giorno seguente, per il timore appunto che il dispositivo venisse scoperto, anche considerato il comportamento particolarmente accorto tenuto da “Pino” Sansone il giorno precedente (v. servizio di pedinamento del 14.1.93, di cui al secondo par.), il carattere permanente del comportamento contestato agli imputati impone di verificare la condotta in relazione a tutti i giorni che seguirono.

Come già evidenziato, è stato accertato che il 16 gennaio 1993 il De Caprio vide in televisione dei servizi giornalistici che mostravano il civico n. 52/54 di via Bernini, dove diverse troupes si erano recate a seguito di una “soffiata” da parte dell’Arma territoriale circa la via nella quale insisteva il “covo” di Riina.

In proposito, vanno richiamate le dichiarazioni dei testi Bolzoni e Ziniti, i quali hanno riferito con assoluta certezza che fu il magg. Ripollino, addetto all’Oaio (cfr. rif. al quarto par.) e responsabile dei rapporti con la stampa, a dare loro l’indicazione della via, senza precisarne il numero civico, ove aveva abitato il latitante.

Il maggiore ha, però, dichiarato di non ricordare la circostanza, aggiungendo che neppure conosceva la via Bernini e che, in ogni caso, se invece fornì quella notizia lo fece obbedendo ad una disposizione dei suoi superiori.

L’allora col. Sergio Cagnazzo ha negato, dal canto suo, di avere mai dato un ordine in tal senso, precisando che era nell’interesse comune tenere segreta l’ubicazione del “covo”, mentre il gen. Cancellieri ha addirittura riferito di avere appreso solo al dibattimento questa circostanza.

Come si vede, tali risultanze non consentono di ricostruire la dinamica dell’episodio con la dovuta precisione, tuttavia, appare certo, alla luce delle specifiche, concordi e genuine deposizioni testimoniali dei giornalisti di cui sopra, che la notizia di via Bernini gli venne in effetti data e venne loro fornita proprio dal magg. Ripollino.

Per quale motivo, con quali finalità e su ordine di chi, non è stato possibile accertarlo in base ai pochi elementi acquisiti al giudizio ma deve, verosimilmente, ipotizzarsi che nell’ambito della territoriale qualcuno avesse l’interesse a “bruciare” il sito, forse per questioni di rivalità o per contrasti sorti con il Ros.

Il 16 gennaio, i carabinieri della stazione di Corleone comunicarono il rientro della Bagarella in paese, notizia che fu oggetto il giorno seguente di una specifica riunione tra la procura e l’Arma territoriale, che manifestò dei dubbi sul servizio di osservazione del Ros, il quale nulla aveva comunicato in merito. A conclusione della discussione, si decise di concedere altro tempo al reparto, che – si credeva – stesse lavorando.

È stato accertato che tutte le riunioni che si susseguirono, da quel 16 gennaio sino a fine mese, avvennero sempre e solo tra l’Autorità Giudiziaria e la territoriale. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE

E poi la sceneggiata della perquisizione di Fondo Gelsomino. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE su Il Domani il 06 febbraio 2023

Il Maggiore Obinu, che ha dichiarato di avere saputo dei preparativi in merito alla perquisizione al fondo il giorno 20 gennaio, quando già sapeva che il servizio era stato dimesso, non mise in relazione quell’evento con la necessità che l’osservazione fosse in atto, cosa che altrimenti gli avrebbe imposto una doverosa comunicazione all’Autorità Giudiziaria ed ai vertici dell’Arma...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini

Dopo l’arresto del Riina, ogni reparto si occupò del filone di indagine rimesso alla propria competenza e cessarono quelle riunioni di coordinamento e di scambio di informazioni che avevano avuto luogo, sino al giorno della cattura, tra il nucleo operativo e la sezione comandata dal cap. De Caprio.

D’altronde, c’era la convinzione che il Ros si stesse occupando di via Bernini, mentre invece era impegnato negli accertamenti di carattere documentale sui cd. “pizzini” trovati indosso al Riina ed al Biondino ed in quelli di carattere patrimoniale e societario sui Sansone, oggetto di una specifica relazione del 26.1.93.

Neppure alla riunione del 20 gennaio, nella quale si deliberò a scopo di “depistaggio” dei giornalisti la perquisizione al cd. “fondo Gelsomino”, il Ros era presente, e l’iniziativa fu assunta dalla territoriale concordemente con l’Autorità Giudiziaria.

Come già accennato, il presupposto in base al quale fu ritenuta necessaria questa operazione era costituito dal fatto che numerosi giornalisti, sin dal 16 gennaio come innanzi detto, stavano perlustrando la zona alla ricerca del “covo”; la notizia era pertanto pervenuta alla stampa così come quella relativa alla collaborazione dal Piemonte di tale “Baldassarre” (cfr. lancio Ansa del 16.1.93).

Non v’è dubbio, sul piano logico, che tali elementi avrebbero dovuto indurre gli organi investigativi e gli inquirenti a ritenere il sito ormai “bruciato”, essendo gli uomini di “cosa nostra” già in possesso di tutte le informazioni per stabilire il collegamento via Bernini-DiMaggio-Sansone, ed avrebbero dovuto imporre di procedere subito alla sua perquisizione ma così non fu ed, al contrario, si ritenne cogente l’interesse a sviare l’attenzione dei mass media dal vero obiettivo.

Anche nella valutazione del cap. De Caprio – il quale ha altresì negato di avere mai appreso del lancio Ansa sopra citato che aveva fatto il nome del collaboratore - il sito non era ancora definitivamente “bruciato”, ma la presenza della stampa in zona ne aveva solo reso impossibile l’immediato sfruttamento a fini investigativi, per cui si rese necessario far “raffreddare” il luogo e rinviarne il controllo sino a data utile, la quale, tuttavia, a seguito della perquisizione al “fondo Gelsomino” e del lancio Ansa su via Bernini del 1.2.93 (cfr. al quarto par.), non arrivò mai.

Il Ros, come testimoniato dal magg. Obinu, venne comunque a conoscenza dei preparativi dell’operazione e della sua esecuzione ma non la condivise, ritenendola un ulteriore fattore di disturbo per l’investigazione sui Sansone, in quanto consistente in un’operazione in grande stile su un obiettivo molto vicino a via Bernini, che faceva scemare l’effetto sorpresa che il reparto si era prefisso di sfruttare nei confronti dei Sansone, ed aveva altresì l’effetto di metterli in ulteriore allarme, impedendo la “normalizzazione” dei loro rapporti e la ripresa dei loro contatti con altri associati mafiosi.

Anche questo evento, nella prospettazione difensiva, comportò l’esigenza di procrastinare ulteriormente l’avvio delle attività di indagine di tipo dinamico sui Sansone e quindi la messa in opera del servizio di osservazione su via Bernini, il che postula, necessariamente, che gli imputati non dovessero avere conoscenza della finalità diversiva posta alla base della decisione di perquisire il fondo perché, altrimenti, avrebbero dovuto manifestare l’inutilità della perquisizione e comunicare che il servizio, invece, non c’era.

In proposito, nessuna risultanza dell’istruzione dibattimentale ha consentito di accertare che gli imputati sapessero qual era lo scopo dell’operazione.

Il cd. “fondo Gelsomino”, con relativo manufatto, era stato indicato dal Di Maggio quale luogo in cui aveva visto il Riina anni prima e come tale era stato oggetto della particolare attenzione investigativa dell’Autorità Giudiziaria e dell’arma territoriale, che già il 13 gennaio 1993 avevano deciso di farvi irruzione, decisione poi mutata dietro l’insistenza del cap. De Caprio, che lo considerava ormai un luogo inattivo, arrivando alla soluzione di compromesso di metterlo sotto osservazione il giorno seguente assieme a via Bernini (v. sopra, primo par.).

Sulla scorta di questo dato di fatto, non può escludersi che il Ros abbia ritenuto quella operazione rispondente ad un interesse investigativo che era sempre stato presente e vivo nella territoriale e nell’Autorità Giudiziaria, ignorandone lo scopo di depistaggio che l’animava, rispetto ad un servizio di osservazione invece inesistente.

Lo stesso magg. Obinu, che ha dichiarato di avere saputo dei preparativi in merito alla perquisizione al fondo il giorno 20 gennaio, quando già sapeva che il servizio era stato dimesso (cfr. sua deposizione già richiamata al terzo e quarto par.), non mise in relazione quell’evento con la necessità che l’osservazione fosse in atto, cosa che altrimenti gli avrebbe imposto una doverosa comunicazione all’Autorità Giudiziaria ed ai vertici dell’Arma. Così come il gen. Cancellieri, dopo la scoperta dell’abbandono del sito, non sentì l’esigenza di riparlare dell’azione che era stata condotta sulla base di un presupposto inesistente, in quanto – ha detto - “andava comunque fatta”.

Ulteriore dato di difficile decifrazione, alla luce delle acquisizioni dibattimentali, è costituito dal fatto che un provvedimento di revoca delle intercettazioni telefoniche sulle utenze dei Sansone, tra le quali quella di via Bernini, risulta essere stato adottato quello stesso 20 gennaio 1993 (cfr. decreto in atti, già citato al quarto par.).

In difetto di ogni altra risultanza, non è stato possibile accertare le motivazioni che indussero a ritenere non più utile l’ascolto delle conversazioni telefoniche dei sopra nominati soggetti.

La mancanza di comunicazione e l’assenza di un flusso informativo tra l’autorità giudiziaria, la territoriale ed il Ros, davvero eclatante e paradossale nel caso dell’operazione “fondo Gelsomino”, appare comunque aver contraddistinto, sotto diversi profili, tutte le fasi della vicenda in esame.

Il Ros fa finta di niente e la procura di Caselli non chiede spiegazioni. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE su Il Domani il 07 febbraio 2023

A seguito della riunione del 26 gennaio, durante la quale alcuni ufficiali dell’arma prospettarono che il servizio era forse cessato da tempo, non vi fu alcuna interlocuzione con il Ros. Parimenti, il 27 gennaio 1993, quando alcuni magistrati della Procura visionarono le riprese filmate dei giorni 14 e 15 gennaio 1993, constatandone l’interruzione il giorno stesso dell’arresto del Riina, non fu avanzata al Ros alcuna richiesta di spiegazioni

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini

Le stesse modalità tecniche con cui era stato eseguito ed avrebbe dovuto proseguire il servizio di osservazione erano sconosciute ai reparti territoriali, tanto che lo stesso magg. Balsamo, che pure vide i filmati la sera del 14 gennaio 1993, rimase convinto che fosse stata utilizzata una telecamera fissa esterna, posizionata su un qualche supporto di fronte al cancello di ingresso al residence di via Bernini, mentre la Procura rimase estranea ai dettagli di carattere tecnico dell’operazione, tra i quali quelli relativi alla conformazione della strada ed alle ragioni che avevano escluso la possibilità di installare mezzi di ripresa, imponendo l’uso del furgone (cfr. deposizione dei dott.ri Aliquò e Caselli e del magg. Balsamo). Nell’unica occasione, il 13 gennaio 1993, in cui il dott. Aliquò interloquì con il Ros in merito a come pensava di eseguire l’osservazione, gli fu riferito che la presenza di videocamere, posizionate sulla via alla distanza ed al punto di osservazione idonei a filmare il cancello di ingresso, sarebbe stata con tutta probabilità scoperta e che era necessario utilizzare il furgone, con notevoli problemi di sicurezza per il personale.

Proprio in quell’occasione, come già aveva fatto anche in precedenza, il dott. Aliquò raccomandò che tutte le attività, in quanto dirette alla cattura di Riina, si svolgessero sempre con la massima attenzione per la sicurezza degli operanti.

Neppure si aveva l’esatta percezione di quali e quanti luoghi fossero sotto osservazione, ed in cosa quest’ultima consistesse, come precisato dal dott. Aliquò, secondo il quale, prima della cattura del Riina, tutti i luoghi di cui aveva parlato il Di Maggio, risultati ancora “attivi”, erano, genericamente, “osservati”, e come esplicitato nella nota a firma del dott. Caselli del 12.2.93, ove si afferma che il Ros il giorno della cattura assicurò che “i vari luoghi di interesse per l’indagine” erano “sotto costante e attento controllo”.

In realtà, non è emerso che si parlò di altri luoghi ad eccezione di via Bernini.

Ed ancora, come riferito dal dott. Aliquò, il rientro della Bagarella a Corleone, che pure fu oggetto di indagine per verificare come si era allontanata dal complesso ed eventualmente con quali appoggi, non fece avanzare al Ros alcuna richiesta di chiarimenti od informazioni, e ciò sebbene fosse stato oggetto di commenti in Procura (cfr. deposizione del dott. Patronaggio circa il primo “campanello d’allarme”, quarto par.).

Anche a seguito della riunione del 26 gennaio, durante la quale alcuni ufficiali dell’arma prospettarono che il servizio era forse cessato da tempo, non vi fu alcuna interlocuzione con il Ros.

Parimenti, il 27 gennaio 1993, quando alcuni magistrati della Procura visionarono le riprese filmate dei giorni 14 e 15 gennaio 1993, inoltrate con relazioni illustrative il giorno precedente, constatandone l’interruzione il giorno stesso dell’arresto del Riina, non fu avanzata al Ros alcuna richiesta di spiegazioni.

Infine, nella riunione – di cui non è stato possibile accertare la data - durante la quale l’imputato Mori avrebbe “accennato” alla sospensione del servizio, sollecitando indagini patrimoniali e bancarie sui Sansone, non venne chiesto il senso di quanto veniva riferito, e, pur nella ormai consapevolezza che il servizio non fosse più in corso (cfr. la “quasi certezza” riferita dal dott. Aliquò, già al quarto par.), si aspettò, per averne definitiva contezza, la riunione del 30.1.93. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE

La cattura del boss di Corleone segnata da troppi errori ed omissioni. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE su Il Domani il 08 febbraio 2023

L’omessa comunicazione della cessazione del servizio di osservazione si innestò, quindi, in una serie concatenata di omissioni, anch’esse significative della eccezionalità del contesto nel quale maturarono quegli accadimenti. Tutto ciò nonostante fosse stato arrestato non un criminale qualsiasi ma proprio uno dei latitanti più pericolosi e più ricercati...

Su Domani posegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini

L’omissione della comunicazione all’Autorità giudiziaria della decisione, adottata dal cap. De Caprio nel tardo pomeriggio del 15 gennaio stesso, di non riattivare il servizio il giorno seguente, e poi tutti i giorni che seguirono, è stata spiegata dal col. Mario Mori, nella nota del 18.2.93, con lo “spazio di autonomia decisionale consentito” nell’ambito del quale il De Caprio credeva di potersi muovere, a fronte delle successive “varianti sui tempi di realizzazione e sulle modalità pratiche di sviluppo” delle investigazioni che si intendeva avviare in merito ai Sansone, una volta che i luoghi si fossero “raffreddati”.

Ciò però non era e non poteva essere, alla luce della disciplina ex art. 55 e 348 c.p.p. delle attività di polizia giudiziaria.

Ed infatti, fino a quando il Pubblico Ministero non abbia assunto la direzione delle indagini, la polizia giudiziaria può compiere, in piena discrezionalità, tutte le attività investigative ritenute necessarie che non siano precluse dalla legge ai suoi poteri; dopo essa ha il dovere di compiere gli atti specificatamente designati e tutte le attività che, anche nell’ambito delle direttive impartite, sono necessarie per accertare i reati ovvero sono richieste dagli elementi successivamente emersi. L’art. 348 co. 3 c.p.p., per costante giurisprudenza (Cass. 7.12.98 n. 6712; Cass. 4.5.94 n. 6252; Cass. 21.12.92 n. 4603), pone, una volta intervenuta l’Autorità Giudiziaria, un unico limite alle scelte discrezionali della polizia giudiziaria, quello della impossibilità di compiere atti in contrasto con le direttive emesse.

Nella fattispecie appare indubitabile che la decisione assunta dal cap. De Caprio era incompatibile con la direttiva di proseguire il controllo - prescindendo se fosse da intendersi come video sorveglianza o come osservazione diretta od anche come semplice pattugliamento a mezzo di auto civetta della zona - impartita dall’Autorità giudiziaria e, seppure motivata con gli elementi successivamente emersi, relativi alla presenza in loco di operatori della stampa, alla fuga di notizie che aveva avuto ad oggetto via Bernini e dunque agli aggravati problemi di sicurezza della zona, andava immediatamente comunicata.

Con riferimento a tale aspetto della vicenda, certamente riconducibile al cap. De Caprio, va aggiunto che le acquisizioni processuali non consentono di individuare con esattezza il momento in cui il col. Mori fu messo a conoscenza delle iniziative assunte dal predetto capitano.

In proposito, le argomentazioni del De Caprio secondo il quale ebbe ad informare il proprio superiore verso la fine di gennaio appaiono inverosimili, atteso che il col. Mori, quale responsabile del Ros, era stato voluto dal dott. Caselli per dirigere le indagini che sarebbero scaturite dalle dichiarazioni del Di Maggio. Ed è quindi rispondente a criteri di comune logica ritenere che ogni decisione del cap. De Caprio dovesse essergli comunicata preventivamente o immediatamente dopo la sua assunzione.

Il sito, come già detto, fu abbandonato e nessuna comunicazione ne venne data agli inquirenti.

Questo elemento, tuttavia, se certamente idoneo all’insorgere di una responsabilità disciplinare, perché riferibile ad una erronea valutazione dei propri spazi di intervento, appare equivoco ai fini dell’affermazione di una penale responsabilità degli imputati per il reato contestato.

Il servizio di osservazione, come già innanzi precisato, non poteva avere una valenza sostitutiva rispetto alla mancata perquisizione del complesso e del cd. “covo”, in quanto non poteva impedire la distruzione od il trafugamento di materiale cartaceo, rilevante per la prosecuzione delle indagini, a mano della stessa Bagarella o dei Sansone che vi abitavano o anche di terzi che vi avessero acceduto, prestandosi solo ad individuare chi si sarebbe recato al residence e dunque i contatti che la famiglia e i Sansone avrebbero avuto, tanto più considerando che, anche nelle valutazioni dell’Autorità giudiziaria, si trattava di un’attività di durata nel tempo.

Il Ros, sulla scorta di questa considerazione, diede importanza precipua all’indagine sui Sansone, in seno alla quale il servizio di osservazione, a suo avviso, aveva senso se ed in quanto fosse stato possibile, in termini di sicurezza, ed utile in termini di risultati, per avere i Sansone ripreso, con la recuperata “tranquillità” dell’area, i loro contatti illeciti.

Contatti che in realtà, al contrario, erano attivissimi, nel senso di consentire lo svuotamento completo del “covo”.

L’omessa comunicazione della cessazione del servizio si innestò, quindi, in una serie concatenata di omissioni, già enucleate, anch’esse significative della eccezionalità del contesto nel quale maturarono quegli accadimenti, quali: il giorno dell’arresto, la omessa specificazione, neppure sollecitata dalla procura, di quali attività avrebbero dovuto essere condotte e con quali modalità; la omissione, da quel giorno in poi, di ogni flusso comunicativo ed informativo tra la procura della Repubblica ed i reparti territoriali con il Ros; la omissione di riunioni che vedessero la partecipazione di tutti e tre gli organismi; l’omesso coinvolgimento del Ros nella perquisizione al fondo Gelsomino; la omissione di qualsiasi richiesta di informazioni e di chiarimenti al Ros, sin dal 17 gennaio, quando fu comunicata la notizia del rientro della Bagarella a Corleone, e per tutti i giorni a seguire, anche dopo la manifestazione di perplessità, da parte degli ufficiali della territoriale e di alcuni magistrati che avevano visionato i filmati su via Bernini, sulla sussistenza in atto dell’osservazione, ed anche dopo la frase accennata dal col. Mori sulla sospensione del servizio.

Tutto ciò nonostante fosse stato arrestato non un criminale qualsiasi ma proprio uno dei latitanti più pericolosi e più ricercati, coinvolto nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio e già condannato all’ergastolo per gravissimi delitti.

Le finalità (mai accertate) del comportamento di Mori e di “Ultimo”. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE su Il Domani il 09 febbraio 2023

Ma quel che più rileva – ad avviso del Collegio – è che non è stato possibile accertare la causale delle condotte degli imputati. Invece, è stato accertato che il cap. De Donno a cavallo delle stragi di Capaci e di via D’Amelio prese contatti con Vito Ciancimino, tramite il figlio Massimo che conosceva, per avviare un dialogo...

Su Domani posegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini

Ma quel che più rileva – ad avviso del Collegio – è che non è stato possibile accertare la causale delle condotte degli imputati.

In un processo indiziario, l’accertamento della causale è tanto più necessario quanto meno è grave, preciso e concordante il quadro degli elementi che sorreggono l’ipotesi accusatoria, potendo, se convergente per la sua specificità ed esclusività in una direzione univoca, fungere da dato catalizzatore e rafforzativo della valenza probatoria degli stessi in merito al riconoscimento della responsabilità e così consentire di inferire logicamente, sulla base di regole di esperienza consolidate ed affidabili, il fatto incerto.

È stato accertato che il cap. De Donno a cavallo delle stragi di Capaci e di via D’Amelio prese contatti con Vito Ciancimino, tramite il figlio Massimo che conosceva, per avviare un dialogo e che, insieme all’imputato Mori, si recò ad incontrarlo nella sua casa romana in circa tre o quattro occasioni, in agosto, a fine settembre e nel dicembre 1992, appena prima che venisse tratto in arresto.

Il Ciancimino, inizialmente restio, si decise dopo le stragi a fungere da intermediario per un dialogo con “cosa nostra”, allo scopo di accreditarsi agli occhi dei due ufficiali per poterne trarre vantaggi con riferimento alle sue vicende giudiziarie, che lo vedevano in attesa di una sentenza di condanna definitiva e dunque della prospettiva del carcere.

Trovò un interlocutore con il gotha mafioso nel medico, di cui solo successivamente farà il nome, Antonino Cinà che inizialmente reagì con grande scetticismo ed arroganza all’iniziativa assunta dai carabinieri ma poi, stando a quanto riferito dal Ciancimino nel suo manoscritto “I carabinieri” acquisito al giudizio, gli conferì delega a trattare.

Al nuovo incontro che ebbe luogo a casa sua a fine settembre, arrivato ormai il momento di svelare i termini della proposta, gli ufficiali chiesero la resa dei grandi latitanti Riina e Provenzano limitandosi ad offrire, in cambio, un trattamento di favore per le famiglie.

Fu chiaro, allora, al Ciancimino che in realtà non c’erano i margini per addivenire a nessun accordo e che anche la sua posizione, che giocava sull’ambiguità del suo ruolo di interfaccia tra i carabinieri e la mafia, era ormai irrimediabilmente compromessa, cosa che lo indusse a continuare per suo conto la “trattativa”, prospettando falsamente ai capi mafiosi, da una parte, una soluzione politica per le imprese colpite dal fenomeno “tangentopoli”, ai carabinieri, dall’altra, la sua volontà di inserirsi nell’organizzazione per conto dello Stato, decidendo di collaborare efficacemente con la giustizia.

A tal fine, con il pretesto di averne bisogno per questa sua attività, chiese ai due ufficiali, nell’ultimo incontro nei giorni immediatamente precedenti la sua nuova incarcerazione del 19.12.92, che gli fosse rilasciato il passaporto che gli era stato ritirato, evidentemente al reale scopo di sottrarsi all’esecuzione dei provvedimenti giudiziari che, proprio in quel medesimo frangente temporale, stavano per essere adottati nei suoi confronti, andando a riparare all’estero.

Chiese, pure, che gli fossero esibite le mappe relative ad alcune zone della città di Palermo ed atti relativi ad utenze Amap, in quanto a conoscenza di elementi utili alla ricerca del Riina.

È di fondamentale rilievo, nel presente giudizio, accertare quali furono le finalità concrete che mossero il nominato col. Mori a ricercare questi contatti con il Ciancimino.

Al riguardo, le ipotesi astrattamente prospettabili sono due, e cioè che il Mori volesse intavolare un vero e proprio negoziato con l’organizzazione criminale, oppure che, tramite l’allettante (per la mafia) pretesto di voler aprire per conto dello Stato un canale di comunicazione con l’associazione, così da addivenire ad una sorta di “tregua” con importanti concessioni, intendesse solo carpire informazioni utili alle indagini ed alla individuazione del Riina.

Nella prima prospettiva, escluso ogni interesse personale dell’imputato che neppure a livello di sospetto è stato mai avanzato, può ipotizzarsi che la “trattativa” avesse un reale contenuto negoziale, i cui termini fossero, dalla parte mafiosa, la cessazione della linea d’azione delle stragi, dalla parte istituzionale, la garanzia della prosecuzione degli affari criminali dell’ente ovvero la salvaguardia della latitanza di alcuni suoi esponenti, oppositori del Riina (così Bernardo Provenzano), tramite l’assicurazione che la documentazione in possesso del boss corleonese, sempre che, in via ipotetica, contenesse informazioni sugli uni e sugli altri, non sarebbe stata reperita dalle forze dell’ordine.

Già, difatti, è stato osservato che, se pure non è stato possibile accertare l’effettiva esistenza ed il contenuto di questi documenti, gli stessi, verosimilmente, erano presenti nella casa e potevano contenere dati rilevanti sulle attività dell’associazione e su altri affiliati o fiancheggiatori della medesima.

Non può quindi escludersi, sul piano delle deduzioni in astratto, che tali documenti contenessero notizie potenzialmente “ricattatorie” per alcuni soggetti, anche appartenenti alle istituzioni e contigui a “cosa nostra” e che vi fosse tutto l’interesse di esponenti dell’organizzazione criminale ad assicurarsene il possesso, anche per garantirsi un’impunità che, quanto al Provenzano ed al Matteo Messina Denaro (indicato dal Provenzano al Giuffré come possibile consegnatario dei predetti documenti) era all’epoca in atto da lungo tempo.

In quest’ottica la consegna del Riina, fautore delle stragi, potrebbe essere stata il prezzo da pagare volentieri per coloro che, nella mafia, intendessero sbarazzarsi del boss per assumere il comando dell’organizzazione, ed al tempo stesso privilegiassero un’opposizione di basso profilo, più produttiva dal punto di vista della salvaguardia degli interessi economici del sodalizio e della sua stabilità. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE

L’hanno arrestato o si è consegnato? Ecco cosa dicono i giudici di Palermo. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE su Il Domani il 10 febbraio 2023

L’istruzione dibattimentale ha, al contrario, consentito di accertare che il latitante non fu consegnato dai suoi sodali, ma localizzato in base ad una serie di elementi tra loro coerenti e concatenati che vennero sviluppati, in primo luogo, grazie all’intuito investigativo del cap. De Caprio.

Su Domani posegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini

Passando dal piano delle mere congetture a quello delle risultanze probatorie, la consegna del boss corleonese, nella quale avrebbe dovuto consistere la prestazione della mafia, è circostanza rimasta smentita dagli elementi fattuali acquisiti al presente giudizio.

L’istruzione dibattimentale ha, al contrario, consentito di accertare che il latitante non fu consegnato dai suoi sodali, ma localizzato in base ad una serie di elementi tra loro coerenti e concatenati che vennero sviluppati, in primo luogo, grazie all’intuito investigativo del cap. De Caprio. Ed invero, il Di Maggio rivelò che tale “Pino” Sansone, assieme a Raffaele Ganci, provvedeva ad accompagnare il Riina nei suoi spostamenti in città ed a curarne la latitanza; indicò vari luoghi, nella zona Uditore, dove aveva visto il boss ed il 12 gennaio 1993, nel corso di uno dei vari sopralluoghi cui prese parte, condusse i carabinieri in via Cimabue e poi in via Bernini (ma più avanti di qualche centinaio di metri rispetto al residence, cfr. deposizione del mar.llo Merenda, primo par.), luoghi ove indicò gli stabili dove avevano sede gli uffici del Sansone, che ne consentì l’individuazione in Giuseppe, uno dei fratelli Sansone, imprenditori edili e titolari di numerose società.

Tale nominativo era già emerso nel corso del processo cd. Spatola Rosario + 74 , dunque il cap. De Caprio, che nel corso del servizio contestualmente in atto sui Ganci non aveva riscontrato alcun contatto con il Riina, decise di concentrare l’attenzione investigativa del Ros proprio su questi individui e, per tale ragione, dal 13.1.93 furono sottoposte ad intercettazione telefonica le utenze intestate a Sansone Gaetano, alla moglie Matano Concetta, alla sua ditta individuale ed alle società a r.l. Sicos, Soren, Sicor, nonché quella intestata alla ditta individuale Sansone Giuseppe.

Su ordine del cap. De Caprio, il mar.llo Santo Caldareri eseguì approfonditi accertamenti anagrafici e documentali che portarono alla individuazione della loro residenza anagrafica in via Beato Angelico n.51 ed alla scoperta di un’utenza telefonica, intestata a Giuseppe, sita in via Bernini nn. 52/54.

Il 7 ottobre 1992, Domenico Ganci era stato pedinato sino a via Giorgione, il cui prolungamento andava a terminare proprio su via Bernini, all’altezza del numero civico 52/54.

Nel pomeriggio del 13 gennaio 1993, i mar.lli Riccardo Ravera e Pinuccio Calvi si recarono, su ordine del De Caprio, in via Bernini a verificare i luoghi ed accertarono sul citofono del complesso di villette il nominativo dei Sansone, con le rispettive mogli, che dunque domiciliavano di fatto proprio in quel residence, invece che nel luogo di residenza.

Fu subito inoltrata la richiesta di autorizzazione all’intercettazione telefonica dell’utenza fissa localizzata all’interno del complesso, le cui operazioni di ascolto iniziarono nel pomeriggio del 14.1.93.

E va qui ripetuto che fu sempre il cap. De Caprio, il 13 gennaio 1993, a proporre nel corso di una riunione con la territoriale e con il procuratore aggiunto dott. Vittorio Aliquò, che suggerivano di eseguire una perquisizione nel “fondo Gelsomino”, un altro dei luoghi indicati dal Di Maggio, di non procedere con detta perquisizione, dal momento che riteneva dannosa ogni iniziativa diretta, ed invece concentrare le investigazioni sui Sansone, ottenendo l’autorizzazione a mettere sotto osservazione il complesso di via Bernini purché svolgesse analogo servizio sul predetto fondo.

L’osservazione del 14 gennaio, quindi, aveva ad oggetto il Sansone, che fu anche pedinato nel corso di quello stesso pomeriggio dagli uomini delle auto civetta in servizio, ed invece consentì di video filmare “Ninetta” Bagarella e Vincenzo De Marco, indicato dal Di Maggio come l’autista dei figli, mentre uscivano dal complesso, i quali furono riconosciuti dal Di Maggio nella notte, quando ancora il cap. De Caprio, assieme al magg. Balsamo, al mar.llo Merenda ed al collaboratore, procedettero a visionare le riprese effettuate dall’appuntato Coldesina.

La reiterazione del servizio il giorno seguente, con la presenza del collaboratore sul furgone, consentì l’immediata osservazione del Riina, in auto con Biondino Salvatore, mentre usciva dal complesso.

La presenza del Riina all’interno del residence ove abitava la famiglia non era affatto scontata e difatti il servizio si svolse con le stesse modalità di quello effettuato il giorno precedente, tranne che per la presenza del collaboratore e dello stesso De Caprio, con l’obiettivo certo di pedinare la Bagarella e il De Marco per arrivare al latitante.

Il Di Maggio non sapeva dove abitasse Salvatore Riina, come sempre affermato e riferito, negli anni 1995/1996, ai collaboratori escussi nel presente giudizio La Rosa e Di Matteo, in occasione dei commenti che gli stessi si scambiarono sulla vicenda dell’arresto del boss.

Neppure Giovanni Brusca, d’altra parte, ne era a conoscenza, in quanto sapeva solo la zona ove alloggiava e che ci andavano il De Marco e Pino Sansone; così pure ha riferito Antonino Giuffré.

Inoltre i collaboratori Brusca e La Barbera hanno riferito come avvenne lo svuotamento e la ristrutturazione della casa, fornendo elementi che logicamente escludono ogni ipotetica connivenza da parte degli imputati.

SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE

Un’azione dei Ros per ottenere informazioni sui grandi latitanti di mafia. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE su Il Domani il 11 febbraio 2023

Se gli elementi di carattere logico e fattuale sono idonei a smentire l’ipotesi della “trattativa” mafia-Stato avente ad oggetto la consegna del Riina, deve concludersi che più verosimilmente l’iniziativa del gen. Mori fu finalizzata solo a far apparire l’esistenza di un negoziato, al fine di carpire informazioni utili sulle dinamiche interne a “cosa nostra” e sull’individuazione dei latitanti.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini

Inizialmente essi si posero il problema che l’abitazione fosse sorvegliata dalle forze dell’ordine e proprio per questo motivo l’incarico di procedere alla eliminazione di ogni traccia relativa al Riina ed alla famiglia venne affidato, tramite il cugino, ai Sansone, che potevano andare e venire dal residence senza problemi in quanto vi abitavano.

La scelta di questi soggetti comprova che la mafia ignorava del tutto che invece proprio loro fossero stati individuati e grazie a questo si fosse pervenuti ad osservare via Bernini ed all’arresto del Riina.

Pertanto, l’intuizione del Ros di non svelare il dato di conoscenza relativo alla via ed agli imprenditori, che fu alla base della scelta di rinviare la perquisizione, fu esatta se riferita alle future proiezioni investigative, ma del tutto errata nel presente di quella decisione, in quanto, proprio perché li credeva sconosciuti alle forze dell’ordine, l’organizzazione mafiosa se ne servì nell’immediato per ripulire l’abitazione.

L’associazione criminale, inoltre, si affrettò ad agire, subito dopo la cattura del Riina, nel presupposto che il complesso fosse osservato, mentre come si è visto così non era, per cui i Sansone, anche se fermati dai carabinieri, avrebbero avuto comunque, in quanto residenti, la giustificazione ad entrarvi.

Solo con il passare dei giorni, hanno riferito il La Barbera ed il Brusca, l’iniziale preoccupazione e timore di essere sorpresi lasciò il posto alla soddisfazione ed alla sorpresa di constatare che non c’erano problemi e tutto stava procedendo al meglio.

Anche le frasi, attribuite dal Giuffré a Bernardo Provenzano ed a Benedetto Spera, i quali commentando l’accaduto avrebbero detto che “per fortuna” in sede di perquisizione del 2.2.93 i carabinieri non avevano trovato nulla, confermano che lo stesso Provenzano non si aspettava un simile esito e dunque non aveva preso parte alla “trattativa”, consegnando il Riina in cambio dell’abbandono del “covo” nelle mani del sodalizio criminale.

La ricostruzione, coerente e supportata da dati di fatto provati, degli accadimenti relativi allo svuotamento della casa ha consentito di accertare, da una parte, che il complesso di via Bernini fu individuato soltanto grazie alle attività investigative del Ros, dall’altra, che la mafia agì sul “covo” ignorando l’inesistenza del servizio di osservazione ed anzi supponendo che fosse in corso.

Questi elementi consentono, pertanto, di escludere che il latitante venne catturato grazie ad una “soffiata” dei suoi sodali sul luogo ove dimorava, non essendo emerso a sostegno di quest’ipotesi alternativa alcun elemento, neppure di natura indiziaria, se non la stessa supposizione, elaborata a posteriori, sui motivi per i quali furono omessi la perquisizione, prima, ed il servizio di osservazione, poi, sul complesso.

Appare altresì coerente con queste conclusioni la circostanza che neppure si verificò la fine della stagione stragista messa in atto dalla mafia, la quale, anzi, com’è notorio, nel maggio 1993 attentò alla vita del giornalista Maurizio Costanzo e fece esplodere un ordigno a via dei Georgofili a Firenze, nel mese di luglio compì altri attentati in via Pilastro a Milano, a San Giovanni in Laterano ed a San Giorgio al Velabro a Roma, mentre a novembre pose in essere il fallito attentato allo stadio olimpico di Roma.

Se la cattura del Riina fosse stata il frutto dell’accordo con lo Stato, tramite il quale era stata siglata una sorta di “pax” capace di garantire alle istituzioni il ripristino della vita democratica, sconquassata dagli attentati, ed a “cosa nostra” la prosecuzione, in tutta tranquillità dei propri affari, sotto una nuova gestione “lato sensu” moderata, non si comprenderebbe perché l’associazione criminale abbia invece voluto proseguire con tali eclatanti azioni delittuose, colpendo i simboli storico-artistici, culturali e sociali dello Stato, al di fuori del territorio siciliano, in aperta e sfrontata violazione di quel patto appena stipulato.

Anche i progetti elaborati dal Provenzano di sequestrare od uccidere il cap. De Caprio, di cui hanno riferito in dibattimento, in termini coincidenti, i collaboratori Guglielmini, Cancemi e Ganci, appaiono in aperta contraddizione con la tesi della consegna del Riina al Ros.

Se così fosse avvenuto, il boss non avrebbe avuto alcun interesse alla ricerca del capitano “Ultimo”, mentre, da quanto sopra, è stato accertato che effettivamente si cercò di individuarlo, tramite un amico del compagno di gioco al tennis.

Se gli elementi di carattere logico e fattuale di cui sopra sono idonei a smentire l’ipotesi della “trattativa” mafia-Stato avente ad oggetto la consegna del Riina, deve concludersi che più verosimilmente l’iniziativa del gen. Mori fu finalizzata solo a far apparire l’esistenza di un negoziato, al fine di carpire informazioni utili sulle dinamiche interne a “cosa nostra” e sull’individuazione dei latitanti.

Sembra confermare una tale interpretazione anche il rilievo che il comportamento assunto dal cap. De Donno e dall’imputato apparirebbe viziato – ponendosi nell’ottica di una trattativa vera invece che simulata - da un’evidente ed illogica contraddizione, solo se si consideri che gli stessi si recarono dal Ciancimino a “trattare” chiedendo il massimo, la resa dei capi, senza avere nulla da offrire.

Forse, proprio sulla scorta di una tale considerazione, gli uomini di “cosa nostra” credettero che in effetti i due ufficiali fossero disponibili, per conto dello Stato, a sostanziali concessioni nei confronti dell’organizzazione pur di mettere fine alle stragi, rimanendo persuasi della “bontà” della linea d’azione elaborata dal Riina che, difatti, verrà portata avanti anche successivamente all’arresto del boss, sperando, verosimilmente, che si potesse giungere, anche con il “capo” in carcere, ad un “ammorbidimento” della lotta alla mafia portata avanti dalle istituzioni.

Non può non rilevarsi che nella prospettiva accolta da questo decidente l’imputato Mori pose in essere un’iniziativa spregiudicata che, nell’intento di scompaginare le fila di “cosa nostra” ed acquisire utili informazioni, sortì invece due effetti diversi ed opposti: da una parte, la collaborazione del Ciancimino che chiese di poter visionare le mappe della zona Uditore ove si sarebbe trovato il Riina, verosimilmente nell’intento di prendere tempo e fornire qualche indicazione in cambio di un alleggerimento della propria posizione giudiziaria; dall’altra, la “devastante” consapevolezza, in capo all’associazione criminale, che le stragi effettivamente “pagassero” e lo Stato fosse ormai in ginocchio, pronto ad addivenire a patti.

SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE

Assolti, Mori e De Caprio non volevano eliminare prove a favore di Cosa nostra. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE Il Domani il 12 febbraio 2023

In conclusione, gli elementi che sono stati acquisiti non consentono ed anzi escludono ogni logica possibilità di collegare quei contatti intrapresi dal col. Mori con l’arresto del Riina ovvero di affermare che la condotta tenuta dagli imputati nel periodo successivo all’arresto sia stata determinata dalla precisa volontà di creare le condizioni di fatto affinché fosse eliminata ogni prova potenzialmente dannosa per l’associazione mafiosa.

Su Domani posegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini

Il Collegio ritiene, infine, di non poter condividere la prospettazione della pubblica accusa che, sulla base di imprecisate “ragioni di Stato”, ha chiesto di affermare la penale responsabilità degli imputati per il reato di favoreggiamento non aggravato, da dichiararsi ormai prescritto.

Tali “ragioni di Stato” non potrebbero che consistere nella “trattativa” di cui sopra intrapresa dal Mori, con la consapevolezza, acquisita successivamente, del De Caprio e, dunque, lungi dall’escludere il dolo della circostanza aggravante varrebbero proprio ad integrarlo, significando che gli imputati avrebbero agito volendo precisamente agevolare “cosa nostra”, in ottemperanza al patto stipulato e cioè in esecuzione della controprestazione promessa per la consegna del Riina.

La “ragione di Stato” verrebbe dunque a costituire il movente dell’azione, come tale irrilevante nella fattispecie ex art. 378 C.P., capace non di escludere il dolo specifico ex art. 7 L. n. 203/91, bensì di svelarlo e renderlo riconoscibile, potendo al più rilevare solo come attenuante ove se ne ammettesse la riconducibilità alle ipotesi di cui all’art. 62 C.P., comunque escluse dal giudizio di comparazione.

La mancanza di prova sull’esistenza di questi “motivi di Stato” che avrebbero spinto gli imputati ad agire, ed anzi la dimostrazione in punto di fatto della loro inesistenza ed incongruenza sul piano logico, per le considerazioni già esposte – considerato, altresì, che la controprestazione promessa avrebbe vanificato tutti gli sforzi investigativi compiuti sino ad allora dagli stessi imputati, anche a rischio della propria incolumità personale, e lo straordinario risultato appena raggiunto - non consente di ritenere integrato il dolo della fattispecie incriminatrice in nessuna sua forma.

È palese, infatti, che se vi fu “ragione di Stato” si intese “pagare il prezzo” dell’agevolazione, per il futuro, delle attività mafiose, pur di “incassare” l’arresto del Riina, con la piena configurabilità del favoreggiamento aggravato, ma se non vi fu, gli imputati devono andare esenti da responsabilità penale.

Appare, difatti, logicamente incongruo, già su un piano di formulazione di ipotesi in funzione della verifica della prospettazione accusatoria in ordine alla sussistenza del reato base di favoreggiamento con dolo generico, individuare in soggetti diversi dall’organizzazione criminale nel suo complesso coloro che gli imputati avrebbero inteso agevolare tramite la mancata osservazione del residence di via Bernini, così volendo aiutare individui determinati invece che l’associazione nella sua globalità.

L’impossibilità, già da un punto di vista oggettivo, di discernere i soggetti favoriti (la Bagarella neppure era indagata) dall’associazione mafiosa si ripercuote sul versante soggettivo, apparendo inverosimile che gli ausiliatori abbiano agito non al fine di consentire alla mafia la prosecuzione dei suoi affari, in ossequio al “patto scellerato”, ma volendo solo aiutare, nel momento stesso in cui procedevano all’arresto del capo dell’organizzazione, e senza alcuna apparente ragione, determinati affiliati ad eludere le investigazioni o le ricerche.

Ne deriva che, non essendo stata provata la causale del delitto, né come “ragione di Stato” né come volontà di agevolare specifici soggetti, diversi dall’organizzazione criminale nella sua globalità, l’ipotesi accusatoria è rimasta indimostrata, arrestandosi al livello di mera possibilità logica non verificata.

La mancanza di una prova positiva sul dolo di favoreggiamento non può essere supplita dall’argomentazione per la quale gli imputati, particolarmente qualificati per esperienza ed abilità investigative, non potevano non rappresentarsi che l’abbandono del sito avrebbe lasciato gli uomini di “cosa nostra” liberi di penetrare nel cd. covo ed asportare qualsiasi cosa di interesse investigativo e dunque l’hanno voluto nella consapevolezza di agevolare “cosa nostra”.

Sul versante del momento volitivo del dolo, una simile opzione rischierebbe di configurare un “dolus in re ipsa”, ricavato dal solo momento rappresentativo e dalla stessa personalità degli imputati, dotati di particolare perizia e sapienza nella conduzione delle investigazioni.

Ma, quanto al momento rappresentativo, già è stato precisato che il servizio di osservazione non sarebbe valso ad impedire l’asportazione di eventuale materiale di interesse investigativo, che poteva essere evitata solo con l’immediata perquisizione, quanto alle abilità soggettive degli imputati, esse non possono valere a ritenere provata una volontà rispetto all’evento significativo del reato che è invece rimasta invalidata dall’esame delle possibili spiegazioni alternative.

Ne deriva che il quadro indiziario, composto da elementi già di per sé non univoci e discordanti, è rimasto nella valutazione complessiva di tutte le risultanze acquisite al dibattimento e tenuto conto anche della impossibilità di accertare la causale della descritta condotta, incoerente e non raccordabile con la narrazione storica della vicenda come ipotizzata dall’accusa e per quanto è stato possibile ricostruire in dibattimento.

In conclusione, gli elementi che sono stati acquisiti non consentono ed anzi escludono ogni logica possibilità di collegare quei contatti intrapresi dal col. Mori con l’arresto del Riina ovvero di affermare che la condotta tenuta dagli imputati nel periodo successivo all’arresto sia stata determinata dalla precisa volontà di creare le condizioni di fatto affinché fosse eliminata ogni prova potenzialmente dannosa per l’associazione mafiosa.

Per le pregresse considerazioni, entrambi gli imputati devono essere mandati assolti per difetto dell’elemento psicologico. SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE

«Da mio padre morto nella strage di Capaci ho imparato che i veri eroi sono gli uomini giusti». Francesca Barra su L’Espresso il 7 Febbraio 2023.

Giovanni Montinaro è figlio di Antonio, il capo scorta di Giovanni Falcone che fu ucciso da Cosa nostra insieme al magistrato, alla moglie e ad altri due agenti di polizia. Per lui, superpotere è sopravvivere all’orrore mafioso

«Tutto ciò che è accaduto di bello dopo le stragi è anche merito delle vittime come mio padre, merito di quei pochi onesti che hanno scelto da che parte stare, per mio orgoglio dalla parte giusta». A parlare è Giovanni Montinaro, figlio di Antonio, capo scorta del giudice Giovanni Falcone che si trovava con altri due agenti, Rocco Dicillo e Vito Schifani nella Fiat Croma blindata sbalzata fuori strada per trecento metri alle 17.57 il 23 maggio del 1992.

L’unica cosa che hanno ritrovato di suo padre, che non aveva ancora trent’anni, è stata una mano: aveva le dita incrociate. Sua moglie Tina pensa che abbia fatto quel gesto scaramantico appellandosi alla fortuna perché se l’aspettava: in fondo quegli agenti «erano uomini, avevano paura».

Antonio Montinaro era un poliziotto pugliese e scelse di fare la scorta del giudice Giovanni Falcone perché sentiva che quell’uomo poteva cambiare le cose, perché sentiva che fosse indispensabile. Era prezioso e come tutte le cose preziose meritava protezione.

Ciò che accadde ad Antonio è storia, ma un attimo prima, quando ancora tutto sembrava possibile, ha compiuto un consueto rituale familiare: ha baciato sua moglie, il figlio maggiore Gaetano di quattro anni e lui, che era il più piccolo, Giovanni, di appena ventuno mesi, a cui aveva dato il nome del suo eroe.

È stata l’ultima volta che ha potuto toccare il suo papà, ma non lo ricorda. Non ha memoria del tempo trascorso insieme, della famiglia riunita attorno a un tavolo, a ridere, a scherzare, il ricordo di una gita al mare, di una discussione perfino per una banalità, per una diversa opinione da difendere, come fanno tutti i figli con i genitori. Non ricorda nemmeno come sia venuto a conoscenza, la prima volta, del perché suo padre non fosse mai più tornato a casa.

È cresciuto facendo i conti con un’assenza che era insieme simbolo di una ferita per l’intero Paese, sapendo di essere il figlio di un uomo ucciso dalla mafia. Nomi, ipotesi di trattative, volti, latitanti, processi, interviste, commemorazioni. Ma lui era solo un bambino e la mafia, per molto tempo, è stata rappresentata nella sua testa come un enorme mostro, come in quei disegni squilibrati e spaventosi che si fanno all’asilo.

Oggi è un uomo, ha raggiunto l’età che aveva suo padre e se torna agli anni immediatamente dopo la strage ricorda che gli adulti lo fissavano, che gli ripetevano di essere orgoglioso e gli ripetevano che suo padre era un eroe. Per Giovanni gli eroi non sono mai stati quelli dei fumetti con i superpoteri, quelli che non muoiono mai, che resistono a ogni imprevisto. Sono gli uomini come suo padre, gli onesti, chiamati da molti eroi.

Giovanni non smette di ricordare suo padre. Le mafie si cibano di dolore e silenzio, ecco perché le storie sono temute dalle organizzazioni criminali. Le storie allenano la memoria, ti fanno capire da che parte stare, formano la coscienza civile, tengono accesa una luce. Le storie delle vittime e dei loro familiari non sono mai belle. Ma bellezza è mostrare di cosa sia capace un uomo giusto. Il loro sacrificio dimostra alle mafie che la vera bellezza sopravvive perfino alla morte.

Antimafia, il pg Patronaggio: “Borsellino attanagliato da ansia di verità. In Mafia e appalti non ortodossa gestione dei confidenti”. Giuseppe Pipitone su Il Fatto Quotidiano il 29 novembre 2023.

Nelle indagini su Mafia e appalti “si era venuta a creare una contrapposizione tra il metodo di lavoro dei carabinieri e quello della procura di Palermo“. Che tipo di contrapposizione? “I carabinieri ritenevano di avere riversato un’enorme massa di intercettazioni e che lì vi fosse tutto. Poi era compito della procura trarre le conseguenze. In realtà in quella riunione del 14 luglio 1992 appresi che queste intercettazioni avevano grosse difficoltà a essere lette e a essere interpretate”. Parola di Luigi Patronaggio, procuratore generale di Cagliari e giovane pm in servizio a Palermo all’epoca delle stragi. Il magistrato è stato ascoltato oggi dalla commissione Antimafia presiduta da Chiara Colosimo. Ed è tornato indietro nel tempo, a quella riunione in procura il 14 luglio del 1992: il giorno prima era stata richiesta l’archiviazione per alcuni degli indagati di Mafia e appalti, cioè il dossier del Ros sui rapporti tra Cosa nostra, l’imprenditoria e la politica. La vicenda è nota: secondo l’avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino e avvocato dei figli del giudice, l’archiviazione di quella parte di procedimento è il movente segreto dietro alla strage di via d’Amelio.

L’ultima riunione di Borsellino in procura – “Quella riunione fu convocata in modo un pò strano perché da un lato si diceva nell’ordine del giorno: ‘Saluti in vista delle ferie‘ dall’altro nell’ordine del giorno c’erano argomenti, ognuno dei quali meritava un approfondimento notevole, come mafia-appalti, ricerca dei latitanti, estorsioni”, ha spiegato Patronaggio. Che ha ricordato come Borsellino fosse molto interessato all’indagine: “Quando si diede la parola all’istruttore, il dottor Lo Forte (uno dei titolari dell’indagine che chiese l’archiviazione il 13 luglio del ’92 ndr), per riferire su mafia-appalti Borsellino faceva domande da cui si capiva che voleva sapere qualcosa in più. L’istruttore si soffermò su materie tecniche mentre Borsellino, che sicuramente era stato compulsato dai carabinieri, fece domande da cui si intuiva una aspettativa, voleva sapere qualcosa in più su imprenditori e il ruolo dei politici“, ha continuato il magistrato. Incalzato dalle domande dei parlamentari ha poi aggiunto: “Non ricordo che Borsellino disse di attendere prima di archiviare e non ricordo che disse di rinviare la discussione sull’indagine”. Un dettaglio non secondario, visto che il magistrato sarà ucciso soltanto cinque giorni dopo. “Ero un giovane magistrato e mi trovavo lì da poco. Paolo Borsellino, nei giorni che vanno dalla strage di Capaci a quella di via D’Amelio, era agitatissimo, era in preda a un’ansia di verità che lo attanagliava”, ha proseguito il pg.

“Non era un rapporto ma un’annotazione” – A proposito dell’indagine del Ros Patronaggio ha aggiunto: “Il rapporto Mafia e appalti gettava un nuovo punto di vista investigativo perché riusciva a focalizzare bene il momento di acquisizione del meccanismo degli appalti da parte di Cosa nostra. Però devo pure dire, con la massima onestà intellettuale, che il rapporto nella sua versione del 20 febbraio 1991 non è un rapporto ma è un’annotazione. Non ha una rubricazione. Siamo a metà tra vecchio e nuovo codice: in quell’annotazione non si indicano gli indagati con ipotesi di reato. Aveva degli elenchi e delle schede e una quantità notevole di intercettazioni. Lì era giusta l’osservazione fatta dal dottore Lo Forte sul problema di utilizzabilità di queste intercettazioni”. La gestione di quelle intercettazioni è una delle anomalie dell’indagine che creò una spaccatura tra carabinieri e procura, come è emerso durante i lavori precedenti della commissione e come era stato già chiarito al Parlamento dall’allora procuratore capo di Palermo, Gian Carlo Caselli, nel 1999. “Nelle 900 pagine depositate dal Ros nel febbraio ’91 non si faceva mai riferimento a personaggi importanti come Mannino, Salvo Lima, Rosario Nicolosi, De Michelis”, ha spiegato, nelle scorse settimane, Roberto Scarpinato, ex procuratore generale di Palermo che oggi è senatore del M5s. Una ricostruzione condivisa da Patronaggio: “Il nome di Lima esce in tutta la sua gravità con un’intercettazione del 1990 che però viene riversata nel settembre del 1992″, ha detto il pg. Sul punto la presidente Colosimo ha chiesto la magistrato se per caso la mancanza di quell’intercettazione nel dossier depositato nel febbraio de ’91 non fosse dovuta semplicemente al fatto che le intercettazioni vennero riascoltate dal Ros nel maggio del ’92, come scrive la gip di Caltanissetta Gilda Lo Forti archiviando il procedimento sulla gestione dell’inchiesta su Mafia e appalti nel 2000. Patronaggio, però, ha confermato che le intercettazioni di Lima vengono “a conoscenza del gruppo di lavoro non prima del settembre ’92”.

Anomalie sull’indagine – Dopo pochi mesi a Palermo arriverà Caselli e le indagini su mafia e colletti bianchi subiranno un’accelerazione: “La procura di Caselli cambiò registro – ha ricordato Patronaggio – Ma anche le indagini della vecchia procura non è che fossero ferme e bloccate, ricordo il procedimento su Vito Ciancimino. Certo non giovò ai rapporti tra il Ros e la procura la gestione del collaboratore Giuseppe Li Pera (uno dei personaggi principali dell’inchiesta Mafia e appalti ndr): era stato arrestato dalla procura di Palermo, si rifiutò di rendere dichiarazioni alla stessa procura e a un certo punto diventa confidente del Ros. Questo modo di procedere non è esattamente ortodosso e altrettanto non ortodossa è stata la mossa di far sentire Li Pera da un magistrato della procura di Catania, Felice Lima. Quindi con Palermo Li Pera non parlava, faceva da confidente ai carabinieri e però è stato sentito come testimone a Catania”. Di anomalie Patronaggio ha parlato anche a proposito della collaborazione di Angelo Siino, il cosiddetto ministro dei Lavori pubblici di Cosa nostra, che si pente nel giugno ’97. “Nonostante avesse avuto interlocuzione con l’Arma, Siino collabora attraverso la Guardia di Finanza. Di questo il Ros si dispiacerà molto. Quando si parla di collaboratori di giustizia ci sono delle regole. Quando si parla di rapporti confidenziali noi queste regole non le conosciamo. Dunque non posso riferire dei rapporti tra Li Pera e De Donno e quelli di Siino con esponenti dei carabinieri”, ha continuato Patronaggio. Il magistrato ha poi sottolineato: “Nonostante queste criticità il rapporto del Ros su mafia e appalti non si è esaurito. Già nel febbraio 1992 sulla scorta del dossier del Ros vengono arrestati due personaggi come Rosario Cascio e Vito Buscemi, fratello di Antonino Buscemi, capomafia di Boccadifalco, che un filo lungo porta al controllo della Calcestruzzi collegata al gruppo di Ravenna”. Cioè il gruppo Ferruzzi di Raul Gardini, al centro delle indagini su Tangentopoli, morto suicida nella sua casa di Palazzo Belgioioso a Milano nel luglio del 1993.

“Documento contro Giammanco atto coraggioso” – Patronaggio ha anche ricordato i momenti successivi alla strage di via d’Amelio, quando un documento sottoscritto da alcuni pubblici ministeri costrinse il Csm a intervenire su Pietro Giammanco, allora procuratore capo di Palermo. “Giammanco non era all’altezza di quel periodo drammatico che stavano vivendo la Sicilia e l’Italia. C’erano vecchie incomprensioni tra Giammanco e Falcone e Borsellino – ha aggiunto il pg del capoluogo sardo – Sapevamo che Giammanco faceva fare anticamera a questi due illustri magistrati. La procura era gestita da Giammanco in modo burocratico e verticista”. Dopo la morte di Borsellino, dunque, un pezzo di procura si ribella: “Il documento che sfiduciava Giammanco fu preso su iniziativa di Scarpinato a cui si aggiunsero altri colleghi tranne qualcuno che lo riteneva un documento forse troppo avanzato. Era una mossa molto azzardata perché i tempi erano diversi da quelli di oggi, c’erano diverse sensibilità politiche ed era un documento molto coraggioso“.

“Il covo di Riina? La verità processuale parla di un errore” – Durante l’audizione Patronaggio è tornato anche ai momenti successivi all’arresto di Totò Riina, quando da magistrato di turno interviene per andare subito a perquisire il covo. “Non mi faccio trascinare dalla suggestione, la verità processuale parla di un errore, di un problema di carattere tecnico”, ha detto riferendosi ai procedimenti sul mancato blitz nel residence dove abitava il capo dei capi con la famiglia. “I carabinieri brillantemente hanno arrestato Riina in un residence in via Bernini. Hanno portato Riina in caserma, io ero di turno e sono intervenuto subito insieme al procuratore Caselli che si era insediato in quei giorni: ricordo Riina in piedi sotto la foto di Carlo Alberto dalla Chiesa”, ha continuato il pg di Cagliari. “Esperite le formalità, ci fu un vertice nella caserma dei carabinieri, un summit ai massimi livelli. Il generale Mori su indicazione del capitano De Caprio, propose una modalità operativa che per noi era insolita ma che a quanto pare aveva dato i frutti nella lotta al terrorismo, cioè non fare irruzione nel covo ma fare un servizio di osservazione per vedere quello che succedeva”, ha proseguito Patronaggio. “Parliamo di due ufficiali di grandissima esperienza” ha sottolineato l’ex pm di Palermo, aggiungendo che le loro indicazioni non poterono “che trovare accoglimento ancorché la prassi seguita dalla procura di Palermo in questi casi era fare irruzione ed entrare. Ci veniva proposto un altro modo di operare, legittimo, e c’erano rischi oggettivamente, come la fuga di notizie o che potesse andare male qualcosa. Ma accettammo questa impostazione da parte di due ufficiali di altissima qualità”. Poi, però, quando Caselli chiese informazioni ai carabinieri ed emersero le “criticità” nacque una “contrapposizione tra il Ros e la procura di Palermo nella persona di Caselli che, fino lì, aveva avuto un rapporto ottimo con i carabinieri“, ha continuato sempre l’attuale pg di Cagliari. Fu detto “che non era stato possibile tenere sotto controllo il covo, gli uomini della squadra di De Caprio dovevano essere avvicendati e gli stessi filmati non erano stati portati a termine – ricorda – Si sono fatti processi su questa cosa e gli ufficiali dei carabinieri sono sempre stati assolti con formula piena. Si è parlato di un disguido, di una defaillance operativa: questa è la verità processuale acclarata con sentenze passate in giudicato”.

LA TRATTATIVA AZIENDE-MAFIA – I COLOSSI INDUSTRIALI DEL NORD E COSA NOSTRA

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “la Verità” martedì 28 novembre 2023.

La pista seguita, trent’anni fa, dal pm di Massa Carrara Augusto Lama portava in riserve di caccia suggestive. Un filone aureo che poteva condurre la magistratura a scoprire con molti anni d’anticipo gli affari della mafia con colossi industriali del Nord Italia. Uno in particolare con forti addentellati a sinistra, il Gruppo Ferruzzi, allora guidato da Raul Gardini. Quando Falcone diceva «la mafia è entrata in Borsa» pare proprio si riferisse ai rapporti di tale holding con la Piovra. 

Ma le indagini di Lama a un certo punto vennero fermate e le intercettazioni, da lui disposte, inviate a Palermo. Dove un pm ordinò di distruggerle. Ma, si scopre adesso, che parte di quegli audio si salvarono e potrebbero spalancare nuovi scenari. Oggi nella caserma Salvo D’Acquisto di Roma […] verrà effettuato un accertamento tecnico non ripetibile disposto dalla Procura di Caltanissetta nell’ambito del procedimento sulle stragi palermitane del 1992 e delegato al Reparto investigativo scientifico (Ris) dei Carabinieri.

L’accertamento avrà a oggetto parte delle bobine con le intercettazioni disposte nel 1990 e nel 1991 da Lama in un procedimento poi trasmesso, il 4 aprile 1992, alla Procura della Repubblica di Palermo dove fu assegnato, dal procuratore Pietro Giammanco al pubblico ministero Gioacchino Natoli che provvide subito a farlo archiviare. 

Inoltre, il 25 giugno 1992, quindi dopo l’omicidio di Giovanni Falcone e 24 giorni prima di quello di Paolo Borsellino, dispose «la smagnetizzazione dei nastri relativi alle intercettazioni telefoniche e/o ambientali disposte» e ordinando in un secondo momento, con scritta a mano, anche «la distruzione dei brogliacci».

Ma per un caso fortuito la Procura di Palermo non ha cancellato tutto. L’attuale capo dell’ufficio, Maurizio De Lucia, spiega: «Le bobine? Le abbiamo date a Caltanissetta che ce le ha recentemente chieste, infatti, non tutto quello che deve essere distrutto viene eliminato e questo accade con una certa frequenza… abbiamo fatto un approfondimento e alcune cose le abbiamo trovate». Quindi è una coincidenza? «Sostanzialmente sì». 

[…] Fatto sta che per la Procura nissena che sta indagando sulle vere cause della morte di Borsellino potrebbe essere materiale davvero interessante, sebbene siano state rinvenute solo alcune bobine. L’autorità giudiziaria di Caltanisetta nel 2003 aveva archiviato il procedimento sulle stragi indicando tra le motivazioni, tra l’altro, la mancanza delle intercettazioni di Massa Carrara. Sarebbe interessante sapere se, all’epoca, qualcuno le avesse chieste e soprattutto se a Palermo le avessero cercate.

Sull’importanza del procedimento istruito da Lama e sulla particolarità dell’iniziativa adottata da Natoli, […] ha insistito anche l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino e marito di Lucia, figlia maggiore del giudice ucciso. Trizzino ha infatti fortemente stigmatizzato la condotta di Natoli evidenziando come si tratti di un provvedimento del tutto sui generis, mai ripetuto né prima né dopo, poiché i procedimenti archiviati possono per legge sempre essere riaperti, e perché aveva a oggetto un’indagine, quella di Massa Carrara, di eccezionale importanza visto che documentava […] «presunte infiltrazioni mafiose nelle zone marmifere di Carrara attraverso il controllo della aziende Sam e Imeg».

Un interesse che non riguardava solo il marmo, ma anche i suoi scarti che venivano utilizzati in numerosi e lucrosi altri processi industriali. L’indagine di Lama era nata casualmente durante l’estate del 1990 a margine di una controversia amministrativa sorta tra il Comune di Carrara e le due società Industrie marmi e graniti Spa (Imeg) e Società apuana marmi (Sam) concessionarie di circa il 50% dei cosiddetti agri marmiferi delle Apuane, quando il segretario del Consorzio cave di Carrara Franco Ravani riferì agli inquirenti che «di fatto le due società sarebbero state controllate da personaggi siciliani vicini a un gruppo mafioso».

Le dichiarazioni di Ravani furono confermate dal ragionier Alessandro Palmucci, già funzionario della Montecatini marmi Spa e poi della stessa Imeg, il quale ha ricostruito gli eventi che avevano portato una famiglia di Cosa Nostra palermitana, quella dei fratelli Salvatore, Giuseppe e Antonino Buscemi, a controllare le cave del prezioso marmo di Carrara. 

Palmucci riferì che alcune concessioni erano già state parzialmente vendute nel 1972 a un imprenditore trapanese, una cessione fortemente contestata dai sindacati e con strascichi giudiziari tanto che intervenne lo Stato con l’Iri e con la partecipata Egam. Questa costituì le già citate Imeg e la controllata Sam.

Nel 1982 l’Iri di Romano Prodi liquida l’Egam, con la sua partecipazione nelle ditte successivamente al centro dell’inchiesta, che viene trasferita all’Eni, altra azienda di Stato. Dopo pochi anni, nel 1986, l’Eni di Franco Reviglio decide di dismettere e affida ai «dirigenti di Stato» Vito Gamberale e Vito Piscicelli il compito di «privatizzare», cosa che i due fecero attraverso una massiccia svalutazione delle merci che si trovavano nei magazzini di Imeg e Sam. 

A questo punto la Imeg e la Sam viene ceduto a prezzo di saldo alla Calcestruzzi Ravenna Spa, del Gruppo Ferruzzi, allora diretta dall’ex partigiano rosso Lorenzo Panzavolta, definito da Gardini «uomo d’ordine e di calcestruzzo», che nell’indagine milanese confessò una tangente da 600 milioni pagata al dirigente comunista Primo Greganti.

Dal 1987 al 1990 […] Imeg e Sam hanno quasi come esclusivo cliente della produzione marmifera la piccola società palermitana Generale impianti. Appreso ciò Lama dispose indagini con la Guardia di finanza coinvolgendo anche reparti di Bologna, Ravenna e soprattutto Palermo. Dopo oltre un anno di investigazioni, […] Lama accertò che la ditta di Palermo faceva capo alla famiglia mafiosa dei fratelli Buscemi e in parte anche alla famiglia Bonura, reggenti per conto di Totò Riina di un mandamento palermitano.

Lama interrogò personalmente il pentito Antonino Calderone che confermò la pista riconoscendo in foto i fratelli Buscemi come capimafia. Il pm accertò anche che a gestire le cave a Carrara, Cosa nostra aveva mandato il geometra Girolamo Cimino, cognato di Antonino Buscemi, nominato amministratore unico della Sam, manager che di fatto dirigeva anche la Imeg.

Nonostante questo quadro il pm palermitano Natoli l’1 giugno del 1992 chiese l’archiviazione del fascicolo originato in Toscana, istanza che fu accolta a tempo di record, nonostante il Ros di Mario Mori e Giuseppe De Donno avesse accertato in maniera del tutto indipendente gli «interessi» della Cupola nella cave di marmo di Carrara. […]

Alla fine, ed è proprio l’aspetto più significativo, l’unico magistrato a subire provvedimenti da parte del Csm fu proprio Lama, il quale per avere fatto dichiarazioni sui media sugli interessi mafiosi nelle cave di Carrara fu sottoposto dall’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli a procedimento disciplinare. 

«Per questo dovetti lasciare il fascicolo e il mio procuratore lo mandò a Palermo dove fece la fine che ha fatto» ci spiega Lama, 71 anni, romano, ma toscano di adozione. […] «Io ingenuamente pensai di rilasciare delle dichiarazioni alla stampa per far parlare, come si dice in gergo, i telefoni, cioè per stimolare le conversazioni di chi era nel perimetro dell’indagine.

Ma per questo l’avvocato del Gruppo Ferruzzi presentò un esposto e per questo Martelli inviò gli ispettori. Io dovetti astenermi per difendermi e il fascicolo mi fu tolto. Il procedimento disciplinare è durato 20 mesi e si è concluso con la mia assoluzione, anche perché le informazioni che avevo dato erano assolutamente generiche». 

Pensa che Martelli sia stato sollecitato in tal senso da Gardini, all’epoca ancora potente imprenditore e finanziatore dei partiti? «Io questa circostanza l’ho appresa dalle recenti dichiarazioni dell’avvocato Trizzino davanti alla Commissione parlamentare antimafia».

Lei indagò su Gardini e su Panzavolta? «Non ebbi il tempo di farlo, quel procedimento mi fu sottratto velocemente, ma le indagini puntavano in quella direzione e naturalmente anche verso i membri di Cosa nostra, soci in affari della Calcestruzzi Ravenna Spa». 

Lei non era iscritto ad alcuna corrente e aveva indagato anche su un traffico d’armi dei palestinesi dell’Olp, non è che aveva troppi nemici a sinistra? «Certo le mie simpatie politiche non andavano in quella direzione ed ero cordialmente ricambiato. Ma in quel momento stavo solo facendo il mio lavoro. Probabilmente ho toccato interessi troppo grandi».

Alla fine ha lasciato la Procura di Massa Carrara…

«Decisi di trasferirmi nell’ufficio di Lucca per allontanarmi da un clima di ostilità e diffidenza che avvertivo da parte dei miei diretti superiori nel distretto. Ho chiuso la carriera facendo per 17 anni il giudice del lavoro». 

Non trova curioso che l’indagine che andava verso il gruppo Ferruzzi si sia conclusa con il suo allontanamento, mentre quelle su Silvio Berlusconi non hanno incontrato soverchi ostacoli?

«Tra i miei colleghi c’era un evidente maggiore interesse investigativo sui presunti rapporti d’affari di Berlusconi con Cosa nostra piuttosto che le relazioni pericolose di altri potentati economici di area politica diversa che potevano rientrare nell’indagine mafia-appalti, di cui la mia era una costola e che in quel momento storico non fu approfondita».

MAFIA. Via D’Amelio, a “Far West” la verità ritrovata sul dossier mafia-appalti. In prima serata su Rai3 il filo che lega Tangentopoli alla strage in cui morì Borsellino. Il suo interessamento al dossier dei Ros e il collegamento con le indagini, neutralizzate, condotte dal giudice di Massa Carrara. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 28 novembre 2023

L'interessamento di Paolo Borsellino nell'indagine su mafia-appalti, avviata su spinta di Giovanni Falcone e condotta dagli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno; la sua probabile scoperta di alcuni servi infedeli dello Stato all’interno della procura di Palermo definita da lui stesso un “nido di vipere”. L'indagine contestuale svolta dal giudice Augusto Lama di Massa Carrara, affiancato dal suo braccio destro, il maresciallo della Guardia di Finanza Franco Angeloni, che avrebbe dovuto incrociarsi (ma non accadde nel biennio 91-92) con il dossier mafia-appalti avendo punti di contatto in comune. Quali? Personaggi chiave come i mafiosi Antonino Buscemi e Giuseppe Lipari che - ha osservato con indignazione l'avvocato Fabio Trizzino, legale dei figli di Borsellino, indicando le dichiarazioni passate di diversi pentiti come Angelo Siino e Giovanni Brusca – avrebbero goduto di coperture quando Borsellino era ancora in vita. Il primo sospettato è l'allora procuratore capo Pietro Giammanco ed eventuali suoi sottoposti.

Questo e altro è stato presentato per la prima volta, dopo 31 anni di depistaggi anche mediatici, in prima serata su Rai Tre nel nuovo programma “Far West” condotto da Salvo Sottile. Una ricostruzione che ha messo in fila i fatti nudi e crudi, senza alcuna suggestione, come purtroppo è abituata l'opinione pubblica, ma attraverso testimonianze autorevoli e fonti documentali. Molto interessante e significativa l'autorevole testimonianza del procuratore generale Luigi Patronaggio, che non solo ha ricordato il clima ostile sotto la procura guidata da Giammanco, ma ha anche confermato ciò che disse al Csm una settimana dopo la strage di Via D'Amelio: i rilievi di Borsellino durante la sua ultima riunione del 14 luglio 1992 sulla conduzione del dossier mafia-appalti, facendosi ambasciatore delle lamentele dei Ros. Il pg antimafia Patronaggio ha anche ricordato di essere stato uno dei due pm di turno il giorno della strage. L'avvocato Trizzino, presente in studio con il giornalista di Repubblica Lirio Abbate, ha osservato che Patronaggio e altri magistrati non sono mai stati sentiti dalla procura nissena, nonostante le loro testimonianze significative e utili per le indagini.

Come, d'altronde, non è mai stato sentito il giudice Augusto Lama di Massa Carrara. Per la prima volta, anche lui è stato intervistato in un programma nazionale in prima serata. Eppure è una testimonianza fondamentale per comprendere le cause delle stragi mafiose. Alla domanda, posta dal giornalista di “Far West”, se la morte di Borsellino sia legata al suo interessamento sul rapporto tra mafia e grande imprenditoria, il giudice Lama risponde senza mezzi termini: «Io penso proprio di sì, anche considerando la forza di quello che dovetti subire io, il tentativo di delegittimarmi credo che dimostrasse l'importanza di questo mio filone di indagine». Sì, perché come ha spiegato sempre Lama, durante la sua indagine si crearono problemi e fughe di notizie, tanto da determinare l'intervento dell'allora ministro della Giustizia Claudio Martelli. Finì sul mirino di un'indagine ministeriale, ma anche se non portò a nulla fu costretto ad astenersi dalle indagini. «Il mio procuratore di allora», prosegue sempre Lama, «trasmise il fascicolo alla procura di Palermo, che poi, come ho saputo, ha archiviato insieme alla prima informativa su mafia-appalti degli ex Ros (il dossier parlava anch'esso dei Buscemi e degli interessi con la Ferruzzi Gardini, ndr) che sarebbe dovuto confluire con le mie stesse indagini».

Per capire meglio,cerchiamo di inquadrare il contesto, come documentato dal programma condotto da Sottile. Siamo agli inizi degli anni 90. Mentre era già stato depositato il dossier mafia-appalti, dove, appunto, compariva anche la Calcestruzzi Spa, ovvero il colosso delle opere pubbliche, leader italiano del settore posseduto dall'ancora più potente famiglia Ferruzzi e controllato da Totò Riina, come confermò il pentito Leonardo Messina a Borsellino, arrivò sul tavolo della procura di Palermo il secondo fascicolo, quello appunto di Augusto Lama. Cosa aveva scoperto grazie alla tenacia investigativa del maresciallo Angeloni? Intuì il legame tra la mafia siciliana e il gruppo Ferruzzi-Gardini, all'epoca proprietario di Sam e Imeg, due società che controllavano il 65% delle cave e della lavorazione del marmo di Carrara. All'epoca Gardini ebbe dall'Eni un'offerta di favore. Il primo grande affare si presentò con un contratto per la desolfazione delle centrali Enel, per cui il carbonato di calcio di Carrara era essenziale. Il valore del contratto era di tremila miliardi di lire di allora. Eravamo alla fine degli anni Ottanta. Ma poi, invece, tutto precipitò.

A Carrara, le cose non andavano bene. Antonino Buscemi aveva preso il controllo delle cave e a gestirle aveva mandato il cognato, Girolamo Cimino. Più un altro parente, Rosario Spera. I siciliani cominciarono a porre condizioni vessatorie ai cavatori, che trovarono come unico difensore il loro presidente onorario, il comandante partigiano della zona, Memo Brucellaria. Fu allora che il procuratore Augusto Lama cominciò ad indagare. Attraverso quelle intercettazioni, come documenta il maresciallo Angeloni nel suo libro “Gli anni bui della Repubblica”, era possibile sentire una certa agitazione del management del gruppo Ferruzzi, per avere appreso che vi erano delle indagini di mafia a carico di Antonino Buscemi, socio per l'appunto del gruppo Ferruzzi. Inoltre, sembrerebbe emergere che qualcuno appartenente a un'autorità giudiziaria era giunto da Palermo a dare tale informazione. Interessante la testimonianza del maresciallo riportata durante la trasmissione “Far West”. Angeloni afferma di aver inviato circa 27 bobine di intercettazioni alla procura di Palermo. Come mai non le hanno ritenute di interesse? Non si comprende se sono quelle, come risulta dall'atto di provvedimento della procura di Palermo del 25 giugno 1992, di cui si dispone la smagnetizzazione delle bobine e la distruzione dei brogliacci delle intercettazioni. Fatto sta che da poco sono state ritrovate alcune bobine nei meandri della procura palermitana. Ora toccherà alla procura nissena ricostruire il quadro.

Ma si tratta di un quadro, come ha ben spiegato l'avvocato Trizzino in trasmissione, che in realtà era abbastanza delineato almeno venti anni fa. Si è perso troppo tempo. Per 31 anni siamo stati abituati a sentire narrazioni fantasiose e inconcludenti, ma molto accattivanti. Penso, ad esempio, a Report, che ha trattato l'omicidio di Paolo Borsellino come se fosse una trama della serie anni 90 “X-Files”. Per la prima volta, in prima serata t, hanno raccontato i fatti nudi e crudi sconosciuti all'opinione pubblica. Una rivincita soprattutto per quelle persone perbene come il magistrato Augusto Lama, costretto a occuparsi di civile, oppure come il maresciallo Franco Angeloni che ha servito il Paese senza compromessi, o Mario Mori finito nel tritacarne giudiziario per oltre un ventennio. La procura di Caltanissetta sta indagando, mentre la commissione antimafia presieduta da Chiara Colosimo va avanti con le audizioni. Forse sarebbe necessario che venga audito anche Augusto Lama.

La procura di Caltanissetta indaga sull’interessamento di Borsellino al dossier mafia-appalti come causa della sua eliminazione. Sentiti già dei testi, tra cui l’ex Ros De Donno Dal 2018 “ Il Dubbio” ha condotto una inchiesta giornalistica sulla vicenda. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 29 luglio 2022

Da qualche settimana la procura di Caltanissetta guidata dal Procuratore capo Salvatore De Luca ha riaperto l’inchiesta sul filone “mafia appalti” come causa scatenante che portò all’accelerazione della strage di Via D’Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta. A rivelarlo è l’agenzia Adnkronos a firma di Elvira Terranova. Le bocche in procura sono cucite, l'indagine è top secret, ma come apprende l'Adnkronos, il pool stragi da qualche settimana sta scandagliando le vicende legate al procedimento del dossier mafia-appalti redatti dai Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno sotto il coordinamento di Giovanni Falcone.

Tutte le sentenze hanno accertato l'interessamento di Falcone e Borsellino a mafia-appalti

I magistrati che coordinano l'inchiesta, tra cui la pm Claudia Pasciuti, guidati dal Procuratore capo Salvatore De Luca, di recente – come rivela l’Adnkronos - hanno anche fatto i primi interrogatori. Compresi quelli top secret. Tra le persone sentite, spicca in particolare il nome del colonnello Giuseppe De Donno. Cioè, colui che allora giovane capitano, condusse l'inchiesta su mafia-appalti con il suo diretto superiore al Ros, l'allora colonnello Mario Mori. Che l’interessamento dei giudici Falcone e Borsellino riguardante il dossier mafia-appalti sia stata una concausa delle stragi, questo è accertato da tutte le sentenze. Quest’ultime hanno individuato un movente ben preciso. Sono diversi i passaggi cristallizzati nelle motivazioni. C’è quello di Giovanni Brusca che, nelle udienze degli anni passati, disse che, in seno a Cosa nostra, sussisteva la preoccupazione che Falcone, divenendo Procuratore Nazionale Antimafia, potesse imprimere un impulso alle investigazioni nel settore inerente la gestione illecita degli appalti.

Falcone aveva compreso la rilevanza strategica del settore appalti

C’è quello del pentito Angelo Siino, che sosteneva che le cause della sua eliminazione andavano cercate nelle indagini promosse dal magistrato nel settore della gestione illecita degli appalti, verso cui aveva mostrato un “crescendo di interessi”. Difatti – si legge nelle sentenze - in Cosa nostra, e, in particolare, da parte di Pino Lipari e Antonino Buscemi, era cresciuta la consapevolezza che Falcone avesse compreso la rilevanza strategica del settore appalti e che intendesse approfondirne gli aspetti: «questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare» (pag. 74, ud. del 17 novembre 1999).Ed è proprio quell’Antonino Buscemi, il colletto bianco mafioso, che era entrato in società con la calcestruzzi della Ferruzzi Gardini a lanciare l’allarme anche per quanto riguarda le esternazioni di Falcone durante un convegno pubblico proprio su criminalità e appalti. Un convegno, marzo 1991, dove evocò chiaramente l’inchiesta mafia-appalti che era ancora in corso. Il dossier fu depositato in procura su volere di Falcone stesso il 20 febbraio 1991. Peraltro, anche Giuseppe Madonia aveva manifestato il convincimento che Falcone aveva compreso i legami tra mafia, politica e settori imprenditoriali. Siino, con riferimento all’eliminazione di Borsellino, ha inoltre aggiunto che Salvatore Montalto, durante la comune detenzione nel carcere di Termini Imerese, facendo riferimento agli appalti, gli aveva detto: «ma a chistu cu cìu purtava a parlare di determinate cose».

Borsellino aveva detto a varie persone che quella degli appalti era una pista da seguire

Borsellino, infatti, nel periodo immediatamente successivo alla strage di Capaci, aveva esternato a diverse persone, oltre all’intervista del giornalista Luca Rossi, che una pista da seguire era quella degli appalti. A distanza di 30 anni, però non si è mai fatto chiarezza su un punto. Diversi pentiti hanno affermato che sia Pino Lipari che Antonino Buscemi avevano un canale aperto con un magistrato della procura di Palermo. Alla sentenza d'appello del 2000 sulla strage di Capaci, tra gli altri, vengono riportate le testimonianze di due pentiti. Una è quella di Siino: «Sul punto, Angelo Siino, il quale, pur non rivestendo il ruolo di uomo d’onore, ha impostato la propria esistenza criminale, all’interno dell’ambiente imprenditoriale-politico-mafioso, ha evidenziato di avere appreso che Pino Lipari aveva contattato l’onorevole Mario D’Acquisto affinché intervenisse nei confronti dell’allora Procuratore della Repubblica di Palermo, al fine di neutralizzare le indagini trasfuse nel rapporto c.d. “mafia-appalti” e in quelle che si potevano stimolare in esito a tali risultanze».

I Buscemi avevano ceduto fittiziamente le imprese al gruppo Ferruzzi

Le motivazioni riportano anche la versione di Brusca: «Quanto ai rapporti tra i fratelli Buscemi, il gruppo Ferruzzi-Gardini e l’ing. Bini, Brusca ha evidenziato di avere appreso da Salvatore Riina che, a seguito della legge Rognoni-La Torre, i Buscemi avevano ceduto fittiziamente le imprese (la cava Bigliemi e una Soc. Calcestruzzi) al gruppo Ferruzzi; che Antonino Buscemi era rimasto all’interno della struttura societaria come impiegato; che l’ing. Bini rappresentava il gruppo in Sicilia e la Calcestruzzi S.p.A.; che i fratelli Buscemi si “tenevano in mano…… questo gruppo imprenditoriale in maniera molto forte” e potevano contare sulla disponibilità di un magistrato appartenente alla Procura di Palermo, di cui non ha voluto rivelare il nome; che Salvatore Riina, in epoca precedente all’interesse per l’impresa Reale, si era lamentato del fatto che i Buscemi non mettevano a disposizione dell’intera organizzazione i loro referenti».

Dal 2018 Il Dubbio si interessa alla vicenda del dossier mafia-appalti

Il Dubbio, fin dal 2018, ha condotto una inchiesta giornalistica sulla questione del dossier mafia-appalti. “Mandanti occulti bis” dei primi anni 2000 a parte, in questi lunghissimi anni non sono mai state riaperte le indagini nonostante siano venuti fuori nuovi elementi come le audizioni al Csm di fine luglio 1992 dove emerge con chiarezza che cinque giorni prima della strage, il giudice Borsellino partecipò a una assemblea straordinaria indetta dall’allora capo procuratore capo Pietro Giammanco. Una assemblea, come dirà il magistrato Vincenza Sabatino, inusuale e mai accaduta prima. Dalle audizioni di alcuni magistrati emerge che Borsellino avrebbe fatto dei rilievi su come i suoi colleghi, titolari dell’indagine, avrebbero condotto il procedimento. Addirittura, come dirà il magistrato Nico Gozzo, si sarebbe respirata aria di tensione.

Gli omicidi di Salvo Lima e del maresciallo Guazzelli per Borsellino sono legati a mafia-appalti

Ed è lo stesso Borsellino, come si evince dalle parole dell’allora pm Vittorio Teresi nel verbale di sommarie informazioni del 7 dicembre 1992, a dire che a suo parere sia l’omicidio su ordine di Totò Riina dell’europarlamentare Salvo Lima che quello del maresciallo Guazzelli sono legati alla questione del dossier mafia-appalti perché si sarebbero rifiutati di intervenire per cauterizzare il procedimento mafia appalti. Da tempo sia Fiammetta Borsellino che il legale della famiglia Fabio Trizzino, chiedono di sviscerare cosa sia accaduto nel biennio del 91-92 all’interno del “nido di vipere”(definizione di Borsellino riferendosi alla procura di Palermo) e soprattutto quando fu depositata la richiesta di archiviazione del dossier mafia-appalti mentre - come ha detto l'avvocato Trizzino al processo depistaggi – «stavano ancora chiudendo la bara di Paolo Borsellino e dei suoi angeli custodi».

Mafia-appalti, quel fascicolo archiviato su Gardini. Mafia- appalti. Inviato ad agosto del ’ 91 dalla procura di Massa Carrara, ma il primo giugno del 1992 fu archiviato e le relative intercettazioni furono smagnetizzate Damiano Aliprandi su Il Dubbio 15 novembre 2019

Dietro le stragi del 1992- 93 ci sarebbe stata la volontà di Cosa nostra di impedire ogni inchiesta sul monopolio degli appalti, ed è quello che era emerso in una vecchia inchiesta della Procura di Caltanissetta che però chiese l’archiviazione in mancanza di elementi idonei a sostenere in giudizio l'accusa a carico dei cosiddetti “mandanti occulti”. L’inchiesta sul famoso dossier mafia- appalti subì la stessa sorte a Palermo a pochi giorni dalla strage di via D’Amelio.

A questo si aggiunge un altro fascicolo, arrivato nell’agosto del 1991 alla Procura di Palermo a firma di Augusto Lama, l’allora sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Massa Carrara, che riguardava presunti rapporti tra la mafia siciliana e il gruppo Ferruzzi, all'epoca proprietario della Sam- Imeg, due società che controllavano il 65% delle cave e della lavorazione del marmo di Carrara. Anche questo fascicolo, però, fu archiviato a Palermo il primo giugno del 1992, subito dopo la strage di Capaci e le relative intercettazioni furono smagnetizzate.

L’ipotesi che dietro le stragi ci sia stata la volontà di fermare le inchieste sui rapporti tra imprenditori e mafia rimane ancora a galla, confermata d'altronde nella sentenza n. 24/ 2006 della Corte di Assise di Appello di Catania e confermata in Cassazione. Parliamo di una sentenza che riguarda esattamente i processi per le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Scrivono i giudici che Falcone e Borsellino erano “pericolosi nemici” di Cosa nostra in funzione della loro «persistente azione giudiziaria svolta contro l’organizzazione mafiosa» e in particolare con riguardo al disturbo che recavano ai potentati economici sulla spartizione degli appalti.

Motivo della “pericolosità” di Borsellino? La notizia che egli potesse prendere il posto di Falcone nel seguire il filone degli appalti. Tale ipotesi è stata anche riportata, come oramai è noto, nella motivazione della sentenza di primo grado del Borsellino quater. A differenza, però, della motivazione della sentenza di primo grado sulla presunta trattativa Stato- mafia dove si legge che non vi è la «certezza che Borsellino possa aver avuto il tempo di leggere il rapporto mafiaappalti e di farsi, quindi, un’idea delle questioni connesse».

I fatti però sembrano dire altro. Non solo Borsellino, quando era ancora alla procura di Marsala, chiese subito copia del dossier mafia- appalti redatto dagli ex Ros e depositato nella cassaforte della Procura di Palermo sotto spinta di Giovanni Falcone, ma mosse dei passi concreti per indagare informalmente sulla questione, tanto da incontrarsi in caserma con il generale dei Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno per ordinargli di proseguire le indagini e riferire esclusivamente a lui.

MAFIA – IMPRESE NAZIONALI E LE BOMBE

Il dossier - mafia appalti fu archiviato dopo la strage di via D’Amelio. Dagli atti emerge che la richiesta, scritta nel 13 luglio 1992 dalla Procura palermitana, fu vistata dal Procuratore Capo e inviata al Gip il 22 luglio. L’archiviazione fu disposta il successivo 14 agosto dello stesso anno, con la motivazione «ritenuto che vanno condivise le argomentazioni del Pm e che devono ritenersi integralmente trascritte» .

Nel dossier compaiono diverse aziende che avrebbero avuto legami con la mafia di Totò Riina, comprese quelle nazionali. Tra le quali emerge anche il coinvolgimento della Calcestruzzi Spa di Raul Gardini. Tra l’altro, lo stesso Borsellino, ebbe conferma del coinvolgimento di tale impresa durante l’interrogatorio del primo luglio del 92 reso dal pentito Leonardo Messina. Viene alla mente la frase pronunciata dal suo amico Falcone quando il gruppo Ferruzzi venne quotato a Piazza Affari: «La mafia è entrata in borsa».

Fu il periodo in cui il gruppo Ferruzzi - in pochi anni comprato e trasformato da Raul Gardini in un gruppo prevalentemente industriale -, unito con la Montedison divenne il secondo gruppo industriale privato italiano con ricavi per circa 20.000 miliardi di lire, con 52.000 dipendenti e più di 200 stabilimenti in tutto il mondo.

I rapporti tra Ferruzzi e mafia sono stati ben argomentati nelle 45 pagine della richiesta di archiviazione presentata il 9 giugno 2003 dall'allora procuratore capo di Caltanissetta Francesco Messineo al gip nisseno per uno dei filoni di inchiesta sulle stragi di Capaci e via D'Amelio, nel quale si è affrontato, tra l’altro, anche il suicidio di Gardini.

In questo atto la Procura di Caltanissetta ha affermato che per interpretare gli omicidi dei due giudici risultano importanti le dichiarazioni del pentito Angelo Siino, considerato il ' ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra', che indicavano la Calcestruzzi come la società che si prestava a favorire gli interessi della mafia. La ditta, in particolare, avrebbe partecipato alla maxi speculazione di Pizzo Sella, la magnifica collina che sovrasta il golfo di Palermo, costruendovi 314 ville completamente abusive, simbolo dello strapotere mafioso sulla città.

Sembra che Falcone e Borsellino avessero scoperto l’interesse strategico nutrito da Cosa Nostra per la gestione degli appalti pubblici. Gli appalti pare fossero così importanti per la mafia anche ai magistrati nisseni che, nell’inchiesta chiamata “mandanti occulti”, gettarono un’ombra sul timore che Cosa nostra sembrava avere sulla prosecuzione delle indagini.

D’altronde, ricordiamo, l’ex pm Antonio Di Pietro ricevette l’informativa di essere sotto minaccia mafiosa. Lui che, in piena tangentopoli, avrebbe dovuto sentire Raul Gardini, ma quest’ultimo si suicidò il 23 luglio del 1993. La bomba mafiosa di Milano, esplosa all'indomani dei funerali in via Palestro, ha qualche legame con ciò? Non si sa, ma dagli atti risulta che gli attentatori sbagliarono bersaglio di alcune centinaia di metri. E Palazzo Belgioioso, residenza di Gardini, era poco lontano.

A guidare Gardini in quest'affare tutto ancora da chiarire sarebbe stato un vecchio socio di suo suocero Serafino Ferruzzi, Lorenzo Panzavolta, detto ' Il Panzer', comandante partigiano, dirigente delle cooperative rosse di Ravenna e presidente della Calcestruzzi, il quale gli avrebbe spiegato che per questa società c'era la possibilità di prendersi tutti gli appalti pubblici siciliani, alleandosi, però, con i fratelli Antonino e Salvatore Buscemi, molto legati a Totò Riina, che dal 1982 entrarono direttamente nella proprietà della ditta. In ballo c'erano investimenti miliardari e relazioni fondamentali per il potere mafioso, che andavano quindi difese a tutti i costi.

DA MASSA CARRARA A PALERMO

Ritornando agli inizi anni 90, mentre era già stato depositato il dossier mafia- appalti dove, appunto, compariva la Calcestruzzi Spa, ovvero il colosso delle opere pubbliche, leader italiano del settore posseduto dall'ancora più potente famiglia Ferruzzi ma, secondo anche il pentito Messina, controllato da Totò Riina -, arrivò sul tavolo della procura di Palermo un secondo fascicolo a firma di Augusto Lama, l’allora sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Massa Carrara.

Cosa aveva scoperto? Intuì il legame tra la mafia siciliana ed il gruppo Ferruzzi, all'epoca proprietario della Sam- Imeg, due società che controllavano il 65% delle cave e della lavorazione del marmo di Carrara. All’epoca Gardini ebbe dall'Eni un'offerta di favore. Il primo grande affare si presentò con un contratto per la desolfazione delle centrali Enel, per cui il carbonato di calcio di Carrara era essenziale. Valore del contratto era di tremila miliardi di lire di allora. Eravamo alla fine degli anni Ottanta. Ma poi, invece, tutto precipitò.

A Carrara, le cose non andavano bene. Antonino Buscemi aveva preso il controllo delle cave e a gestirle aveva mandato il cognato, Girolamo Cimino. Più un altro parente, Rosario Spera. I siciliani cominciarono a porre condizioni vessatorie ai cavatori, che trovarono come unico difensore il loro presidente onorario, il comandante partigiano della zona, Memo Brucellaria. Fu allora che il procuratore Augusto Lama cominciò ad indagare.

Per competenza, nell’agosto del 1991, il fascicolo fu trasferito alla Procura di Palermo. ll procedimento iniziato a Massa Carrara, a carico di Antonino Buscemi, fu però archiviato a Palermo il primo giugno del 1992, subito dopo la strage di Capaci e le relative intercettazioni furono smagnetizzate. Sempre nell’inchiesta “mandanti occulti”, il pm nisseno ha sottolineato che la magistratura palermitana, in quel periodo ben preciso «probabilmente per il limitato bagaglio di conoscenze a disposizione, non attribuì soverchia importanza alla connessione Buscemi- Gruppo Ferruzzi».

Mafia-appalti, sparito il pentito che parlò a Borsellino del coinvolgimento di Raul Gardini. In esclusiva I contenuti dei verbali dell’interrogatorio a Leonardo Messina. Anche in un’audizione della commissione antimafia, presieduta da Luciano Violante, alla domanda se nella gestione mafiosa ci fossero ditte nazionali rispose: «La calcestruzzi spa di Riina». DAMIANO ALIPRANDI su Il Dubbio il 25 ottobre 2019

Testimonianze, prove documentali, sentenze definitive e audizioni del Consiglio superiore della magistratura rese dai magistrati della procura di Palermo tra il 28 e il 31 luglio 1992, provano inequivocabilmente che Paolo Borsellino si interessava, anche se non formalmente visto che ancora non aveva ottenuto la delega, dell’indagine contenuta nel dossier mafia- appalti. Tale informativa, ricordiamo, è scaturita da un’inchiesta condotta, tra la fine degli anni 80 e il 1992, dai carabinieri del Ros guidati dall’allora colonnello Mario Mori e dal capitano Giuseppe De Donno.

Dall’indagine emerse per la prima volta l’esistenza di un comitato d’affari, gestito dalla mafia e con profondi legami con esponenti della politica e dell’imprenditoria di rilievo nazionale, per la spartizione degli appalti pubblici in Sicilia. Il 20 febbraio 1991, i carabinieri del Ros depositarono alla procura di Palermo l’informativa mafia- appalti relativa alla prima parte delle indagini, su esplicita richiesta di Giovanni Falcone, che all’epoca stava passando dalla procura di Palermo alla Direzione degli affari penali del ministero della Giustizia. Lo stesso Falcone, anche pubblicamente durante il famoso convegno del 15 marzo del 1991 al Castel Utveggio di Palermo, disse che quell’indagine era di vitale importanza che non era confinata solamente a una questione “regionale”.

Paolo Borsellino era convinto che la causa della morte di Falcone, ma anche di altri delitti di mafia come l’omicidio dell’ex democristiano Salvo Lima, fosse riconducibile alla questione degli appalti. Lo disse soprattutto allo scrittore e giornalista Luca Rossi durante un’intervista del 2 luglio del 1992. Il nome di Salvo Lima lo ha evocato recentemente anche l’ex pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro durante la sua testimonianza resa al processo d’appello sulla presunta trattativa Stato- mafia. Di Pietro ha spiegato che la conferma del collegamento affari- mafia, l’ha avuta «col riscontro della destinazione della tangente Enimont da Raul Gardini ( capo della Calcestruzzi spa), una provvista da 150 miliardi, una gallina dalle uova d’oro, dovevamo trovare i destinatari: l’ultimo che ebbi modo di riscontrare fu Salvo Lima».

La spiegazione sembra evocare l’intuizione che ebbe Paolo Borsellino molto tempo prima di lui. Ma in realtà è più che una intuizione. Borsellino aveva trovato un pentito che non solo gli aveva confermato la questione dell’importanza degli appalti, ma che anche gli aveva dato un riscontro su quello che effettivamente già risultava ben spiegato nel dossier dei Ros: parliamo del coinvolgimento delle imprese del nord, in particolare della Calcestruzzi Spa di Raul Gardini.

Proprio il giorno prima della sua intervista a Luca Rossi, Borsellino aveva interrogato per la seconda volta consecutiva Leonardo Messina, un pentito ritenuto credibile che, come Tommaso Buscetta, aveva raccontato perfettamente la struttura di Cosa Nostra, escludendo il discorso del “terzo livello”, ma evidenziando come la mafia di Totò Riina riusciva a compenetrare nel tessuto economico e politico attraverso la gestione degli appalti pubblici e privati. Leonardo Messina stesso ne è stato un testimone. Il Dubbio è in grado di rivelare i contenuti dei due verbali di interrogatorio.

Il primo si è svolto il 30 giugno del 1992 con la presenza non solo di Borsellino, ma anche del collega Vittorio Aliquò, oltre che dell’ispettore Enrico Lapi e del dirigente della polizia Antonio Manganelli. Leonardo Messina aveva la veste di indagato per 416 bis dalla procura di Caltanissetta. Lo stesso si è dichia- rato uomo d’onore della famiglia di San Cataldo e ha inteso rendere dichiarazioni sulla struttura di Cosa nostra. Nel primo interrogatorio ha spiegato sostanzialmente come venivano elette le rappresentanze, da quelle locali a quelle regionali, non solo siciliane, fino ad arrivare alle rappresentanze mondiali. Ha approfondito come i corleonesi hanno preso il potere in Cosa nostra.

Interessante la sua spiegazione di come riuscì a finire sotto l’ala del boss Giuseppe Madonia. «A Madonia – ha spiegato il pentito a Borsellino - avevo rilevato di essere stato contattato da elementi del Sisde, i quali mi avevano offerto la somma di 400 milioni perché lo facessi catturare». Madonia, quindi, avendo appreso che Messina non si era fatto indurre a tradirlo, lo prese ancora di più in considerazione. In questo modo ebbe la possibilità di saltare le gerarchie e incontrare personaggi “di calibro” come lo stesso Brusca.

Nell’occasione con Brusca – ha raccontato Messina – «si parlò dell’omicidio del capitano D’Aleo che si vantava di averlo fatto eliminare poiché costui lo aveva schiaffeggiato in occasione di un suo fermo in caserma. Disse che gli avevano tirato una fucilata in faccia!». Il pentito Messina racconta anche di Giovanni Falcone. «Brusca – ha spiegato Messina – pur mostrandosi al corrente dei suoi movimenti, e infatti accennava alle sue frequentazioni presso una pizzeria insieme alla scorta, diceva che in quel momento non era il caso di passare alla sua sentenza di morte».

Leonardo Messina poi affronta nel resto dei suoi due interrogatori– soprattutto nel verbale del primo luglio 1992 - la questione mafia- appalti. A lui stesso Madonia gli ha affidato la questione dell’appalto dei lavori dell’istituto tecnico per geometri di Caltanissetta e lo ha messo in contatto con Angelo Siino, considerato “ministro dei lavori pubblici” di Totò Riina. Il pentito ha spiegato dettagliatamente come funzionava la spartizione degli appalti e ha anche sottolineato come la mafia intimidiva gli imprenditori fino ad ucciderli se non sottostavano alle condizioni dettate. Ha spiegato come i corleonesi curavano che i vari appalti fossero distribuiti equamente fra le ditte interessate, in modo da realizzare congrui guadagni attraverso un sistema predeterminato di tangenti a percentuali sull’importo dei lavori. Percentuali che variavano a seconda del tipo dei lavori da eseguire e secondo se si tratti di appalti pubblici o privati. Fa nomi e cognomi Messina, anche di parlamentari dell’epoca e imprese. Parla anche di Salvo Lima, che aiutò un personaggio di rilievo nel favorire una impresa per introdurla nella miniera Pasquasia. «In tale miniera – ha spiegato Messina – non lavorano solo ditte in mano alla mafia, ma anche singoli dipendenti mafiosi», i quali potevano acquisire con facilità anche del materiale per l’esplosivo.

Leonardo Messina, a quel punto fa una rivelazione scottante. «Totò Riina è il maggiore interessato della Calcestruzzi Spa che agisce in campo nazionale». Messina lo aveva appreso perché si era lamentato che aveva ricevuto pochi soldi per un appalto che valeva miliardi. “L’ambasciatore” di Madonia gli rispose di lasciar perdere, perché c’erano gli interessi di Riina tramite la Calcestruzzi spa di Gardini.

Paolo Borsellino, per la prima volta, trovò un riscontro su quanto aveva già appreso dal dossier mafia- appalti, che aveva ben evidenziato il ruolo dell’azienda del nord. Lo stesso Leonardo Messina, qualche tempo dopo, lo ribadì in un’audizione della commissione Antimafia presieduta da Luciano Violante. Alla domanda se nella gestione mafiosa degli appalti ci fossero ditte nazionali, Messina rispose con un’affermazione inquietante: «La Calcestruzzi Spa di Riina».

Leonardo Messina è un testimone considerato importante da Borsellino, così come, in seguito, da altri magistrati. Il pentito ha ribadito l’importanza della gestione degli appalti anche nel 2013, sentito al processo di primo grado sulla presunta trattativa Stato- mafia. Messina avrebbe dovuto deporre – assieme ad Angelo Siino ( assente per gravi motivi di salute) – a settembre scorso anche nel processo di Caltanissetta relativo al latitante Matteo Messina Denaro, accusato di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Ma il pentito Leonardo Messina non è più reperibile da qualche tempo. È come se fosse scomparso nel buio: gli inquirenti stessi si dicono preoccupati.

Stragi di mafia: così Report (e non solo) “suggestiona” pentiti ed ergastolani. “Io parlo di quello che ho sentito in televisione, sia in un programma televisivo su la7 (Atlantide ndr) sia su Rai3”. Dalla pista nera alle donne bionde, ecco il racconto degli ex mafiosi stragisti sentendo la Tv. E qualche procura ci mette il carico da novanta Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 2 gennaio 2023

Tra cinquant’anni, quando l’antimafia mediatica (e parte di quella giudiziaria) sarà oggetto di studio, sicuramente non potrà passare inosservato come presunte inchieste di Report (canale pubblico) o di Atlantide (canale privato) inconsapevolmente alimentano di nuove suggestioni i pentiti stessi. Perfino uno come Gaspare Spatuzza, che fu parte attiva degli attentati mafiosi come le stragi continentali del maggio-luglio 1993 a Firenze, Milano e Roma, parla di ipotesi apprese in Tv.

Ed è così che si crea un insostenibile circolo vizioso utile per gli ascolti, ma completamente distruttivo per i giovani che si affacciano per la prima volta allo studio del fenomeno mafioso di quegli anni. Ma non aiuta nemmeno una grossa fetta di magistrati antimafia che si diletta nell’infinita ricerca delle “entità”. Pm che creano infiniti teoremi, chiudono e riaprono le stesse identiche inchieste giudiziarie (pensiamo a Berlusconi e Dell’Utri indagati per la quinta volta come mandanti occulti delle stragi), si spendono numerose risorse umane e si alimenta il circuito mediatico – giudiziario che, com’è detto, a sua volta “alimenta” i pentiti stessi.

Molto utile, per comprendere il fenomeno dei pentiti che raccontano ciò che sentono in Tv, è la lettura della relazione finale della scorsa commissione nazionale Antimafia relativa alla attività istruttoria sull’evento stragista di via dei Georgofili a Firenze. Si apprende così che viene sentito l’ergastolano Cosimo Lo Nigro, già condannato per le stragi e ritenuto la persona che si occupava del recupero dell’esplosivo in mare, quello che verrà utilizzato sia per le stragi di Capaci e di Via D’Amelio, che per quelle “continentali”. Dalle risultanze processuali è emerso, grazie alle consulenze già svolte dai periti, che in ciascuna delle cariche esplosive utilizzate per le stragi i medesimi componenti, miscelati, sono da ricondurre a esplosivi di tipo militare e segnatamente tritolo (o Tnt), T4 (o Rdx), e Pentrite (o Petn). Per la strage di Capaci, furono utilizzati 500 chili di esplosivo. Per via D'Amelio, 100 chili. Per l'attentato di Firenze, la carica era da 250 chili.

Lo Nigro però si dichiara innocente. «Io oggi mi trovo qui – spiega innanzi alla commissione antimafia -, detenuto da 26 anni, con queste accuse tremende, e io per la giustizia italiana sono un definitivo e sono un ergastolano, ma nella mia coscienza e nel mio cuore, io sono un innocente e chiedo a voi, principalmente a voi, che siete quelli che in merito agli ultimi sviluppi, in questi anni su cosa è successo di quello che sta accadendo nel nostro Paese, vi chiedo a voi di approfondire e di investigare». Alla domanda posta dall’ex presidente Nicola Morra su cosa bisognerebbe investigare, ecco cosa risponde: «Io le parlo di quello che ho visto in Tv. Ci siamo? Noi siamo qui oggi per la situazione di Firenze, per la tematica e la disgrazia di Firenze. Mi dica una cosa: in televisione io ho ascoltato personalmente alcuni format mirati di questi eventi che sono successi all’epoca. Sulla situazione di Firenze, come Firenze e come Milano, e in qualche altra strage, si parla di una donna». Ecco, lo dice chiaramente: parla di ciò che ha appreso guardando le inchieste in TV.

Lo Nigro, infatti, evoca il discorso della donna, la famosa bionda che secondo la tesi elaborata principalmente dal magistrato Gianfranco Donadio quando svolse le attività presso la Direzione Nazionale Antimafia (poi fu trasferito dal csm per via delle denunce nei suoi confronti da parte della procura di Catania e di Caltanissetta), sarebbe stata una sorta di 007 che avrebbe partecipato alle stragi. Bionda, corpo da amazzone, descritta da improbabili pentiti (per lo più della ‘ndrangheta) già decostruiti dalla procura nissena e catanese.

L’ex presidente Morra, in commissione, pone nuovamente la domanda a Lo Nigro: «Come mai la colpisce questa questione della donna? Lo chiedo così, per mia curiosità». Ecco cosa risponde: «Lei ha parlato di ipotesi. Io parlo di quello che ho sentito in televisione, sia in un programma televisivo su La7 (Atlantide, ndr) sia su Report su Rai 3, in occasione dei tre anniversari. Le trasmissioni hanno parlato anche di questi fatti che sono accaduti nel 1993 e riportano di una donna, non solo a Firenze!». Più chiaro di così non si può. Non sa nulla, ma racconta ciò che ha appreso dalle “inchieste” mainstream.

Interessante anche la deposizione del pentito Gaspare Spatuzza. Egli ebbe un ruolo primario in tali gravi accadimenti perché legato a Giuseppe Graviano, mafioso ai vertici del mandamento di Brancaccio ed esponente di cosa nostra, a sua volta in stretti rapporti con i vertici di tale organizzazione e in particolare con il latitante Matteo Messina Denaro. Grazie alla sua collaborazione si è potuto rifare da capo il processo sulla strage di Via D’Amelio (Borsellino quater) e condannare anche gli esecutori delle stragi continentali. Lui partecipò alle stragi come quelle di Firenze. Ha sempre raccontato tutti i dettagli dell’operazione stagista, compreso il reperimento dell’esplosivo e della sua collocazione. Però non basta, perché non collima con il teorema delle donne bionde e dell’esplosivo fornito dalle entità.

Spatuzza però è sincero. Esclude che il suo gruppo sia entrato in contatto con soggetti esterni a cosa nostra, ma nel contempo dichiara di poter supporre che ci siano stati contatti. Ma da dove deriva questa sua supposizione? Si richiama a «l’evolversi di tutto quello che visto in questi anni...» e «tutto quello che sia il progetto Farfalla». E dove l’ha visto se non in TV? E si comprende che non conosce la vicenda. Lo chiama “progetto Farfalla”, mentre in realtà si chiama “protocollo farfalla” e non c’entra nulla con il periodo delle stragi visto che fu una operazione dei primi anni 2000 tra l’intelligence e il Dap per cercare una presunta regia mafiosa dietro le proteste contro il 41 bis. Operazione fallimentare, perché non si scoprì alcun grande vecchio dietro. Un po’ come le rivolte carcerarie durante la pandemia. Sempre alla ricerca, fallimentare, delle regie occulte.

Interessante che il magistrato Donadio insista sulla presenza delle donne. Lo fa anche con Spatuzza. «Lei ha mai percepito il problema dell’esistenza di una donna in questo scenario stragista?». Ebbene sì. Chiede al collaboratore della giustizia se ha avuto una “percezione” di qualche donna. Spatuzza risponde di no. Ma il magistrato non si arrende. Insiste. «In tutto lo scenario stragista ha avuto mai un sintomo?». Spatuzza risponde: «Non ho avuto mai né direttamente né indirettamente che ci fosse una donna un po' in secondo o terzo piano in quello che era il gruppo operativo».

Niente da fare. Nessuna percezione, nessun sintomo. Il prossimo passo sarà lo studio delle entità asintomatiche. Già qualcosa si intravvede con la riedizione del nero Stefano Delle Chiaie. Nessuna prova che sia stato a Capaci o a Firenze, per quest’ultimo all’epoca le indagini della Digos accertarono che il giorno dell’attentato era a Bolzano. Però poco importa. Bisogna insistere, evocare nuove suggestioni e perdere altri anni di tempo prezioso. Ora aspettiamoci le supposizioni dei pentiti dopo aver visto l’ennesima trasmissione di Report.

Via d’Amelio, la relazione di La Barbera il giorno dopo la strage: “Consegnata la borsa e l’agenda di Borsellino al procuratore Tinebra”. Il Fatto Quotidiano il 5 dicembre 2023.

Una relazione con la firma di Arnaldo La Barbera, il superpoliziotto che secondo le accuse si sarebbe appropriato dell’agenda rossa di Paolo Borsellino. In quel foglio di carta c’è scritto che la borsa del magistrato ucciso da Cosa nostra e “un’agenda in pelle” sono state consegnate all’allora procuratore capo di Caltanissetta, Giovanni Tinebra. La data è del 20 luglio 1992, il giorno dopo la strage di via d’Amelio. Solo che di quella relazione non c’era traccia alla procura di Caltanissetta. E d’altra parte vari testimoni hanno raccontato di come la valigetta di Borsellino fosse rimasta sul divantetto all’interno dell’ufficio di La Barbera per vari giorni dopo la strage.

A raccontare l’ultimo mistero sulla scomparsa dell’agenda di Borsellino è il quotidiano La Repubblica. Quella relazione è stata acquisita alla Squadra Mobile di Palermo dalla procura di Caltanissetta, che la cita nel provvedimento con cui si ordinano le perquisizioni a casa della moglie e della figlie di La Barbera, morto nel 2002 e oggi indicato come il grande gestore del depistaggio. Il procuratore Salvatore De Luca e l’aggiunto Pasquale Pacifico hanno riaperto le indagini sulla scomparsa dell’agenda in cui Borsellino annotava i dettagli delle sue indagini, cominciate dopo la strage di Capaci. Secondo le indagini dei pm e del Ros dei carabinieri il diario del magistrato era finito a La Barbera, che addirittura lo avrebbe lasciato nelle disponibilità della sua famiglia dopo la morte. A raccontarlo alla procura è stato, nei mesi scorsi, un supertestimone: si tratta del padre di un’amica di Serena La Barbera, figlia dell’ex capo della Mobile. Al teste sarebbe arrivata una richiesta da sua figlia: “La mia amica Serena non si sente più di tenere una cosa di suo padre, che è morto nel 2002, era il questore di Palermo Arnaldo La Barbera. Potresti conservarla tu?”. Il testimone ha chiesto di cosa si trattasse. Risposta: “È l’agenda rossa di Borsellino“. Comincia da qui l’ultima inchiesta della procura di Caltanissetta, che ha messo sotto indagine la figlia e la moglie di La Barbera, entrambe indagate. Le perquisizioni ordinate nei mesi scorsi hanno riguardato anche la postazione di lavoro occupata negli uffici dell’Aisi, i servizi segreti interni, dalla figlia dell’ex superpoliziotto. “Mia figlia – ha detto sempre il testimone – mi ha raccontato anche un’altra confidenza di Serena La Barbera: sua madre, su indicazione fornita dal marito prima di morire, ha usato la documentazione che nascondevano per fare assumere la figlia ai servizi di sicurezza”.

E mentre gli investigatori analizzano il risultato delle perquisizioni, dal passato emerge anche questa relazione inedita in cui La Barbera sostiene di aver consegnato tutto – borsa e agenda di Borsellino – a Tinebra. Ma di quella carta non c’era mai stata traccia a Caltanissetta. E d’altra parte il 20 luglio – ma anche nei giorni successivi – la valigetta di Borsellino era negli uffici della Mobile. Lì racconta di averla vista la funzionaria di Polizia, Gabriella Tomasello: “Potrei averla vista sul divano dell’ufficio dell’allora Dirigente della Squadra Mobile, Arnaldo la Barbera, ma non ne ho la certezza. Aggiungo che ciò potrebbe essersi verificato nella tarda serata del 19 luglio”, ha messo a verbale la poliziotta già nel 2006. Anche un altro funzionario, Andrea Grassi, ha detto di aver “visto una borsa in cuoio negli uffici della Squadra Mobile di Palermo, forse nella stanza del Dirigente della Sezione Omicidi. Non ho visionato il contenuto della borsa, che ricordo aperta, circostanza che mi fece notare alcuni effetti personali quali un pantaloncino o una maglietta tipo tennis“.

Quella borsa rimarrà nelle disponibilità degli inquirenti per più di tre mesi: a novembre, infatti, La Barbera andrà a consegnarla alla famiglia Borsellino. Nella valigetta, però, non c’era già più l’agenda rossa, come farà notare Lucia Borsellino. “Quando chiesi che fine avesse fatto, mi fu risposto appunto che non c’era e al mio insistere il questore La Barbera disse a mia madre che io probabilmente avevo bisogno di un supporto psicologico perché ero molto provata. Mi fu detto addirittura che deliravo”, ha raccontato la figlia del giudice durante un’udienza del Borsellino quater. Risale a pochi giorni prima, il 5 novembre del 1992, il verbale di apertura della borsa, firmato dal pm Fausto Cardella. Il magistrato scrive che dentro la borsa c’erano due pacchetti di sigarette marca Dunhill, “un paio di pantalocini da tennis bianchi, un costume da bagno, un carica batterie per telefono con batteria e accessori e un ritaglio di giornale”.

Cardella ordina di restituire tutto alla famiglia. Non solo la borsa ma anche “un’agenda legale 1992 appartenuta a Borsellino“. Si tratta della rubrica telefonica marrone che di recente Lucia Borsellino ha consegnato alla commissione Antimafia. È a questa agenda che fa riferimento La Barbera quando scrive di averla consegnato a Tinebra? O parla dell’agenda rossa?

Nel verbale di apertura della borsa il pm Cardella annota anche la presenza di altri oggetti: un paio d’occhiali, un mazzo di chiavi, un pacchetto di fazzoletti, uno scontrino fiscale, tre fogli di carta spillati. “Detti oggetti erano contenuti in un sacchetto nel quale si legge: rinvenuto sul luogo della strage da Maggi Francesco“. Si tratta del poliziotto che ha sostenuto di aver prelevato la borsa dall’auto in fiamme di Borsellino e di averla portata alla Mobile. Un racconto smentito recentemente da altri tre testimoni, tutti poliziotti, che hanno raccontato di un possibile passaggio di mano della borsa avvenuto in via d’Amelio tra un capitano dei carabinieri – in teoria si tratta di Giovanni Arcangioli, che per queste vicende è già stato prosciolto – e l’ispettore Giuseppe Lo Presti. “Quest’ultimo mi fece consegnare dal militare la borsa per poggiarla dentro la macchina di Maggi”, ha messo a verbale poche settimane fa Armando Infantino. Il diretto interessato, cioè Lo Presti, ricorda invece pochissimo su quella giornata anche se non ha smentito il racconto del collega. Lo Presti dice comunque di essere “certissimo” di aver compilato una relazione di servizio sui suoi movimenti in via d’Amelio: quella relazione, però, non si trova. Anche Maggi ha stilato un documento che riassume le sue attività sul luogo della strage, compreso il ritrovamento della valigetta che secondo il suo racconto sarebbe stata prelevata direttamente dall’auto in fiamme di Borsellino e poi trasferita alla Mobile nell’ufficio di La Barbera. Quella relazione, però, risale al dicembre del 1992. A chiedergli di redigere quella relazione fu espressamente La Barbera, cinque mesi dopo la strage.

Giuseppe Pipitone e Saul Caia per il Fatto Quotidiano - Estratti domenica 3 dicembre 2023. 

C’è un capitano dei carabinieri che regge in mano la valigetta di Paolo Borsellino: si trova alla fine di via D’Amelio, quando s’imbatte in un ispettore di Polizia. Che lo blocca e gli intima di consegnargli la borsa: sul luogo della strage, dice, sono arrivati prima loro e dunque la competenza delle indagini non è dell’Arma. Il capitano non ha nulla da obiettare: cede la borsa a un collega di quel poliziotto, che la ripone su un’auto di servizio. È questa la scena che la Procura di Caltanissetta ritiene di aver ricostruito sullo scenario infernale della strage di via D’Amelio. 

Un’istantanea composta dai ricordi frastagliati di tre poliziotti, ascoltati tra il 2019 e il novembre del 2023: racconti sbiaditi, in alcuni passaggi monchi, anche a causa del lungo tempo trascorso, che però vengono considerati credibili da parte degli investigatori.

Sono questi i nuovi verbali che il pm Maurizio Bonaccorso ha depositato agli atti del processo d’Appello sul depistaggio, attingendo dal materiale recuperato dall’ufficio inquirente nisseno.

Il procuratore Salvatore De Luca e l’aggiunto Pasquale Pacifico, infatti, hanno riaperto l’inchiesta sulla scomparsa dell’agenda rossa di Borsellino, seguendo due filoni: da una parte ipotizzano che il diario sia finito ad Arnaldo La Barbera, il superpoliziotto morto nel 2002 indicato come il grande gestore del depistaggio. Per questo motivo hanno effettuato varie perquisizioni nei mesi scorsi, in un caso anche nella postazione di lavoro occupata negli uffici dell’Aisi, i servizi segreti interni, dalla figlia di La Barbera, indagata insieme alla madre. 

Parallelamente i pm stanno provando a ricostruire il percorso fatto dalla valigetta in cui Borsellino aveva riposto la sua agenda. Fotografata l’ultima volta in via D’Amelio in mano al capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli, la borsa ricompare già la sera del 19 luglio nell’ufficio di La Barbera alla Mobile, dove sostiene di averla portata l’agente Francesco Maggi. Come ci è finita? 

Secondo la procura è avvenuto una sorta di passaggio di mano tra Arcangioli (che non ne ha mai parlato, nonostante per questa storia sia finito sotto inchiesta prima di essere prosciolto) e i poliziotti.

Un’ipotesi sostenuta dopo aver recuperato i verbali di Armando Infantino, Giuseppe Lo Presti e Nicolò Manzella. Sono tre agenti arrivati in via D’Amelio subito dopo la strage, interrogati nel 2019 e poi di nuovo pochi giorni fa. Il primo a parlare è Infantino, che il 12 marzo di quattro anni fa mette a verbale: “Mentre mi trovavo in via D’Amelio un mio superiore, di cui non saprei dare indicazioni, mi consegnò una borsa di pelle che presentava delle bruciature, dicendomi di andare a posarla all’interno dell’auto, parcheggiata all’inizio di via D’Amelio. Ricordo che fuori dall’auto vi era il collega Maggi”.

Sei giorni dopo torna dai pm e specifica di non aver saputo se quella fosse la borsa di Borsellino ma che “era originariamente nelle mani di un soggetto al quale un mio superiore – che al 90 % identifico nell’ispettore Lo Presti – ordinò di consegnarla al collega, cioè a me”.

Chi era quel soggetto? “Ritengo che fu un carabiniere, ma questa e una sensazione che maturai al tempo e oggi non sono in grado di spiegarla ”. I pm hanno mostrato a Infantino la foto dei Arcangioli, ma il poliziotto non lo ha riconosciuto, spiegando solo di “averlo visto in tv”. Passano quattro anni e i ricordi del Infantino sono quasi più nitidi: “Per quanto concerne la circostanza da me già riferita inerente il carabiniere con la placca che si avvicinava al capannello di noi personale di polizia portando la borsa di Borsellino in mano e che vidi e sentii interloquire con Lo Presti, confermo che quest’ultimo mi fece consegnare dal militare la borsa per poggiarla dentro la macchina di Maggi”. 

Ancora più dettagliato il racconto di Manzella, che nel maggio 2019 racconta: “Vidi l’ispettore Lo Presti discutere con un ufficiale dei carabinieri in borghese, che aveva in mano una borsa di pelle marrone”. Anche a Manzella mostrano l’album e lui riconosce in Arcangioli l’uomo della borsa.  

(...)

A sentire Manzella nel giro di pochi secondi Arcangioli consegnò la borsa a Lo Presti. Il quale, però, di tutta questa storia ricorda pochissimo. Sentito nel 2019 dice di non aver alcuna memoria di quel passaggio di mano, nonostante Infantino gliel’avesse ricordato già due anni prima: “Ebbi una sorta di flash, cercai di appuntare la mia attenzione su quella giornata per cercare di riaccendere i miei ricordi”. Tentativo fallito: “Non sono sicuro se le mie impressioni sono frutto di ricordi genuini o indotti da racconti di Infantino o addirittura dalle immagini in tv”. Anche a Lo Presti i pm fanno vedere una foto di Arcangioli ma lui dice di non averlo mai conosciuto. Il poliziotto, però, non smentisce il collega: “Quello di Infantino è un racconto verosimile di cui tuttavia non ho alcuna memoria”.

Pochi giorni fa è tornato dai pm di Caltanissetta, raccontando una dinamica un po’ diversa: Lo Presti sostiene che fu lui il primo a trovare il corpo di Borsellino e “vicino vi era la sua borsa. Ricordo che dissi ad Infantino di custodirla”. La procura allora gli fa notare che, però, secondo il suo collega la valigetta era in mano a un carabiniere, non vicino al corpo di Borsellino: “Non escludo che le cose siano andate effettivamente come dice Infantino”. Sui suoi movimenti in quella maledetta giornata, il poliziotto dice di essere “certissimo” di avere fatto una relazione di servizio. Che, però, non è stata mai trovata.

Estratto dell’articolo di Salvo Palazzolo per "la Repubblica" lunedì 4 dicembre 2023.

Un supertestimone ha riaperto l’indagine sui misteri dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, trafugata dopo la strage. Non è un pentito di Stato, e neanche un ex mafioso. È una persona come tante. 

Un giorno sua figlia gli chiede un favore: «La mia amica Serena non si sente più di tenere una cosa di suo padre, che è morto nel 2002, era il questore di Palermo Arnaldo La Barbera. Potresti conservarla tu?». L’uomo chiede di cosa si tratti. La figlia risponde: «È l’agenda rossa di Borsellino».

Così, un uomo con la sua vita normale è diventato all’improvviso il supertestimone di uno dei misteri d’Italia. Ci ha messo però del tempo per presentarsi ai carabinieri del Ros. Quando è arrivato in caserma, nel marzo scorso, ha detto: «Ho deciso di riferire soltanto oggi questi fatti perché avevo un po’ di paura. E solo dopo un colloquio con un generale e un avvocato ho deciso di farmi avanti raccontando che l’agenda rossa la tengono i familiari di La Barbera».

Sono parole ritenute subito importanti, si muove la direzione nazionale antimafia di Giovanni Mellillo, il caso viene affidato alla procura di Caltanissetta diretta da Salvo De Luca, che non ha mai smesso di indagare sui misteri della strage Borsellino. A settembre, i pm fanno scattare le perquisizioni, nella casa romana della figlia di La Barbera, e pure nel suo ufficio, che è molto particolare, è la sede dei servizi segreti, l’Aisi. È stata perquisita pure la casa della moglie del superpoliziotto, Angiolamaria Vantini, che abita a Verona.

L’agenda rossa non è saltata fuori, i carabinieri del Ros hanno però sequestrato alcuni vecchi estratti conto di Arnaldo La Barbera, in cui risultano versamenti in contanti per milioni di lire. Soldi dati da chi? A fine anni Ottanta, La Barbera era anche un collaboratore dei Servizi, l’allora Sisde, non si è mai capito per quale missione in particolare. E ora l’ipotesi su cui lavorano i magistrati è drammatica: il furto dell’agenda rossa e il depistaggio delle indagini sulla strage Borsellino con il falso pentito Scarantino potrebbero essere state una missione affidata a La Barbera da ambienti deviati delle istituzioni. Per nascondere quali responsabilità nella bomba del 19 luglio 1992?

Racconta il testimone: «Fino all’anno scorso, l’agenda rossa sarebbe stata custodita all’interno di una cassaforte, nell’abitazione del cognato di La Barbera, che è morto nel settembre 2022». All’epoca si sarebbe posto il problema di trovare una nuova collocazione a quella documentazione così particolare. «La famiglia La Barbera non si sentiva più di custodirla direttamente, così mi ha detto mia figlia — prosegue il testimone — avrebbe preferito farla detenere a soggetti non riconducibili alla cerchia familiare». Ecco perché le confidenze con l’amica. «Poi, mia figlia mi ha chiesto di tenere io la documentazione, ma non me la sono sentita», taglia corto l’uomo.

Non finisce qui la storia. «Mia figlia mi ha raccontato anche un’altra confidenza di Serena La Barbera: sua madre, su indicazione fornita dal marito prima di morire, ha usato la documentazione che nascondevano per fare assumere la figlia ai servizi di sicurezza». Chi indaga ha verificato che Serena La Barbera è stata assunta alla presidenza del consiglio nel 2011. È una storia complessa quella che i pm di Caltanissetta e i carabinieri del Ros stanno cercando di chiarire. Al supertestimone è rimasto un dubbio: «L’agenda potrebbe averla mia figlia, andate a controllare nel garage del suo compagno». 

Ma lì non c’era. Ora, la moglie e la figlia dell’ex questore sono indagate per ricettazione e favoreggiamento, con l’aggravante di aver favorito l’organizzazione mafiosa. […]

Via D’Amelio, il poliziotto: “A tarda sera i magistrati di Palermo ispezionarono l’ufficio di Borsellino”. La mattina dopo, rivelò Agnese: “La polizia investigativa entra dentro l'ufficio di Paolo, ci vanno anche i miei figli Lucia e Manfredi: entrano e si accorgono che tutti i suoi cassetti erano stati svuotati, non c'erano né carte e né tantomeno i suoi appunti!”. Ecco la vera novità (ma snobbata) dai verbali dei cinque poliziotti. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 4 dicembre 2023

Che la borsa di Borsellino sia giunta nell'ufficio dell’allora questore Arnaldo La Barbera era già notorio. È già storia che a recuperarla in questura, a distanza di cinque mesi, sia stato Fausto Cardella della procura di Caltanissetta. Ma non è tuttora risolto che fine abbiano fatto i documenti e l'agenda rossa che Borsellino custodiva all'interno della sua valigetta. Così come non è ancora accertato se la prima destinazione della borsa fosse la questura o la procura di Palermo. I verbali di interrogatorio dei cinque poliziotti non chiariscono questo punto. Emerge solamente che la borsa è stata portata nell'auto del sovrintendente Francesco Maggi. Poi si suppone che fosse subito portata in questura, dando credito a una parte della versione di Maggi che, grazie a questi verbali, risulta ancor di più inattendibile. Silenzio stampa e non solo, su alcuni dettagli fondamentali che Il Dubbio è in grado di rilevare dopo un'attenta lettura dei verbali.

Prima di rilevarli, cominciamo nel dire che da questi verbali si può giungere alla definitiva smentita della fantasiosa narrazione di questi anni, rimarcata nelle trasmissioni tv e, purtroppo, inizialmente cristallizzata nelle motivazioni del primo processo del Borsellino Quater: tutti i poliziotti sentiti dai procuratori nisseni smentiscono la presenza di uomini in giacca e cravatta che rovistavano tra le fiamme appena qualche minuto dopo l'attentato del 19 luglio 1992 in Via D'Amelio. Ricostruzione che nasce con le dichiarazioni di Maggi, ora rivelatasi inattendibili. Così come, sempre dalla lettura dei verbali, risulta un falso che a prendere la borsa dall'auto di Borsellino sarebbe stato lui. Non solo. Smentita, ma già questo è già acclarato, la presenza di Bruno Contrada. Così come, ed è questa la parte più triste di tutta questa vicenda, emerge la completa innocenza e soprattutto la buona fede del carabiniere Giovanni Arcangioli. Dovette subire un linciaggio pubblico a causa dei media e soprattutto un processo. Reo di essere stato immortalato con la borsa e accusato di aver sottratto lui l'agenda rossa. Tutte falsità.

Secondo i verbali, il passaggio della borsa di Borsellino avviene così: il carabiniere Arcangioli la prende, consegnata dall'ex giudice Ayala o da un magistrato sconosciuto, quindi l’ispettore Giuseppe Lo Presti gli intima di dargliela e ordina al poliziotto Armando Infantino di collocare la borsa nella macchina guidata da Maggi. Da questo momento, non è chiaro se la borsa sia stata portata direttamente in questura o se ci sia stato un passaggio nella procura di Palermo. C'è la versione di Maggi che dice di averla consegnata a un funzionario della questura che poi l’avrebbe dato a La Barbera, ma oltre ad aver appurato che ha dato versioni completamente inattendibili, come d'altronde emerge anche dalle motivazioni del primo processo Maio Bo +4, sappiamo che il questore La Barbera non era presente il 19 luglio, ma arriverà a tardissima notte.

Veniamo al punto. A differenza di ciò che ha detto il sostituto procuratore generale di Caltanissetta Gaetano Bono, il vero convitato di pietra di questa vicenda non sono i servizi segreti, ma diversi magistrati di Palermo che non solo erano sul posto subito dopo la strage ma, come emerge dai verbali al Csm del 1992 e, in particolare, dalle parole degli ex pm Gioacchino Natoli e Vittorio Aliquo, hanno anche visto il contenuto della borsa: documenti, tra i quali il verbale di Mutolo. Non solo. Ora grazie ai verbali emerge un dettaglio fondamentale. Prima di citarlo, ricordiamo che l'anno scorso Il Dubbio sollevò la questione dell'ufficio di Borsellino ritrovato semivuoto dai figli Lucia e Manfredi il giorno dopo per essere presenti all'inventario. Lo hanno testimoniato loro stessi innanzi ai pm di Caltanissetta, nel 2013. Il giorno dopo la strage del 19 luglio, infatti, raccontano di aver partecipato all'inventario dell'ufficio del padre alla procura di Palermo e notarono la mancanza di tutti i fascicoli delle ultime inchieste che il magistrato stava seguendo. “Era chiaro che qualcuno aveva messo le mani in quella stanza”, hanno spiegato, “non c'erano fascicoli, né interrogatori legati alle inchieste sulle quali papà lavorava”.

In sostanza sono spariti, con tutta tranquillità e alcun clamore, i documenti dall'ufficio di Borsellino. Un fatto inquietante che la stessa moglie di Borsellino rivelò al giornalista Sandro Ruotolo, che rese pubblica la testimonianza solamente dopo la sua morte (il 5 maggio 2013), rispettando il volere della signora. Cosa disse? “Il giorno dopo la strage - ha rivelato la signora Agnese prima di morire –la polizia investigativa entra dentro l'ufficio della procura di Paolo, ci vanno anche i miei figli Lucia e Manfredi: entrano e si accorgono che tutti i suoi cassetti erano stati svuotati, non c'erano né carte e né tantomeno i suoi appunti!”.

Forse non sono spariti, magari requisiti da altri soggetti. Quindi dovrebbe esserci un verbale. Uno dei tanti non richiesti o acquisiti in questi 31 anni. Ora grazie alla lettura degli interrogatori dei cinque poliziotti, abbiamo una risposta su chi fossero questi soggetti: i magistrati di Palermo. Precisamente riguarda il verbale di interrogatorio dell'attuale Vice Questore Andrea Grassi. Ecco cosa dice innanzi ai pm nisseni: “Nell'immediatezza dell'evento non ho redatto atti di P.G. o, quanto meno, non ne ho ricordo, mentre ricordo che, credo nella tarda serata di quel giorno, ho coadiuvato magistrati della procura di Palermo nell'ispezione dell'ufficio del dottor Borsellino, presso la Procura di Palermo, per essere più precisi, da via D'Amelio raggiunsi gli uffici della Squadra Mobile unitamente al dottor Sanfilippo, a bordo della sua moto privata, e da lì mi recai in Procura, credo con il dottor Fassari”.

Ebbene, ad ispezionare l'ufficio sono stati i magistrati di Palermo. Esiste un verbale di ispezione? Sono stati sentiti dalla procura nissena? Ad oggi non risulta. Eppure questo dato va a confermare ciò che è scritto nel nuovo libro di Vincenzo Ceruso, “La strage. L'agenda rossa di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D'Amelio” edito da Newton Compton Editor, dove per la prima volta si riporta la testimonianza di Salvatore Pilato, il quale il giorno della strage di Via D'Amelio era in servizio come magistrato di turno assieme a Luigi Patronaggio. Anche se quest'ultimo, in commissione antimafia presieduta da Chiara Colosimo, ha precisato di essere stato di “secondo turno”. Ebbene il magistrato Pilato rivela a Ceruso che i suoi colleghi gli hanno riferito che nell’ufficio di Borsellino c'era l'agenda rossa.

Sommando questa rivelazione con le dichiarazioni di Natoli e Aliquo al Csm, ben riportate nella sua interezza nel libro, e il dettaglio emerso dai verbali di interrogatorio ai cinque poliziotti, si fa sempre più strada l'ipotesi che in qualche modo il contenuto della borsa di Borsellino sia giunto in Procura. Forse in un sacco di plastica? Lo stesso che sarà descritto dal verbale redatto da Cardella, ma con poca robetta (in più la presenza di tre documenti, ma che tuttora non si è dato sapere il contenuto) e con un biglietto nel quale si legge: “Rinvenuto sul luogo della strage, ass. Maggi Francesco”? La borsa che giungerà in questura da La Barbera era già “svuotata”? Per avere delle risposte, basterebbe ricostruire il quadro, ma questa volta sentendo tutti i magistrati viventi che erano sul luogo dell'attentato (non solo i soliti poliziotti o improbabili servizi segreti) e recuperando eventuali verbali. Primo tra tutti quello che riguarda l'ispezione svolta dai magistrati palermitani nell'ufficio di Borsellino. Ma ancora una volta, lo sguardo è altrove. Addirittura si dà credito ad un improbabile testimonianza di un ex amico della famiglia di La Barbera. I mass media tornano nuovamente a svolgere il ruolo tossico avuto durante il periodo del surreale processo trattativa, enfatizzando il nulla. In questo ultimo periodo si sono fatti passi da gigante, basti pensare alla pista mafia-appalti. Ma basta poco per ricadere nelle tesi che creano fumo e neutralizzano i fatti nudi e crudi che man mano cominciano a emergere.

Agenda Borsellino, l’ultimo colpo di scena: assieme alla borsa sarebbe stata presa in consegna dal procuratore. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 6 Dicembre 2023

La borsa e l’agenda rossa di Paolo Borsellino sarebbero state prese in consegna dal procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra.

A dirlo, in una annotazione di servizio datata 20 luglio 1992, il giorno dopo la strage di via D’Amelio, è l’allora capo della squadra mobile di Palermo, poi promosso questore, Arnaldo La Barbera. L’annotazione, di cui si ignorava l’esistenza fino ad oggi, è stata acquisita nei giorni scorsi dai magistrati nisseni che stanno indagando sulla sparizione di questa agenda dove il magistrato era solito annotare appunti riservati e relativi alle sue indagini più delicate.

Di quella relazione, però, non c’era traccia alla Procura di Caltanissetta: pur essendo regolarmente protocollata e firmata, non è mai stata trasmessa per competenza ai Pm, rimanendo per oltre trent’anni in un faldone dell’archivio della Questura del capoluogo siciliano.

La pista

L’annotazione è stata adesso utilizzata per motivare il provvedimento di perquisizione domiciliare nei confronti di Serena La Barbera, figlia del dirigente della polizia e di sua moglie. Un supertestimone, il padre di un’amica di Serena, avrebbe riferito una confidenza della figlia. “La mia amica Serena non si sente più di tenere una cosa di suo padre, che è morto nel 2002, era il questore di Palermo Arnaldo La Barbera. Potresti conservarla tu?”, le parole della ragazza.

“Mia figlia – ha detto sempre il testimone – mi ha raccontato anche un’altra confidenza di Serena La Barbera: sua madre, su indicazione fornita dal marito prima di morire, ha usato la documentazione che nascondevano per fare assumere la figlia ai servizi di sicurezza”.

Come raccontato il mese scorso dal Riformista, per la sparizione dell’agenda venne indagato l’allora capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli. L’ufficiale venne immortalato con in mano la borsa di Borsellino. La foto, scattata tra le 17,20 e le 17,30 del 19 luglio 1992, fu scoperta casualmente solo nel 2005.

Il fascicolo

Dopo la sua pubblicazione venne aperta un’inchiesta e Arcangioli, nel 1992 in servizio al Nucleo operativo del comando provinciale di Palermo, finì indagato per il furto dell’agenda da cui sarà prosciolto definitivamente nel 2009.

Nella sentenza d’appello del processo Borsellino Quater a Caltanissetta i giudici dedicarono un capitolo alla sparizione dell’agenda, evidenziando le “molteplici contraddizioni fra le deposizioni dei vari testi esaminati”.

Pur prendendo atto dell’assoluzione di Arcangioli, poi promosso generale, i giudici nisseni ne sottolinearono il comportamento “molto grave”. Arcangioli aveva ammesso la circostanza, scrissero i magistrati, “senza fornire alcuna spiegazione plausibile del suo comportamento, poco chiaro, limitandosi a dichiarare che la borsa in questione – dal suo punto di vista – in quel momento, era un oggetto di scarsa o nulla rilevanza investigativa e che non ricordava alcunché”. Per i giudici si trattò di un’affermazione “scarsamente credibile” e anche “in palese contraddizione con la circostanza che il teste, in quel contesto così caotico e drammatico, si premurava di prelevare la borsa dalla blindata, guardando all’interno della stessa”.

I nuovi sviluppi sollevano ora interrogativi a cui è importante dare immediata risposta. Perché La Barbera, ad esempio, avrebbe scritto una relazione senza mai inoltrata in Procura? E, soprattutto, perché non venne mai sentito il procuratore di Palermo dell’epoca Piero Giammanco? Paolo Pandolfini

Strage di via D’Amelio e caso dell’agenda rossa, indagano sui morti e non interrogano i vivi. Sarebbe opportuno sentire i colleghi di Borsellino, a partire da Pilato, presidente della Corte dei conti siciliana, che dopo 30 anni ha affermato che l’agenda è sempre stata nell’ufficio del magistrato. Prima che qualcuno la facesse sparire. Paolo Comi su L'Unità il 6 Dicembre 2023

La borsa di Paolo Borsellino e soprattutto la sua agenda rossa sono sempre rimaste in Procura a Palermo. È ormai quasi certo, infatti, che l’agenda dove il giudice siciliano annotava i suoi appunti più riservati non scomparve nel nulla dopo la strage di via D’Amelio del 19 luglio del 1992.

La circostanza che l’agenda fosse nella stanza del magistrato in Procura a Palermo è riportata nel libro di recente pubblicazione scritto da Vincenzo Ceruso e dal titolo La strage. L’agenda rossa di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio, edito da Newton Compton Editor.

“Sono stati apposti i sigilli alla stanza dell’ufficio del procuratore Borsellino, dove era collocata un’agenda rossa”, ricorda Salvatore Pilato, all’epoca pm di turno alla Procura di Palermo, di cui Ceruso ha recuperato l’inedita testimonianza.

Per la sparizione dell’agenda venne indagato l’allora capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli, diventato suo malgrado famoso dopo che una foto l’immortalò con in mano la borsa di Borsellino. Si trattava di un fotogramma, scattato tra le 17,20 e le 17,30 del 19 luglio 1992, scoperto casualmente solo nel 2005.

Dopo la sua pubblicazione venne aperta un’inchiesta penale e Arcangioli, nel 1992 in servizio al Nucleo operativo del comando provinciale di Palermo, finì indagato per il furto dell’agenda da cui sarà prosciolto definitivamente nel 2009.

“Prelevai (l’agenda) e (la) portai dove stavano in attesa il dottore Ayala (Giuseppe) e il dottore Teresi (Vittorio)”, disse Arcangioli. “Uno dei due predetti magistrati – specificò l’ufficiale – aprì la borsa e constatammo che non vi era all’interno alcuna agenda, ma soltanto dei fogli di carta. Verificato ciò, non ricordo esattamente lo svolgersi dei fatti. Per quanto posso ricordare, incaricai uno dei miei collaboratori di cui non ricordo il nome, di depositare la borsa nella macchina di servizio di uno dei magistrati. Si tratta di un ricordo molto labile e potrebbe essere impreciso”.

La dinamica è dunque chiara. Arcangioli consegnò la borsa all’ispettore di polizia Giuseppe Lo Presti, che stava procedendo per competenza, il quale ordinò poi al collega Armando Infantino di collocarla nell’auto di servizio guidata dall’agente Francesco Maggi.

Da quel momento i ricordi si confondono e non è chiaro se la borsa sia stata portata direttamente in Questura o se ci sia stato un passaggio nella Procura di Palermo. C’è solo la versione di Maggi che dice di averla consegnata a un funzionario della questura che poi l’avrebbe data al questore Arnaldo La Barbera.

Sul punto il vice questore palermitano Andrea Grassi testimoniando a Caltanissetta affermò che “nell’immediatezza dell’evento non ho redatto atti di P.G. o, quanto meno, non ne ho ricordo, mentre ricordo che, credo nella tarda serata di quel giorno, ho coadiuvato magistrati della Procura di Palermo nell’ispezione dell’ufficio del dottor Borsellino, presso la Procura di Palermo, per essere più precisi”.

A tal proposito è importate ricordare la testimonianza di Lucia e Manfredi Borsellino. Il giorno dopo la strage infatti, raccontarono i figli del magistrato, avevano partecipato all’inventario dell’ufficio del padre alla Procura di Palermo, notando la mancanza di tutti i fascicoli delle ultime inchieste che stava seguendo.

Circostanza successivamente confermata anche dalla moglie Agnese. In questa ricostruzione manca dunque un particolare fondamentale: le testimonianze dei magistrati di Palermo che non solo erano sul posto subito dopo la strage ma, come emerge dai verbali al Csm del 1992 e, in particolare, dalle parole degli ex pm Gioacchino Natoli e Vittorio Aliquò, hanno anche visto il contenuto della borsa, fra cui il verbale delle dichiarazioni di Gaspare Mutolo.

Sono stati sentiti? Hanno redatto una annotazione di servizio? E l’allora procuratore di Palermo Pietro Giammanco è stato mai interrogato prima di morire? La risposta, purtroppo, è negativa ed apre scenari quanto mai inquietanti.

La procura di Caltanissetta adesso ha deciso di procedere nei confronti di La Barbera, morto nel 2002, e ritenuto responsabile della sparizione dell’agenda.

Sarebbe opportuno, invece, interrogare tutti i colleghi ancora in vita di Borsellino, iniziando proprio da Pilato, attualmente presidente della Corte dei conti siciliana, che in maniera disarmante ad oltre trent’anni di distanza ha affermato che l’agenda è sempre stata nell’ufficio del magistrato. Prima che qualcuno la facesse sparire. Paolo Comi 6 Dicembre 2023

Le indagini e i depistaggi. Che fine ha fatto l’agenda rossa di Borsellino, un mistero lungo trent’anni. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 23 Novembre 2023

“La narrazione che gira da oltre trent’anni attorno alla scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino oggi non è più avvolta dal mistero. L’agenda, infatti, era proprio dove doveva essere: sulla scrivania del magistrato”, afferma l’avvocata milanese Simona Giannetti, consigliera generale del Partito Radicale e legale degli imputati nel processo sul dossier Mafia e appalti da poco terminato nel primo grado di giudizio al tribunale di Avezzano.

La circostanza che l’agenda di pelle di colore rosso dove Borsellino era solito annotare gli appunti personali non fosse a via D’Amelio il giorno della strage ma nella stanza del magistrato in Procura a Palermo è riportata nel libro di Vincenzo Ceruso dal titolo “La strage. L’agenda rossa di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” edito da Newton Compton Editor.

“Sono stati apposti i sigilli alla stanza dell’ufficio del procuratore Borsellino, dove era collocata un’agenda rossa”, ricorda Salvatore Pilato, all’epoca pm di turno alla Procura di Palermo, di cui Ceruso ha recuperato l’inedita testimonianza.

Ma se l’agenda rossa non era a via D’Amelio che fine ha fatto? Mistero.

Per la sua sparizione venne indagato l’allora capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli, la cui immagine con in mano la borsa di Borsellino in questi anni è diventata virale.

Si tratta di un fotogramma, scattato tra le 17,20 e le 17,30 del 19 luglio 1992, scoperto casualmente solo nel 2005.

Dopo la sua pubblicazione venne aperta un’inchiesta e Arcangioli, nel 1992 in servizio al Nucleo operativo del comando provinciale di Palermo, finì indagato per il furto dell’agenda da cui sarà prosciolto definitivamente nel 2009.

Nella sentenza d’appello del processo Borsellino Quater a Caltanissetta i giudici dedicarono un capitolo proprio alla sparizione dell’agenda rossa, evidenziando le “molteplici contraddizioni fra le deposizioni dei vari testi esaminati”.

Pur prendendo atto dell’assoluzione di Arcangioli, poi promosso generale, i giudici nisseni ne sottolinearono il comportamento “molto grave”.

Arcangioli, in particolare, aveva ammesso la circostanza “senza fornire alcuna spiegazione plausibile del suo comportamento, poco chiaro, limitandosi a dichiarare (in maniera assai poco convincente) che la borsa in questione – dal suo punto di vista – in quel momento, era un oggetto di scarsa o nulla rilevanza investigativa e che non ricordava alcunché”. Per i giudici si trattò di un’affermazione “scarsamente credibile” e anche “in palese contraddizione con la circostanza che il teste, in quel contesto così caotico e drammatico, si premurava di prelevare la borsa dalla blindata, guardando all’interno della stessa”.

La famiglia Borsellino in precedenza aveva segnalato l’esistenza di quell’agenda rossa al questore Arnaldo La Barbera, morto nel 2002 e che aveva coordinato il gruppo investigativo interforze all’indomani della strage di via D’Amelio. La Barbera però si era limitato a replicare che l’agenda fosse il frutto della loro “farneticazione”. La Barbera sarà successivamente indicato tra i fautori del depistaggio sulle indagini della strage.

“Non ricordo come e perché avessi la borsa del giudice Borsellino, né che fine abbia fatto. Vi guardai dentro, forse insieme al giudice Ayala. Non c’era nulla di rilevante se non un crest dei carabinieri. È proprio perché non vi avevo trovato nulla di interessante sul piano investigativo che non ricordo cosa feci della borsa dopo”, affermò Arcangioli.

Qualche anno prima l’ufficiale aveva però dichiarato che “se non ricordo male aprii lo sportello posteriore sinistro e posata sul pianale, dove si poggiano di solito i piedi, rinvenni una borsa, credo di color marrone, in pelle, che prelevai e portai dove stavano in attesa il dottore Ayala e il dottore Teresi”. “Uno dei due predetti magistrati – specificò l’ufficiale – aprì la borsa e constatammo che non vi era all’interno alcuna agenda, ma soltanto dei fogli di carta. Verificato ciò, non ricordo esattamente lo svolgersi dei fatti. Per quanto posso ricordare, incaricai uno dei miei collaboratori di cui non ricordo il nome, di depositare la borsa nella macchina di servizio di uno dei magistrati. Si tratta di un ricordo molto labile e potrebbe essere impreciso”.

Alla domanda sul perché si fosse spostato con la borsa in mano di oltre 60 metri dalla vettura di Borsellino, Arcangioli rispose: “Io giravo continuamente per rendermi conto di quel che stava succedendo. All’inizio pensavo che dell’inchiesta sull’eccidio ci saremmo occupati noi carabinieri, in particolare il Ros, poi seppi dal capitano (Marco) Minicucci (all’epoca suo superiore) che invece l’avrebbe seguita la polizia. Può darsi che quel percorso l’ho fatto più volte. Non ho ricordo del momento in cui presi la borsa in mano. Non ricordo se l’ho riposta io in macchina ma pensavo che nella valigetta non ci fosse nulla di rilevante”.

L’ufficiale, inoltre, sostenne di aver riferito della borsa a Minicucci “che ero rimasto colpito dal fatto che avesse con se un crest dei carabinieri”. E sul motivo per cui non fece una relazione di servizio, Arcangioli precisò che “in questi anni, è stato ritenuto strano che non ho scritto una relazione di servizio sull’episodio solo perché non ritenevo, probabilmente sbagliando, quel reperto di interesse, e non viene ritenuto strano che l’operatore di polizia la relazione l’ha fatta dopo sei mesi”.

“Ancora una volta nella ricerca della verità sulle cause della morte di Borsellino si è perso del tempo prezioso. Il tempo fa il suo corso, purtroppo, ma siccome la verità è un diritto, non è mai tardi per dare spazio alla verità sostenuta dal rigore dei fatti e documenti e non dalle deviazioni sulla via dei teoremi”, ha quindi aggiunto l’avvocata Giannetti. Paolo Pandolfini

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” mercoledì 29 novembre 2023.

Fabio Trizzino è l’avvocato della famiglia Borsellino e marito di Lucia, primogenita del magistrato ucciso. Per lui la verità sulla morte del suocero è una questione personale, prima che giudiziaria. […] 

Avvocato, siete fattivamente impegnati nella ricerca della verità sui misteri che ancora oggi riguardano la strage di via D’Amelio. È possibile individuare le ragioni di questo impegno diretto?

«Tutto ha avuto inizio nel 2014, dopo la lettura delle motivazioni della sentenza Borsellino quater abbreviato. Grazie alla collaborazione di Gaspare Spatuzza e Fabio Tranchina, abbiamo appreso che i processi Borsellino Uno e Bis erano stati costruiti ad arte attraverso l’indottrinamento di tre soggetti improponibili sullo scenario di una delle più gravi stragi della Repubblica: Salvatore Candura, Francesco Andriotta e Vincenzo Scarantino. E allora abbiamo deciso di vederci chiaro».

Chi ha messo in pista questi personaggi?

«Arnaldo La Barbera, sotto la sapiente regia della Criminalpol diretta dal Prefetto Luigi Rossi. È processualmente accertato che, in linea con l’immediato sviamento delle indagini operato dalla squadra mobile di Palermo, a livello interministeriale venne creato, nel luglio del 1993, un gruppo investigativo apposito sciolto da ogni collaborazione con altre forze di polizia giudiziaria.

In tal modo poté muoversi liberamente e con assoluta spregiudicata autonomia. A sovraintenderne l’azione, l’altrettanto «sapiente» direzione del procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra e degli altri sostituti che si sono avvicendati nella gestione di quelle indagini e delle fasi dibattimentali. […]» 

Nei giorni scorsi la Procura di Palermo ha cercato proprio a casa dei famigliari di La Barbera la famosa agenda rossa di Borsellino…

«Si tratta di un’ipotesi investigativa, ma ritengo che abbia una sua plausibilità, considerando il suo ruolo di depistatore. Per lui quel documento avrebbe potuto rappresentare un formidabile strumento di ricatto o un’assicurazione sulla vita. Anche se La Barbera, a mio giudizio, era solo un esecutore di alto rango e gli ordini verosimilmente sono arrivati da Roma».

Ci sono altre motivazioni che vi spingono in questa opera di ricerca?

«Quella di comprendere il terribile travaglio interiore che indusse Borsellino a definire la Procura di Palermo “un nido di vipere”». È imperdonabile che per quasi trent’anni siano rimasti riservati i verbali del Csm del 1992 relativi alle audizioni di alcuni magistrati della Procura di Palermo pochi giorni dopo la strage del 19 luglio 1992 e le dimissioni del procuratore Pietro Giammanco del 23 luglio.

Documenti di cui abbiamo avuto cognizione soltanto nel 2021. Attraverso quei verbali siamo riusciti a ricostruire la via crucis di Borsellino all’interno della Procura di Palermo nel periodo compreso fra il 23 maggio e il 19 luglio 1992. Perché quelle audizioni non sono state riversate nei processi sulla strage di via D’Amelio? Tale occultamento fu funzionale al depistaggio?». 

Che cosa l’ha colpita in particolare di quei verbali?

«La descrizione della riunione del 14 luglio 1992, convocata da Giammanco ed estesa a tutti i magistrati della Procura di Palermo, compreso ovviamente Borsellino. Si tratta di una circostanza fondamentale sottratta a tutte le 19 istruttorie dibattimentali celebrate sulla strage di via D’Amelio».

 Perché ritiene quella riunione così importante?

«Perché era successiva alla richiesta di archiviazione del troncone principale della indagine mafia-appalti, firmata il giorno prima, cioè il 13 luglio, dai sostituti procuratori Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte. Quell’istanza venne accolta rapidamente dal gip Sergio La Comare il 14 agosto del 1992, dopo che il procuratore Giammanco vi appose il visto il 22 luglio del 1992, quale ultimo atto prima delle sue dimissioni. Le posizioni archiviate erano tutt’altro che marginali»

[…]

La sentenza sul cosiddetto depistaggio ha individuato cause scatenanti della strage di via D’Amelio diverse dalla trattativa Stato-mafia. Perché secondo lei si è voluto seguire quella pista per così tanti anni?

«Purtroppo si è imposta una logica da tifoseria, quasi che le indagini e i processi possano essere argomenti da bar. È una tendenza pericolosa, alimentata, fra l’altro, anche da magistrati molto noti che non si arrendono nemmeno di fronte a una sentenza della Cassazione che ha rigettato l’impianto dell’accusa sulla cosiddetta Trattativa. Si nega così pari dignità ad altre piste altrettanto plausibili sul vero punto dolente della strage del 19 luglio 1992: l’accelerazione anomala nell’esecuzione e l’immediata sottrazione dell’agenda rossa di Borsellino». 

Agnese Borsellino ha ricordato una frase del marito: «Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere». Che cosa significavano quelle parole?

«Che bisogna per l’appunto accertare, anche soltanto in una prospettiva storica, cosa accadde alla Procura di Palermo allorché vi arrivò Borsellino. Sicuramente ruppe degli equilibri e venne irrazionalmente e pretestuosamente ostracizzato dal suo capo. La magistratura è una istituzione fondamentale del nostro Paese. Ma non ha quella sacralità che si è autoattribuita in questi ultimi 30 anni. Io credo che sia il momento di capire i reali motivi di tutto ciò. Lo dobbiamo a Paolo Borsellino ed anche alle nuove generazioni».

«Se fosse confermato lo scenario risulterebbe del tutto cambiato». La testimonianza shock del magistrato Salvatore Pilato è emersa, dopo 31 anni, nel libro di Vincenzo Ceruso "La Strage. L'agenza rossa di Borsellino e i depistaggi in via D'Amelio". Valentina Stella su Il Dubbio il 23 novembre 2023

«L’agenda rossa di Borsellino era in procura a Palermo». Poi sparì. La testimonianza shock del magistrato Salvatore Pilato è emersa per la prima volta, dopo 31 anni, nel nuovo libro di Vincenzo Ceruso dal titolo “La strage. L'agenda rossa di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D'Amelio” ( Newton Compton Editori). Ne parliamo con Fabio Trizzino, legale dei figli di Borsellino.

Avvocato, come commenta questa nuova rivelazione?

Io non ho ancora letto il libro ma quello che mi sento di dire sono due cose. La prima attiene al fatto che la fonte sembrerebbe qualificata, trattandosi del pubblico ministero di turno che intervenne nell’immediato, subito dopo l’esplosione in via D’Amelio. È vero che le anomalie nel corso degli anni che hanno riguardato le indagini sono state tantissime, però ritengo che da qualche parte debba esserci una relazione di servizio rispetto appunto alle attività che il pm di turno ha compiuto a ridosso della strage. Questo è l’unico motivo per cui diciamo che in qualche modo non mi sorprendo del fatto che il dottor Pilato parli dopo trent’anni. Probabilmente ha ritenuto di aver esaurito la sua attività di informazione e comunicazione attraverso una relazione di servizio che però dobbiamo trovare e verificare.

La seconda?

D’altra parte dico anche che, attesa la delicatezza del tema e che la famiglia Borsellino è stanca di tutte le possibili illazioni relative al destino di questa agenda rossa, ho dovuto necessariamente interloquire con l’autore di cui – ripeto – apprezzo il metodo rigoroso e scientifico. Lui mi ha semplicemente detto che ha fatto interviste scritte tramite email a vari magistrati, tra cui il dottor Pilato.

Tuttavia parlando con Repubblica Pilato sembra aver tirato il freno: «Io non ho visto l’agenda rossa di cui mi dissero il giorno dopo la strage. Poi, lessi da qualche parte che Agnese Borsellino aveva detto chiaramente che quella non era l’agenda rossa in cui il marito faceva le sue annotazioni riservate».

Sarà interessante verificare se tra le email e quanto dichiarato successivamente dal dottor Pilato vi sia corrispondenza. Per il momento sospendo il giudizio perché credo che probabilmente nell’intervista scritta vi sia qualcosa che abbia in qualche modo indotto o autorizzato lo scrittore a ipotizzare addirittura che l’agenda rossa sia stata portata in Procura e lì poi eventualmente sottratta. Questo inoltre è in linea con quanto stiamo acquisendo in questi ultimi tempi. Per esempio dalle audizioni in Csm abbiamo scoperto che esisterebbe un verbale di sequestro relativo al contenuto della borsa del dottor Borsellino e tra i vari documenti ci sarebbe dovuto essere il fascicolo Mutolo. Quindi non mi sorprenderei del fatto che la borsa, come è normale, sia stata portata in Procura, lì sia stato fatto un verbale di sequestro e quindi eventualmente un inventario degli oggetti contenuti nella borsa e sicuramente il dottor Borsellino aveva l’agenda rossa con sé. Quindi ora occorre verificare se nell’intervista scritta c’è qualche riferimento più preciso all’agenda rossa, perché altrimenti mi sorprenderebbe molto che lo scrittore si sia in qualche modo avventurato in una ricostruzione di questo tipo.

Ma cosa cambia, considerato che il presunto luogo della sparizione dell’agenda rossa si sposta all’interno del Palazzo di Giustizia?

Se fosse confermato quanto scritto nel libro, lo scenario risulterebbe completamente cambiato. Fermo restando che dobbiamo acquisire tutte le informazioni necessarie sulla possibilità di questa ricostruzione, non c’è incompatibilità tra l’eventuale deposito dell’agenda in Procura e poi la gestione della stessa da parte del capo della Squadra Mobile. D’altra parte c’è un dato inquietante che vorrei sottolineare: è la nota del 20 luglio 1992 con cui si chiede di non acquisire ai fini dell’indagine il traffico in entrata dell’utenza del dottor Borsellino. Una nota come quella che è stata richiesta dal funzionario della Criminalpol Pansa e autorizzata dal dottor Carmelo Petralia per esempio si potrebbe giustificare anche sulla scorta di una eventuale analisi del contenuto dell’agenda rossa. Ci muoviamo sempre nel campo delle ipotesi ma potrebbe esserci in tal senso una spiegazione, perché altrimenti non si spiega – ripeto - la sottrazione alle indagini del traffico in entrata dell’utenza del dottor Borsellino.

Secondo lei la verità è più vicina?

Noi abbiamo fiducia nella verità. Lo dobbiamo soprattutto al dottor Borsellino che deve riposare in pace e non deve sentirsi abbandonato da noi e da quella gran parte degli italiani che hanno a cuore la sua storia. Noi stiamo dando il nostro contributo e continueremo ad avere fiducia nelle istituzioni. Certo a 31 anni di distanza tutto diventa più difficile, avremmo voluto avere la serenità di poter avere la possibilità di elaborare questo lutto ma oneri e onori devono essere portati con grandi dignità.

Dopo la sua audizione in Commissione antimafia c’è chi ha accusato lei di fare depistaggi. Come replica?

Nel momento in cui accusano me di depistaggio, stanno accusando i magistrati del Borsellino ter e quater che hanno insistito, accentuato, posto al centro dell’attenzione come possibile causa dell’accelerazione della strage l’interesse del dottor Borsellino per l’indagine mafia e appalti. D’altra parte quell’interesse come ho dimostrato credo attraverso una ricostruzione rigorosa emerge chiaramente proprio dai verbali del Csm e dalle testimonianze qualificate che vi sono contenute. Quindi rispedisco le accuse al mittente. Noi – e vorrei che sia chiaro una volta per tutte – il depistaggio lo abbiamo subito.

Abbiamo anche la certezza che Borsellino ha annotato nell’agenda qualche appunto di natura riservata. Ma ora abbiamo la certezza assoluta che l’agenda aveva i suoi “allegati”, ovvero i documenti. Ceruso parla di “tesoro documentale” scomparso «dall’orizzonte di interesse dell’opinione pubblica ( altra questione è in quale misura sia scomparso da quello investigativo) insieme alla sua borsa, nelle primissime ore dopo l’esplosione». Ma tali carte, stando alle audizioni di Natoli e Aliquo, sono state viste e sequestrate.

Grazie alla testimonianza autorevolissima raccolta nel libro, disponiamo di un dato certo riguardo al momento in cui la borsa di Borsellino sarebbe stata portata via dal luogo dell’attentato: intorno alle sei meno un quarto, un ufficiale dei carabinieri riferisce al magistrato Pilato che la borsa era già stata posta sotto sequestro dagli uomini dell’Arma. Successivamente, e qui risulta particolarmente complesso fare chiarezza, il materiale è giunto in procura.

Sicuramente, l’agenda rossa, ora che sappiamo per la prima volta che era sul tavolo dell’ufficio di Borsellino. Quindi, come ipotizza lo stesso autore del libro, la sua scomparsa definitiva non sarebbe avvenuta in via D’Amelio, bensì nel luogo in cui il suo proprietario lavorava quotidianamente e conservava i documenti più importanti.

Ma tutti questi documenti che fine hanno fatto dopo il sequestro? Ceruso è ottimista. Si trovano verosimilmente negli archivi di alcune procure siciliane, tra scaffali impolverati e fascicoli. In fondo tante prove sono state dimenticate. Testimonianze comprese. L’autore ripesca una deposizione avvenuta al primo processo Borsellino. Parliamo dell’allora colonnello Enrico Brugnoli: racconta di aver aiutato l’allora magistrato nisseno Cardella ( ricordiamo che recupererà la borsa presso la questura di La Barbera solo a novembre del 1992) a repertare il contenuto. Elenco completamente scarno. Ma nell’elencazione, Brugnoli confermerà la presenza di almeno tre documenti. Dalle domande poste dal Pm sembrerebbe che siano state fatte delle fotocopie. Almeno quelle è possibile, quindi, recuperale.

Ma per comprendere meglio il quadro bisogna leggere il libro “La strage. L'agenda rossa di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D'Amelio” dove tutto è ricostruito in maniera certosina. Anche ponendo nuovi elementi sulla modalità della strage dove emerge la contraddizione sul rinvenimento del “blocco motore” e non solo. Una ricostruzione che nessuna sentenza sulla strage ha mai fatto e che non troverete mai in nessun altro libro di “inchiesta” sull’argomento. Ora toccherà alla procura nissena vagliare di nuovo da capo. Magari senza gli inevitabili condizionamenti e tesi che hanno allontanato la verità dei fatti. Trovare i documenti, eventuali relazioni di servizio anche da parte dei magistrati di turno, verbali. E magari ascoltando tutti i togati viventi di allora. Quel terribile giorno, in procura, c’erano quasi tutti. Anche questo emerge dalle audizioni al Csm.

Depistaggio Borsellino: poliziotti sotto inchiesta e perquisizioni per trovare l’agenda rossa. Stefano Baudino su L'Indipendente sabato 18 novembre 2023.

Si nutre di novità salienti, di cui però l’effettiva portata investigativa non è ancora chiara, l’inchiesta sul maxi-depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, in cui, il 19 luglio 1992, il magistrato Paolo Borsellino è rimasto ucciso insieme a cinque membri della sua scorta. Da un lato, infatti, è stato notificato l’avviso di chiusura delle indagini per l’ipotesi di reato di falsa testimonianza a quattro poliziotti della squadra dell’allora questore di Palermo Arnaldo La Barbera (deceduto nel 2002), giudicato da varie sentenze come il perno attorno a cui è ruotato lo sviamento delle indagini sull’eccidio, che conta tra i suoi membri altri tre poliziotti attualmente a processo per calunnia aggravata. I fatti sono riferiti alla “costruzione” del finto pentito Vincenzo Scarantino, un semplice “balordo di quartiere” che, completamente estraneo alla strage, nel periodo successivo venne costretto ad autoaccusarsi davanti ai magistrati, contribuendo a depistare le indagini per un ventennio. Al contempo, la Procura di Caltanissetta lo scorso settembre ha inviato le forze dell’ordine nella casa della moglie e di una delle figlie di La Barbera, che ora risultano indagate per ricettazione aggravata dal favoreggiamento alla mafia, dopo che un testimone vicino alla sua famiglia ha raccontato ai pm che l’agenda rossa del giudice Paolo Borsellino – utilizzata dal magistrato per annotare incontri e spunti investigativi dalla strage di Capaci in avanti e rubata da mani istituzionali dal perimetro della strage – era stata nascosta nella casa dell’ex questore. Le perquisizioni sono scattate: i carabinieri hanno sequestrato una lunga serie di documenti. Ma l’agenda rossa non è stata trovata.

Il procuratore di Caltanissetta Salvatore De Luca e il sostituto Maurizio Bonaccorso si apprestano dunque a chiedere un processo per i poliziotti Maurizio Zerilli, Giuseppe Di Gangi, Vincenzo Maniscaldi e Angelo Tedesco. Le ombre sulle loro condotte sono state evidenziate dalla sentenza di primo grado sul depistaggio Borsellino, in cui è stato dichiarato prescritto il reato di calunnia per il funzionario di polizia Mario Bo e l’ispettore Fabrizio Mattei, essendo per loro caduta l’aggravante di aver favorito Cosa Nostra, ed è stato assolto un altro ispettore, Michele Ribaudo, in merito al depistaggio delle indagini sulla strage di Via D’Amelio. «Nel clima di omertà istituzionale il dibattimento ha consentito di cristallizzare quattro ipotesi nelle quali soggetti appartenenti o ex appartenenti alla polizia di Stato e al gruppo Falcone e Borsellino hanno reso dichiarazioni insincere», ha sancito la sentenza, in cui è stato messo nero su bianco che “l’ispettore Maurizio Zerilli ha detto 121 non ricordo, e non su circostanze di contorno”, a cui si sommano gli oltre 100 dell’ispettore Angelo Tedesco e 110 di Giuseppe Di Ganci, mentre il quarto indagato, Vincenzo Maniscaldi, “non si è trincerato dietro ai non ricordo, ma si è spinto a riferire circostanze false”. Davanti ai pm, i quattro si sono avvalsi della facoltà di non rispondere.

Arnaldo La Barbera, superpoliziotto ma anche, nella seconda metà degli anni Ottanta, collaboratore dei servizi segreti, rappresenta il trait d’union tra la vicenda del furto dell’agenda rossa e quella del depistaggio Scarantino. La storica sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta del Borsellino-Quater del 2017, che ha ricevuto il timbro della Corte di Cassazione, collega la sua figura al macroscopico depistaggio verificatosi sulle indagini sulla strage di Via D’Amelio, che fu incarnato dalle false dichiarazioni rese ai magistrati dal finto pentito Vincenzo Scarantino e costituì il frutto di “un proposito criminoso determinato essenzialmente dall’attività degli investigatori, che esercitarono in modo distorto i loro poteri”. Secondo i giudici, infatti, “c’è un collegamento tra il depistaggio e l’occultamento dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, sicuramente desumibile dall’identità di uno dei protagonisti di entrambe le vicende”, ovvero La Barbera, ritenuto “intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa” e il cui ruolo fu “fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia”. Ed ora, a 31 anni di distanza dalla strage e dal furto del taccuino del giudice, seguendo le parole della loro fonte gli inquirenti hanno cercato – senza riuscire a trovarla – l’agenda proprio nelle abitazioni dei familiari di La Barbera, stroncato da un cancro nel 2002. Anni fa era finito sotto inchiesta per il furto dell’agenda rossa il capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli, che fu fotografato con la borsa di cuoio in cui l’agenda era contenuta mentre si allontanava da via D’Amelio, che nel 2008 fu però prosciolto in fase d’indagine. Ora, però, il decreto di perquisizione menziona un fotogramma e nuove testimonianze che indicherebbero come Arcangioli – che quel giorno non stilò una relazione di servizio – avrebbe consegnato la borsa a un ispettore di polizia, il quale rivendicava la titolarità dell’indagine per essere arrivato prima rispetto all’Arma. Secondo quanto ricostruito da indagini e processi, successivamente la borsa di cuoio finì proprio nell’ufficio di La Barbera.

Ad apprendere con scetticismo e disillusione queste notizie è stato Salvatore Borsellino, fratello del magistrato Paolo Borsellino e fondatore del Movimento delle Agende Rosse. «Ritengo si tratti dell’ennesimo depistaggio riguardante l’agenda rossa e, in particolare, bisognerebbe interrogarsi sul motivo per il quale venga messo in atto con questa tempistica – ha dichiarato a L’Indipendente l’attivista –. Pensare che un capitano dei carabinieri possa avere consegnato un reperto di quella importanza ad un ispettore di polizia senza lasciare alcuna traccia scritta è assolutamente impensabile». Aggiunge Salvatore: «Credo non sia casuale che questa vicenda emerga mentre va in corso l’opera di ‘santificazione’ di Mario Mori e di quel Ros dei carabinieri che, tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio, si rese protagonista della trattativa Stato-mafia». Dopo una condanna in primo grado in cui era stato stabilito che l’invito al dialogo partorito dal Ros nei confronti dei vertici mafiosi tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio avesse provocato l’accelerazione della morte di Paolo Borsellino, in appello e in Cassazione tale ricostruzione è stata smentita e i carabinieri sono stati assolti, rispettivamente “perché il fatto non costituisce reato” e “per non aver commesso il fatto”. [di Stefano Baudino]

Estratto dell'articolo di Salvo Palazzolo per repubblica.it venerdì 17 novembre 2023.

Un testimone racconta che l’agenda rossa di Paolo Borsellino è stata nascosta a casa dei familiari di Arnaldo La Barbera, l’ex capo della squadra mobile di Palermo al centro di tanti misteri, nel 2002 stroncato da un tumore. È un racconto molto dettagliato quello che hanno vagliato i magistrati della procura di Caltanissetta, sembra che la rivelazione arrivi da una persona vicina alla famiglia La Barbera.

Il mese scorso, sono scattate delle perquisizioni: i carabinieri del Ros, incaricati della delicatissima ricerca, sono arrivati nelle abitazioni della moglie e di una delle figlie del superpoliziotto, fra Roma e Verona. Dell’agenda rossa non c’è traccia, ma gli investigatori del Raggruppamento operativo speciale hanno portato via tanti documenti, appartenuti ad Arnaldo La Barbera, oggi ritenuto il regista della spregiudicata operazione che portò alla creazione del falso pentito Vincenzo Scarantino, il balordo di borgata che per anni ha tenuto lontana la verità sulla strage Borsellino.

[…] Anni fa era finito sotto inchiesta per furto l’allora capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli, fotografato il giorno della strage, in via D’Amelio, mentre teneva in mano la borsa del magistrato assassinato […] 

Il decreto di perquisizione parla di un fotogramma e di nuove testimonianze: Arcangioli avrebbe consegnato la borsa del magistrato a un ispettore di polizia, che rivendicava la titolarità dell’indagine, essendo arrivato prima dei carabinieri. E poco dopo la borsa finì alla squadra mobile, nella stanza del dirigente. Ma ci vollero cinque mesi al sottufficiale per stilare una relazione di servizio: «Non so perché non la scrissi al momento, l’ho fatto successivamente», ha detto il testimone all’ultimo processo per il depistaggio, quello che nei mesi scorsi ha visto imputati a Caltanissetta tre collaboratori di La Barbera per la costruzione del falso pentito Scarantino (uno è stato assolto, per due è scattata la prescrizione, adesso è in corso il processo d’appello).

«Rimane il dubbio — hanno proseguito i giudici — se il ritardo in quella relazione sia stata una negligenza nella tecnica investigativa, l’ennesima accertata, o se via sia di più». Per certo, scrive il tribunale di Caltanissetta, «il capo della squadra mobile La Barbera ebbe un comportamento veramente inqualificabile: dapprima disse alla vedova Borsellino che la borsa del marito era andata distrutta e incenerita nella deflagrazione, salvo poi restituirgliela diversi mesi dopo, negando in malo modo l’esistenza di agende rosse». 

Perché La Barbera, protagonista di tante indagini antimafia, fece tutto ciò? Per la procura favoriva i boss, per il tribunale cercava solo di trovare velocemente dei colpevoli per la strage di via d’Amelio, non importa se quelli giusti.

Quando andò a casa dei Borsellino, fu Lucia, la figlia del giudice Paolo, a chiedergli conto dell’agenda rossa: «A fronte dell’insistenza della ragazza, che usciva persino dalla stanza, sbattendo la porta — ha ricostruito il tribunale — il dottor La Barbera, con la sua voce roca, disse alla vedova che sua figlia necessitava di assistenza psicologica, in quanto delirava e farneticava. Un atteggiamento — non hanno avuto dubbio i giudici — che rivelava non solo un’impressionante insensibilità per il dolore dei familiari di Paolo Borsellino, ma anche un’aggressività volta a mascherare la propria evidente difficoltà a rispondere alle domande poste, con grande dignità e coraggio, da Lucia Borsellino». 

[…]

Estratto dell’articolo di Salvo Palazzolo per repubblica.it venerdì 17 novembre 2023.

Era il superpoliziotto di Palermo, il capo della squadra mobile che fra il 1988 e il 1994 arrestò decine di latitanti e mafiosi. Quando morì, nel 2002, stroncato da un tumore, in questura la sua foto fu messa accanto alle immagini degli investigatori uccisi dalla mafia. Tanto era un mito per i poliziotti di Palermo, giovani e vecchi. Oggi, invece, Arnaldo La Barbera è l’uomo dei misteri.

I magistrati di Caltanissetta lo ritengono il gran regista dell’operazione che trasformò un balordo di borgata come Vincenzo Scarantino in un provetto Buscetta. Ma perché costruire quello che è stato definito il più grande depistaggio della storia d’Italia? Perché era colluso con la mafia, hanno sostenuto i pubblici ministeri di Caltanissetta che ora – dopo il racconto di un supertestimone – cercano l’agenda rossa a casa dei familiari dell’investigatore, con delle perquisizioni fatte dal Ros nelle abitazioni della moglie e di una delle figlie.

E, intanto, prosegue in appello il processo per i tre poliziotti del gruppo di La Barbera (per due è scattata la prescrizione, uno è stato assolto). In appello la procura e la procura generale nissena provano soprattutto a ribadire che l’operazione Scarantino fu fatta per favorire Cosa nostra. Il tribunale ha ritenuto diversamente, sostenendo che La Barbera smarrì la strada solo perché voleva trovare un colpevole a tutti i costi per la strage Borsellino.

Chi era davvero Arnaldo La Barbera? Eroe dell’antimafia sull’orlo di una crisi di nervi o un complice della mafia? Le indagini dopo la sua morte hanno portato a scoprire che aveva una doppia tessera in tasca. Non era solo un dirigente di polizia, ma anche un collaboratore dei servizi segreti, nome in codice Rutilius. Sin dalla metà degli anni Ottanta.

Per fare cosa? L’Aisi ha riferito ai magistrati di Caltanissetta che ufficialmente il rapporto con La Barbera sarebbe andato avanti dal 1986 al 1988: gli 007 parlano di una “consulenza”, «per verifiche costanti in merito alla criminalità organizzata qualificata operante nell’Italia settentrionale», dove il poliziotto aveva operato a lungo. Ma questa tesi ufficiale non ha mai convinto i magistrati.

 Alcuni collaboratori di giustizia hanno detto che Arnaldo La Barbera era nelle mani della famiglia palermitana dei Madonia, però il tribunale di Caltanissetta non ha trovato riscontri a queste accuse. «Anche perché fu La Barbera ad arrestare Antonino e Salvatore Madonia, che erano latitanti», ricordano i giudici. Il pentito Vito Galatolo ha insistito dicendo di aver visto La Barbera in vicolo Pipitone, all’Acquasanta, il quartier generale del clan Galatolo, il cuore del mandamento dei Madonia. Ma anche in questo caso non sono stati trovati riscontri.

[…] Per il tribunale di Caltanissetta del processo “depistaggio” non vi è prova che La Barbera abbia agito per favorire la mafia, «non vi invece è dubbio che abbia agito anche per finalità di carriera e, dopo essere stato posato alla fine del 1992, una volta rientrato nel circuito, abbia fatto letteralmente carte false per poter mantenere e accrescere la propria posizione all’interno della polizia e nell’establishment del tempo».

I giudici hanno un’altra certezza: «Non vi è dubbio che il dottor Arnaldo La Barbera fu interprete di un modo di svolgere le indagini in contrasto – non solo oggi ma anche al tempo – prima ancora che con la legge, con gli stessi dettami costituzionali». È davvero possibile che un eroe dell’antimafia possa aver finito per comportarsi come l’ultimo degli impostori? La procura di Caltanissetta continua a indagare nei misteri di Palermo.

La notte della Repubblica. su Panorama il 26 Luglio 2023. Come Eravamo Marco Gregoretti, Francesca Oldrini Giorgio Oldrini Liliana Milella

In occasione del trentennale della strage di Via Palestro a Milano e piazza San Giovanni a Roma, riportiamo tre articoli pubblicati su Panorama e datati 8 agosto 1993 parte di un dossier dei nostri cronisti sulla tragica notte del 27 luglio 1993 Sono da poco passate le undici. Il professor Umberto Veronesi, oncologo di fama internazionale, è appena rientrato nella sua casa milanese. Ma fa appena in tempo a togliersi la giacca: sente un'esplosione violentissima. I vetri di casa tremano, sembra che debbano andare in mille pezzi da un momento all'altro. Sono le 23,12 di martedì 27 luglio e a due passi dalla villa comunale è appena esplosa l'autobomba: una Uno grigia parcheggiata contromano nella centralissima via Palestro. Il professore si precipita in strada. Due passi e arriva sul posto. Lo scenario che gli si presenta lo atterrisce. Vetri, fiamme, urla, gente per terra che si lamenta. Una donna in divisa, un vigile urbano della compagnia di Porta Vittoria, piange tenendosi la testa fra le mani. Un pezzo di automobile sul tetto del padiglione della galleria d'arte moderna, il motore della stessa Uno grigia cento metri più in là. Sono saltate anche le condutture del gas: la fuga di metano provoca un incendio. "Sembra che abbia preso fuoco l' aria" urla qualcuno. Veronesi si china sul corpo di un ferito, cerca di prestargli le prime cure. Tutto inutile, il vigile del fuoco Stefano Picerno, 32 anni, morirà poco dopo. Insieme con lui sono rimasti per terra due suoi colleghi, Sergio Pasotto e Carlo Laterna, un vigile urbano, Alessandro Ferrari, e un extracomunitario che dormiva su una panchina, Driss Moussafir. E' iniziato il conto alla rovescia della notte delle bombe.

Passano 58 minuti e a 600 chilometri di distanza, nel cuore di Roma, in piazza San Giovanni, un altro boato fa tremare la casa del capo della polizia Vincenzo Parisi. Questa volta l'autobomba è una Uno bianca, "come quella della banda di Bologna" osserva un cronista. Ma il ritrovamento della targa, Roma, esclude ogni collegamento. Anche lui scende subito. Arriva poco dopo monsignor Liberio Andreatta che stava dormendo nella sua stanza, al Vicariato, proprio il palazzo sotto il quale i terroristi hanno piazzato la macchina imbottita con lo stesso esplosivo usato in via Fauro, ai Parioli. "Vetri rotti, porte sfasciate, al posto dello scantinato un grande buco" ha raccontato monsignor Andreatta. Quando il capo della polizia è arrivato ha trovato un bilancio da guerriglia: 15 feriti, di cui uno però non si è mai presentato in ospedale, e vetri da tutte le parti. Sono quelli dei camper che tutti i martedì si radunano dopo le 22 in piazza San Giovanni per una compravendita fra appassionati di mezzi per il turismo plein air. Il supertestimone, quello che ha visto la dinamica usata dagli attentatori, è uno di questi camperisti. Ma non è finita. Passano dieci minuti. Il presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, che si trova da poche ore a Santa Severa, sul litorale laziale, sta parlando con un suo collaboratore che gli sta riferendo delle due bombe di Milano e Roma. Ma la telefonata viene interrotta bruscamente dal terzo scoppio. Arriva dal Campidoglio, a due passi dalla casa romana di Ciampi. Ancora un'autobomba. I danni sono incalcolabili: la facciata della chiesa del Velabro è praticamente distrutta. Altro che mare: Ciampi chiama il ministro dell' Interno Nicola Mancino, quello della Difesa Fabio Fabbri: "Alle due e un quarto di stanotte, a Palazzo Chigi per la riunione del Comitato nazionale per l'ordine e la sicurezza". Ciampi ha rotto due consuetudini: quella di informare i segretari dei partiti e quella di riunirsi al Quirinale. Arrivano, alle 2,15 in punto, tutti: Mancino, che presiede, Ciampi, Fabbri, il capo della polizia Parisi, quello dei carabinieri Federici, il comandante della Guardia di finanza Berlenghi, gli uomini dei servizi, il coordinatore Tavormina, i direttori Finocchiaro e Pucci, il numero uno della Dia, Di Gennaro, e quello della Criminalpol Rossi. Si delinea l'idea di un attacco al rinnovamento del Paese. Il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, costantemente in contatto con Ciampi, approva. E' una notte lunga per gli uomini del Palazzo romano. Ciampi per la prima volta ha dormito a Palazzo Chigi, cosa inusuale per un capo di governo.

Notte dura per quei pochi che vanno in piazza. Monetine, urla, insulti dalle migliaia di persone che si accalcano a San Giovanni e in Campidoglio. Ce l'hanno con Parisi che aveva iniziato la nottata, a mezzanotte e un quarto circa, accolto da fischi in piazza San Giovanni. Ce l'hanno con i servizi. Si fanno più veementi quando si sparge la voce di altre bombe nella capitale: una in via Gregorio VII, una all'Eur e una terza, alle porte di Roma, in via Grottaferrata. La polizia smentisce solo quella dell' Eur. E ammette di avere disinnescato un ordigno in via Grottaferrata. All'una di notte c'è chi arriva a invocare la pena di morte. Cercano il sindaco, anzi il commissario prefettizio. Ma nessuno l' ha visto, in piazza. Non si sono visti nemmeno l'ex sindaco Franco Carraro e l'aspirante Francesco Rutelli. Inizia per la strada, invece, la lunga notte di Marco Formentini, sindaco di Milano dal 20 giugno. Arriva in via Palestro poco prima dell'una. Lo hanno chiamato a casa, in via Cosimo Del Fante. E' pallido, sudato, incredulo, vestito di chiaro, con la camicia slacciata e senza cravatta. Prima di piombare in via Palestro si è consultato con l' assessore Philippe Daverio, che lo ha avvertito. "Vengo con lei, signor sindaco" gli dice Daverio. "No, è meglio che lei stia a casa e si tenga in contatto telefonico con me". Formentini si fa largo tra la folla, è bloccato dalle telecamere di Canale 5, la prima troupe televisiva arrivata sul posto. Dice che bisogna difendere "la democrazia degli italiani". Incontra, tra gli altri, il capo della procura della Repubblica di Milano Saverio Borrelli e Gherardo Colombo, uno dei sostituti del pool che indaga su Tangentopoli. Guardano increduli, avvolti, sotto le luci delle fotoelettriche, da un silenzio allucinato che contrasta con il chiasso vociante dell' altro capo della strada, i resti della Uno grigia, le mura gravemente danneggiate del Padiglione di arte moderna, il fuoco provocato dal gas che non smette di bruciare. A loro giungono lontane le urla di poliziotti e carabinieri che chiedono ai curiosi di non portarsi a casa i resti della macchina saltata per aria o le minacce di linciaggio al giovane marocchino che, approfittando della calca, aveva pensato di sfilare qualche portafoglio dalle tasche altrui. Un bel daffare per le forze dell' ordine. Anche per quel giovane agente, vestito in perfetto stile grunge che, per tenere lontana la folla, usa una paletta che gli ha prestato un vigile. "La mia si è rotta". E poi giù a raccogliere testimonianze. Da quella attendibile di Maurizio Ambrosoni, impiegato, 34 anni. Ricostruisce, per i giornalisti, cento volte la dinamica dei fatti. A quella, raccolta lì per lì, di un commerciante di 40 anni. "Mi chiamo Alberto, ma non voglio darvi il mio cognome. Ero sul balcone di casa, in corso Vercelli, quando ho visto un missile passare nel cielo. Poi la radio ha detto della bomba". Intanto si sono fatte le tre. Borrelli e Colombo se ne vanno via sulla stessa macchina. Torna in ufficio anche il questore di Milano Achille Serra. Il sindaco, Marco Formentini, va a casa. Giusto in tempo per ricevere la telefonata di Scalfaro: "Sono d' accordo con quello che ha detto". La notte delle bombe è finita. Fra poco è giorno. E puntuale, alle 8,20 di mattina, Ciampi ha varcato la soglia del Quirinale.

«È una vendetta contro il nuovo» "Più che una intimidazione sembra una vendetta ma noi a Milano rispondiamo subito. Rimetteremo tutto a posto. Non faremo agli sciacalli il regalo di farci fermare". Marco Formentini, sindaco leghista di Milano giudica così l' attentato che nella notte del 27 luglio ha ucciso cinque persone in via Palestro. E parla con commozione della telefonata che il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, bersaglio degli attacchi della Lega, gli ha fatto la mattina di mercoledì 28 luglio. Domanda. Cosa le ha detto il presidente Scalfaro? Risposta. E' stata una telefonata molto commossa. Ha porto le condoglianze alla città per mio tramite, e ha detto di approvare le affermazioni che ho fatto a caldo quando ho detto che c' è bisogno di una unità nella risposta. Allora perché la Lega organizza una sua manifestazione e non aderisce a quella degli altri partiti? Io parlo come sindaco. Quelli sono problemi dei partiti. Ho convocato in seduta straordinaria il consiglio comunale dove parleranno tutte le forze politiche elette dai milanesi. Perché la strage sarebbe stata una vendetta? Sì. Perché gli attentati non intimidiscono la gente, ma ottengono l' effetto opposto. E quegli sciacalli lo sanno. Per questo penso che sia una vendetta contro coloro che vogliono il nuovo. E perché è stata scelta Milano? Proprio perché qui il nuovo si è espresso più che altrove. Vogliono impedirci di andare oltre. Allora lei pensa che sia un attentato contro la Lega. Più che contro la Lega in sé, contro la svolta radicale che è stata voluta dai milanesi. E' una strage contro il rinnovamento. A Milano è già successo con la strage di piazza Fontana nel 1969. La volontà di chi ha fatto gli attentati è la stessa. Anche allora c' erano fermenti che qualcuno voleva contrastare. La differenza è che adesso non sono solo fermenti, il nuovo si esprime con i fatti ed è inarrestabile. Ma chi sono gli attentatori? E' uno dei misteri d' Italia. Quando queste stragi avvengono negli altri Paesi, si arriva sempre a scoprire gli autori. Qui da noi mai. Questo dimostra chiaramente che gli stragisti da noi godono di alte protezioni. Lei parla di golpismo strisciante. Questi attentati non sono opera di dilettanti o di singoli pazzi. Sono la prova che esiste una organizzazione forte, dotata di mezzi e con una conoscenza e un controllo del territorio. Si tratta di schegge di apparati dello Stato, con potere e in rapporto con pezzi del mondo politico. Già Craxi, Mancino e Violante avevano denunciato il pericolo di attentati... Una bella preveggenza. Certo che siano stati il ministro dell' Interno e il presidente della commissione Antimafia a fare queste previsioni è inquietante. Perché naturalmente io penso che si sia fatto poi tutto per prevenire gli attentati, ma è altrettanto certo che le autobombe sono esplose. Quando finiranno gli attentati? Quando finalmente si colmerà il fossato che finiranno gli attentati? Quando finalmente si colmerà il fossato che divide gli italiani non dal Parlamento, ma dai suoi attuali inquilini. Occorre andare entro l' anno a nuove elezioni per consolidare la democrazia. Questo farà piazza pulita degli attentatori e degli attentati. E Milano come reagisce? Bisogna rispondere con un superattivismo. Noi rifaremo la Villa Reale in tempi rapidi, senza farci frenare dalla burocrazia. Sono d' accordo con le manifestazioni e le assemblee dei lavoratori, ma adesso devono recuperare il tempo. La risposta è fare. E per i morti? Daremo una benemerenza ai quattro ragazzi caduti facendo il loro dovere. E un risarcimento a tutte le famiglie dei morti. Anche a quella del marocchino Driss Moussafir? Sì, anche alla famiglia di questo immigrato che in altra epoca forse avrebbe potuto essere accolto regolarmente a Milano e che invece qui è morto. Giorgio Oldrini

Colpacci di coda. Erano attentati prevedibili. Dicono che mafia e poteri criminali sono sconfitti. Ma non domi "Solo con l' attentato successivo spesso si riesce a capire il valore e il significato di quello precedente". Triste profezia, quella del presidente della commissione parlamentare Antimafia, Luciano Violante, pronunciata a poche ore dall' esplosione di un' autobomba in via Ruggero Fauro, a Roma. Era il 14 maggio, un anno dalla strage di Capaci e dall' assassinio del giudice Giovanni Falcone. La profezia si avvera: il 27 maggio a Firenze, in via dei Georgofili, è di nuovo autobomba. Questa volta con cinque vittime, mentre due settimane prima l' aveva scampata per un pelo il giornalista Maurizio Costanzo. Sono passati solo due mesi, e l' agguato in via D' Amelio a Palermo contro Paolo Borsellino, il magistrato erede di Falcone, è stato commemorato da nemmeno dieci giorni. A Milano e a Roma è ancora strage e tentata strage, con uno scenario notturno da colpo di Stato. Autobomba a Milano, in via Palestro (cinque morti). A mezz' ora di distanza, a Roma, ancora autobombe: in un angolo della piazza di San Giovanni in Laterano, luogo storico delle manifestazioni sindacali; e in via del Velabro, a un passo dalla Bocca della Verità. Solo feriti, stavolta. E, considerati i luoghi scelti per piazzare l' esplosivo, nessuna intenzione di uccidere, se non per puro accidente. La profezia si avvera ancora una volta, e scattano le somiglianze che possono ricondurre ai manovali degli attentati e anche agli ispiratori, quel mix di poteri mafiosi e poteri politico-eversivi che hanno segnato 25 anni di sangue. Con un' ultima, e rilevantissima, novità da Palermo: la spaccatura di Cosa nostra e del gruppo corleonese tra una frangia stragista e una, come dire?, vagamente moderata. Il segnale più facilmente leggibile è la resa di Salvatore Cancemi, classe 1942, capo della famiglia di Porta Nuova, in sostituzione di Pippo Calò, in carcere ormai da una decina d' anni. Cancemi si consegna ai carabinieri, annuncia di voler parlare delle malefatte corleonesi. Nemmeno venti giorni prima, Calò aveva a sua volta chiesto di essere sentito dalla commissione Stragi per riferire quanto a sua conoscenza sugli ultimi attentati. E non è tutto qui: a confermare la spaccatura di Cosa nostra tra falchi e colombe sono anche altre fonti informative e verifiche in Sicilia. Non siamo ancora alla classica guerra di mafia, ma la componente stragista è decisa a giocare il tutto per tutto. Con i suoi alleati tradizionali (uomini politici e funzionari traditori) che sono stati ugualmente messi alle strette e di fatto perdenti a causa delle inchieste giudiziarie che vanno avanti con buoni riscontri tra Roma e Palermo. L' esplosivo, dunque. E' il risultato più importante delle indagini condotte finora dalle procure di Roma e Firenze sugli attentati di via Fauro e via dei Georgofili. Tritolo, pentrite, T4: la stessa miscela per quattro stragi. Da quella del rapido 904 (24 dicembre del 1984), a via D' Amelio, a via Fauro, a via dei Georgofili. Non solo: a Firenze altri due attentati compiuti in coincidenza con passaggi processuali delicati per Calò (processato per il 904) sono stati realizzati sempre con lo stesso esplosivo. Abitudinari, i boss e i loro potenti alleati, perché l' analogia continua. Pentrite e T4 anche nelle autobombe del 27 luglio a Milano e Roma. Ci vorrà tempo per la perizia chimica, ma la rassomiglianza sul piano della quantità del materiale usato e degli effetti provocati dalle esplosioni è apparsa subito evidentissima. Nessun dubbio, per gli investigatori, sulla medesima mano di chi ha architettato il piano eversivo della notte del 27 luglio. Rispetto ai due attentati precedenti una sola anomalia: non è stato un comando a distanza a fare saltare in aria le Fiat Uno, ma quasi certamente una miccia a lenta combustione. E siamo a un' altra costante, quella dell' auto utilizzata per il botto. C' è una Fiat Uno in via Fauro e ce ne sono ben quattro il 27 luglio, tutte rubate a ridosso della notte da colpo di Stato: la Fiat Uno di Milano è stata prelevata il 24 luglio; le tre di Roma due giorni dopo. Quale fondamento aveva la notizia raccolta dai servizi segreti che nel mondo della malavita si stessero cercando auto da utilizzare per attentati? E perché l' insistenza proprio nell' uso di quell' auto? Sisde e Sismi, i servizi d' intelligence civile e militare, non hanno brillato nel segnalare il rischio eversivo. Tant' è che il presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, nella tetra riunione tenuta a Palazzo Chigi a sole tre ore dalle bombe, ha avuto parole di rimprovero. Nemmeno 12 ore dopo ha sostituito il capo del Sisde, Angelo Finocchiaro, già indagato a Roma per non avere detto tutta la verità in una squallida vicenda di peculato che ha travolto il servizio. Tant' è: resta l' analogia della Fiat Uno che qualcosa dice agli investigatori. La sequenza degli attentati e gli ultimi luoghi scelti per attuarli. Ecco un altro punto chiave su cui stanno lavorando i magistrati di Roma, Firenze e Milano. E' un tassello strategico perché consente di collegare gli attentati tra loro e, nello stesso tempo, permette anche di capire come le modalità eversive stiano cambiando adeguandosi ai risultati da ottenere. Tranne che per via Fauro, dove l' obiettivo era Costanzo (i magistrati non hanno dubbi in proposito), negli altri casi sono stati scelti posti notissimi sotto l' aspetto artistico-architettonico (l' Accademia dei Georgofili con la Torre del Pulci a Firenze; il Vicariato di piazza San Giovanni e la chiesa di San Giorgio al Velabro a Roma; la villa di via Palestro con la Galleria d' arte moderna a Milano), ma dove difficilmente si poteva provocare una strage. In questo senso gli ultimi attentati quasi "giustificano" quello di Firenze che, proprio per la sua localizzazione, era suonato anche per il procuratore Pierluigi Vigna come un' anomalia. Così non è, si sono convinti gli esperti nei vertici succedutisi al Viminale e alla superprocura. Mafia e poteri eversivi vogliono ottenere la massima rilevanza a livello mondiale, vogliono colpire, ma non vogliono uccidere. Investigatori e magistrati si sono chiesti anche il perché di una scelta anomala che non ha riscontri nella storia dell' eversione italiana. C' è una possibile risposta, che parte proprio da Firenze: anche la strategia militare si adegua e mutua comportamenti. Ha detto il pentito Masino Buscetta: "Ora che Totò Riina si è strusciato con i colombiani...". E dalla Colombia arriva l' uso esasperato delle bombe per contrastare una strategia vincente dello Stato contro i narcotrafficanti. Dalla dinamica degli attentati alle motivazioni: è un aspetto su cui i magistrati cercano di essere il più vaghi possibile per evitare teorie, anche se un' idea chiara se la sono fatta. Una considerazione ricorrente è questa: in Italia, a metà del 1993, esiste una sola struttura militare in grado di organizzare attentati come quelli di Milano, Roma e Firenze. E' l' esercito della mafia che ormai conta solidi e ampi punti di riferimento in ogni parte del Paese. A Firenze il procuratore Vigna non ha dubbi che a colpire sia stata la criminalità organizzata toscana. E a Roma, per via Fauro, la valutazione è identica. Dagli esecutori ai mandanti. Il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, parla di attentato "politico" e di "intrecci mafiosi, dando a questa parola un significato molto più ampio". E dunque: esiste un' ala stragista di Cosa nostra (i corleonesi doc, un paio di famiglie palermitane e quelle dei grossi centri della provincia come Bagheria e San Giuseppe Jato) che non ha più nulla da perdere. Al suo interno la parte del leone la fanno i detenuti che ormai possono guadagnare solo da uno scontro, seguito da una trattativa, con lo Stato. Esiste un altro potere eversivo in Italia, quello che è ricorso alla strategia delle bombe tutte le volte che era necessario bloccare il sistema politico e impedire cambiamenti. Esponenti di rilievo del vecchio quadro politico sono ormai irrimediabilmente compromessi nelle inchieste, siano esse su argomenti di mafia oppure di tangenti. In passato le due centrali eversive hanno comunicato tra loro, hanno avuto interessi e obiettivi comuni, e sono state le inchieste a dimostrarlo. Oggi esiste una sinergia operativa che consente di ottenere gli stessi risultati. I magistrati della procura di Palermo ipotizzano due obiettivi. Da un lato, evitare il più possibile le elezioni per consentire alchimie istituzionali che mantengano gli attuali assetti. In tal caso, ci potrebbero essere altri attentati, ma senza decine di morti. Dall' altro, invece, riprendere completamente il controllo della situazione. E allora sarà strage con molti morti. Con un colpo di Stato in programma. "Questi attentati parlano a qualcuno che sa e che deve capire" dicono i magistrati che indagano. E aggiungono: "Peccato che ci siano dei morti, perché sono morti inutili. Il vecchio sistema, quello politico e quello della mafia, è già stato sconfitto. E questi sono solo dei colpi di coda". Resta da vedere quanto saranno forti quanto saranno forti. Liliana Milella

Estratto dell’articolo di Andrea Palladino per “la Stampa” il 23 luglio 2023.

Quando Adriano Tilgher, il vero erede politico di Stefano Delle Chiaie, si è visto consegnare il decreto di perquisizione con l'accusa di violazione della Legge Anselmi, deve aver avuto un piccolo brivido. La mente, probabilmente, è tornata alla figura del padre Mario, tessera numero 84 della loggia P2. 

L'accusa arrivata dalla Dda di Caltanissetta è una sorta di ricorso storico per l'esponente della disciolta Avanguardia nazionale, un filo conduttore che lo lega al passato. Era il 14 dicembre 1979. Roma, via Alessandria, strada residenziale elegante che corre parallela alla Nomentana, si anima all'improvviso. La polizia entra negli scantinati dello stabile al civico 129, una bella palazzina d'epoca.

È il covo romano condiviso dai Nar e dalla organizzazione d'area Terza posizione. All'interno c'è un vero arsenale, pistole, fucili, mitra, munizioni. Non era però solo una base militare della destra eversiva. In quello stesso palazzo c'era la redazione di una sconosciuta rivista, Confidentiel, pubblicata in Italia, Spagna e Francia. A dirigerla era Mario Tilgher, il padre di Adriano, che da dieci anni era di fatto il reggente di Avanguardia nazionale. 

[…] Tilgher padre aveva i contatti giusti nella capitale; già da un paio d'anni era un membro di livello della loggia P2, il gruppo riservato che includeva generali, ministri, imprenditori e pezzi dei servizi segreti. Non era l'unico esponente della destra radicale ad amare i gruppi massonici. Licio Gelli in quegli stessi anni aveva curato e gestito stretti rapporti con i gruppi eversivi toscani, attraverso Augusto Cauchi, il terrorista nero finanziato dal gran maestro di Villa Wanda, come ha ricostruito la commissione Anselmi.

Lo stesso Delle Chiaie, secondo la testimonianza dell'avanguardista storico Vincenzo Vinciguerra, aveva rapporti più che cordiali con l'avvocato Gianantonio Minghelli, segretario amministrativo della P2, uno dei primi nomi di affiliati emersi molto tempo prima della scoperta degli elenchi a Castigion Fibocchi. 

La love story tra la destra avanguardista e le logge non si è fermata dopo la chiusura dell'esperienza pidduista. Subito dopo la sua scarcerazione del febbraio del 1989 Stefano Delle Chiaie rimette in moto la macchina politica erede dell'esperienza di Avanguardia nazionale.  […]

Incontra senza dare troppo nell'occhio pezzi importanti del Fronte della gioventù, come Gianni Alemanno, mentre il suo fidatissimo Adriano Tilgher lavorava ai fianchi il partito all'interno delle sezioni romane, come raccontano alcune informative dei servizi d'informazione inserite nei fascicoli delle inchieste sulle stragi. 

Alla fine, opta per la creazione di una nuova organizzazione, la Lega nazional popolare. Il suo campo di conquista diventa la Sicilia e soprattutto la Calabria, regioni ad alta densità mafiosa. Siamo nel 1992 e inizia la storia recente dei suoi rapporti con Cosa nostra, oggi al vaglio delle Dda di Caltanissetta e di Firenze. Sarà un'inchiesta di qualche anno dopo, Sistemi criminali, a far luce sulla nuova organizzazione di Delle Chiaie, dove – secondo quanto ricostruì alla fine degli anni '90 la Dda di Palermo – confluirono esponenti di Cosa nostra, della ‘Ndrangheta e della P2, la vecchia conoscenza di Tilgher senior. Nel registro degli indagati venne iscritto anche il nome di Licio Gelli.

Nel 2000 il procedimento venne archiviato, ma i fascicoli sono poi confluiti in altre indagini, come il processo ‘Ndrangheta stragista. Mafia, logge segrete e fez.

Gli ingredienti di buona parte delle pagine più tragiche della storia italiana sono oggi tornati con l'inchiesta della Dda di Caltanissetta, distretto che ha la competenza sui reati che vedono protagonisti – o vittime – i magistrati palermitani. È dunque la Procura che dal 1992 indaga sulle stragi di Capaci e Via D'Amelio e che dal 2021 ha un fascicolo pesante, difficile. 

Sulla scena della strategia libanese di Cosa nostra, del tritolo piazzato sotto l'autostrada e nel cuore della città, è riapparsa la figura più misteriosa dell'eversione nera, Stefano Delle Chiaie. Morto nel settembre del 2019, per lo Stato italiano è un quasi incensurato, con un'unica condanna per ricostituzione del partito fascista. Sempre assolto dalle accuse di stragi. Nessuno lo ha mai indagato per la sua attività al fianco dei torturatori della narcodittatura boliviana di Luis García Meza Tejada nel 1980 o per i servizi prestati alla polizia segreta di Pinochet.

Il 30 giugno scorso la DDA di Caltanissetta ha depositato una documentazione integrativa alla richiesta di misure cautelari, focalizzata sull'attività di Adriano Tilgher, di fatto l'erede politico di Delle Chiaie. Ed è qui che rispuntano le organizzazioni segrete, i contatti riservati e gli elenchi di nomi da tenere nascosti.

 «La volontà di operare una sorta di dossieraggio con finalità di intimidazione dei magistrati 'scomodi', ovviamente secondo un'ottica fascista», annotano gli investigatori. Vecchi vizzi che tornano. Di questa storia inquietano però i nomi dei contatti alti che i membri dello strano "Osservatorio" sulla magistratura vantavano di avere. I Pm nisseni ci tengono a spiegare che non ci sono – almeno al momento, perché immaginiamo che l'inchiesta prosegua, nonostante la discovery – riscontri e il tutto potrebbe essere una mera vanteria, un millantato credito. Il punto è decisamente importante, visto che Tilgher & C. parlavano apertamente di incontri con il circolo ristretto della premier Giorgia Meloni, seguendo un filo diretto con i palazzi romani che oggi contano.

Un mondo in fondo non così lontano dall'erede di Delle Chiaie, frequentatore della sede della fondazione di Alleanza nazionale, in via della Scrofa. Da quelle parti è apparso ad esempio l'11 aprile del 2019, durante il premio Caravella, assegnato quell'anno all'attuale ministro della cultura Gennaro Sangiuliano. Nei filmati dell'evento lo si vede seduto nel pubblico, mentre in fondo alla sala un altro pezzo storico dei Avanguardia, Serafino Di Luia, sulle note della canzone "Budapest" di Leo Valeriano, si commuove e non resiste […]

Strage di Capaci: non esiste alcun documento che prova il coinvolgimento di Delle Chiaie. L’anno scorso “Report” ha riportato in auge la pista neofascista nella strage di Capaci, ma dall’ordinanza emerge che gli intervistati sono completamente inattendibili. Inoltre, il famoso documento "sparito" e poi ritrovato – a differenza di ciò che ha affermato in tv l’attuale senatore Scarpinato – non è una prova della presenza di Delle Chiaie, perché è un de relato e la fonte è una millantatrice. Damiano Aliprandi il 31 luglio 2023 su Il Dubbio.

Decisamente inattendibili i presunti testimoni della presenza di Stefano Delle Chiaie, detto “er caccola”, il neofascista fondatore di Avanguardia Nazionale, sul luogo della strage di Capaci e addirittura del reperimento dell’esplosivo in una cava. Allo stesso modo, non esiste alcun documento che provi il suo coinvolgimento. Fino ad ora, siamo stati solo esposti a suggestioni e alla riproposizione dell'ormai vecchia inchiesta del 1993, archiviata per mancanza di elementi probatori - elementi che continuano a mancare - portata avanti dagli allora procuratori di Palermo Roberto Scarpinato e Antonio Ingroia. Tuttavia, nonostante ciò, sotto l'impulso della direzione nazionale antimafia (Dna), la procura di Caltanissetta continua a seguire questa pista. Il contrario di quanto fatto dalla procura guidata da Sergio Lari, che non raccolse l'impulso dell'ex componente della Dna, Gianfranco Donadio. L’allora capo procuratore nisseno, infatti, si avvalse dei migliori magistrati disponibili per battere una pista che poi si rivelò fondata: smascherarono il depistaggio di Via D’Amelio, dove perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta.

Dal punto di vista mediatico, tutto è partito dalla trasmissione Report del 23 maggio dell'anno scorso, che ha trasmesso un'intervista inedita all'ex brigadiere Walter Giustini, che aveva come informatore (e poi pentito, ma recentemente scomparso) Alberto Lo Cicero. Costui affermò di averlo messo sulla buona strada per la cattura di Totò Riina già nel 1991. Ma lo “scoop” che ha fatto tremare le coscienze è l'intervista rilasciata dalla ex compagna di Lo Cicero, Maria Romeo, la quale parla della presenza di Stefano Delle Chiaie a Capaci. Lei va addirittura oltre, sostenendo che fu lui a preparare l'attentato. Questo potrebbe portare a una completa revisione delle sentenze riguardanti l'attentato contro Giovanni Falcone. La trasmissione di Rai3 ha riportato in auge la pista neofascista eversiva, la P2, la strategia della tensione e il progetto occulto in cui Falcone è solo uno dei tanti "birilli" destinati ad essere eliminati per realizzare un disegno orchestrato dalla lunga mano americana: stragi di mafia sovrapposte a quelle degli anni 70 e 80.

In realtà, questo “scoop” è arrivato dopo che Maria Romeo fu sentita dall'ex procuratore generale di Palermo Scarpinato e dal collega Domenico Gozzo. Va ricordato che quest'ultimo fa parte dell’attuale Dna. Si parla di indagini ovviamente segrete, quindi il giornalista Paolo Mondani di Report ha avuto sicuramente un ottimo fiuto senza alcun suggerimento. Detto questo, possiamo chiaramente etichettare il tutto come “spazzatura”. Lo si evince anche dalla recente ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip di Caltanissetta nei confronti di Walter Giustini, accusato di aver depistato tramite le sue dichiarazioni. Giustini ha affermato a Report di aver appreso da Romeo che Delle Chiaie era a Capaci. Tuttavia, già prima di Report, aveva dichiarato di non ricordare nulla riguardo a ciò, quando fu interrogato dall'allora procuratore Scarpinato. Dopo la trasmissione in prima serata, interrogato nuovamente dalla procura di Caltanissetta, Giustini ha sostenuto che Maria Romeo non gli aveva detto nulla riguardo a Delle Chiaie, ma solo che lo conosceva, senza fare alcun riferimento alla mafia. In sostanza, dichiarazioni discordanti. Emerge che sia Giustini che Romeo, intervistati in tv, hanno cercato di attirare l'attenzione dicendo cose sicuramente utili per l’audience, ma non per la verità. Di conseguenza, molti giornali hanno fatto il solito copia-incolla acritico (tranne noi de Il Dubbio) e l'ex procuratore generale, ora senatore del Movimento 5 Stelle, Scarpinato, ha affermato in tv, senza usare il condizionale, che c'è un documento che conferma il coinvolgimento di Delle Chiaie nell'attentato di Capaci. Tuttavia, come vedremo più avanti, tale documento non prova assolutamente nulla.

Passando a Maria Romeo l'esito dell'analisi delle sue dichiarazioni, come si evince dall'ordinanza, dimostra chiaramente che lei ha “millantato conoscenze” - così scrive il gip -, limitandosi a inventare una serie di falsità e suggestioni (emblematica è la narrazione riguardante l'incontro con Paolo Borsellino), basate su due circostanze vere della sua vita. In particolare, la sua conoscenza effettiva di Stefano Delle Chiaie, derivante dal fatto che suo fratello, Domenico Romeo, era il factotum dell'ex deputato del Movimento Sociale Italiano, l'avvocato Stefano Menicacci (storico legale di Delle Chiaie, legato a quest'ultimo da un rapporto certamente stretto, anche in ragione della comune fede politica). L'altra circostanza riguarda il suo rapporto sentimentale con Alberto Lo Cicero agli inizi degli anni 90. Null'altro. E ancora, secondo l'ordinanza, la conoscenza di Delle Chiaie e il rapporto sentimentale con Lo Cicero “sono stati artificiosamente collegati da Romeo per creare una narrazione che le permettesse di ottenere, sin dagli anni '90, lo status di collaboratrice di giustizia”. Inoltre, il giudice, valutando la sua personalità, sottolinea nell'ordinanza che “non si può dimenticare che si tratta di una persona che già nel 1992 aveva problemi di alcolismo ed era pronta a fare 'tutto' per realizzare il suo obiettivo di diventare una collaboratrice di giustizia”.

Venendo al famoso documento “sparito” e poi ritrovato, si tratta di una relazione di servizio del 5 ottobre 1992 redatta dal capitano Gianfranco Cavallo, allora comandante dell'aliquota Carabinieri di Polizia Giudiziaria. Tale documento fu trasmesso sia agli uffici territoriali dell'Arma dei Carabinieri che alle autorità giudiziarie competenti, ossia le Procure di Caltanissetta e di Palermo. Questo documento è l'unico di servizio che riferisce, tramite una fonte confidenziale, di contatti avvenuti in epoca antecedente alla strage di Capaci tra Delle Chiaie e Mariano Tullio Troia, un elemento di rilievo della mafia palermitana. Non solo, ma sempre da questa fonte emergerebbe il fatto che Delle Chiaie si fosse recato in una cava per procurarsi dell'esplosivo. Né la procura di Palermo dell'epoca, né quella di Caltanissetta diedero peso a questo documento. Successivamente, nel 2007, il magistrato Gianfranco Donadio, all'epoca operante nella Dna, rispolverò questa relazione, ma afferma di non aver ricevuto alcun impulso da parte della procura di Caltanissetta all'epoca. In realtà, come detto, la procura era fortemente impegnata nello smascheramento del depistaggio di Via D’Amelio, riuscendoci. Inoltre, va aggiunto che la procura di Caltanissetta stessa (ma anche quella di Catania) qualche anno dopo denuncerà Donadio al Csm per altre questioni riguardanti alcune indagini.

Detto ciò, chi era la fonte confidenziale di questa famosa nota, impropriamente spacciata come prova del coinvolgimento di Delle Chiaie? Era Maria Romeo, colei che - come sostiene l'ordinanza stessa - ha inventato conoscenze ed episodi per costruire “una narrazione che le consentisse di ottenere, sin dagli anni 90, lo status di collaboratrice di giustizia”. Ma allora, di cosa stiamo parlando? È possibile che ancora una volta si stiano seguendo piste che rischiano di tralasciare un'attenta analisi dei fatti ancora non chiariti? Falcone, che tra l'altro si opponeva fermamente alle dietrologie, e Borsellino, non meritano tutto ciò. Ma forse ciò che conta di più è l'intrattenimento. Questa è una questione che riguarda soprattutto il giornalismo nostrano, che a sua volta influisce anche sulle procure.

La sentenza a carico dei poliziotti sul “depistaggio Borsellino”. Chi si nasconde dietro la morte di Paolo Borsellino: la sentenza che mette un punto fermo sulle indagini. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 20 Luglio 2023 

Chissà se un giorno sarà possibile identificare i “soggetti diversi da Cosa nostra” che si nascondono da oltre trenta anni dietro la morte di Paolo Borsellino.

La sentenza di Caltanissetta depositata il 5 aprile scorso nel processo a carico dei poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo sul “depistaggio Borsellino”, pur dichiarando la prescrizione per due degli imputati e assolvendo il terzo, ha messo un punto fermo su come vennero condotte le indagini sull’uccisione del magistrato siciliano.

Nelle circa 1500 pagine della sentenza, i giudici nisseni scrivono infatti che “alla luce di tutte le circostanze di cui si è dato conto si ritiene che se ne giovò chi aveva tutto l’interesse a far sì che le matrici non mafiose della strage di via D’Amelio non venissero svelate nella loro reale consistenza”.

I fatti sono noti. Il falso pentito Vicenzo Scarantino, gestito della polizia di Stato del questore Arnaldo La Barbera, poi morto nel 2002, si autoaccusò di essere stato l’organizzatore della strage.

Dopo le sue rivelazioni vennero così arrestate delle persone che con la strage, però, non c’entravano nulla. Ad iniziare del meccanico Giuseppe Orofino, accusato di aver custodito la Fiat 126 utilizzata come autobomba. Condannato all’ergastolo, il processo nei confronti di Orofino venne riaperto dopo la testimonianza di Gaspare Spatuzza. Assolto da ogni accusa, Come risarcimento per i 17 anni di ingiusta detenzione, gli eredi del meccanico vennero risarciti con 1,5 milioni di euro.

Solamente sfiorati dalle indagini i magistrati che condussero l’inchiesta, i pm Carmelo Petralia e Annamaria Palma, inizialmente accusati di concorso in calunnia aggravata. La linea difensiva di essersi mossi per andare a sentire Scarantino in virtù della (avvenuta) ritrattazione televisiva risultò essere “smentita dai fatti”, poiché gli avvisi dell’interrogatorio furono notificati il giorno prima che il falso pentito manifestasse l’intenzione di ritrattare. Le vere ragioni di quegli interrogatori, che hanno poi prodotto la ritrattazione della ritrattazione e quindi la conferma delle false accuse, non furono mai chiarite dai magistrati.

Quanto al clima che si respirava alla Procura di Palermo dopo l’omicidio di Giovanni Falcone e pochi giorni prima dell’omicidio di Borsellino, la sentenza riporta le dichiarazioni dell’ex pm Antonio Ingroia il quale ricordò cosa avvenne dopo l’incontro in Procura del 14 luglio 1992 a proposito dell’indagine Mafia e Appalti. Borsellino, rivolgendosi ai colleghi Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone, avrebbe detto: “Voi non mi raccontate tutta la vera storia sul rapporto dei Ros”.

Paolo Pandolfini

(ANSA giovedì 20 luglio 2023) - Nell'inchiesta sul depistaggio per la strage di via d'Amelio non c'è solo il mistero della scomparsa della famosa agenda rossa nella quale Paolo Borsellino annotava i suoi spunti di lavoro. Negli atti del procedimento, concluso il 12 luglio 2022, non c'è traccia di un altro importante elemento: il tabulato delle chiamate in entrata del cellulare di Borsellino. 

Il caso è ricostruito, e ora ripreso dal Sole 24 Ore, nella parte conclusiva delle motivazioni della sentenza con la quale due poliziotti della squadra investigativa "Falcone-Borsellino" sono stati prescritti per l'imputazione di favoreggiamento e un terzo è stato assolto.

La scomparsa di quel tabulato, scrivono i giudici del tribunale di Caltanissetta, "ha indubbiamente sottratto importanti piste investigative". Il tribunale è venuto a conoscenza della scomparsa del tabulato attraverso la testimonianza di Gioacchino Genchi, che nella prima fase delle indagini sulla strage faceva parte della squadra guidata da Arnaldo La Barbera. Poi, lasciata la polizia, è diventato consulente di varie procure.

Il suo lavoro è stato al centro di forti polemiche ma alla fine Genchi è stato scagionato. Sentito come teste nell'udienza dell'11 gennaio 2019, Genchi ha detto di avere segnalato l'anomalia e di avere chiesto i file del tabulato allo Sco, il servizio centrale anticrimine della polizia, che aveva acquisito i dati del traffico telefonico. 

Lo stesso Genchi ha ricostruito il dialogo con i suoi ex colleghi: "Voi l'avete acquisito con delega della procura di Caltanissetta. La procura ha disposto che ce lo dovete mandare. Signori miei, mi dite dove è questo traffico?". Aggiungeva Genchi: "Il traffico telefonico in entrata del cellulare di Borsellino è stato fatto scomparire".

Riferimenti a quel traffico si trovano, ha segnalato ancora Genchi, in una informativa della squadra "Falcone-Borsellino" dalla quale risultata un contatto il 19 aprile 1992 tra il procuratore Giovanni Tinebra e Borsellino che stava recandosi all'aeroporto Leonardo da Vinci dopo un colloquio a Roma con il pentito Gaspare Mutolo. A un certo punto venne adombrata la spiegazione che i file erano stati corrosi dall'umidità.

(ANSA il 19 luglio 2023) "Ricordo una domenica caldissima, io ero di pattuglia con altri due colleghi in una Palermo deserta: erano quasi tutti al mare. Noi ci trovavamo a poche centinaia di metri da via D'Amelio. Stavamo soccorrendo una donna che aveva forato una gomma quando all'improvviso abbiamo sentito un fortissimo boato. Si è alzata una colonna di fumo, l'abbiamo seguita e siamo arrivati in via D'Amelio, dove ci si è presentata una scena da guerra".

A parlare, in un filmato postato dalla Polizia di Stato, è Vincenzo Policheni, che il 19 luglio 1992, giovane agente delle volanti di Palermo, fu tra i primi ad arrivare sul luogo dell'attentato. "Non potevamo entrare nella via - ricorda Policheni - e stiamo rimasti all'imbocco cercando di capire cosa era successo. Ad un certo punto è uscita una persona, era Antonio Vullo, col volto bruciacchiato, che ci ha detto cosa era accaduto e che i suoi colleghi erano a terra a pezzi insieme al magistrato.

Arrivato lì ho notato brandelli di carne, fuoco, le armi dei colleghi che sparavano da sole a terra perchè i proiettili a contatto col fuoco esplodevano. Ho avuto un mancamento, dei conati di vomito, non si vedevano persone vive". 

"Mi sono sentito vuoto", prosegue il poliziotto: "mi sono reso conto che potevano farci quello che volevano, che la mafia ci poteva colpire quando voleva ed era più forte di noi. Si respirava un'aria pesante a Palermo in quei giorni dopo la strage di Capaci e posso capire con che stato d'animo i colleghi scortavano alcune persone come Borsellino. Ci voleva un senso del dovere spiccato; era più facile andare via che rimanere e rischiare. Per questo penso che i colleghi morti devono essere considerati eroi".

Estratto dell’articolo di Lara Sirignano per il “Corriere della Sera” giovedì 20 luglio 2023.

[…] Antonio Vullo, agente di polizia, è l’unico superstite della strage di via D’Amelio. Ieri ha incontrato la premier, volata a Palermo a rendere omaggio alle vittime dell’attentato al giudice e alla sua scorta.

 Ha apprezzato la presenza della premier?

«Sì. Il suo è stato certamente un gesto importante, ma deve essere seguito dai fatti, altrimenti diventa solo una passerella e noi delle passerelle siamo stanchi». […] In 31 anni si sono alternati al governo politici di tutti i colori. Ciascuno di loro è venuto e ha detto belle parole, ma noi abbiamo avuto solo promesse».

Cosa si porta dentro del giorno della strage?

«Rivivo quel giorno costantemente. Il 19 luglio del 1992 è una data che non potrò mai cancellare. Quando vedi a terra i brandelli di carne dei tuoi colleghi, quando calpesti pezzi di corpi dei tuoi fratelli saltati in aria, niente è più come prima. È uno choc insuperabile che ti cambia per sempre e, purtroppo, condiziona anche i rapporti familiari. Io il mio dolore non sono riuscito a tenerlo fuori di casa.

L’ho portato dentro di me e con me e a farne le spese sono stati anche mia moglie e i miei figli. Poi il malessere è peggiorato perché alla memoria di quel che è stato si sono aggiunti fatti che non hanno certo contribuito alla scoperta della verità come la sentenza sul depistaggio delle indagini sull’attentato al giudice Borsellino. Sono cose che non hanno consentito e non consentono alle ferite di rimarginarsi». 

Le ombre che restano sugli attentati del ’92 saranno mai dissipate?

«[…] fino a quando, nelle istituzioni, ci sarà chi sa e non parla non sapremo mai davvero tutto». 

In questi anni ha sentito la vicinanza dello Stato?

«Per molto tempo no. Anzi ho quasi avuto l’impressione di essere considerato il testimone di verità scomode e di essere quindi trattato con ostilità. Ora forse le cose sono un po’ cambiate».

Che ricordi ha del giudice Borsellino?

«Sono stato con lui per soli 51 giorni e sono stati giorni difficili. La strage di Capaci ci aveva sconvolti e sapevamo che dopo Falcone l’obiettivo era lui. Non mi vergogno di dire che avevo paura e che paradossalmente era lui a farmi coraggio. Ho compreso subito dopo averlo conosciuto che standogli accanto stavo dalla parte giusta».

Estratto dell’articolo di Laura Anello per “La Stampa” giovedì 20 luglio 2023.

Lui c'era, in mezzo al fumo, all'asfalto sventrato, ai corpi di Borsellino e dei suoi cinque agenti di scorta in via D'Amelio. Era lì il 19 luglio del 1992 Giuseppe Ayala, magistrato di lungo corso, pm del primo maxiprocesso, amico di Falcone e di Borsellino, parlamentare nell'anno delle stragi. 

«Abitavo lì vicino – racconta Giuseppe Ayala –, ho sentito un botto incredibile e mi sono precipitato, in mezzo al fumo. Lì sono inciampato in qualcosa che all'inizio non avevo capito che cosa fosse, era un tronco annerito, senza braccia né gambe, color carbone, ci ho messo qualche istante a capire che era Paolo».

A trentuno anni dalle stragi, il ministro della Giustizia Nordio ha sollevato un vespaio annunciando la volontà di abolire il reato di concorso esterno, prima di essere stoppato dalla premier Meloni. Lei che cosa ne pensa?

«Io credo che dopo le parole di Meloni, il tema sia abbondantemente chiuso. Conosco e stimo molto il ministro Nordio, siamo entrati in magistratura insieme, ma le sue prime sortite a riguardo mi hanno molto sorpreso. Mi pare non ci sia alcuna esigenza di tipicizzare, termine che usa il ministro, un reato che mi sembra molto definito e che viene fissato da criteri ben precisi in una sentenza del 2005 […]». 

[…] Il fratello di un agente di scorta di Borsellino, Luciano Traina, ci ha detto che lo Stato ha fallito su tutti i fronti contro la mafia, che non l'ha voluta combattere. Lei che bilancio fa?

«La cosa più importante da sottolineare è che Cosa nostra ha cambiato strategia: non ammazza più, non fa più stragi, è più debole, anche se non del tutto debellata. Lo Stato si è attrezzato e ha messo a segno colpi importanti. L'arresto di Matteo Messina Denaro è uno di questi, seppur tardivo, seppure denso di interrogativi, anche se io non credo alle teorie dietrologiche sul fatto che sia stato un arresto, per così dire, concordato. 

Forse bisogna ricordarsi più spesso che fino al 29 settembre 1982 nel codice penale italiano non esisteva la parola mafia, fu introdotta dopo l'uccisione del generale Dalla Chiesa. La mafia è un fenomeno umano, ha avuto un suo inizio a avrà una sua fine, come diceva Falcone. Non so quando succederà, ma mi piacerebbe moltissimo esserci». 

Non crede che ci siano ancora delle zone d'ombra da chiarire nelle stragi?

«Certo che sì, soprattutto sulla fine di Paolo, sul depistaggio, su quell'agenda rossa che non è mai stata trovata. La speranza dopo trentuno anni si è affievolita, ma è ancora viva». 

Agenda rossa contenuta nella borsa su cui lei è un testimone prezioso. Ha raccontato di essersela ritrovata in mano in mezzo alle macerie e di averla consegnata a un ufficiale dei carabinieri in divisa. Ma Giovanni Arcangioli, l'ufficiale dei carabinieri fotografato in maniche di camicia con la borsa in mano, sostiene che gliela portò, la aprì davanti a lei e al suo collega Giovanni Teresi e che constataste insieme che era vuota.

«Come ho già detto, è pura invenzione».

Secondo la Cassazione, la trattativa Stato-mafia non c'è mai stata.

«Io sono un magistrato all'antica, le sentenze le rispetto». […]

La sentenza a carico dei poliziotti sul “depistaggio Borsellino”. Chi si nasconde dietro la morte di Paolo Borsellino: la sentenza che mette un punto fermo sulle indagini. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 20 Luglio 2023 

Chissà se un giorno sarà possibile identificare i “soggetti diversi da Cosa nostra” che si nascondono da oltre trenta anni dietro la morte di Paolo Borsellino.

La sentenza di Caltanissetta depositata il 5 aprile scorso nel processo a carico dei poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo sul “depistaggio Borsellino”, pur dichiarando la prescrizione per due degli imputati e assolvendo il terzo, ha messo un punto fermo su come vennero condotte le indagini sull’uccisione del magistrato siciliano.

Nelle circa 1500 pagine della sentenza, i giudici nisseni scrivono infatti che “alla luce di tutte le circostanze di cui si è dato conto si ritiene che se ne giovò chi aveva tutto l’interesse a far sì che le matrici non mafiose della strage di via D’Amelio non venissero svelate nella loro reale consistenza”.

I fatti sono noti. Il falso pentito Vicenzo Scarantino, gestito della polizia di Stato del questore Arnaldo La Barbera, poi morto nel 2002, si autoaccusò di essere stato l’organizzatore della strage.

Dopo le sue rivelazioni vennero così arrestate delle persone che con la strage, però, non c’entravano nulla. Ad iniziare del meccanico Giuseppe Orofino, accusato di aver custodito la Fiat 126 utilizzata come autobomba. Condannato all’ergastolo, il processo nei confronti di Orofino venne riaperto dopo la testimonianza di Gaspare Spatuzza. Assolto da ogni accusa, Come risarcimento per i 17 anni di ingiusta detenzione, gli eredi del meccanico vennero risarciti con 1,5 milioni di euro.

Solamente sfiorati dalle indagini i magistrati che condussero l’inchiesta, i pm Carmelo Petralia e Annamaria Palma, inizialmente accusati di concorso in calunnia aggravata. La linea difensiva di essersi mossi per andare a sentire Scarantino in virtù della (avvenuta) ritrattazione televisiva risultò essere “smentita dai fatti”, poiché gli avvisi dell’interrogatorio furono notificati il giorno prima che il falso pentito manifestasse l’intenzione di ritrattare. Le vere ragioni di quegli interrogatori, che hanno poi prodotto la ritrattazione della ritrattazione e quindi la conferma delle false accuse, non furono mai chiarite dai magistrati.

Quanto al clima che si respirava alla Procura di Palermo dopo l’omicidio di Giovanni Falcone e pochi giorni prima dell’omicidio di Borsellino, la sentenza riporta le dichiarazioni dell’ex pm Antonio Ingroia il quale ricordò cosa avvenne dopo l’incontro in Procura del 14 luglio 1992 a proposito dell’indagine Mafia e Appalti. Borsellino, rivolgendosi ai colleghi Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone, avrebbe detto: “Voi non mi raccontate tutta la vera storia sul rapporto dei Ros”. Paolo Pandolfini

La strage di via D'Amelio. Il mistero dei delitti di Falcone e Borsellino sono nella Procura di Palermo, il “nido di vipere”. Serve una commissione d’inchiesta parlamentare. Bisogna capire cosa intendesse il giudice ucciso quando parlava di un amico traditore e della Procura come di un nido di vipere. E il dossier mafia-appalti? Piero Sansonetti su L'Unità il 20 Luglio 2023

Andrebbero studiati bene quei 57 giorni nei quali Paolo Borsellino lavorò alacremente, consapevole di essere stato condannato a morte e di non poter sfuggire alla sentenza, cioè il tempo che passò dall’uccisione di Giovanni Falcone – e della sua scorta e di sua moglie – fino alla strage di via D’Amelio (della quale oggi corre il trentunesimo anniversario). Nessuno mai li ha voluti studiare.

Noi sappiamo poche cose di quei giorni. Le principali le ha scritte su questo giornale qualche giorno fa Fabio Trizzino, che è l’avvocato della famiglia Borsellino. Sono tre. Borsellino disse a diverse persone (tra le quali due magistrati che hanno riferito con precisione la frase) che aveva scoperto «che un amico lo aveva tradito». Poi Borsellino parlò della Procura di Palermo, testualmente, come di «un nido di vipere». Infine confessò a Fernanda Contri (ex giudice costituzionale ed ex ministra del governo Ciampi) di sentirsi paurosamente solo. Cioè di non avere l’appoggio dei colleghi.

Mi pare che questi tre elementi, da soli, definiscano bene qual è il primo punto oscuro da affrontare, se si vuole capire le condizioni nelle quali fu ucciso Borsellino, i motivi per i quali fu ucciso, e probabilmente anche i motivi e le condizioni nelle quali fu ucciso Giovanni Falcone. «Nido di vipere»,«amico traditore», «solitudine». Queste poche parole descrivono l’opinione che Paolo Borsellino aveva della Procura di Palermo nel 1992.

Ora io mi chiedo quale è lo scopo di una commissione parlamentare di inchiesta. Ogni tanto se ne istituisce una che ripete, male, il lavoro già compiuto dalla magistratura. Per esempio ora si vuol fare una commissione sul Covid. Tempo perso. Qui invece la questione è diversa: l’oggetto di tutti i dubbi è la magistratura stessa. E le possibilità che la magistratura indaghi su se stessa sono molto modeste. Possiamo anche dire che sono nulle, visto che in questi 31 anni la magistratura non si è occupata di questo. Eppure da molti anni è evidente a chiunque conosca appena un poco poco le cose, che il vero mistero irrisolto è quello: a che gioco giocò la Procura di Palermo nel 1992?

Solo una vera commissione di inchiesta parlamentare, con tutti i poteri che le spettano, può svolgere questa indagine. Può rileggere tutti i documenti dei quali si dispone, compresi gli interrogatori realizzati dal Csm, le dichiarazioni dei magistrati dell’epoca, quel che emerge da spezzoni di varie inchieste, e può interrogare in modo stringente tutti i protagonisti che vivevano nel nido di vipere, che non sono pochi e alcuni ancora mantengono posizioni rilevanti della vita pubblica. Certamente hanno molte cose da dire. Di fronte alla certezza che Paolo Borsellino – uno dei pochi che di mafia se ne intendeva davvero – definì la Procura di Palermo «nido di vipere» e definì un suo amico, probabilmente collega, un traditore, e che da queste considerazioni faceva derivare la certezza che sarebbe stato ucciso, mi pare strano che nessuno abbia pensato di indagare per capire se in procura ci furono complicità, o connivenze o omissioni.

È impossibile spiegare l’assenza di un’inchiesta e di una spiegazione alle denunce del giudice che ieri tutti hanno voluto commemorare ma solo a suon di parole vuote e retorica. Ho visto che ci sono state però molte dichiarazioni assai combattive. Per esempio quelle dell’ex pm Scarpinato, il quale tra l’altro ha sostenuto la tesi un po’ temeraria che Berlusconi è l’uomo che ha portato la mafia nelle istituzioni. Scarpinato ha compiuto i settant’anni e quindi non può non ricordare che il rapporto tra mafia e politica fu molto intenso quando Berlusconi non era neppure all’orizzonte. Negli anni cinquanta, negli anni sessanta, negli anni settanta. Furono istituite dal Parlamento le commissioni antimafia, che lavorarono in un clima difficilissimo, con tutti i giornali contro, con la politica cieca o complice, con una gran parte della magistratura quieta e miope.

La mafia in quegli anni diede l’assalto allo stato. E poi ricevette dei colpi micidiali da magistrati come Terranova, Chinnici, Falcone e Borsellino ( e altri magistrati valorosi). Reagì uccidendoli. Parlo soprattutto di Cosa Nostra. Negli anni novanta Cosa Nostra pagò un prezzo alto: finì fuori del potere e vide azzerata la sua forza politica. I governi Berlusconi fecero delle leggi molto dure contro la mafia, forse anche incostituzionali, e ottennero discreti risultati, dovuti essenzialmente al lavoro precedentemente svolto da Falcone e Borsellino e poi anche da Giancarlo Caselli. Non credo che sia stato Berlusconi a sconfiggere la mafia, certo però è una cosa un po’ ridicola pensare che fu lui a portare la mafia nelle istituzioni. Fa quasi tenerezza sentire un magistrato, che pure ha sempre vissuto su quel fronte tanti anni, sostenere candidamente una cosa così insensata.

Allora, tornando alla denuncia di Scarpinato sulla mancata scoperta di forze oscure che in quegli anni aiutarono la mafia, non credo che – per dargli soddisfazione – si debba andare molto lontano. Basta restare lì, a Palermo, e cercare in Procura nel periodo del Procuratore Giammanco e nei periodi precedenti (fino all’arrivo di Caselli). Cosa successe? Chi lasciò solo Borsellino? E perché, ad esempio – è una domanda che ho proposto tante volte in passato – fu archiviato il dossier mafia-appalti, che era stato preparato dall’allora colonnello Mario Mori, e che scopriva il velo sui rapporti di Cosa Nostra, e in particolare dei corleonesi, con diversi settori dell’impresa del nord e del centro Italia? In quel dossier non c’era il nome di Berlusconi, e questo forse diede fastidio. mentre c’erano tanti altri nomi molto grossi.

Quel dossier era quello sul quale voleva lavorare Borsellino, ma a sua insaputa ne fu chiesta – e poi ottenuta – la archiviazione proprio nei giorni nei quali Cosa Nostra uccideva il giudice. È una circostanza inquietante. Tra l’altro di recente si è scoperto – ne ha scritto il mio amico Damiano Aliprandi sul “Dubbio” – che in quel dossier si parlava di un appartamento proprio vicino al luogo dove fu poi ucciso Borsellino, che apparteneva a un mafioso importante. Forse fu azionato da lì il telecomando.

La vicenda di quel dossier è nota. Archiviato il dossier, sviate con un depistaggio le indagini sull’attentato a Borsellino (e in questo modo fu evitato che si indagasse sulla possibilità che l’omicidio fosse legato al dossier) e infine messo sotto accusa con vari processi l’autore del dossier, e cioè il colonnello Mori, che le frattempo aveva catturato Riina, cioè l’oggetto principale del dossier. Mori poi fu assolto da tutto, ovviamente, ma tenuto fuori combattimento per due decenni. Non sono certo io che posso trarre conclusione da questa semplice esposizione dei fatti. Una commissione parlamentare potrebbe. C’è il rischio che tocchi troppi nervi scoperti, che dia fastidio a troppe persone? Penso di sì. Piero Sansonetti 20 Luglio 2023

Strage di via d'Amelio, Borsellino predisse la verità: "La mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno". Nel giorno del trentunesimo anniversario della morte di Paolo Borsellino ricordiamo la sua confidenza alla moglie Agnese riguardo i rapporti tra la mafia e organizzazioni a essa esterne. Marianna Piacente su Notizie.it il 19 Luglio 2023

19 luglio 1992 – 19 luglio 2023. Tra gli abissi di Cosa nostra non c’è solo la criminalità organizzata. «Mi ucciderà materialmente la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere. La mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno» confidò Paolo Borsellino alla moglie Agnese. Ma cosa c’è nel dettaglio dietro le parole del magistrato? Vediamolo nel giorno del trentunesimo anniversario della sua morte.

Una complessa ricostruzione dei fatti

Gli stessi giudici hanno descritto la strage di via d’Amelio come «il più grande depistaggio della storia d’Italia», una vicenda all’ombra di una «partecipazione morale e materiale di altri soggetti (estranei – si fa per dire – a Cosa nostra, ndr)»: c’erano veri e propri gruppi di potere interessati a che il magistrato venisse fatto fuori. Nella sentenza sul depistaggio del 12 luglio 2022 i giudici di Caltanissetta prescrissero i due investigatori della polizia Mario Bo e Fabrizio Mattei, accusati di favoreggiamento, e assolto un terzo Michele Ribaudo: i tre facevano parte della squadra guidata da Arnaldo La Barbera che indagava sulle stragi Falcone e Borsellino. Gli stessi agenti avevano messo su la storia del falso pentito Vincenzo Scarantino, inducendolo a lanciare accuse del tutto inventate. Furono scagionate sette persone condannate all’ergastolo, quando il (vero) pentito Gaspare Spatuzza ricostruì uno scenario della strage completamente diverso.

Verità nascoste

L’ombra dei servizi segreti ha coperto la luce in vari momenti dell’indagine. Tra i primi a raggiungere il luogo dell’attentato e a mettere mano sulla borsa in cui Borsellino teneva un’agenda rossa con le annotazioni sulle sue indagini, gli 007 hanno fatto sparire quell’agenda (mai più ritrovata) e con essa la verità nascosta che vi era scritta all’interno. In questa vicenda i servizi segreti non avrebbero dovuto minimamente entrare, eppure la loro irruzione sembra essere stata avallata sia dal prefetto Arnaldo La Barbera che dal procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra. Entrambi morti. «Tra amnesia generalizzate di molti soggetti appartenenti alle istituzioni […] e dichiarazioni testimoniali palesemente smentite da risultanze oggettive e da inspiegabili incongruenze logiche, l’accertamento istruttorio sconta gli inevitabili limiti derivanti dal velo di reticenza cucito da diverse fonti dichiarative» confermano i giudici. Trentuno anni dopo: le responsabilità esterne giacciono ancora occultate negli abissi, sempre più bui. E «gli altri»? Che fine hanno fatto?

Il ricordo di un eroe italiano. Perché Paolo Borsellino sapendo dell’attentato scelse il sacrificio: “Lasciare qualche spiraglio per difendere la famiglia”. Il Magistrato siciliano scelse il sacrificio. Sapeva dell'attentato ma al Capitano Sinico disse che «doveva lasciare qualche spiraglio, sennò avrebbero potuto colpire la sua famiglia». Fabio Maria Trizzino su L'Unità il 13 Luglio 2023

Ripercorrere ogni anno, in questo periodo, la via crucis del dott. Paolo Emanuele Borsellino lungo quei terribili 57 giorni fra Capaci e Via D’Amelio, significa rievocare le immagini di un Uomo la cui potenza del pensiero e delle parole strideva con l’evidente e progressivo senso di fragilità del suo corpo, sempre più indebolito e maltrattato da tante sigarette per attenuare l’angoscia di una fine imminente di Egli non fece assolutamente mistero con dichiarazioni, anche pubbliche. Rileggendo gli avvenimenti di allora alla luce anche delle più recenti acquisizioni processuali, emerge il terribile clima di tensione all’interno della Procura di Palermo, cui era approdato, dopo l’esperienza di Marsala, nel marzo del 1992.

Mi riferisco, in particolare, alle testimonianze dei colleghi della Procura di Palermo davanti al CSM del luglio 1992. Esse, per quanto fondamentali, non sono mai state riversate nei numerosi processi sulla strage di via D’Amelio, e quindi, di fatto, tenute segrete per oltre trent’anni. In quelle testimonianze vi è la descrizione puntuale delle dinamiche, inutilmente pretestuose e ostracizzanti messe in atto dal Procuratore Capo dott. Pietro Giammanco verso il dott. Borsellino, la cui unica colpa era di comprendere, attraverso la valorizzazione di determinate indagini, le ragioni dell’escalation criminale in corso. In particolare, la ricostruzione consacrata ormai in numerose sentenze, ci consegna e cristallizza il fervente interesse del dott. Borsellino per le indagini compendiate nel Rapporto del ROS dei carabinieri del febbraio del 1991 (il c.d. Dossier mafia-appalti).

Ma soprattutto si tratta di testimonianze fondamentali per comprendere le dinamiche sottostanti la creazione di quel particolare contesto di isolamento e delegittimazione del dott. Borsellino in seno al proprio Ufficio, quale prodomo necessario per la realizzazione di quelle condizioni obiettive per agevolarne l’eliminazione. Da profondissimo conoscitore delle dinamiche e delle strategie di Cosa Nostra, egli intuì e percepì chiaramente che, dopo l’omicidio di Salvo Lima (12 marzo 1992) e l’eccidio di Capaci, avrebbe potuto essere lui il prossimo obiettivo. Come ricordato dalla moglie Agnese Piraino, Paolo Borsellino riteneva che il proprio destino fosse inscindibilmente legato a quello di Giovanni Falcone, nella ferma convinzione che a fare da scudo alla propria vita ci sarebbe stata quella dell’amico e collega.

Ma il culmine della prostrazione psico-fisica raggiunta in quei 57 giorni dal Giudice Borsellino emerge chiaramente dalle dichiarazioni dei magistrati Alessandra Camassa e Massimo Russo, acquisite fra il 2009 ed il 2010 nel corso delle indagini seguite alla collaborazione di Gaspare Spatuzza. Secondo la testimonianza dei colleghi, che ben conoscevano il Giudice Borsellino quale Capo della Procura di Marsala, dove gli stessi svolgevano all’epoca dei fatti la funzione di Sostituti Procuratori, questi in lacrime ebbe a confessare a loro di essere stato tradito da un amico. I due magistrati hanno dichiarato apertamente di non avere mai visto il Giudice Borsellino in quelle condizioni e soprattutto di non essere stati in grado di superare l’imbarazzo di quella situazione così tragica quanto inaspettata per cui si limitarono a raccoglierne lo sfogo.

Sfogo preceduto da un’altra frase del giudice Borsellino pesantemente significativa “qui (ndr riferendosi alla Procura di Palermo) è un covo di vipere”. D’altra parte, le ansie e le preoccupazioni del Giudice Borsellino in quei 57 giorni fra le due stragi sono state oggetto della testimonianza di soggetti particolarmente qualificati. Dal loro narrato emerge lo stato di profonda ed assoluta solitudine del Giudice Borsellino, assillato dalla necessità di fare in fretta, per potere offrire all’Autorità Giudiziaria competente il suo contributo per chiarire e spiegare, dall’alto della sua esperienza, le dinamiche e le causali sottese alla strategia terroristico-mafiosa in atto.

Significative, sotto questo profilo, appaiono le dichiarazioni dell’avvocatessa Fernanda Contri, all’epoca dei fatti Segretario Generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri (pag. 309 e ss. Sentenza Borsellino quater abbreviato) e della già citata D.ssa Liliana Ferraro (pag. 330/331 quater abbreviato) dove si riporta il verbale di sommarie informazioni testimoniali del 14 ottobre 2014 dove la teste testualmente dichiara: “Borsellino mi disse che era solo”. Così come significativa e per certi versi drammatica è la testimonianza del sacerdote Cesare Rattoballi cui fu chiesto il 18 luglio 1992 dal Giudice Borsellino di recarsi presso l’ufficio della Procura di Palermo perché gli somministrasse il sacramento della confessione.

Le gravissime preoccupazioni del Giudice Borsellino per il destino della moglie Agnese e dei figli Lucia, Manfredi e Fiammetta, si rinvengono nella testimonianza resa nell’ambito del processo Borsellino ter dal colonnello Umberto Sinico, all’epoca dei fatti capitano. Alle pagg. 239/241 della sentenza egli testualmente afferma: “Borsellino scelse il sacrificio. Sapeva dell’attentato ma mi disse che doveva lasciare qualche spiraglio, se no avrebbero potuto colpire la sua famiglia”. E proprio guardando dentro alla famiglia nucleare del Giudice Borsellino, può senza dubbio affermarsi che la strage di Capaci ebbe sicuramente l’effetto di segnare l’epilogo di una vita normale.

Per quanto normale possa definirsi la vita di una famiglia già costretta da oltre un decennio, sia pure nella totale condivisione ed unità d’intenti, ad un’esistenza blindata e costantemente preoccupata per il prezzo che quell’impegno avrebbe potuto comportare. Invero, pur essendo da molto tempo in primissima linea nell’azione di contrasto a Cosa Nostra, il Giudice Borsellino aveva cercato di garantire comunque una certa serenità alla sua famiglia. Tale serenità era stata vulnerata drammaticamente in occasione dell’improvviso e forzato trasferimento della famiglia presso l’isola dell’Asinara nell’agosto del 1985.

Trasferimento motivato dal pericolo per la vita dei Giudici Falcone e Borsellino a seguito delle uccisioni per mano mafiosa del Commissario Beppe Montana e del Vice Questore Ninni Cassarà, fra la fine di luglio e di primi di agosto del 1985. Tale eccezionale misura di salvaguardia consentì loro effettivamente di redigere la monumentale ordinanza/sentenza istruttoria del maxiprocesso. Prima e dopo quest’episodio la vita familiare del Giudice Borsellino era comunque caratterizzata da una accettabile serenità, attesa, da un lato, la capacità del Giudice Borsellino di essere sempre presente nei momenti più significativi ed importanti della moglie e dei figli, dall’altra, la sua notoria predisposizione a sdrammatizzare ed esorcizzare con ironia i pericoli enormi derivanti dallo svolgimento della sua professione. Questo difficile equilibrio, fra dedizione all’impegno professionale e cura delle relazioni familiari, si rompe drammaticamente dopo il 23 maggio 1992.

La convinzione del Giudice, manifestata più volte anche pubblicamente, di non avere più tanto tempo a disposizione, lo costrinsero ad un lavoro frenetico con un sensibile peggioramento della vita affettiva e di relazione all’interno della famiglia. Il Giudice Borsellino perse definitivamente quel sorriso che egli era comunque riuscito a donare alla sua famiglia nel corso di quella vera e propria guerra, anche dopo avere visto cadere sull’altare della lotta alla mafia altre magnifiche vite ( Boris Giuliano, il capitano Basile, il consigliere Chinnici, il Generale Dalla Chiesa, Montana, Cassarà ed Antiochia e tanti altri ancora) pur nella convinzione di essere “un cadavere che cammina” come gli ebbe a dire Ninni Cassarà in sede di sopralluogo dell’omicidio di Beppe Montana.

Come ricordato dalla figlia Lucia, al Giudice Borsellino i capelli erano diventati bianchi in pochi giorni, e per la prima volta la moglie ed i figli videro il proprio congiunto ostaggio di una perenne tensione e preoccupazione che nemmeno l’ambiente familiare riusciva a stemperare ed attenuare, come era sempre accaduto in precedenza. Anzi il Giudice Borsellino si mostrava con i figli addirittura scontroso e distaccato, quasi a volerli preparare al dopo; alla moglie invece riserverà, in dialoghi tragici, le più intime considerazioni sulle gravi ragioni di una fine che sa essere imminente.

Con effetti dirompenti e lesivi della sacralità e pienezza dei rapporti affettivi in seno alla famiglia nucleare del dott. Borsellino. Di fronte alla descrizione di un dolore che con il passare del tempo si accresce, in considerazione del fatto che si è pure scoperto che le indagini ed i primi processi sulla strage di Via D’Amelio, hanno costituito l’ambito di elezione per il confezionamento del più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana, è giunto il momento, ineludibile, di scoprire ed indagare quello che accadde nella Procura di Palermo una volta che il dott. Borsellino ebbe ad approdarvi.

Si dice spesso che lo Stato non è pronto ad accogliere gli inconfessabili segreti di quella stagione. Questa affermazione è per noi condivisibile nella misura in cui in esso Stato venga finalmente ricompresa l’istituzione magistratuale dentro cui fra mille difficoltà ed invidie, Giovanni Falcone prima e Paolo Borsellino poi, cercarono di fare il loro dovere sino al compimento dell’estremo sacrificio. Cerchiamo di esserne degni fino in fondo con coraggio e determinazione, seguendo il loro metodo nella lettura degli eventi e senza assecondare ricostruzioni fantasiose il cui obiettivo è rendere vieppiù difficile il già faticoso tentativo di ricostruzione di quei terribili eventi.

Fabio Maria Trizzino - 13 Luglio 2023

Strage di via D'Amelio: tutte le ombre e le verità nascoste sulla morte di Borsellino. In occasione del 31esimo anniversario della strage di via D'Amelio, scopriamo tutte le verità nascoste di questa terribile tragedia. Chiara Nava su Notizie.it il 19 Luglio 2023

ARGOMENTI TRATTATI

Strage di via D’Amelio: tutte le ombre e le verità nascoste sulla morte di Borsellino

Strage di via D’Amelio: le parole di Borsellino, i soggetti estranei, il clima di omertà e il depistaggio

Strage di via D’Amelio, la Procura impugna la sentenza: “Non fu solo Cosa nostra”

Sono passati 31 anni dal 19 luglio 1992, giorno in cui Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta vennero uccisi nella strage di via D’Amelio. Una strage che nasconde diverse ombre e verità.

Strage di via D’Amelio: tutte le ombre e le verità nascoste sulla morte di Borsellino

Sono passati 31 anni dalla strage di via D’Amelio, una tragedia che è rimasta nella storia, in cui Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta sono stati uccisi. Tutti ricordano quel momento che ha segnato la storia, con una strage che nasconde ancora diverse ombre. La strage di via D’Amelio pone “un tema fondamentale, quello della verità nascosta, o meglio non completamente disvelata“, scrivevano i giudici del tribunale di Caltanissetta, aprendo un altro fronte di indagini, nelle motivazioni depositate nell’aprile 2023 della sentenza del 12 luglio 2022 sul depistaggio delle indagini successive alla strage, nei confronti di tre poliziotti del gruppo investigativo “Falcone-Borsellino“, accusati di calunnia aggravata. Secondo i pm, che hanno impugnato la sentenza, gli imputati avrebbero indottrinato dei falsi pentiti che sarebbero stati costretti a mentire e ad accusare della strage del 19 luglio 1992 alcune persone che alla fine si sono rivelate innocenti

Secondo i magistrati, “tra amnesie generalizzate di molti soggetti appartenenti alle istituzioni e dichiarazioni testimoniali palesemente smentite da risultanze oggettive e da inspiegabili incongruenze logiche, l’accertamento istruttorio sull’eccidio di 31 anni fa sconta gli inevitabili limiti derivanti dal velo di reticenza cucito da diverse fonti dichiarative, rispetto alle quali si profila problematico ed insoddisfacente il riscontro incrociato“, con la conclusione dei giudici che dopo trent’anni da quella strage ci sono dei limiti evidenti in quanto “più ci si allontana dai fatti più è difficile recuperare il tempo perduto“. Le verità e le ombre nascoste dietro questa strage, successa 57 giorni dopo quella di Capaci, dovrebbero emergere per dare giustizia a Paolo Borsellino e agli agenti Walter Eddie Cosina, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina.

Strage di via D’Amelio: le parole di Borsellino, i soggetti estranei, il clima di omertà e il depistaggio

Secondo quanto riportato, intorno alla metà del mese di giugno del 1992, Paolo Borsellino confidò alla moglie Agnese che era in corso “un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato“. Il giorno prima della strage, aveva rivelato alla moglie che “non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo ma i suoi colleghi ed altri a permettere che tutto ciò potesse accadere“. Borsellino avrebbe espresso la convinzione secondo cui “personaggi estranei a Cosa Nostra avrebbero organizzato o comunque partecipato alla sua eliminazione“. Secondo i giudici soggetti estranei a Cosa Nostra hanno avuto un ruolo importante nella strage di via D’Amelio, sia nella fase ideativa che nella fase esecutiva. Ci sono state troppe amnesie da parte degli infedeli allo Stato e delle istituzioni. Secondo il tribunale si respirava “un clima di diffusa omertà istituzionale“. Il depistaggio è poi iniziato dopo la strage con la scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino. “A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di appartenenti alle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non e’ riconducibile a una attività materiale di Cosa nostra” hanno spiegato i giudici.

Strage di via D’Amelio, la Procura impugna la sentenza: “Non fu solo Cosa nostra”

I magistrati della Procura di Caltanissetta hanno impugnato la sentenza lo scorso maggio. Per il procuratore capo Salvatore De Luca e il pm Maurizio Bonaccorso “è dimostrato in maniera incontrovertibile il coinvolgimento nella strage del 19 luglio 1992, anche di soggetti estranei a Cosa nostra, affermazione che non può nemmeno essere messa in discussione dal mancato accertamento di specifiche responsabilità penali“. Le prove del coinvolgimento di soggetti estranei alla mafia riguardano la tempistica della strage che non coincide con interessi mafiosi e la strada presenza di appartenenti al servizio di sicurezza intorno alla vettura del magistrato subito dopo l’esplosione.

I magistrati hanno scritto che la lettura della sentenza “manifesta evidenti difficoltà dei giudici di primo grado nelle operazioni di analisi e valutazione dell’imponente materiale probatorio acquisito nel corso del processo. E la spia di tale difficoltà la si ricava, oltre che da un estenuante ricorso al ‘copia e incolla’ delle precedenti sentenze che hanno definito i processi già celebrati per l’accertamento delle responsabilità per la strage di via D’Amelio, da contraddizioni e profili di illogicità“. Si parla di un quadro chiaro delle motivazioni che hanno spinto a commettere abusi e gravi illeciti nella conduzione delle indagini sulla strage di via D’Amelio, come la necessità di mantenere le indagini ad un livello tale da non disvelare i rapporti di cointeressenza che Cosa nostra ha avuto con ambienti esterni per l’ideazione e l’esecuzione della strage.

Perché nessuno indagò sulla casa di via D’Amelio 46? Nel dossier su mafia-appalti depositato dai Ros un anno prima dell’attentato, compare per la prima volta Via D’Amelio. Un edificio costruito dai Sansone, dove i Buscemi potrebbero aver dato supporto logistico. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 18 luglio 2023

Non è ancora stata chiarita fino in fondo la modalità dell'esecuzione della strage di Via D'Amelio di quel terribile 19 luglio 1992. Un giorno angoscioso fin dalla prima mattinata quando Paolo Borsellino ricevette una inusuale telefonata da Pietro Giammanco, l'allora capo della procura di Palermo. Una chiamata per conferirgli finalmente la delega per le indagini palermitane. Quella notte, così riferì Borsellino alla moglie Agnese, Giammanco non dormì. Era inquieto. Un'inquietudine che si rifletté su Borsellino stesso. “No, ora la partita è aperta!”, esclamò al suo interlocutore, per poi abbassare la cornetta e passeggiare nervosamente lungo il corridoio dell'appartamento. L'indagine alla quale teneva più di tutte, ormai è noto, riguardava il dossier mafia-appalti.

E proprio in questo dossier, consegnato a febbraio del 1991 a Giovanni Falcone dagli allora Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, vengono anticipati degli elementi che portano anche all'esecuzione della strage. In quel dossier, in tempi non sospetti, già si parla di Via D'Amelio. Più specificatamente un appartamento, situato in un palazzo attiguo al luogo dell'attentato, riconducibile alla famiglia mafiosa Buscemi. E sempre nel dossier mafia-appalti appare almeno un personaggio mafioso che fece parte del commando non solo della strage del 19 luglio, ma anche di quella di Capaci dove persero la vita Giovanni Falcone, la moglie e la scorta.

Ma andiamo con ordine. Sappiamo quasi tutto, soprattutto grazie alle rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza che permisero la revisione del processo Borsellino, su come avvenne l'attentato. Conosciamo i nomi di vari mafiosi che vi parteciparono. Ovviamente in maniera compartimentata, che è stata la classica strategia di Totò Riina. Mentre si perde tempo con la ricerca delle “entità”, finora nessuna autorità giudiziaria ha vagliato un probabile luogo fisico usato come appoggio logistico. Come vedremo è di fondamentale importanza.

L'unico luogo passato al vaglio dagli inquirenti è stato il palazzo allora in costruzione dei fratelli Graziano, persone vicine alla famiglia mafiosa dei Madonia, sito a soli 170 metri dal luogo della strage. Nella consapevolezza che il luogo in cui è stata innescata a distanza la carica esplosiva che causò la strage di Via D'Amelio era rimasto uno dei punti più oscuri della ricostruzione accusatoria, l'ufficio della procura di Caltanissetta, che poi diede il via al processo Borsellino Quater, ritenne di iniziare dai dati acquisiti nell'immediatezza. Una pista che non portò però a nulla.

Attualmente rimane invariata l'ipotesi che Giuseppe Graviano premette il telecomando dietro il muretto che delimitava la fine della via D'Amelio e un retrostante giardino. Sappiamo, soprattutto grazie al pentito Giovanbattista Ferrante, persona non solo attendibilissima ma colui che fece parte del comando dell'attentato di Via D'Amelio, più precisamente nel ruolo di vedetta (fu tra coloro che presidiarono alcune vie per avvisare il passaggio delle auto che scortavano Borsellino), che i telecomandi potevano essere azionati da una distanza anche di 500 metri. D'altronde fu proprio lui a collaudarli una settimana prima dell'attentato.

Ebbene, teoricamente Graviano poteva azzerare il rischio facendo partire l'impulso anche da qualche appartamento situato di fronte al luogo della strage. Poteva avere una giusta visuale e soprattutto una copertura (e relativa via di fuga) in tutta sicurezza. Stando alle dichiarazioni di Fabio Tranchina, altro collaboratore di giustizia, Graviano stesso chiese a lui se fosse disponibile qualche appartamento. Lui non lo trovò, e allora Graviano gli disse che si sarebbe adattato. Da qui si dà per scontato che, non avendo reperito l'appartamento, si fosse “adattato” situandosi dietro il muretto.

Eppure, le cose non potrebbero stare così. Escluso il palazzo dei Graziano che era ancora in costruzione e disabitato (quindi impossibile "mimetizzarsi” tra gli inquilini), c'è un altro luogo che purtroppo non è stato vagliato dalle autorità. Parliamo del palazzo situato in Via D'Amelio 46, attiguo a quello dei Graziano, che nei primi momenti delle indagini effettuate il giorno dopo della strage appare nel primo verbale, perché la squadra mobile aveva sentito alcuni inquilini solo per chiedere se avessero notato dei movimenti nel vicino palazzo disabitato.

Ma ora viene il bello. A pagina 335 del dossier mafia-appalti, analizzando la figura di Vito Buscemi, il cugino dei fratelli Buscemi (in particolare Antonino, figura importantissima finita sotto processo ben cinque anni dopo l'archiviazione del dossier avvenuta nell'estate del 1992), gli ex Ros appurarono che risiedeva nell'appartamento del palazzo di Via D'Amelio 46. Ecco che ritorna in tempi non sospetti questo luogo.

Qui c'è da domandarsi se siamo sicuri che Graviano non avesse trovato una disponibilità di tale appartamento. Parliamo della famiglia Buscemi, persone di fondamentale importanza per Totò Riina: il potente braccio economico, inserito nelle più grandi imprese multinazionali dell'epoca. Vero che in quel momento Vito era stato raggiunto da una misura di custodia cautelare (fu tra le sei persone indagate e processate dalla procura di Palermo, su 44 posizioni che i Ros avevano individuato), ma potenzialmente l'appartamento poteva comunque rimanere disponibile ai fratelli Buscemi. Purtroppo non abbiamo risposte perché non c'è stata alcuna indagine giudiziaria.

Eppure tale luogo ritorna prepotentemente anche nel 1993, quando il capitano “Ultimo” redasse un verbale per l'allora pm Ilda Boccassini, riportando questo cruciale passaggio: “Vito Buscemi risiede in via D'Amelio 46 e pertanto ha la possibilità di disporre in loco di soggetti di assoluta fiducia”. Sempre secondo il Ros che catturò Totò Riina, era “accertata la possibilità da parte della famiglia Buscemi di svolgere una funzione di supporto logistico nelle aree interessate alle stragi”. Se a questo aggiungiamo che Totò Riina, intercettato al 41 bis, parla di un palazzo vicino al luogo della strage, tutto sembra andare in questa direzione. Il palazzo in Via D'Amelio 46 ha anche un'altra caratteristica: fu costruito dai fratelli Sansone. Parliamo dei costruttori mafiosi che, tra le altre cose, realizzarono il residence in via Bernini, dove viveva la famiglia di Riina. Fu lì che venne catturato il capo dei capi.

Nel dossier mafia-appalti compare per la prima volta questo palazzo di Via D'Amelio 46. Così come appare il nome di un mafioso che poi farà parte del commando nell'attentato. I Ros, per capire come mai una nota impresa nazionale (l'assunto del dossier è che tale grande impresa facesse parte del cosiddetto "tavolino") abbia scelto in subappalto la Zanca Impianti per fare un lavoro su Palermo (subappalto concesso dalla giunta comunale guidata dall'ex sindaco Leoluca Orlando), scoprirono che nel collegio sindacale della società risultava far parte Lorenzo Tinnirello.

Chi era? Il vice capo della famiglia mafiosa di Corso dei Mille. Colui che, secondo Spatuzza, era nel garage per preparare l'autobomba usata per la strage. Tinnirello verrà condannato definitivamente anche per la strage di Capaci. Alla luce di tutto ciò, dovremmo analizzare a fondo il dossier mafia-appalti e capire se effettivamente la famiglia Buscemi abbia ricoperto un ruolo importantissimo anche nell'esecuzione della strage di Via D'Amelio.

L’anniversario della strage di Capaci non scioglie i veri dubbi e i depistaggi. Rita Cavallaro su L'Identità il 24 Maggio 2023

Se l’Italia dovesse essere qualificata sulla base di un lavoro che le si confà, sarebbe il pulitore della scena del crimine. E più tenta di lavare via il sangue, più rimane invischiata nei grandi misteri che attraversano la storia del nostro Paese da ormai quarant’anni. Primi tra tutti i delitti e le omissioni nella lotta alla mafia, le pagine buie sulle quali, nonostante i maxi processi e gli arresti eccellenti dei padrini, nessuno è mai riuscito a fare realmente luce. Quelle stragi gridano vendetta, con i loro morti diventati eroi antimafia, che celebriamo ad ogni anniversario con cerimonie cariche di speranza ma fondate semplicemente sulle bugie. Perché nessuno, dal palco di Palermo, ieri ha potuto dichiarare di conoscere davvero il motivo della condanna a morte del giudice Giovanni Falcone, fatto saltare in aria da una bomba piazzata sull’autostrada a Capaci il 23 maggio 1992, mentre viaggiava in auto con la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta. Ancora più dubbi solleva l’attentato di via D’Amelio del 19 luglio 1992, quando 50 chili di tritolo ridussero in mille pezzi il giudice Paolo Borsellino, che stava tentando di portare avanti la lotta alla mafia intrapresa con Falcone. Se per Capaci le verità sono rimaste celate, in quel cratere che ha inghiottito i servitori dello Stato nel momento in cui Giovanni Brusca premette il pulsante che azionò la bomba, su via D’Amelio l’ombra di un complotto e la terribile ipotesi della trattativa Stato-mafia furono serviti quando, dall’auto di Borsellino, scomparve l’agenda rossa. Il diario su cui il giudice aveva annotato segreti e nomi, dal quale non si separava mai soprattutto dopo l’assassinio del suo amato collega, fu portato via da un personaggio rimasto nelle tenebre, allontanatosi approfittando della concitazione del momento. E così su via D’Amelio prese vita la narrazione del coinvolgimento dei servizi segreti e di pezzi delle Istituzioni che, per fermare la guerra dichiarata dalla mafia stragista allo Stato, erano scesi a patti con il diavolo, i capi di Cosa nostra saldi nel progetto di sangue volto ad affermare la forza dell’organizzazione mafiosa siciliana. “Il 23 maggio di trentuno anni fa lo stragismo mafioso sferrò contro lo Stato democratico un nuovo attacco feroce e sanguinario”, ha detto ieri il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, forte della sua lotta contro la mafia, che non ha risparmiato la sua stessa famiglia, quando il 6 gennaio 1980 uccise il fratello Piersanti, l’allora presidente della Regione siciliana in prima linea nel contrasto alle infiltrazioni criminali sul territorio. “A questi testimoni della legalità della Repubblica, allo strazio delle loro famiglie, al dolore di chi allora perse un amico, un maestro, un punto di riferimento, sono rivolti i primi pensieri nel giorno della memoria. Quegli eventi sono iscritti per sempre nella storia della Repubblica”, ha continuato Mattarella, sottolineando come “si accompagna il senso di vicinanza e riconoscenza verso quanti hanno combattuto la mafia infliggendole sconfitte irrevocabili, dimostrando che liberarsi dal ricatto è possibile, promuovendo una reazione civile che ha consentito alla comunità di ritrovare fiducia”. O almeno di non perderla del tutto, mentre la giustizia di giorno tesse la tela di Penelope e di notte la disfa. Di giorno assolve l’ex senatore Marcello Dell’Utri, il generale Mario Mori, il generale Antonio Subranni e l’ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno, tutti e tre del Ros, ma di notte non fa altro che alimentare i sospetti non solo sull’esistenza della trattativa Stato-mafia, ovvero quella rete di pezzi delle Istituzioni impegnata ad “aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra che creasse le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi, e nel sollecitare tale dialogo, furono mossi, piuttosto, da fini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale – e fondamentale – dello Stato”, per dirla con le parole dei giudici di Caltanissetta che hanno scagionato quegli imputati. Giudici che aprono la pista alla congettura temporale, ipotizzando che fu proprio quello il principio di tutto, quando l’agenda rossa di Borsellino sparì dalla scena del crimine e i segreti contenuti al suo interno avrebbero dato vita a intrecci tra Stato e mafia, al ricorso ai falsi pentiti per mettere in atto i depistaggi, a “ricostruzioni manipolate” e “amnesie istituzionali”. Nemmeno Giuseppe Ayala è rimasto indenne dalla vicenda: i magistrati lo hanno bacchettato per gli innumerevoli cambi di versioni sull’agenda rossa. A infittire i misteri ci sono poi le ammissioni del pentito Gaspare Spatuzza, la gola profonda che svelò il depistaggio di via D’Amelio e fece condannare Matteo Messina Denaro per le stragi del ’92. E c’è lo stesso Messina Denaro, catturato il 16 gennaio scorso dai carabinieri del Ros. L’ultimo dei padrini che non parlerà mai. Anche sulla sua cattura si sono sprecate le tesi complottiste, affidate in prima serata da Salvatore Baiardo, il braccio destro dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, a Massimo Giletti nel novembre scorso, quando disse: “Chi lo sa che arrivi un regalino al governo. Che magari presumiamo che un Matteo Messina Denaro sia molto malato, che faccia una trattativa lui stesso di consegnarsi e fare un arresto clamoroso e così arrestando lui magari esce qualcuno che ha l’ergastolo ostativo senza che ci sia clamore”. Parole suonate come una nuova trattativa, quando alla clinica La Maddalena di Palermo i carabinieri misero fine alla latitanza dorata del capo dei capi. Bugie che addensano le ombre, ma per il governo non ci sono mai stati dubbi. “Contro la mafia avanti con impegno instancabile”, ribadisce il premier Giorgia Meloni.

La “trattativa Stato-mafia” è stata solo una grande operazione mediatica. Angelo Jannone su culturaidentita.it il 24 Maggio 2023

Lunedì 22 maggio a Quarta Repubblica, il talkshow dedicato all’attualità politica ed economica condotto da Nicola Porro, dopo l’approfondimento sulla tragedia dell’alluvione in Emilia-Romagna, un capitolo è stato dedicato alla giustizia con un focus sul processo “trattativa Stato-mafia” in presenza dell’ex pm Antonio Ingroia (n.d.r.)

Dopo la boutade di alcuni giorni fa (“Gli unici che devono chiedere scusa sono gli imputati che sono stati assolti. E devono chiedere scusa agli italiani e ai familiari delle vittime”) Antonio Ingroia, l’ex Pubblico Ministero padre del lungo processo sulla presunta trattativa Stato-mafia, ieri da Nicola Porro a Quarta Repubblica si è superato.

Lo scorso 27 aprile i giudici della sesta sezione della Cassazione hanno confermato l’assoluzione per i tre ex investigatori del Ros, Mori, Subranni e De Donno e per l’ex parlamentare Marcello Dell’Utri (annullata la sentenza di appello senza rinvio con la formula per non avere commesso il fatto nel procedimento sulla presunta trattativa Stato-mafia, n.d.r.). Un lungo calvario giudiziario, soprattutto mediatico, cominciato per iniziativa di Antonio Ingroia e Antonino Di Matteo e a cui avevano fatto da cornice una serie di processi ulteriori che vedevano sempre Mori al centro, mentre si alternavano altri suoi stretti collaboratori, tra cui Sergio De Caprio e Mauro Obinu.

L’accusa era quella di minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato (art.388 c.p.), cioè di avere trasmesso fino al cuore delle Istituzioni – i governi di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi;– la minaccia di Cosa nostra di compiere altre stragi e altri omicidi eccellenti se non fossero state alleggerite le condizioni carcerarie dei mafiosi detenuti.

La tesi dell’accusa, quella del patto tra esponenti della politica, carabinieri e mafiosi che avrebbe accelerato anche la strage di via D’Amelio, in cui persero la vita Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta, era già stata messa fortemente in discussione dalla sentenza della Cassazione che aveva confermato l’11 dicembre 2020 l’assoluzione dell’ex ministro Dc Calogero Mannino.

L’altra sera Porro, con una operazione di grande giornalismo, ha esordito con una dichiarazione del professor Giovanni Fiandaca, uno dei nostri migliori giuristi, maestro di Ingroia, che già nel 2012, in un saggio su una rivista giuridica (con dedica a Loris D’Ambrosio) poi pubblicato su un quotidiano nazionale, aveva smontato l’impianto giuridico dell’inchiesta della procura di Palermo ritenendo il processo Trattativa Stato mafia una “storytelling” (“La Trattativa è stata solo uno storytelling multimediale. Un teorema giuridicamente fragile, senza riscontri probatori e che rasenta il ridicolo dal punto di vista storico. Ma questa narrazione che ha acriticamente veicolato le tesi dell’accusa avrà un effetto disorientante sui cittadini. Come si spiega, dopo dieci anni, che era un’inchiesta sbagliata?”).

Infatti, provate ancora oggi a chiedere in giro e ne vedrete di risposte al limite della farneticazione. Ha ragione il prof. Fiandaca.

Ma il dibattito televisivo dell’altra sera si è incentrato proprio sulla contrapposizione tra “la sentenza ha detto che sono innocenti e quindi Ingroia deve chiedere scusa” (“Il processo è esso stesso una pena, perché non vi scusate visto che gli imputati sono stati tutti assolti?”) e la difesa dell’ex pm Ingroia (“Io ho il dovere, quando ci sono gli elementi, di fare quel processo”) 

Insomma: colpevolismo da una parte e presunzione di innocenza dall’altra, con al centro un ago della bilancia pesante, quello dei media e dai social.

E proprio sul ruolo dei media, incalzato da Porro e da Andrea Ruggeri, ex deputato di Forza Italia, Ingroia ha preso le distanze dal “circolo mediatico”: “Io facevo il Pm, cosa c’entro io con giornali e televisioni?”.

Ci si potrebbe limitare a 2 fatti storicamente accertati: la vacanza al mare con Marco Travaglio (Ferragosto 2013, presso Le Dune Resort & SPA, in un quattro stelle Superior, nelle splendide acque del Golfo dell’Asinara, in Sardegna , n.d.r.), peraltro organizzata dal maresciallo Giuseppe Ciuro, maresciallo della Dia che andava in vacanza assieme al magistrato palermitano e al corrivo giornalista e successivamente arrestato nell’ambito del cosiddetto processo “Talpe alla Dda”, per i suoi rapporti con l’imprenditore Michele Aiello, prestanome di Bernardo Provenziano. O ancora l’accoglienza da star di Ingroia, di Matteo e Caselli alla festa del Fatto Quotidiano nel 2012 in piena celebrazione del processo di primo grado.

Irrilevante? No. Perché un tema che non è stato toccato ieri da Porro è la fortissima pressione mediatica esercitata ad esempio dal film di Sabrina Guzzanti “La trattativa Stato-Mafia”, o dalle plurime uscite mediatiche dell’ ”icona dell’Antimafia” Massimo Ciancimino.

“Io avevo l’obbligo di esercitare l’azione penale”, ha detto Ingroia. Ma avrebbe potuto scegliere di indagare, ad esempio, sin dall’inizio sul rampollo di don Vito Ciancimino, Massimo, perché nella montagna di carta del processo vi è la prova di un documento contraffatto fornito da Massimo (il figlio dell’ex sindaco di Palermo su ordine della Procura di Palermo venne arrestato “per pericolo di fuga” con l’accusa di aver contraffatto un documento con il nome dell’ex capo della Polizia, Gianni De Gennaro, n.d.r.) .

Falsi furono anche i riferimenti a Berlusconi e gli accostamenti “mafiosi” al generale Mori: le perizie sulle carte consegnate a rate da Ciancimino junior stroncarono nel 2011 l’attendibilità del superteste dell’inchiesta sulla «trattativa» Stato-mafia ai tempi delle stragi. La parte più importante del carteggio (autentico) di don Vito era stata manipolata con tecniche da photoshop, sforbiciate, copia e incolla di frasi e firme trasportate da un documento all’altro. Gli atti più importanti furono tutti fotocopiati, per nascondere l’originale, come accadde per il famoso papello con le richieste della mafia per bloccare le stragi.

Sarà allora fondato il timore di Mori che qualche giorno fa aveva dichiarato: “Ora cosa si inventeranno per vendere i loro libri e giornali?”.

Trent’anni più uno. Le tristi celebrazioni per la strage di Capaci e l’illusione che la mafia sia cambiata. Giacomo Di Girolamo su L'Inkiesta il 2 Giugno 2023

Per l’anniversario della morte di Giovanni Falcone le cerimonie sono state più fiacche del solito, perché non faceva cifra tonda. Eppure era il primo anniversario successivo all’arresto di Messina Denaro, che mette la Sicilia di fronte alle sue responsabilità nella lotta alla criminalità organizzata

Ma sì, fatemi scrivere qualcosa sull’anniversario della strage di Capaci. Ma come, qualcuno obietterà, oggi? che è già giugno? Non ci potevi pensare una settimana prima, dieci giorni fa, che adesso noi si parla d’altro?

No, ci penso adesso che non ci pensa più nessuno, che sono terminate le celebrazioni, anche quest’anno, di quel 23 maggio dell’ora e sempre. Che poi sono state celebrazioni tristi, quelle per Giovanni Falcone e co., perché era il trentunesimo anniversario, e i numeri primi nella retorica delle commemorazioni non sono mai popolari. L’anno scorso sì che era bello: 1992-2022, l’ho letto dappertutto, insieme a «per sempre con noi», «per non dimenticare». Solo che il per sempre non esiste neanche in amore, pensa te nell’antimafia. E poi, abbiamo già dimenticato dove eravamo ieri, figurati il resto.

Sì, vorrei scrivere qualcosa su questo anniversario, sull’aria malinconica che c’era in queste manifestazioni in tono minore, con sindaci, politici, militanti, dirigenti, influencer e testimonial che si guardavano per dire, e adesso? Chi ci arriva al qurantennale? O magari, un po’ prima, al trentacinquesimo? E come ci arriviamo, soprattutto? Qui bisogna inventarsi qualcosa. E infatti a Palermo sono riusciti a trasformare il corteo in un pomeriggio ad alta tensione, con la polizia che ha caricato le persone che manifestavano. Le manganellate ai cortei antimafia. Ecco, questa mancava.

A proposito. Nella mia città, Marsala, al sindaco qualcuno avrà spiegato che c’è una sorta di tara che garantisce l’impunità ogni tot di manifestazioni antimafia che si organizzano. Solo così si giustifica la quantità di incontri con magistrati, giornalisti, scrittori, tutti rigorosamente antimafia, organizzati nel 2022. E le intitolazioni, soprattutto. Piazze, larghi, vie, rotonde, un intero quartiere popolare, il rione Sappusi, che è un grande luogo di spaccio a cielo aperto. Magari erano convinti che i nomi dei poliziotti della scorta di Falcone o di Borsellino aiutassero a reprimere il fenomeno. È finita con le targhette delle vie scollate dopo un po’, come fragili post-it, mentre il crack continua a girare bellamente.

E quindi, sì, mi fa tenerezza il mio Sindaco che ancora, nel 2023, organizza le manifestazioni per il «trentennale delle stragi», vorrebbe che non finissero mai, e l’altra volta sono entrato nella sua stanza e c’erano nello scaffale tutti i libri presentati quest’anno, le biografie, gli illustri saggi, sempre a tema mafia, antimafia e dintorni, ed erano messi con la copertina in evidenza, nel modo opposto, insomma, che tutti conosciamo su come si mettono i libri in una libreria, quasi a voler creare uno scudo. I libri a questo servono, ormai, non a essere letti, ma a essere esposti, come un altarino.

A Castelvetrano è stata esposta anche la teca che contiene i resti della Quarto Savona Quindici, l’auto di scorta del giudice Falcone. La vulcanica Tina Montinaro, vedova del caposcorta Antonino, gira l’Italia con questo cubo trasparente, portandola come testimonianza della violenza mafiosa.

La teca con i rottami dell’auto è stata collocata nella piazza centrale della città, che è la città dei Messina Denaro, per un paio di giorni, con le scuole in pellegrinaggio tipo La Mecca, e le autorità e loro accompagnamenti vari. Pure il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, è arrivato, la prima mattina, ma il fatto è che poi, verso le 13, è andato a pranzo, ed è rimasto in piazza tutto l’apparato di sicurezza, i carabinieri, i poliziotti, si sono fatti tutti un po’ più rilassati, come quando aspetti la campanella che svuota la classe, e allora hanno cominciato a farsi i selfie davanti la teca dell’auto, uno, due, tre foto ricordo e ho pensato a Padre Puglisi, anzi al Beato Padre Puglisi, che non ha pace neanche da morto, gli hanno tagliato dei pezzetti, e le teche con i «frammenti sacri» del suo corpo girano per la Sicilia, e la gente le bacia, le tocca con il fazzoletto bianco, chiede una grazia, la grazia dell’antimafia. Magari si fanno anche loro un selfie. E con questi selfie, come il mio sindaco, si fanno un altarino, da qualche parte.

Ma, dicevamo di Piantedosi, che è arrivato a Castelvetrano, poi a Palermo, per dire una cosa banale: «La mafia è cambiata». È il nuovo refrain, dato che non si può più dire: «Stiamo facendo terra bruciata intorno a Messina Denaro», ora che l’hai preso davvero. La mafia è cambiata. Ma quando mai. È sempre la stessa. È tornata quella di prima, semmai, ma da tempo, dopo l’ultima strage, roba di un’era mafiologica fa. Ed è sempre quella, la mafia, silenziosa, invisibile, borghese.

Forse è questa la condanna che dobbiamo scontare, mi dico:

Ogni anno ricordare Capaci.

Ogni anno sentire come una fitta nel cuore.

Ogni anno manifestare.

Ogni anno ascoltare ministri dire sempre le stesse cose.

Si è persa un’occasione, in questo anniversario del trentunesimo. Perché bastava un po’ di impegno per accorgersi che era in realtà il trentesimo più uno, che si celebrava. Perché è il primo anno che ricordiamo la strage di Capaci, ma con Messina Denaro dentro, il più pericoloso dei latitanti, l’ultimo dei Corleonesi, e questo ci dovrebbe spingere a cambiare tutto, anche il nostro modo di ricordare e commemorare, ed invece sembra quasi a volte – perdonatemi – che ci manca più Messina Denaro che Giovanni Falcone o Paolo Borsellino, a noi altri, perché fin quando il boss era libero e fuori, noi si aveva l’alibi per parlare del grande cattivo che muove i fili, del male che si aggira per la Sicilia e l’Italia, per toccare i tasti facili della caccia all’uomo. E adesso che il grande cattivo è dentro, nemici non ce ne sono più, e siamo orfani. Ci resta solo la memoria, che è una brutta bestia quando è lasciata solo alla nostra responsabilità, quando non abbiamo più qualcuno con cui prendercela.

Si poteva dire: sono i 30 anni+1 dalla strage di Capaci, con l’arresto di Messina Denaro siamo all’anno zero. Aboliamo allora la parola antimafia, cominciamo a parlare di responsabilità. Aboliamo le manifestazioni con le scuole intruppate e torniamo a farli studiare, questi giovani, che non sanno nulla, perché nulla gli insegniamo. Seppelliamo i resti dei nostri morti. Torniamo a considerare la memoria come qualcosa in movimento perenne, di vivo, una specie di pianta che va nutrita, e non un fossile da museo, un ritratto da appendere alle pareti, un oggetto di modernariato per fare bella figura nei nostri salotti.

Invece siamo tornati nel loop, nella comfort zone, solo che adesso è più triste. Ci vuole un pensiero sovversivo, per cambiare la lotta alla mafia, oggi, un atteggiamento diverso, radicalmente opposto, un ribaltamento del tavolo. Abbandonare soprattutto la retorica della speranza, della terra che cambia. Ecco, l’ho detto. «Lasciate ogni speranza o voi che è entrate» è l’iscrizione che Dante Alighieri trova all’ingresso dell’Inferno, nella sua Commedia. Mi ricordo che nel mio manuale di letteratura, al liceo, la nota di testo parlava di una «terrificante scritta».

Non so, ma a me, nell’anno 30+1, questa frase non mette paura. Mette pace. «Lasciate ogni speranza o voi che entrate» la vorrei vedere scritta all’ingresso del Paradiso. Perché la speranza è un inganno, in nome della speranza di una Sicilia libera dalla mafia in questi anni sono stati compiuti anche i più gravi misfatti. E allora mi piacerebbe che un giorno quest’isola mia fosse un paradiso, cioè un luogo dove non c’è bisogno di speranza, la puoi lasciare all’ingresso, perché già c’è tutto: le strade che non crollano, il lavoro, le scuole con le mense, persino i treni (in quel caso l’unica speranza sarebbe quella che arrivino in orario, anziché, come ora, che magari intanto arrivino).

«Lasciate ogni speranza o voi che entrate», non pensate che sarebbe un bel manifesto per una nuova antimafia? Lasciate ogni speranza, le ideologie, gli slogan. State semplicemente nelle cose, vivete il quotidiano, senza fretta. Siate oggi, qui, attenti, sereni, responsabili, per il trentunesimo anniversario, come per il trentaduesimo, per il 23 maggio, come per il 24, e il 19 e il 20 e il 21 luglio, e anche il 30 febbraio se dovesse esistere, un giorno, lasciate anche lì che non entri con voi la speranza.

Ma poi speranza di che? Che arrivino i giudici, i buoni, la cavalleria, i martiri, l’esercito, gli eroi, le vittime, i sacrificati, i «fautori della svolta», i preti-coraggio, i giornalisti scortati, le reliquie, le teche, i ministri? Costruitelo voi, questo benedetto cambiamento che volete vedere nel mondo.

Di Pietro racconta ‘Tangentopoli’. “Quando Borsellino mi disse: Tonì facciamo presto, ci resta poco”. Da CARMEN SEPEDE su isnews.it il 17 Dicembre 2018

Il racconto di una delle pagine più importanti della storia italiana, in una lezione-intervista che l’ex magistrato del Pool di ‘Mani pulite’ ha fatto nel ‘Caffè letterario’ dell’Istituto ‘Pilla’ di Campobasso. Il terrorismo e gli attentati di mafia, la delegittimazione e l’ingresso in politica, l’Italia oggi e il rapporto con il suo Molise, in una ricostruzione che ha lasciato gli studenti a bocca aperta

Antonio Di Pietro doveva morire. Lo aveva deciso la mafia, che lo aveva messo al terzo posto della lista dei nemici da abbattere. Dopo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lo ha raccontato l’ex magistrato del Pool ‘Mani pulite’, oggi a Campobasso, nel ‘Caffè letterario’ dell’Istituto ‘Pilla’ di Campobasso, intervistato dal giornalista Giovanni Minicozzi davanti agli studenti della scuola, rimasti a bocca aperta nel sentire, dal vivo, il racconto di una delle pagine più importanti della storia del nostro Paese. ‘Tangentopoli’ e i rapporti tra Stato e mafia. 

“Ero ai funerali di Giovanni Falcione – ha ricordato Di Pietro – Borsellino mi si avvicinò e mi disse. “Tonì, facciamo presto, abbiamo poco tempo”. Il tempo che gli era rimasto lo conoscete tutti. A me è andata meglio, a Milano ero più protetto, abitavo in una casetta di campagna, sorvegliato notte e giorno con quattro telecamere collegate alla questura. Dopo gli attentati mandai però la mia famiglia in America, in Costa Rica e in Ohio, con un falso passaporto e protetti dallo Stato. Io invece decisi di restare. Quando morì anche Borsellino – ha aggiunto – tornai a casa a Montenero di Bisaccia. Non avevo più i genitori e mi rivolsi a mia sorella. “Concettì, che devo fare?” le chiesi. E lei, “fai il tuo dovere e pagane le conseguenze”.

Al suo fianco c’erano gli altri magistrati del Pool di Milano, Gerardo D’Ambrosio, Francesco Saverio Borrelli, Ilda Boccassini, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo. Tra il 1992 e il 1993, nel cuore di ‘Tangentopoli’, Antonio Di Pietro era diventato uno degli uomini più potenti d’Italia, sulle copertine di tutti i quotidiani del mondo. Dal lanciare il suo nome come possibile Presidente della Repubblica, com’è pure avvenuto, alla macchina del fango e “allo sputo in faccia”, come ha ricordato, ne è passato poco.

“Dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino – le sue parole – lo Stato ha rialzato la testa nei confronti della mafia, come aveva fatto con il terrorismo dopo l’omicidio Moro. Allora, visto che non si è potuto più uccidere, è stata utilizzare un’altra strategia. Quando vuoi fermare una persona puoi utilizzare due metodi: o ammazzarlo, o delegittimarlo, che è la morte civile. Ed è quello che hanno tentato di fare con me. Perciò ‘Mani pulite’ è riuscita solo per metà”. 

Dopo la caduta della Prima Repubblica, “che in tanti hanno attribuito a me”, Di Pietro ricevette una telefonata. “Arrivava dall’ufficio della Presidenza della Repubblica. Proposero a me di fare il ministro dell’Interno e a Davigo il Ministro della Giustizia. Io ho rifiutato, perché se avessi accettato sarei stato un ‘padreterno’, ma corrotto”.

L’impegno in politica, con la fondazione dell’Italia dei Valori e la nomina a ministro dei Lavori pubblici del Governo Prodi, arriva dopo le sue dimissioni da magistrato. “Non mi sono certo dimesso per fare politica – ha voluto precisare – ma per difendermi, sono stato processato 267 volte e sempre assolto. A un certo punto hanno anche detto che ero un agente della Cia. Ma che ci azzecco io con la Cia – ha detto utilizzando il ‘dipietrese doc’ – che non so una parola di inglese”. 

Se ‘Mani pulite è finita, “è stato un periodo irripetibile”, la corruzione esiste ancora. “Non è però la stessa cosa – Di Pietro ha voluto precisare – oggi se ne parla così tanto perché c’è più lotta alla corruzione. C’è però stata una sbiancatura del reato. Io all’epoca di Tangentopoli ho trovato un pouf pieno d’oro, valanghe di soldi nascosti in uno scarico del bagno. Oggi ci si vende per il viaggio, il regalo, un vantaggio per sé e i propri familiari. Ora come allora la corruzione è però una continua lotta tra guardia e ladri. Quando le guardie scoprono il metodo per incastrare i ladri questi lo cambiano”.

Una lezione di cultura della legalità, voluta dalla dirigente del ‘Pilla’ Rossella Gianfagna, con un monito rivolto agli studenti, “non aspettate che siano gli altri a denunciare, fatelo voi stessi, quando ci sono le circostanze”, come ha detto l’ex ministro. Che ha espresso preoccupazione per il suo Paese, “perché come negli anni Trenta e Quaranta qualcuno parla alla pancia degli italiani”.

Non è mancata una riflessione sulla sua terra d’origine. “Io sono innamorato del mio Molise – ha precisato Di Pietro – e nel corso degli anni credo anche di averlo fatto conoscere. Ma sono convinto che anche in Italia sia necessaria una revisione del sistema delle autonomie. Non credo ci debbano essere più le regioni a statuto speciale e tante regioni piccole, ma servono strutture più ampie con più autonomie, che abbiano più voce in capitolo. Il mio Molise – ha concluso – è troppo piccolo e porta pochi voti. Quindi è poco ascoltato”.

Lettera di Paolo Cirino Pomicino a Dagospia il 28 maggio 2023.

Siamo ormai un paese piombato in un clima surreale. Ieri cercavamo esecutori e mandanti delle bombe del 1993 messe a Milano, Firenze e a Roma e che procurarono morti e feriti. Oggi che abbiamo arrestato l’ultimo dei mandanti (Messina Denaro) un bravo pubblico ministero, Luca Tescaroli, autore della requisitoria nel processo per la strage di Capaci svoltosi a Caltanissetta, si domanda come mai le bombe sono improvvisamente finite ed i mafiologi di professione gli fanno eco.  

Domande surreali per chi conosce i fatti anche se legittime per chi vive nella nuvola dei mandanti occulti, una sorta di “entità centrale” come irresponsabilmente ha detto Pietro Grasso senatore della Repubblica. Vorremmo aiutare Tescaroli a dipanare quella matassa che incatena la sua tradizionale lucidità e bacchettando anche quelli che attaccano lo Stato senza fare nomi e cognomi.

Dopo la strage di Capaci e prima di quella di via d’Amelio fu inviato a tutte le autorità un anonimo in cui si diceva quel che sarebbe accaduto nei mesi successivi. Dobbiamo alla intelligenza politica del senatore comunista Lucio Libertini se abbiamo ancora quell’anonimo scritto sottomano perché venne trasformato per intero in una interrogazione parlamentare. In quello scritto si diceva che dopo altri omicidi e confusione l’offensiva della mafia si sarebbe fatta più forte sino ad ottenere alcuni risultati. E così avvenne. Nel novembre del1993, dopo le bombe di Milano, Firenze e Roma, il ministro della Giustizia del governo Ciampi, Giovanni Conso, liberò dal carcere duro ( il famoso 41 bis ) trecento mafiosi, camorristi e ‘ndranghetisti e da quel momento il ministero dell’interno,  grazie ad una gestione lassista dei programmi di protezione da parte di una commissione di cui ancora oggi non si conoscono i nomi, liberò sino al 2005 ben 10 mila mafiosi, camorristi e ‘ndranghetisti come ci venne comunicato dal ministro Mastella rispondendo ad una nostra interrogazione parlamentare.

Quella gestione lassista fu tale innanzitutto negli anni novanta quando il parlamento, inorridito da quel che si vedeva e si sentiva, nel 1999 approvò una modifica per cui i pentiti avrebbero dovuto comunque scontare un terzo della pena prima di avere i benefici della normativa premiale. Nel frattempo però gli assassini di Falcone, eccezion fatta di Giovanni Brusca, erano già usciti dal carcere. Senza dilungarci vorremmo suggerire a Luca Tescaroli qualche considerazione. L’uscita di 300 mafiosi dal 41 bis e, da quella data, il via libera della commissione ministeriale ad una gestione molto permissiva dei programmi di protezione con i risultati ricordati non sono motivi sufficienti a mettere fine alle bombe?

Che altro potevano aspettarsi i mafiosi da una folle politica stragista che certo non poteva continuare all’infinito? Lo stesso mancato scoppio della bomba messa all’Olimpico a nostro giudizio non fu un errore ma un messaggio preciso di come quelle scelte fatte dal governo aveva evitato un’altra strage. Forse bisognerebbe capire più a fondo chi durante il governo Ciampi, e poi successivamente, mosse i fili perché a quelle bombe si rispondesse liberando migliaia di pentiti e togliendo 300 irriducibili dal carcere duro. Ma questo forse è più compito degli storici che di un pubblico ministero ancorché bravo come Luca Tescaroli. Ma dopo trent’anni non sarebbe utile  e saggio smettere di alludere permanentemente a contiguità criminali di tutto ciò che è alternativo alla sinistra? 

E non forse sarebbe altrettanto utile e saggio denunciare l’ignobile costume di quanti affermano la collusione dello Stato con pezzi della criminalità senza mai fare nomi e cognomi? La politica recuperi visioni e qualità di comportamenti se vuole riprendere quel primato da tempo smarrito. Il paese ne ha veramente bisogno.

Dossier Mafia-Appalti. Non sapremo mai come andò. Un mese è già trascorso dall’archiviazione di tutti gli imputati del processo Trattativa Stato-mafia. Eppure, dalle parti del Fatto Quotidiano non mollano di un millimetro. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 30 Maggio 2023

Non deve essere per nulla facile, dopo averla cavalcata per anni, vedere l’inchiesta che ti ha portato successo e visibilità sciogliersi come neve al sole. A distanza di un mese dall’archiviazione di tutti gli imputati del processo Trattativa Stato-mafia, dalle parti del Fatto Quotidiano non mollano un millimetro e continuano imperterriti nella tesi dei “mandanti occulti” dietro le stragi del 1992-93. Chi contraddice questa narrazione, finalizzata a metter in “ombra le dichiarazione di Giuseppe Graviano sulle presunte responsabilità stragiste di Silvio Berlusconi” lo farebbe utilizzando come “arma di distrazione di massa” l’inchiesta mafia appalti, archiviata il 13 luglio 1992 da Roberto Scarpinato, ora senatore del M5s e all’epoca Pm del processo Trattativa.

Per “mafia e appalti” si intende il rapporto giudiziario che venne depositato dai carabinieri del Ros alla Procura di Palermo il 20 febbraio 1991 sulla “mafia imprenditrice” la quale, invece di imporre il pagamento di tangenti estorsive agli imprenditori, era diventata essa stessa imprenditrice con società riferibili ad appartenenti a Cosa nostra. Nel rapporto del Ros si affrontava soltanto la prima fase, quella della aggiudicazione delle commesse pubbliche, attorno ad un tavolo denominato “tavolo di Siino”, da Angelo Siino, poi diventato collaboratore di giustizia e definito il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa Nostra ma, più precisamente, dei corleonesi.

Roberto Scarpinato, che firmò l’archiviazione di questo fascicolo, a cui teneva molto Paolo Borsellino, affermò che le indagini erano state fatte “in parte con le intercettazioni dell’Alto commissariato, in parte con intercettazioni che erano state fatte dall’ufficio istruzione”. Entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale tutti i filoni confluirono in unico procedimento.

Nel febbraio del 1991, il Ros depositò allora un’informativa, circa 900 pagine con intercettazioni, riepilogativa delle indagini che erano state fatte.

Scarpinato disse che le intercettazioni “erano state autorizzate in altri procedimenti per il reato di cui all’articolo 416 bis codice penale. Quindi per la normativa del tempo non potevano essere utilizzati in altri procedimenti se non a carico di soggetti indagati per il reato di cui all’articolo 416 bis secondo comma promotori organizzatori non per i semplici partecipi”.

Ferma restando l’inutilizzabilità, ai fini di prova, delle intercettazioni effettuate dall’Alto commissariato, le intercettazioni autorizzate con il vecchio codice (quindi prima del 24 ottobre 1989) dal giudice istruttore avrebbero potuto essere utilizzate anche nei procedimenti disciplinati da quello nuovo. L’articolo 242 delle norme transitorie aveva infatti precisato che si dovesse continuare ad applicare il vecchio codice nei casi tassativi ivi previsti.

Alla pagina 5 della richiesta di archiviazione del 13 luglio 1992, firmata da Scarpinato, si legge che “non si erano, prima del 24 ottobre 1989 realizzate le condizioni prescritte dall’art. 242 delle norme di attuazione del c.p.p. per il proseguimento dell’istruttoria con il rito abrogato. Di conseguenza, gli atti dianzi indicati e le relative intercettazioni confluivano nel procedimento 2789/90 N.C. già instaurato secondo le regole del nuovo rito”. Dalla medesima richiesta di archiviazione (pagina 2) risulta che le intercettazioni “confluite” nel procedimento nuovo rito 2789/90 erano diverse, come ad esempio quelle effettuate nel procedimento 2811/89 (vecchio rito) relative alla vicenda Baucina/Giaccone, quelle nel procedimento 1020/88 (vecchio rito) relative alla vicenda SIRAP e al ruolo di Angelo Siino, o quelle effettuate nel procedimento 2811/89 (vecchio rito) pendente davanti al giudice istruttore contro Giuseppe Giaccone per la vicenda Baucina.

Dalla pagina 6 della richiesta di archiviazione risulta altresì che al procedimento 2789/90 venivano acquisiti copia degli atti dei fascicoli più importanti, come le audizioni della Commissione regionale antimafia dedicata alla situazione dei Comuni delle Madonie.

Pertanto, tutte le intercettazioni effettuate nella vigenza del vecchio rito, fatte tutte “confluire” nel procedimento 2789/90 nuovo rito, erano senz’altro utilizzabili per come scritto da Scarpinato nella richiesta di archiviazione. Paolo Pandolfini 

La giustizia che funziona. Magistrati alla ricerca della verità e non accecati dall’ideologia: la storia dei pm fiorentini. Matteo Renzi su Il Riformista il 30 Maggio 2023 

Ricordare il trentennale della strage dei Georgofili è stato per i fiorentini come me un tuffo al cuore. La camminata notturna tra Palazzo Vecchio e il luogo della strage ha visto la partecipazione di tanta gente, soprattutto giovani. E la cerimonia è stata impreziosita dalla presenza di Tina Montinaro, vedova di Antonio, caposcorta di Falcone, che ha trasmesso la sua grandezza d’animo a noi e ai ragazzi persino davanti alla Quarto Savona 15, l’auto su cui viaggiava il marito, totalmente distrutta dal tritolo di Giovanni Brusca, auto che la Polizia di Stato ha voluto esporre quest’anno sotto la Galleria degli Uffizi.

Il giorno dopo presso il Palazzo di Giustizia è arrivato il Presidente Mattarella. Dal palco si sono alternati il Presidente della Corte d’Appello, Nencini – cui va dato merito dell’ottima iniziativa – il procuratore nazionale antimafia Melillo, il professor Palazzo, la Prima Presidente della Cassazione Cassano, il Vice presidente Csm Pinelli, la Presidente della Corte di Cassazione Sciarra. Un parterre de roi che ha saputo riflettere e far riflettere in modo eccellente. E il ricordo sullo sfondo dei grandi Pm fiorentini. Mentre ascoltavo gli interventi pensavo a come Firenze abbia avuto una straordinaria storia di Pm credibili, integerrimi, capaci.

E molti erano presenti in sala: Crini, Nicolosi, Quattrocchi, la stessa Cassano. Qualcuno invece ci ha lasciato troppo presto a cominciare dai due magistrati che con coraggio indicarono la strada: Piero Luigi Vigna e Gabriele Chelazzi. Se la strage dei Georgofili non è rimasta impunita è perché allora a Firenze ci furono Pm straordinari, magistrati capaci alla ricerca della verità e non accecati dall’ideologia. La verità giudiziaria sui Georgofili è stata scritta perché c’erano loro. Persone serie che rendevano gli uffici giudiziari di Firenze un’eccellenza.

A questo serve una giustizia che funziona: a renderci orgogliosi di essere italiani. A prendere i veri colpevoli. A non confondere la verità giudiziaria con le proprie idee personali. Spesso le cattive abitudini di pochi di loro oscurano il lavoro dei tanti. E allora – nel ricordo dei Vigna, dei Chelazzi, dei bravi investigatori – si renda onore a quei Pm che fanno

bene il loro dovere, anche oggi. Che i ragazzi delle scuole della magistratura possano conoscere la loro storia, la loro grandezza, la loro nobiltà.

Matteo Renzi (Firenze, 11 gennaio 1975) è un politico italiano e senatore della Repubblica. Ex presidente del Consiglio più giovane della storia italiana (2014-2016), è stato alla guida della Provincia di Firenze dal 2004 al 2009, sindaco di Firenze dal 2009 al 2014. Dal 3 maggio 2023 è direttore editoriale de Il Riformista 

Da open.online il 28 settembre 2023.

L’ex senatore Marcello Dell’Utri ha divorziato dalla moglie Miranda Ratti. La separazione consensuale risale all’11 luglio 2019, lo scioglimento del matrimonio al 10 giugno 2020. Ma secondo la Direzione Investigativa Antimafia lo ha fatto per finta. Per salvare i beni e per far ricevere a lui i soldi di Silvio Berlusconi. Compresi quelli del lascito nel testamento olografo.

A parlare degli affari di famiglia dell’ex Publitalia condannato per concorso esterno in associazione mafiosa è una relazione di consulenza dei periti della procura di Firenze, che indaga su Dell’Utri per le stragi del 1993 a Milano, Firenze e Roma. La relazione indaga i flussi finanziari che hanno dato vita al gruppo Fininvest-Mediaset nei primi anni Settanta e una nota della Dia del 15 settembre scorso sui rapporti economici tra i due.

La relazione della Dia

A parlare del matrimonio di Dell’Utri è oggi Il Fatto Quotidiano. Nella nota di 154 pagine c’è un capitolo legato alla “Separazione legale fittizia dei coniugi Marcello Dell’Utri e Miranda Ratti. Secondo l’Antimafia «le elargizioni economiche dirette a Dell’Utri da parte di Berlusconi negli anni non hanno avuto mai interruzione».

E all’interno di questo quadro la separazione consensuale dei due coniugi costituirebbe «un ulteriore strumento per rendere non aggredibili da parte dell’autorità giudiziaria i beni riconducibili a Dell’Utri, e strumento per consentire a Berlusconi di far pervenire, o quanto meno lo è stato per il passato, a Dell’Utri, tramite Spinelli (Giuseppe, 81 anni, il ragioniere che si occupa delle spese della famiglia Berlusconi, ndr) elevate somme di denaro formalmente svincolate da rapporti tra i due». 

(...) la Dia scrive che i due coniugi «non hanno mai messo in atto comportamenti giuridici omologabili all’abbandono del tetto coniugale o tipici delle coppie che si separano». Visto che non hanno mai abbandonato l’ambiente domestico comune. E ancora: «Dagli accordi per l’invio delle somme di denaro per pagare gli avvocati di Marcello Dell’Utri, agli espedienti per sollecitare il finanziamento da parte di Silvio Berlusconi delle spese di ristrutturazione delle unità immobiliari a loro riconducibili, alla condivisione di alcuni accorgimenti per attribuire ad altri la titolarità dei beni a loro riconducibili».

Il processo di Palermo

Agli atti c’è anche una telefonata nella quale la moglie chiama il marito e gli chiede di aprirgli la porta perché ha dimenticato le chiavi in casa. Questo dimostra, secondo la Dia, che entrambi continuano a condividere lo stesso ambiente domestico. La relazione si trova agli atti del processo di Palermo sulla proposta di confisca dei beni a Dell’Utri. La Cassazione ha dato torto alla procura, che aveva chiesto il congelamento dei beni della moglie e dei figli. I pubblici ministeri ritengono che il patrimonio dell’ex senatore sia frutto di un ricatto a Berlusconi.

Grazie al presunto ruolo di mediatore che Dell’Utri avrebbe avuto nei rapporti del gruppo con la mafia. Nella sentenza del giugno 2022 il tribunale ha ritenuto non provata la relazione. Perché, ha motivato, i soldi potrebbero trovare una spiegazione alternativa nell’amicizia tra i due.

I "torbidi retroscena”. L’ultima trovata dei Pm fiorentini contro Berlusconi e Dell’Utri: “Denegata strage” Tiziana Maiolo su L'Unità il 30 Maggio 2023 

Siamo arrivati a contestare il reato di “denegata strage”, alla procura di Firenze. Perché ormai, dopo quattro archiviazioni, essendo ormai impossibile dimostrare il fatto che le bombe del 1993-94 hanno avuto come mandanti Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, si indaga per sapere come mai nel gennaio 1994, proprio alla vigilia delle elezioni vinte da Forza Italia, Cosa Nostra abbia abbassato le armi. Che cosa c’è dietro questa ”denegata strage”? Una risposta arriva dalla saggezza di un illustre pensionato.

Pietro Grasso, ex procuratore nazionale antimafia e già presidente del Senato, lo ha detto chiaro, domenica scorsa da Lucia Annunziata. L’ho chiesto io a Gaspare Spatuzza, dopo che lui aveva iniziato a collaborare con la magistratura. Come mai, gli ho domandato, come mai dopo che era fallito l’attentato allo stadio Olimpico di Roma del 23 gennaio 1994, non ci avete riprovato? Perché, dopo quel giorno, sono cessate le bombe di Cosa Nostra? La sua risposta fu semplice: io prendevo ordini da Giuseppe Graviano, e quattro giorni dopo lui fu arrestato a Milano.

Erano stati i carabinieri, arrivati da Palermo al comando del capitano Marco Minicucci, a mettere le manette ai polsi del boss di Cosa Nostra e del fratello, mentre i due erano con le fidanzate al ristorante “Gigi il cacciatore”. Un’operazione pianificata e solo casualmente portata a termine nel capoluogo lombardo. Solo per quel motivo quindi, e perché i boss dei corleonesi uno dopo l’altro stavano entrando all’Ucciardone e nelle altre carceri a loro destinate, direttive per nuove stragi non ne arrivarono più. Lo Stato aveva vinto. Pure, di anniversario in anniversario, di comitato parenti vittime in comitato parenti vittime (due giorni fa si ricordava la data della strage di Brescia, 28 maggio 1974), non si placa l’ossessione di chi non si arrende alla realtà della sconfitta di Cosa Nostra a opera dello Stato.

Quella parte della storia non c’è più, fatevene una ragione. E spiace aver visto lo stesso Presidente Sergio Mattarella, nella stessa giornata in cui aveva impartito una bella lezione su don Milani e reso giustizia alla ministra Roccella dopo il silenzio della sinistra sull’assalto al suo libro, seduto ad applaudire ogni sciocchezza più o meno togata sulla strage dei Georgofili. Lì avrebbe avuto occasione, il Capo dello Stato, anche nella sua veste di numero uno del Csm, per menar vanto, per mostrare l’orgoglio di uno Stato più forte delle mafie e di una magistratura che sappia separare il grano dal loglio, i fatti dalle opinioni. I fatti sono che da tempo ogni bomba, ogni strage, ogni omicidio di mafia degli anni novanta ha avuto processi e condanne. Ogni tassello è andato al proprio posto.

Ma nel frattempo sui “torbidi retroscena” che aprono “inquietanti interrogativi”, refrain banale di chi “dà buoni consigli non potendo dare cattivo esempio”, si sono costruite carriere. Sciascia li chiamava professionisti dell’antimafia, noi li abbiamo soprannominati “fantasmi”, perché gli anni passati sono ormai trenta. Del resto non viviamo nel Paese che si sta ancora baloccando, questa volta insieme alla giustizia dello Stato Vaticano, sulla scomparsa di una povera bambina nel 1983? Per lo meno, in questo caso antico, il mistero esiste davvero, al contrario di quanto accaduto nei processi di mafia, dove i “pentiti” abbondano per numero e per loquela.

Prendiamo Gaspare Spatuzza, per esempio. Il collaboratore è considerato uno dei più attendibili, soprattutto dopo che, addossandosi la responsabilità di uno dei più gravi e simbolici delitti dei corleonesi, l’omicidio del giudice Paolo Borsellino, ha svelato il più grave complotto di Stato. Quello di chi, forze dell’ordine, magistrati e giornalisti, aveva voluto pervicacemente credere alla parola fasulla di Enzo Scarantino pur di offrire all’opinione pubblica una qualsiasi “verità” su quel delitto. Una comoda verità. Che ha però coinvolto persone innocenti e le ha tenute nelle carceri speciali per quindici anni. Più che “professionisti”, gli inquirenti del tempo sono stati degli incapaci. A voler essere generosi. A non voler applicare nei confronti di tutto il gruppo dei promotori ed estimatori del “processo trattativa” gli stessi metodi complottistici che loro hanno usato, e continuano a usare nei confronti degli altri.

Prendiamo il procuratore Tescaroli. Era giovane al tempo delle stragi di Capaci e via D’Amelio, ventisette anni, ma aveva votato presto la sua attività, professionale e pubblicistica, a inseguire la dimostrazione del teorema che vuole i capitali delle società di Silvio Berlusconi inquinati dalla mafia. Un’intera carriera, partita da Caltanissetta per approdare a Firenze passando per Roma, che pare destinata solo agli insuccessi, se si eccettua una modesta vittoria su una causa di diffamazione. Addirittura, in questo gioco di specchi di fascicoli aperti e chiusi, lo stesso pm ha più di una volta chiesto l’archiviazione. E né Berlusconi né Marcello Dell’Utri sono mai arrivati a ricoprire l’habitus di imputati di stragi.

Perché è difficile dimostrare l’indimostrabile con la tessitura di un patchwork, fin dai tempi dell’operazione “Oceano”, messa in piedi da alcuni uomini della Direzione Nazionale Antimafia, l’organismo che ha onorato della sua attenzione il leader di Forza Italia non molto tempo dopo la propria nascita nel 1991. Ed è ancora la Dia un anno fa, a “rinverdire” le stanche indagini del dottor Tescaroli con un’informativa che, se gli efficienti uomini dell’antimafia lo consentono, fa un po’ ridere. Attraverso un confronto (cercato ossessivamente) tra le celle telefoniche e i cellulari, tentano di dimostrare che se in un certo periodo dell’estate Giuseppe Graviano era in Sardegna, sicuramente era vicino a Berlusconi. E che se il boss, o suoi parenti, erano in Toscana, magari da quelle parti c’era anche Dell’Utri o un suo congiunto.

Tutto fa brodo, perché chiuso un fascicolo se ne può aprire un altro. E si può sostenere senza pudore che, se ci fossero stati gli (indimostrabili) incontri, la coincidenza chiuderebbe il cerchio, perché proprio in quel periodo Berlusconi preparava la propria entrata in politica. Il regalino ai Due Luca procuratori, Turco e Tescaroli, porta la firma del primo dirigente della polizia di stato Francesco Nannucci. Il quale sarà deluso dal fatto che in un anno nulla sia stato dimostrato a supporto della sua non originale tesi. Anche perché nel frattempo hanno pensato bene a entrare in concorrenza con le spifferazioni di Stato sia Giuseppe Graviano dal palcoscenico del processo di Reggio Calabria “’Ndrangheta stragista” che Salvatore Baiardo in esibizione tv da Giletti e Ranucci, con le successive smentite su Tik Tok.

Esilarante prima e dopo. Così i pm specializzati in patchwork possono continuare a cucire i pezzetti scombinati dell’inchiesta eterna. Il procuratore aggiunto Tescaroli lamenta da sempre di non riuscire a far carriera perché è un inquisitore “scomodo”. Tanto da essersi fatto raccomandare, per arrivare alla posizione che occupa oggi, dall’ex magistrato Palamara (il terzo Luca della storia), come confermato dallo stesso, che fu il potente capo del sindacato delle toghe e membro del Csm, in una dichiarazione a Paolo Ferrari su Libero.

E non viene il dubbio, al procuratore aggiunto di Firenze, del fatto che forse un magistrato che non riesce a portare a termine le proprie indagini ma è costretto ad aprire e chiudere continuamente con archiviazioni sempre la stessa vicenda da trent’anni, non sia affatto “scomodo”, ma forse da biasimare? E non teme il ridicolo, essendo ormai ridotto a contestare il reato di “denegata strage”, per lasciare agli storici la propria verità? Tiziana Maiolo

I soliti deliri del pm anti Cav nell'anniversario della strage. Tescaroli in un libro per i 30 anni dell’attentato agli Uffizi di Firenze: "Bombe finite quando vinse lui". Felice Manti su Il Giornale il 27 Maggio 2023

L'anniversario di una strage diventa il pretesto per paventare un «nesso eziologico», un rapporto causa-effetto, tra la fine della strategia stragista della mafia e la vittoria di Silvio Berlusconi. Una pista investigativa battuta a vuoto resuscita, non con prove certe e verificate ma nella prefazione scritta dal pm Luca Tescaroli del libro Georgofili: le voci, i volti, il dolore a trent'anni dalla strage sulla bomba che esattamente 30 anni fa all'1:04 del 27 maggio 1993 sventrò via dei Georgofili nel cuore di Firenze. Con il sostituto procuratore Luca Turco, il pm indaga sui presunti «mandanti esterni» che pianificarono l'esplosione di un Fiorino imbottito con oltre 300 chili di tritolo a due passi da piazza della Signoria. Che sfregiò la Galleria degli Uffizi. Morirono Dario Capolicchio, Angela Fiume, Fabrizio e le figlie Nadia e Caterina, di soli 50 giorni. Per Cosa nostra furono condannati Totò Riina, Leoluca Bagarella, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro. Da anni si sostiene che ci sia un'unica regia dietro la stagione stragista iniziata per cancellare carcere duro e benefici ai pentiti. La morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, gli attentati di Roma a Maurizio Costanzo e alle basilica di San Giorgio al Velabro e San Giovanni, le bombe in via Palestro a Milano e appunto Firenze sarebbero legate anche al fallito attentato, il 23 gennaio 1994, allo stadio Olimpico. «Perché non venne più riproposto? - si chiede Tescaroli - Il 27 e il 28 marzo di quell'anno si tennero le elezioni politiche, mutò il quadro politico istituzionale e lo stragismo si arenò». Come se la presunta trattativa tra lo Stato e i boss (smontata da sentenze recentissime) «fosse idonea ad aprire nuovi canali relazionali, capace di individuare nuovi referenti politico istituzionali». Come a dire che quella vittoria non solo appagò i boss, ma fu favorita dalle bombe. Cosa aggiunge Tescaroli, che di recente ha nuovamente indagato Berlusconi e Marcello Dell'Utri? Che occorre continuare a indagare «per verificare se sia dimostrabile sul piano processuale una convergenza di interessi di ulteriori soggetti estranei al sodalizio mafioso», plasticamente rappresentata dalla famigerata polaroid fantasma scattata nell'estate del 1992 che sarebbe in mano al manutengolo dei Graviano, Salvatore Baiardo. E che ritrarrebbe assieme Berlusconi, Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino. Baiardo è un propalatore di fesserie che va seminando a pagamento bugie e calunnie a Report e La7», dice il senatore azzurro Maurizio Gasparri. E se questa vicenda fosse una bufala, che ne sarebbe della residua reputazione di chi gli ha dato credito, sui giornali, in tv e in Procura? Possibile che già nel '92 i boss trattassero con un Berlusconi imprenditore, disinteressato alla politica? È corretto che un magistrato riproponga su un libro uno scenario ampiamente smentito da indagini e sentenze? Ci sono segreti investigativi incautamente rivelati? Esiste un profilo di inopportunità, financo meritevole di un'indagine disciplinare? A Via Arenula e al Csm l'ardua sentenza. Altri pm come Antonino Di Matteo hanno passato dei guai per intemerate televisive più innocue. E dire che Tescaroli (penna del Fatto quotidiano) prese un clamoroso abbaglio - come Di Matteo - sul finto pentito Vincenzo Scarantino che lo depistò su Borsellino quando era a Caltanissetta («Nonostante questa sentenza noi gli crediamo ancora», disse il pm dopo l'ennesima assoluzione) e si impuntò sul ruolo di Bruno Contrada, prosciolto dalle accuse sul suo ruolo nelle stragi. A seguire ipotetiche ricostruzioni si sono persi trent'anni, mentre la verità sulle bombe di Capaci e via D'Amelio latitano e l'uccisione del giudice calabrese Antonino Scopelliti è senza verità. Oggi il Csm vuol capire se le toghe in Emilia-Romagna avrebbero chiuso un occhio sui rapporti tra Pd e boss. Invece l'antimafia si è ridotta a inseguire i fantasmi, a ipotizzare indicibili accordi tra Ros e mafia per la cattura di Messina Denaro. A blaterare di credibilità su Chiara Colosimo («Sconcertante che sia stata eletta all'Antimafia») come fa l'europarlamentare Pd Franco Roberti. Che come i suoi predecessori alla Procura antimafia (Pietro Grasso e Federico Cafiero de Raho) si è buttato in politica a sinistra? Tu chiamale, se vuoi, coincidenze.

 Mai accettare ricostruzioni di comodo. La mafia, i falsi miti e i pm che hanno scelto di perdere la faccia: il Riformista voce fuori dal coro. Matteo Renzi su Il Riformista il 27 Maggio 2023 

I lettori de “Il Riformista” che hanno avuto la pazienza di seguirci in questi giorni sanno bene che il nostro quotidiano ha dedicato questa settimana a riflettere sulla mafia e su come la narrazione trentennale di questo Paese abbia creato falsi miti e veri scandali.

Nel ricordare Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e gli uomini della scorta, abbiamo scelto di contestare la ricostruzione allucinante che ha offerto Roberto Scarpinato, senatore, ex pm, grillino, che ha insultato l’intelligenza degli italiani offrendo un racconto di quegli anni viziato dall’ideologia, dalla faziosità, dall’odio politico. Scarpinato è uno di quei (pochi) pm che non sazio di perdere i processi ha scelto di perdere la faccia. E Luca Palamara glielo ha ricordato con dovizia di particolari proprio su queste colonne. Abbiamo pubblicato, poi, con Pandolfini, una riflessione a puntate sui diari di Falcone e Torchiaro ha intervistato Claudio Martelli che volle Falcone al Ministero dopo che i suoi colleghi lo avevano umiliato negandogli l’agibilità professionale a Palermo.

Questo giudizio contrasta con la tiritera a reti unificate, ispirata dal travaglismo, che per anni ci ha consegnato una politica impegnata a far fuori Falcone mentre tutti dovremmo ricordare che la guerriglia a Giovanni Falcone l’ha iniziata prima di tutto una parte del CSM. Lo ha ucciso la mafia, sia chiaro. Ma i suoi detrattori gli ferirono l’anima in modo ingiusto.

E poco importa se siamo accusati dai cantori del pensiero unico giustizialista di fare un giornale di parte. Avevamo promesso di fare de “Il Riformista” non il gazzettino di Italia Viva, ma una voce fuori dal coro. E per questo continueremo a dire la nostra ostinatamente contro corrente.

In molti casi indugiando anche sulle emozioni di chi scrive. Lo ha fatto bene ieri Claudia Fusani raccontando la notte di trent’anni fa in Via dei Georgofili quando la Mafia colpì al cuore l’Italia. E oggi il Presidente della Repubblica sarà a Firenze proprio per la cerimonia in ricordo di quella strage.

In quelle ore – scendendo in piazza come tutti – imparai che davanti al dolore mafioso si reagisce insieme, non dividendosi. Quel corteo che dal Liceo Dante ci portava verso una Piazza Signoria talmente piena da impedire l’afflusso di tutti i ragazzi mi ha segnato la vita. Avevo 18 anni, una maturità in arrivo e tanti sogni nel cassetto.

Sapere che il tritolo aveva colpito al cuore la mia città un anno dopo il sacrificio di Falcone e Borsellino non mi portò solo a iscrivermi a giurisprudenza. Mi insegnò che non avrei mai dovuto accettare una ricostruzione di comodo sulla mafia, da qualunque parte essa provenisse. “Il Riformista” continuerà a farlo, con buona pace di chi ci teme e di chi ci insulta. 

Matteo Renzi (Firenze, 11 gennaio 1975) è un politico italiano e senatore della Repubblica. Ex presidente del Consiglio più giovane della storia italiana (2014-2016), è stato alla guida della Provincia di Firenze dal 2004 al 2009, sindaco di Firenze dal 2009 al 2014. Dal 3 maggio 2023 è direttore editoriale de Il Riformista

Quel boato a notte fonda che non potrò mai scordare. Attentato dei Georgofili, quei ragazzi che, poco distante dal luogo della tragedia, aspettavano il giorno in cui sarebbero diventati carabinieri. Giovanni Maria Jacobazzi su Il Domani il 27 maggio 2023

Pur essendo trascorsi ormai trent'anni, non riesco ancora a dimenticare quel boato fortissimo che fece tremare le possenti mura dell'antico convento dei padri domenicani annesso alla basilica di Santa Maria Novella a Firenze. Il convento ospitava dal 1920 la scuola sottufficiali carabinieri ed io quell’anno, poco più che ventenne, stavo ultimando il 44esimo corso biennale di formazione. La cerimonia di chiusura del corso, con la consegna dei gradi, era prevista per il 28 maggio.

Anche la sera del 26 maggio, pur mancando solo due giorni al termine del corso, il “contrappello” era passato puntuale alle 22.30. Ed alle ore 23.00 era risuonato il silenzio. I fumatori, o chi semplicemente non aveva sonno, come il sottoscritto, avevano aspettato che il sottufficiale di giornata spegnesse le luci ed erano andati in bagno per scambiare qualche parola con il collega che difficilmente, terminato il corso, avrebbe poi più rivisto. Le tecnologie dell'epoca non agevolano certamente i rapporti.

Poco dopo la mezzanotte, comunque, tutti erano tornati al proprio letto. La stanza era grandissima ed ospitava quasi una ventina di allievi. Il fortissimo boato, era circa l’una di notte, provocò uno spostamento d'aria che spalancò con violenza le enormi finestre che davano sul cortile principale. Le luci delle camerata si accesero immediatamente e ci fu dato l'ordine di metterci in divisa. Dopo poco, infatti, iniziò a circolare la voce che ci fosse stata una perdita di gas che aveva provocato una immane esplosione in centro.

Rimanemmo per qualche ora a disposizione e quindi ci venne detto di toglierci la divisa e tornare a letto. La mattina successiva, dopo l'alza bandiera, ascoltammo i racconti di chi era andato sul posto, in particolare del personale del quadro permanente, che descriveva macerie e distruzione ovunque proprio dietro piazza della Signoria, precisamente in via dei Georgofili, distante circa 500 metri in linea d’aria dalla nostra scuola. Ci sarebbero state anche alcune vittime. Di una bomba si iniziò a parlare solo in tarda mattina.

La notizia ci sconvolse tutti. Era difficile pensare alla cerimonia del giorno successivo. I superiori decisero che, anche se in tono minore, la cerimonia ci sarebbe stata comunque perché non doveva passare il messaggio che l’Arma subiva il ricatto dei terroristi.

Nessuna grande uniforme, allora, tutti con la divisa ordinaria e con il gonfalone del comune di Firenze listato a lutto. Si respirava però un’aria molto diversa da quella del 15 gennaio precedente quando i carabinieri del Ros avevano catturato a Palermo Totò Riina, il capo dei capi. Terminata la cerimonia ed indossati i gradi ci salutammo fra la commozione generale. Dopo qualche breve giorno di licenza avremmo raggiunto i reparti. Senza scordare mai quella notte di fine maggio del 1993. 

La strage 30 anni fa. Attentato di via dei Georgofili, a Firenze per la prima volta la mafia sparò nel mucchio. David Romoli su L'Unità il 27 Maggio 2023

Nella notte tra il 26 e il 27 maggio di trent’anni fa, 1993, Cosa nostra alzò il tiro più di quanto avesse mai fatto in precedenza. Portò l’attacco allo Stato nel continente, adottò la strategia dello stragismo indiscriminato, prese di mira non solo persone e cose ma i beni culturali del Paese, la sua ricchezza. La bomba esplose in via dei Georgofili a Firenze, dietro gli Uffizi, a un passo dall’Accademia dei Georgofili, poco dopo l’una di notte. Uccise l’intera famiglia del guardiano dell’accademia, incluse le due figlie, 9 anni la più grande, appena 50 giorni la piccola. Ci rimise la vita anche uno studente di 22 anni, nell’incendio che coinvolse le abitazioni circostanti. I danni al patrimonio culturale furono ingenti: crollò la Torre dei Pulci, fu danneggiato più o meno gravemente un quarto delle opere presenti nella Galleria degli Uffizi.

L’ordigno era stato preparato a Palermo da Gaspare Spatuzza, il bombarolo di Cosa nostra, uomo di fiducia dei fratelli Graviano, e di lì portato a Prato. Il gruppo di attentatori, oltre che da Spatuzza, era composto da Cosimo Lo Nigro, Salvatore Benigno e Francesco Giuliano, tutti “uomini d’onore” dei mandamenti di Brancaccio, quello dei Graviano, e di Corso dei Mille. La sera del 26 maggio Giuliano e Spatuzza rubarono un furgone Fiat Fiorino, lo spostarono a Prato per caricare l’esplosivo, nella notte fu parcheggiato in via dei Georgofili da Giuliano e Lo Nigro che lo fecero poi esplodere a tarda notte. Ogni strage ha i suoi misteri, veri o presunti che siano: quello di via dei Georgofili sarebbe costituito da un centinaio di chili di esplosivo T4, tra i più deflagranti, che sarebbe stato aggiunto ai circa 150 kg trasportati dalla Sicilia da mani sconosciute.

Non era il primo atto nella strategia d’attacco decisa dall’ala dura dei corleonesi, quella che faceva capo a Luchino Bagarella, dopo l’arresto di Totò Riina, il 15 gennaio di quello stesso anno. La sera del 14 maggio una Fiat Uno rubata e imbottita d’esplosivo era stata fatta esplodere in via Fauro a Roma, molto vicino agli studi dove veniva registrato il Maurizio Costanzo Show. A salvare il conduttore e la moglie, Maria De Filippi, era stata la decisione di lasciare gli studi su una macchina diversa dal solito. A premere il fatale pulsante erano i soliti Lo Nigro e Benigno che restarono spiazzati dalla macchina sconosciuta. Benigno premette il pulsante con un provvidenziale attimo di ritardo. Costanzo e De Filippi rimasero illesi, 24 persone rimasero invece ferite.

Il tentativo di assassinare il più popolare conduttore della tv italiana nel cuore della capitale, lontano da Palermo, era un segnale chiaro di quanto si fosse alzato il livello dello scontro. Costanzo prendeva di mira continuamente Cosa nostra: la decisione di toglierlo di mezzo poteva ancora sembrare consona allo stile della Cosa nostra dominata dai bellicosi e spietati corleonesi. Via dei Georgofili segnava invece un passo in avanti drastico sulla strada della guerra totale. Per la prima volta Cosa nostra sparava nel mucchio, falciava non magistrati, poliziotti o rivali interni ma passanti qualsiasi. Sceglieva lo stragismo.

L’attentato fu rivendicato, come tutti quelli di Cosa nostra in quella fase, dalla fantomatica “Falange Armata”. Nessuno, dal premier Carlo Azeglio Ciampi, il primo presidente del consiglio “tecnico” nella storia della Repubblica e capo di un governo costituitosi meno di un mese prima, al ministro degli Interni Nicola Mancino, ebbe mai dubbi sulla matrice mafiosa della strage anche se inevitabilmente, nell’ultimo anno della prima Repubblica, in una fase segnata da massima incertezza e altrettanto elevato rischio, il sospetto di commistioni con soggetti diversi dalle cosche dell’isola era inevitabile.

Il 27 luglio il gruppo dinamitardo colpì ancora, stavolta con una prova di forza anche più temibile perché prese di mira contemporaneamente le due principali città italiane, Roma e Milano. L’attentato più grave fu quello di via Palestro, nel capoluogo lombardo. La sera del 27 luglio i vigili del fuoco intervennero dopo che un agente aveva segnalato che da una Fiat Uno parcheggiata di fronte al Padiglione d’arte contemporanea usciva del fumo. L’autobomba esplose mentre i vigili erano al lavoro: uccise due di loro, un agente e un immigrato che dormiva su una panchina lì vicino, danneggiò le opere del Padiglione che però se la videro anche peggio quando, poche ore dopo, esplose anche una sacca di gas formatasi perché il crollo precedente aveva spezzato le tubature. Anche qui non manca il mistero di turno. Chi materialmente abbia portato in loco l’autobomba e provocato il botto è a tutt’oggi ignoto. I bombaroli in trasferta avevano preparato tutto prima di spostarsi a Roma ma la fase esecutiva non la gestirono loro. Un testimone oculare vide uscire dalla macchina esplosiva una bionda elegante. Possibile che Cosa nostra si fosse affidata a una femmina?

A Roma non ci furono vittime ma il livello degli obiettivi colpiti bastava e avanzava. I picciotti rubarono tre Fiat Uno il 28 luglio. Lo Nigro lasciò la prima, imbottita d’esplosivo, di fronte alla chiesa di San Giorgio in Velabro. Spatuzza e Giuliano parcheggiarono la seconda autobomba di fronte a San Giovanni in Laterano. Poi se ne andarono tutti insieme sulla terza Fiat, guidata da Benigno. Esplosero a distanza di 4 minuti l’una dall’altra, ferirono 24 persone e danneggiarono seriamente le due chiese. Ma il vero effetto esplosivo fu psicologico dal momento che erano state colpite due delle chiese più famose e antiche di Roma.

Prima di passare all’azione, nel pomeriggio, Spatuzza aveva inviato due lettere vergate da Graviano, indirizzate al Corriere della Sera e al Messaggero. Promettevano sfracelli. Minacciavano di distruggere “centinaia di vite umane”. Non era solo un modo dire. Ci provarono davvero pochi mesi dopo allo stadio Olimpico di Roma il 23 gennaio 1994, una domenica. L’autobomba, in quel caso, avrebbe dovuto esplodere alla fine della partita, mentre passava un furgone pieno di carabinieri di stanza. Con la folla in uscita dallo stadio le vittime, con e senza divisa, sarebbero state innumerevoli. Il telecomando non funzionò, la strage più efferata fu evitata da un caso miracoloso.

Poi, all’improvviso tutto si fermò. Le bombe smisero di esplodere. Difficile dire cosa fosse cambiato. Qual era l’obiettivo di Cosa nostra? Probabilmente si trattava di quello che Giovanni Bianconi definisce “un dialogo a suon di bombe” finalizzato a ottenere l’abrogazione o l’allentamento del 41 bis, l’allora neonato regime di carcere duro per i mafiosi. Nel caos di quell’anno è possibile che si siano intrecciate anche altre mire, miraggi golpisti inclusi. Ma probabilmente quel che decretò la fine dello stragismo mafioso fu la sconfitta dei duri, Bagarella e i Graviano, arrestati e messi in scacco da quella parte di Cosa nostra che aveva subìto senza crederci troppo la guerra totale decisa da Totò “u Curtu” e proseguita dal feroce cognato Leoluca Bagarella. E se c’era un boss che da quella strategia proprio non era convinto era proprio l’uomo chiamato “u Tratturi”, il trattore: Bernardo Provenzano. David Romoli

L'attacco di Cosa Nostra al cuore del Rinascimento. La strage dei Georgofili 30 anni dopo, la fine del mondo era arrivata a Firenze: la poesia di Nadia e il tramonto di Messina Denaro. Claudia Fusani su Il Riformista il 26 Maggio 2023 

Ogni volta che ci passo, ed è quasi ogni settimana, è come un clic nella testa. Osservo l’olivo e i suoi rami, dolcissimi seppur di bronzo, e ricordo che le macerie, quella notte arrivano più o meno lì, a circa quattro metri. Il palazzo del Pulci non c’era più, solo massi, anche enormi, arredi, cose della vita. I vigili del fuoco erano lì sopra, messi in fila, quasi una catena. Fu un momento di silenzio surreale in quella fine del mondo: “Ecco, tieni, prendi, dai, via via …”. Si passavano un fagotto chiaro, un bombolotto di stracci, l’ultimo vigile della catena entrò nell’ambulanza che era riuscita ad arrivare fino in via dei Girolami. Poi sparì tra le sirene. Noi tutti si rimase lì. Muti, come muti eravamo da ore.

Fazzoletti bagnati sul naso, l’odore del tritolo, del sangue, della paura e della morte dentro le ossa, la pelle, il cervello. Sapevamo che in quel fagotto c’era una bambina e non poteva che essere la più piccola delle due sorelline. Si chiamava Caterina Nencioni. La speranza che fosse sopravvissuta a quell’inferno durò meno di mezz’ora. Aveva 50 giorni. Nadia, la sorella di 9 anni, il babbo Fabrizio, un vigile urbano, la mamma Angela, custode dell’Accademia dei Georgofili motivo per cui ebbe assegnato l’appartamento nella Torre, furono estratti dopo ore in quella lunga notte che non finiva mai. Era l’una di notte. Lavoravo come cronista di nera e giudiziaria alla redazione di Repubblica a Firenze.

Il lavoro finiva sempre tardi e cenare tra le 23 e la mezzanotte quasi la norma. Stavo guardando un film, “Sotto tiro”, Nick Nolte che fa il fotoreporter, il fronte sandinista, i ribelli, l’attore che sta per essere giustiziato… bum. Un boato enorme fa tremare i vetri di casa poco dopo Porta Romana, sconquassa la dolce notte di maggio. Partono sirene, allarmi, il centro storico piomba nel buio totale. I telefoni del “giro di nera” – polizia, carabinieri, vigili del fuoco e vigili urbani – non rispondono, occupati, staccati. Riesco finalmente a parlare con una stazione distaccata dei vigili del fuoco. “Probabile grossa esplosione di gas, in pieno cento storico, vicino agli Uffizi…”. Un veloce giro di telefonate con il capo della redazione di Firenze e i colleghi Fabio Galati e Gianluca Monastra. Non si capisce nulla. Claudio Giua, il caporedattore, ci dice “avviciniamoci il più possibile agli Uffizi…”.

Lascio il motorino vicino al Ponte Vecchio, e già davanti a palazzo Pitti vedo gente che cammina confusa, piangono, si stringono, qualcuno è a terra, spaventati, altri scappano, chiedo, non riescono a parlare, tengono le mani sulle orecchie. Ci saranno seicento metri tra ponte Vecchio e via dei Georgofili, stradine e vicoli che si conoscono a memoria e che invece non riconoscevo più: colonne di fumo, polvere, sirene, gente accovacciata in terra che chiedeva aiuto, che non sapeva dov’era. Non so dire quanto tempo fosse passato dalla prima esplosione. Di sicuro la zona non era stata ancora trincerata né messa in sicurezza. si vedeva qualche uomo in divisa che cercava di spingere le persone lontano, oltre l’Arno. Cos’era stato? Gas? Oppure? Ed era finita lì? 

Via Lambertesca era coperta da una strana polvere, era tutto grigio, l’odore insopportabile, le fiamme, cadono tegole dai tetti. Si prova a prenderla un po’ più larga, in Chiasso del Buco si entra, anche in chiasso dei Baroncelli fino ad un “dove” irriconoscibile, via Lambertesca, appunto, all’angolo con via dei Georgofili. Quella che prima sembrava “nebbia” da qui è chiaro che sono macerie e polvere. La fine del mondo era arrivata a Firenze, a cento passi da piazza della Signoria. I colleghi junior, io, Fabio e Gianluca, rimaniamo lì, un cellulare in tre. Il caporedattore intanto ha avvisato Roma che è necessario ribattere perché “l’esplosione, se anche fosse gas, ha attaccato il cuore del Rinascimento”. I senior, si erano aggiunti Paolo Vagheggi e Franca Selvatici, vanno in redazione, in via Maggio, a scrivere. Noi restiamo lì, vedere, capire, annotare, restare lucidi. Non fu facile. Tutto è stato irripetibile. E indimenticabile. Metto qui in fila qualche frammento di quella notte. Quelli per me decisivi. Via via che si posa un po’ la polvere, cessano gli allarmi e turisti e residenti sono ormai lontani, resta il rumore dei generatori elettrici e delle pompe d’acqua, l’odore di qualcosa che è anche gas ma non solo e una montagna di macerie davanti agli occhi.

Il cratere lasciato dal Fiorino imbottito con 277 chili di esplosivo (tritolo, T4, pentrite, nitroglicerina) verrà fuori solo dopo giorni (3 metri di larghezza e due di profondità). Quella notte si vedono solo macerie e macerie e macerie. I periti scrissero che l’esplosione provocò “la devastazione del tessuto urbano del centro storico per un’estensione di ben 12 ettari, con un impatto bellico”. Alzando gli occhi, davanti a quella che era la torre del Pulci, ci sono finestre aperte e soffitti a cassettoni anneriti. Una casa affittata da studenti. I vigili del fuoco hanno provato a salvare Dario Capolicchio ma le fiamme avevano già mangiato la casa. Gas, solo gas? Dopo un po’ di tempo, non so dire quanto, ma prima che venga estratto il fagotto con i resti della piccola Nadia, cammina in questa devastazione il capo della Digos, Franco Gabrielli, con un paio di uomini. Hanno gli occhi all’insù, sono sgomenti, guardano la parete antistante all’accademia rimasta miracolosamente in piedi.

“Considera – riflettono – che l’esplosivo in questo imbuto di strade ha raddoppiato la potenza. E i danni”. La parete è bucherellata come una groviera. Fori concavi, tutti anche se più o meno grandi. “Ecco perché non può essere un’esplosione di gas. L’esplosione è stata esterna ai palazzi”. E solo una bomba può aver fatto quel macello. È stato forse il primo vero sopralluogo. Si attende il procuratore, Piero Luigi Vigna. Ha firmato alcune tra le inchieste più importanti di terrorismo e sequestri di persona. Prima di Vigna, s’intravede Gabriele Chelazzi, il suo sostituto “preferito” (senza nulla togliere agli altri che poi seguiranno le inchieste e i processi: Fleury, Crini e Nicolosi). Chelazzi si lascia avvicinare, sta camminando solo nel piazzale degli Uffizi, buio totale. “Lo senti cosa c’è sotto i piedi? Vetri, camminiamo su un tappeto di vetri. Hanno voluto colpire il cuore di Firenze, dell’arte, del Rinascimento”. Chi? “Non lo so ma…”. Ma un anno prima c’era stata Capaci, poi via D’Amelio e due settimane prima, il 14 maggio, in via Fauro a Roma, una macchina era stata imbottita di esplosivo per Maurizio Costanzo. Attentato fallito. Se Falcone diceva follow the money, Chelazzi ha sempre preferito unire i punti. Mi piace pensare che il primo momento in cui hanno unito i punti sia stato quando ho visti Vigna, Gabrielli, Chelazzi appoggiati al colonnato degli Uffizi, testa bassa, facce tese: quella notte cambiò le loro vite professionali.

Qualche flash back, andata e ritorno dall’angolo tra via Lambertesca e via dei Georgofili quella notte-mattina del 27 maggio 1993. Le parole mafia e Cosa Nostra presero tecnicamente cittadinanza sui fascicoli dell’indagine (strage di stampo mafioso) nel giro di un paio di settimane. Forse un mese. Chelazzi univa i puntini, appunto, ed aveva iniziato dal 1992. Quando due mesi dopo, la notte del 27 luglio 1993, prima a Milano e poi a Roma 3, il tritolo esplose in via Palestro e poi a San Giovanni e a San Giorgio al Velabro, la “linea” di Chelazzi disegnò una figura chiara: Cosa Nostra stava attaccando il cuore dello Stato, il patrimonio artistico e religioso e lo faceva fuori dalla Sicilia. Un salto di qualità senza precedenti. Circa sei mesi dopo – era ottobre – il procuratore Vigna convocò i giornalisti nel suo ufficio. Lo faceva raramente. In quel periodo un po’ di più. In quella stanza, c’erano tutti “i ragazzi” e “le ragazze” della sua squadra: Chelazzi, Crini, Nicolosi, Margherita Cassano (oggi procuratore generale in Cassazione) e Silvia della Monica che aveva passato le sue ai tempi del mostro di Firenze. 

“Questa procura – ci disse – ha sollevato conflitto per la titolarità di tutte le stragi in continente di Cosa Nostra”. Vinse il procuratore Vigna, a parità di numero di morti (5 a Firenze e 5 a Milano), prevalse l’interpretazione che eravamo di fronte ad un unico disegno stragista, da via Fauro fino a San Giovanni passando per Milano. Non fu facile. I professionisti dell’antimafia nicchiarono: “Cosa ne sa Firenze…”. Iniziò così uno dei periodi più duri ed entusiasmanti di quella procura e di quella squadra di magistrati ed investigatori. Tutte eccellenze. Le indagini, l’arresto di Brusca, l’inizio della sua collaborazione, le indagini dal basso che misero in fila i nomi del gruppo di fuoco Giuseppe Barranca, Cosimo Lo Nigro, Gaspare Spatuzza, Francesco Giuliano e poi i mandati, Totò Riina, Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro, i fratelli Graviano. Un centinaio gli imputati chiamati nell’aula bunker di Firenze nell’ex convento di Santa Verdiana. In questa aula per la prima volta Giuseppe Brusca parlò del “papello” con le richieste che Cosa Nostra aveva presentato allo Stato per cessare la stagione delle bombe e delle stragi.

Ma torniamo a quella notte. Sono le quattro del mattino quando la catena di braccia in fila porta fuori il fagotto bianco con i resti della piccola Caterina. Appena 50 giorni. Albeggia. Sono stati sgomberati alberghi e abitazioni. Il centro storico di Firenze è un campo di battaglia. La polvere sta calando. Le fiamme sono spente. L’odore, quello no, è ovunque. La luce del giorno misura la tragedia. E la montagna di macerie. S’intravedono i poveri resti di vite che sono state felici: fotografie, quaderni, libri, peluche, abiti. Repubblica è uscita in prima pagina: “Bomba nel cuore di Firenze. Il sospetto su Cosa Nostra”. I giornali stranieri chiamano in redazione, “Firenze come Palermo?”. Il 16 gennaio scorso è stato arrestato l’unico boss che ancora mancava all’appello: Matteo Messina Denaro. I carabinieri e la procura di Palermo hanno voluto chiamare l’indagine “Operazione tramonto”. Tramonto è il titolo di una bellissima poesia scritta da Nadia, 9 anni, il 24 maggio, tre giorni prima di morire: “Il pomeriggio se ne va/il tramonto si avvicina/un momento stupendo/il sole sta andando via (a letto)/è già sera/ tutto è finito”. Probabilmente c’è ancora da scoprire su quegli anni. Non è finita. Tra i tanti insegnamenti di quei giorni e di quell’inchiesta c’è che esiste una verità storica e una processuale. Quasi mai coincidono.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

30 anni fa la strage di Firenze: un filo la lega alla Trattativa Stato-mafia. Stefano Baudino su L'Indipendente il 26 Maggio 2023.

Il 27 maggio 1993, un boato risvegliò Firenze poco dopo l’una di notte. Un Fiorino imbottito con 250 chili di tritolo esplose sotto la Torre dei Pulci, nei pressi della Galleria degli Uffizi. Tra le macerie furono ritrovati i corpi di cinque vittime, tra cui quelli di due piccole bambine. L’attentato porta ufficialmente la firma degli uomini di Cosa Nostra, ma non rappresenta un passaggio estemporaneo. La strage di Via dei Georgofili – uno dei tanti episodi dimenticati che hanno segnato la storia recente del nostro Paese – è al contrario un tassello fondamentale della strategia stragista attraverso cui la mafia ricattò lo Stato italiano, che aveva avuto la sciagurata idea di lanciare segnali di dialogo ai suoi rappresentanti. Un progetto eversivo che, molto probabilmente, coinvolse anche entità esterne alle gerarchie mafiose, unite nell’ottica della “destabilizzazione”.

La strage di Via dei Georgofili fu anticipata da un fallito attentato andato in scena il 14 maggio 1993 in via Ruggero Fauro, a Roma. L’obiettivo di Cosa Nostra era in quel caso quello di uccidere il conduttore televisivo Maurizio Costanzo, impegnato a promuovere la lotta alla mafia all’interno delle sue trasmissioni, a cui aveva partecipato anche il giudice Giovanni Falcone. Al momento della detonazione, avvenuta alle 21.40, Costanzo era appena uscito a bordo di un auto dal Teatro Parioli, dove registrava il suo Maurizio Costanzo Show, ma si salvò miracolosamente insieme alla sua compagna Maria De Filippi.

Tredici giorni più tardi, nella notte tra il 26 ed il 27 maggio, l’attentato di Firenze provocò invece conseguenze molto più gravi, lasciando a terra cinque morti. A perdere la vita, insieme ai loro giovani genitori, furono anche Nadia e Caterina Nencioni, due bambine rispettivamente di nove anni e cinquanta giorni di vita, e uno studente di ventidue anni, Dario Capolicchio, che morì bruciato vivo. Quaranta le persone rimaste ferite. Il venticinque per cento delle opere presenti nella Galleria degli Uffizi subì danni, così come la Chiesa di S. Stefano e Cecilia. Insomma, venne lanciato un attacco frontale allo Stato con modalità del tutto simili a quelle che, per tutti gli Settanta fino allo strage di Bologna, avevano caratterizzato gli attentati della “strategia della tensione“. La strage, come avverrà per molti altri attentati che caratterizzarono quella stagione, sarà rivendicata dalla misteriosa sigla della “Falange Armata”.

Per l’attentato, tra i mandanti vennero condannati i membri della Commissione di Cosa Nostra, tra cui Totò Riina, Bernardo Provenzano, Matteo Messina Denaro e i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. Tra gli esecutori materiali puniti dalle condanne, spiccano invece i nomi di Giuseppe Barranca, Cosimo Lo Nigro e Gaspare Spatuzza. In seguito alle rivelazioni di quest’ultimo, che confermò le sue responsabilità nell’attentato, venne processato e condannato anche il boss Francesco Tagliavia, responsabile di aver fornito l’esplosivo per l’attentato.

Proprio la sentenza del processo “Tagliavia” ha ufficialmente collegato le modalità e la tempistica dell’attentato in Via dei Georgofili alla cosiddetta “Trattativa Stato-mafia“, inaugurata dai vertici del Ros dei Carabinieri nella primavera del 1992, nei giorni intercorsi tra la morte di Giovanni Falcone e quella di Paolo Borsellino. All’invito al dialogo, trasmesso ai mafiosi dall’ex sindaco mafioso corleonese Vito Ciancimino, Totò Riina rispose con il famoso “papello”, in cui Cosa Nostra chiedeva allo Stato importanti benefici carcerari (tra cui l’abolizione del 41-bis e dell’ergastolo) in cambio della fine delle violenze.

“Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des; L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia; l’obiettivo che ci si prefiggeva, quantomeno al suo avvio, era di trovare un terreno d’intesa con Cosa Nostra per far cessare la sequenza delle stragi”, scrisse nel 2012 la Corte d’Assise di Firenze. “Iniziata dopo la strage di Capaci – ricostruirono i giudici -, la trattativa si interruppe con l’attentato di via D’Amelio […] Per tutto il resto del 1992 Cosa Nostra restò in attesa che si ripristinassero i canali interrotti e fermò. Senza però mai rinunciarvi, ogni ulteriore iniziativa d’attacco, motivata dal fatto che proprio lo Stato, per primo, si era fatto sotto“. Dunque, “per stimolare una riapertura dei contatti e dare prova della sua determinazione, e anche perché furente per l’arresto di Riina, dal maggio del ’93 […] l’ala più oltranzista […] riprese a far esplodere le bombe […] in modo che lo Stato capisse e si piegasse. Ed era certo che lo Stato avrebbe capito proprio perché la trattativa era stata interrotta”.

Tale verità, nel 2016, è stata ufficializzata anche dalla sentenza di Appello, in cui si legge che “l’esistenza” della Trattativa è “comprovata dall’avvio poi interrotto di iniziali contatti emersi tra rappresentanti politici locali e delle istituzioni e vertici mafiosi” ed è “logicamente postulata dalla stessa prosecuzione della strategia stragista“, dal momento che il ricatto “non avrebbe senso alcuno se non fosse scaturita la percezione e la riconoscibilità degli obbiettivi verso la presunta controparte”. I giudici hanno dunque considerato provato che, in seguito alla prima fase della trattativa, che si arenò dopo la strage di via D’Amelio, “la strategia stragista proseguì alimentata dalla convinzione che lo Stato avrebbe compreso la natura dell’obiettivo del ricatto proprio perché vi era stata quella interruzione”.

La storia ci consegna poi altre due pagine che paiono significative. All’indomani delle bombe di Via Fauro e agli Uffizi, il Consiglio dei ministri presieduto da Carlo Azeglio Ciampi – in cui Giovanni Conso ricopriva la carica di ministro della Giustizia – scelse di destituire dal ruolo di capo dell’Amministrazione penitenziaria, senza nessun margine di preavviso, Nicolò Amato, strenuo difensore della “linea dura” sull’applicazione del 41-bis. Come suo successore venne individuato il “morbido” Adalberto Capriotti, magistrato cattolico legato al Vaticano, estremamente garantista. Pochi mesi dopo lo scoppio, nel mese di luglio, delle bombe di Via Palestro a Milano e delle basiliche di San Giorgio al Velabro e San Giovanni Laterano a Roma – nuovi episodi della strategia stragista – il ministro Giovanni Conso decise di non rinnovare il “carcere duro” a 334 mafiosi, restituendoli dunque al carcere ordinario.

Sulla “Trattativa Stato-mafia” è nato un processo che ha visto imputati, per il reato di “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”, uomini delle istituzioni – tra cui gli ufficiali del Ros – e i vertici della mafia. In primo grado i Carabinieri hanno subito ingenti condanne, in Appello sono stati assolti “perché il fatto non costituisce reato“, mentre in Cassazione (la sentenza è stata emessa lo scorso 27 aprile) sono stati assolti in via definitiva “per non aver commesso il fatto“. Dopo essere stati colpiti dalle condanne nei primi due gradi di giudizio, a causa della riqualificazione del reato in “tentata minaccia”, i boss di Cosa Nostra hanno invece potuto beneficiare della prescrizione. Immediata era stata la reazione dell’Associazione dei familiari delle vittime di Via dei Georgofili dopo l’uscita del verdetto: “Il fatto storico, inoppugnabile, che resta, è che la trattativa Stato-mafia, interrotta con la cattura di Riina, portò alle stragi del 1993, e al sangue innocente di Caterina e Nadia Nencioni, dei loro genitori, e di Dario Capolicchio”. [di Stefano Baudino]

1993, l’anno buio della Repubblica: un mistero che resiste da 30 anni. Lirio Abbate su La Repubblica il 26 Maggio 2023

Il 27 maggio la strage di via dei Georgofili a Firenze inaugurò la stagione delle bombe mafiose contro i monumenti. Per quell’attentato sono stati condannati gli esecutori e chi li armò. Ma la caccia ai mandanti occulti non si è mai fermata

Ci sono ancora i nomi di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri scritti sul fascicolo dell'inchiesta sui mandanti delle stragi del biennio 1993 e 1994. Un'inchiesta prorogata più volte dal giudice per le indagini preliminari su richiesta dei magistrati della procura di Firenze. I pm l'hanno motivata fornendo al gip nuovi elementi che sostengono la necessità di continuare ad indagare sull'ex premier e sul suo amico e co-fondatore di Forza Italia. 

All'inizio ci sono state le dichiarazioni in aula a Reggio Calabria del boss Giuseppe Graviano, autore delle stragi, il quale ha saputo calcolare le uscite pubbliche, lanciando messaggi a Berlusconi e allo stesso tempo sostenendo che l'ex presidente del Consiglio non aveva rispettato "i patti" con la famiglia Graviano. Il boss di Brancaccio, Matteo Messina Denaro e Leoluca Bagarella sono i protagonisti delle bombe a Roma, Milano e Firenze. E dopo vent'anni di detenzione trascorsi in silenzio, Giuseppe Graviano ha iniziato a lanciare pesanti messaggi dal carcere rivolti a Berlusconi, nel tentativo di tornare libero, o ancor di più, di ottenere una grossa somma di denaro. Tutta questa storia, legata anche alla strage di via dei Georgofili del 26 maggio 1993, ha portato i pm fiorentini ad indagare sui due fondatori di Forza Italia, per accertare se vi sia stato un dialogo fra loro e i boss di Cosa nostra. Non risulta alcuna denuncia per calunnia presentata contro il capomafia palermitano. 

Prima che iniziasse a fare dichiarazioni in aula, Giuseppe Graviano, intercettato anni fa nella sala colloqui con il figlio Michele, si sentiva potente, grazie ai segreti di quella stagione delle bombe al Nord, e parlando di Berlusconi e dei suoi affari diceva: "Queste persone così potenti dipendono da me". Dopo di che fu visto alzarsi dalla sedia, allargare le braccia e battersi il petto con la mano destra scandendo: "Qui tutto dipende da me". Sono trascorsi gli anni, e qualcosa è cambiato. È sceso in campo il factotum dei Graviano, Salvatore Baiardo, anche lui in giro a seminare messaggi dal tono ricattatorio e allo stesso tempo il boss ha modificato la sua strategia in carcere: non più silenzio, ma sussurri. 

Il 1993 è stato uno degli anni più bui della vita della Repubblica, con Roma, Milano e Firenze che divennero scenario di stragi terroristico eversive. Le bombe provocarono la morte di dieci innocenti, il ferimento di 96 persone, danni ingenti e irreparabili al patrimonio artistico. Portarono distruzione, paura e insicurezza, nell'arco di 75 giorni, dal 14 maggio al 28 luglio. L'aggressione mafiosa rappresentò il momento di massimo pericolo per la nostra democrazia. All'1,04 del 27 maggio in via dei Georgofili esplode un ordigno collocato in un Fiorino. Muoiono Angela e Fabrizio Nencioni, le loro bambine Nadia e Caterina, e lo studente Dario Capolicchio, mentre dormivano nelle loro abitazioni. In 38 restano feriti, e viene distrutta la Torre dei Pulci, sede dell'Accademia dei Georgofili, e gravemente danneggiati la Chiesa di Santo Stefano e Cecilia e il complesso degli Uffizi, con danni patrimoniali enormi, per circa trenta miliardi di lire. Gli effetti dell'esplosione si sono propagati per circa dodici ettari nel centro di Firenze. L'allora presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi ha temuto in quel periodo che stesse per accadere qualcosa di oscuro per la tenuta democratica del Paese. 

I processi che si sono conclusi con pesanti condanne hanno accertato alcune verità. I magistrati evidenziano come "dai processi celebrati, sono emersi spunti investigativi che impongono di continuare a indagare per verificare se sia dimostrabile sul piano processuale una convergenza di interessi di ulteriori soggetti estranei al sodalizio mafioso nell'ideazione e nell'esecuzione delle stragi". Per questo motivo vanno ricordati "alcuni interrogativi rimasti insoluti le cui risposte potrebbero squarciare i veli che avvolgono i cosiddetti mandanti a volto coperto".

Come ha detto nei giorni scorsi il procuratore aggiunto Luca Tescaroli, titolare dell'inchiesta sulle stragi, partecipando ad un incontro all'università di Pisa: "Si continuerà a indagare non solo perché questo è un obbligo giuridico, ma perché è la memoria delle vittime innocenti e del pericolo generato per la nostra democrazia, è la coscienza critica e morale della società civile che impone questo dovere, la ricerca della verità senza di che non c'è giustizia. E ci auguriamo di trovare il filo conduttore che ci consenta di individuare tali responsabilità, ove esistenti". I quesiti irrisolti e gli spunti investigativi riguardano i contatti fra un appartenente all'estrema destra come Paolo Bellini, condannato per la strage del 2 agosto a Bologna e i mafiosi corleonesi nel periodo in cui pensavano alle bombe al Nord. I pm vogliono accertare il ruolo e l'identità di una donna che avrebbe preso parte alla strage di Milano, e se la decisione dei vertici di Cosa nostra di queste stragi fu condivisa con soggetti estranei. E perché dopo aver fallito l'attentato all'Olimpico il 23 gennaio 1994 la campagna stragista si fermò. A marzo di quell'anno si tennero le elezioni politiche, mutò il quadro politico istituzionale, Silvio Berlusconi divenne il presidente del Consiglio e lo stragismo marcato Cosa nostra si arenò. Le indagini adesso proseguono.

 Trent’anni dalla strage dei Gergofili a Firenze: l’ultimo miglio per la verità. Nella notte tra il 26 e il 27 maggio del 1993 un’autobomba mafiosa sterminò una famiglia e uccise uno studente. La procura toscana lavora ancora al filone politico della strategia di Cosa nostra. Ecco cosa c’è da sapere su quella stagione di tritolo e patti. Enrico Bellavia su L'Espresso il 25 Maggio 2023

Il 27 maggio, ma in realtà accadde nella notte tra il 26 e il 27, è il 30° anniversario della strage di via dei Georgofili, a Firenze. Cinque i morti e 48 feriti. Persero la vita: la custode dell’Accademia, Angela Fiume, il marito vigile urbano di San Casciano Val di Pesa, Federico Nencioni e le loro figlie, Caterina di appena 50 giorni e Nadia Nencioni, 9 anni. Rimase ucciso anche lo studente palermitano Dario Capolicchio che dormiva con la fidanzata. La ragazza rimase ferita ma si salvò. La madre, Giovanna Maggiani Chelli, scomparsa nel 2019, ha speso la sua vita per la verità sull’eccidio. 

La strage di via dei Georgofili arriva a un anno di distanza dall’estate siciliana degli eccidi siciliani del 1992, Capaci e via D’Amelio. Ma il disegno mafioso e non solo è unico. La Cosa nostra corleonese di Totò Riina, dopo il colpo subito con la conclusione del maxiprocesso, all’inizio del 1992, decide di sbarazzarsi dei vecchi collegamenti politici e di eliminare chi l’aveva ostacolata e minacciava di farlo ancora.

Comincia il 12 marzo 1992 con l’eurodeputato Salvo Lima, uomo di Giulio Andreotti in Sicilia e affonda la candidatura del sette volte presidente del Consiglio alla presidenza della Repubblica. All’indomani della strage di Capaci sarà eletto Oscar Luigi Scalfaro.

La campagna di sangue e tritolo, l’esplosivo che sarà la firma macabra di tutti gli eccidi, consumati e tentati, continua con la strage di Capaci e 58 giorni dopo il 19 luglio del 1992, prossimo 31° anniversario, con l’uccisione di Paolo Borsellino e della sua scorta (5 poliziotti, tra cui Emanuela Loi, unica donna delle scorte morta in servizio) in via D’Amelio a Palermo.

Lo Stato reagisce con il 41 bis, il carcere duro per i mafiosi detenuti che vengono trasferiti a Pianosa e all’Asinara. Nel mirino ci sono altri politici, Calogero Mannino (Dc), Claudio Martelli (Psi) e il magistrato Piero Grasso che scampa a un attentato.

Ma sul finire del 1992, Cosa nostra sposta l’attenzione dalla Sicilia al centro nord del Paese. Colpendo il patrimonio storico per dare una prova di forza distruttiva e gettare nel panico istituzioni e popolazione. 

Le prove generali, quasi un avvertimento, il 5 novembre del 1992 quando viene fatto trovare un proiettile di artiglieria al Giardino dei Boboli a Firenze. 

Il 15 gennaio del 1993 viene arrestato Totò Riina ma la strategia continua. La realizzano: Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano, oggi tutti in carcere. 

Il primo attentato avviene a Roma, in via Ruggero Fauro ai Parioli, il 14 maggio del 1993: scampano alla morte Maurizio Costanzo e la moglie. Segue, pochi giorni dopo, l’attentato ai Georgofili.

Il 27 luglio 1993 a Milano, un’altra autobomba uccide in via Palestro altre cinque persone. In contemporanea, sempre il 27 a Roma le bombe che non fanno vittime a San Giorgio al Velabro e alla Basilica di San Giovanni.

È in preparazione un ultimo attentato eclatante in via dei Gladiatori a Roma, in occasione di una partita all’Olimpico contro un bus di carabinieri che dovrebbe fare almeno 200 morti. Inizialmente è stato datato a ottobre, poi certamente al 23 gennaio 1994.

Il 26 gennaio del 1994 scende in campo Silvio Berlusconi: con il celebre annuncio tv: “L’Italia è il Paese che amo”

Il 27 gennaio del 1994 a Milano vengono arrestati Giuseppe Graviano e il fratello Filippo. Da quel momento le stragi finiscono. 

Perché?

Questo è il cuore del problema: ci si arrovellò il pm di Firenze Gabriele Chelazzi, che in tempi record tra il 1996 e il 2002 concluse i processi contro i mandanti e esecutori mafiosi e morì, stroncato da un infarto, nel 2003 mentre lavorava alla ricostruzione del contesto politico delle stragi. Un lavoro che è tuttora in corso.

Cosa sappiamo?

Nel 2008 inizia a collaborare ufficialmente con la giustizia Gaspare Spatuzza, luogotenente di Graviano. Riscrive lui la vera storia della strage di via D’Amelio e racconta quel che sa, per avervi partecipato, alla ricostruzione delle stragi al Nord. Chiama in causa tra gli altri Francesco Tagliavia. Nella sentenza di condanna di quest’ultimo, a Firenze, 2016, poi ribadita ulteriormente in Cassazione nel 2017, si fa esplicito riferimento alla trattativa.

Ma cos’è questa trattativa?

È pacifico che i carabinieri del generale Mario Mori trattarono con Vito Ciancimino per far cessare le bombe mafiose. Secondo il generale Mario Mori, processato e assolto, il dialogo con l’ex sindaco di Palermo iniziò tra la strage di Capaci e via D’Amelio e si protrasse fino a quando Ciancimino, nel dicembre del 1992 fu arrestato. Un’iniziativa del tutto normale nell’ambito delle prerogative di chi cerca informazioni nell’interesse dello Stato, hanno sostenuto i carabinieri. 

Per i magistrati di Palermo, fu proprio la trattativa a convincere i boss dell’arrendevolezza dello Stato e della necessità di altri attentati per far cessare il regime di carcere duro per i mafiosi detenuti.

Cosa non sappiamo?

Gli interrogativi sono molti e riguardano sia le stragi sia il contesto. Perché i boss si esposero alle stragi fin dal 1992, sapendo che la reazione dello Stato sarebbe stata dura, quale calcolo li indusse ad accettare il rischio?

I mafiosi avevano avuto rassicurazioni e da chi?

Spatuzza ci dice che Graviano aveva un canale aperto con Silvio Berlusconi, frattanto entrato in politica legato a un investimento del padre sulla nascita di Milano due. Graviano conferma l’investimento attribuendolo al nonno e lancia segnali senza ammettere un contatto diretto con Berlusconi e con Marcello Dell’Utri. Il suo uomo di fiducia, Vincenzo Baiardo che ne ha custodito la latitanza nel 1993 e nel 1994 fino all’arresto parla invece di contatti mediati da lui e poi al conduttore tv Massimo Giletti avrebbe fatto vedere una foto con Berlusconi e Graviano. Ma lui nega l’esistenza della foto.

A che punto sono le indagini?

Chiuse e riaperte più volte ruotano intorno allo stesso punto: la mafia puntò sul cavallo nuovo, forse per i trascorsi legami. Le stragi cessarono per questo. Ma, la procura di Palermo, ritiene che il nuovo corso fu determinato proprio dalle stragi. Le indagini stanno intanto verificando tutti i movimenti dei Graviano negli anni 92-93 durante la stagione delle bombe. Le vacanze in Versilia e in Sardegna e a Omegna, il paese in cui si era trasferito Baiardo, sul lago d’Orta in Piemonte.

Le misteriose presenze raccontate da Spatuzza e venute fuori dalle inchieste, aprono scenari di compartecipazione al disegno stragista da parte di altri apparati. Spatuzza racconta di un uomo estraneo a Cosa nostra visto nel garage dove si preparava l’autobomba per Borsellino. Dalle testimonianze è emersa la presenza di una donna ben vestita sul teatro della bomba di via Palestro. Nessuno ha mai parlato di donne operative in Cosa nostra. Gli investigatori hanno rintracciato una donna che si dice estranea a tutto che ha condiviso con un suo ex compagno una formazione paramilitare che ricorda molto quella della struttura Gladio. 

È doveroso scandagliare in tutte le direzioni, senza riguardi per nessuno. Difficile rintracciare la pistola fumante. Illusorio pensare che Cosa nostra abbia agito su ordine di qualcuno, non è mai accaduto.

Ancora una volta ci viene in soccorso la dottrina di Giovanni Falcone che per i delitti politici di Palermo (Reina, Mattarella, La Torre) parlò di una convergenza di interessi tra mafia e politica. Del resto, senza la politica la mafia sarebbe un’organizzazione criminale e basta. E in molte regioni, anche del Nord, la politica non riesce a liberarsi dell’abbraccio mortale con la mafia.

C’è ancora molto da sapere sulle bombe del 1992-1993. Lo dobbiamo alle vittime e alle generazioni che sono venute dopo. Troppe pagine oscure della nostra storia sono un’ipoteca sul futuro. Ecco perché accanto alle doverose cerimonie è importante non dimenticare che non si tratta solo di celebrare il rito degli anniversari ma di esigere verità su quel che è accaduto. E fin dove è arrivato il livello di compromissione tra mafia e Stato.

Perché Salvatore Baiardo va arrestato: è lo scalpo della caccia a Berlusconi. Per Baiardo sono stati decisi gli arresti domiciliari che diventeranno effettivi solo in caso di conferma dalla Cassazione sul ricorso della difesa. Frank Cimini su L'Unità il 3 Ottobre 2023 

Il giudice per le indagini preliminari aveva detto un no secco alla richiesta di arrestare Salvatore Baiardo ma i pm Luca Turco e Luca Tescaroli hanno insistito e con una dedizione degna di miglior causa hanno ottenuto il contentino dal Tribunale del Riesame. Per Baiardo sono stati decisi gli arresti domiciliari che diventeranno effettivi solo in caso di conferma dalla Cassazione sul ricorso della difesa.

Il provvedimento restrittivo però fa riferimento esclusivamente alla calunnia aggravata dell’ex conduttore di Non è l’arena su La7 Massimo Giletti al quale sarebbe stata mostrata una foto sul lago d’Orta che ritraeva Silvio Berlusconi, il boss Giuseppe Graviano e il generale Delfino. L’arresto non è stato concesso per il presunto favoreggiamento di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri indagati da tempo come mandanti delle stragi di mafia, ipotesi già spazzata via un paio di volte dalla magistratura siciliana. Il fatto che gli arresti arrivino solo per il reato meno grave rende l’intera vicenda ancora più inquietante.

La procura di Firenze per non rassegnarsi a chiedere l’archiviazione per Dell’Utri essendo Berlusconi deceduto il 12 giugno scorso le sta provando tutte. Ha risentito come testimone Urbano Cairo editore di La7 che avrebbe chiuso la trasmissione di Giletti proprio in relazione alla storia di quella fantomatica fotografia che Baiardo avrebbe mostrato a Giletti per poi smentire e accusare il giornalista e conduttore di aver detto il falso. Di qui l’accusa di calunnia che tiene in piedi un impianto accusatorio molto fragile che dovrebbe essere utile nella speranza dei pm di riuscire a processare Silvio Berlusconi anche da morto.

Intendiamoci. qui non si tratta di toghe rosse – espressione che Berlusconi usava per rivolgersi in modo semplicistico al suo elettorato – ma di magistrati che diventano militanti del loro processo costi quello che costi. Si sta ripetendo la storia dei pm di Milano che hanno impugnato in Cassazione la sentenza di assoluzione del processo Rubyter nonostante il capo della procura Marcello Viola non avesse condiviso l’iniziativa limitandosi a vistare e non firmare la richiesta alla Suprema Corte.

Pur di rimettere di fatto in ballo l’imputato principale i magistrati dell’accusa passano oltre l’evidente violazione del diritto di difesa delle ragazze frequentatrici di Arcore avrebbero dovuto essere sentite come indagate alla presenza dell’avvocato e non certo come testimoni. Era la procura del capo Edmondo Bruti Liberati e della pm Ilda Boccassini in un’inchiesta in cui l’accusa ha portato a casa zero risultati. Frank Cimini 3 Ottobre 2023

Estratto dell'articolo da affaritaliani.it lunedì 2 ottobre 2023.

"Per l’ennesima volta, leggiamo sulla stampa dichiarazioni del signor Salvatore Baiardo che alludono a rapporti di amicizia con la famiglia Berlusconi, nella realtà mai esistiti, e a presunti finanziamenti di origine malavitosa al Gruppo Fininvest, parimenti inesistenti. Non possiamo quindi che ribadire per l’ennesima volta la falsità assoluta delle sue dichiarazioni, acclarata, del resto, da sentenze passate in giudicato ed ulteriori provvedimenti giurisdizionali".

Con queste lapidarie affermazioni l'avvocato Giorgio Perroni, storico legale della famiglia Berlusconi, smentisce categoricamente l'intervista rilasciata da Salvatore Baiardo ad Affaritaliani.it. […] 

(ANSA lunedì 2 ottobre 2023) - "Questa fotografia non esiste. Con Giletti si era parlato se c'erano eventuali foto con i Graviano", "ma i Graviano non hanno mai voluto farsi fotografare". E ancora, "è vero che ho incontrato Paolo Berlusconi", per "un aiuto economico ad aprire una gelateria. C'era un rapporto di amicizia con la famiglia Berlusconi" ma "in quei periodi il Cavaliere era inavvicinabile", "non sono riuscito a parlargli. Non è vero che volevo ricattare i Berlusconi. Paolo si è avvalso della facoltà di non rispondere", ma "se l'avessi minacciato mi avrebbe sicuramente denunciato".

Così Salvatore Baiardo parlando con Affaritaliani.it. "Io ho parlato degli incontri - sottolinea l'ex gelataio di Omegna, amico dei fratelli Graviano - così come ne ha parlato lo stesso Graviano nelle ultime deposizioni nel processo sulla 'ndrangheta stragista. Queste cose sono avvenute a Milano, non sul lago d'Orta come dicono i giornalisti. Ma di cosa parlassero non lo so, io li accompagnavo, poi se Graviano mi diceva che parlavano di certe cose… lo diceva lui".

Secondo l'ex gelataio "nelle tre puntate in cui c'è stato Baiardo, e nelle interviste esterne con il Baiardo il programma 'Non è l'Arena' ha fatto visualizzazioni mai fatte, e uno share della madonna - aggiunge -. Non mi sento responsabile della chiusura di 'Non è l'Arena'. Perché Giletti mi ha voltato le spalle? Perché io non sono più voluto stare al suo gioco. Il motivo per cui ho parlato delle foto non posso dirlo, ma qualcuno capisce sicuramente perché non sono più stato al gioco di Giletti e non sono più andato nella sua trasmissione".

Per Baiardo con la morte di Matteo Messina Denaro "uscirà qualcosa sui misteri che ancora ruotano attorno alle stragi e alla trattativa Stato-mafia. Però usciranno a metà dicembre, quando pubblicherò il mio libro. E' anche agli atti che io abbia conosciuto Messina Denaro. Poi ci sono altre cose che non sono agli atti e che ho messo nel libro". "Io ho solo detto chi vedevo, non vedevo, facevo, non facevo in quegli anni - conclude -. Chi se lo immaginava che raccontare oggi cose accadute nel 1989-1990 potesse suscitare un simile polverone. Non avevo interesse a raccontarlo prima, l'ho fatto quando me l'hanno chiesto, nel 2012-13".

Baiardo: "Giletti mi ha voltato le spalle. La foto con Berlusconi non esiste". L'intervista di Affaritaliani.it all'ex gelataio tuttofare dei boss Graviano, al centro dell'indagine sui presunti mandanti esterni delle stragi del 1993 di Eleonora Perego il 2 Ottobre 2023 su Affaritaliani.it.

Salvatore Baiardo ad Affari: "GIletti mi ha voltato le spalle. La foto di Graviano con Berlusconi? Non esiste"

Ha deciso di rompere il silenzio Salvatore Baiardo, tuttofare dei boss mafiosi Graviano, indagato dalla Direzione distrettuale antimafia di Firenze nell'ambito della nuova inchiesta sui presunti mandanti esterni delle stragi del 1993.

Lo ha fatto dopo la decisione del tribunale del Riesame di Firenze, che ha accolto il ricorso della Procura ritenendo fondate le accuse di calunnia nei confronti del conduttore Massimo Giletti e del sindaco di Cerasa, Giancarlo Ricca, disponendo gli arresti domiciliari. Gli stessi non hanno ritenuto sufficientemente provata l’accusa di favoreggiamento a favore di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Uno dei cuori dell’indagine è sempre la fotografia che ritrarrebbe il boss Graviano con l’ex premier e il generale Francesco Delfino. Immagine che secondo il tribunale “sicuramente è stata fatta vedere” a Giletti, al contrario di quello che Baiardo ha detto ai magistrati, sostenendo che il giornalista si fosse inventato tutto (da qui l’accusa di calunnia). Secondo i giudici proprio quella foto può aver causato la chiusura di “Non è l’Arena”. Ma Salvatore Baiardo, in attesa della decisione della Corte di Cassazione – che si dovrà pronunciare perché la misura diventi esecutiva – ha voluto nuovamente replicare, parlando con Affaritaliani.it.

Ranucci e Travaglio ci provano ancora con i pentiti di mafia. Il sedicente giornalismo antimafia ci mette del suo, mescolando informazioni e suggestioni, inchieste giudiziarie e kermesse da avanspettacolo, tra selfie, pizzini e Tiktok. Felice Manti il 23 Maggio 2023 su Il Giornale.

Se la mafia agisce sostanzialmente indisturbata in questo Paese è perché si passa più tempo a inseguire i fantasmi che a cercare i colpevoli. Il sedicente giornalismo antimafia ci mette del suo, mescolando informazioni e suggestioni, inchieste giudiziarie e kermesse da avanspettacolo, tra selfie, pizzini e Tiktok. Oltraggiando i morti di mafia prima ancora che la verità. Ieri sera Report ha mostrato un’intervista di Paolo Mondani tutt’altro che rubata del 2 marzo scorso a Salvatore Baiardo, manutengolo del boss Giuseppe Graviano e sedicente favoreggiatore della sua latitanza. Tema, la famigerata foto che ritrarrebbe Silvio Berlusconi con una polo scura, lo stesso Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino, scattata nella primavera del 1992 nei pressi del lago d’Orta (prima delle stragi di Falcone e Borsellino) o forse a luglio dopo via d’Amelio, dallo stesso inaffidabile mafioso. È l’ennesima inchiesta sul Cavaliere, aperta dalla Procura di Firenze, che vorrebbe dimostrare il folle teorema sul ruolo di possibile fiancheggiatore di Cosa nostra nella stagione stragista del ’92-’93 tramite una Forza Italia ancora inesistente. Ai pm Baiardo ha detto che sono fesserie, ai giornalisti dice che le foto esistono.

Ma la storia giudiziaria non si fa con i se, né con foto fantasma. E infatti in tribunale questa ipotesi si è disgregata più volte. Ora, che qualcuno insista su questa narrazione ci può stare. Il conduttore di Report Sigfrido Ranucci da sempre mescola teorie un po’ claudicanti a ipotesi televisivamente suggestive. Lo stesso dicasi per il Fatto quotidiano, che ha nel mascariamento di Berlusconi la sua ragione fondante.

Ci sta anche che Baiardo, ansioso di scrivere un libro e di raggranellare due spicci, alzi la posta tra una comparsata tv e un video su Tiktok (sic), a maggior ragione dopo che Massimo Giletti, il primo a cui aveva promesso la foto che il giornalista avrebbe pure visto nel luglio del 2022, a distanza e senza riconoscere né Graviano né Berlusconi, è saltato per aria assieme alla sua trasmissione su La7, chiusa improvvisamente e senza spiegazioni dall’editore Urbano Cairo.

Chi ha visto il servizio intuisce facilmente che Baiardo sa di essere registrato da Report, tanto che si lascia andare a frasi come «E se non va tutto come deve andare, nel libro usciranno le foto». Quale libro? Si sa il titolo, Le verità di Baiardo, manca un editore che potrebbe essere il Fatto, chissà. Secondo la ricostruzione di Giacomo Amadori sulla Verità Baiardo avrebbe mandato a Giletti un selfie con Mondani, con un messaggino tipo «Loro ricominciano ad aprire, vogliono farla con Netflix». In mezzo a questa trattativa commerciale (Baiardo ha già intascato da La7 un bel gruzzoletto, forse un anticipo sulle foto?) ci sono quelle politiche su ergastolo ostativo e i soliti veleni sul Ros dei carabinieri per la cattura di Matteo Messina Denaro. Con il servizio pubblico che si presta a fare da megafono a queste illazioni, alla stregua di Tiktok.

Il giocoliere. Giornalisti e pm al guinzaglio di Baiardo: la caccia alle foto di Berlusconi è un gioco delle tre carte. Tiziana Maiolo su L'Unità il 24 Maggio 2023

Placido e beffardo, lui, il gelataio Salvatore Baiardo, se li porta in giro tutti come cagnolini al guinzaglio, pubblici ministeri e giornalisti. Loro, dai pm fiorentini Tescaroli e Turco, i due Luca, oltre alla squadretta dei cronisti del Fatto e di Report, sono alla caccia della (o delle) fotografie che inchioderebbero Silvio Berlusconi seduto al bar con il generale dei carabinieri Francesco Delfino e con un mafioso stragista come Giuseppe Graviano. La (le) cercano e non la (le) trovano. Un po’ come “io cerco la Titina, la cerco e non la trovo”, la canzone resa famosa da Charlie Chaplin che la cantava in Tempi moderni, ma soprattutto nella sua versione grammelot senza costrutto e con il guazzabuglio delle lingue mescolate. Ecco, questa ricerca della foto che non c’è è un po’ il simbolo di questa inchiesta della Dda fiorentina sui “mandanti” delle bombe del 1993. Quelle che nelle intenzioni, nonostante l’impiego di quantitativi enormi di esplosivo, avrebbero dovuto essere più “simboli” che stragi. Lo dice senza mezzi termini anche la sentenza d’appello del processo “Trattativa Stato-mafia”, che quei dieci morti a Firenze e Milano non erano stati programmati. Il che naturalmente nulla toglie alla gravità di quegli attacchi dal forte sapore terroristico.

Il procuratore aggiunto Luca Tescaroli, che coordina la Dda di Firenze dopo aver maturato la propria esperienza di magistrato “antimafia” in Sicilia, in un’intervista al quotidiano Nazione-Carlino-Giorno, parla della ricerca dei “mandanti” di quelle stragi in questi termini: “Se dovessimo usare una metafora potremmo dire che il bicchiere è quasi pieno ma non ancora completamente”. Incoraggiante. Se non fosse per almeno due buoni motivi, che ci permettiamo di ricordare all’illustre magistrato. Il primo: la procura di Firenze sta indagando su due persone, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, le cui posizioni sono state archiviate, per gli stessi fatti, già tre volte in quegli stessi uffici siciliani che il dotto Tescaroli ben conosce. Secondo: questa ultima inchiesta avrebbe dovuto essere chiusa entro il 31 dicembre 2022. L’ha riaperta il gelataio Baiardo. Ci dica lei, dottor Tescaroli, se le pare una cosa seria.

I giornalisti con il bollino blu dell’antimafia, come Marco Lillo del Fatto, lo definiscono un giocatore di poker. A noi Salvatore Baiardo ricorda di più uno di quelli del “carta vince, carta perde”, quelli che stanno su uno sgabellino sul marciapiedi e ti danno prima l’illusione lasciandoti vincere, e poi sferrano la mazzata e ti tolgono anche la casa e la fidanzata. Se a questo profilo aggiungi anche quel pizzico di mafiosità che deriva da una condanna per aver aiutato programmatori di stragi ed esecutori di omicidi di Cosa Nostra, ecco la foto, quella esistente e vera, di Salvatore Baiardo.

Fa il giocoliere, e l’abbiamo visto l’ultima volta lunedì sera a Report, dopo averlo già conosciuto al fianco di un affaticato Giletti, che però non si fidava del tutto, non avendo forse il cinismo degli uomini di Ranucci. Il gioco delle tre carte del gelataio consiste in questo: una versione per i giornalisti, una per i magistrati e l’altra per Tik Tok. Con la carotina per tutti del suo libro, che Il Fatto prevede in uscita il 20 giugno con la casa editrice Frascati e Serradifalco. Lì ci saranno le foto di Berlusconi con Graviano? Certo, basta cercarle. E trovarle, così come non fu trovato il mitico documento che avrebbe attestato il finanziamento da parte del nonno dei fratelli Graviano alle prime iniziative imprenditoriali del leader di Forza Italia.

A Massimo Giletti, Baiardo aveva parlato di una sola foto, anzi gliela aveva addirittura mostrata, però al buio e da lontano. Il conduttore di “Non è l’arena” ha riconosciuto con certezza un più giovane Berlusconi, e forse il generale Delfino, personaggio molto conosciuto degli anni novanta e che ora non c’è più e non potrà dare alcuna testimonianza su quello scatto, forse di polaroid e in bianconero. Solo Baiardo, o qualche boss di Cosa Nostra potrebbe dire con certezza (se la foto esistesse), se il terzo uomo, poco più di un ragazzino al tempo, fosse Giuseppe Graviano. In ogni caso, davanti ai magistrati Baiardo ha negato tutto e ancor di più ha irriso i giornalisti creduloni su Tik Tok. Poi Giletti è uscito di scena con la chiusura improvvisa del programma e il pallino passa a Paolo Mondani di Report, vecchia conoscenza del gelataio, che lo interroga davanti a un cornetto in pasticceria e con telecamera nascosta. Macché nascosta, sfotte il giocoliere: l’ho preso in giro perché ho capito subito che mi stava video-registrando. E parla delle tre foto. I magistrati acquisiscono, in accordo con il cronista.

Ma c’è uno scivolone politico, in cui incorrono tutti e tre i soggetti, magistrati, giornalisti e gelataio giocoliere. Le foto sarebbero del 1992, e secondo Baiardo gli incontri con il boss di Cosa Nostra sarebbero finalizzati alla nascita di Forza Italia e la presa del potere da parte di Berlusconi a suon di bombe e stragi. 1992? Forza Italia? Nella prima repubblica e con i governi Andreotti e Amato? Signor Baiardo, aggiusti un po’ le date, mentre porta a passeggio con il guinzaglio pubblici ministeri e giornalisti. Tiziana Maiolo

Da Gelli a Meloni, tutto si tiene. “Report” è meglio di Netflix. SALVATORE MERLO su Il Foglio il 24 maggio 2023.

E’ la trasmissione d’intrattenimento migliore della televisione italiana. Anzi mondiale. Lunedì sera in poco più di un’ora è andato in onda il romanzo delle stragi mafiose. Altro che Sorrentino

Da Licio Gelli a Giorgia Meloni, il romanzo delle stragi. Gli inglesi hanno avuto Ian Fleming e James Bond, John le Carré e Graham Greene, noi abbiamo “Report” e Sigfrido Ranucci su Rai 3, la fantastica macchina visiva, la fiabesca, inesauribile dispensatrice di immagini e parole: che la nuova Rai non ce li tocchi. Guai a lei. E lo diciamo seriamente. “Report” non si tocca!  Lunedì sera per oltre un ora, davanti al teleschermo, sul divano, anziché guardare “The diplomat” su Netflix, siamo rimasti incantati davanti a un’opera che dovrebbe essere recensita da Mariarosa Mancuso o Paolo Mereghetti: collusioni tra mafia, politica, carabinieri, terrorismo, massoneria, servizi segreti italiani e americani fluttuavano come gas (o palline da ping pong) sulle pareti, le poltroncine, il tappeto e il tavolino da caffè del  soggiorno di casa.

Estratto dell’articolo di Luca Serranò per “la Repubblica” il 24 maggio 2023.

Torna a parlare Salvatore Baiardo, il fiancheggiatore del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano che più volte nell’ultimo anno è stato sentito dai pm fiorentini che indagano sui mandanti occulti delle stragi del ‘93. Raggiunto da Report , Baiardo ha risposto alle domande sulla foto dei misteri, lo scatto — di cui aveva parlato anche con Massimo Giletti, come confermato da alcune conversazioni intercettate, salvo poi smentire la circostanza ai magistrati — che ritrarrebbe insieme Silvio Berlusconi, il boss Giuseppe Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino.  […]

Le immagini sarebbero tre, tutte scattate nella primavera del 1992 in un bar sul lago d’Orta […] di quello scatto sarebbe a conoscenza anche Paolo Berlusconi. Le parole registrate da Report con una telecamera nascosta sono finite subito sul tavolo dei magistrati fiorentini, perché incrociano le dichiarazioni intercettate dagli investigatori e la testimonianza di Giletti, al quale l’editore diLa7 , Urbano Cairo, ha chiuso (i motivi non sono mai stati chiariti) la trasmissione televisiva mentre aveva in scaletta la preparazione di servizi giornalistici proprio su questi fatti.

Lo scorso luglio Giletti aveva intervistato per la prima volta Baiardo per una puntata speciale sulla mafia della sua trasmissione Non è l’Arena su La7 ,dopo averlo visto parlare a Reportai microfoni di Paolo Mondani. In quell’occasione, per accreditare la propria attendibilità con Giletti, il fiancheggiatore dei Graviano aveva mostrato un’immagine con tre persone. «Me l’ha fatta vedere, senza consegnarmela, tenendola lontana da me — la testimonianza del giornalista — eravamo in un bar a Castano, vicino a Milano.

Mi è parsa una foto del tipo di quelle da macchinetta usa e getta, ho visto tre persone sedute a un tavolino. Berlusconi l’ho riconosciuto, era giovane, credo fosse una foto degli anni ‘90, sono certo fosse lui anche perché in quel periodo lo seguivo giornalisticamente». Ai magistrati Luca Tescaroli e Luca Turco, Giletti ha spiegato perché Baiardo gli ha mostrato il documento: «Perché ho sempre messo in dubbio le sue dichiarazioni». Il giornalista ha aggiunto anche altri dettagli delle confidenze raccolte dal fiancheggiatore dei Graviano, come le telefonate che lo stesso avrebbe ricevuto sul suo telefono — ma destinate al boss — da Marcello Dell’Utri. Lo stesso Dell’Utri che, intercettato, si lamentava delle trasmissioni televisive che Giletti aveva messo in onda sulla mafia.

Salvatore Baiardo, Report e le tre foto di Berlusconi con Giuseppe Graviano: «Le ho fatte io». Alessandro D’Amato su Open.online il 24 maggio 2023. 

Le immagini del caso Giletti-Non è l’Arena e le profezie dell’uomo condannato per aver favorito la latitanza dei boss di Brancaccio

Le foto che ritraggono Silvio Berlusconi insieme a Giuseppe Graviano e al generale dei carabinieri Francesco Delfino sono tre. Li mostrano seduti a un bar sul lago d’Orta. La data è il 1992. E a scattare le tre Polaroid sarebbe stato proprio Salvatore Baiardo. Che oggi nega l’esistenza degli scatti. Ma che ha detto invece di averle riprese in una registrazione (a sua insaputa) in cui parla con Paolo Mondani di Report. Si tratta delle immagini che Baiardo ha mostrato a Massimo Giletti secondo la testimonianza del conduttore a Firenze, dove si indaga sulle stragi del 1993. E che il gelataio condannato per aver aiutato la latitanza di Madre Natura ha minacciato di voler pubblicare in un libro. Ovvero nell’autobiografia che sta preparando. E che si intitolerà “Le verità di Baiardo“. 

Non è l’Arena, gli scatti e i ricatti

Nel verbale il conduttore di Non è l’Arena ha detto ai pm che indagano a Firenze che lo scatto fu “rubato”, cioè fatto di nascosto. Mentre l’ex favoreggiatore dei fratelli Graviano ha subito una perquisizione a marzo. Senza alcun esito. Luca Tescaroli e Luca Turco indagano sulle stragi di Firenze, Milano e Roma. Che si verificarono dopo l’arresto di Totò Riina. E che vedono protagonista tra gli ideatori Matteo Messina Denaro. Mentre viene ripreso a sua insaputa dalle telecamere di Report Baiardo racconta alcuni dettagli sulle fotografie. Le avrebbe scattate lui personalmente. Risalgono a dopo la morte di Paolo Borsellino. E sono collegate alla discesa in campo del Cavaliere: «Nel ’92 era in ballo la nascita di Forza Italia». Berlusconi avrebbe saputo di queste foto perché Baiardo le mostrò al fratello Paolo durante l’incontro tra i due nella sede de Il Giornale.

Cosa succede a marzo?

La Verità oggi racconta che il 2 marzo scorso Baiardo ha mandato a Giletti lo scatto che lo ritrae insieme a Mondani di Report. Gli dice anche che “loro” (cioè la trasmissione) «ricominciano ad aprile, vogliono farla con Netflix». Fa capire al conduttore che lui e Mondani hanno parlato delle foto. E gli dice che a Report sapevano già tutto, sospettando che sia stato lui a parlargliene. Giletti nega. Baiardo dice di aver fatto finta di cadere dalle nuvole. Poi tira fuori un’altra “profezia” delle sue. Dice che dopo il giorno 8 marzo «ne usciranno delle belle». Quello è il giorno in cui la Cassazione deve decidere sulla riforma dell’ergastolo ostativo del governo Meloni. Il 27 marzo la procura di Firenze perquisisce Baiardo. Ma le foto non si trovano. Baiardo intanto smentisce Giletti su Tiktok riguardo la foto.

Le profezie e le istantanee

Baiardo è l’uomo della “profezia” su Matteo Messina Denaro. In un’intervista a Non è l’Arena si era detto convinto che il superlatitante si sarebbe fatto catturare attraverso un accordo. Nei tempi però Baiardo ha parlato un po’ di tutto. Ha profetizzato che Giletti non sarebbe tornato in Rai, ma gli ha consigliato di aprirsi un canale YouTube. Ha provato a rimediare pubblicità per la trasmissione in crisi per l’Auditel. Avrebbe anche detto: «La foto non posso consegnarla se prima non ne parlo con Graviano». Il 26 aprile scorso Mondani è stato ascoltato dalla procura di Firenze. Che ha acquisito anche le immagini dei suoi dialoghi con Baiardo. A parlarne oggi è anche il Fatto Quotidiano.

La versione di Giuseppe Graviano

Giuseppe Graviano ha dato la sua versione dei fatti riguardo gli incontri con Berlusconi. In un memoriale consegnato tre anni fa ai giudici durante il processo ‘Ndrangheta Stragista ha detto che «la morte di mio padre, i rapporti di Totuccio Contorno con la procura di Palermo, quelli del gruppo di Bontate con Berlusconi, gli investimenti finanziari di alcuni imprenditori di Palermo a Milano, la strage di via d’Amelio» fanno parte di una vicenda collegata. Madre Natura ha sostenuto che dell’omicidio del padre, imprenditore «e incensurato» Michele Graviano, per il quale si è accusato Tanino Grado, sarebbe invece anche responsabile il pentito Totuccio Contorno. Graviano ha accusato anche «il pool della procura di Palermo, composto da Falcone, Chinnici e altri» di aver consentito a Contorno di commettere «una serie sconfinata di omicidi» che non avrebbe mai confessato.

Gli investimenti dei palermitani a Milano

Poi c’è il racconto dei 20 miliardi dei palermitani a Milano. Tra 1970 e 1972 suo nonno materno Filippo Quartararo ha deciso di farsi capofila di un gruppo di investitori del palermitano che piazzarono la cifra che equivale a 173 milioni di euro di oggi. Nell’occasione Michele Graviano ha detto al padre di sua moglie che non gli interessa partecipare alla “cordata” perché preferisce gestirsi gli interessi da sé. E gli ha intimato anche di non infilare i suoi figli (sono quattro: oltre a Filippo e Giuseppe ci sono il maggiore Benedetto e la più piccola Nunzia) in questa storia. Quando è morto il padre, sostiene Giuseppe, il nonno gli ha fatto presente che ci sono gli interessi milanesi da curare. Di questi, sempre secondo Graviano, si è occupato finora soltanto suo cugino Salvo Graviano.

La scrittura privata

Sempre secondo Graviano questi 20 miliardi sono garantiti da una scrittura privata tra Berlusconi e gli investitori palermitani. «E questo momento corrisponde, a mio avviso e a mente lucida, con l’ultimo incontro che ho avuto con Berlusconi a Milano. In quell’incontro si parlò di mettere nero su bianco quello che era stato pattuito con mio nonno Quartararo e gli altri investitori palermitani», sostiene Graviano. Il quale aggiunge che i palermitani da Berlusconi «volevano ottenere i propri utili e formalizzare l’accordo davanti a un notaio». Era stato fissato anche un appuntamento in uno studio per firmarlo nel febbraio del 1993. Poco prima Graviano viene arrestato.

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Report, la minaccia di Salvatore Baiardo a Berlusconi: «Questo governo cade». Alessandro D’Amato su Open.online il 23 maggio 2023.

L’uomo della “profezia” dice di essere pronto a pubblicare le istantanee: «se non succede quello che (deve) succede(re), questo governo cade». Ma… 

«Se non succede quello che succede questo governo cade». È un Salvatore Baiardo in vena di mandare segnali quello che parla della foto di Silvio Berlusconi con Giuseppe Graviano mentre non sa di essere registrato da Paolo Mondani di Report. Le immagini che avrebbe scattato proprio lui ai due e al generale Francesco Delfino sul lago d’Orta a Omegna. E che avrebbe già mostrato in occasione dell’incontro con Paolo Berlusconi nella sede del Giornale a Milano. Secondo quanto ha raccontato lui stesso – per poi smentirlo – le istantanee con una Polaroid è pronto a pubblicarle in un libro di prossima uscita. Più precisamente: «Se non va tutto come deve andare nel libro usciranno le foto». E quindi «se non succede quello che (deve) succede(re), questo governo cade».

L’indagine

Il Fatto Quotidiano fa sapere oggi che la procura di Firenze ha acquisito nei giorni scorsi le registrazioni dei colloqui di Mondani con Baiardo. I Pm Luca Tescaroli e Luca Turco indagano insieme al sostituto Lorenzo Gestri su Berlusconi e su Marcello Dell’Utri. I pubblici ministeri hanno chiesto alla trasmissione Rai di «volere consegnare le registrazioni oggetto delle interlocuzioni intercorse il 4 ottobre, 2 marzo 2021 o in altre date tra Salvatore Baiardo e il giornalista Paolo Mondani, oggetto della deposizione di quest’ultimo il 26 aprile 2023 ove è stato fatto riferimento alla fotografia ritraente Silvio Berlusconi, Francesco Delfino, Giuseppe Graviano. I pm quindi hanno creduto al conduttore di Non è l’Arena Massimo Giletti. Il quale ha detto che Baiardo gli ha mostrato la foto e che lui nell’occasione ha riconosciuto Berlusconi.

La versione di Baiardo

Secondo Baiardo quindi esistono più foto che ritraggono Berlusconi, Graviano e Delfino. Le foto sono testimonianza di quel rapporto tra Berlusconi e Graviano che “Madre Natura” ha spiegato in un memoriale (sempre che dica il vero). Nel quale sostiene che un numero non imprecisato di imprenditori palermitani tra cui il nonno materno hanno investito nelle aziende immobiliari di Berlusconi negli Anni Settanta una cifra vicina ai 20 miliardi di lire. Graviano dice che gli investimenti erano garantiti da una “scrittura privata” conservata da suo cugino, nel frattempo deceduto. E aggiunge che avrebbe dovuto recarsi a un appuntamento con un notaio a Milano a febbraio per ratificare l’accordo e per decidere sulla restituzione del prestito. Ma pochi giorni prima è stato arrestato.

La smentita

Nel video di Report quando Mondani gli chiede della reazione di Paolo Berlusconi alla vista delle foto Baiardo fa un gesto con le mani che significa “paura”. Intanto ieri Baiardo su TikTok dopo aver letto le anticipazioni di Report ha smentito tutto. Sostenendo di aver detto “fandonie” contro il povero Berlusconi. E che si augura una denuncia per diffamazione nei confronti della trasmissione. Intanto il 20 giugno uscirà il suo libro per la casa editrice Frascati e Serrafalco. Ma cosa vuole di preciso Baiardo da Berlusconi? Tanto da minacciare la caduta di un governo? Posto che pare ovvio che secondo l’ex gelataio di Omegna che si offende se viene definito “pentito” intenda dire che i danni politici nei confronti di Berlusconi potrebbero mettere in difficoltà il governo, il problema rimane sempre l’ergastolo ostativo.

Quale governo?

Il governo Meloni ha infatti confermato l’ergastolo ostativo in uno dei primi provvedimenti licenziati. Né c’era possibilità che facesse qualcosa di diverso, vista la sensibilità dell’opinione pubblica su questi temi. Ma se la registrazione risale a prima delle elezioni del 25 settembre (la data non è specificata) allora la minaccia è nei confronti di Draghi. Di certo la situazione sembra simile a quella del 1992. Quando i mafiosi volevano ottenere la cancellazione del 41 bis. E non hanno ottenuto nulla.

La pupiata. Report Rai PUNTATA DEL 22/05/2023 di Paolo Mondani

Collaborazione di Marco Bova e Roberto Persia

Siamo alla ricerca della verità sui fatti di mafia e sulle stragi che hanno insanguinato il nostro Paese.
Sono passati oltre trent’anni e ancora siamo alla ricerca della verità sui fatti di mafia e sulle stragi che hanno insanguinato il nostro Paese. Racconteremo i particolari fino a oggi rimasti segreti delle fasi propedeutiche che hanno portato all'arresto di Matteo Messina Denaro, e quelli che riguardano la sua latitanza. Trent’anni sono passati dalla strage di Firenze in via dei Georgofili. La mafia in quegli anni metteva bombe qua e là per il Paese, ma secondo una nota del Sisde non era sola nella pianificazione della strategia stragista. Grazie al recentissimo lavoro della Commissione parlamentare antimafia aggiungiamo pezzi di verità sui mandanti e sugli esecutori.

LA PUPIATA. Paolo Mondani Collaborazione di Marco Bova, Roberto Persia Filmaker: Dario D'India, Cristiano Forti, Alessandro Spinnato Montaggio: Elisa Carlotta Salvati, Giorgio Vallati

VOCALI WHATSAPP DI MATTEO MESSINA DENARO Ragazze buongiorno. Sono in autostrada. Niente di nuovo. Io in genere sfuggo dal farmi conoscere, anche da mia mamma, e quando le persone mi studiano minchia mi infastidisco come una belva.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La cattura di Matteo Messina Denaro è diventata una soap opera. Pettegolezzi spacciati come segreti, le sue cartelle cliniche, i suoi selfie, le sue chat, i suoi amori veri o presunti, le amanti gelose che si mortificano e lo esaltano, il suo omertoso paese a fare da scenario, come se avesse gestito affari per cinque miliardi di euro tutti da Campobello di Mazara.

VOCALI WHATSAPP DI MATTEO MESSINA DENARO Non ho vissuto nel salottino seduto con le ciabatte. Io sono stato un tipo che il mondo lo ha calpestato. PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Come se bastassero il medico Tumbarello, l'alter ego Bonafede e l'autista Luppino, a raccontare i suoi fiancheggiatori. Mancano pezzi decisivi della dinamica dell’arresto. E soprattutto continuiamo a non sapere nulla delle protezioni di cui ha goduto per trent'anni. È un vero boss questo Messina Denaro o solo un simbolo utile a dichiarare la mafia sconfitta?

VOCALI WHATSAPP DI MATTEO MESSINA DENARO Lo sai questo fatto di scrivere un libro me lo hanno detto tante volte. È che veramente tutta la vita è un’avventura. Se ti raccontassi cose…veramente cose assurde.

ANTONINO DI MATTEO – MAGISTRATO DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA Io ritengo che nessun mafioso per quanto potente può restare latitante per 30 anni senza poter godere di protezione, ovviamente, anche molto alte. Ed è cresciuto in quella provincia di Trapani, che da sempre più delle altre provincie siciliane è stato il crocevia degli intrecci tra Cosa Nostra, la massoneria e ambienti particolari e deviati dei servizi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Quella di Trapani non è una provincia qualsiasi. Già nel 1986, nel centro storico, all'interno di un circolo culturale, Scontrino, la polizia scopre sei logge massoniche, tra le quali Iside uno e Iside due, quelle che presumibilmente sono state inaugurate dal Gran maestro della loggia P2 Licio Gelli, ecco dentro quelle liste ci sono i nomi di politici e imprenditori, uomini delle forze dell'ordine e prefetti. Tutti dialogavano con i grembiulini mafiosi. E poi, nel 1987 viene scoperta la base Scorpione, quella riferibile a Gladio, a due passi da San Vito Lo Capo. Insomma, Trapani è la seconda provincia d'Italia per numero di logge massoniche. Nel 2016 il magistrato Marcello Viola, che oggi è capo della Procura di Milano, ha depositato una lista di 460 massoni che erano suddivisi in 19 logge, sei solo a Castelvetrano. Una lista che è stata anche ampliata dalla commissione Antimafia guidata da Rosy Bindi che, con l'aiuto di alcuni grandi maestri dell'obbedienza, ha poi potuto sottolineare il proliferare di massoni nella provincia, nella città di Matteo Messina Denaro, Castelvetrano. E infine, dopo l'arresto di Matteo Messina Denaro 16 gennaio scorso, emerge che uno dei più grandi fiancheggiatori del super latitante era il medico Alfonso Tumbarello, i cui contatti con Matteo Messina Denaro erano noti ai servizi segreti italiani già negli anni 2000. E si scoprirà solo però dopo l'arresto che il medico era iscritto alla loggia massonica Valle di Cusa di Campobello di Mazara, affiliata al Grande Oriente d'Italia. Ora il magistrato Maria Teresa Principato, che per anni ha dato la caccia a Matteo Messina Denaro, nel corso di un interrogatorio a Giuseppe Tuzzolino, architetto, scopre che Matteo Messina Denaro aveva messo in piedi una loggia massonica tutta sua, La Sicilia. E la rete della massoneria è stata fondamentale nella copertura della sua latitanza. Il nostro Paolo Mondani, con la collaborazione di Roberto Persia

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Nel 2017, l’architetto Giuseppe Tuzzolino, dopo anni di collaborazione con la giustizia, viene arrestato e condannato per calunnia. Aveva raccontato la balla di un pericolo imminente corso dai due magistrati che lo interrogavano. Ma alcune sue rivelazioni erano state riscontrate. Tuzzolino aveva dichiarato di essere iscritto a una loggia massonica coperta di Castelvetrano, denominata La Sicilia, in cui sedeva Matteo Messina Denaro e l'esponente di Forza Italia trapanese ed ex senatore Antonio D'Alì, la cui famiglia dava lavoro al padre di Matteo, don Ciccio Messina Denaro. D'Alì, già sottosegretario agli Interni del secondo governo Berlusconi ha sempre smentito l'appartenenza alla loggia. Oggi è in carcere, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. PAOLO MONDANI Il senatore D’Alì era dentro la loggia?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA D’Alì era al di sopra di ogni tipo di riunione. Quindi tutto quello che avveniva forse in loggia era perché D’Alì lo aveva in parte deciso o chi per lui.

PAOLO MONDANI Una sorta di Gran Maestro emerito.

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Una sorta di Gran M…, bravissimo.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Tuzzolino a verbale aveva fatto i nomi degli aderenti alla loggia La Sicilia, peccato che le indagini su questi iscritti eccellenti si siano inspiegabilmente fermate.

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA In quegli anni il puparo della massoneria era Gasperino Valenti, quindi era lui che gestiva i due mondi massonici del Grande Oriente d’Italia e della Gran Loggia Regolare d’Italia. Mi propone di far parte di questa super loggia, La Sicilia, una loggia itinerante, quindi senza un tempio fisso e senza delle riunioni specifiche predefinite. Quindi avvenivano comunicazioni una sera prima e il pomeriggio ti dicevano, tu ti recavi a Castelvetrano, e il pomeriggio ti dicevano: stasera ci vediamo là. Poi magari poteva pure cambiare il luogo. Questa segretezza di questa super loggia era dovuta al fatto che vi appartenevano personaggi politici di un certo spessore come onorevoli e vi appartenevano imprenditori, quindi che non volevano figurare.

PAOLO MONDANI Tutti della zona del trapanese?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Tutti gli imprenditori erano assolutamente e solo della zona della provincia di Trapani.

PAOLO MONDANI Lei però raccontò agli inquirenti che questa loggia in qualche modo tutelava la latitanza di Matteo Messina Denaro.

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Le posso dire che conosco in loggia un personaggio, di cui tutti avevano una reverenza straordinaria oserei dire, davvero straordinaria. Lui era accompagnato da una donna, quindi brasiliana di origine molto bella, e lui si chiamava per quel periodo Nicolò Polizzi. Si diceva che fosse un imprenditore di origine Castelvetrano, che però operava nel settore mobilificio in Brasile, una città vicino San Paolo. La reverenza era davvero assoluta. Camminava con due macchine, quindi camminava con un’autista e soprattutto veniva in orari specifici, dalle 23 in poi.

PAOLO MONDANI E questo Nicolò Polizzi che ruolo aveva?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Solo dopo la terza volta che lo vidi. Ci incontrammo comunque in una riunione conviviale a Maastricht, in una riunione massonica del tutto internazionale e lì venne anche Nicolò con la sua compagna. Fu in quella specifica occasione che io capii che lui era quell’uomo. Era Matteo Messina Denaro.

PAOLO MONDANI E lei oggi che ha visto la faccia del vero Matteo Messina Denaro può dire che era lui?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Era lui.

PAOLO MONDANI Nicolò Polizzi?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Si era lui Nicolò Polizzi.

PAOLO MONDANI Ricorda qualche cosa? Un suo discorso? Due parole che lui ha scambiato con lei o con altri?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Si, mi disse che io ero una brava persona quindi gli piacqui. Poi mi disse, gli parlai io di un progetto che avevo da svolgere a New York e lui mi raccomandò, mi diede dei contatti su New York e da lì partì la mia esperienza americana. PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Nel 2016 il collaboratore di giustizia Marcello Fondacaro, colletto bianco della 'Ndrangheta che frequentava la mafia di Castelvetrano, conferma l'esistenza della loggia La Sicilia.

PAOLO MONDANI E Fondacaro dirà addirittura ai magistrati calabresi che la loggia La Sicilia era una loggia di diretta derivazione della P2.

PIERA AMENDOLA - ARCHIVISTA COMMISSIONE PARLAMENTARE SULLA P2 1981-1988 Fondacaro sostiene che Matteo Messina Denaro apparteneva a questa loggia. Quando dice che questa loggia è di derivazione, deriva dalla P2, ecco questa cosa non mi stupisce. Perché anche Bontate, che era massone e che era Maestro Venerabile di una loggia massonica, che si chiamava la loggia dei Trecento era entrato in rapporti molto stretti con Licio Gelli.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Stefano Bontate è stato il capo dei capi di Cosa Nostra ucciso dagli emergenti corleonesi di Totò Riina nel 1981. La sua Loggia dei Trecento era conosciuta anche come Loggia Sicilia-Normanna, e forse stiamo parlando della stessa loggia di Matteo Messina Denaro. Pentiti autorevoli come Gioacchino Pennino e Angelo Siino hanno dettagliato con estrema precisione i viaggi di Gelli in Sicilia.

PIERA AMENDOLA - ARCHIVISTA COMMISSIONE PARLAMENTARE SULLA P2 1981-1988 Gelli andava lì per incontrare Bontate perché la loggia di Bontate era collegata alla P2, era considerata una appendice della P2 in Sicilia. Allora se tanti anni dopo viene fuori che anche quella di Matteo Messina Denaro era collegata alla P2 vuol dire che il discorso è andato avanti.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Matteo Messina Denaro è coperto da una rete massonica. L'aveva detto Maria Teresa Principato, il magistrato che ha dato a lungo la caccia al super latitante. Ma nessuno le aveva creduto. Ora che il territorio di Trapani, dove la mafia regna dal 1800, fosse un territorio coperto da un'amalgama di poteri difficilmente penetrabile, l'aveva già detto nel 1838 il prefetto Olloa al procuratore del re. E tra questi poteri c'è sicuramente la massoneria. Il collaboratore, Fondacaro, nel processo del novembre 2022, ha ricostruito davanti al magistrato Giuseppe Lombardo a Reggio Calabria la penetrazione della 'ndrangheta all'interno della P2, ha ricostruito la rete massonica e ha detto anche di essere entrato in contatto con la Loggia della Sicilia, cioè la loggia voluta da Matteo Messina Denaro, alla quale si erano iscritti per volere proprio del boss solo uomini fidati, per lo più professionisti, ingegneri, avvocati, architetti, imprenditori e anche qualche giornalista e anche qualche politico. Una loggia itinerante nella quale Matteo Messina Denaro si muoveva a suo agio nei panni di un imprenditore, Nicolò Polizzi, e dispensava consigli e anche contatti per chi voleva investire all'estero. Ecco, insomma, poi, secondo Tuzzolino, l'architetto interrogato dalla Principato, a questa loggia faceva anche parte il senatore, l'ex senatore D'Alì, l'ex sottosegretario al ministero dell'Interno del governo Berlusconi 2001-2006. Lui ha sempre smentito l'appartenenza alla Loggia. Ora a vigilare sui terreni di famiglia c'era Messina Denaro, padre, Ciccio, e figlio e la famiglia D'Alì era anche proprietaria della Banca Sicula. Lo zio era proprio il presidente e il nome era nelle liste della loggia P2 di Licio Gelli. Ora l'ex sottosegretario è stato condannato definitivamente ed arrestato a dicembre scorso. Pochi giorni dopo qualcuno ha notato la coincidenza, è stato arrestato Matteo Messina Denaro e a proposito dell'arresto, questa sera siamo in grado di rivelarvi alcuni dei particolari rimasti fino a oggi segreti.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Benito Morsicato, soldato di Cosa Nostra di ultima generazione di base a Bagheria si pente nel 2014 e le sue dichiarazioni portano in carcere i parenti di Messina Denaro e vari altri affiliati. Ma lascia il programma di protezione nel 2020 protestando per il trattamento subìto.

PAOLO MONDANI Lei quanti appartenenti alla famiglia di Matteo Messina Denaro ha conosciuto?

BENITO MORSICATO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Il nipote del cuore di Matteo Messina Denaro, che è Luca Bellomo, e poi c’è anche un altro nipote sempre del cuore, si chiama Francesco Guttadauro.

PAOLO MONDANI Con questi Messina Denaro ci era diventato amico?

BENITO MORSICATO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Con i nipoti si, lavoravamo assieme nell’ambito delle rapine.

PAOLO MONDANI Ha mai sentito dire da altri appartenenti a Cosa Nostra perché Matteo Messina Denaro non viene catturato?

BENITO MORSICATO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Certo che se ne parla. Anche io con altri soldati, ne parlavo anche io con l’ex, con il collaboratore di giustizia...

PAOLO MONDANI Chi?

BENITO MORSICATO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Salvatore Lopiparo. Se ne parlava che c’erano dei personaggi dello Stato, che garantivano diciamo la latitanza di Matteo Messina Denaro.

PAOLO MONDANI In loggia c’erano uomini delle forze dell’ordine?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Tantissimi.

PAOLO MONDANI E uomini dei servizi di sicurezza? Che in qualche modo lei è venuto a sapere.

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Quello che era ai tempi il responsabile dei servizi segreti per la Sicilia occidentale.

PAOLO MONDANI Lei a verbale dice anche di sapere che Matteo Messina Denaro frequentava la Spagna e l’Inghilterra.

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Si. Io nel 2015, il 2 aprile o il 3 aprile con esattezza del 2015, quindi era 2 o 3 giorni prima di Pasqua riferisco in località segreta alla dottoressa Principato la posizione geografica esatta dell’ultimo covo di Matteo Messina Denaro.

PAOLO MONDANI E cioè?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Che era a Roquetas De Mar. In una villa a Roquetas De Mar. Gli dico chi era il proprietario…

PAOLO MONDANI Che sta in Spagna?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Che sta in Spagna, in Andalusia, sì. Vicino Almeria.

PAOLO MANDANI Lei c’era stato?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Si.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Per Messina Denaro, il modo migliore per assaporare il fascino di Roquetas de Mar è recarsi a Playa Serena, fare shopping, e osservare una ragazza che spunta dalla piscina di un albergone.

PAOLO MONDANI Quanti giorni è stato là?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Una settimana, suo ospite.

PAOLO MONDANI Wow.

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA In un hotel di lusso, sì

PAOLO MONDANI E lui era contornato da belle ragazze? Ha molti amici?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Si, si, molti amici. Il sindaco di Almeria venne a farci onore quindi che ci venne lì con grande.. erano davvero un ambiente molto spudorato ecco.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Se la Sicilia è metafora del mondo come diceva Leonardo Sciascia, più umilmente, Giovanni Savalle è la metafora di Castelvetrano, patria di Matteo Messina Denaro. A Savalle, l'imprenditore più facoltoso della zona, la Guardia di Finanza sequestrò, nel 2018, 64 milioni di euro, tra cui una importante quota della proprietà del Kempinsky hotel di Mazara del Vallo. Poi gli è piombata addosso la bancarotta fraudolenta per due sue società. Ma nell'agosto scorso è caduta l'accusa più pesante: essere alle dipendenze di Matteo Messina Denaro.

PAOLO MONDANI Sui giornali è stato persino definito il cassiere di Matteo Messina Denaro.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA No, non il cassiere, il tesoriere, che è diverso.

PAOLO MONDANI Vabbè, insomma, diciamo. Una delle contestazioni che le sono state fatte riguarda una società che si chiama Atlas cementi. Alcuni membri della sua famiglia erano parte di quella compagine azionaria.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA È vero.

PAOLO MONDANI L’Atlas cementi era di Rosario Cascio.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA No, no. L’Atlas cementi era di Gianfranco Becchina.

PAOLO MONDANI E Rosaro Cascio?

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Rosario Cascio l’ha comprata da Gianfranco Becchina.

PAOLO MONDANI Benissimo, ma Rosario Cascio è stato coinvolto nell’inchiesta mafia appalti e quindi diciamo così a cascata i suoi famigliari, quindi lei siete stati indicati come….

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Io Io le posso dire che Gianfranco nel 1990, '91 ora non …

PAOLO MONDANI Stiamo parlando di Gianfranco Becchina?

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Becchina, quando ha venduto

PAOLO MONDANI Che è un noto trafficante di reperti archeologici.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA No dottore, oggi è un trafficante di reperti archeologici. Ma Gianfranco Becchina a me mi è stato presentato da Aldo Bassi, Aldo Bassi...

PAOLO MONDANI Che era sottosegretario alla Presidenza del Consiglio

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Due volte.

PAOLO MONDANI Del quinto governo Andreotti.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Non lo so.

PAOLO MONDANI …e del primo governo Cossiga.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Benissimo, quindi vede una persona di grande qualità.

PAOLO MONDANI E quando lo ha conosciuto lei non era un trafficante di reperti archeologici?

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Assolutamente. Tutti volevano avere a che fare con Gianfranco Becchina.

PAOLO MONDANI Perché lui vendeva olio in tutto il mondo.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Bravissimo. Ricordi che l’olio di Gianfranco Becchina è andato sul tavolo di Bill Clinton.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO A Gianfranco Becchina il 24 maggio dell'anno scorso è stato confiscato un patrimonio stimato in 10 milioni di euro. Secondo la Dia, Becchina sarebbe stato a capo di un’organizzazione dedita al traffico internazionale di reperti archeologici con cui avrebbe accumulato ingenti ricchezze. Mentre Sarino Cascio, suo socio nella Atlas Cementi, accusato di essere uno dei cassieri di Matteo Messina Denaro, nel 2005 è stato condannato per associazione mafiosa. Ma la Cassazione nel 2021 ha ammesso la revisione della condanna perché già assolto per gli stessi fatti in un altro processo.

PAOLO MONDANI Le hanno contestato i rapporti con un noto mafioso.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Quale?

PAOLO MONDANI Giuseppe Grigoli.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Ma allora, anche lì, Giuseppe Grigoli, io ho fatto una piccola consulenza praticamente cinque milioni delle vecchie lire, 2.500 euro, questo è il mio rapporto con Pino Grigoli, ma di cosa stiamo parlando dottore? PAOLO MONDANI Poi le vengano contestati i rapporti con Filippo Guttadauro, che è nientemeno che il marito di Rosalia Messina Denaro. GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Benissimo, perfetto dottore.

PAOLO MONDANI Alla figlia di loro, Maria, lei ha procurato un posto di lavoro.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA No dottore.

PAOLO MONDANI Avrebbe procurato...

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Ecco, avrei procurato. Perché Maria Guttadauro era bravissima nel rappresentare il territorio perché lo conosceva, perché aveva studiato per questa cosa.

PAOLO MONDANI I suoi rapporti con Filippo Guttadauro?

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Mah, quali rapporti? Conoscenza praticamente così e nulla di particolare, nulla di particolare.

PAOLO MONDANI Con Bellomo?

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Luca Bellomo, dottore, anche lì: Luca Bellomo è il figlio del signor Bellomo. Io conosco il signor Bellomo grazie al fatto che...

PAOLO MONDANI Anche lui noto mafioso, Luca Bellomo.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA No, no, non è un mafioso. Luca era un ragazzo che ha sposato la sorella di Maria Guttadauro.

PAOLO MONDANI I suoi rapporti con la politica?

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Buoni, buoni. Io ho mantenuto rapporti con tutti.

PAOLO MONDANI Con quale parte della politica?

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Mah, destra, sinistra, centro, non ho mai, ma guardi...

PAOLO MONDANI Sopra, sotto.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE – COMMERCIALISTA Totò mi disse una volta: "Perché non ti presenti come senatore?" Totò ma io non faccio la politica, mi piace fare questo lavoro e quant’altro. Non l’ho seguito ed è stato un peccato perché oggi sarei senatore della Repubblica italiana.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il mentore del quasi senatore è Totò Cuffaro che ha scontato cinque anni di reclusione per favoreggiamento a Cosa Nostra. Il resto degli amici di Savalle inizia con Pino Grigoli, re dei supermarket nel trapanese, riciclatore di denaro delle cosche e fiancheggiatore di Matteo Messina Denaro; poi Filippo Guttadauro, da anni in carcere, sposato con la sorella di Matteo, Rosalia, arrestata nel marzo scorso; e Luca Bellomo, nipote del cuore di Matteo, per anni in carcere per mafia, traffico di droga e rapina. Insomma, una lunga catena di affetti che non si può spezzare. Della quale avrebbe fatto parte anche il medico Alfonso Tumbarello arrestato nel febbraio scorso per aver curato Messina Denaro forse sapendo che la sua identità era coperta da quella del geometra, Andrea Bonafede. Il 70enne Tumbarello, in passato impegnato in politica con Totò Cuffaro e con Alleanza nazionale aveva un’altra passione.

PAOLO MONDANI Tumbarello era appartenente alla loggia Valle di Cusa, Giovanni di Gangi 1035 all'Oriente di Campobello di Mazara. Il Gran Maestro che ha da dire rispetto al fatto che questo venga arrestato per concorso esterno?

STEFANO BISI - GRAN MAESTRO DEL GRANDE ORIENTE D'ITALIA Appena ho saputo che era stato indagato l'ho sospeso. Prima dell'Ordine dei Medici che l'ha sospeso soltanto quando è stato arrestato.

PAOLO MONDANI Alfonso Tumbarello era noto processualmente come ponte verso la famiglia di Messina Denaro sin dal 2012. Voi, l'idea che mi sono fatto è che arrivate sempre molto dopo. Non mancate di vigilanza sui vostri iscritti?

STEFANO BISI - GRAN MAESTRO DEL GRANDE ORIENTE D'ITALIA Che Tumbarello potesse essere indagato per concorso esterno in associazione mafiosa non me lo sarei aspettato. Io non ho il potere di intercettare, non ho il potere di perquisire, non ho il potere di andare a vedere i conti correnti delle persone.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Eppure, il 19 ottobre del 2012, 11 anni fa, l'ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino testimoniando al tribunale di Marsala sosteneva che il suo tramite con la famiglia di Messina Denaro era stato proprio Alfonso Tumbarello. Si voleva prendere il latitante? Bastava inseguire Tumbarello. E un funzionario della polizia giudiziaria ci dice qualcosa in più del medico massone di Messina Denaro.

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Il medico Tumbarello era una fonte dei servizi segreti. Ed è lui secondo me che fa confidenze su Messina Denaro ma sin dai tempi delle lettere a Vaccarino.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La nostra fonte ci sta parlando di un rapporto epistolare tra il sindaco Antonio Vaccarino e Matteo Messina Denaro intercorso tra il 2004 e il 2007. Una vicenda ancora oggi misteriosa. Perché l'operazione venne organizzata dal Sisde, il servizio segreto civile, diretto dal generale Mario Mori che aveva reclutato Vaccarino nel tentativo di comunicare con il latitante. Ma di questa iniziativa non è mai stato chiaro il fine.

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA L'Operazione Vaccarino, non era finalizzata alla cattura di Messina Denaro, ma serviva a preparare il terreno ad un accordo per la consegna.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Questo dice la nostra fonte. E chissà se è vero che anche Tumbarello era della partita. Ma Giuseppe De Donno, ufficiale dei carabinieri e braccio destro di Mario Mori, finito anche lui al Sisde, il 12 maggio del 2020, spiega in un processo a Marsala che lo scambio di lettere fra Vaccarino e il latitante era stato concertato dal servizio per realizzare la consegna spontanea di Matteo Messina Denaro.

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Questo è un pre-tavolo di trattativa. E Matteo Messina Denaro in una lettera a Vaccarino spiega esattamente quel che vuole.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il primo febbraio del 2005 Messina Denaro scrive al sindaco Vaccarino: "hanno praticato e praticano ancora oggi la tortura nelle carceri...hanno istituito il 41 bis, facciano pure e che mettano anche l’82 quater, tanto ci saranno sempre uomini che non svenderanno la propria dignità...Per l’abolizione dell’ergastolo penso che con il tempo ci si arriverà, ma tutto andrà da sé con il processo di civilizzazione". Messina Denaro è chiaro: l'ergastolo e il 41 bis sono il centro della trattativa. Dopo questa lettera passano 18 anni. Matteo si ammala e improvvisamente cambia abitudini.

PAOLO MONDANI Messina Denaro dà il suo cellulare alle signore che fanno con lui la chemioterapia, si fa un selfie con un infermiere della clinica Maddalena di Palermo, prende il nome di Andrea Bonafede nipote di un pregiudicato di mafia, il suo secondo covo a Campobello di Mazara è intestato a un soggetto già indagato per mafia. Come se volesse lasciare delle briciole sul suo percorso, delle tracce. Mi chiedo e le chiedo: si è fatto arrestare?

ANTONINO DI MATTEO - MAGISTRATO DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA Sono tutti comportamenti assolutamente anomali. Nessuno dei grandi latitanti di mafia si è comportato in questo modo, anzi in modo esattamente contrario. Ha adottato quindi un comportamento che è giustificabile solo in due modi: o si sentiva talmente sicuro delle protezioni da comportarsi in maniera incauta sapendo che non sarebbe stato catturato perché non lo volevano catturare oppure si è fatto arrestare.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La testimonianza che ora ascoltiamo viene da un investigatore che per anni ha braccato Matteo Messina Denaro.

PAOLO MONDANI Parliamo della cattura di Matteo Messina Denaro il 16 gennaio scorso. Da dove cominciamo?

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Cominciamo dal maggio 2022, quando la polizia sfiora la cattura di Messina Denaro. Lui inviava delle lettere alle sorelle Giovanna e Bice via posta. E la polizia ne intercetta quattro e accerta su queste lettere la presenza del DNA del latitante. E poi vengono piazzate 150 telecamere vicino alle buche delle lettere di Mazara, Campobello, Castelvetrano e Santa Ninfa in attesa che lui vada lì a imbucarle.

PAOLO MONDANI Poi però Messina Denaro ad un certo punto inspiegabilmente si ferma.

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Sì, l'ultima lettera intercettata è del 24 maggio 2022, era indirizzata alla nipote, Stella Como, e aveva come mittente un mafioso di Santa Ninfa. Nella lettera c'erano due pizzini destinati alle sorelle, uno destinato a Fragolone, probabilmente il soprannome della sorella Rosalia. E Matteo scrive: "È andato tutto a scatafascio, la ferrovia non è praticabile, è piena...quindi capirai che non si può".

PAOLO MONDANI Un messaggio in codice, cosa vuol dire?

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Vuol dire che Matteo Messina Denaro si era accorto che la Polizia intercettava le lettere e da quel momento non scriverà più.

PAOLO MONDANI Evidentemente c'era una talpa...

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Possibile.

PAOLO MONDANI E i carabinieri come entrano nell'inchiesta?

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Ros e polizia hanno sempre condotto delle indagini parallele. Poi a un certo punto succede qualcosa di strano: i carabinieri chiedono alla polizia, a dicembre 2022, le chiavi dell'appartamento di Rosalia. L'appartamento era già pieno delle microspie della polizia e i carabinieri vogliono aggiungerne una nel bagno. La polizia a questo punto si arrabbia: ma come, che ci andate a fare nel bagno, non succede nulla là dentro. Rischiate di compromettere tutto, già Rosalia si era accorta dei movimenti del Ros attorno e dentro le sue case, anche in quella di campagna.

PAOLO MONDANI A questo punto però la polizia non può certo rifiutarsi di dare le chiavi ai carabinieri.

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA E infatti consegna le chiavi al Ros che il 6 dicembre del 2022 entra e si concentra nell'intercapedine della sedia dove ci sono le copie dei pizzini e trova degli appunti sulla condizione medica di Matteo.

PAOLO MONDANI Che è il pizzino decisivo, quello che permette ai carabinieri di fare lo screening sui malati di tumore e arrestarlo. Ma loro come sanno del nascondiglio nella sedia?

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA A casa di Rosalia era piazzata una telecamera gestita insieme dal Ros e dalla polizia. La polizia monitorava già Rosalia attraverso le microspie che erano sparse in vari punti della casa e voleva intercettarle anche il telefono. La Procura però dà il permesso soltanto ai carabinieri.

PAOLO MONDANI Qui non capisco una cosa, quando la polizia è entrata in casa di Rosalia l'aveva visto quel pizzino sulla malattia di Matteo?

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA La polizia entra per prima...

PAOLO MONDANI Prima dei carabinieri.

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Cerca, trova, fotografa tutti i pizzini oggi resi noti, ma non trova quello della malattia.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Riassumendo. La sorella di Matteo, Rosalia, è la chiave della cattura del fratello. La polizia lo capisce subito e con i carabinieri si contendono microspie e intercettazioni. Sulla carta, tutti sanno tutto, eppure solo i carabinieri trovano il pizzino con gli appunti sulla malattia di Matteo. La polizia entra prima di loro in quella casa ma quel pizzino non c'è. La cosa lascia pensare, perché solo quel pezzo di carta spiega la cattura di Messina Denaro alla clinica la Maddalena. Senza quel pizzino dovremmo parlare di consegna del latitante. E poi, tutti entrano in casa sua, ma Rosalia non si accorge mai di nulla?

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Rosalia impazzisce quando scopre che il 6 dicembre erano entrati i carabinieri e la polizia se ne accorge, lo capisce perché a Rosalia avevano messo una microspia anche nella ciabatta.

PAOLO MONDANI Insomma, carabinieri e polizia non collaborano e si pestano i piedi.

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Bah, a me sembra che pestano i piedi alla polizia che stava sulla pista già da parecchio tempo. Quando nel 2021 Matteo Messina Denaro lascia l'Albania è la polizia a capire che si trova qui nel trapanese. E da lì il risveglio dell'interesse per le indagini da parte dei carabinieri.

PAOLO MONDANI E come viene individuato Matteo Messina Denaro in Albania?

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Perché la polizia intercetta uno scambio di dati tra Giovanna, la sorella, e Matteo. Matteo viveva praticamente ormai là, in Albania. Tant'è vero che anche la sua amante, Andrea Hassler, l'amante austriaca lo va a trovare lì. Poi improvvisamente Matteo decide di lasciare l'Albania e torna nel trapanese e la polizia traccia Rosalia attraverso alcuni video che Rosalia sposta, a Matteo, erano video registrati e indirizzati a lui con i saluti della vecchia madre.

PAOLO MONDANI Torniamo un attimo però al pizzino del maggio dell'anno scorso, quello dove Matteo scrive: "La ferrovia è piena"... A me sembra la chiave di tutta la vicenda della cattura questo.

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Lo è. Perché lui in quel modo dichiara che non vuole più utilizzare la posta, non è sicura, e solo di questo si preoccupa. E infatti, quando lui poi si trasferisce in Via CB 31 è a poche centinaia di metri da casa sua. Vuol dire che a Campobello lui si sente sicuro. Nonostante la presenza delle telecamere.

PAOLO MONDANI Insomma, in estrema sintesi, qualcuno spinge Matteo a non scrivere più lettere perché non vuole che sia catturato dalla polizia a maggio del 2022, ma questo perché?

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Questa è un'operazione dell’intelligence.

PAOLO MONDANI Che significa?

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA I servizi segreti non vogliono che Matteo venga preso dalla polizia a maggio del 2022 perché il governo Draghi non sarebbe caduto. Siamo di fronte a un nuovo round della trattativa. Questo significa che ne hanno a guadagnare anche i vari Graviano, Lucchese, Bagarella, Madonia.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Secondo questo alto funzionario di polizia giudiziaria, la cattura di Matteo Messina Denaro sarebbe il segmento di una trattativa che ha le radici nel tempo, da quando cioè l'ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, incaricato dal Sisde di Mario Mori, cerca di prendere contatti con Matteo Messina Denaro. E lo fa attraverso la mediazione del medico Alfonso Tumbarello, il medico massone. E comincia con il super latitante un singolare scambio di lettere sotto degli pseudonimi, Vaccarino è Svetonio, Matteo Messina Denaro, Alessio. E proprio Alessio scrive, Matteo Messina Denaro scrive, ad un certo punto una lettera particolare: “hanno praticato e praticano ancora oggi la tortura nelle carceri e hanno istituito il 41 bis. Facciano pure, che mettano anche l'82 quater. Tanto ci saranno sempre uomini che non svenderanno la propria dignità”. “Per l'abolizione dell'ergastolo - scrive Matteo Messina Denaro - penso che con il tempo ci si arriverà, ma tutto andrà da sé con il processo di civilizzazione”. Ecco, Matteo Messina Denaro è chiaro: il 41 bis è ancora un nervo scoperto per la mafia, è un punto della trattativa. Questo singolare scambio epistolare è rimasto a lungo un mistero fino al maggio 2020, quando l'ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno, uomo fedelissimo di Mario Mori, lo segue anche al Sisde, lo spiegherà in un processo a Marsala. Ecco, quelle lettere servivano a preparare il terreno per una consegna di Matteo Messina Denaro. Passano 18 anni. Da allora Matteo Messina Denaro si ammala e cambiano le sue abitudini e verrà arrestato. Come? La storia comincia quando i carabinieri ad un certo punto cercano di, vogliono entrare nell'appartamento della sorella Rosalia per inserire una loro cimice nel bagno. L'appartamento è già pieno di telecamere e cimici della polizia, alcune anche in condivisione. Tuttavia, i carabinieri entrano il 6 dicembre 2022, si soffermano sull'intercapedine di una sedia all'interno della quale trovano i pizzini. Uno in particolare, quello sulle condizioni di salute di Matteo Messina Denaro è quello che consentirà di fare lo screening di tutti i malati di tumore e individuare il super latitante. Ora i carabinieri sanno che in quella sede ci sono i pizzini perché l'hanno osservata con una telecamera in condivisione con la polizia. Anche la polizia era entrata in quell'appartamento, aveva trovato i pizzini, li aveva fotografati tutti. Mancava però quello decisivo. Come mai? Perché quella è l'unica carta che giustificherebbe l'arresto di Matteo Messina Denaro presso la clinica La Maddalena. Un arresto che un grillo parlante ben informato aveva anticipato con modalità e anche tempistiche perfette.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO A questo punto entra in scena Salvatore Baiardo, il favoreggiatore dello stragista Giuseppe Graviano. Che nel 2020 nel processo 'Ndrangheta stragista a Reggio Calabria aveva raccontato di aver incontrato per tre volte da latitante Silvio Berlusconi, finanziato dalla sua famiglia per 20 miliardi delle vecchie lire. Baiardo, nel 2021, aveva rivelato a Report che gli incontri con Berlusconi erano stati molti di più e che Graviano aveva persino ricevuto l'Agenda Rossa di Paolo Borsellino. Tutte fandonie, secondo Berlusconi. Ma nello scorso novembre, Massimo Giletti, che lo aveva visto a Report, porta Baiardo su La7 e lui predice il futuro. Annuncia che "Messina Denaro era molto malato, e che avrebbe potuto consegnarsi lui stesso facendo un regalino al governo”.

NON È L’ARENA 5/11/2022 MASSIMO GILETTI E quando avverrebbe questo ipotetico arresto di Matteo Messina Denaro?

SALVATORE BAIARDO Giletti ci sono delle date che parlano non è che Baiardo si sta inventando…

MASSIMO GILETTI Eh ma lei ha detto che quando allo Stato farà comodo oppure lui non servirà più…

SALVATORE BAIARDO Questo lo avevo detto già in tempi non sospetti

MASSIMO GILETTI …verrà preso. È arrivato questo periodo, questo momento forse?

SALVATORE BAIARDO Presumo, presumo di si

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Le parole di Baiardo suonavano come la previsione di uno scambio: l'arresto dell'ultimo dei Corleonesi con la fine dell'ergastolo ostativo, e magari anche del 41 bis. Il 16 gennaio scorso Messina Denaro viene arrestato e siccome Baiardo indovino non è e qualcuno quelle cose gliele deve aver suggerite, nel marzo scorso chiediamo a lui cosa sa di questa cattura annunciata.

PAOLO MONDANI Come avviene l’arresto di Matteo Messina Denaro? Tu ne sai qualcosa? Perché lì la polizia stava a un passo, come hanno fatto i carabinieri a passargli davanti?

SALVATORE BAIARDO Ma c’era già un accordo che dovevano prenderlo loro

PAOLO MONDANI Qualche particolare in più sulla cattura di Matteo?

SALVATORE BAIARDO In che senso, dimmi cosa vuoi sapere.

PAOLO MONDANI Gli uomini che hanno preso contatti con te e Graviano sono gli uomini di chi?

SALVATORE BAIARDO Dei Servizi.

PAOLO MONDANI Servizi, certo. Ma sono gli uomini di Mori dei servizi? Sì o no?

SALVATORE BAIARDO Sì.

PAOLO MONDANI Ascoltami, Graviano è convinto che lo tolgono il 41 bis?

SALVATORE BAIARDO Se non succede quello che succede questo governo cade, questo governo cade.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO L'Aisi, il servizio segreto civile, smentisce qualsiasi coinvolgimento nella cattura di Messina Denaro. A noi Baiardo ha confermato il nome del funzionario dei servizi che avrebbe interloquito con lui. Nome che su richiesta, abbiamo riportato all'autorità giudiziaria. Sarà fatalità ma abitavano tutti a Omegna o lì vicino, fra il '92 e il '93. I fratelli Giuseppe e Filippo Graviano latitanti, il loro favoreggiatore Salvatore Baiardo e il generale dei carabinieri Francesco Delfino, che aveva una villa a Meina. E qui, come è noto, ci sarebbe di mezzo una foto che ritrae Giuseppe Graviano, Silvio Berlusconi e il generale dei carabinieri Delfino seduti al bar vicino al lago a prendere un caffè. Di Delfino si può scrivere un libro: impegnato per anni al Sismi, coinvolto e assolto per avere sviato le indagini sulla strage di Brescia del 1974, condannato per avere intascato i soldi del sequestro dell'imprenditore Giuseppe Soffiantini, accusato da pentiti della 'ndrangheta di essere l'uomo chiave della strategia della tensione e finito dentro un’indagine sugli attentati del 1993. Che ci faceva Delfino al bar con Graviano e Berlusconi? È quella foto esiste davvero? Una cosa sola sappiamo: che sul lago d'Orta, nell'estate del 1992, la mafia si gioca il futuro.

PAOLO MONDANI L’altra volta tu mi dicevi che Graviano ha in mano delle foto. Foto che ritrarrebbero, mi dicevi, Berlusconi, Graviano e Delfino. Queste foto sono una o più di una?

SALVATORE BAIARDO Più di una.

PAOLO MONDANI Ma chi le aveva scattate? Delfino?

SALVATORE BAIARDO Ma che Delfino, Delfino era seduto.

PAOLO MONDANI No, intendo dire era lui ad aver proceduto a farle scattare, Delfino? Voi? Graviano?

SALVATORE BAIARDO (Alza la mano sinistra)

PAOLO MONDANI Tu? Tu hai scattato le foto? Fantastico. Quindi….

SALVATORE BAIARDO E se non va tutto come deve andare, nel libro usciranno le foto.

PAOLO MONDANI Cosa vuol dire nel libro? Stai facendo un libro?

SALVATORE BAIARDO Sì.

PAOLO MONDANI Comunque, queste foto ritraggono seduti a tavolino dove, a Omegna?

SALVATORE BAIARDO A Orta.

PAOLO MONDANI A Orta. In che periodo lo posso sapere?

SALVATORE BAIARDO ’92. C’era in ballo la nascita di Forza Italia.

PAOLO MONDANI La foto con Graviano, Delfino e Berlusconi fatta a Orta nel ’92 quando? In estate? Prima di Borsellino o dopo la morte di Borsellino?

SALVATORE BAIARDO Dopo.

PAOLO MONDANI Mi domando: avete altri documenti, Altre foto, altre cose di questo tipo?

SALVATORE BAIARDO No.

PAOLO MONDANI Berlusconi sa che avete le foto?

SALVATORE BAIARDO Uh.. (in segno di approvazione)

PAOLO MONDANI E come gli è stato comunicato che voi avete queste foto? Glielo hai comunicato tu?

SALVATORE BAIARDO Secondo te come c’è stato l’incontro con Paolo?

PAOLO MONDANI Tu sei andato a parlare con Paolo Berlusconi e all’incontro con Paolo Berlusconi gli hai detto che ci sono le foto? Gliele hai fatte anche vedere a Paolo Berlusconi?

SALVATORE BAIARDO (Annuisce)

PAOLO MONDANI Tosta. E Paolo Berlusconi come ha reagito? Dimmi una cosa almeno.

SALVATORE BAIARDO (Fa il segno della paura)

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO L’avvocato di Paolo Berlusconi ci informa che “percepito il tono insinuante di Baiardo, Berlusconi lo ha allontanato bruscamente e nessun riferimento fu fatto a fotografie di alcun genere”. Paolo Berlusconi sul punto si è avvalso della facoltà di non rispondere di fronte ai magistrati di Firenze. Ma un poliziotto della sua scorta ha testimoniato che Baiardo era venuto a screditare Silvio, il fratello che conta di più. Niente di vero per Baiardo che a Firenze dice che l'incontro, avvenuto nel 2011, gli era servito solo per chiedere a Paolo Berlusconi un posto di lavoro. Quindi non gli avrebbe mostrato le famose foto. Ultimo atto. Massimo Giletti rivela ai magistrati fiorentini di averne vista persino una, a noi Baiardo dice di averle addirittura scattate. Ma dopo la sospensione del programma di Giletti per ragioni ancora da chiarire e dopo che diventa pubblica la sua testimonianza alla Procura di Firenze, Baiardo compie la giravolta: su TikTok nega l'esistenza delle foto e racconta che le sue rivelazioni a Report del 2021 erano tutta un'invenzione.

SALVATORE BAIARDO – 16/05/2023 La Procura l'altro giorno mi sente proprio sulla base di queste dichiarazioni su Berlusconi. Son saltate fuori cose inimmaginabili: che addirittura ho delle foto che ritraggono lui insieme a Graviano e al generale Delfino. Tutte cose da fantascienza.

SALVATORE BAIARDO – 01/05/2023 Quando mi vedo arrivare questo signor Mondani, giornalista di Report, la prima cosa che vedo che cos'è, che questo ha una telecamera nascosta. Perciò, non è che questo mi dice Baiardo facciamo un'intervista, le va bene così gli avrei detto di sì. Gli avrei raccontato altre cose, magari veritiere. Appena mi sono accorto che questo qui aveva una telecamera nascosta, mi ruba l'intervista a telecamera nascosta e il Baiardo cosa fa: il Baiardo si sfoga a raccontargli un mucchio di fesserie.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Contento lui. Comunque alcune cose le ha confermate poi alla magistratura, altre le ha confermate parlando al telefono mentre era ascoltato dalla magistratura che lo aveva messo sotto intercettazione proprio a partire dal 2021 dopo la nostra puntata. Ed è così che i magistrati scoprono che l'uomo che ha gestito la latitanza dei fratelli Graviano ad un certo punto mostra una foto a Massimo Giletti e Massimo Giletti viene convocato dai magistrati e a quel punto non può non dire la verità all'autorità giudiziaria. Ecco Giletti dice di aver visto una foto stile Polaroid dai colori sbiaditi. Baiardo gliela mostra nascondendola nella tasca interna della giacca e riconosce, seduti intorno ad un tavolo nella piazza del Lago d'Orta, due persone su tre. E al centro c'è Silvio Berlusconi. Indossa una polo scura e alla sua sinistra c'è il generale Delfino, anche lui vestito in borghese di scuro, che Giletti conosce benissimo perché era suo padre, amico dell'imprenditore rapito Soffiantini. Accanto a loro c'era un giovane seduto che Giletti non riconosce, ma che secondo Baiardo è Giuseppe Graviano. Ora dell'esistenza di queste foto, Baiardo parla anche al nostro Paolo Mondani a marzo 2023. Poco prima che succedesse tutto il caos. E aggiunge anche dei particolari. Dice che le foto sono tre e anche di averla scattata lui. Ecco, è il 2 marzo e Baiardo a quel punto comincia a giocare su due tavoli in via una foto sua e del nostro inviato Mondani a Massimo Giletti e gli dice "Ma gli hai parlato tu delle foto?". Giletti dice: Ma quali? Quelle che ben sai, quelle che conosci. E poi gli dice di fare attenzione alla data dell'8 marzo. Ecco, noi da una prima ricerca abbiamo scoperto che quella data coincide con il pronunciamento della prima sezione penale della Cassazione in merito alla riforma dell'ergastolo ostativo del governo. Insomma, una sorta di banco di prova. Ma che gioco gioca Baiardo, per conto di chi gioca Baiardo? Ora noi non conosciamo i motivi per cui è stata sospesa la trasmissione di Massimo Giletti e della sua squadra, ma se dovessero essere questi che abbiamo visto i motivi e non vogliamo pensarlo, sarebbe grave per la libertà di stampa e soprattutto per il futuro del nostro Paese. L'oracolo Baiado aveva presentato, aveva azzeccato la malattia di Matteo Messina Denaro e anche l'arresto, la data. Aveva detto “è un regalo per il governo” e ha detto “Ci sono delle date - usando il plurale – “date che parlano da sole”. Questo l'aveva detto mesi prima. Poi Matteo Messina Denaro è stato arrestato il 16 gennaio. Il giorno dopo, cioè quel 15 gennaio in cui fu arrestato Totò Riina trent'anni fa. Quel 15 gennaio che coincide con il compleanno della premier Giorgia Meloni. Ora la mafia, da quello che ci risulta da alcune investigazioni ancora segrete, la mafia sarebbe anche un po' irritata nei confronti della premier perché non ha ceduto nonostante le pressioni all'indebolimento del 41 bis. E la Meloni ha detto più volte “Io non sono ricattabile”. Vivaddio. Ecco, tra 30 secondi passiamo invece ad un altro oracolo. Giusto il tempo di dare qualche consiglio su come aiutare la popolazione dell’Emilia-Romagna

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora stavamo parlando di Salvatore Baiardo, l'oracolo che aveva predetto con incredibile precisione la malattia e l'arresto di Matteo Messina Denaro. Noi come giornalisti, non possiamo far altro che notare e sottolineare un'altra coincidenza. Nel 1992 ci fu un altro personaggio di quelle presunte foto, il generale Delfino, che aveva Balduccio Di Maggio come confidente, e indossò i panni dell'oracolo. Baiardo ante litteram, profetizzando anche lui un regalino, questa volta per l'allora ministro della Giustizia Martelli. Insomma, o è l'aria del lago che rende tutti così visionari o sono le frequentazioni?

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La storia della cattura di Totò Riina è il principio di ogni mistero. Perché è da quel momento che mafia, stato, stragi, e depistaggi si incastrano. Il mafioso Balduccio Di Maggio venne arrestato l'8 gennaio del 1993 a Borgomanero che è a un passo da Omegna e da Meina dove svernavano Baiardo, i fratelli Graviano e il generale Delfino a cui Di Maggio racconterà come catturare Totò Riina che verrà arrestato dal Ros dei carabinieri il 15 gennaio successivo. Ecco quel che racconta Giuseppe Graviano al processo 'ndrangheta stragista. Qualche giorno prima della cattura di Balduccio Di Maggio succede qualcosa di strano sul lago d'Orta.

GIUSEPPE GRAVIANO BOSS MAFIOSO PROCESSO 'NDRANGHETA STRAGISTA - 21.02.2020 Eravamo io, Baiardo, mio fratello e un’altra persona. Ci facciamo una partitina a carte, a poker. Che cosa è successo? Si erano fatte le sei, sette…sei e mezzo, una cosa del genere. Il signor Baiardo è andato a prendere i cornetti per la colazione. Ritorna e dice…sapete? C’è un altro collaboratore di giustizia, si chiama Balduccio Di Maggio. A proposito questo vi dimostra, che se io avessi voluto avrei avvisato o’ signor Riina o chi per lui per dire state attenti c’è Balduccio Di Maggio che sta collaborando e io vi posso indicare anche la villa dove è stato portato.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Giuseppe Graviano non avverte Riina e sa dove è stato portato il neo-pentito Balduccio Di Maggio, che però verrà arrestato formalmente solo tempo dopo, l’8 gennaio del 1993. A che gioco giocava Graviano? Cominciamo a capirlo ascoltando quel che capitò alcuni mesi prima al ministro della Giustizia di allora, Claudio Martelli.

PAOLO MONDANI Siamo nell'estate del 1992 e ad un certo punto la viene a trovare il generale Delfino.

CLAUDIO MARTELLI - MINISTRO DELLA GIUSTIZIA 1991-1993 Eravamo all’indomani della strage di via D’Amelio e ancora però non si erano viste reazioni adeguate. Ha esordito dicendo: “non si angosci, non si preoccupi Presidente glielo portiamo noi Riina. Le facciamo noi un regalo per Natale, noi, noi. Glielo portiamo noi”. Io l’ho guardato tra il sorpreso e l’incuriosito, ma lui non ha voluto aggiungere altro.

PAOLO MONDANI L’8 gennaio del 1993 infatti viene catturato Balduccio Di Maggio, che poi racconterà di Riina eccetera. Balduccio Di Maggio stava a Borgomanero da molto tempo, quindi lei ebbe l’impressione dopo, ci ripensò, rifletté su quello che le aveva detto Delfino? Pensò che l’avessero già preso?

CLAUDIO MARTELLI - MINISTRO DELLA GIUSTIZIA 1991-1993 Se già da luglio Delfino si espresse in quei termini vuol dire che già da luglio lo avevano perlomeno sondato. Perché l’atteggiamento di Delfino è di chi era molto sicuro del fatto suo, cioè mi ha dato una comunicazione che nessuno poteva immaginare men che meno io, con grande certezza. Addirittura fissando la data.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Salvatore Baiardo predice la cattura di Messina Denaro e trenta anni prima il generale Delfino predice quella di Totò Riina. Due veggenti o dietro di loro si muove la stessa trama, quella di uno scambio dove la mafia incontra uomini dello Stato? Il solito Baiardo, su Di Maggio, Graviano e Delfino, forse non a caso, sa qualcosa in più.

PAOLO MONDANI A dibattimento "‘Ndrangheta stragista" Graviano dice quella storia di te poco prima del Capodanno ‘92 ‘93, che vai a prendere i cornetti una mattina dopo una lunga partita di poker. La racconta Graviano.

SALVATORE BAIARDO Quella è la storia di Di Maggio.

PAOLO MONDANI Quella che torni dicendo Di Maggio, ma Di Maggio era stato portato lì da Graviano.

SALVATORE BAIARDO Sì a Borgomanero lì all’officina, ma lui gli aveva trovato da lavorare lì.

PAOLO MONDANI Perché lui aveva insidiato la fidanzata di Brusca e Brusca non era...

SALVATORE BAIARDO E voleva farlo fuori.

PAOLO MONDANI Ascoltami, ma chi l’ha consegnato Balduccio Di Maggio a Delfino?

SALVATORE BAIARDO Lo ha fatto consegnare Graviano.

PAOLO MONDANI E come lo consegna, glielo presenta? Che fa’? Che succede? Materialmente lui?

SALVATORE BAIARDO È stato Balduccio Di Maggio ad andare da Delfino.

PAOLO MONDANI È stato Balduccio Di Maggio ad andare da Delfino? A casa sua? Lì in questo paesino, a Meina?

SALVATORE BAIARDO È così.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Stando a questa ricostruzione, Graviano consegna Di Maggio a Delfino. E così vende Totò Riina allo Stato. E la storia si incastra con quanto raccontò il pentito Gaspare Spatuzza, uomo fidato di Giuseppe Graviano che a lui confidò particolari importantissimi che spiegano cosa c'era in ballo con Berlusconi. Siamo al 21 gennaio del 1994 al bar Doney, in via Veneto a Roma.

GASPARE SPATUZZA - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA PROCESSO DEPISTAGGIO STRAGE VIA D'AMELIO - 05/02/2019 Siamo entrati in questo bar, con un'espressione, io che sono cresciuto con Giuseppe Graviano, di una felicità immensa. Quindi Giuseppe Graviano mi indica che avevano chiuso tutto e avevamo ottenuto tutto quello che noi cercavamo. In tale circostanza venne a dire che la personalità, quello che aveva gestito un po' tutto era Berlusconi, gli dissi: ma chi quello del Canale Cinque? E lui mi ha detto che era quello del Canale Cinque. E tra cui c'è di mezzo un nostro compaesano: Dell'Utri.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Parlando con il compagno di detenzione Umberto Adinolfi, Graviano è esplicito su quello che pensa oggi di Berlusconi. E lo indica precisamente come l'Autore.

CARCERE DI ASCOLI PICENO INTERCETTAZIONE TRA GIUSEPPE GRAVIANO E UMBERTO ADINOLFI - 14/03/2017 Io ti ho aspittatu fino adesso picchì haio cinquantaquattr’anni, i giorni passano, gli anni passano, sto invecchiando... e no, e tu mi stai facennu morire ‘ngalera senza io aver fatto niente, che sei tu l’autore. Ma ti viene ogni tanto in mente, di fariti ‘na passata... di passarite a mano ‘nta cuscienza, se è giusto che per i soldi tu fai soffrire le persone così?

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO I fratelli Graviano e il loro favoreggiatore Baiardo hanno sempre detto di essere stati a un passo da Berlusconi. E Berlusconi li ha sempre smentiti. Ora parliamo di due verbali dimenticati. Nel 1996 Francesco Messina era alla Dia e indagava sulle stragi del 1993 insieme al magistrato fiorentino Gabriele Chelazzi, quando firmò due verbali con le rivelazioni di un confidente fino ad allora sconosciuto, Salvatore Baiardo.

PAOLO MONDANI Baiardo le confessa di avere assistito nella sua casa tra il 91 e il 92 a conversazioni telefoniche tra Filippo Graviano e Marcello Dell’Utri dalle quali si evinceva che i due avevano interessi economici in comune in Sardegna.

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Dunque, lui disse di avere assistito a una conversazione telefonica tra Filippo Graviano e un tale Marcello, non disse che si trattava di Dell’Utri, questo bisogna dirlo per onore della cronaca.

PAOLO MONDANI Successivamente Baiardo aveva capito dai fratelli Graviano, tramite un commercialista di Palermo che era Fulvio Lima, parente del politico Salvo Lima, che venivano trasferiti ingenti capitali proprio a Marcello Dell’Utri.

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Parlò di questo co-interessamento anche di Fulvio Lima a questo genere di trasferimento di capitale. Ma anche questo comunque fu rammostrato, fu riferito all’autorità giudiziaria.

PAOLO MONDANI La villa dove i Graviano stavano nell’agosto del ’93, dopo le stragi, era ubicata a Punta Volpe, ed è Baiardo che paga l’affitto per conto dei Graviano. Quanto distava dalla villa di Silvio Berlusconi quella villa?

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Ma guardi lui raccontò di avere accompagnato, di avere dovuto recapitare una valigia ai fratelli Graviano che si trovavano in vacanza in Sardegna. E che questa valigia a un certo punto fu recapitata in una villa che era diciamo nel comprensorio vicino a dove c’era la villa del prossimo Presidente del Consiglio.

PAOLO MONDANI Cosa le sembra che Gabriele Chelazzi avesse intuito alla fine del suo percorso investigativo sulla strage di Firenze e sulla strage di Milano, le stragi del’ 93.

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Io credo che lui avesse percepito chiaramente da tempo, che, diciamo, dietro a questi fatti non c’era soltanto l’ala militare di Cosa Nostra corleonese.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Quindi Salvatore Baiardo diventò testimone fiduciario della Dia e del pubblico ministero Gabriele Chelazzi -che morirà improvvisamente nel 2003- sui presunti rapporti tra Graviano e Berlusconi. Recentemente Baiardo è stato più volte interrogato dal pubblico ministero di Firenze Luca Tescaroli nell'ambito delle indagini sui mandanti delle bombe di Firenze, Roma e Milano del 1993, che dopo alcune archiviazioni vedono Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri ancora sotto indagine. Mentre è accertato che Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro sono stati la mente pensante di quelle stragi.

DANILO AMMANNATO - ASSOCIAZIONE PARENTI VITTIME STRAGE VIA DEI GEORGOFILI Cosa Nostra nel ’93 con le stragi colpisce il vecchio per favorire, per facilitare l’avvento del nuovo soggetto politico. La sentenza 5 agosto 2022 secondo grado Trattativa, ci attesta, ci prova che ci fu una convergenza di interessi, cito testualmente: “Vi fu chi come Marcello Dell’Utri tramava, dialogando direttamente con gli esponenti mafiosi. Dell’Utri portò avanti su imput di Provenzano e Graviano questa opera di mediazione per canalizzare il voto mafioso in previsione di assicurare dei vantaggi alla organizzazione.”

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Sulla trattativa Stato mafia, la Cassazione ha confermato l'assoluzione in appello degli ufficiali del Ros e di Marcello Dell'Utri per non aver commesso il reato che è quello di attentato agli organi politici dello Stato. Però già nella sentenza del 2022 della Corte d'Appello, che assolveva già Marcello Dell'Utri, c'è scritto che Dell'Utri “aveva tramato per assicurare certi risultati elettorali dialogando direttamente con gli esponenti mafiosi”. Ecco in queste settimane la Procura di Firenze deve decidere come procedere nei confronti di Dell'Utri e Berlusconi, indagati come mandanti esterni delle bombe del '93 e del '94. È un filone che viene da lontano, dal 1998 e viene rimbalzato tra le procure di Caltanissetta e Firenze. Un reato, lo diciamo, un'ipotesi di reato, per la quale sia Berlusconi che Dell'Utri sono stati già archiviati tre volte. E ora questa nuova inchiesta parte invece dalle nuove intercettazioni in carcere e dalle dichiarazioni di Giuseppe Graviano nel procedimento “'ndrangheta stragista” a Reggio Calabria. Graviano, che al 41 bis in cerca di benefici, ha detto che sarebbero stati investiti vecchi 20 miliardi di lire dal nonno nelle attività di Silvio Berlusconi. E ora i magistrati hanno avviato anche delle perquisizioni nelle case dei familiari dei Graviano in cerca di questa carta privata e poi hanno avviato anche nuove perizie sui flussi finanziari della Fininvest, che sarebbero risultati 70 miliardi di vecchie lire di cui la provenienza non sarebbe certa. E hanno analizzato anche i flussi di denaro tra Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. Sarebbero spuntate fuori delle donazioni per milioni di euro e un compenso mensile di 30mila euro secondo Berlusconi sono un segnale di riconoscimento, di stima, di gratitudine nei confronti dell'amico Marcello e anche per ricompensarlo delle spese legali per i procedimenti che ha dovuto affrontare. Ora per i pm, invece, sarebbero la prova del pagamento di un ringraziamento, diciamo così, nei confronti di Marcello Dell'Utri per non aver coinvolto il Cavaliere nei processi di mafia. Ecco, una tesi che è entrata anche in una informativa della Dia di Firenze del 2021. Ora, ci scrive invece l'avvocato di Silvio Berlusconi, Giorgio Perroni, e dice che tutto il suo patrimonio è perfettamente ricostruibile. Dice che siamo di fronte a una macchina del fango illegale perché le due perizie sarebbero ancora protette da segreto istruttorio. In realtà sarebbero state già depositate al Tribunale del Riesame di Roma in un altro procedimento. Solo che a Giorgio Perroni ancora non erano state notificate, non le aveva ricevute. Ecco, qu questo punto l'avvocato ha presentato una denuncia alla Procura della Repubblica di Firenze, chiedendo di individuare chi siano gli autori di questa presunta fuga di notizie. Vedremo come andrà a finire. Tornando invece alla strage dei Georgofili del 27 maggio di trent'anni fa, dove hanno perso la vita cinque persone, tra cui due bambine, ecco va detto che il pentito Gaspare Spatuzza ha detto "questi morti non ci appartengono". E allora? E allora insomma, in una recente relazione della commissione Antimafia è spuntato o sono spuntate informazioni e sono inquietanti sull'esecuzione dell'attentato. L'autore è un magistrato che a lungo ha indagato sulle stragi, Gianfranco Donadio.

GIANFRANCO DONADIO – PROCURATORE DI LAGONEGRO – EX MAGISTRATO DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA La commissione parte innanzitutto da un dato indiscusso. A via dei Georgofili furono collocati 250 chili di esplosivo. I mafiosi a Firenze disponevano all’incirca di 130, 140 chili

PAOLO MONDANI Qualcuno che non è mafioso quindi aggiunge l’esplosivo militare.

GIANFRANCO DONADIO – PROCURATORE DI LAGONEGRO – EX MAGISTRATO NAZIONALE ANTIMAFIA Nelle automobili dei mafiosi vi sono solo tracce di tritolo. Dobbiamo escludere che i mafiosi avessero altro. Quindi, altri hanno aggiunto alle cariche portate dai mafiosi esplosivo ad alto potenziale di tipo militare.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO I periti balistici della strage di Firenze hanno da poco rifatto la perizia sulla bomba dei Georgofili.

PAOLO MONDANI La miscela dell’esplosivo di Georgofili era composta da?

LORENZO CABRINO - PERITO BALISTICO Tritolo, probabilmente in parte preponderante visto gli annerimenti eccetera

PAOLO MONDANI Gli annerimenti delle pietre, della zona.

LORENZO CABRINO - PERITO BALISTICO Gli annerimenti della zona attorno al punto di scoppio. Poi dinitrotoluene, che potrebbe anche derivare dall’esplosione del tritolo. Poi T4, pentrite e nitroglicerina.

PAOLO MONDANI Per la parte che riguarda l’esplosivo da cava mi è chiaro dove si possa reperire. Ma il T4 e la pentrite dove si reperisce?

LORENZO CABRINO - PERITO BALISTICO Questi due tipi di esplosivo sono assieme nel plastico di fabbricazione cecoslovacca, che veniva utilizzato in campo civile cioè in miniera denominato Semtex H. Separatamente il T4 può stare insieme al tritolo in tritoliti, cosiddetti, di cui la più comune è quella di origine americana Compound B.

PAOLO MONDANI Stabilire se il T4 viene dal Semtex H di produzione cecoslovacca o dal Compound B di produzione americana è possibile?

LORENZO CABRINO- PERITO BALISTICO No.

PAOLO MONDANI Dopo l’esplosione?

LORENZO CABRINO - PERITO BALISTICO No. Chimicamente non è possibile.

PAOLO MONDANI Quindi non sappiamo se viene dalla Cecoslovacchia o dagli Stati Uniti.

LORENZO CABRINO - PERITO BALISTICO No.

ROBERTO VASSALE PERITO BALISTICO - EX COMANDANTE COMANDO RAGGRUPPAMENTO SUBAQUEI LA SPEZIA I reparti speciali hanno due plastici, uno con la pentrite e l’altro con il T4. Però è difficilissimo recuperarlo. Bisogna entrare a Comsubin, ammazzare la sentinella e andarle a prendere.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Rimane quindi un mistero chi ha procurato l’esplosivo al plastico per la strage di Firenze. Ma i misteri irrisolti non finiscono qui. Alcuni uomini della polizia giudiziaria fiorentina fecero indagini che non piacquero a molti.

EX AGENTE DI POLIZIA GIUDIZIARIA Una nostra fonte interna al mondo massonico fiorentino ci disse che nella Torre dei Pulci c'era un centro di raccolta dati metereologici guidato da Giampiero Maracchi, un climatologo di livello internazionale che è morto pochi anni fa. Ora questo centro era un Laboratorio di Monitoraggio collegato a satelliti con i computer sempre accesi. Quindi per molto tempo si disse che c’era un collegamento con i servizi segreti. Poi ci fu raccontato che l'Accademia dei Georgofili che era ospitata sempre all’interno della stessa Torre era una istituzione in mano alla massoneria, quella che conta di più a Firenze, e che poteva essere diventata il bersaglio di una massoneria collegata alla mafia. Insomma, non era detto che il vero obiettivo della bomba fossero gli Uffizi ma poteva essere che i Georgofili fossero diventati il bersaglio di una mente criminale più raffinata insomma.

PAOLO MONDANI Giungeste a delle conclusioni in queste indagini?

EX AGENTE DI POLIZIA GIUDIZIARIA Dopo due mesi di indagini accaddero tre fatti. Primo fatto: un ex carabiniere che era stato assunto nella Security di una grande azienda ci venne a dire che se continuavamo con le indagini ci dovevamo ricordare della vicenda dei militari morti dopo Ustica, cioè di quelle morti strane degli ufficiali che avrebbero dovuto testimoniare su quello che era successo la notte che fu abbattuto l'aereo. E noi lo prendemmo come un avvertimento pesante. Secondo fatto: quando dovevamo procedere con la perquisizione a casa del soggetto centrale dell’inchiesta, un nostro superiore lo chiamò e lo avvertì che stavamo arrivando e di fatto ci ha bruciato le indagini. E poi terzo fatto: un importante magistrato improvvisamente impose al nostro capo di troncare le indagini.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Da 30 anni si indaga anche sulla presunta presenza di una donna nelle stragi del 1993. Ecco gli identikit della bionda che avrebbe partecipato alla strage di Firenze di via dei Georgofili e della mora che avrebbe preso parte a quella di via Palestro a Milano. In un documento del Sisde, il servizio segreto civile, oggi Aisi, datato 19 agosto 1993 conservato all’archivio centrale dello Stato si legge: “una fonte del servizio operante nell’ambito della criminalità organizzata del capoluogo lombardo ha riferito: il commando che ha preparato e innescato l’autobomba esplosa in via Palestro a Milano sarebbe stato composto da due artificieri appartenenti ad una organizzazione parallela ed affiliata alla Mafia e da una donna che avrebbe parcheggiato la macchina con l’esplosivo. In passato sarebbe stata soprannominata “Cipollina”. Della bruna Cipollina e della bionda ci parla Marianna Castro, ex compagna del poliziotto Giovanni Peluso indagato come "compartecipe ed esecutore materiale della strage di Capaci". La catena di comando di questo nucleo occulto di agenti speciali di cui avrebbe fatto parte anche Peluso secondo la signora Castro era formata da Giovanni Aiello, faccia di mostro, e da Bruno Contrada ex numero tre del Sisde.

PAOLO MONDANI Faccia di mostro per suo marito era il?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Sì, lavoravano insieme però è un suo superiore.

PAOLO MONDANI Contrada?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Era il superiore di loro.

PAOLO MONDANI Suo marito sparisce qualche giorno durante l’attentato a Falcone, no?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Sì, sì, venerdì mattina.

PAOLO MONDANI Tre giorni. Successivamente le dice che secondo lui Falcone era stato ucciso….

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Si ha detto che a uccidere Falcone non era stata la mafia ma erano stati i servizi segreti.

PAOLO MONDANI E lei non ha chiesto spiegazioni? A chi dava fastidio Falcone? Perché i servizi segreti hanno fatto saltare Falcone?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Dice che dava fastidio alla politica italiana e poi dice che era pure dei favori fatti a degli amici americani.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO A questo punto Marianna Castro ci racconta di un viaggio a Milano fatto da Peluso a fine luglio del ’93, alla viglia dell’attentato in via Palestro. Stesso viaggio anche a Firenze poco prima della strage

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO La sera stacco dal lavoro alle otto allora ha detto: ti devi sbrigare a venire a casa perché mi devi accompagnare allo svincolo di Napoli perché ci sono tre persone che lavoriamo tutti e quattro insieme e dobbiamo partire per fare delle indagini. Allora io arrivo e lo accompagno là e c’era la macchina che l’aspettava e lì dentro c’era pure Giovanni Aiello con due donne, una bionda davanti e una mora di dietro.

PAOLO MONDANI E dove andavano?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Eh…no dice che dovevano andare a Milano per fare delle indagini. Poi è tornato dopo la strage di Milano.

PAOLO MONDANI Sì.

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Gli ho detto scusa ma…siete partiti, siete tornati e c’è stato questo attentato? Ha detto: che vuoi dire che siamo stati noi? Ma e scusa che siete andati a fare fin là, a fare le indagini di che?

PAOLO MONDANI E lui come rispose?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Niente. Perché poi lui spariva, ritornava. Non…e a Firenze è stata la stessa storia con la strage di Firenze.

PAOLO MONDANI Cioè?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Sempre a dire mi devi accompagnare che mi aspettano, che qua… che là…benissimo lo accompagno là

PAOLO MONDANI E sempre faccia da mostro con...?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Con la donna davanti dice…lui diceva: la donna davanti è la segretaria.

PAOLO MONDANI Bionda.

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Bionda, che era la nipote di Parisi.

PAOLO MONDANI Lui dice che era la nipote di Parisi?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Eh, era la nipote di Parisi quella Antonella. Io quando mi hanno fatto vedere le foto, prima mi hanno fatto vedere l’identikit delle donne bionde…e ho riconosciuto quella con i capelli un po' più lunghi e ho detto questa le assomiglia.

PAOLO MONDANI Ma se io le faccio vedere la fotografia della persona eh…che è stata pure dalla Procura di Firenze indicata come la possibile...

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO La Cipollina, la possibile Cipollina, che lui chiamava Cipollina.

PAOLO MONDANI Lui chi? Suo marito? La chiamava Cipollina?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO E allora a un certo punto siccome a mia figlia quella piccola la chiamava Cipollina io gli ho detto: “Scusa ma perché chiami Cipollina?” dice: “perché io ho una collega che lavoriamo insieme che c’ha……porta i capelli corti mori a uso cipolla”.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Secondo Marianna Castro la donna bionda era nipote del capo della Polizia Parisi. In effetti in questi anni indagini calabresi si sono concentrate su Virginia Gargano, parente acquisita di Vincenzo Parisi e ritenuta vicina a Giovanni Aiello, Faccia di Mostro. Vicinanza mai accertata. Il legale di Virginia Gargano ritiene che le ipotesi di accusa siano indimostrate e indimostrabili. Marianna Castro riconosce anche la donna mora, che risulta essere soprannominata Cipollina esattamente come risultava al Sisde. Il 27 luglio del 1993 una bomba in via Palestro a Milano uccide cinque persone e ne ferisce dodici. I magistrati ritengono che ci sia un buco di 48 ore nella ricostruzione della preparazione della strage perché nessuno dei collaboratori di giustizia sa dire quel che accadde dopo. Come se i mafiosi avessero passato nelle mani di altri l’esecuzione. Fabrizio Gatti nel 2019 scrive “Educazione americana” la storia di un agente della Cia di stanza a Milano che gli rivela i retroscena della strage.

FABRIZIO GATTI - GIORNALISTA Dice di chiamarsi Simone Pace, il suo nome convenzionale, quindi io credo che sia anche un nome finto, e racconta e rivela che in quegli anni degli attentati così come prima e negli anni successivi esiste in Italia e anche a Milano una squadra clandestina della Cia formata da cittadini italiani e americani e in particolare lui, nei mesi precedenti all’attentato di via Palestro, viene coinvolto dal suo capo americano che dice di chiamarsi Viktor, viene coinvolto in un sopralluogo in via Palestro.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Siamo in un sabato di metà aprile del 1993, il responsabile Cia Viktor porta Simone Pace senza alcun preavviso in via Palestro. Lì prende delle misure con i passi e si annota a matita su un foglio alcune informazioni. E poi, passano ai fatti.

FABRIZIO GATTI - GIORNALISTA Viktor il suo capo, che loro chiamano in gergo "il controllore" chiede a Simone Pace di comprare del fertilizzante a base di nitrati, della carbonella e dello zolfo, che sono i componenti per produrre, per fabbricare la polvere da sparo. Si danno appuntamento al primo maggio, sempre del 1993 in un appartamento dalle parti di Arluno e lì in questo appartamento in un caseggiato popolare dove Viktor dice di abitare, fabbrica, Viktor, con questi ingredienti e un tubo di plastica una miccia e con un timer misurano la durata di combustione di questa miccia che è due minuti e nove secondi circa.

PAOLO MONDANI Si scopre che ad Arluno, a poche centinaia di metri dalla casa di Viktor, "il controllore", il capo di questa squadra clandestina della Cia, i due mafiosi Carra e Lo Nigro avevano portato l’esplosivo per la strage, appunto...

FABRIZIO GATTI GIORNALISTA L’autista del camion Pietro Carra, che poi diventerà collaboratore, racconta di un uomo che prende in consegna questo esplosivo, che arriva all’appuntamento su una 127 bianca e dalla sua descrizione potrebbe trattarsi dello stesso Viktor: un uomo sui quarant’anni, abbastanza calvo, che tra l’altro si muove con una 127 bianca.

PAOLO MONDANI Questo agente della Cia, Simone Paci, che è un po’ la tua fonte, che cosa ti dice a proposito del contesto di quei giorni? Della strage...

FABRIZIO GATTI GIORNALISTA Lui si definiva un facilitatore della storia, laddove i governi non possono arrivare ci sono gli agenti segreti che in qualche modo anticipano gli eventi e creano le condizioni perché tutto questo accada.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Nell'ultima relazione l’Antimafia scrive: “si impone una verifica dei dati e delle informazioni raccolte dal Sisde in ordine all'esistenza di un'organizzazione parallela con finalità terroristiche che avrebbe affiancato la mafia nelle stragi”. Ecco, noi di Report in questi anni abbiamo dimostrato, raccontato, portato prove e testimonianze che le stragi del '92 e del '93 non sono altro che la continuazione di quella strategia della tensione cominciata negli anni '70 e '80 con lo stesso sistema criminale. E poi è quello anche che è emerso dalle recenti sentenze della strage di Bologna. Ora la domanda è questa verifica dei fatti che chiede l'antimafia, qualcuno la sta facendo?

Giovanni Falcone top secret, da 31 anni sono sepolti in un cassetto gli appunti del più celebre Pm antimafia. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 27 Maggio 2023

“Buona parte degli atti del procedimento non ha avuto divulgazione mediante l’inserimento in fascicoli processuali o modalità equivalenti ed è, per di più, tenuto conto della materia trattata, sempre concreto oggetto di eventuali nuove indagini”. È quanto ha scritto nei mesi scorsi Salvatore De Luca, procuratore della Repubblica di Caltanissetta, ai giornalisti del Dubbio Damiano Aliprandi e del Quotidiano di Sicilia Roberto Greco in risposta alla loro istanza di accesso agli atti del procedimento sulla strage di Capaci e quindi ai “diari” di Giovanni Falcone.

Il diniego dell’istanza dei due giornalisti di prendere visione dei diari, in pratica degli appunti che il magistrato aveva scritto negli ultimi anni della sua vita, è solo l’ultimo in ordine di tempo.

Nei giorni scorsi avevamo raccontato l’imbarazzato silenzio del “segreto istruttorio” opposto dal procuratore aggiunto di Firenze Luca Turco ai consiglieri del Consiglio superiore della magistratura che gli chiedevano conto dell’indagine sulla famosa fuga di notizie del 29 maggio 2019 quando il Corriere, Repubblica e il Messaggero, con articoli fotocopia, avevano pubblicato le intercettazioni allora in corso a Perugia sull’indagine a carico di Luca Palamara.

Ma avevamo raccontato anche la “dottrina De Pasquale” per come emerge da quanto dichiarato dal pm di Milano Paolo Storari al procuratore della Repubblica di Brescia Francesco Prete il 28 maggio 2021 in relazione alla “fuga dei verbali” resi dal noto avvocato e lobbista siciliano Piero Amara sulla cd Loggia Ungheria quando il magistrato milanese capì che non si doveva approfondire la vicenda e fece mettere a verbale: “Mi ricordo benissimo quello che De Pasquale (Fabio, procuratore aggiunto a Milano, ndr) mi ha detto … quello me lo ricordo … di tenere nel cassetto due anni questo fascicolo”. Non vorremmo, allora, che anche a Caltanissetta ci sia un “cassetto” dove riporre, lontano da occhi indiscreti, persino le memorie del miglior magistrato italiano tutti gli anni celebrato, in occasione della sua uccisione, con enfasi anche dall’Associazione nazionale magistrati.

I punti, secondo quanto riportato dall’allora giornalista di Repubblica Giuseppe D’Avanzo, in un articolo del 23 giugno del 1992, erano 39. Di questi se ne conosce qualcuno. Ad esempio, il rammarico di Falcone per l’assegnazione, decisa dal procuratore di Palermo Pietro Giammanco, delle indagini per l’omicidio del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo ad un giovane sostituto, la dottoressa Vincenza Sabatino (così avrebbe scritto Falcone: “Perché una indagine delicatissima come la riapertura dell’inchiesta sull’omicidio del colonello Russo fu affidata alla giovanissima Vincenza Sabatino?”).

Si conoscono i dubbi sull’ordine dato da Giammanco a Falcone per approfondire la vicenda Gladio, recandosi negli archivi del Sismi accompagnato “da uno dei suoi fidi sostituti”.

E si conosce la controversia che Falcone ingaggiò sempre con Giammanco dopo che il “nucleo speciale dei carabinieri consegnò in Procura il rapporto sulla mafia degli appalti”. A tale ultimo riguardo D’Avanzo aggiunse che si era trattato di “un lavoro certosino, durato anni che raccontava come tutti gli appalti di Palermo passano attraverso la mediazione di Angelo Siino, titolare di una concessionaria d’auto, uomo fidato dei Corleonesi”. Falcone valutò il rapporto con grande attenzione. Giammanco e i suoi sostituti più fidati con scetticismo. Anzi, con scherno. “Tanta carta per nulla, in questo rapporto non c’è scritto niente che merita di diventare inchiesta giudiziaria”, disse uno dei fedelissimi di Giammanco, senza essere però indicato dal giornalista.

Ebbene, tranne quelli sopra citati, dei rimanenti punti del “diario di Falcone” non si ha notizia, essendo custoditi nel famoso “cassetto” da 31 anni. Mai depositati nelle decine di processi che si sono celebrati per le stragi di Capaci e di via D’Amelio, mai consegnati ai familiari dei giudici uccisi, mai pubblicati dalla stampa forse per non dare un dispiacere a qualche magistrato. Resta quindi da chiedersi, consegnando la riflessione al Parlamento e al governo, che senso possa avere, nell’anno 2023, questo modo di agire che sembra anteporre i propri interessi conservativi a qualunque istanza di giustizia e finanche di umanità. Paolo Pandolfini

31 anni fa veniva ucciso il magistrato simbolo della guerra alla mafia. I diari di Giovanni Falcone, la strage di Capaci e una domanda: perché non sono mai stati diffusi integralmente? Paolo Pandolfini su Il Riformista il 23 Maggio 2023 

Perché non vengono pubblicati integralmente i “diari” di Giovanni Falcone? Cosa ne impedisce, a distanza ormai di decenni, la diffusione? Non sarebbe giunto il momento, dopo anche la sentenza della Cassazione che ha escluso la trattativa fra lo Stato e la mafia per far cessare le stragi del biennio 1992-93, di una operazione verità? Nel giorno del 31esimo anniversario della strage di Capaci, dove persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta, torna ancora una volta di attualità il mistero che circonda i diari del magistrato siciliano, oggetto in passato di diverse interrogazioni parlamentari rimaste senza risposta.

Pubblicati, in minima parte, un mese dopo la strage, si trovano attualmente sotto sequestro negli uffici della Procura di Palermo e della Procura di Caltanissetta. È stato ormai accertato che Paolo Borsellino sapeva che quegli appunti esistevano e che se Falcone li aveva redatti era perché i fatti da lui narrati e affidati alla memoria di uno scritto avevano grande importanza. E a tal proposito aveva detto al collega Antonio Ingroia che “Giovanni non aveva l’abitudine di tenere un diario. Se ha deciso di appuntarsi queste frasi e questi riferimenti a questi episodi, vuol dire che dietro questi fatti e questi episodi c’è molto di più di quanto non appaia”. Per questo, in quei 57 giorni di “sopravvivenza” Borsellino li aveva studiati, ne aveva parlato anche pubblicamente giungendo, in ultimo (così riteneva), vicino alla verità.

Il 24 giugno del 1992, un mese dopo la strage di Capaci e prima di quella di via D’Amelio, la giornalista di Repubblica Liana Milella, allora al Sole 24 Ore, dopo che si discuteva da giorni della loro esistenza e veridicità, riferì che quei diari esistevano e che era stato Falcone a consegnarglieli nella seconda settimana del mese di luglio dell’anno precedente. Si trattava, in particolare, di due fogli A4 nei quali erano annotati 14 punti, 14 momenti di tensione vissuti da Falcone con il procuratore di Palermo Pietro Giammanco nei mesi precedenti al suo trasferimento al Ministero di grazia e giustizia.

L’ultimo risaliva al 6 febbraio 1991. In realtà, però, non erano solo quei 14 i punti annotati da Falcone e quindi egli non aveva smesso di scrivere in quella data. Infatti, sempre in quei giorni, sul quotidiano La Repubblica, il giornalista Giuseppe D’Avanzo aveva pubblicato un articolo nel quale menzionava proprio i diari di Falcone (un articolo gemello era uscito sul Corriere della Sera, a firma di Felice Cavallaro). D’Avanzo commentava l’arrivo alla Procura di Caltanissetta, che indagava sulla strage di Capaci, dei dischetti che avrebbero dovuto contenerli e le risposte date dall’allora procuratore Salvatore Celesti che, a fronte delle numerose domande dei giornalisti sulla esistenza e veridicità di quegli scritti di cui tanto si parlava, dichiarava “risolto il mistero”, affermando di essere in possesso di tutto il materiale rinvenuto.

L’articolo era molto dettagliato e il suo autore, poi morto nel 2011, sembrava avere visto quei diari: descriveva il contenuto di quelle annotazioni e ne commentava alcune, che appaiono, oggi, particolarmente significative. Ciò che più rileva è che molte di esse non erano tra quelle annotate dalla collega del Sole 24 Ore. Una volta trasferito in Procura come aggiunto, Falcone aveva, aggiornandolo sul computer, un “diario”. “Nessun veleno o tono rancoroso. Solo fatti e ancora fatti destinati ad una privatissima memoria”, scrisse D’Avanzo, ricordando che lo aveva svelato il magistrato Giuseppe Ayala, ne aveva parlato informalmente Paolo Borsellino ai giudici di Caltanissetta, e lo aveva confermato Leonardo Guarnotta, giudice istruttore del pool di Palermo. “Il diario non contiene nessuna informazione che possa aiutare le indagini.

Nulla di “penalmente rilevante”, dunque, ma molte circostanze che potrebbero (e dovrebbero) essere vagliate dal Consiglio superiore della magistratura”, si spinse a scrivere D’Avanzo, riportando le frasi di Ayala. “Giovanni mi disse un giorno: «Se mi succede qualcosa, tu sai che c’ è questa mia memoria». Io tagliai corto: «Dio mio, Giovanni… sempre di morte dobbiamo parlare…» Ma in un’occasione certamente ne parlò alla presenza anche di Borsellino e Guarnotta”, aveva detto Ayala.

E Guarnotta: “Ricordo perfettamente l’occasione di cui parla Ayala. Giovanni era stato già trasferito a Roma. Erano gli ultimi giorni della sua permanenza a Palermo. Nel suo ufficio c’eravamo io, Paolo (Borsellino) e Giuseppe (Ayala). Discutevamo delle ragioni che lo avevano spinto ad andar via. Ad un certo punto, Giovanni accese il computer, digitò qualcosa sulla tastiera e ci lesse un brano di quel suo diario, ce lo lesse per dimostrarci che non se ne andava di sua spontanea volontà, che era stato costretto ad andar via…”. Paolo Pandolfini

La chiave di volta delle stragi: i diari integrali di Falcone esistono e vanno “riesumati”. Prima inviati alla procura di Palermo e poi a quella nissena, sono 39 le sue annotazioni e non solo le 14 pubblicate all’epoca. Il giornalista D’Avanzo, quando era in vita Borsellino, riportò dei virgolettati. Dopo 30 anni, con la pubblicazione dei verbali del Csm, c’è il riscontro. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 22 maggio 2023

Sono 39 gli appunti di Giovanni Falcone. Non parliamo delle sue agende elettroniche dove annotava appuntamenti e spostamenti, e non si tratta nemmeno dei file di lavoro che sono stati ritrovati nel suo pc portatile inseriti con il programma “Perseo”. Parliamo esattamente dei suoi cosiddetti diari. Da non confondersi con i due fogli dattiloscritti consegnati dalla giornalista Liliana Milella, quelle sono solo 14 annotazioni e si fermano al 6 febbraio del 1991.

Le 39 annotazioni esistono, perché sono stati letti e alcuni passaggi sono stati riportati su L’Espresso e su Repubblica il 23 giugno del 1992. Il Dubbio può oggi confermare che le 39 annotazioni, ovvero i veri “diari di Falcone”, esistono. I passaggi riportati allora soprattutto dal giornalista Peppe D’Avanzo su Repubblica, trovano riscontro dopo che – a distanza di 30 anni – sono emersi i verbali delle audizioni dei magistrati di Palermo al Csm risalenti a qualche giorno dopo la strage di Via D’Amelio. Ma attenzione. I veri diari di Falcone non sono “evaporati” nel suo ufficio del ministero della Giustizia. Erano dei floppy disk requisiti dalla Criminalpol: sono stati dapprima portati per errore alla procura di Palermo e vi sarebbero rimasti per tre giorni, dopodiché sono stati inviati alla procura competente, ovvero a quella di Caltanissetta guidata dall’allora capo procuratore Salvatore Celesti.

La strage di Capaci è direttamente collegata con quella di Via D’Amelio. E si deve partire dai diari di Falcone come fece lo stesso Paolo Borsellino. Partiamo dagli articoli usciti esattamente il 23 giugno 1992 sia su Repubblica, a firma di D’Avanzo, che sul Corriere della Sera, a firma di Felice Cavallaro. Entrambi dicono sostanzialmente che alla procura di Caltanissetta – dopo che per sbaglio furono mandati alla procura di Palermo e rimasti lì fermi tre giorni – sono giunti i dischetti di Falcone che contengono tutti gli appunti del diario. Quindi abbiamo il primo dato oggettivo: due giornali diversi raccontano lo stesso episodio e mai smentito.

Ma è l’articolo di D’Avanzo che entra nel dettaglio dei diari indicando un numero ben preciso: 39 annotazioni. Riporta anche dei virgolettati di quelle annotazioni che, come vedremo, per ovvi motivi non ci sono in quelli pubblicati da Liana Milella. Quelli più significativi sono due. Uno è quello relativo al capo della procura di Palermo, Pietro Giammanco che decise di assegnare l’indagine dell’omicidio del colonnello Giuseppe Russo alla magistrata Vincenza Sabatino e non a Falcone. Scrive D’Avanzo a proposito dell’annotazione: «Perché un'indagine delicatissima come la riapertura dell'inchiesta sull'omicidio del colonello Russo fu affidata alla giovanissima Vincenza Sabatino?». Ora, con le audizioni al Csm rese pubbliche dopo 30 anni, abbiamo le parole della stessa Sabatino che conferma ciò che è stato riportato da D’Avanzo. Una annotazione che non c’è nei fogli consegnati da Liana Milella.

L’altra annotazione riporta – trascriviamo le esatte parole dell’articolo a firma di Giuseppe D’Avanzo – la «controversia che Falcone ingaggiò con Giammanco dopo che il nucleo speciale dei carabinieri consegnò in Procura il rapporto sulla mafia degli appalti». Un riscontro c’è nelle dichiarazioni rese da Antonio Ingroia che aveva lavorato a Marsala con il dottor Borsellino e che lo aveva seguito a Palermo. Egli ha dichiarato che Borsellino, dopo la morte di Falcone, era impegnatissimo nel cercare di individuare i responsabili della strage e aveva usato quei “diari” quale punto di partenza per capire ciò che era ritenuto importante dall’amico ucciso. Ingroia, sentito al processo depistaggio, alla domanda posta dall’avvocato Fabio Trizzino, ha confermato che la vicenda del “dossier mafia-appalti” era stata letta da Borsellino tra gli appunti di Falcone. Da notare che, proprio il 25 giugno – periodo del quale si parlava dei diari di Falcone –, si è incontrato con i Ros per la questione mafia-appalti e la sera stessa intervenne a Casa Professa. Lo stesso 25 giugno le autorità nissene hanno sentito la giornalista Milella per avere spiegazioni sui fogli ricevuti da Falcone. Chiaro che siano incompleti, perché la consegna – come racconta lei stessa ai pm - è avvenuta nella seconda metà di luglio 1991.

Ora però veniamo all’audizione della sorella di Falcone al Csm. Uno dei consiglieri le dice: «Sì, signora, volevo chiederle, siccome lei ha parlato di queste pagine del diario, noi abbiamo quelle del Sole 24 Ore, poi Repubblica ed anche L'Espresso ha parlato anche di altri “39 scalini” (ovviamente si è confuso, è l’inverso: prima è uscito D’Avanzo citando i 39 appunti, solo successivamente arriva la Milella, ndr), il Procuratore Celesti disse che aveva intenzione di dare alla famiglia. Vorrei sapere se lei ritiene, se avete altre cose oltre quelle pubblicate dal Sole 24 Ore».

Risponde Maria Falcone: «Se le avessimo avute, magari, le avremmo subito date a voi. Io anzi, ho da fare le mie riserve su questo punto, perché sono sicura che Giovanni era una persona molto precisa, era una persona attentissima, che non si lasciava sfuggire niente, per cui anche quelle poche righe che sono apparse sul Sole 24 Ore erano, da quello che ne abbiamo capito, degli appunti che lui si faceva, per un giorno poter venire, forse, in questa sede a confutare vari episodi che si erano venuti a creare. Io ho sentito parlare, mi hanno detto che ce ne dovrebbero essere degli altri dischetti, perché Giovanni non può avere lasciato solo quello. Ora noi abbiamo nominato anche un nostro perito personale, perché può darsi che in quegli stessi dischetti che ha il Procuratore Celesti, non so, ci sia una chiave di lettura, io tecnicamente sono azzerata per tutto quello che riguarda i computer, però può darsi che si arrivi a trovare una chiave di lettura che permetta di trovare qualche cosa in quegli stessi dischetti».

Il dato è chiaro, quei dischetti che contengono le 39 annotazioni c’erano. D’Avanzo scrive, riferendosi al capo della procura di Caltanissetta Celesti: «Il titolare dell'inchiesta sulla strage di Capaci, a tarda sera, dichiara: "Non c' è più mistero per quanto riguarda il diario". Che cosa vuol dire, procuratore, che gli appunti personali di Falcone sono stati ritrovati? "Io posso dire soltanto che tutto il materiale sequestrato nelle abitazioni e nell'ufficio di Falcone sono nelle mie mani. Posso dire soltanto che non c' è nessun mistero". Ma il diario esiste, è stato sequestrato? "Ripeto: non c' è nessun mistero". Di più il procuratore non dice, non vuol dire, non può dire».

Ma da quel momento, si parlerà solamente dei diari incompleti pubblicati dal Sole 24 Ore, e la vicenda delle 39 annotazione finisce nell’oblio. Ma c’è dell’alto. Sempre nell’articolo del 23 giugno 1992, D’Avanzo scrive chiaramente che Borsellino è stato sentito informalmente dalla procura di Caltanissetta, ma non solo: aggiunge che “Celesti interrogherà presto Ayala, Borsellino e Guarnotta”. Siamo sicuri che Borsellino non abbia ancora riferito nulla alla procura nissena, seppur informalmente? Celesti rimarrà alla guida della procura nissena fino a metà luglio. Gianni Tinebra prenderà il suo posto solo a quattro giorni dalla strage di Via D’Amelio. Quindi ci sono i verbali, se non di Borsellino, almeno di Ayala e Guarnotta? Il sottoscritto de Il Dubbio, assieme al collega Roberto Greco che ora scrive per il Quotidiano della Sicilia, ha fatto istanza per accedere ai fascicoli di Capaci proprio per poter visionare quegli eventuali verbali. Purtroppo l’istanza è stata respinta. E le 39 annotazioni di Falcone che fine hanno fatto? Ribadiamolo. Non sono spariti dal suo ufficio, ma presi e inviati per sbaglio alla Procura di Palermo. Rimasero lì per tre giorni. Qualche magistrato palermitano di allora può testimoniare di averli letti? Lo stesso Borsellino li ha potuti visionare? D’Avanzo ha avuto una buona fonte: i virgolettati riportati trovano riscontro dopo 30 anni. Basterebbe poco per risolvere il “mistero dei 39 scalini”: rispolverali.

I PM fanno ricorso: “Prove del coinvolgimento dello Stato nell’omicidio Borsellino”. Stefano Baudino su L'Indipendente il 22 maggio 2023.

Il depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio è stato consumato da uomini delle istituzioni per non disvelare il ruolo di ambienti esterni a Cosa Nostra “nella ideazione e nella esecuzione” dell’attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e ai membri della sua scorta. Lo mettono nero su bianco il Procuratore di Caltanissetta, Salvatore De Luca, e il sostituto Maurizio Bonaccorso nei motivi di appello alla sentenza di primo grado al processo “depistaggio Borsellino”, che lo scorso luglio ha dichiarato prescritto il reato di calunnia aggravato contestato ai poliziotti Mario Bo e Fabrizio Mattei e ha assolto un altro funzionario imputato, Michele Ribaudo. La prescrizione è scattata perché l’aggravante di avere agevolato Cosa Nostra non era stata confermata dalla Corte d’Assise.

L’attenzione dei magistrati si concentra sulla figura dell’ex questore di Palermo Arnaldo La Barbera – all’epoca dei fatti capo del pool di poliziotti in cui operavano Bo, Mattei e Ribaudo -, deceduto nel 2002. La Barbera è già stato inquadrato dal processo Borsellino Quater come il principale protagonista di “uno dei più gravi depistaggi della storia italiana“, che ruotò attorno al furto dell’agenda rossa del giudice palermitano, sottratta lo stesso pomeriggio del 19 luglio 1992 dal teatro della strage, e dalla successiva “costruzione” di alcuni finti pentiti. Nelle motivazioni della sentenza di primo grado, che pure ha aperto scenari importanti sul tema delle cointeressenze tra Cosa Nostra ed ambienti esterni in riferimento alla strage di via D’Amelio, il Tribunale aveva affermato che gli elementi probatori fino ad allora esaminati “non consentono di ritenere – al di là di ogni dubbio ragionevole – che Arnaldo La Barbera fosse concorrente esterno all’associazione mafiosa o che l’abbia agevolata favorendo il perdurare dell’occultamento delle convergenze dell’associazione con soggetti o gruppi di potere cointeressati all’eliminazione di Paolo Borsellino e dei poliziotti della sua scorta». Ma tale ricostruzione non ha convinto la Procura Nissena, che ora passa al contrattacco.

“I comportamenti tenuti dal dirigente della Squadra mobile” Arnaldo La Barbera, secondo i pm di Caltanissetta, risultano infatti “eccessivamente sospetti e inducono ragionevolmente a ipotizzare un ruolo del dottor La Barbera per la sottrazione dell’agenda rossa. Se realmente la spinta psicologica del dottor La Barbera nell’azione illecita che ha portato alla creazione di tre falsi collaboratori di giustizia – continuano i magistrati – fosse stata soltanto quella di ‘potere mantenere e accrescere la propria posizione all’interno della Polizia di Stato’, come ritiene il Tribunale, allora si sarebbe dovuto assistere a iniziative e comportamenti totalmente diversi, con sforzi investigativi orientati a cercare di fare luce anche sul mistero dell’agenda rossa”. Per la Procura, “la chiave di lettura alle incomprensibili condotte e reazioni del dottor La Barbera su questa specifica vicenda allora non può essere altra che quella del mantenimento delle indagini all’interno del ‘perimetro’ mafioso della strage”.

Nell’appello, i magistrati nisseni delineano un quadro che, se troverà conferma in sede processuale, porterebbe a riscrivere la storia recente del nostro Paese: “La valutazione complessiva degli elementi – scrivono i pm – non lascia dubbio sulla esistenza di cointeressenze con centri di potere esterni alla mafia nella deliberazione della strage di via D’Amelio e nella successiva partecipazione alle fasi esecutive di appartenenti ad apparati istituzionali“.

Prove ne sarebbero la “tempistica della strage che non coincide con gli interessi della consorteria mafiosa” e “la strana presenza di appartenenti al servizio di sicurezza attorno alla vettura blindata del magistrato negli attimi immediatamente successivi all’esplosione”. Secondo la Procura, il depistaggio sarebbe stato volto proprio a celare tale spaccato: “Il movente della sottrazione di un reperto così importante” come l’agenda rossa di Paolo Borsellino “da parte di soggetti che per funzioni svolte erano legittimati ad intervenire e operare sul luogo della strage e quindi esterni alla consorteria mafiosa – scrivono i pm nell’appello – non può essere altro che quello di sviare le indagini, nel senso di impedire che le investigazioni potessero fuoriuscire dal perimetro delimitato dalla matrice esclusivamente mafiosa dell’attentato di via D’Amelio”.

Rispetto alla “gestione” dei finti pentiti da parte dei poliziotti, i pm sostengono che le risultanze probatorie del processo sul depistaggio “hanno consentito di acclarare con assoluta certezza episodi di indottrinamento posti in essere da Arnaldo La Barbera e da Mario Bo” nei confronti dei collaboratori Francesco Andriotta e del più noto Vincenzo Scarantino. Il gran numero di colloqui intrattenuti dalla polizia con i finti pentiti manifestano infatti, secondo la Procura, “un costante modus operandi del dottor La Barbera e dei suoi fedelissimi funzionari caratterizzati dall’uso dei colloqui investigativi e degli accessi in strutture carcerarie per istruire i falsi collaboratori“.

Il processo – uno dei più importanti tra quelli in corso sullo spaccato delle presunte contiguità tra mafia ed ambienti istituzionali – resta ancora apertissimo. La battaglia in vista del giudizio di Appello ha ufficialmente avuto inizio. [di Stefano Baudino]

Da ansa.it il 6 aprile 2023.

"L'istruttoria dibattimentale ha consentito di apprezzare una serie di elementi utili a dare concretezza alla tesi della partecipazione (morale e materiale) alla strage di Via D'Amelio di altri soggetti (diversi da Cosa nostra) e/o di gruppi di potere interessati all' eliminazione di Paolo Borsellino".

Lo scrivono i giudici del tribunale di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D'Amelio.

Il processo si è concluso con la prescrizione del reato di calunnia aggravato contestato ai poliziotti Bo e Mattei e l'assoluzione del terzo poliziotto imputato, Ribaudo.

A dimostrare l'ingerenza di terzi soggetti sarebbero "l'anomala tempistica della strage di Via D'Amelio (avvenuta a soli 57 giorni da quella di Capaci), la presenza riferita dal pentito Gaspare Spatuzza di una persona estranea alla mafia al momento della consegna della Fiat 126 imbottita di tritolo e la sparizione dell'agenda rossa di Paolo Borsellino".

"Non è aleatorio sostenere - si legge - che la tempistica della strage di Via D'Amelio rappresenta un elemento di anomalia rispetto al tradizionale contegno di Cosa nostra volto, di regola, a diluire nel tempo le sue azioni delittuose nel caso di bersagli istituzionali (soprattutto nel caso di magistrati) e ciò nella logica di frenare l'attività di reazione delle istituzioni".

"La presenza anomala e misteriosa di un soggetto estraneo a Cosa nostra - concludono - si spiega solo alla luce dell'appartenenza istituzionale del soggetto, non potendo logicamente spiegarsi altrimenti il fatto di consentire a un terzo estraneo alla consorteria mafiosa di venire a conoscenza di circostanze così delicate e pregiudizievoli per i soggetti coinvolti come la preparazione dell'autobomba destinata all'uccisione di Paolo Borsellino".   

"A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di esponenti delle forze dell'ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell'agenda rossa non è riconducibile ad una attività materiale di cosa nostra". E' uno dei passaggi delle motivazioni della sentenza sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D'Amelio dedicato alla sparizione dell'agenda rossa del giudice Paolo Borsellino.

"Ne discendono due ulteriori logiche conseguenze. In primo luogo, l'appartenenza istituzionale di chi ebbe a sottrarre materialmente l'agenda.- scrive il tribunale - Gli elementi in campo non consentono l'esatta individuazione della persona fisica che procedette all'asportazione dell'agenda, ma è indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e, per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario o opportuno sottrarre".

"In secondo luogo,- concludono- un intervento così invasivo, tempestivo (e purtroppo efficace) nell'eliminazione di un elemento probatorio così importante per ricostruire - non oggi, ma già 1992 - il movente dell'eccidio di Via D'Amelio certifica la necessità per soggetti esterni a cosa nostra di intervenire per alterare il quadro delle investigazioni, evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage (che si aggiungono, come già detto a quella mafiosa) e, in ultima analisi, disvelare il loro coinvolgimento nella strage di Via D'Amelio".

I giudici del tribunale di Caltanissetta, che hanno depositato le motivazioni della sentenza sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D'Amelio, hanno sottolineato "l'obiettiva ritrosia di molti soggetti escussi - non solo spettatori degli avvenimenti dell'epoca, ma anche attori, più o meno centrali, delle vicende oggetto di esame - a rendere testimonianze integralmente genuine che potessero consentire una ricostruzione processuale dei fatti che fosse il più possibile vicina alla realtà di quegli accadimenti".

"Tra amnesie generalizzate di molti soggetti appartenenti alle istituzioni (soprattutto i componenti del Gruppo investigativo specializzato Falcone- Borsellino della Polizia di Stato), - spiegano - e dichiarazioni testimoniali palesemente smentite da risultanze oggettive e da inspiegabili incongruenze logiche, l'accertamento istruttorio sconta gli inevitabili limiti derivanti dal velo di reticenza cucito da diverse fonti dichiarative, rispetto alle quali si profila problematico ed insoddisfacente il riscontro incrociato".

"Senza la successiva collaborazione di Gaspare Spatuzza, della falsità della collaborazione di Vincenzo Scarantino (e della falsa ricostruzione della strage di Via D'Amelio che ne è derivata) non si sarebbe acquisita certezza. Tale circostanza deve fare riflettere sulle possibili disfunzioni, sotto il profilo dell'accertamento della verità, di vicende processuali incentrate prevalentemente su prove di natura dichiarativa provenienti da soggetti che collaborano con la giustizia.

 In altri termini, si è assistito al fallimento del sistema di controllo della prova al punto da determinare che, in ben due processi, sviluppatisi entrambi in tre gradi di giudizio, non si riuscisse a svelare tale realtà" scrivono i giudici del tribunale di Caltanissetta che hanno depositato le motivazioni della sentenza sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D'Amelio.

Estratto dell'articolo di Riccardo Arena per “La Stampa” il 7 aprile 2023.

Coniano un neologismo – scarantinizzazione – che è brutto da leggere e da pronunciare, ma è ancora peggio se si pensa al significato che i giudici di Caltanissetta gli attribuiscono: avere consentito a un picciotto di borgata di condizionare la Giustizia, al punto da avere pubblici ministeri e Corti d'Assise appiattiti sul verbo di Vincenzo Scarantino, spacciatore di droga palermitano da due soldi, che inventò dinamiche e responsabilità della strage di via D'Amelio.

[...]

È una sentenza, ma è anche la ricostruzione di un reticolo di imbrogli, inganni, coperture di altissimo livello e interessi inconfessabili, di superficialità, approssimazione, persino carrierismo: è la motivazione della decisione con cui il 12 luglio scorso, il collegio nisseno, presieduto da Francesco D'Arrigo, assolse uno dei tre imputati del depistaggio, l'ispettore di polizia Michele Ribaudo, dichiarando la prescrizione per gli altri due, il dirigente Mario Bo e il vicecommissario Fabrizio Mattei. Segno che per questi ultimi pesa l'ombra del sospetto di avere contribuito all'ordito di una tela di coperture criminali comunque messa su da altri, fra cui l'ex questore Arnaldo La Barbera, all'epoca regista delle indagini e capo del gruppo Falcone Borsellino, morto nel 2002.

«Non vi è dubbio - osserva il collegio nisseno - che La Barbera abbia agito anche per finalità di carriera, dopo essere stato "posato" alla fine del 1992, in corrispondenza con l'arresto di Bruno Contrada». Fu indotto dunque a fare «letteralmente carte false per poter mantenere e accrescere la propria posizione» in polizia «e nell'establishment del tempo».

 […]

Quale che sia stato il fine di La Barbera, rimane il fatto che senza la collaborazione di Gaspare Spatuzza il falso pentito Scarantino non sarebbe stato smentito: e questo «deve fare riflettere sulle disfunzioni, sotto il profilo dell'accertamento della verità», emerse «in ben due processi, sviluppatisi entrambi in tre gradi di giudizio», di cui né pm né giudici si accorsero, consentendo lo «sviamento del controllo giurisdizionale». In sostanza «si è assistito al fallimento del sistema di controllo della prova».

Questo però non toglie che qualcuno tramò nell'ombra: perché «il movente dell'eccidio di via D'Amelio certifica la necessità per soggetti esterni a Cosa nostra di intervenire, per alterare il quadro delle investigazioni, evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage». Responsabilità «altre», «che si aggiungono a quella mafiosa», che pezzi deviati dello Stato nascosero col depistaggio. Una vergogna di Stato, mai scoperta, anche perché «il lungo tempo trascorso ha ottenuto il risultato sperato»: con le dimenticanze, vere o costruite ad arte, specie da parte dei «protagonisti di livello apicale di quella stagione».

Fu depistaggio, dunque, sin dall'inizio, sin da quando venne fatta sparire l'agenda rossa, pochi minuti dopo che era saltata l'autobomba: e il furto non fu opera dei mafiosi ma di una persona dall' «appartenenza istituzionale», un individuo che, «per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale».

Era pure un soggetto che «sapeva cosa era necessario/opportuno sottrarre». […]

La sentenza del Tribunale di Caltanissetta. Depistaggio Borsellino, il grande bluff e il gioco delle tre scimmiette: pm vittime o complici? Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Aprile 2023

Adesso che abbiamo la conferma sul più grande depistaggio di Stato della storia italiana, e l’abbiamo potuta leggere nero su bianco nelle motivazioni della sentenza di Caltanissetta sui tre poliziotti accusati di calunnia, non sarà ora di chiamare, quanto meno al tribunale della storia, per nome e cognome tutti coloro che, in divisa e in toga, avrebbero potuto smascherarlo e non lo hanno fatto? E chiederci anche perché non lo hanno fatto?

Partiamo dalla deportazione di Stato dell’estate del 1993 di mafiosi e anche di tanti non mafiosi nelle carceri speciali di Pianosa e Asinara. Un gesto eclatante e scenografico da parte di un governo incapace non solo di fermare le stragi di mafia dopo le uccisioni di Falcone e Borsellino, ma anche di arrestare i boss di Cosa Nostra, ancora tutti latitanti. Esibizione muscolare ma non solo. Torture, botte e minacce, persino finte esecuzioni: questo è quanto testimoniato e mai smentito da coloro che subirono quel tipo di detenzione in quei giorni. “Pentitificio”, lo abbiamo definito, anche questo senza smentita. È la storia di Enzino Scarantino, analfabeta della Guadagna, uomo dalla condotta non certo militaresca, non proprio l’immagine del mafioso di fiducia di Totò Riina. Sicuramente torturato e minacciato, come emerso da subito. Ha parlato e ritrattato, poi ancora parlato e ritrattato.

Ha detto di aver imbottito di tritolo l’auto della strage di via D’Amelio in un certo garage situato in una via che lui neanche conosceva. Ma nessuno ha controllato, poi è stato fatto un sopralluogo di cui non esiste un verbale. Tutto ciò solo per far fare carriera a Arnaldo La Barbera, l’abile poliziotto chiamato a Palermo a dirigere il gruppo di lavoro “Falcone e Borsellino” e a farlo poi diventare questore della città? Poco credibile. Ma resta il fatto che, di mancato controllo in mancato controllo, passano trent’anni prima che un tribunale sancisca che, se il depistaggio era di Stato, probabilmente anche le stragi lo erano. Questa vicenda lascia sul terreno morti e feriti, non solo in senso letterale. Gli innocenti chiamati alla sbarra dal fantoccio Scarantino, prima di tutto, condannati all’ergastolo e rimasti in carcere fino al 2008, quindici anni dunque, quando Gaspare Spatuzza iniziò la collaborazione con la magistratura e svelò di esser stato lui in persona, e non Scarantino, a imbottire di tritolo l’auto che avrebbe ucciso il giudice Borsellino.

Lui conosceva bene il garage e anche la via, così quella volta dopo il sopralluogo fu steso il verbale. Ma nel frattempo, quanti pubblici ministeri e quanti giudici non mostrarono curiosità nei confronti di quello strano “pentito” creato a tavolino a suon di botte e minacce? La curiosità, ecco la grande assente di questi processi. Partiamo dai pubblici ministeri che “gestirono” le testimonianze di Scarantino, i pubblici ministeri Alma Palma, Carmelo Petralia e Nino Di Matteo. I primi due sono stati scagionati dal Csm, del terzo si disse che aveva avuto un ruolo marginale. Tutti come le tre scimmiette che non vedono non sentono e non parlano. E lasciamo perdere il capo dell’ufficio Giovanni Tinebra, ormai scomparso come La Barbera. Mezza procura di Caltanissetta si chiudeva nell’ufficio con il “pentito” ogni volta che questi doveva andare a deporre nei vari processi, lo ha testimoniato Ilda Boccassini.

Inoltre, sugli appunti che il fantoccio portava con sé come promemoria, c’erano anche intere frasi vergate da una scrittura femminile, che evidentemente non era quella della moglie. Che bisogno c’era di dare l’imbeccata, se il teste era genuino e sincero? E come mai, ogni volta che Scarantino cercava di ritrattare, non veniva creduto? Neanche quando, in seguito a una lettera della moglie che denunciava le torture cui il marito veniva sottoposto nel carcere di Pianosa, la vicenda fu resa pubblica persino in Parlamento? Ci sono tanti modi di rendersi complici del silenzio, di quella mancanza di curiosità. Non vogliamo accusare nessuno, ci ha già pensato con grande determinazione Fiammetta, una delle figlie di Paolo Borsellino, di fronte all’assurdità di chi ha pensato, la procura di Caltanissetta, con l’impegno personale del suo capo Salvatore De Luca, di mettere una pezza al Grande Depistaggio di Stato con il processo per calunnia a tre poliziotti. Oltre a tutto con l’evidente svarione di voler contestare loro l’aggravante di mafia, che naturalmente è caduta fin dal primo grado del processo, portando alla fine a due prescrizioni e un’assoluzione.

Ma in tanti avrebbero potuto parlare, in questi trent’anni. L’ex magistrato Antonio Ingroia, per esempio, che da giovane pm era andato a interrogare Scarantino su Contrada (altra vittima del depistaggio) e Berlusconi come “narcotrafficante”. Ritenne di trovarsi davanti a una bufala e lasciò perdere. Quando lo ha detto? Nel 2021. Aggiungendo che qualora avesse denunciato il “pentito” per calunnia “si sarebbe innescata una guerra”. E Ilda Boccassini, che nel 1994 fiuta l’imbroglio e lo scrive sia al procuratore capo di Caltanissetta Tinebra che al procuratore di Palermo Caselli. E quest’ ultimo, che addirittura si impegnò in una conferenza stampa con le massime autorità palermitane per difendere l’onorabilità di La Barbera e la sacralità del “pentito”, accusando i suoi detrattori di complicità con la mafia. Se ci sono tanti, noi per primi, “complici della mafia”, chi sono invece i complici, diretti e indiretti, del più grande depistaggio di Stato, seguito alla strage di Stato?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Per i giudici è certo: alla strage di via D’Amelio presenti anche uomini dello Stato. Stefano Baudino su L'Indipendente il 7 Aprile 2023

Non fu soltanto Cosa Nostra a concepire ed eseguire la strage di Via D’Amelio del 19 luglio 1992, in cui il giudice Borsellino venne assassinato insieme ai suoi uomini di scorta. Inoltre, la mafia non ebbe nessun ruolo nel furto dell’agenda rossa del magistrato, avvenuto nelle ore subito successive allo scoppio della bomba, che è invece da imputare a un’azione istituzionale. Sono queste le pesantissime verità partorite dal Tribunale di Caltanissetta, chiamato ad esprimersi sul gigantesco depistaggio che ha contraddistinto le indagini sull’omicidio Borsellino.

Lo scorso luglio, il Tribunale aveva dichiarato prescritto il reato di calunnia per due imputati, il funzionario di polizia Mario Bo e l’ispettore Fabrizio Mattei, essendo per loro caduta l’aggravante di aver favorito Cosa Nostra, e assolto un altro ispettore, Michele Ribaudo, in merito al depistaggio. Che però – anche dopo la storica sentenza del Borsellino Quater, che inquadrò nel questore Arnaldo La Barbera (deceduto nel 2002) il suo perno – è stato pienamente confermato anche dalle motivazioni di questo nuovo verdetto, foriere di ulteriori elementi cruciali rispetto a quanto già accertato.

Pur non riuscendo ad individuare le precise generalità dei responsabili, rispetto alla sottrazione dell’agenda rossa i giudici scrivono: “A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di esponenti delle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile a una attività materiale di Cosa nostra“. Secondo il Tribunale, ciò proverebbe “l’appartenenza istituzionale di chi ebbe a sottrarre materialmente l’agenda”, essendo “indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario e opportuno sottrarre“. Insomma, la mafia non partecipò al furto dell’agenda: a carpirla dal luogo del delitto, tra brandelli di cadaveri, macchine fumanti e finestre in frantumi, furono uomini dello Stato.

Ma i giudici vanno oltre, sancendo che il “movente della strage e la finalità criminale di tutte le iniziative volte allo sviamento delle indagini su via D’Amelio sono intimamente connesse“. Infatti, “l’istruttoria dibattimentale ha consentito di apprezzare una serie di elementi utili a dare concretezza alla tesi della partecipazione (morale e materiale) alla strage di Via D’Amelio di altri soggetti (diversi da Cosa nostra) e/o di gruppi di potere interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino”. Dunque, corpi estranei a Cosa Nostra non si sarebbero solo limitati a depistare le indagini, ma avrebbero direttamente preso parte, tanto “nella fase ideativa” quanto in quella “esecutiva”, al terribile eccidio. “Oltre ai tempi della strage, oggettivamente ‘distonici’ rispetto all’interesse di Cosa nostra – si legge ancora nelle motivazioni -, vi sono ulteriori elementi che inducono a ritenere asfittica la tesi che si arresta al riconoscimento della ‘paternità mafiosa’ dell’attentato di via D’Amelio e della sua riconducibilità alla strategia stragista deliberata da Cosa nostra, prima di tutto, come ‘risposta’ all’esito del maxiprocesso e ‘resa dei conti’ con i suoi nemici storici”. Un vero e proprio ribaltamento della narrazione dominante sulle cause della morte di Borsellino.

I giudici attestano chiaramente che la strage ha anche radici estranee a quelle mafiose. Soffermandosi sulla sottrazione dell’agenda rossa, infatti, asseriscono che “un intervento così invasivo, tempestivo (e purtroppo efficace) nell’eliminazione di un elemento probatorio così importante per ricostruire – non oggi, ma già 1992 – il movente dell’eccidio di Via D’Amelio certifica la necessità per soggetti esterni a Cosa Nostra di intervenire per alterare il quadro delle investigazioni, evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage (che si aggiungono, come già detto a quella mafiosa) e, in ultima analisi, disvelare il loro coinvolgimento nella strage di Via D’Amelio”.

I giudici si soffermano poi sulla “presenza anomala e misteriosa di un soggetto estraneo a Cosa Nostra (che l’esecutore materiale della strage Gaspare Spatuzza, poi divenuto collaboratore di giustizia, incontrò nel garage in cui i mafiosi imbottirono di tritolo l’auto poi esplosa in via D’Amelio, Ndr)”, sostenendo che essa può spiegarsi “solo alla luce dell’appartenenza istituzionale del soggetto, non potendo logicamente spiegarsi altrimenti il fatto di consentire a un terzo estraneo alla consorteria mafiosa di venire a conoscenza di circostanze così delicate e pregiudizievoli per i soggetti coinvolti come la preparazione dell’autobomba destinata all’uccisione di Paolo Borsellino”.

Dopo tre decenni, al quadro si aggiunge dunque un altro importantissimo pezzo di verità.  «Finalmente una sentenza conferma quello che dico da 30 anni – ha dichiarato Salvatore Borsellino, fratello di Paolo e fondatore del Movimento delle Agende Rosse – e cioè che quella di via D’Amelio fu una strage di Stato e non solo di mafia e che l’agenda rossa fu sottratta da uomini dello Stato e non da uomini della mafia». Soddisfazione per l’emersione delle nuove verità giudiziarie e frustrazione per il mancato inquadramento dei responsabili, però, viaggiano a braccetto: «Questa sentenza descrive uno scenario, conferma il depistaggio ma non dice chi sono i colpevoli – conclude Salvatore -. Dice che è passato molto tempo ed è quindi difficile risalire ai responsabili. Per questo mi sento scoraggiato». [di Stefano Baudino]

Depistaggio Borsellino, fu strage di Stato: le responsabilità di mafia, polizia, servizi segreti, pm e giornali. Piero Sansonetti su Il Riformista il 7 Aprile 2023

Sono state depositate le motivazioni della sentenza sul depistaggio-Borsellino. Sono clamorose. Dicono in modo esplicito che si trattò di una strage di stato seguita da un depistaggio di Stato, dicono che Borsellino non fu ucciso solo dalla mafia, dicono che nel depistaggio e forse nell’omicidio furono coinvolte persone delle istituzioni, in particolare – la cosa appare molto chiara – della polizia, dei servizi segreti e della magistratura, dicono che una delle ragioni della strage fu la necessità di fermare il dossier mafia-appalti al quale stava lavorando il generale Mori e che interessava a Borsellino e che avrebbe travolto il castello dei rapporti tra corleonesi e imprese del Nord.

Descrivono un devastante scenario istituzionale, accennano all’ostracismo del procuratore di Palermo (Giammanco) nei confronti di Borsellino, sono severissime nei confronti dei Pm Patralia e Palma. L’unico che ne esce bene è Bruno Contrada, l’ex numero 2 del Sisde, che fu messo in mezzo dai depistatori e pagò con dieci anni di prigione, e ne dovette aspettare 25 prima di essere riabilitato, e ancora aspetta di essere risarcito.

Poi c’è un’altra verità che emerge: la trattativa stato-mafia (alla quale mai si accenna in queste motivazioni e che invece fu indicata come uno dei motivi dell’attentato) è una pura invenzione mediatico-giudiziaria. Costruita da giornalisti un po’ inetti e magistrati magari in buona fede ma molto pasticcioni. In sostanza fu un ulteriore – seppure oggettivo e non intenzionale – depistaggio.

Diciamo che queste motivazioni, che ora andranno lette con attenzione (sono più di 1500 pagine) ci dicono essenzialmente una cosa: che non sapremo mai esattamente come e da chi e perché furono uccisi Falcone e Borsellino e poi proseguirono le stragi di mafia; ma ci dicono anche che il quadro è abbastanza chiaro: la mafia agì con coperture istituzionali, e non politiche, e furono proprio quelle forze deviate dello Stato che avevano aiutato le stragi a permettere poi che una coltre di fumo avvolgesse le indagini. Nella sostanza sono confermate tutte le responsabilità della mafia stragista, e ne escono malissimo pezzi della polizia, dei servizi segreti e della magistratura. Male male escono anche gran parte dei giornali.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

«Dietro via d’Amelio gruppi di potere e potentati economici». Parla l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino: «Ci fu una manovra a tenaglia». Giovanni Maria Jacobazzi su Il Dubbio il 7 aprile 2023

«Questa sentenza è importantissima perché finalmente riconosce il diritto alla verità dei fatti. Quanto accaduto ha segnato la storia recente del nostro Paese, contribuendo ad imprimere una svolta epocale di cui, forse, non tutti hanno ancora piena consapevolezza», afferma l’avvocato Fabio Trizzino, genero di Paolo Borsellino e legale di parte civile della famiglia del magistrato ucciso a Palermo.

Avvocato Trizzino, perché la sentenza della Corte d’assise di Caltanissetta sul depistaggio nelle indagini sulla morte di Borsellino è importante per il nostro Paese?

Dopo l’omicidio di Borsellino possiamo tranquillamente affermare che è nata seconda Repubblica. La data del 19 luglio del 1992 è uno spartiacque.

La sentenza dei giudici nisseni ha messo alcuni punti fermi.

Certo, il primo è sicuramente che appartenenti alla Polizia di Stato hanno posto in essere un reato gravissimo, quello di calunnia aggravata, depistando fin dall’inizio le indagini per l’identificazione degli assassini del magistrato. Non ci sono più dubbi sul fatto che Mario Bo e Fabrizio Mattei con il loro operato hanno contribuito a "vestire il pupo", ovvero a "costruire" il falso pentito Vincenzo Scarantino. Dalle dichiarazioni di quest’ultimo, il primo processo, il cosiddetto "Borsellino Uno", si concluse il 26 gennaio 1996 con condanne all'ergastolo per soggetti che erano invece innocenti e completamente estranei ai fatti. Parliamo di persone che sono rimaste in carcere per quasi venti anni.

Per Bo il procuratore Salvatore De Luca e i sostituti Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso avevano chiesto 11 anni e 10 mesi di carcere, per Mattei 9 anni e mezzo. Reato però prescritto in quanto è caduta l’aggravante mafiosa. L’altro poliziotto coinvolto, Michele Ribaudo, è stato assolto "perché il fatto non costituisce reato".

Tralasciando la prescrizione, non vorrei che qualcuno desse però una ricostruzione ‘minimalista' di quanto accaduto.

Come si può affrontare un processo del genere a distanza di così tanti anni?

E’ ovviamente molto difficile. La difficoltà non è stata solo determinata dal decorso del tempo che ha attenuato i ricordi, ma soprattutto per l’atteggiamento tenuto in aula dai diversi soggetti all'epoca coinvolti a vario titolo: coloro che avrebbero potuto dare un contributo alla esatta ricostruzione dei fatti, dall’ultimo dei poliziotti al capo dello Sco, il Servizio centrale operativo della Polizia di Stato, hanno posto in essere un atteggiamento reticente. Un atteggiamento che ha ricordato molto da vicino quello delle consorterie mafiose.

E’ un giudizio molto duro.

Ma è così. La mafia si basa sull’omertà e sulla compartimentazione. In questo processo la logica è stata la stessa. Pensi che le dichiarazioni di alcuni poliziotti sono state trasmesse in Procura per verificare una eventuale ipotesi di falso.

Un altro elemento importante è che collegio ha avuto coraggio. E non era affatto scontato quando si tratta di processi di questo genere.

Certo, i giudici sono stati coraggiosissimi, non si sono fermati a condannare l’operato dei poliziotti ma anche a censurare quello dei magistrati.

Questa vicenda ne ricorda altre in cui furono coinvolti apparati dello Stato. Il copione è sempre lo stesso. Senza andare molto lontano, penso al processo sui pestaggi alla caserma Diaz durante il G8 di Genova nel 2001 o la morte di Stefano Cucchi.

Concordo. Ma vorrei evidenziare anche un altro aspetto. Il silenzio da parte dei poliziotti in questo processo trova ‘giustificazione’ con il fatto che essi sono stati lasciati soli sul banco degli imputati, dove non vi erano i magistrati che hanno condotto le indagini e, almeno sulla carta, avrebbero dovuto coordinare la polizia giudiziaria. C’è stato timore.

Che spiegazioni si sente di dare?

La motivazione di carriera è provata. Il prefetto Arnaldo La Barbera che coordinava il gruppo d’indagine sugli omicidi di Falcone e Borsellino ebbe una carriera fulminante con promozioni rapidissime, arrivando a ricoprire posti di assoluto prestigio.

Chi c’è dietro la morte di Borsellino?

Gruppi di potere con interessi convergenti, penso a potentati economici. Ci fu una manovra a tenaglia. Eravamo anche agli inizi di Tangentopoli

E sulla scomparsa dell’agenda rossa di Borsellino?

Quello è un altro aspetto inquietante. Non l’ha presa la mafia che non sapeva della sua esistenza. I mafiosi sapevano bene cosa Borsellino pensava di loro. L’ha presa chi aveva da temere da qualche possibile annotazione contenuta al suo interno.

Dopo la morte di Borsellino ci sono diversi episodi rimasti senza risposta.

Lucia Borsellino ed il fratello Manfredi si recarono al Palazzo di giustizia dopo qualche giorno dall'attento per andare nell’ufficio del padre a recuperare qualche suo oggetto personale ma trovarono l’ufficio completamente pulito, con la scrivania senza nulla sopra, nemmeno un foglio di carta. Chi è stato? Non si è mai saputo. C’era qualcosa di importante?

Questa sentenza, anche se di primo grado, potrà permettere la riapertura di altre indagini?

Credo di si. Penso, ad esempio, alla rivitalizzazione del dossier mafia appalti a cui stavano lavorando i carabinieri del Ros allora comandati dal colonnello Mario Mori.

Le clamorose motivazioni della sentenza. Omicidio Borsellino, il depistaggio di Stato organizzato prima della morte del magistrato: la terribile verità. Paolo Comi su Il Riformista il 7 Aprile 2023

Chi ha ucciso Paolo Borsellino? La mafia o, come scrivono i giudici della Corte d’assise di Caltanissetta, “soggetti diversi da Cosa nostra”? La sentenza depositata il 5 aprile scorso nel processo a carico dei poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo sul “depistaggio Borsellino”, pur dichiarando la prescrizione per due degli imputati e assolvendo il terzo, consegna una terribile verità che nessun italiano vorrebbe sentire: si è trattato di un depistaggio di Stato iniziato lo stesso giorno della strage, vale a dire il 19 luglio 1992, e quindi organizzato ancor prima della strage medesima. Ciò significa che coloro che hanno deliberato e poi attuato il depistaggio sapevano che il pomeriggio del 19 luglio 1992 ci sarebbe stata la strage di via D’Amelio a Palermo, avendola evidentemente organizzata e poi attuata contestualmente al depistaggio medesimo.

Nelle circa 1500 pagine della sentenza, i giudici scrivono infatti che è “un elemento insuperabile che certifica al di là di ogni dubbio ragionevole come la Polizia di Stato che conduceva le indagini – ove non eterodiretta – abbia agito su impulso di una fonte confidenziale che non si è mai individuata e/o rivelata, nemmeno all’esito dell’odierno procedimento”. Una delle prove che il depistaggio venne organizzato già prima della morte di Borsellino e degli agenti della scorta, è legata proprio alla Fiat 126 imbottita di tritolo ed utilizzata per la strage. Se il blocco motore dell’auto venne rinvenuto solo il 20 luglio dopo le ore 13, come ha fatto la Polizia di Stato a comunicare all’Ansa il pomeriggio del 19 luglio 1992 che l’autobomba esplosa in via D’Amelio poteva identificarsi proprio in una utilitaria Fiat? Come ha fatto il tecnico della scientifica Martino Farneti, già all’esito del sopralluogo effettuato nell’immediatezza del fatto a “sostenere che l’ordigno era piazzato all’interno del cofano anteriore di una autovettura individuata per una Fiat 126 di colore rosso”?

Come ha potuto, sempre la Polizia di Stato, insospettirsi se alle ore 8 e 30 circa del 20 luglio 1992 il meccanico Giuseppe Orofino aveva denunciato la scomparsa delle targhe di una Fiat 126, furto che, si badi, “poteva essere avvenuto il giorno prima o anche il sabato precedente (come effettivamente avvenuto in base al racconto di Spatuzza)”? “E si badi – prosegue la sentenza – come ulteriore elemento che assevera la tesi qui sostenuta è dato dalla scarsamente attendibile deposizione del teste Domanico (Massimiliano, agente della Polizia di Stato, ndr) che non ha indicato, né nel corso della sua deposizione 1994 (nel giudizio di primo grado del Borsellino 1) né nel corso dell’odierno procedimento, il soggetto o i soggetti da cui aveva appreso che l’autobomba potesse essere una 126”.

Pertanto, nessuna pregressa indagine e nessuna logica, se non quella di una precedente programmazione del depistaggio che poi si è attuato, poteva sorreggere – la mattina del 20 luglio 1992 – il sospetto di una simulazione di un furto di targhe dietro la denuncia di Orofino e men che meno l’iniziativa di un sopralluogo da parte della polizia scientifica presso il suo garage, dal momento che le stesse furono rinvenute in via D’Amelio il successivo 22 luglio 1992. Va ricordato che Orofino, accusato di aver custodito la Fiat 126 utilizzata come autobomba, venne arrestato ed ingiustamente condannato. seppur non per la strage ma per aver fornito le targhe false. Dopo la sua morte, gli eredi hanno poi ottenuto dalla Corte di Appello di Palermo il risarcimento di 1,5 milioni di euro per i 17 anni di ingiusta detenzione per essere stato falsamente accusato da Vincenzo Scarantino. E’ quindi dimostrato, senza dubbio alcuno, che il depistaggio per l’omicidio Borsellino è iniziato quando Borsellino era ancora vivo.

Non mancano, poi, nella sentenza riferimenti alle condotte dei magistrati, sia a quelli che hanno condotto l’inchiesta sia a quelli che lavoravano alla Procura di Palermo con Borsellino. La tesi sostenuta dagli ex pm Carmelo Petralia e Annamaria Palma, poi assolti dall’accusa di concorso in calunnia aggravata, cioè che gli “inquirenti si siano mossi per andare a sentire Scarantino in virtù della (avvenuta) ritrattazione televisiva è smentita dai fatti” poiché gli avvisi dell’interrogatorio sono stati notificati il giorno prima che Scarantino manifestasse l’intenzione di ritrattare. Le vere ragioni di quegli interrogatori, che hanno poi prodotto la ritrattazione della ritrattazione e quindi la conferma delle false accuse, i magistrati non li hanno esplicitati.

Quanto al clima che si respirava alla Procura di Palermo dopo l’omicidio di Giovanni Falcone e pochi giorni prima dell’omicidio di Borsellino, la sentenza riporta le dichiarazioni dell’ex pm Antonio Ingroia il quale ha riferito che, a margine dell’incontro in Procura del 14 luglio 1992 e a proposito dell’indagine Mafia e Appalti, Borsellino ebbe a rivolgere una “battuta” ai colleghi Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone dicendo: “Voi non mi raccontate tutta la vera storia sul rapporto dei Ros”.“Sì, sì, io l’ho percepita quasi per caso. Perché io ero affianco a Borsellino e lui incrocia questo collega, non mi ricordo chi dei due, e gli fa questa battuta. È stata una cosa al volo nel corridoio”, le esatte parole pronunciate da Ingroia. Paolo Comi

Borsellino: omertà di Stato sulla strage. Enrico Bellavia su L’Espresso il 6 Aprile 2023

Depositate le motivazioni sul depistaggio. Il silenzio complice di pezzi delle istituzioni allontana la verità sull’eccidio di 31 anni fa

Accredita molti, ma non tutti, i brandelli di verità che a fatica si sono rintracciati in questi trentuno anni: il depistaggio, la presenza di elementi estranei a Cosa nostra, l’omertà diffusa di pezzi dello Stato, l’illegittimo coinvolgimento dei Servizi nelle indagini, l’isolamento di Paolo Borsellino e la sua esposizione al rischio da parte del capo della procura di Palermo, Piero Giammanco.

Pur dovendosi concentrare sulla responsabilità individuale di tre poliziotti nell’opaca gestione del falso pentito Vincenzo Scarantino, le motivazioni del tribunale di Caltanissetta, presidente Francesco D'Arrigo, consacrano in oltre 1400 pagine di sentenza molto di quanto resta da capire della strage del 19 luglio del 1992, costata la vita al procuratore aggiunto di Palermo e alla sua scorta: i poliziotti Emanuela Loi, Agostino Catalano, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli e Walter Eddie Cosina.

I giudici indicano dove si addensa il grumo di interessi che ha allontanato la verità. Non diradano le nebbie ma, se è possibile, definiscono i contorni «della verità nascosta o quantomeno non compiutamente disvelata», complice l’enorme lasso di tempo trascorso «poiché più ci si allontana dai fatti e più è difficile recuperare il tempo perduto».

Il tribunale era chiamato a giudicare per calunnia aggravata dall’aver agevolato la mafia, il funzionario Mario Bo, l’ispettore Fabrizio Mattei e il sovrintendente Michele Ribaudo. Bo e Mattei a luglio hanno beneficiato dell’intervenuta prescrizione perché la calunnia è stata declassata a semplice mentre Ribaudo è stato assolto. Scarantino, insomma, fu indotto a ribadire le sue prime accuse, poi ritrattate, ma solo per ansia di risultato investigativo e non per lasciare in ombra le responsabilità di altri mafiosi, primi fra tutti i fratelli Graviano, rimasti estranei alle prime contestazioni.

Pur circoscritto al movente della calunnia nei confronti degli innocenti, scagionati e scarcerati dopo anni di carcere duro, il processo ha fatto però emergere molto altro e i giudici, su input del pm Stefano Luciani e delle parti civili, non si sono sottratti.

La strage non fu voluta solo da Cosa nostra, ribadisce il tribunale perché «plurimi elementi inducono a ritenere prospettabile un ruolo, tanto nella fase ideativa, quando nella esecutiva, svolto da soggetti estranei a Cosa nostra nella strage». In via D’Amelio si sarebbe realizzata una precisa «convergenza di interessi». I giudici si soffermano sulla presenza di estranei all’organizzazione nelle ore in cui si preparava la 126 imbottita di tritolo ma anche sulla stessa scelta di eseguire la strage a 57 giorni di distanza dall’attentato di Capaci costato la vita al giudice Giovanni Falcone. Una accelerazione sospetta del piano di morte che tradisce la necessità di guardare oltre alla accomodante versione della vendetta mafiosa. Non solo l’odio per i due nemici giurati, protagonisti del maxiprocesso alla mafia, già concluso a inizio del 1992, quanto, piuttosto, la necessità di prevenire danni futuri, ovvero impedire che tanto Falcone, quanto Borsellino arrivassero a nuove verità, soprattutto sul crinale dei rapporti tra mafia e politica.

E questo spiega il perché a tremare non fossero solo gli uomini di Cosa nostra. La rete di chi avrebbe ricavato danno dall’azione di Borsellino è vasta. E si annida nei palazzi del potere. A questo scenario si ricollega la sparizione dell’agenda rossa del giudice dal teatro della strage: «A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di appartenenti alle forze dell'ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell'agenda rossa non è riconducibile a una attività materiale di Cosa nostra».

Se «gli elementi in capo non consentono l'esatta individuazione della persona fisica che procedette all'asportazione dell'agenda», se ne può comunque tracciare un identikit: «È indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario e opportuno sottrarre».

Un uomo dello Stato, probabilmente dei Servizi che compaiono ovunque negli accertamenti processuali. E non hanno aiutato a capire le parole dell’ex magistrato Giuseppe Ayala ai cui ricordi contraddittori sul prelievo della borsa del magistrato ucciso dalla macchina distrutta e che si dice amareggiato per i rilievi dei giudici, si sommano le reticenze e «l’omertà diffusa» che ha coperto la sparizione dell’agenda e in definitiva la manomissione della verità. E se alle indagini sulla strage il magistrato titolare, Giovanni Tinebra coinvolse l’ex numero tre del Sisde Bruno Contrada, difficile per i giudici che una simile scelta del tutto «impropria» non fosse stata avallata dal massimo livello politico.

Ma è su tutta la gestione delle indagini, anche e soprattutto di quelle affidate al gruppo stragi guidato da Arnaldo La Barbera e a cui appartenevano gli imputati del processo che si è registrato un clima di «diffusa omertà istituzionale». Tuttavia, i poliziotti che agirono su mandato di La Barbera, condividevano con lui la scelta di assicurare in fretta alla giustizia i presunti colpevoli e in alcun modo la volontà di agevolare gruppi mafiosi. La Barbera è scomparso ormai da molti anni ma ha rappresentato l’anello di congiunzione degli apparati dei Servizi con gli investigatori incaricati ufficialmente di far luce sulla strage.

Quanto ciò che accadde prima della strage e le manovre per allontanare la verità siano interconnesse i giudici lo ribadiscono più volte. I depistaggi furono la diretta conseguenza, una necessità quasi, di confinare alla responsabilità mafiosa la strage evitando di risalire al livello della compartecipazione di soggetti istituzionali. Illuminante in questo senso il colloquio intercettato tra il collaboratore Santino Di Matteo e la moglie. Quest’ultima accennava alla necessità che il marito non svelasse nulla di via d’Amelio per ottenere il rilascio del figlio, a quel tempo tenuto in ostaggio da Cosa nostra per indurre il padre a ritrattare e poi ucciso dopo oltre due anni di prigionia.

Ma non solo i mafiosi hanno taciuto. Soprattutto «i protagonisti di livello apicale di quella stagione, ove non deceduti non hanno fornito alcun elemento utile alla ricostruzione dei fatti e si sono potuti trincerare, talvolta con malcelata stizza, dietro l'età avanzata e il tempo lungamente decorso». Da loro solo versioni «precostituite e poco credibili». «Strage di Stato», ribadisce il fratello di Paolo Borsellino, Salvatore che sulla frammentazione dei processi trova uno degli elementi che impediscono una ricostruzione piena di quel che accadde. Allontanando la verità, proprio in virtù dei silenzi istituzionali, come nota Roberto Avellone, legale delle vittime e del superstite Antonio Vullo.

Non furono i mafiosi a sottrarre l’agenda rossa di Paolo Borsellino”. Di Fernando Massimo Adonia su Culturaidentità.it il 6 Aprile 2023

A questo punto, i misteri e le ombre superano di gran lunga i punti fermi. È questa la sensazione dopo le lettura delle motivazioni della sentenza sui presunti depistaggi nelle indagini sulla Strage di via D’Amelio nella quale persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta. “A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di esponenti delle forze dell’ordine – scrivono i giudici di Caltanissetta – può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile ad una attività materiale di Cosa nostra”.

Non furono i mafiosi a portare un documento tanto importa dal luogo della strage, dunque. Furono semmai altri a voler metter le mani sull’agenda dove Borsellino appuntava i risultati delle sue indagini. Ma c’è di più.”L’istruttoria dibattimentale – si legge nelle mille pagine di motivazioni – ha consentito di apprezzare una serie di elementi utili a dare concretezza alla tesi della partecipazione (morale e materiale) alla strage di Via D’Amelio di altri soggetti (diversi da Cosa nostra) e/o di gruppi di potere interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino”. Parole come pietre, che fissano nero su bianco la presenza di un ulteriore livello che ha lavorato in parallelo ai corleonesi per mettere fine alle indagini avviate nel giudice ucciso nel 1992, quando Cosa nostra avviò una campagna terroristica sul territorio nazionale.

Il processo sui presunti depistaggi di via D’Amelio, le cui motivazioni sono state rese note oggi, è stato avviato sulla scorta delle verità processuali emerse nel Borsellino IV, procedimento che ha fatto luce sulle ambiguità del falso collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino.

Si legge ancora nelle motivazioni: “Tra amnesie generalizzate di molti soggetti appartenenti alle istituzioni (soprattutto i componenti del Gruppo investigativo specializzato Falcone-Borsellino della Polizia di Stato), e dichiarazioni testimoniali palesemente smentite da risultanze oggettive e da inspiegabili incongruenze logiche, l’accertamento istruttorio sconta gli inevitabili limiti derivanti dal velo di reticenza cucito da diverse fonti dichiarative, rispetto alle quali si profila problematico ed insoddisfacente il riscontro incrociato”.

Il ruolo dei pentiti. “Senza la successiva collaborazione di Gaspare Spatuzza, della falsità della collaborazione di Vincenzo Scarantino (e della falsa ricostruzione della strage di Via D’Amelio che ne è derivata) non si sarebbe acquisita certezza. Tale circostanza deve fare riflettere sulle possibili disfunzioni, sotto il profilo dell’accertamento della verità, di vicende processuali incentrate prevalentemente su prove di natura dichiarativa provenienti da soggetti che collaborano con la giustizia. In altri termini, si è assistito al fallimento del sistema di controllo della prova al punto da determinare che, in ben due processi, sviluppatisi entrambi in tre gradi di giudizio, non si riuscisse a svelare tale realtà”.

Quanto scritto dai giudici di Caltanissetta dà forza all’impegno di quanti, in questi trent’anni, hanno invocato la verità sui fatti di via D’Amelio. A partire dai familiari del giudice Borsellino, ma anche di quella società civile che ha manifestato in nome della giustizia. Interviene Carolina Varchi, parlamentare di Fratelli d’Italia e attivista del Forum 19 luglio che ogni anni organizza a Palermo la fiaccolata in memoria del magistrato ucciso dalla mafia: “La battaglia per la verità sulla strage di via D’Amelio, per il superamento dei depistaggi e dei tradimenti, non era solo una velleità emozionale della destra palermitana. Nelle oltre mille pagine di motivazioni, i giudici di Caltanissetta hanno messo nero su bianco i tradimenti, i depistaggi, le amnesie, le sgrammaticature istituzionali e tutto ciò che ha contribuito al più grosso depistaggio della storia d’Italia”.

Varchi invoca, intanto, l’avvio di una inchiesta parlamentare per “soccorrere il potere d’accertamento della verità processuale che è proprio della magistratura”. Secondo la deputata meloniana serve dunque colmare un buco nella memoria del Paese. “Abbiamo tutti il dovere – spiega – di concorrere alla scoperta della verità storica: lo dobbiamo all’Italia perché una democrazia è più solida se fondata sulla verità”.

Cortina fumogena. Rita Cavallaro su L’Identità il 7 Aprile 2023

Più che il fallimento nell’accertamento della verità, quello che dopo trent’anni pesa come un macigno sulla strage di via D’Amelio sono le parole messe nero su bianco dai giudici del processo sui depistaggi nell’attentato a Paolo Borsellino, fatto saltare in aria da un’autobomba piazzata sotto casa della madre, il 19 luglio 1992. Perché le motivazioni, esplicate in 1.400 pagine di sentenza nel tentativo di ricostruire i movimenti degli attori coinvolti nelle diverse fasi dell’agguato, infittiscono ancor più le ombre, soprattutto sulla sparizione dell’agenda rossa del giudice Borsellino. E non fanno altro che alimentare i sospetti non solo sull’esistenza della trattativa Stato-mafia, ovvero quella rete di pezzi delle Istituzioni impegnata ad “aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra che creasse le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi, e nel sollecitare tale dialogo, furono mossi, piuttosto, da fini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale – e fondamentale – dello Stato”, per citare la Corte d’assise d’appello di Palermo, che il 23 settembre 2021 aveva assolto gran parte degli imputati condannati in primo grado, tra cui l’ex senatore Marcello Dell’Utri, il generale Mario Mori, il generale Antonio Subranni e l’ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno, tutti e tre del Ros. Ma le motivazioni dei giudici di Caltanissetta aprono la pista alla congettura temporale, facendo ipotizzare che fu proprio quello il principio di tutto, quando l’agenda rossa di Borsellino sparì dalla scena del crimine e i segreti contenuti al suo interno possano aver dato vita a intrecci tra Stato e mafia, al ricorso ai falsi pentiti per mettere in atto i depistaggi, a “ricostruzioni manipolate” e “amnesie istituzionali”, sostengono i giudici nisseni, su fatti ormai così lontani nel tempo per poter essere accertati fino in fondo. È su queste basi che lo scorso luglio sono stati prosciolti gli imputati nel processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, le cui motivazioni sono state depositate mercoledì. Il collegio, che doveva sentenziare sul reato di calunnia aggravata nell’aver favorito la mafia, ha dichiarato prescritta la posizione di Mario Bo e Fabrizio Mattei, due dei tre poliziotti alla sbarra, e ha assolto il terzo, Michele Ribaudo, perché il fatto non costituisce reato. La sentenza, però, non si limita al ruolo dei poliziotti, che avrebbero dovuto indagare sulle stragi e che, invece, secondo l’accusa, avrebbero mistificato la verità assoldando, con il coordinamento del loro capo Arnaldo La Barbera successivamente deceduto, i pentiti Vincenzo Scarantino, definito “mentitore professionista”, Francesco Andriotta e Salvatore Candura, e costringendoli ad accusare altre persone, sette delle quali furono condannate e poi del tutto scagionate in un processo di revisione reso possibile grazie alle rivelazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, il quale svelò il depistaggio operato dai falsi pentiti, rivelando di essere stato lui, e non Scarantino, a rubare, su mandato dei boss di Brancaccio, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, la Fiat 126 esplosa con i 50 chili di tritolo che non lasciarono scampo a Borsellino. I giudici di Caltanissetta, che reputano tutta la storia “incredibile”, puntano sulla “partecipazione (morale e materiale) alla strage di altri soggetti (diversi da Cosa nostra) e/o di gruppi di potere interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino”. Lo dimostrerebbe “l’anomala tempistica dell’eccidio (avvenuto a soli 57 giorni da quello di Capaci), la presenza riferita dal pentito Gaspare Spatuzza di una persona estranea alla mafia al momento della consegna della Fiat 126 imbottita di tritolo e la sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino”. D’altronde, per i giudici, “la presenza anomala e misteriosa di un soggetto estraneo ai clan si spiega solo alla luce dell’appartenenza istituzionale del soggetto, non potendo logicamente spiegarsi altrimenti il fatto di consentire a un terzo estraneo alla consorteria mafiosa di venire a conoscenza di circostanze così delicate e pregiudizievoli per i soggetti coinvolti, come la preparazione dell’autobomba destinata all’uccisione di Paolo Borsellino”. Infine c’è tutta la questione della sparizione dell’agenda rossa di Borsellino, sulla quale il giudice ammazzato aveva appuntato riflessioni molto delicate, secondo il racconto dei suoi familiari. Si trattava dunque del diario segreto su Cosa nostra. Un reperto chiave, in grado di scatenare l’inferno o di ripristinare la pace, a seconda delle mani in cui sarebbe finito. E per i giudici, l’agenda non è stata sottratta dalla mafia: “Può ritenersi certo che la sparizione non è riconducibile ad una attività materiale di Cosa nostra”. Chi l’ha presa allora? Uomini dello Stato, ma non sapremo mai chi. “Gli elementi in campo non consentono l’esatta individuazione della persona fisica che procedette all’asportazione dell’agenda”, sottolineano, “ma è indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e, per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario o opportuno sottrarre”. E se l’uomo che portò via l’agenda rossa non sarà mai individuato, è colpa di testimoni che “consegnano un quadro per niente chiaro, fatto di insanabili contraddizioni tra le varie versioni, tra l’altro più volte rivedute e stravolte, rese dai protagonisti della vicenda che non permettono una lettura certa degli eventi aumentando la fallacia di qualsivoglia conclusione tratta sulla sola base della combinazione tra le varie testimonianze”. Il collegio bacchetta soprattutto l’ex giudice Giuseppe Ayala, all’epoca fuori ruolo dalla magistratura e impegnato in politica: “Pur comprendendone lo stato emotivo profondamente alterato, appare inspiegabile il numero di mutamenti di versione rese nel corso degli anni in ordine alla medesima vicenda”. Per i giudici “restano insondabili le ragioni di un numero così elevato di cambi di versione, peraltro su plurime circostanze del narrato”. E un’ultima stoccata: Paolo Borsellino “si sentì tradito da un soggetto inserito in un contesto istituzionale”.

I giudici bacchettano Ayala: “Troppe versioni” Lui: “Sono amareggiato”. Rita Cavallaro su L’Identità il 7 Aprile 2023

Io continuo ad avere un grande rispetto per i giudici, ma sono davvero amareggiato per quello che scrivono nelle motivazioni della sentenza. Io, in quel momento, mi ero appena imbattuto nel cadavere del mio amico Paolo, che era senza gambe e senza braccia. Ho fatto fatica a riconoscerlo. E c’era questa storia della borsa, ovviamente chiusa. Ignoravo il contenuto della borsa e mi sono confuso. A distanza di anni. Dopo 15, 20 anni”. A parlare è l’ex giudice Giuseppe Ayala, commentando le parole di biasimo nei suoi confronti, scritte dai giudici di Caltanissetta nel processo sul depistaggio nell’attentato a Paolo Borsellino, ucciso con un’autobomba dalla mafia il 19 luglio 1992, quasi due mesi dopo la strage di Capaci, in cui furono fatti saltare in aria il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e la scorta. Ayala fu ascoltato varie volte nei processi sulla strage, in relazione alla borsa e all’agenda rossa di Borsellino e ha fornito versione incongruenti. “Pur comprendendone lo stato emotivo profondamente alterato, appare inspiegabile il numero di mutamenti di versione rese nel corso degli anni in ordine alla medesima vicenda”, scrivono i giudici bacchettando Ayala. Per il collegio “restano insondabili le ragioni di un numero così elevato di cambi di versione, peraltro su plurime circostanze del narrato”.

Parole che non sono piaciute all’ex magistrato, il quale, dopo le stragi, figurava spesso in tv come uno dei nuovi eroi antimafia e sosteneva di aver fatto parte del pool di Falcone e Borsellino. “Ricordo che c’era una testimonianza del giornalista Cavallaro che era più lucido di me e che raccontò quello che è successo. Questo attacco alla mia persona mi amareggia. E anche molto”, dice Ayala, ricordando la “famosa foto di Tony Gentile che vede Borsellino e Falcone insieme sorridenti, fu scattata il 28 marzo 1992 in una iniziativa a sostegno della mia candidatura. I rapporti erano questi e lo possono dire tutti”. Eppure, scrivono i giudici nisseni, “Ayala sentito a sommarie informazioni il 12 settembre del 2005, successivamente al ritrovamento della foto che ritraeva il capitano Arcangioli con in mano la borsa del giudice, egli, operando una drastica riduzione del tempo di permanenza sui luoghi, da un’ora a venti minuti, ha affermato che non era più un ufficiale dei carabinieri in divisa a estrarre la borsa dalla macchina, ma egli stesso che nel frangente provvedeva a consegnarla all’ufficiale”. E aggiungono: “Sentito nuovamente a sommarie informazioni testimoniali l’8 febbraio del 2006 Ayala ha modificato nuovamente la propria ricostruzione dei fatti affermando di essere certo che chi ha prelevato la borsa dall’auto fosse in borghese e non in divisa, che non è stato lui a estrarre la borsa, ma che l’ha presa in mano e consegnata ad un ufficiale in divisa”. Per i magistrati, dunque, sono un mistero le ragioni di un numero così elevato di cambi di versione. Ma per Ayala, i giudici “non tengono conto delle condizioni in cui mi trovavo in quel momento della mia vita, personale e professionale, del grande legame che notoriamente mi univa a tutti i membri del pool, lo sanno tutti, ma come si fa a dubitare? Un po’ di prudenza andrebbe suggerita ai magistrati”. L’ex antimafia accenna anche al “rischio dietrologico, che va di gran moda. Ne prendo atto. Sono tranquillo, per me parla la mia vita professionale, questo mi dispiace dal punto di vista umano”.

Infine, torna con la mente al giorno della strage di via D’Amelio. “Io ero traumatizzato, mi esaminavano a distanza di anni, in quel momento ero fisicamente presente ma con la testa fuori di me, ero inciampato nel cadavere di Paolo e quello che rimaneva di Paolo”, ricorda Ayala. “Mi sembra una affermazione assurda, io ho grande rispetto per la magistratura ma francamente mi pare che dal punto di vista umano c’è poca comprensione”. E conclude: “Quando una versione è costruita è una sola, e l’ho potuto appurare nella mia vita professionale da magistrato. Ma quando non è costruita, con il passare degli anni si fa sempre più fatica a ricordare i dettagli. Questa è la prova provata della mia sincerità. Sono davvero amareggiato”.

Una borsa carica di veleni. Il caso Borsellino tocca Ayala. Luca Fazzo il 7 Aprile 2023 su Il Giornale.

Nella sentenza sul depistaggio i giudici accusano l'ex pm: "Troppe e inspiegabili le sue contraddizioni"

«Io continuo ad avere un grande rispetto per i colleghi, ma sono davvero amareggiato per quello che scrivono nelle motivazioni della sentenza. Io, in quel momento, mi ero appena imbattuto nel cadavere del mio amico Paolo, che era senza gambe e senza braccia. Ho fatto fatica a riconoscerlo. E c'era questa storia della borsa, ovviamente chiusa. Io ignoravo il contenuto della borsa e mi sono confuso. A distanza di anni. Dopo 15 anni, 20 anni».

Giuseppe Ayala era amico di Paolo Borsellino, fu lui a sostenere l'accusa nel maxiprocesso a Cosa Nostra istruito dall'amico e da Giovanni Falcone. Oggi, a trent'anni dall'assassinio del magistrato e della sua scorta, a Ayala tocca difendersi. Da altri magistrati, quelli che hanno condotto il processo per il depistaggio delle indagini sulla strage di via D'Amelio, Ayala si vede accusare di avere cambiato troppo spesso le sue versioni su quanto vide in quella terribile domenica di luglio.

Il processo sul depistaggio si è concluso senza condanne. Sul banco degli imputati c'erano solo tre pesci piccoli, tre poliziotti dell'epoca. Uno è stato assolto, due prosciolti per prescrizione. Ma i giudici del tribunale di Caltanissetta non si fermano lì. Nelle chilometriche motivazioni della loro sentenza (1.700 pagine) per spiegare il depistaggio - che indubbiamente vi fu, e fu grave - scavano e ipotizzano sui suoi motivi, su cosa vi fosse da coprire a tutti i costi. La conclusione è netta: le testimonianze e i documenti approdati in aula danno «concretezza alla tesi della partecipazione (morale e materiale) alla strage di Via D'Amelio di altri soggetti (diversi da Cosa nostra) e/o di gruppi di potere interessati all'eliminazione di Paolo Borsellino».

«Soggetti istituzionali», si spingono a scrivere i giudici. Gli elementi a sostegno della tesi non sono numerosi. Un pentito, Gaspare Spatuzza, che dice che in via D'Amelio c'era anche un signor X esterno a Cosa Nostra: e «la presenza anomala e misteriosa di un soggetto estraneo a Cosa nostra si spiega solo alla luce dell'appartenenza istituzionale del soggetto». Poi c'è l'anomalia del breve intervallo tra la strage di Capaci e l'agguato a Borsellino, che per i giudici contrasta con l'abituale cautela di Cosa Nostra. E infine c'è la storia della borsa di Borsellino, presa da chissà chi e rimasta a lungo in un ufficio: dentro forse c'era la famosa agenda rossa del magistrato, svanita nel nulla.

Per teorizzare il livello «eccellente» dell'uccisione di Borsellino la sentenza di Caltanissetta mette nel mirino diversi che nel frattempo sono morti: l'ex procuratore. Giammanco; l'allora capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera (cui almeno concedono che depistò l'inchiesta, col falso pentito Vincenzo Scarantino, non per aiutare Cosa Nostra ma solo per fare carriera); il capo di allora della polizia Vincenzo Parisi, che avrebbe permesso al Sisde di partecipare alle indagini, grazie a un «avallo istituzionale che non poteva che provenire dall'organo di vertice politico dell'epoca». Ministro dell'interno era il dc Nicola Mancino.

Poi ci sono però le accuse ai vivi. Non, curiosamente, ai magistrati della Procura che (con due sole eccezioni) a quel depistaggio credettero senza obiezioni: ma ad Ayala, che del gruppo inquirente non faceva parte, anche perché nel frattempo era divenuto deputato. Fu tra i primi ad arrivare in via d'Amelio. Sulla borsa e l'agenda di Borsellino è stato interrogato più volte, dando versioni diverse: ha detto di aver preso lui la borsa, ma anche di averla vista prelevare da un uomo in borghese, o (terza versione) da un ufficiale in divisa. «Pur comprendendone lo stato emotivo profondamente alterato appare inspiegabile il numero di mutamenti di versione rese nel corso degli anni in ordine alla medesima vicenda», si legge nella sentenza di Caltanissetta. Ayala replica amaro, in una dichiarazione all'Adnkronos: «I colleghi non tengono conto delle condizioni in cui mi trovavo in quel momento della mia vita, personale e professionale, del grande legame che notoriamente mi univa a tutti i membri del pool, lo sanno tutti, ma come si fa a dubitare? Un po' di prudenza andrebbe suggerita ai magistrati».

A giugno la Cassazione deciderà sul risarcimento per l’ingiusta detenzione. Depistaggio Borsellino, Bruno Contrada: “142 testimoni tra prefetti, agenti e carabinieri ‘inattendibili’, pm volevano il fruttivendolo”. Paolo Comi su Il Riformista il 10 Aprile 2023

Il mio errore, se mai ce ne fosse stato uno, è stato quello di essere sempre in prima linea”, afferma Bruno Contrada, 92 anni, ex capo della squadra mobile della questura del capoluogo siciliano. Condannato in via definitiva nel 2007 a dieci anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, quasi tutti scontati in regime detentivo, nel 2015 la Cedu ha annullato la sentenza ritenendo il reato frutto di una interpretazione giurisprudenziale. Contrada, in particolare, era accusato di avere avuto rapporti con i mandanti ed esecutori della strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992.

Dottor Contrada, ha letto la sentenza sul depistaggio per le indagini sulla morte di Borsellino?

No. ho letto solo qualche articolo.

I giudici di Caltanissetta hanno scritto che lei era “il diversivo giusto” dopo essere caduto in disgrazia per le confidenze rivelate da Gaspare Mutolo a Borsellino circa una sua contiguità con l’organizzazione mafiosa, da collocare immediatamente sulla scena del crimine subito dopo l’esplosione.

Io sono stato trascinato mio malgrado in questa vicenda.

La Cassazione il prossimo giugno si dovrà esprimere per l’ingiusta detenzione che ha patito.

È la terza volta che la Cassazione torna su questa storia, contraddistinta da innumerevoli cavilli giuridici. Spero di finirla, non voglio più avere a che fare con le aule di giustizia.

I magistrati si sono accaniti nei suoi confronti?

Bisognerebbe chiederlo a loro.

Lei avrà una risposta…

E la tengo per me. Però voglio dirle una cosa.

Prego.

Durante il processo a mio carico, 142 testimoni, fra cui cinque capi della Polizia, una ventina fra prefetti e questori, 4 alti generali dei carabinieri, hanno testimoniato a mio favore. Per i magistrati si è trattato di testimonianze inattendibili e non utilizzabili perché inquinate dai pregressi rapporti professionali avuti con me. La procura chiese per alcuni anche la trasmissione degli atti per una eventuale azione penale per falsa testimonianza. Chi avrei dovuto chiamare per testimoniare sulla correttezza del mio operato? Il fruttivendolo sotto casa?

Lei, però, non ha mai mollato.

Nonostante tutto resto sempre un servitore dello Stato.

Venne arrestato alla vigilia di Natale del 1992.

Sono 30 anni che conduco una battaglia impari. Sono andato anche alla Corte di Strasburgo. Quanto indicato sulla copertina del fascicolo mi metteva paura: “Contrada contro Italia”.

Come ci sente ad affrontare una vicenda giudiziaria di questo genere?

È di una complessità tale che è difficile capire anche da dove cominciare. Ci sono storie assurde. I magistrati mi hanno accusato di ogni nefandezza. Oggi, comunque, nessun sarebbe in grado comprendere cosa è successo. Chi ha tempo per consultare migliaia di pagine di atti che coprono decenni di storia del Paese? A chi interessa la storia di un modesto funzionario di polizia ? Quante cose sono successe in trenta anni?

Hanno scritto che era un agente segreto.

Ma quale agente segreto. Io ero solo aggregato al Sisde. Per anni avevo fatto attività sotto il piano operativo, alla fine della carriera mi dedicai a quelli informativi.

Quando entrò in polizia?

Nel 1958. Ho avuto dieci promozioni e valutazioni professionali sempre oltre il massimo. Sono stato anche capo di gabinetto dell’Alto commissario per lotta alla mafia.

Non ho fatto come molti che hanno fatto carriera stando al caldo al Ministero dell’Interno. Io sono sempre stato in prima linea.

Paolo Comi

Sentenza Via D’Amelio: “Le bugie su Contrada diversivo per depistare”. Esce di scena la trattativa Stato-mafia, sfatata anche la presenza dei “man in black” sul luogo della strage. Per i giudici di Caltanissetta il depistaggio c’è stato, e viene ribadita la pista mafia-appalti. Damiano Aliprandri su Il Dubbio il 6 aprile 2023

Dopo anni, scompare definitivamente di scena la tesi della trattativa Stato-mafia come causale dell’accelerazione della strage di Via D’Amelio. Non solo. Decostruita totalmente la testimonianza di un ex poliziotto che dice di aver visto un gruppo di uomini in giacca e cravatta rovistare nel luogo della strage di Via D’Amelio, mentre ancora c’erano addirittura le fiamme. In più viene evidenziato che le testimonianze, in seguito totalmente smentite, su Bruno Contrada presente sul luogo del vile attentato, rientrano nel depistaggio.

Tre elementi, quelli evidenziati dai giudici del tribunale di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, che azzerano le narrazioni mass mediatiche su un tema tuttora rimasto pieno di buchi neri. E che sicuramente, riempiendoli di racconti romanzeschi, non aiutano alla verità. Ma dopo trent’anni dai fatti, e dopo averli sprecati a causa delle prime indagini che portarono all’arresto, con tanto di condanna sigillata dalla Cassazione, di persone totalmente innocenti, il diritto alla verità è menomata. E sono proprio i giudici di Caltanissetta che aprono le motivazioni con una premessa a tal proposito, sottolineando che questo procedimento si colloca a distanza di circa 30 anni dalla strage di Via D’Amelio e sconta dei limiti strutturali non oltrepassabili poiché più ci si allontana dai fatti più è difficile “recuperare” il tempo perduto. Così come, evidenziano sempre i giudici, il decorso di questo lungo lasso temporale ha comportato il venir meno di fonti dichiarative (le persone invecchiano e muoiono) come i decessi dell’allora capo procuratore nisseno Giovanni Tinebra e di Arnaldo La Barbera, capo della squadra “Falcone Borsellino” che condusse le prime indagini. Senza contare che il tempo ha logorato anche i ricordi delle fonti dichiarative ancora in vita.

Secondo i giudici, la matrice dell’attentato non è esclusivamente mafiosa e il depistaggio è servito ad allontanare anche l’altra verità, ovvero la complicità di soggetti istituzionali. Ma nel contempo, risultano forme di depistaggio anche l’aver messo in mezzo persone istituzionali, ma totalmente estranee ai fatti. Primo tra tutti l’asserita presenza di Bruno Contrada sul luogo della strage poco dopo la deflagrazione. Per i giudici della corte è un elemento significativo. Partono dalle dichiarazioni del magistrato Nino Di Matteo che all’epoca raccolse quelle testimonianze, poi rivelatesi totalmente prive di veridicità. Tutto nasce, ha raccontato Di Matteo, «dalla deposizione e i verbali di alcuni magistrati, Antonio Ingroia era uno di questi, la rappresentazione di un dato, che era stato detto da alcuni ufficiali del Ros, e in particolare, se non ricordo male, dal capitano Sinico, ai magistrati che la prima pattuglia intervenuta subito dopo l'esplosione in via D'Amelio aveva notato il dottore Contrada allontanarsi dal luogo dell'esplosione».

Bruno Contrada era “il diversivo giusto”

Lo stesso Di Matteo racconta che nel ’95 decise di riprendere in mano questi fascicoli e propose al capo della procura e agli aggiunti di esplorare questa vicenda. Perfino un collaboratore di giustizia, tale Elmo, aveva riferito che, per circostanze casuali, si trovava nei pressi di via D'Amelio il 19 luglio ’92, e nel momento in cui aveva udito la deflagrazione si era avvicinato e aveva visto Contrada allontanarsi dal luogo teatro della strage con una borsa o con dei documenti in mano. Ovviamente una testimonianza che risulterà del tutto priva di fondamento. I giudici, nelle odierne motivazioni, osservano che rimangono dei quesiti che – ci si rende conto (allo stato) sono destinati a rimanere irrisolti – «ma non por(se)li sarebbe un ulteriore errore di prospettiva che espungerebbe inopinatamente dal raggio di valutazione degli elementi rilevanti».

Segnatamente i giudici si chiedono perché in un arco temporale prossimo alla strage ci sia dedicati a diffondere la notizia, poi rivelatasi falsa, della presenza di Bruno Contrada in via D’Amelio poco dopo l’esplosione. A vantaggio di chi? Alla luce di tutte le circostanze i giudici ritengono che se ne giovò chi aveva tutto l’interesse a far sì che le matrici non mafiose della strage (che si aggiungono a quella mafiosa) di Via D’Amelio non venissero svelate nella loro reale consistenza. «Come ben evidenziato da talune parti civili (in primis l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino, ndr) Bruno Contrada era “il diversivo giusto”: un soggetto - nel frattempo caduto in disgrazia per le confidenze rivelate da Gaspare Mutolo al dottor Borsellino circa una contiguità del Contrada medesimo con l'organizzazione mafiosa - da collocare immediatamente sulla scena del crimine subito dopo l'esplosione».

Sfatata anche la presenza dei “man in black”

Emerge anche la decostruzione di un’altra narrazione. Nei programmi in prima serata, podcast, giornali e anche nei convegni pubblici, viene data per certa la storia della presenza di persone vestite come i “man in black”, a 40 gradi all’ombra, rovistare senza una goccia di sudore nell’auto ancora in fiamme di Borsellino. Questo è il racconto dato da Francesco Paolo Maggi, uno dei primi poliziotti ad arrivare sul luogo della strage. Ebbene i giudici sono chiari a tal proposito: non può essere credibile il racconto. «Inoltre – scrivono nelle motivazioni -, il riferire circostanze così importanti a distanza di un notevole decorso di tempo (Maggi nonostante fosse stato già sentito in altre occasioni non ha mai rivelato tale circostanza prima del processo Borsellino quater) rende ancora più dubbia la credibilità di un dichiarante che è comunque stato destituito dalla Polizia di Stato nel 2001 a causa dell’abuso di sostanze stupefacenti e che sulla borsa del dottor Borsellino ha fornito una versione che contrasta con i dati oggettivi provenienti dai filmati».

Non solo. I giudici ricordano come Maggi, appartenente all’organo di polizia giudiziaria incaricato di svolgere le indagini, non abbia redatto alcuna relazione di servizio fino al 21 dicembre 1992 senza fornire, di fatto, alcuna spiegazione del ritardo di oltre cinque mesi nella redazione di tale atto. «Rimane il dubbio se si tratti di una “negligenza” nella tecnica investigativa – l’ennesima accertata in questo processo – o se vi sia di più», chiosano i giudici. Osservano che non è possibile aggiungere altro senza scivolare nel rischio di fallacia causato «dalla pletora delle possibili ricostruzioni alternative anche in considerazione del fatto che non sono state acquisite nell’odierno procedimento tutte le precedenti dichiarazioni rese da Maggi prima della deposizione nell’odierno dibattimento».

Rimangono però delle certezze per la corte. Che il depistaggio c’è stato, le indagini svolte dalla squadra mobile capitanata da La Barbera sono costellate da forzature e abusi, che la mafia ha agito con la complicità di altri settori esterni. Tra le casuali della strage, non è contemplata la trattativa Stato-mafia, ma viene ad esempio ribadita la pista mafia-appalti come causa preventiva riportando le argomentazioni delle sentenze precedenti. Così come vengono riportate le dichiarazioni del pentito Giuffrè, il quale parla dei sondaggi pre attento che la mafia fece con personaggi del mondo politico e imprenditoriale. Tra loro emerge Pino Lipari (mafioso dal colletto bianco) e l ’ingegnere capo del comune di Bagheria, Nicolò Giammanco (deceduto nel 2012), figura emblematica e personaggio chiave nell'assegnazione degli appalti nonché legato da rapporti di parentela con l’allora capo procuratore Pietro Giammanco. Ma questo è un altro grande e infinito capitolo.

L’avvocato Giordano: «Mi chiedo: è più grave chi ha depistato o chi si è fatto depistare?» Parla il legale dell'ex super poliziotto: «Tralasciando come sono state condotte le indagini e chi si è fatto prendere in giro per anni, rimane il costo elevatissimo che l'intera collettività ha pagato». Giovanni Maria Jacobazzi su Il Dubbio il 7 aprile 2023

«Ho fatto solo una lettura sommaria. Mi riservo di leggere integralmente il testo della sentenza della Corte d’appello di Caltanissetta sul “depistaggio Borsellino” e dopo, posso però garantirlo fin da ora, farò tutte le valutazione del caso», afferma l’avvocato palermitano Stefano Giordano, difensore di Bruno Contrada, ex capo della squadra mobile della questura del capoluogo siciliano.

Contrada, ormai ultranovantenne, venne arrestato alla vigilia di Natale del 1992 su richiesta dell'allora procuratore di Palermo Giancarlo Caselli. Al termine di un iter processuale quanto mai complesso i cui elementi di prova erano quasi esclusivamente le dichiarazioni di alcuni pentiti, ad iniziare da Gaspare Mutolo. L’alto funzionario di polizia venne condannato in via definitiva nel 2007 a dieci anni di reclusione, quasi tutti scontati in regime detentivo, per concorso esterno in associazione mafiosa. In particolare, Contrada era accusato di avere avuto rapporti con i mandanti ed esecutori della strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992.

Nel 2015 la Cedu, a cui gli avvocati di Contrada si erano rivolti, aveva stabilito che la condanna dovesse essere cancellata in quanto il reato contestato di concorso esterno era il risultato di “un'evoluzione giurisprudenziale iniziata alla fine degli anni ' 80 del ‘ 900”, e quindi non previsto da disposizioni di legge.

Avvocato Giordano, la Corte d’Appello nissena ha messo un punto fermo sul fatto che Bruno Contrada non era presente in via D’Amelio poco dopo l’esplosione che uccise il giudice Paolo Borsellino e gli agenti di scorta.

Ho letto questa parte. Qualcuno dovrà chiedere scusa al dottor Contrada o, quanto meno, dare le proprie giustificazioni per delle dichiarazioni effettuate, anche recentemente, nelle solite e ben note trasmissioni televisive compiacenti su una certa narrazione.

Eppure Contrada era stato uno dei pochi ad accorgersi del depistaggio posto in essere dal falso pentito Vincenzo Scarantino.

Certo. Ma proprio su questo aspetto vorrei fare una riflessione.

Dica.

Cosa è più grave, chi ha depistato o chi si è fatto depistare?

Nella sentenza di Caltanissetta, scrivono i giudici, “rimangono dei quesiti che – ci si rende conto ( allo stato) sono destinati a rimanere irrisolti – ma non por( se) li sarebbe un ulteriore errore di prospettiva che espungerebbe inopinatamente dal raggio di valutazione degli elementi rilevanti. Segnatamente ci si chiede perché in un arco temporale prossimo alla strage ci sia dedicati a diffondere la notizia, poi rivelatasi falsa, della presenza di Bruno Contrada in via D’Amelio poco dopo l’esplosione? A vantaggio di chi?

I giudici aggiungono anche che “alla luce di tutte le circostanze di cui si è dato conto si ritiene che se ne giovò chi aveva tutto l’interesse a far sì che le matrici non mafiose della strage di via D’Amelio non venissero svelate nella loro reale consistenza. Come ben evidenziato da talune parti civili, Bruno Contrada era “il diversivo giusto”: un soggetto nel frattempo caduto in disgrazia per le confidenze rivelate da Gaspare Mutolo al dottor. Borsellino circa una contiguità del Contrada medesimo con l'organizzazione mafiosa - da collocare immediatamente sulla scena del crimine subito dopo l'esplosione”.

Pensa che i magistrati che negli anni si sono interessati al procedimento debbano dare delle giustificazioni?

Su questo saremo inflessibili, ritengo infatti che non esista il reato di lesa maestà nei confronti dei magistrati.

Cosa rimane a distanza di oltre trenta anni dai fatti?

Tralasciando, dunque, come sono state condotte le indagini e chi si è fatto prendere in giro per anni, senza incrociare i dati o fare gli approfondimenti del caso, ciò che rimane è il costo elevatissimo che l'intera collettiva ha pagato. Mi riferisco agli innocenti che sono stati arrestati ed ai milioni di euro di risarcimento per l'ingiusta detenzione da loro patita, tutti a carico di noi cittadini.

Per quanto riguarda i risarcimenti, il prossimo 6 giugno la Cassazione si pronuncerà sull’ingiusta detenzione di Contrada.

Guardi, è solo una affermazione del diritto. Contrada all’età che ha non ha bisogno di soldi.

Indagati due generali in pensione dell’arma, l’accusa è depistaggio. NELLO TROCCHIA su Il Domani il 03 marzo 2023

Prima di Matteo Messina Denaro c’era un altro boss inseguito dagli inquirenti, il capo dei capi di cosa nostra, Bernardo Provenzano. Pietro Riggio era uno di quelli entrati in contatto con la rete di protezione del mafioso e avrebbe potuto condurre alla sua cattura.

Sulle dichiarazioni di Riggio, il consolidamento delle sue verità si è aperta un’indagine giudiziaria delicatissima che parla di ostacoli, silenzi attorno alle sue confessioni. 

Angiolo Pellegrini e Alberto Tersigni sono due ex generali dell’arma dei carabinieri, impegnati nel contrasto al fenomeno mafioso per una vita, e che oggi figurano come indagati per depistaggio, entrambi si dicono totalmente estranei alle contestazioni. 

Falso: Ferraro non parlò con Borsellino di Trattativa”. L’avvocato della famiglia Borsellino Fabio Trizzino dopo la puntata di Non è l’Arena: “Sarei tentato di dire che il depistaggio continua”. Il Dubbio il 13 febbraio, 2023.

Quanto detto ieri sera da Sandra Amurri nella trasmissione di Giletti sull'incontro tra Liliana Ferraro con Paolo Borsellino a Fiumicino il 28 giugno 1992 è assolutamente falso. Sarei tentato di dire che il depistaggio continua”. A dirlo all'Adnkronos è l'avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino e legale della famiglia del giudice ucciso nella strage di via D'Amelio. Il riferimento è alla trasmissione Non è l'Arena andata in onda ieri sera su La7 in cui la giornalista Amurri ha parlato dell'incontro tra la magistrata del Ministero della Giustizia Liliana Ferraro e Borsellino poco prima della strage.

Ferraro accennò a Borsellino di quanto saputo da Mori per il tramite di Martelli e da De Donno direttamente sulla iniziata interlocuzione con Ciancimino”. “Quindi - spiega il legale - la Ferraro non parlò a Borsellino di nessuna trattativa e soprattutto Borsellino rispose 'Me ne occupo io', Non disse affatto 'Dovranno passare sul mio cadavere’”. “Questo oltraggio alla memoria di Paolo Borsellino dovrà finire prima o poi. Fare dire alla Ferraro ciò che non ha mai detto sull'incontro con il Giudice Borsellino a Fiumicino è gravissimo - dice Trizzino - Ma è altrettanto ripugnante - non trovo altre parole - che si cerchi di trascurare, o peggio, nascondere l'interesse di Paolo Borsellino per il Rapporto del Ros su mafia appalti del febbraio 1991”.

E ricorda la testimonianza di Liliana Ferraro al processo Borsellino quater del primo aprile 2014. “Nella testimonianza si fa riferimento ad una iniziativa illegittima del Procuratore Giammanco, il quale nell'agosto 1991 spedì un rapporto che doveva rimanere segreto ad alte autorità istituzionali, come il Ministero della Giustizia, perché si risolvessero in quella sede questioni relative ad indagini penali”, ricorda Trizzino. “Follia pura, tanto da sollecitare una dura lettera di restituzione del relativo plico da parte di Martelli quale ministro pro tempore - conclude - La gestione di quel Rapporto da parte della Procura retta da Pietro Giammanco fu alquanto strana ad usare un eufemismo. Sta di fatto che Falcone e soprattutto Borsellino muoiono perché vogliono rivitalizzarlo. Non lo dico io ma le sentenze definitive sulle due stragi”.

Renzi: “Scarpinato ha fatto carriera su una Trattativa che non c’era”. Il duello in Senato tra il leader di Italia Viva e l’ex pm. Che replica: “Il 41bis fu una vittoria dello Stato e della società civile”. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 2 febbraio 2023.

Un Matteo Renzi scatenato quello che ieri si è scontrato all’arma bianca con l’ex pm Roberto Scarpinato oggi senatore del Movimento Cinque stelle.

Il botta e risposta tra i banchi di Palazzo Madama è stato infatti particolarmente rude. Il leader di Italia viva intervenendo in risposta all’informativa di via Arenula sul caso Cospito ha voluto ricordare il ruolo decisivo svolto dalla politica nella lotta a Cosa nostra dopo l’omicidio di Giovanni Falcone: «È lì che nasce il 41 bis per tentare di distruggere la Mafia, cosa che oggi sta avvenendo». Poi la stoccata senza possibilità di equivoco: «La stiamo battendo alla faccia di tutti quelli che ci raccontano di fantasiose trattative smentite dalle sentenze della Cassazione e che permettono a qualche ex magistrato di fare carriera».

Inferocita la replica di Scarpinato che nell’agitazione battibecca con qualche collega facendosi richiamare all’ordine dal presidente La Russa: «Ci vuole una bella faccia tosta come quella del senatore Renzi per qualificare il 41-bis come una vittoria della politica. È stata una legge sporca del sangue di Paolo Borsellino e dei cinque agenti della scorta e dell’indignazione popolare che costrinse un Parlamento riottoso a d approvarla. Fu una vittoria dello Stato e della società civile».

Il clima è rovente e Renzi riprende la parole con una controreplica al vetriolo, precisando che sì, si stava riferendo al senatore grillino nel suo primo intervento: «Ci terrei che venisse messo agli atti che effettivamente stavo parlando proprio di Scarpinato al quale vorrei ricordare che, prima di venire a dare della faccia tosta ai colleghi, dovrebbe spiegare non solo le sue strane frequentazioni con il dottor Palamara, ma anche il suo atteggiamento del tutto folle nei confronti del le istituzioni di questo paese come sa bene il presidente emerito Giorgio Napolitano, ecco Scarpinato si dovrebbe vergognare».

Lo scontro a palazzo Madama. Renzi-Scarpinato, duello in Senato: “Vergognati, qui grazie alla ‘trattativa'”, “Ignorante, dove sono finito?” Redazione su Il Riformista l’1 Febbraio 2023.

Un botta e risposta che ha infiammato il dibattito in Senato dopo le comunicazioni di Nordio sul caso Cospito. Il 41bis, ma non solo, al centro dello scontro tra l’ex pm Roberto Scarpinato e il leader di Italia Viva Matteo Renzi. Urla, accuse, offese, poi il colpo di coda dell’ex premier che allo scadere della seduta di palazzo Madama chiede la parola ‘per fatto personale’ e demolisce la tesi del senatore del Movimento 5 Stelle.

Nel corso del suo primo intervento, Renzi aveva sottolineato di credere “che il 41 bis abbia salvato il Paese e credo che il 41bis dovrebbe renderci orgogliosi, perché è la politica che ha sconfitto la mafia. L’ha sconfitta quando il ministro Martinazzoli ha costruito l’aula bunker, e quando mentre altri giudici attaccavano Falcone, il ministro Martelli lo ha chiamato a Roma al ministero, ed è allora che nasce il 41 bis. Alla faccia  – qui la stoccata a Scarpinato – di chi ci dice fantasiose affermazioni di trattative, che permettono a qualcuno di entrare in Parlamento”.

Passano pochi minuti, e dopo l’intervento di un altro senatore, ecco arrivare la replica stizzita dell’ex procuratore generale di Palermo: “Ci vuole una faccia tosta come quella di Renzi per cambiare la storia”. Parole che hanno provocato i commenti dello stesso Renzi e dei parlamentari di Italia Viva con Scarpinato che, rivolgendosi alla presidenza, ha urlato “Mi faccia parlare“, chiedendo poi di poter recuperare il tempo d’intervento perso durante il battibecco.

Il 41 bis – ha proseguito- è una legge sporca di sangue. La legge è nata col sangue di Borsellino e gli uomini della sua scorta, una strage, che ha costretto il Parlamento riottoso a fare il 41 bis, non fu vittoria della politica ma dello Stato e della società civile. E’ una legge sporca di sangue che non si può definire vittoria della politica”.

Passano altri, pochi, minuti prima del colpo di coda finale di Renzi che va giù duro: “Scarpinato ha iniziato il suo discorso dandomi della faccia tosta perché si è sentito chiamato in causa dal mio passaggio sui magistrati che in nome di una fantomatica trattativa smentita da una sentenza della Corte di Cassazione hanno costruito una carriera in magistratura prima e in politica poi – ha spiegato il leader di Iv –. Vorrei che restasse agli atti che effettivamente mi riferivo esattamente a Roberto Scarpinato al quale vorrei ricordare che prima di venire a dare faccia tosta ai colleghi dovrebbe spiegare non solo le sue strane frequentazioni col dotto Palamara ma anche il suo atteggiamento del tutto folle nei confronti delle istituzioni di questo paese, come sa il presidente della Repubblica emerito Giorgio Napolitano. Per me Scarpinato si deve vergognare”.

Due a uno? In Senato sì ma all’uscita ecco arrivare l’ulteriore replica di Scarpinato che accusa Renzi di essere disinformato e ignorante: “In primo luogo ha affermato che la Cassazione ha annullato la sentenza della trattativa ma la Cassazione non si è ancora pronunziata, quindi dimostra un’ignoranza basilare dei fatti. In secondo luogo, la sentenza di appello ha confermato che la trattativa c’è stata e che ci sono state una serie di gravissime deviazioni istituzionali degli imputati. Terzo, ha affermato che io avrei avuto frequentazioni con Palamara: se c’è un magistrato in Italia che non ha avuto frequentazioni con Palamara sono io e questo risulta da tutti gli atti di indagine dove non c’è una sola chat, tra le milioni di chat di Palamara, che attesti una mia conversazione con lui. L’unico caso in cui parla di me, ne parla malissimo, cosa di cui sono orgoglioso”.

Ha poi fatto riferimento al consigliere giuridico di Napolitano, D’Ambrosio, il quale è stato intercettato mentre parlava con l’onorevole Mancino nell’ambito del processo sulla trattativa, non entro nel merito della telefonata ma è un’altra citazione a sproposito perché allora lavoravo in un altro ufficio e non sono stato io a disporre questa intercettazione. Ci fosse una sola di queste affermazioni che sia ancorata a un dato reale, lui parla a ruota libera. Venendo in Parlamento, pensavo che un parlamentare prima di parlare quanto meno si informasse, ma affermare che la Cassazione ha annullato la sentenza della trattativa quando tutti gli italiani sanno che ancora non si è pronunciata, veramente c’è da chiedersi ma dove sono finito?“, conclude Scarpinato.

Stragi di mafia: così Report (e non solo) “suggestiona” pentiti ed ergastolani. “Io parlo di quello che ho sentito in televisione, sia in un programma televisivo su la7 (Atlantide ndr) sia su Rai3”. Dalla pista nera alle donne bionde, ecco il racconto degli ex mafiosi stragisti sentendo la Tv. E qualche procura ci mette il carico da novanta. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 2 gennaio 2023

Tra cinquant’anni, quando l’antimafia mediatica (e parte di quella giudiziaria) sarà oggetto di studio, sicuramente non potrà passare inosservato come presunte inchieste di Report (canale pubblico) o di Atlantide (canale privato) inconsapevolmente alimentano di nuove suggestioni i pentiti stessi. Perfino uno come Gaspare Spatuzza, che fu parte attiva degli attentati mafiosi come le stragi continentali del maggio-luglio 1993 a Firenze, Milano e Roma, parla di ipotesi apprese in Tv.

Ed è così che si crea un insostenibile circolo vizioso utile per gli ascolti, ma completamente distruttivo per i giovani che si affacciano per la prima volta allo studio del fenomeno mafioso di quegli anni. Ma non aiuta nemmeno una grossa fetta di magistrati antimafia che si diletta nell’infinita ricerca delle “entità”. Pm che creano infiniti teoremi, chiudono e riaprono le stesse identiche inchieste giudiziarie (pensiamo a Berlusconi e Dell’Utri indagati per la quinta volta come mandanti occulti delle stragi), si spendono numerose risorse umane e si alimenta il circuito mediatico – giudiziario che, com’è detto, a sua volta “alimenta” i pentiti stessi.

Molto utile, per comprendere il fenomeno dei pentiti che raccontano ciò che sentono in Tv, è la lettura della relazione finale della scorsa commissione nazionale Antimafia relativa alla attività istruttoria sull’evento stragista di via dei Georgofili a Firenze. Si apprende così che viene sentito l’ergastolano Cosimo Lo Nigro, già condannato per le stragi e ritenuto la persona che si occupava del recupero dell’esplosivo in mare, quello che verrà utilizzato sia per le stragi di Capaci e di Via D’Amelio, che per quelle “continentali”. Dalle risultanze processuali è emerso, grazie alle consulenze già svolte dai periti, che in ciascuna delle cariche esplosive utilizzate per le stragi i medesimi componenti, miscelati, sono da ricondurre a esplosivi di tipo militare e segnatamente tritolo (o Tnt), T4 (o Rdx), e Pentrite (o Petn). Per la strage di Capaci, furono utilizzati 500 chili di esplosivo. Per via D'Amelio, 100 chili. Per l'attentato di Firenze, la carica era da 250 chili.

Lo Nigro però si dichiara innocente. «Io oggi mi trovo qui – spiega innanzi alla commissione antimafia -, detenuto da 26 anni, con queste accuse tremende, e io per la giustizia italiana sono un definitivo e sono un ergastolano, ma nella mia coscienza e nel mio cuore, io sono un innocente e chiedo a voi, principalmente a voi, che siete quelli che in merito agli ultimi sviluppi, in questi anni su cosa è successo di quello che sta accadendo nel nostro Paese, vi chiedo a voi di approfondire e di investigare». Alla domanda posta dall’ex presidente Nicola Morra su cosa bisognerebbe investigare, ecco cosa risponde: «Io le parlo di quello che ho visto in Tv. Ci siamo? Noi siamo qui oggi per la situazione di Firenze, per la tematica e la disgrazia di Firenze. Mi dica una cosa: in televisione io ho ascoltato personalmente alcuni format mirati di questi eventi che sono successi all’epoca. Sulla situazione di Firenze, come Firenze e come Milano, e in qualche altra strage, si parla di una donna». Ecco, lo dice chiaramente: parla di ciò che ha appreso guardando le inchieste in TV.

Lo Nigro, infatti, evoca il discorso della donna, la famosa bionda che secondo la tesi elaborata principalmente dal magistrato Gianfranco Donadio quando svolse le attività presso la Direzione Nazionale Antimafia (poi fu trasferito dal csm per via delle denunce nei suoi confronti da parte della procura di Catania e di Caltanissetta), sarebbe stata una sorta di 007 che avrebbe partecipato alle stragi. Bionda, corpo da amazzone, descritta da improbabili pentiti (per lo più della ‘ndrangheta) già decostruiti dalla procura nissena e catanese.

L’ex presidente Morra, in commissione, pone nuovamente la domanda a Lo Nigro: «Come mai la colpisce questa questione della donna? Lo chiedo così, per mia curiosità». Ecco cosa risponde: «Lei ha parlato di ipotesi. Io parlo di quello che ho sentito in televisione, sia in un programma televisivo su La7 (Atlantide, ndr) sia su Report su Rai 3, in occasione dei tre anniversari. Le trasmissioni hanno parlato anche di questi fatti che sono accaduti nel 1993 e riportano di una donna, non solo a Firenze!». Più chiaro di così non si può. Non sa nulla, ma racconta ciò che ha appreso dalle “inchieste” mainstream.

Interessante anche la deposizione del pentito Gaspare Spatuzza. Egli ebbe un ruolo primario in tali gravi accadimenti perché legato a Giuseppe Graviano, mafioso ai vertici del mandamento di Brancaccio ed esponente di cosa nostra, a sua volta in stretti rapporti con i vertici di tale organizzazione e in particolare con il latitante Matteo Messina Denaro. Grazie alla sua collaborazione si è potuto rifare da capo il processo sulla strage di Via D’Amelio (Borsellino quater) e condannare anche gli esecutori delle stragi continentali. Lui partecipò alle stragi come quelle di Firenze. Ha sempre raccontato tutti i dettagli dell’operazione stagista, compreso il reperimento dell’esplosivo e della sua collocazione. Però non basta, perché non collima con il teorema delle donne bionde e dell’esplosivo fornito dalle entità.

Spatuzza però è sincero. Esclude che il suo gruppo sia entrato in contatto con soggetti esterni a cosa nostra, ma nel contempo dichiara di poter supporre che ci siano stati contatti. Ma da dove deriva questa sua supposizione? Si richiama a «l’evolversi di tutto quello che visto in questi anni...» e «tutto quello che sia il progetto Farfalla». E dove l’ha visto se non in TV? E si comprende che non conosce la vicenda. Lo chiama “progetto Farfalla”, mentre in realtà si chiama “protocollo farfalla” e non c’entra nulla con il periodo delle stragi visto che fu una operazione dei primi anni 2000 tra l’intelligence e il Dap per cercare una presunta regia mafiosa dietro le proteste contro il 41 bis. Operazione fallimentare, perché non si scoprì alcun grande vecchio dietro. Un po’ come le rivolte carcerarie durante la pandemia. Sempre alla ricerca, fallimentare, delle regie occulte.

Interessante che il magistrato Donadio insista sulla presenza delle donne. Lo fa anche con Spatuzza. «Lei ha mai percepito il problema dell’esistenza di una donna in questo scenario stragista?». Ebbene sì. Chiede al collaboratore della giustizia se ha avuto una “percezione” di qualche donna. Spatuzza risponde di no. Ma il magistrato non si arrende. Insiste. «In tutto lo scenario stragista ha avuto mai un sintomo?». Spatuzza risponde: «Non ho avuto mai né direttamente né indirettamente che ci fosse una donna un po' in secondo o terzo piano in quello che era il gruppo operativo».

Niente da fare. Nessuna percezione, nessun sintomo. Il prossimo passo sarà lo studio delle entità asintomatiche. Già qualcosa si intravvede con la riedizione del nero Stefano Delle Chiaie. Nessuna prova che sia stato a Capaci o a Firenze, per quest’ultimo all’epoca le indagini della Digos accertarono che il giorno dell’attentato era a Bolzano. Però poco importa. Bisogna insistere, evocare nuove suggestioni e perdere altri anni di tempo prezioso. Ora aspettiamoci le supposizioni dei pentiti dopo aver visto l’ennesima trasmissione di Report.

Facce da mostro. Report Rai PUNTATA DEL 02/01/2023 di Paolo Mondani

Collaborazione Marco Bova e Roberto Persia

Consulenza di Andrea Palladino

Immagini di Andrea Lilli, Dario D’India e Alessandro Spinnato

Report torna a indagare gli anni delle stragi in Italia.

Ancora oggi emergono altri protagonisti, a lungo rimasti insospettabili, e uomini che per anni hanno scelto il silenzio. La storia della nostra Repubblica continua a essere riscritta, e ora è sempre più evidente come nelle stragi del ’92 e ’93 ci sia la mano di mandanti esterni. Vi mostreremo per la prima volta l’informativa redatta dall’allora capitano dei carabinieri Gianfranco Cavallo, dove si segnalava la presenza di Stefano delle Chiaie a Capaci in cerca di esplosivo poco prima della strage. Una informazione dal grande valore investigativo, ma incredibilmente non approfondita dai carabinieri. Come mai? Solo oggi rileggendo la storia capiamo come per individuare i responsabili dietro gli anni più bui della nostra Repubblica occorra tenere in considerazione gli elementi ricorrenti di un sistema al cui interno operavano uomini della destra eversiva, massoni, uomini dello Stato e mafiosi. Non è storia vecchia, oggi che la legislazione messa a punto per combattere la mafia da Falcone e Borsellino viene messa a dura prova e da ogni lato si moltiplicano i tentativi di riscrivere il periodo stragista e i suoi responsabili.

FACCE DA MOSTRO di Paolo Mondani Collaborazione di Roberto Persia e Marco Bova Consulenza di Andrea Palladino Immagini di Andrea Lilli, Dario D’India e Alessandro Spinnato Montaggio di Elisa Carlotta Salvati e Giorgio Vallati Grafica di Giorgio Vallati

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Perché insistiamo nel cercare la verità sulle stragi di mafia di trent'anni fa? Perché come diceva un vecchio filosofo: "La storia si ripete sempre due volte. Prima come tragedia, poi come farsa". La farsa odierna è la messa in scena dove onoriamo gli eroi con le lacrime agli occhi e dichiariamo che i mafiosi cruenti sono stati sconfitti. Eppure, c'è ancora chi nasconde le prove, depista e confonde, dietro questi muri, dentro queste carte.

ROBERTO SCARPINATO – SENATORE M5S – PROCURATORE GENERALE DI PALERMO 2013-2022 Il trentennale delle stragi è stato un trentennale triste. All'insegna della rimozione, della normalizzazione e della restaurazione. La narrazione che si fa al pubblico della storia di Falcone e Borsellino si può sintetizzare in questo schema: da una parte ci sono dei supereroi, Falcone e Borsellino, eroi di Stato, personificazione del bene, dall'altra parte ci sono i soliti brutti sporchi e cattivi, personaggi come Riina, assetati di sangue, personificazione del male di mafia. La mafia di Riina non c'è più, è una storia del passato, possiamo archiviarla cominciando a smontare pezzo per pezzo la legislazione antimafia che era stata costruita negli anni dell'emergenza. Questo Stato non è riuscito a sapere la verità sui mandanti e i complici occulti delle stragi del neofascismo; questo Stato non è riuscito e non vuole sapere la verità sulle stragi del '92-'93.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO 4 Non era stato un bel trentennale neppure per noi di Report. A distanza di 30 anni avevamo raccontato noi per primi della presenza di Stefano delle Chiaie, leader di Avanguardia Nazionale, a Capaci poco prima della strage. Avevamo anche parlato dei suoi incontri con i boss di Cosa Nostra, con Mariano Tullio Troia e Antonino Troia, anzi con Antonino Troia poi Delle Chiaie sarebbe andato anche a cercare di reperire l’esplosivo per la strage. Avevamo anche raccolto con una intervista le dichiarazioni di un brigadiere, Walter Giustini, che a sua volta aveva raccolto quelle di un confidente, Alberto Lo Cicero, che era proprio l’autista di Mariano Tullio Troia. Lo Cicero oltre che confermare a Giustini la presenza di Delle Chiaie aveva anche raccontato chi era l’autista di Totò Riina, cioè Salvatore Biondino, mesi prima che si svolgessero le stragi. C’era quindi la possibilità di arrestare il capo di Cosa Nostra prima degli eccidi. Insomma, però tutto questo non è successo. Dopo la messa in onda della nostra inchiesta è successo il putiferio, sono scattate le perquisizioni e il nostro Paolo Mondani ha scoperto di esser stato intercettato, di esser stato pedinato. C’è chi ci ha accusato di depistaggio, chi di fuga di notizie. Poi dopo l’inchiesta è emerso anche che Alberto Lo Cicero, cioè l’autista di Troia aveva parlato anche con il giudice Paolo Borsellino che stava indagando sulla morte dell’amico Giovanni. Aveva anche a lui confermato la presenza di Stefano Delle Chiaie sul luogo della strage. Era emersa una figura, quella di Stefano Delle Chiaie, leader di Avanguardia Nazionale nelle stragi che hanno destabilizzato il paese. Non è la prima volta perché era già successo negli incontri con l’ndrangheta, prima del golpe Borghese e anche prima dei moti di Reggio di qualcuno che avesse segnalato la presenza di Stefano delle Chiaie, ma ora appariva anche tra i registi occulti della strategia stragista del ’92 e del ’93 quella strategia di cui si era parlato in numerosi incontri dove si è riunito con il gotha di Cosa Nostra e anche uomini dei servizi segreti, della P2, della destra eversiva. Questa sera proveremo ad aggiungere un tassello a quel mosaico riguarda la figura Armando Palmeri, considerato, lui stesso si definisce così: “libero professionista di Cosa Nostra” ma in realtà è il braccio destro di Vincenzo Milazzo capo della cosca di Alcamo considerata la Delta Force di Cosa Nostra, perché annovera tra le loro fila dei killer esperti in armi da guerra cioè la cosca ideale per chi vuole fare la guerra allo Stato. Il nostro Paolo Mondani e la collaborazione del nostro Roberto Persia

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Eppure, basterebbe iniziare da Armando Palmeri, consigliere e braccio destro del boss Vincenzo Milazzo di Alcamo, che già nel 1998 dichiarò ai magistrati di Palermo che poco prima della strage di Capaci due uomini dei servizi segreti chiesero di parlare con il clan, famoso per le sue capacità militari.

PAOLO MONDANI Quanti incontri ci furono tra questi dei servizi e Milazzo?

ARMANDO PALMERI – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Tre per l'esattezza.

PAOLO MONDANI Dopo ognuno degli incontri, ovviamente, Milazzo parlava con lei. Le ha detto mai cosa chiedevano?

ARMANDO PALMERI – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Chiedevano la destabilizzazione dello Stato: attentati, inquinamento acquedotti, bombe.

PAOLO MONDANI Milazzo cosa rispose a queste richieste?

ARMANDO PALMERI – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Sono stato nettamente contrario, anche lui stesso era contrario: questa è un'azione kamikaze, ma cosa porterà di bene a Cosa Nostra. Però lo garantiva il chirurgo che accompagnava questi due.

PAOLO MONDANI E cioè chi era il chirurgo?

ARMANDO PALMERI – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Lauria. Primario, mi pare, al tempo del nosocomio di Alcamo.

PAOLO MONDANI Baldassare Lauria.

ARMANDO PALMERI – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Baldassarre Lauria.

PAOLO MONDANI Che poi diventerà tra il '96 e il 2001 senatore di Forza Italia.

ARMANDO PALMERI – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Lui aveva fatto una proposta di guerra batteriologica.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Secondo Palmeri, Baldassarre Lauria, poi senatore di Forza Italia tra il 1996 e il 2001, avrebbe favorito i tre incontri tra i servizi segreti e il boss Vincenzo Milazzo. Ma Baldassarre Lauria ha sempre negato ogni coinvolgimento.

PAOLO MONDANI Lei fece queste rivelazioni sui due uomini dei servizi segreti e sugli incontri con Milazzo già nel 1998. Non le fecero vedere un album fotografico di soggetti che lei avrebbe potuto riconoscere?

ARMANDO PALMERI – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Ma sì, certo. Tutte foto risalenti alla guerra del '15-'18, ingiallite. Ma si figuri, altrimenti che servizi segreti sarebbero.

PAOLO MONDANI Cioè lei dice non volevano che lei…

ARMANDO PALMERI – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Non c'era, punto. Non c'era né uno né l'altro.

PAOLO MONDANI Milazzo le diede dei giudizi su questi uomini dei servizi?

ARMANDO PALMERI – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Di sovente mi ripeteva. Dice: lo vedi? Questa è la vera mafia, noi siamo dei semplici burattini al loro cospetto.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il 14 luglio del 1992, cinque giorni prima della strage di Via D'Amelio, Vincenzo Milazzo viene ucciso. Paga così il suo rifiuto di far parte della strategia delle stragi. Poco dopo viene uccisa anche la sua fidanzata, Antonella Bonomo, che probabilmente sapeva molte cose di Milazzo. I killer inviati da Riina temevano infatti che lei avesse rivelato qualche segreto a un suo stretto parente, Giacomo Quagliata, generale dei carabinieri prima al Sismi, poi al Sisde, molto conosciuto ad Alcamo e in tutto il trapanese. Milazzo verrà ucciso dal suo più caro amico, Antonino Gioè.

ARMANDO PALMERI – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Il Gioè non voleva che fosse ucciso dagli altri. Tanto è vero che poi io chiesi allo stesso Gioè. Ho detto: Nino come è morto Vincenzo? Lui tacque un secondo e mi disse: “Da uomo d'onore”.

ROBERTO SCARPINATO – SENATORE M5S – PROCURATORE GENERALE DI PALERMO 2013-2022 E a sua volta Antonino Gioè è un uomo d'onore particolare perché nel 1967 i carabinieri di Altofonte fanno un'informativa su di lui dicendo che sebbene sia figlio di un mafioso è una persona che è adatto per operazioni riservate. Il che significa che è una persona adatta per compiere operazioni tipiche dei servizi segreti.

PAOLO MONDANI Gioè era vicino ai servizi segreti?

ARMANDO PALMERI – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Più volte l’ho incontrato, l'ho accompagnato in incontri molto particolari.

PAOLO MONDANI Con uomini della…

ARMANDO PALMERI – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA …delle istituzioni. PAOLO MONDANI Avete mai parlato insieme della strage di Capaci? Perché Gioè era quello che insieme a Brusca stava sulla montagna ufficialmente a schiacciare il telecomando.

ARMANDO PALMERI – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Esatto. Io le dico che il Gioè mi ha detto ufficiosamente: "A Giuannineddu ci paria che era iddu a fallo, a fallo..." e me fa un gesto così "a fallo" tipo aveva un giocattolino. Cioè era stato un altro ad azionare l'impulso.

PAOLO MONDANI Le ha fatto capire che il loro meccanismo, il loro, diciamo così…

ARMANDO PALMERI – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA …dispositivo per lanciare l'impulso era un giocattolino che in effetti…

PAOLO MONDANI …era in sinergia con altri giocattolini?

ARMANDO PALMERI – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Con altra gente. Che cosa mi sta dicendo? È un'operazione militare, perfetta.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Ecco l'informativa dei carabinieri di Palermo, che nel 1967 definiva Gioè "idoneo a disimpegnare particolari incarichi di natura riservata”. Ex paracadutista, uomo di destra, Gioè era l’anello di collegamento tra Cosa Nostra e i servizi, come rivelò suo cugino, il boss pentito Francesco Di Carlo. Una specie di agente doppio tra la criminalità e lo Stato. Identikit simile a quello dell'amico Paolo Bellini, oggi condannato in primo grado come esecutore della strage alla stazione di Bologna del 1980. Bellini, nel 1992, conduce una singolare trattativa tra i carabinieri del Ros e Cosa Nostra proprio tramite l’amico Gioè, che una volta arrestato, dopo aver comunicato di voler collaborare con la giustizia, nella notte tra il 28 e il 29 luglio del 1993 viene trovato impiccato con modalità assolutamente inspiegabili. Ufficialmente suicidio.

ARMANDO PALMERI – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Per me viene suicidato, per me che conosco bene Gioè e la sua scelta di voler collaborare con la giustizia per fermare quella macchina criminale. Anche se lui era un killer spietato.

PAOLO MONDANI È Gioè a parlarle di un traffico di materiale radioattivo che avveniva nella zona...?

ARMANDO PALMERI – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Sì, sì.

PAOLO MONDANI Ed è di questo traffico di materiale radioattivo che Gioè avrebbe voluto parlare ai magistrati?

ARMANDO PALMERI – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Sì, questo ed altro.

PAOLO MONDANI Gioè le parlò per caso anche di una pista segreta vicino Palermo nella quale arrivavano elicotteri che trasportavano casse di materiale fissile e nucleare?

ARMANDO PALMERI – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Sì, sì.

PAOLO MONDANI Lei ha potuto vedere queste casse?

ARMANDO PALMERI – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Sì. PAOLO MONDANI E questo traffico di materiale radioattivo era destinato ad alimentare il piano di destabilizzazione chiesto da quei servizi segreti?

ARMANDO PALMERI – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Qui ci sono delle delicatissime indagini in corso quindi capirà, preferisco…

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Palmeri non vuole dire di più per via delle indagini in corso sull'argomento. Nessun accenno neppure nel suo recente libro. Ma la Commissione Parlamentare antimafia, alla fine della scorsa legislatura, approva una relazione nella quale sostiene che proprio ad Alcamo, provincia di Trapani, è "emerso un traffico di materiale fissile verso la Libia, in atto almeno dal 1976 e proseguito perlomeno sino al 1993". Nel 1983, negli Stati Uniti, fu condannato Edwin Wilson, ufficiale della Cia, membro di un'alleanza clandestina tra varie intelligence denominata Secret Team per aver gestito un traffico di armi verso la Libia, comprendente trattative per la consegna di materiale nucleare. Traffico con complici italiani. Parliamo quindi di elicotteri senza insegne che negli anni delle stragi avrebbero depositato casse di materiale nucleare proprio in quest'area vicino ad Alcamo, luogo dove storicamente tra servizi segreti, mafia e uomini della Gladio trapanese non sembrano esistere confini. Ad Alcamo se n'era occupato anche un noto poliziotto.

ANTONIO FEDERICO – EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Sì, perché c'era un traffico di uranio tra la Libia, il Marocco e Castellammare.

PAOLO MONDANI Lo accertate?

ANTONIO FEDERICO – EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO No, non sono riuscito ad accertarlo. Io penso che ci sia un secondo stato parallelo, cioè una struttura dello Stato affiancata allo Stato onesto. Poi se li vogliamo chiamare servizi deviati, non servizi deviati, non so.

PAOLO MONDANI Questa struttura riservata aveva rapporti con la criminalità?

ANTONIO FEDERICO – EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO La criminalità organizzata è, dal mio punto di vista, pilotata, comandata, gestita da queste persone.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO È l'autunno del 1977, il commissario Giuseppe Peri, comandante della caserma di Alcamo, anticipa di venti anni le conclusioni di Antonio Federico. Inviò il suo rapporto a sette procure della Repubblica per ricostruire la storia tragica di quattro sequestri di persona, sette omicidi e della sciagura aerea del volo DC 8 Alitalia che da Roma a Palermo il 5 maggio del 1972 si schiantava qui, contro la parete rocciosa di Montagna Longa. 115 i morti. Per il commissario non fu un incidente ma strategia della tensione.

ROBERTO PERI – FIGLIO DEL COMMISSARIO GIUSEPPE PERI Perché i corpi furono tutti trovati disintegrati, quindi non c'erano tracce di morte violenta dovuta ad impatto contro la montagna.

ROBERTO PERSIA E poi ci sono anche i cittadini di…

ROBERTO PERI – FIGLIO DEL COMMISSARIO GIUSEPPE PERI …i cittadini di Carini che vedono già l'aereo in fiamme, una palla di fuoco che si dirigeva verso il punto dell'impatto.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Poco tempo fa il professor Rosario Ardito Marretta ha depositato una perizia sulla strage a nome dell’Associazione dei familiari delle vittime. E con metodi di analisi modernissimi ha avvalorato la tesi dell’esplosione a bordo.

ROBERTO PERSIA Con quali procure ha condiviso i risultati del suo lavoro?

ROSARIO ARDITO MARRETTA – PROFESSORE INGEGNERIA AERONAUTICA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO Procura Generale di Catania, Caltanissetta, e io personalmente a Palermo.

ROBERTO PERSIA Cosa vi è stato risposto?

ROSARIO ARDITO MARRETTA – PROFESSORE INGEGNERIA AERONAUTICA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO Picche.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Palermo e Caltanissetta si dichiarano incompetenti per territorio mentre Catania rigetta. Eppure, dietro la strage il commissario Giuseppe Peri vide una connessione precisa che molti anni dopo intuirà Giovanni Falcone.

ROBERTO PERI – FIGLIO DEL COMMISSARIO GIUSEPPE PERI Mio padre iniziò un personale lavoro investigativo dove metteva per la prima volta in relazione, partendo da fatti di cronaca apparentemente sconnessi tra loro, quell'alleanza che si formò tra la mafia e il terrorismo di destra, tra mafia e massoneria, tra mafia e poteri deviati. Quindi metteva in collegamento gruppi legati all'eversione nera capeggiati da Concutelli: Ordine Nuovo, Ordine Nero e Avanguardia Nazionale con gruppi legati alla delinquenza locale facenti capo al boss di Salemi Salvatore Zizzo.

ROBERTO PERSIA Che fine fece il lavoro di suo padre?

ROBERTO PERI – FIGLIO DEL COMMISSARIO GIUSEPPE PERI Fu accusato praticamente dal procuratore della Repubblica di Trapani che il suo lavoro era frutto di fantasia. Il Vicario della Questura di Trapani usò tutti i suoi collegamenti ministeriali per far sì che fosse mandato via da Trapani e in ultimo il giudice Cassata, giudice della procura della Repubblica di Marsala, archiviò definitivamente questo rapporto.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Giuseppe Peri morì nel 1982, isolato e denigrato. Mentre il giudice Salvatore Cassata, che aveva archiviato il suo rapporto, era stato da poco scoperto negli elenchi della P2 di Licio Gelli. Dieci anni dopo, la stessa compagnia stragista scoperta dal commissario Peri si ripresenta a Palermo con centinaia di chili di esplosivo e una gran voglia di entrare in politica.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO 5 Il comandante della stazione di polizia di Alcamo, nel ‘77 era giunto alla conclusione che quei sequestri di persona, gli omicidi, i 115 morti della sciagura di Montagna Longa del ‘72 erano tutte vittime della strategia della tensione. Aveva scoperto quel filo nero della massoneria, della mafia, dei servizi segreti deviati, dell’eversione di destra che emergerà poi 40 anni dopo dalle ceneri della strage di Bologna. Ecco, le carte di Bologna hanno dato proprio vita a quei personaggi su cui stavano indagando anche Falcone e Borsellino, che avevano preso sul serio quel filo della massoneria, dei servizi segreti deviati, dell’eversione di destra di quegli omicidi eccellenti che si erano svolti in Sicilia e che erano stati attribuiti alla mafia come quello di Piersanti Mattarella. Avevano preso in particolare sul serio il ruolo di Gladio quella struttura riservata del SISMI, che più che servire gli interessi dello Stato italiano serviva quegli interessi atlantici a cui faceva riferimento il capo della P2 Licio Gelli. Infatti Licio Gelli con il banchiere Ortolani sono stati condannati per aver finanziato il senatore Tedeschi del Movimento Sociale italiano e il capo dell’ufficio degli affari riservati Umberto D’amato, del Viminale, per aver organizzato e coperto la strage. Hanno finanziato Gelli e Ortolani anche gli autori materiali, gli estremisti di destra: Ciavardini, Fioravanti e Mambro sono stati condannati in via definitiva. Poi in primo grado è stato condannato anche Cavallini e anche Paolo Bellini come quinto uomo della strage di Bologna, proprio nell’aprile di quest’anno in primo grado. Quel Bellini che era stato infiltrato dal Ros in Cosa Nostra, era killer dell’ndrangheta, vicino ad Avanguardia Nazionale, era stato infiltrato per recuperare le opere d’arte, così è stato detto. Ma quella di Bellini è una delle infiltrazioni più misteriose della storia del periodo stragista. Fu infiltrato perché doveva realmente recuperare opere d’arte o perché doveva inoculare nella mente di Cosa Nostra che fare gli attentati ai beni artistici del paese avrebbe pagato più che farli nei confronti delle vite umane? E parliamo delle bombe del ’93, quelle in via dei Georgofili a Firenze, quelle a Roma a San Giovanni e San Giorgio al Velabro. Ora siccome Bellini non ha recuperato ne opere, ne ha contribuito a catturare latitanti, cosa ha fatto? È entrato sicuramente in contatto con Antonino Gioè. Gioè è un uomo di Cosa Nostra molto strutturato è in contatto diretto con Totò Riina, è l’uomo che era con Giovanni Brusca a Capaci nel momento della strage tanto da confidare a Palmeri che non sarebbe stato Brusca a premere il telecomando, ma l’impulso l’avrebbero dato altri. Gioè in una informativa del 1967 viene definito dai carabinieri. “un giovane idoneo alla sicurezza e a disimpegnare particolare incarichi di natura riservata”, cosa volevano dire con quella informativa? Gioè muore in carcere suicida nella notte tra il 28 e il 29 luglio poche ore prima di essere ascoltato dai magistrati, poche ore dopo le stragi di Roma e Milano. Però prima aveva raccontato a Palmeri di essere stato lui a uccidere il boss Milazzo perché si era rifiutato di partecipare alla strategia stragista. Era stata uccisa anche la sua compagna per paura che rivelasse i segreti visto che aveva anche un partente nei servizi di sicurezza. Palmeri ha ripetuto questa versione più volte nei tribunali. Solo recentemente però ha dichiarato di aver identificato, riconosciuto uno dei due uomini dei servizi che avevano incontrato Milazzo. Ha anche confermato il traffico di materiale radioattivo che si svolgeva nelle campagne di Alcamo fino al’93. Probabilmente si trattava di materiale che doveva essere utilizzato per confezionare bombe sporche diretto verso il sud del mondo, Libia in particolare. Ora l’antimafia sta indagando sulla morte di due carabinieri Falcetta e Apuzzo avvenuto nel ’76 proprio ad Alcamo e probabilmente i due sono stati uccisi perché avevano scoperto un carico di materiale radioattivo. Ora la domanda è, ma questo traffico è servito anche a finanziare la strategia stragista di Cosa Nostra del ’92 e ’93? La risposta probabilmente è nei verbali secretati dell'interrogatorio di Palmeri.

ROBERTO SCARPINATO – SENATORE M5S – PROCURATORE GENERALE DI PALERMO 2013-2022 Numerosi collaboratori di giustizia e vari altri elementi ci hanno dimostrato che effettivamente nella seconda metà del 1991 un numero ristrettissimo di capi di Cosa Nostra discusse a lungo un progetto di destabilizzazione, che era stata suggerita da entità esterne a queste, che prevedeva appunto attraverso l'esecuzione di stragi di destabilizzare l'ordine politico esistente per aprire la strada a un nuovo soggetto politico che avrebbe dovuto garantire l'impunità, garantire l'interesse della mafia, della massoneria e della destra eversiva nel momento in cui il sistema della prima Repubblica si stava sfarinando. Accertammo che effettivamente in quel periodo vi fu un fermento di creazione di nuove leghe nel Sud dietro le quali c'erano sempre massoni, c'erano mafiosi e c'era anche Stefano Delle Chiaie e un uomo a lui collegato che si chiamava Domenico Romeo e che era un palermitano.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Domenico Romeo è segretario e autista di Stefano Menicacci, ex parlamentare del Msi e fondatore di ben dieci leghe di carattere secessionista nel 1990. Menicacci è legale di Stefano delle Chiaie, il capo di Avanguardia Nazionale, coinvolto nel tentato golpe Borghese, indagato e prosciolto nei processi sulle stragi di Piazza Fontana e della stazione di Bologna.

PAOLO MONDANI Lei nel 1992, accompagnava Stefano delle Chiaie in Sicilia.

DOMENICO ROMEO – COLLABORATORE DI STEFANO MENICACCI Sì, per la campagna elettorale.

PAOLO MONDANI Volevo sapere che cosa si ricorda.

DOMENICO ROMEO – COLLABORATORE DI STEFANO MENICACCI Allora in Sicilia c'era Delle Chiaie in macchina, che io poi me l'ha presentato Menicacci quel giorno e dice accompagnalo.M i aveva ordinato di passare lo Stretto di Messina e andare a trovare un… il politico… a Ragusa. E io lì l'ho lasciati.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Da archivi che sembravano scomparsi è emerso il verbale di un pentito pressoché sconosciuto: Alberto Lo Cicero. Autista e guardaspalle del boss Mariano Tullio Troia, detto 'U Mussolini. Lo Cicero nel 1991, a pochi mesi dalla strage di Capaci, mette sulla strada giusta un brigadiere dei carabinieri, raccontandogli che proprio a Capaci i boss stavano incontrando l’esponente più in vista dell'eversione di destra.

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Pochi giorni prima della strage di Capaci mi disse che aveva notato a Capaci, perché Lo Cicero abitava a Capaci, la presenza di personaggi di spicco di Cosa Nostra che secondo lui non avrebbero avuto motivo di essere lì se non perché doveva succedere un qualcosa di eclatante.

PAOLO MONDANI E Lo Cicero le parla di Delle Chiaie?

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO So che è amico del fratello di Maria. Ogni tanto l'ho visto qui a Capaci, però...

PAOLO MONDANI Delle Chiaie veniva a Capaci?

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Sì, lui l'aveva visto un paio di volte pure a Capaci. Che girava per Capaci.

PAOLO MONDANI E in che epoca era arrivato Stefano Delle Chiaie a Capaci?

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO In quel periodo in cui io parlavo con Lo Cicero. Prima delle stragi.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Lo Cicero riferisce dei rapporti di Delle Chiaie con Mariano Tullio Troia e Antonino Troia. Mentre l’ex compagna di Lo Cicero, Maria, parla di uno Stefano Delle Chiaie a Capaci prima della strage del 23 maggio. Maria è anche la sorella di Domenico Romeo e Delle Chiaie lo conobbe di persona.

PAOLO MONDANI Alberto Lo Cicero dice che Stefano delle Chiaie è venuto a sovrintendere, diciamo così,

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Sì.

PAOLO MONDANI ...il pre strage.

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Sì.

PAOLO MONDANI La preparazione della strage, questo le dice Alberto?

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Alberto mi ha detto così, che c'è, e stavano organizzando i Bonanno, i Troia e c'era pure questo Stefano Delle Chiaie.

PAOLO MONDANI Stefano Delle Chiaie Alberto quante volte l'avrà visto? Secondo lei?

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Dal suo racconto un paio di volte.

PAOLO MONDANI E Stefano Delle Chiaie lei quante volte l'ha visto?

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Io l'ho visto… tre volte, quattro volte.

PAOLO MONDANI Mi spieghi che cosa le ha detto Alberto rispetto al ruolo di Stefano Delle Chiaie nella preparazione di quell'attentato.

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Alberto pensava che Stefano Delle Chiaie era l'aggancio fra mafia e lo Stato.

PAOLO MONDANI Alberto le disse che Stefano Delle Chiaie aveva il ruolo di…

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Di portavoce. Di quelli di Roma.

PAOLO MONDANI E quelli di Roma chi erano?

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Lui parlava di Guido Lo Porto, ne faceva tanti nomi.

PAOLO MONDANI Lei l'ha conosciuto signora Guido Lo Porto?

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Sì.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Nel 1969, Guido Lo Porto venne sorpreso dalla polizia a sparare nel poligono di tiro clandestino di Bellolampo, vicino Palermo, con Pierluigi Concutelli che di lì a poco avrebbe fondato Ordine Nuovo e ucciso il magistrato Vittorio Occorsio. Tre anni dopo, nel 1972 Lo Porto viene eletto alla Camera dei deputati per il Movimento sociale italiano. Da allora non ha perso un colpo: sempre rieletto, per trent'anni di seguito. Nel '94 è sottosegretario alla Difesa nel primo governo Berlusconi e poco dopo viene indagato per concorso esterno in associazione mafiosa.

PAOLO MONDANI Sedici pentiti parlavano dei suoi rapporti con un boss che si chiama Mariano Tullio Troia, che ora è scomparso. Nel 1998 questa vicenda viene archiviata. Lei l'aveva conosciuto Mariano Tullio Troia?

GUIDO LO PORTO – EX PARLAMENTARE MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO – ALLEANZA NAZIONALE Certo.

PAOLO MONDANI Che tipo era?

GUIDO LO PORTO – EX PARLAMENTARE MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO – ALLEANZA NAZIONALE Potrei dire un simpaticone. Aveva sicuramente un fascino particolare, era un bell'uomo, era un generoso, nel senso che se andavamo al bar e ti permettevi di pagare tu il caffè… ma al bar io con lui non ci sono mai andato.

PAOLO MONDANI Ci andava a casa, è chiaro che…

GUIDO LO PORTO – EX PARLAMENTARE MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO – ALLEANZA NAZIONALE A casa sì. A casa si beveva un ottimo caffè. Io sapevo che fosse figlio di mafioso. Capitò per puro caso che Mario Tullio Troia era secondo cugino di sua madre.

PAOLO MONDANI E quindi lei lo incontrava per motivi di parentela, insomma?

GUIDO LO PORTO – EX PARLAMENTARE MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO – ALLEANZA NAZIONALE Ma lo incontravo per un battesimo e c'era chistu. Ecco perché lo conobbi.

PAOLO MONDANI Mariano Tullio Troia veniva soprannominato, ci dicono i magistrati, 'U Mussolini. Lei ne sapeva nulla?

GUIDO LO PORTO – EX PARLAMENTARE MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO – ALLEANZA NAZIONALE No.

PAOLO MONDANI Qualche scambio sulle vicende politiche l'avrete avuto tra di voi.

GUIDO LO PORTO – EX PARLAMENTARE MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO – ALLEANZA NAZIONALE Sì, no, lui non votava. Per principio. Quando io mi permisi qualche volta di dirgli: ci sono candidato io. Fanculo, io non voto.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Gli incontri tra Lo Porto e Mariano Tullio Troia era tutt'altro che rari e casuali.

PAOLO MONDANI In che anno lei e la sua famiglia conoscete, frequentate Mariano Tullio Troia?

MARTA GRANA Ci entriamo in contatto intorno all’88-89 e dall’89 in poi inizia una frequentazione amicale abbastanza assidua.

PAOLO MONDANI Fino?

MARTA GRANA ’92.

PAOLO MONDANI Chi frequentava Mariano Tullio Troia in quegli anni?

MARTA GRANA C’erano gli imprenditori del caffè Morettino, che erano suoi parenti, e ci sono stati incontri con l’onorevole Lo Porto, Guido Lo Porto.

PAOLO MONDANI Accadeva spesso?

MARTA GRANA Accadeva spesso.

PAOLO MONDANI Non ricorda un fatto, qualcosa che l’ha colpita di quei momenti?

MARTA GRANA Mi ricordo che dopo la strage di Falcone ci venne detto che le frequentazioni si sarebbero sempre più rarificate.

PAOLO MONDANI Vi fu detto da chi?

MARTA GRANA Da Mario.

PAOLO MONDANI Da Mariano Tullio Troia?

MARTA GRANA Si.

ROBERTO SCARPINATO – SENATORE M5S – PROCURATORE GENERALE PALERMO 2013-2022 Ho scoperto molti anni dopo che non eravamo stati messi a conoscenza di elementi molto importanti che ci avrebbero consentito di sviluppare le indagini. E cioè che esisteva, era stata redatta il 5 ottobre del 1992, dal comandante della sezione di Polizia Giudiziaria della procura di Palermo una nota informativa che aveva inviato a varie autorità nella quale si comunicava che una fonte confidenziale che poi è stata identificata in Maria Romeo, la sorella di quel Domenico Romeo collegato a Stefano Delle Chiaie, aveva rivelato che nell'aprile del 1992 Stefano Delle Chiaie era venuto a Palermo, si era incontrato con un boss che si chiamava Troia, si erano occupati della ricerca di esplosivo per Capaci. La cosa estremamente rilevante è che alla data dell'ottobre del 1992 nessuno sapeva il ruolo di Troia Antonino nella strage di Capaci. Soltanto successivamente saranno raccolte delle prove che porteranno alla condanna di Troia Antonino e si accerterà che effettivamente era stato colui che aveva custodito l'esplosivo e aveva ospitato il commando della strage di Capaci. Senonché quello che è molto strano è che poi questo filone di indagini non è stato assolutamente coltivato dai carabinieri e che questa nota è scomparsa.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Ecco la nota informativa del 5 ottobre 1992 firmata dal capitano dei carabinieri Gianfranco Cavallo (oggi Generale di Corpo d'armata) e inviata ai magistrati Aliquò, Tinebra e Celesti e agli ufficiali dei carabinieri Borghini e Adinolfi. Si legge che nell'aprile del 1992, un mese prima della strage di Capaci, Stefano delle Chiaie accompagnato dal suo avvocato Stefano Menicacci ha preso contatti con il boss Troia e avrebbe parlato di recarsi a Capaci per procurarsi esplosivo dalla cava di tale Sanzana. In realtà si trattava della cava di Giuseppe Sensale che insieme ad Antonino Troia (parente di Mariano Tullio Troia) verranno arrestati per la strage un anno dopo l'informativa. Eppure, su Stefano Delle Chiaie nessuna indagine.

PAOLO MONDANI Lei ha conosciuto un capitano dei carabinieri che si chiama Cavallo?

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Sì. Ma anche con il capitano Arcangioli ho parlato.

PAOLO MONDANI Quindi lei ha parlato col capitano Arcangioli, col capitano Cavallo...

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Sì.

PAOLO MONDANI Poi? Con Giustini...

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Con Giustini e Coscia.

PAOLO MONDANI Tutti carabinieri.

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Sì.

PAOLO MONDANI Hanno fatto un bel po' di informative immagino.

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Sì. E anche verbali.

PAOLO MONDANI Poi succede che nel 2007 sia lei che Lo Cicero venite sentiti dalla Procura nazionale antimafia...

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Sì.

PAOLO MONDANI E non succede mai niente delle vostre dichiarazioni...

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Non succede niente. Io addirittura gli ho dato tutto quello che avevo in mano, compreso delle cassette di registrazione di Alberto, e sono spariti. Hanno preferito tacere tutto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO 6 Che fine hanno fatto le registrazioni che aveva consegnato Maria Romeo? e poi aveva anche parlato con il carabiniere Arcangioli che è l’uomo che viene ripreso in via D’Amelio mentre porta via la borsa di Paolo Borsellino dove dentro c’era probabilmente anche l’agenda rossa. Menomale che c’è un capitano dei carabinieri che invece scrive tutto, è Gianfranco Cavallo, oggi diventato Generale di corpo d’Armata in una informativa che vi mostriamo in esclusiva datata ottobre 1992 scrive l’allora capitano: Stefano delle Chiaie, nell’aprile del ’92, cioè un mese prima delle stragi con il suo avvocato Stefano Mecacci entra in contatto con il boss Troia. Poi con Antonino Troia si reca in una cava a reperire l’esplosivo che sarà poi utilizzato per la strage. Antonino Troia verrà arrestato solo un anno dopo questa informativa, mentre Mariano Tullio Troia parente di Antonino verrà arrestato nel ’98, nel settembre del ’98. Sicuramente non per strage aveva sulle sue spalle varie accuse. Era accusato della strage della Circonvallazione, di vari omicidi che sono avvenuti a Palermo tra gli anni ’70 e ’80, dell’omicidio Lima, coinvolto anche in quello. Però viene condannato a 2 anni per associazione mafiosa. Troia dalla testimonianza di alcuni collaboratori nella sua abitazione si sono svolte le riunioni con il gotha di Cosa Nostra propedeutiche alle stragi. È un uomo dal carattere molto duro che va a trattare con Riina da pari a pari addirittura mostrando a volte anche una certa superiorità. Tuttavia per l’onorevole Lo Porto, l’ex onorevole Lo Porto, Troia è un simpaticone che fa un ottimo caffè. Anche Lo Porto è stato arrestato, nel ’69, è stato sorpreso mentre si esercitava a sparare con Concutelli, cioè con l’uomo il terrorista nero che ucciderà nel ’75 il giudice Vittorio Occorsio. Cioè colui che per primo si è reso conto che dietro le stragi di quegli anni c’erano i servizi segreti la P2 e la destra eversiva. Qualcuno ha cercato di far passare l’arresto di Lo Porto come un errore di gioventù, ma Lo Porto non era di primo pelo aveva 32 anni e poi tre anni dopo sarebbe entrato in parlamento tra le fila del Movimento Sociale Italiano e ci sarebbe rimasto per 30 anni e ha anche indossato la maglietta di Alleanza Nazionale. Tra trenta secondi invece vedremo chi l’ha fatta sempre franca.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO 6 BIS Allora rieccoci qui. Chi la fa sempre franca invece è Stefano delle Chiaie. Anche perché la procura di Palermo e quella Firenze non dialogano tra loro. Palermo non sa che l’allora collaboratore di giustizia Luigi Sparacio aveva parlato con i magistrati fiorentini aveva rivelato, che il leader di Avanguardia Nazionale aveva consegnato una mappa con sopra segnati gli obiettivi dove mettere le bombe. Era la strategia stragista che doveva destabilizzare il paese. Che era stata messa in piedi dopo il fallimento del progetto delle Leghe degli anni ’90 al quale avevano partecipato piduisti, politici e mafiosi e che doveva balcanizzare l’Italia. Un progetto che era ispirato sempre dal solito maestro venerabile Licio Gelli, ma non era il solo padrino c’è ne era un altro molto più ingombrante che a un certo punto all’hotel Jolly di Palermo ordina la chiusura del convegno

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO I pubblici ministeri Roberto Scarpinato e Antonio Ingroia iscrissero Stefano Delle Chiaie a registro degli indagati in una inchiesta denominata "Sistemi criminali" che verrà archiviata nel 2001. Nel frattempo, Luigi Sparacio, boss messinese divenuto collaboratore di giustizia, inizialmente poco propenso a parlare delle stragi, racconterà successivamente ai pubblici ministeri di Firenze particolari esplosivi su delle Chiaie, ma la notizia non arriva a Palermo.

ROBERTO SCARPINATO – SENATORE M5S – PROCURATORE GENERALE PALERMO 2013-2022 Noi non sapevamo che un altro collaboratore di giustizia, Sparacio, aveva dichiarato ai pubblici ministeri di Firenze che lui era andato insieme a Nino Mangano, uomo di fiducia di Bagarella pure condannato poi per le stragi, ad un incontro a Roma dove avevano incontrato Stefano Delle Chiaie.

PAOLO MONDANI Gabriele Chelazzi…

LUIGI SPARACIO – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Quello di Firenze.

PAOLO MONDANI Che interrogava sulle stragi del '93, ti interroga e tu riveli che avevi incontrato a Roma con Nino Mangano, Stefano Delle Chiaie.

LUIGI SPARACIO – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Sì.

PAOLO MONDANI Che Delle Chiaie dava delle strategie politiche da seguire a Cosa Nostra… io riprendo proprio le tue parole…

LUIGI SPARACIO – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Sì, sì, è vero, poi ti dico quello che è successo.

PAOLO MONDANI E consegnò una mappa dell'Italia con dei segni fatti con la X che rappresentavano degli attentati da fare.

LUIGI SPARACIO – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Mmh.

PAOLO MONDANI Tu accompagni Nino Mangano a un incontro con Stefano Delle Chiaie.

LUIGI SPARACIO – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Esatto, sì.

PAOLO MONDANI Prima delle stragi.

LUIGI SPARACIO – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Prima delle stragi. Io perché...

PAOLO MONDANI Più o meno quando?

LUIGI SPARACIO – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Io tramite lui conosco Stefano Delle Chiaie.

PAOLO MONDANI Ma quando avviene questo?

LUIGI SPARACIO – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Nel '92. Sono andato all'ufficio, me l'ha presentato e hanno parlato di queste cose.

PAOLO MONDANI E poi Nino Mangano quando esce ti racconta quello che è successo.

LUIGI SPARACIO – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Mi racconta quello che succede, sì.

PAOLO MONDANI E più o meno che cosa era successo?

LUIGI SPARACIO – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Mi ha raccontato che era lui che dava indicazioni a come muoversi e come fare.

PAOLO MONDANI Per le stragi?

LUIGI SPARACIO – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Per le stragi.

PAOLO MONDANI E Nino Mangano non ti ha mai detto, non ricordi se ti ha mai detto perché proprio Delle Chiaie andavano a sentire?

LUIGI SPARACIO – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Perché Delle Chiaie aveva rapporti con loro da tanti anni.

PAOLO MONDANI Insomma, era uno dei quali si fidavano.

LUIGI SPARACIO – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Esatto. Quindi, le stragi parliamoci chiaro: è vero che in Sicilia Totò Riina queste sono persone intelligenti. Ma non sono istruiti, non hanno una cultura.

PAOLO MONDANI Delle Chiaie invece?

LUIGI SPARACIO – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Questi obiettivi così importanti, no? Chi li può dare? Una persona di cultura. Voglio dire, un mafioso che vuole colpire che fa? Attacca una caserma. Butta una bomba a una caserma. Ma questi obiettivi erano tutti mirati.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il 25 maggio del 2000 Luigi Sparacio viene interrogato dai pubblici ministeri fiorentini Giuseppe Nicolosi e Alessandro Crini. Per la prima volta parla di una riunione tenutasi a Roma nel gennaio-febbraio del 1993 a casa di Michelangelo Alfano, imprenditore messinese legato a Cosa Nostra.

PAOLO MONDANI Voi andate a fare questa riunione a casa di quell'imprenditore famoso…

LUIGI SPARACIO – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Alfano Michelangelo.

PAOLO MONDANI Michelangelo Alfano. A Roma. Vennero Delle Chiaie, Battaglia, c'era Nino Mangano, Gullotti per organizzare questi attentati. E c'era anche Bagarella.

LUIGI SPARACIO – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Sì.

PAOLO MONDANI E Delle Chiaie, dopo qualche giorno, gli porta la base, cioè le conoscenze per fare l'attentato…

LUIGI SPARACIO – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Sì.

PAOLO MONDANI …nientepopodimeno che a Costanzo.

LUIGI SPARACIO – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Sì.

PAOLO MONDANI Quindi Delle Chiaie non è solo quello che ha preso la cartina e ha messo le X dove dovevano fare gli attentati.

LUIGI SPARACIO – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA No, gli dava anche gli input di quello… come fare. Allora, l'attentato di Costanzo non è che viene fatto per motivi politici, viene fatto perché lui in trasmissione ha offeso degli uomini di Cosa Nostra.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Tra gli attentati pianificati nella riunione romana con delle Chiaie c'è quello contro Gianni De Gennaro previsto per la fine del '93. De Gennaro era stato nominato capo della Direzione Investigativa Antimafia nell'aprile precedente.

LUIGI SPARACIO – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Questo loro lo volevano uccidere là a Roma, no?

PAOLO MONDANI Cioè Bagarella e Mangano volevano ucciderlo.

LUIGI SPARACIO – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Sì.

PAOLO MONDANI E chiedevano a te di fare il pedinamento.

LUIGI SPARACIO – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Pedinamento, che io già avevo individuato a lui in questo ristorante. Quella sera che loro dovevano fare l'attentato io me ne sono andato. Capisci? Io gli dovevo dare il via e invece di dargli il via non mi sono implicato, me ne sono andato e poi mi sono costituito.

PAOLO MONDANI E Bagarella dovevano entrare, Bagarella e Mangano?

LUIGI SPARACIO – EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Aspettavano il mio segnale, ma se quelli entravano, secondo te, ammazzavano solo De Gennaro? Li ammazzavano a tutti.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il 2 novembre scorso la polizia di Roma Capitale si è ripresa il locale pubblico, nel quartiere di Torre Spaccata, nel quale Stefano Delle Chiaie senza alcuna concessione aveva fissato il suo quartier generale sin dal 1991. Alle pareti le immagini di Junio Valerio Borghese, l’ex comandante della Decima Mas a capo dei golpisti del 1970. I tesserini con l'intestazione "Avanguardia - comunità politica" e la data del 2018. Segno del funzionamento di Avanguardia Nazionale anche dopo lo scioglimento del 1976. E il manifesto della Lega nazional popolare, il partito che Delle Chiaie fondò all’inizio degli anni ‘90. Di Delle Chiaie ci parla Massimo Pizza che dichiara di essere stato un uomo della Gladio e di aver fatto parte del Sismi. Pizza è stato a lungo a contatto con esponenti della 'ndrangheta e della massoneria collegata alla criminalità organizzata e nel 1996 ha fatto importanti rivelazioni alla procura di Palermo che indagava sul contesto delle stragi di Capaci e Via D'Amelio.

PAOLO MONDANI Lei nel 1996 alla Procura di Palermo dichiara di aver appreso da Carmelo Cortese, che era un massone della P2 ed esponente di vertice della 'ndrangheta, che la Lega Meridionale era la longa manus di Cosa Nostra e che doveva attuare un progetto di destabilizzazione politica ispirato niente meno che da Licio Gelli.

MASSIMO PIZZA – EX AGENTE SISMI Di questo progetto ne facevano parte oltre che la 'ndrangheta e Cosa Nostra che poi sono la stessa cosa, la massoneria, la politica istituzionale di quel momento e gruppi di imprenditori privati.

PAOLO MONDANI Tra le sue dichiarazioni rese alla procura di Palermo e pressoché sparite c'è un dettagliato racconto di un lungo incontro avvenuto all'Hotel Visconti a Roma tra vertici della criminalità organizzata e altri soggetti.

MASSIMO PIZZA – EX AGENTE SISMI L'Hotel Visconti sono gli anni 1990. Erano presenti quasi tutte le famiglie di 'ndrangheta, quindi dai Piromalli ai Versace di Polistena al Cortese che rappresentava i De Stefano, c'era anche la componente siciliana che attraverso la famiglia Bastone rappresentava gli Agate, c'erano gli Affatigato che rappresentavano i Madonia, era presente il nipote di Salvo Lima, era presente quello che era chiamato il commercialista di Riina, Mandalari. E poi era presente la componente politica, la componente politica era soprattutto espressione della corrente andreottiana; quindi, era presente oltre che a Sbardella, era presente Frillici, era presente Capozzi che tra le altre cose rappresentava anche Pasquale Galasso che era un camorrista dell'epoca. E poi c'era una forte componente massonica di uomini comunque legati a Licio Gelli. Erano presenti Petrucci, Brigida, Leoncini, Enzo De Chiara...

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Arnaldo Petrucci di Vacone, Leonardo Brigida, Gian Maria Leoncini, erano esponenti di un finto Ordine di Malta, denominato la Malta Rossa, dotato di passaporti e valigette diplomatiche che, secondo Pizza, offriva alla criminalità organizzata una rete di relazioni internazionali. Enzo De Chiara, nei primi anni '90, era invece consulente della Casa Bianca. Emissario della CIA nel nostro Paese. In stretti rapporti con Licio Gelli.

PAOLO MONDANI Dell'estrema destra c'era qualcuno?

MASSIMO PIZZA - EX AGENTE SISMI Certo, dell'estrema destra era presente a queste riunioni più volte Stefano Delle Chiaie e Menicacci ma anche altri elementi dell'eversione di destra. Un tale Nistri.

PAOLO MONDANI E discutevate già allora del piano di destabilizzazione del paese?

MASSIMO PIZZA - EX AGENTE SISMI Si parlava di riciclare un’enorme quantità di denaro che molto probabilmente doveva servire ad alimentare questo piano.

PAOLO MONDANI E in questo progetto di destabilizzazione dello Stato qual era il ruolo di Stefano Delle Chiaie?

MASSIMO PIZZA - EX AGENTE SISMI Si dovevano occupare dell'aspetto militare, diciamo, del piano di destabilizzazione.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La storia degli anni che precedono le stragi la ricorda Antonio D'Andrea, vicesegretario nazionale della Lega Meridionale Centro Sud e Isole, dove si iscrissero Vito Ciancimino, il capo della P2 Licio Gelli, il figlio di Michele Greco, il "Papa" di Cosa Nostra, e Pino Mandalari, il commercialista di Totò Riina. Sostenuti, secondo quel che ci dice D'Andrea, da Monsignor Donato De Bonis dello IOR, da Francesco Cossiga e Giulio Andreotti. Loro Obiettivo: dividere e destabilizzare l'Italia.

PAOLO MONDANI Il 6 aprile del 1991, nel corso del Convegno tenuto presso l'Hotel Jolly di Palermo dalla Lega, c'è Vito Ciancimino in sala, lei è in presidenza, avviene qualcosa di curioso.

ANTONIO D'ANDREA - EX VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Viene un signore verso la presidenza e dice urlando: Va bene così, amuninne". È andato tutto bene andiamo via, chiudiamo la discussione. Quindi io...

PAOLO MONDANI E lei la scioglie la discussione?

ANTONIO D'ANDREA - EX VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Nessuno mi fa cenno di proseguire la riunione e io chiudo la riunione, ringrazio gli intervenuti. C'era la Digos, c'erano le istituzioni coi loro uomini. Dopo vedo che quella persona, ma lo vedo in televisione poi, noto che quella persona che mi aveva detto che potevamo andare via era Totò Riina.

PAOLO MONDANI Perché Totò Riina si espone secondo lei, si espose secondo lei ad una…

ANTONIO D'ANDREA - EX VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Credo che abbia voluto sottolineare ai presenti la sua paternità del progetto politico.

PAOLO MONDANI Ad un certo punto della storia della Lega Meridionale Centro Sud e Isole si dice interessato a quel progetto Stefano Delle Chiaie.

ANTONIO D'ANDREA - EX VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Be’, Delle Chiaie aveva fatto parte in passato di alcune strategie simili, e quindi evidentemente Delle Chiaie ha avuto degli input di andare in quella direzione.

PAOLO MONDANI Da uomini dello Stato.

ANTONIO D'ANDREA - EX VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Guardi, il percorso è sempre il Ministero dell'Interno, l'Ufficio Affari Riservati del Ministero dell'Interno.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Scoperto il fine eversivo del progetto, tra il '90 e il '91 D'Andrea e alcuni dirigenti della Lega rompono con i destabilizzatori e trasformano la Lega Meridionale Centro Sud e Isole in Lega Meridionale per l'Unità Nazionale. Da secessionisti diventano nazionalisti e tutti quelli che volevano dividere l'Italia se ne vanno fondando leghe in tutto il Sud, primi fra tutti Delle Chiaie e Licio Gelli. Il piano di destabilizzazione aveva raccolto molti soldi da molti finanziatori, ma quando la Lega Meridionale rinuncia a farne parte quei soldi diventano preda ambitissima.

PAOLO MONDANI Per la destabilizzazione dell'Italia ad un certo punto banchieri, imprenditori, massoni, servizi, insomma si parla di un finanziamento di 100 milioni di dollari.

ANTONIO D'ANDREA - EX VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Si diceva 100 milioni per non dire 100 miliardi di lire. Quella fu una raccolta fatta in ambito degli imprenditori meridionali.

PAOLO MONDANI Mafiosi? Legati alla mafia? Diciamo di sì.

ANTONIO D'ANDREA - EX VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Diciamo di sì.

PAOLO MONDANI E dove finiscono quei soldi?

ANTONIO D'ANDREA - EX VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Questi soldi vengono parcheggiati sotto il controllo del vescovo Cassisa di Monreale.

PAOLO MONDANI Monsignor Cassisa.

ANTONIO D'ANDREA - EX VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE …di Monreale. E poi tramite anche Lima…

PAOLO MONDANI Salvo Lima.

ANTONIO D'ANDREA - EX VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE …Salvo Lima vengono, diciamo, drenati verso lo IOR, e poi parte di questi soldi verrà impiegata nella attività politica istituzionale di ambienti vicino ad Andreotti tipo Sbardella che finanziava e rilanciava Comunione e Liberazione.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La storia della Lega Meridionale conserva molti segreti. Il più importante di tutti riguarda la cosiddetta trattativa stato mafia. Quando lo Stato, nella veste dei carabinieri del Ros, chiese nel 1992 a Vito Ciancimino di farsi da mediatore nei confronti di Riina e Cosa Nostra, forse sottovalutava un fatto: che Ciancimino raccontasse i particolari a qualcuno.

PAOLO MONDANI Quando Vito Ciancimino viene avvicinato dal ROS dei carabinieri e dal colonnello Mori per la trattativa sta nella Lega Meridionale o no?

ANTONIO D'ANDREA - EX VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Sì.

PAOLO MONDANI E vi ha mai messo a partito del fatto che era in corso o si era intrapresa questa, diciamola, trattativa?

ANTONIO D'ANDREA - EX VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Sì.

PAOLO MONDANI E che vi aveva detto, posso saperlo?

ANTONIO D'ANDREA - EX VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Paradossalmente chi vuole trattare è lo Stato, non è Riina. Riina crea i presupposti perché sia una esigenza dello Stato trattare ma chi ha l'esigenza è lo Stato. Ma l'esigenza è data dal fatto che ci sono dei segreti indicibili da tutelare da parte dello Stato.

PAOLO MONDANI E cioè?

ANTONIO D'ANDREA - EX VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE E cioè la destabilizzazione eccetera dell'Italia.

PAOLO MONDANI Il coinvolgimento di Riina nella destabilizzazione dell'Italia, cioè il piano delle stragi.

ANTONIO D'ANDREA - EX VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE …il piano delle stragi. Ma Riina è stato coinvolto insieme a tutti gli altri dallo Stato, quindi è un segreto indicibile per lo stato.

PAOLO MONDANI Vi mette a parte di quelle trattative Ciancimino?

ANTONIO D'ANDREA - EX VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Sa che mai nessuno mi ha chiesto questa cosa? Quindi, dopo trent'anni faccio fatica a ricordarla.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO 7 Lo pensa anche il Gip del Tribunale di Caltanissetta, Graziella Luparello che a maggio scorso ha respinto la richiesta di archiviazione sui mandanti esterni della strage di via d'Amelio. La Luparello chiede di approfondire 32 punti: in particolare l'esistenza di un patto occulto tra mafia, massoneria, P2, servizi segreti e destra eversiva finalizzato a portare sostegno a forze politiche filoatlantiche. Chiede anche di approfondire il ruolo delle leghe negli anni ’90 e di acquisire le dichiarazioni di Antonio D’Andrea, vicesegretario nazionale della Lega Meridionale che a Report ha confidato per la prima volta la presenza di Riina in un convegno. Evidentemente Riina si sentiva al sicuro in quel contesto. Ricordiamo che si erano iscritti alla lega, Vito Ciancimino, poi il figlio del papa di Cosa Nostra Michele Greco e anche Licio Gelli. Era un progetto politico che aveva il sostegno nell’ombra di Cossiga e Andreotti e quello di Monsignor De Bonis il vero dominus dello Ior. Che tra il 1989 e il ’93 avrebbe movimentato sui conti dello Ior ben 310 miliardi di lire. Grazie anche a una rete finanziaria composta da fondazioni benefiche che gli servivano però occultare i conti segreti dei politici, tra cui anche quello di Andreotti. Ora di 100 miliardi di lire raccolti da imprenditori vicini alla mafia ha parlato proprio Antonio D’Andrea e ha detto che servivano per destabilizzare il paese. Dovevano essere destinati allo Ior erano stati parcheggiati presso Monsignor Cassisa, Arcivescovo di Monreale. Cassisa che è stato oggetto di numerose indagini di mafia senza esito. E anche il suo segretario è stato oggetto di un’indagine per favoreggiamento perché aveva prestato il suo telefonino ad uno stragista Leoluca Bagarella. In una perquisizione la procura di Palermo ha trovato nello studio di Monsignor Cassisa anche i conti aperti allo Ior e di soldi e di soldi destinati a destabilizzare l’Italia ha parlato anche l’ex Sismi, ex Gladio, Massimo Pizza che ha confidato al nostro Paolo Mondani che la Lega Meridionale era la lunga mano della mafia e anche che sostanzialmente quel progetto era ispirato da Licio Gelli, l’ha confermato. Ha parlato anche di riunioni all’hotel Visconti di Roma, numerose. A cui hanno partecipato oltre che mafia, ndrangheta, camorra e piduisti ancge i politici della corrente andreottiana in prima linea Vittorio Sbardella. E ha detto anche della presenza di Stefano Delle Chiaie che doveva occuparsi del piano militare di destabilizzazione del paese. Stefano delle Chiaie che per trent’anni è stato nella nebbia solo nel 2021 lo Stato si è riappropriato di un ufficio di un locale a Torre Spaccata che a partire dal 1991 Delle Chiaie aveva eletto come quartier generale. Dentro quando ci è stata una piccola perquisizione è stata trovata, sono state trovate anche tessere di Avanguardia Nazionale datate 2018 segno, cioè pochi mesi prima della morte di Delle Chiaie, segno che nonostante fosse stata sciolta nel ’76 Avanguardia Nazionale ha continuato a vivere. E in un altro ufficio romano, in via Elvia Recina, Stefano delle Chiaie ha incontrato secondo il racconto dell’ex collaboratore Luigi Sparacio, ha incontrato Sparacio e Mangano e gli avrebbe consegnato una mappa con gli obiettivi con le bombe da piazzare per la strategia stragista delle bombe del ’92 e del ’93. Sparacio ha raccontato questa versione ai magistrati di Firenze, in particolare al Pm Chelazzi che è morto però improvvisamente di infarto. Abbiamo anche visto che la Procura di Palermo e quella di Firenze non dialogano. A Palermo sono spariti i verbali che parlavano di Delle Chiaie, ma non sono i soli perché sono spariti anche la borsa e le registrazioni di un altro carabiniere

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il 14 gennaio del 1968 era domenica. Il paese si era svegliato coperto di neve. I camini fumavano. I bambini erano usciti di casa a fare pupazzi per strada. Poco dopo pranzo la prima scossa dell'ottavo grado. La valle del Belìce fu rasa al suolo. Affondando le macerie nel fango. Un giornalista scrisse: "Hanno assassinato la miseria". Storia di un'agricoltura poverissima fatta di oppressione e mafia. I contadini di Poggioreale marciarono per decenni contro il feudo per coltivare una terra lasciata marcire nelle mani dei baroni. Storia vecchia, si dirà. Le cose sono cambiate, a poca distanza c'è il paese nuovo di zecca. Anche se sarebbe stato possibile ricostruire quello vecchio. Ma bisognava arricchire i costruttori e chi comanda in Sicilia son sempre gli stessi. Questi ruderi sono l'emblema della memoria perduta. Di quanto presto, noi italiani, dimentichiamo. E di quanto velocemente crediamo a menzogne disonorevoli. Come nel caso della morte del maresciallo Antonino Lombardo. Il 4 marzo 1995 nella caserma Bonsignore dei Carabinieri di Palermo viene trovato senza vita in una Fiat Tipo bianca, una Beretta calibro 9 nella mano destra, una lettera vicino a lui. Ufficialmente suicidio. I figli dopo 27 anni dicono che fu un omicidio.

PAOLO MONDANI C'è una vicenda legata anche alla borsa di suo padre, che quella sera aveva con sé dentro l'automobile e non viene ritrovata.

ROSSELLA LOMBARDO – FIGLIA DEL MARESCIALLO ANTONINO LOMBARDO Credo che quel giorno sicuramente lui avesse qualcosa di delicato ed importante in quella borsa…

PAOLO MONDANI Be’, sentiva Totò Cancemi, almeno quello insomma.

ROSSELLA LOMBARDO – FIGLIA DEL MARESCIALLO ANTONINO LOMBARDO Appunto, tornava da un viaggio molto importante.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Attenzione alle date. Antonino Lombardo, tra febbraio e marzo del 1995, trascorre l'ultima settimana prima di morire a Milano con il pentito Totò Cancemi, già componente del vertice di Cosa Nostra. Il 18 febbraio del '94, Cancemi aveva rivelato al magistrato Ilda Boccassini i rapporti tra Totò Riina e Marcello Dell'Utri, a sua volta tramite di Silvio Berlusconi che secondo Cancemi versava 200 milioni di lire l'anno a Riina in persona. Fatti che Berlusconi ha sempre escluso. Cancemi riponeva grande fiducia in Lombardo, che evidentemente conosceva le sue delicatissime dichiarazioni. Tornando da Milano, Lombardo chiama la vedova di Paolo Borsellino.

ROSSELLA LOMBARDO - FIGLIA DEL MARESCIALLO ANTONINO LOMBARDO La vedova del giudice appunto dopo la morte di papà sarà lei stessa che racconterà a mia madre di avere ricevuto questa telefonata se non ricordo male il 2 marzo addirittura, quindi parliamo di due giorni prima della morte di papà, e ci dirà appunto che mio padre le disse: Signora finalmente ce l'abbiamo fatta. A breve le porterò su un vassoio d'argento i responsabili della morte di suo marito.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il maresciallo Lombardo aveva in mano la verità sulla strage di Via D'Amelio. Cosa aveva accertato e cosa aveva saputo da Cancemi? E perché avrebbe deciso di uccidersi proprio nei giorni in cui giungeva alla verità sulla morte di Paolo Borsellino? Lombardo da anni era l'uomo di confine dei carabinieri, tra Cosa Nostra e lo Stato. Raccoglieva le confidenze di molti mafiosi di rango e prendeva appunti che teneva nel suo archivio. Inquietanti, per esempio, le sue note su Bernardo Provenzano latitante.

ROSSELLA LOMBARDO – FIGLIA DEL MARESCIALLO ANTONINO LOMBARDO Papà di Provenzano ne parla abbondantemente soprattutto nei documenti che noi troviamo. Noi troviamo, purtroppo credo, una minima parte del suo archivio storico definito così anche dai suoi superiori. Da quello che ho letto mi è sorta la domanda: e come mai non l'hanno preso? Ci sono stati determinati periodi che si sapeva perfettamente dove si trovasse.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Nell'esposto inviato alla procura di Palermo, i periti incaricati dalla famiglia Lombardo, elencano una miriade di fatti sospetti: la sera del suicidio all'interno della Caserma Bonsignore nessuno vede mai arrivare l'auto di Lombardo; accanto al suo corpo senza vita viene trovata una lettera piegata con tracce di sangue solo al suo interno e non all'esterno mentre la perizia calligrafica di parte stabilisce che non era sua la scrittura sulla lettera. E la sera della sua morte i carabinieri si presentano a casa della famiglia ed ecco quel che accade.

ROSSELLA LOMBARDO – FIGLIA DEL MARESCIALLO ANTONINO LOMBARDO All'improvviso vidi entrare nella mia stanza un uomo in divisa, un militare, che senza chiedermi il consenso, senza chiedermi il parere, nulla, si mise accanto a me, mi prese il braccio, mi iniettò un qualcosa che io ancora oggi non so identificare. Io ho sentito nell'immediatezza una paralisi fisica, cioè io non riuscivo più a muovermi. E dopo aver ricevuto questa iniezione arriva sempre nella mia stanza un altro ufficiale dell'Arma urlandomi contro, dicendomi: dove sono i documenti di tuo padre?

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Antonino Lombardo era inquieto da settimane. Aveva ricevuto accuse di vicinanza alla mafia da Leoluca Orlando e dal pentito Angelo Siino. Il 26 febbraio a Partinico era stato ucciso il mafioso Francesco Brugnano, suo confidente, che lo stavo aiutando nella cattura di Giovanni Brusca. Lombardo si sentì a quel punto in pericolo. Infine, proprio in quei giorni avrebbe dovuto prelevare il vecchio boss Tano Badalamenti in carcere negli Stati Uniti per farlo testimoniare in Italia. Il maresciallo era il suo unico interlocutore e solo lui poteva convincerlo a parlare. Ma i superiori bloccarono Lombardo e lui capì di essere stato delegittimato: Badalamenti non verrà mai più in Italia. Leggendo la perizia balistica di parte sulla pistola trovata nelle mani del maresciallo la sera della sua morte emerge un dato stupefacente.

GIANFRANCO GUCCIA – PERITO BALISTICO C'è un segnale che sicuramente è riconducibile a un’imperfezione del percussore dovuto all'usura o anche difetto di fabbricazione nell'arma che è stata usata dalla quale è stato espulso il bossolo ritrovato all'interno dell'auto che lascia un segnale caratteristico sulla capsula di innesco che non si ritrova nei bossoli sparati con l'arma che del fu maresciallo Lombardo.

PAOLO MONDANI Quindi lei dice che a sparare il proiettile che ha ucciso Lombardo non è la pistola che lui aveva in mano?

GIANFRANCO GUCCIA – PERITO BALISTICO Non è la pistola in dotazione al maresciallo Lombardo.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Un carabiniere che conosceva bene il maresciallo Lombardo ricorda quella sera del 4 marzo 1995 all'interno della Caserma Bonsignore dei carabinieri di Palermo.

PAOLO MONDANI Lei era lì quella sera?

EX CARABINIERE ANONIMO Io ero lì e mi ricordo esattamente i miei colleghi che stavano attorno all'auto come se fosse uno sciame di ufficiali. Io mi ritrovavo con un collega poco distante e sentimmo un frastuono che veniva dal parcheggio principale e ci siamo fiondati lì e siamo stati proprio fisicamente bloccati da un ufficiale, un nostro collega che ci disse dove state andando e senza mezzi termini ci disse: "Fatevi i cazzi vostri". Cosa che abbiamo fatto. Dal giorno dopo abbiamo scoperto che in realtà molti dei nostri colleghi avevano barattato il loro silenzio, le loro omissioni con trasferimenti che sembravano quasi delle promozioni visto che poi sono stati degli avvicinamenti alle loro famiglie d'origine o alle loro mogli.

PAOLO MONDANI Altri fatti singolari ha visto quella sera o nel prosieguo delle indagini?

EX CARABINIERE ANONIMO Dottore basta dire che non è stata fatta l'autopsia. Muore un carabiniere all'interno del Comando Legione non viene fatta l'autopsia. Non viene trovata una goccia di sangue nel tettuccio interno sopra la testa del maresciallo Lombardo dove si sarebbe sparato, non c'è una goccia di sangue lì dove il finestrino doveva fare sai e scendi e tra l'altro quella sera era pure abbassato nonostante piovesse a dirotto. Ma poi, davvero, voi avete visto la scena del ritrovamento? Sembra quasi dipinta. Con quella mano impugna la pistola e la tiene congiunta sulle gambe, quando noi invece sappiamo benissimo che dopo un suicidio la reazione immediata è che la mano vola via. Va da tutt'altra parte. Qui invece noi vediamo una scena composta che sembra quasi ricostruita.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO 8 Il maresciallo Lombardo era noto per essere il comandante della stazione dei carabinieri di Terrasini. Muore Il 4 marzo del 95, per 27 lunghi anni la versione è stata quella del suicidio. Pochi giorni prima della morte, il 23 febbraio, nel corso di una trasmissione televisiva, Tempo reale, Leoluca Orlando lo aveva accusato di avere rapporti con i boss, solo dopo la morte di Lombardo però emerge il suo vero profilo. Aveva dei rapporti si con dei confidenti ma che sono necessari per chi indaga sul territorio. Lo stesso giudice Borsellino diceva: attenzione quando parla Lombardo bisogna ascoltarlo, bisogna sentirlo, perché era in possesso di informazioni delicate. Era stato tra i primi a raccogliere la notizia dell’arrivo dell’esplosivo per la strage di via D’Amelio. Tra i primi anche a raccogliere informazioni su come arrestare Riina nel luglio del ’92. E poi aveva anche raccolto informazioni delicate dal boss Totò Cancemi, l’uomo che aveva raccontato di presunti rapporti tra Berlusconi, Dell’Utri e Cosa Nostra, che sono ancora oggetto di indagini presso la Procura di Firenze. Dopo la morte si è anche scoperto che Lombardo aveva anche scortato a Milano Cancemi dal 27 febbraio al 3 marzo, cioè fino al giorno prima di morire. E proprio nel viaggio di ritorno Lombardo aveva chiamato la vedova Borsellino, Agnese, e le aveva confidato : “le porterò presto su un vassoio d’argento i responsabili della morte di suo marito”. Quali verità conosceva Lombardo? Il suo nome era uscito alle cronache dopo che Badalamenti, Tano Badalamenti, l’ex capo di cosa nostra, detenuto negli Stati Uniti aveva detto, sono disponibile a testimoniare per la giustizia italiana, ma solo se le mie dichiarazioni saranno raccolte da Lombardo. Quando Lombardo andrà nel ‘94 negli Stati Uniti insieme al colonnello Obinu per incontrare Badalamenti scoprirà che ahimè era cambiato il contesto politico e l’Italia non aveva così tanta voglia di ascoltare la versione di Badalamenti. Incredibilmente erano anche scomparse le 4 audiocassette che contenevano le registrazioni dei colloqui tra Lombardo e Badalamenti. Adesso i figli hanno presentato delle perizie per far riaprire le indagini sulla morte del maresciallo Lombardo. Una balistica è particolarmente importante perché farebbe pensare all’omicidio e non al suicidio come aveva sostenuto una vecchia perizia che ha resistito per 27 anni e che è stata la prova regina della teoria del suicidio. Era stata firmata dal carabiniere, all’ora dal maresciallo Saverio Spataro Tracuzzi che poi è stato condannato per corruzione e per concorso esterno alla mafia. E poi abbiamo visto insomma gli errori e le omissioni delle indagini che farebbero pensare ad un raffinato depistaggio. E a proposito di depistaggio l’ultima commissione antimafia ha chiesto di indagare su quelle informazioni che ha raccolto il SISDE in merito all’esistenza di una struttura parallela che avrebbe affiancato la mafia nelle stragi in continente. In base a quali elementi?

PAOLO MONDANI Qualcuno che non è mafioso quindi aggiunge l'esplosivo militare.

GIANFRANCO DONADIO – PROCURATORE DI LAGONEGRO – EX MAGISTRATO DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA Nelle automobili dei mafiosi ci sono solo tracce di tritolo. Dobbiamo escludere che i mafiosi avessero altro quindi altri hanno aggiunto alle cariche portate dai mafiosi esplosivo ad alto potenziale di tipo militare.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La procura della Repubblica di Firenze ha da tempo ripreso le indagini sulle stragi del '93. Principali indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri, che in passato sono già stati archiviati come mandanti esterni delle stragi dai Tribunali di Firenze e Caltanissetta. Ma ci sono importanti novità emerse con una recentissima relazione della Commissione parlamentare antimafia sulla bomba di Firenze, a via dei Georgofili, esplosa nella notte tra il 26 e il 27 maggio del 1993 dove morirono cinque persone, tra cui una bambina di 9 anni e una di 50 giorni. Principale estensore della relazione dell'Antimafia il magistrato Gianfranco Donadio.

GIANFRANCO DONADIO – PROCURATORE DI LAGONEGRO – EX MAGISTRATO DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA La commissione parte innanzi tutto da un dato indiscusso: a via dei Georgofili furono collocati 250 chili di esplosivo. I mafiosi a Firenze disponevano all'incirca di 130-140 chili di esplosivo. Vi è una differenza di 100 chili. Questi cento chili sono rappresentati da esplosivo di tipo militare ad alto potenziale.

PAOLO MONDANI Qualcuno che non è mafioso quindi aggiunge l'esplosivo militare.

GIANFRANCO DONADIO – PROCURATORE DI LAGONEGRO – EX MAGISTRATO DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA Nelle automobili dei mafiosi ci sono solo tracce di tritolo. Dobbiamo escludere che i mafiosi avessero altro quindi altri hanno aggiunto alle cariche portate dai mafiosi esplosivo ad alto potenziale di tipo militare.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Sulle stragi del 1993, la procura di Firenze ha interrogato a lungo lo stragista non pentito Giuseppe Graviano che nel 2020 aveva testimoniato di un finanziamento di 20 miliardi di lire consegnato dai suoi familiari a Silvio Berlusconi e di aver incontrato l'ex presidente del Consiglio per ben tre volte da latitante. Fatti che Berlusconi ha smentito. Le sue dichiarazioni, però, nel 2021 improvvisamente si fermano, proprio quando il parlamento si apprestava a modificare la norma sull'ergastolo ostativo, cioè il divieto di concedere benefici penitenziari ai mafiosi che non intendono collaborare con la giustizia. E il 30 dicembre una legge ha radicalmente modificato la norma.

ROBERTO SCARPINATO – SENATORE M5S – PROCURATORE GENERALE DI PALERMO 2013-2022 Dentro il carcere vi sono una quindicina di boss della mafia coinvolti nelle stragi. Con la riforma dell'ergastolo ostativo potranno uscire dal carcere e tuttavia questa legge prevede che non siano obbligati a spiegare perché non vogliono collaborare. È una legge che disincentiva la collaborazione e incentiva la non collaborazione perché sia coloro che collaborano sia coloro che non collaborano vengono ammessi ai benefici dei permessi premio e al lavoro esterno praticamente nella stessa tempistica. Non soltanto, ma non prende posizione questa legge su alcune motivazioni della mancata collaborazione che sono assolutamente indicative di una mancata rieducazione. Se io dico per esempio che non voglio collaborare perché non voglio essere considerato un infame equivale a una normalizzazione della cultura dell'omertà. È una legge che tratta meglio i mafiosi che non collaborano rispetto ai mafiosi che collaborano. Le faccio un esempio: il collaboratore di giustizia, per essere ammesso al programma di protezione, deve sottoscrivere una dichiarazione nella quale indica tutti i beni, che non sono stati ancora individuati e dalla magistratura confiscati; il mafioso che non collabora non ha lo stesso obbligo.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Torniamo alla strage di Firenze passando per Caltanissetta dove la Procura, nel 2021, aveva chiesto l'archiviazione dell’indagine sui cosiddetti "mandanti esterni" nella strage di via D'Amelio. Il gip del tribunale di Caltanissetta Graziella Luparello ha respinto la richiesta sollecitando una nuova attività istruttoria. Tra i punti da approfondire, la Luparello indica l'esistenza di un“ Nucleo operativo trasversale occulto” della Questura di Palermo, che potrebbe aver avuto un ruolo nelle stragi di Capaci e via D’Amelio. Di questo "Nucleo occulto" ci parla Marianna Castro, ex compagna del poliziotto Giovanni Peluso, indagato come "compartecipe ed esecutore materiale" della strage di Capaci. La catena di Comando di questo gruppetto di agenti speciali, secondo la signora Castro, era formata da Giovanni Aiello, Faccia di Mostro, e da Bruno Contrada, ex numero tre del Sisde. PAOLO MONDANI Faccia di Mostro per suo marito era il…

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Sì, lavoravano insieme però era un suo superiore. PAOLO MONDANI E Contrada?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Era il superiore di loro.

PAOLO MONDANI Suo marito sparisce qualche giorno durante l’attentato a Falcone, no?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Sì, venerdì mattina.

PAOLO MONDANI Tre giorni. Successivamente le dice che secondo lui Falcone era stato ucciso…

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Si, aveva detto che Falcone non era stata la mafia ma erano stati i servizi segreti.

PAOLO MONDANI E lei non ha chiesto spiegazioni? A chi dava fastidio Falcone? Perché i servizi hanno fatto saltare Falcone?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Dice che dava fastidio alla politica italiana e poi dice che era pure dei favori fatti a degli amici americani. La sera stacco dal lavoro alle otto. Allora mi ha detto ti devi sbrigare a venire a casa perché mi devi accompagnare allo svincolo di Napoli perché ci sono tre persone che lavoriamo tutte e quattro insieme e dobbiamo partire per fare delle indagini. Allora io arrivo e l'accompagno là. E c'era la macchina che l'aspettava e lì dentro c’era Giovanni Aiello con due donne, una bionda davanti e una mora di dietro.

PAOLO MONDANI E dove andavano?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Eh… no, dice che dovevano andare a Milano per fare delle indagini. Poi è tornato dopo la strage di Milano e gli ho detto scusa ma siete partiti, siete tornati e c'è stato st'attentato? Ha detto: e che vuoi dire, che siamo stati noi? E ma scusa che siete andati a fare voi là, a fare indagini di che?

PAOLO MONDANI E lui come rispose?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Niente. Perché poi lui spariva, ritornava. E a Firenze è stata la stessa storia, con la strage di Firenze.

PAOLO MONDANI Cioè?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Mi devi accompagnare che mi aspettano, che qua, che là. Benissimo, l'accompagno là…

PAOLO MONDANI E sempre Faccia da mostro con…

MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Con la donna davanti che lui diceva: la donna davanti era la segretaria. Io quando mi hanno fatto vedere le foto, prima mi hanno fatto vedere gli identikit delle donne bionde, e ho riconosciuto quella con i capelli un po' più lunghi e ho detto questa assomiglia.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Ecco gli identikit delle donne delle stragi di Firenze e Milano

PAOLO MONDANI Lei ha scoperto per esempio che nelle stragi del 1993, nei commandi operativi c'era la traccia della presenza di donne.

GIANFRANCO DONADIO - PROCURATORE DI LAGONEGRO – EX MAGISTRATO DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA A Georgofili una donna abbandona il veicolo che esplode, testimoni oculari descrivono questo fatto. A via Palestro a Milano più di un teste descrisse l'allontanamento di una donna dalla Fiat Uno che scoppiò. Questa pista che appare ovviamente alternativa alla presenza esclusiva di mafiosi nella campagna stragista del '93-'94.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Gianfranco Donadio si è occupato delle stragi mafiose all'interno della Direzione nazionale antimafia. Un lavoro in solitudine durato molti anni. Poi, nel 2013 le indagini sulle stragi gli vengono tolte e per molto tempo le sue carte rimangono a prendere polvere. Una fonte istituzionale ci racconta quel che accade quando finalmente, qualche anno dopo, la Direzione nazionale antimafia decide di riprendere le indagini sulle stragi formando un pool di magistrati e ci si accorge di qualcosa che sembra incredibile.

PAOLO MONDANI Stiamo parlando della sparizione di alcuni verbali dalla Direzione nazionale antimafia di via Giulia qui a Roma.

FONTE ISTITUZIONALE ANONIMA Non si tratta di semplici verbali, sparirono ben 14 faldoni interi. PAOLO MONDANI E dove stavano questi faldoni?

FONTE ISTITUZIONALE ANONIMA Erano in un solaio all'ultimo piano del palazzo di via Giulia. E pensi che ci aveva lavorato per dieci anni Gianfranco Donadio. Nei primi mesi del 2019 un ufficiale di polizia giudiziaria ne certificò la sparizione.

PAOLO MONDANI Esattamente quando il procuratore Nino Di Matteo inizia a coordinare il pool che deve occuparsi di concludere le indagini che aveva iniziato Donadio sulle stragi.

FONTE ISTITUZIONALE ANONIMA Esatto, esatto. E poco dopo Di Matteo viene allontanato dall'incarico dal vertice della Direzione nazionale antimafia.

PAOLO MONDANI E che cosa contenevano precisamente quei 14 faldoni spariti?

FONTE ISTITUZIONALE ANONIMA Contenevano le indagini sulle stragi di Falcone e Borsellino. C'erano dentro le piste più promettenti come quelle sull'eversione nera. Ne avete parlato anche voi ricordando Delle Chiaie, no?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO 9 Anche il magistrato Donadio, aveva interrogato Maria Romeo e Alberto Lo Cicero e avevano raccontato della presenza di Delle Chiaie poi Donadio è stato inviato a altro incarico. Si è scoperto dopo del furto dei 14 faldoni presso l’archivio della Direzione Nazionale Antimafia, dentro c’erano anche queste informazioni. Ma si scopre del furto solo nel 2019 quando arriva il Pm della trattativa Nino Di Matteo che avrebbe dovuto coordinare una commissione della Direzione Nazionale Antimafia sulle stragi del ’92 e ’93. Prima della trasmissione di Report del maggio scorso nessuno aveva mai parlato della presenza di Delle Chiaie a Capaci. Delle Chiaie era stato arrestato ed estradato dal Venezuela nel 1987 e sappiamo dalle informative allegate al processo Italicus due che era stato seguito dal SISDE sempre, fino alla soglia del 1992, che cosa era successo? Ora secondo la Procura Generale di Bologna, Avanguardia Nazionale di cui Stefano delle Chiaie era il leader indiscusso anche se era stata sciolta nel 1976 sarebbe stata l’anello di congiunzione tra chi aveva finanziato e organizzato le stragi e quindi tra Licio Gelli e il responsabile dell’ufficio degli Affari Riservati del Viminale, Umberto D’Amato, e anello di congiunzione e la parte militare, cioè quella dell’eversione di destra. Quando era rientrato Stefano Delle Chiaie nel 1987 in una lunga audizione aveva detto “voglio fare chiarezza sulle responsabilità sulle stragi” cercava di smarcarsi lui e tutta l’estrema destra e affidare le responsabilità delle stragi ai servizi di sicurezza. Ma le indagini sulla strage di Bologna, su quello che è successo a Brescia a Piazza Fontana hanno dimostrato l’esistenza di un patto occulto a partire dagli anni ’60 per quella che era la strategia della tensione. Tra le carte poi sequestrate in Venezuela è emerso anche che Stefano Delle Chiaie da latitante aveva ipotizzato una attività di depistaggio sulle stragi, aveva ipotizzato di inquinare l’opinione pubblica, intossicarla attraverso degli avvocati, dei politici, dei giornalisti amici affinché venisse smarcata l’intera destra eversiva dalle responsabilità delle stragi. Bisognava anche istituire una commissione parlamentare sulle stragi proprio con queste finalità. Ecco è quello che poi insomma hanno cercato di fare molti parlamentari dell’estrema destra in questi anni. Ora immaginiamo che in un contesto del genere la volontà della Gip del tribunale di Caltanissetta, Graziella Luparello di dare impulso a nuove indagini sui mandanti esterni alle stragi e di chiarire il ruolo della destra eversiva in quel periodo vengano accolte con grande entusiasmo in questo momento

Io, sbirro a Palermo”, una lunga cronaca siciliana. ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA su Il Domani il 31 dicembre 2022

Io, Sbirro a Palermo” è una lunga cronaca, un insieme di ricordi sugli anni tormentati della lunga guerra contro Cosa nostra. Piccoli gesti e grandi storie.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Io, sbirro a Palermo” di Maurizio Ortolan pubblicato per Melampo nel 2018 con la prefazione di Alessandra Dino e sarà ristampato per la Zolfo Editore alla fine di gennaio 2023.

La mafia, i pentiti, la caccia ai latitanti. E la nascita di un gruppo speciale, il Nucleo centrale anticrimine. Roma e la Sicilia, la Sicilia e Roma, e poi ancora la Sicilia. Fino alla cattura dell’ultimo capo dei Corleonesi, Bernardo Provenzano.

Da oggi e per una quindicina di giorni il nostro Blog Mafie ospita ampi stralci del libro di Maurizio Ortolan, un poliziotto che ha fatto storia in Italia, “Io, Sbirro a Palermo”. È una lunga cronaca, un insieme di ricordi sugli anni tormentati della lunga guerra contro Cosa nostra. Piccoli gesti e grande storie.

Come quel pezzo di vita passato insieme al collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia, il primo dei Corleonesi a vuotare il sacco con il giudice Giovanni Falcone. Mestiere e passione, disciplina e regole. Ma quando viene il momento giusto, anche genialità investigativa.

Quello di Maurizio Ortolan è un libro denso e vero. «Essere poliziotto è come avere un rapporto con una donna affascinante e capace di offrirti seduzioni sempre nuove», scrive in una delle sue pagine ricordando le emozioni provate durante una missione all’estero. C’è etica, c’è un'interpretazione degli avvenimenti che a volte sovrasta la superficialità di certe cronache, c'è l'esperienza della strada.

E c’è tanta Sicilia. Dove i confini tra il bianco e il nero non sono mai netti come vorrebbero i sacerdoti dell’antimafia, dove il sapere il più delle volte fa la differenza. L'’hutore ci consegna anche un ritratto inedito di Giovanni Falcone durante le lunghe ore di interrogatorio del pentito Francesco Marino Mannoia. Un bel regalo da Maurizio Ortolan.

Io, sbirro a Palermo” è stato pubblicato per Melampo nel 2018 con la prefazione di Alessandra Dino e sarà ristampato per la Zolfo Editore alla fine di gennaio 2023.

ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA

Attilio Bolzoni è un giornalista che, da quarant'anni, racconta storie in fondo all'Italia. Francesco Trotta è un blogger e direttore dell'associazione Cosa Vostra.

Mafia, la polizia italiana fa nascere il Nucleo centrale anticrimine. DAL LIBRO "IO, SBIRRO A PALERMO" DI MAURIZIO ORTOLAN su Il Domani il 31 dicembre 2022

Ci si occupava di mafia e di mafiosi, ma anche di sequestri di persona, poiché il Nucleo era nato, sull’onda dell’emergenza di quegli anni, come nucleo antisequestri; la sezione di Antonio Manganelli seguiva, in generale, le indagini particolarmente delicate, mentre in quella di Alessandro Pansa circolavano i primi pc...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Io, sbirro a Palermo” di Maurizio Ortolan pubblicato per Melampo nel 2018 con la prefazione di Alessandra Dino e sarà ristampato per la Zolfo Editore alla fine di gennaio 2023.

Roma, 1989. All’inizio di settembre mi ero preso due giorni di ferie, ero andato al campeggio, poi avevo chiuso la roulotte e l’avevo sistemata nel rimessaggio invernale e, una volta rientrato in ufficio, avevo finalmente terminato di buttare giù il rapporto sull’indagine che avevamo in corso, iniziata dopo l’arresto di Michele Zaza, il camorrista, in Costa Azzurra.

Non che fosse uscito molto, dall’indagine, anzi a dire la verità praticamente nulla, o almeno nulla che non si potesse riassumere in poche paginette, ma ai capi non era andato a genio doverla chiudere così, e volevano trovare il modo e l’occasione per proseguire; già a luglio il dirigente, Giovanni De Gennaro, mi aveva fatto sollecitare dal mio capo sezione, Francesco Gratteri, perché mi dessi da fare a riascoltare le intercettazioni e a cercare qualche appiglio investigativo per farci autorizzare una proroga. E il rapporto, alla fine, l’avevo scritto, ma era solo un riepilogo delle attività di indagine che avevamo svolto e non lasciava troppi spiragli per eventuali ripartenze: così mi aspettavo di vedermelo bocciare, e invece, sorprendentemente, era passato senza obiezioni ed era stato inoltrato all’Autorità giudiziaria.

In ufficio, al Nucleo, c’era movimento; niente di eccezionale, ma tutti i funzionari erano presenti, più del solito e in orari inconsueti; il capo andava tutti i giorni al ministero, Antonio Manganelli e Alessandro Pansa si chiudevano spesso in concilio, anche con Francesco Gratteri.

Persino gli autisti di tutti e quattro i funzionari facevano i misteriosi, con l’espressione di chi la sa lunga, o almeno così vuol far credere, a metà tra l’informato e il preoccupato: insomma, che qualcosa bollisse in pentola era palese, ma sapere cosa, beh, era tutt’altra faccenda, ma non è che mi interessasse poi tanto, almeno in quel momento.

Al Nucleo ero arrivato da un paio d’anni, nella tarda primavera del 1987, segnalato da Livio, Massimo e Fulvia, tre colleghi del mio stesso corso, il primo corso per Ispettori, una figura professionale tutta nuova, per la Polizia italiana, inventata con la riforma del 1981 per tentare di iniettare modernità a un’istituzione che appariva vecchia e ingessata.

Venivo da esperienze di polizia “operaia”: il mio primo incarico, uscito dalla scuola di Nettuno alla fine del 1983, era stato al commissariato di San Basilio, periferia romana agguerrita e ostile, poi erano venuti il reparto volanti e la sala operativa di Roma. Per me Polizia, quella con la P maiuscola, significava solo stare in divisa per strada, oppure ascoltare i guai dei cittadini e provare ad arrestare qualche delinquente, facendo i conti con quella cronica esiguità di mezzi e di personale che avevo sperimentato al Commissariato.

Al Nucleo, invece, era tutto diverso: i mezzi c’erano, e De Gennaro pretendeva anche la forma: giacca e cravatta per tutti, toni bassi e understatement persino nella guida delle auto di servizio.

Ci si occupava di mafia e di mafiosi, ma anche di sequestri di persona, poiché il Nucleo era nato, sull’onda dell’emergenza di quegli anni, come nucleo antisequestri; la sezione di Antonio Manganelli seguiva, in generale, le indagini particolarmente delicate, mentre in quella di Alessandro Pansa, un autentico precursore del settore, si era iniziato a formare un gruppetto di ragazzi con qualche nozione di informatica, circolavano i primi pc direttamente collegati al Ced per le interrogazioni sugli archivi e sugli schedari di polizia e su altre banche dati, e avevamo anche le prime macchine per scrivere elettriche, quelle con un piccolo display, che stampavano un rigo o una frase per volta.

Dopo il marzo del 1988 il Nucleo Centrale Anticrimine era molto cresciuto in visibilità e considerazione grazie anche all’imponente operazione antimafia scaturita dalle dichiarazioni del “pentito” catanese Antonino Calderone; accadeva così, sempre più spesso, che in occasione degli eventi delittuosi più disparati al Ministero dell’Interno arrivassero pressanti richieste di “risposte adeguate” e di intervento di “personale specializzato”.

La politica girava la richiesta al Capo della Polizia, e la richiesta diventava un ordine impartito a De Gennaro, che ogni volta si trovava a dover distogliere uomini dalle indagini antimafia, alle quali teneva particolarmente, per accontentare i vertici del Dipartimento, le esigenze degli uffici periferici e l’opinione pubblica.

Uomini, al Nucleo centrale anticrimine, ce n’erano davvero pochi, eravamo circa una quarantina al mio arrivo, messi insieme dalla fusione di due gruppi: il Nucleo centrale antisequestri di Antonio Manganelli, già incardinato nella Direzione centrale della polizia criminale, nota come Criminalpol, e diversi agenti del Centro Interprovinciale Criminalpol del Lazio-Umbria e della Sezione Narcotici della squadra mobile di Roma, gli stessi che avevano gestito l’arresto e le dichiarazioni di Tommaso Buscetta, iniziando una collaborazione lunga e proficua con la magistratura di Palermo, ma specialmente con Giovanni Falcone.

De Gennaro gli uomini se li era portati appresso dalla Questura di Roma, al momento del suo trasferimento alla Criminalpol, ed era iniziata la storia del Nucleo Centrale Anticrimine. De Gennaro, Manganelli, Pansa: un solo piccolo ufficio, un open space all’americana al piano terra della Criminalpol, con un ingresso separato, quasi a sottolineare specialità e riservatezza, e tre funzionari che sarebbero diventati tre capi della Polizia, uno dopo l’altro; ma allora, nel 1987, chi lo avrebbe immaginato?

Insomma, a farla breve, per soddisfare le necessità improvvise sul territorio senza esser costretti a distogliere dalle indagini più importanti i detective più navigati, nel 1987 venne istituita, nel Nucleo centrale anticrimine, la quarta sezione, forte di un funzionario, Giuseppe Zannini Quirini, che veniva dalla sezione narcotici della squadra mobile di Napoli, di quattro ispettori, tra i quali capitai io, e di una ventina di altri agenti provenienti un po’ da tutta Italia, di varia formazione.

DAL LIBRO "IO, SBIRRO A PALERMO" DI MAURIZIO ORTOLAN

Gianni De Gennaro detto “lo Squalo” e una squadra di poliziotti speciali. DAL LIBRO "IO, SBIRRO A PALERMO" DI MAURIZIO ORTOLAN su Il Domani l’1 gennaio 2023

Erano attività faticose: durante il corso da Ispettore, nella scuola di Nettuno, uno dei pochi insegnamenti che avevano lasciato il segno, almeno in me, era stato il discorsetto fatto da uno dei docenti: «Se già non l’avete, procuratevi un compagno o una compagna che sappia fare da padre e da madre insieme, se vi interessa avere e conservare una famiglia, altrimenti cambiate lavoro, perché questo non fa per voi».

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Io, sbirro a Palermo” di Maurizio Ortolan pubblicato per Melampo nel 2018 con la prefazione di Alessandra Dino e sarà ristampato per la Zolfo Editore alla fine di gennaio 2023.

La quarta sezione era una specie di pronto intervento, una squadra Mobile con una competenza a livello nazionale dove si passava, da un giorno all’altro, dalle indagini sul furto della statua di Celestino V nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio, a quelle su omicidi più o meno seriali o più o meno “eccellenti”, al sequestro misterioso della salma di Serafino Ferruzzi nel cimitero di Ravenna, che fu la mia prima missione. Ci si occupava praticamente di tutto, o meglio, di tutto quello che destava particolare allarme sui giornali e nell’opinione pubblica, e di riflesso nella politica.

Erano attività, queste del pronto intervento, a volte impegnative, altre volte quasi di rappresentanza, giusto il tempo necessario a giustificare il titolone sulla stampa locale: «Sono arrivati gli uomini di De Gennaro», «Una squadra di superpoliziotti si occuperà delle indagini», e altre amenità del genere, e si può bene immaginare l’accoglienza dei colleghi del territorio, obbligati quasi sempre a subire con sorrisi di circostanza la presenza dei cosiddetti superpoliziotti, ché tali noi davvero non eravamo, anche se qualcuno ci si atteggiava.

Ma erano attività faticose anche per un altro verso: durante il corso da Ispettore, nella scuola di Nettuno, uno dei pochi insegnamenti che avevano lasciato il segno, almeno in me, era stato il discorsetto fatto da uno dei docenti, esperto di antiterrorismo, che ci aveva detto senza perifrasi: «Se già non l’avete, procuratevi un compagno o una compagna che sappia fare da padre e da madre insieme, se vi interessa avere e conservare una famiglia, altrimenti cambiate lavoro, perché questo non fa per voi». Io una famiglia la avevo, e le continue e soprattutto improvvise partenze mi costringevano a lasciare a metà le cose da fare, e che qualcuno in mia assenza doveva portare avanti.

Avevo resistito un paio d’anni, al Nucleo, tra una missione e l’altra, senza che ci fosse neppure un apprezzabile ritorno economico, visto che l’amministrazione della pubblica sicurezza a quei tempi rimborsava al personale in missione, e con gran ritardo, solo le spese di viaggio e dell’albergo; per i pasti, beh, per i pasti ti dovevi arrangiare, perché il principio vigente era che in sede o fuori sede avresti comunque mangiato.

Insomma iniziavo a rimpiangere il sedile della volante, con i “turni 28 in quinta” che almeno mi consentivano di programmare la vita con settimane di anticipo e di apprezzare la soddisfazione del cittadino che ti aveva chiamato e ti vedeva arrivare a dargli sostegno. Dal mio punto di vista era l’immagine migliore dello stato e della sua Autorità: il soccorso pubblico con l’aspetto rassicurante della divisa; nessun dubbio, nessun equivoco: se stai in divisa la gente sa chi sei, sa cosa puoi fare e cosa devi fare, e si aspetta che tu risolva il problema per il quale sei stato chiamato; i rapporti sono chiari, diretti, faccia a faccia.

Insomma, tirate un po’ le somme dei pro e dei contro, avevo fatto una davvero inusuale domanda di trasferimento per tornarmene alle Volanti, e siccome Francesco Gratteri (che aveva preso il posto di “Peppe” Zannini Quirini nell’agosto del 1988 alla direzione della Quarta Sezione) nicchiava a darle corso, chiesi di parlare direttamente con De Gennaro.

Mi chiamò nel suo ufficio il 15 maggio del 1989, e il colloquio, se così si può definire, durò giusto il tempo di dirmi: «Maurizio, la domanda te la trito, e se la rifai te la mando avanti, ma ci metto parere sfavorevole, e ti avviso di non cercare una raccomandazione per andartene, perché per quanto grande la trovi tu, io ne avrò sempre una più grande della tua». Alle parole seguirono immediatamente i fatti e ad accompagnarmi alla porta fu il rumore definitivo del tritacarte.

Magari sarà stata solo una coincidenza, ma io, dal nucleo, me ne sono potuto andare solo per raggiunti limiti di età. Questo era De Gennaro, altrimenti noto tra i suoi colleghi come “lo Squalo”.

Non che mi fossi illuso di godere di una stima incondizionata da parte sua: il mio dovere ero abituato a farlo già da prima, e avevo continuato a farlo anche una volta arrivato al nucleo; mai avevo sollevato eccezioni o accampato scuse di non poter partire, e sapevo che per questo ero soprannominato “il Soldato”, ma per lui era semplicemente una questione di principio: dal nucleo centrale anticrimine nessuno poteva pensare di andarsene a domanda, se non per gravissimi motivi, e men che mai se la domanda non fosse stata preventivamente concordata.

Dal nucleo te ne andavi se ti cacciavano, ed era quello che mi aspettavo che prima o poi succedesse. Anche per questo motivo l’agitazione che percepivo in ufficio, a settembre del 1989, non mi aveva turbato affatto.

Francesco Marino Mannoia, il primo “corleonese” a collaborare con lo stato. DAL LIBRO "IO, SBIRRO A PALERMO" DI MAURIZIO ORTOLAN su Il Domani il 02 gennaio 2023

Com’è un mafioso? Finalmente ne conosco uno di persona: arriva in silenzio, serio, preceduto da due agenti e seguito da altri due. Mannoia mi chiede conferma del mio grado, “ispettore”, e da quel momento si rivolgerà sempre a me con quello, in presenza di altre persone, sempre e soltanto dandomi un lei, ovviamente ricambiato.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Io, sbirro a Palermo” di Maurizio Ortolan pubblicato per Melampo nel 2018 con la prefazione di Alessandra Dino e sarà ristampato per la Zolfo Editore alla fine di gennaio 2023.

Anche per questo motivo l’agitazione che percepivo in ufficio, a settembre del 1989, non mi aveva turbato affatto. All’inizio del mese mi avevano mandato a Milano per una settimana, per un servizio da svolgere in collaborazione con il Centro Criminalpol Lombardia: si aspettava un carico di armi, o forse di droga, e passammo qualche giorno e qualche sera appostati al casello dell’autostrada, in vana attesa di una dritta che non arrivò.

Tornammo a Roma intorno al quindici, in tempo per notare una crescente agitazione, fino a quando una sera, verso le otto, Antonio Manganelli ci chiamò a raccolta: un gruppetto della Quarta Sezione, la mia, con Francesco Gratteri, e alcuni dei suoi investigatori della Terza. Prima di allora con Antonio Manganelli non avevo avuto quasi mai motivo di incontro o di conversazione.

Del resto lui si occupava di indagini serie, mentre io ero impegnato nel pronto intervento e spesso fuori Roma, ma i rapporti erano sempre stati eccellenti: era davvero un “signore”; non sono stato l’unico a dirlo e a scriverlo, ma ci tengo a ricordarlo anche qui, come ci ho tenuto a scriverlo, a nome di tutti, in occasione del suo funerale.

Manganelli fu breve e conciso: si era pentito Francesco Marino Mannoia, un uomo d’onore palermitano della fazione dei Corleonesi, il gruppo uscito vincitore dall’ultima guerra di mafia; era una novità di rilievo, dal momento che prima di allora le poche collaborazioni e i pentimenti erano arrivati solo dal lato dei cosiddetti perdenti. Non era ancora un nome notissimo, neppure tra gli addetti ai lavori, così mi andai a consultare il fascicolo nell’archivio della Direzione; palermitano del rione della Guadagna, inserito nella famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù.

Un curriculum criminale di tutto rispetto, ma non eccezionale: reati contro il patrimonio, associazione a delinquere, associazione mafiosa, un’evasione dal carcere mandamentale di Castelbuono, nel 1983, poi la latitanza e l’ultimo arresto da parte della Squadra Mobile di Palermo, nel 1985: nascosto nel doppiofondo di un armadio. Era sposato con la figlia di Pietro Vernengo, Rosa, ma risultava essere stato arrestato a casa di un’altra donna, con la quale aveva una relazione e che gli aveva dato una figlia. Nel fascicolo c’era anche una foto sbiadita, un ritaglio di giornale, che lo ritraeva all’uscita della Questura, prima di essere trasferito in carcere.

Lo avremmo dovuto prelevare dal carcere di Teramo, portare a Roma, prenderci cura della compagna e della figlia, raccogliere le dichiarazioni che avrebbe reso, almeno inizialmente, al solo giudice Giovanni Falcone, cercare i riscontri ai suoi racconti con un gruppo di investigatori della Squadra Mobile di Palermo, riferirne l’esito all’Autorità giudiziaria, e arrestare eventuali latitanti, se le indicazioni che ci stava per fornire lo avessero consentito. Il tutto con un dispiego il più possibile limitato di personale, confidando più nella riservatezza che nell’ostentazione di auto blindate, di giubbotti antiproiettile e di M12.

Manganelli distribuì gli incarichi: Nicola, un collega già in forza al Centro Interprovinciale Criminalpol di Roma, arrivato con me nel 1987, avrebbe curato i rapporti con l’Autorità giudiziaria, individuando gli episodi delittuosi, raccogliendo i riscontri alle dichiarazioni e procedendo alle identificazioni dei mafiosi chiamati in causa, mentre Claudio e Marco avrebbero gestito la logistica della famiglia.

Io, probabilmente scelto per la mia passata esperienza alle Volanti, mi sarei dovuto occupare della scorta vera e propria, andando a prendere il “pentito” nei giorni di interrogatorio e riportandolo in carcere la sera; le persone nominate erano i referenti per ciascuna area, ma tutto il Nucleo, al bisogno, avrebbe contribuito. Alla fine del discorso, Manganelli fece la faccia ancor più scura e si raccomandò: «Ragazzi, – disse – stavolta è una cosa seria, è un Corleonese… occhi aperti, perché stavolta si muore».

Tornai a casa senza provare una particolare apprensione: mi ero fatto l’idea che al Nucleo tendessero sempre a esagerare tutto, e informai mia moglie che per un po’ di tempo sarei rimasto a Roma, ma uscendo al mattino presto e rientrando la sera tardi; sembrò quasi sollevata: in giro per casa, almeno per un po’, non ci sarebbero state valigie.

CASAL DEL MARMO

Mannoia era detenuto a Teramo, ma a prenderlo non andai io, e credo di ricordare che venne tutto anticipato, rispetto a quanto era stato progettato inizialmente: il servizio, per me, sarebbe iniziato domenica 8 ottobre 1989, a Casal del Marmo, e quando me lo dissero la cosa mi lasciò abbastanza perplesso: per quanto ne sapevo io Casal del Marmo era il carcere minorile di Roma e non avevo neppure una precisa idea di dove si trovasse.

Il giorno prima, sabato 7, avrei dovuto essere libero, ma Francesco Gratteri mi disse di presentarmi in quella struttura, di prendere contatti con il personale degli Agenti di Custodia e di concordare i dettagli per l’indomani, per la presa e la riconsegna del detenuto. Neanche a farlo apposta, quel sabato mattina in ufficio non trovai neppure un’autovettura disponibile, erano tutte impegnate per altri servizi, ma io sapevo bene che a De Gennaro era meglio non rappresentare problemi, o, se proprio ti ci trovavi costretto, glieli dovevi sottoporre insieme ad almeno due soluzioni ragionevoli e immediatamente praticabili.

Gli altri funzionari erano perfettamente allineati sulla stessa posizione, e né Antonio Manganelli né Alessandro Pansa mi avrebbero risolto la faccenda. Colpa mia, avrei dovuto far mettere da parte una macchina già dalla sera prima… così a Casal del Marmo, all’indirizzo che mi avevano dato, ci andai con la mia Dyane 6.

Era il 1989, non c’erano navigatori né smartphone; Google non esisteva, ma mica ci si perdeva: c’era il “Tuttocittà”, un fascicoletto allegato all’elenco del telefono che la Sip passava generosamente agli abbonati, e poi io avevo preso l’abitudine, dal tempo delle Volanti, di girare sempre, in macchina, con uno stradario che si chiamava AZ, pubblicato ogni anno, con la toponomastica di Roma e di tutte le periferie sempre aggiornata e precisa.

Casal del Marmo è una borgata romana, dalle parti di Torrevecchia, non distante dall’ospedale San Filippo Neri, e lì, in una zona di campagna, trovai non il carcere minorile, come avevo pensato, ma una struttura del Ministero di Grazia e Giustizia, dove si tenevano i corsi di guida per gli autisti civili del Ministero e per gli agenti della Penitenziaria.

La caserma era stata sgomberata in fretta, i corsi sospesi o rinviati, e la struttura era stata presa integralmente in carico, compreso il servizio di mensa e di vigilanza, da un gruppo di agenti selezionatissimi comandati dal Maggiore Ragosa e ribattezzata, sulla carta, Sezione Distaccata di Regina Coeli, […].

Il percorso da seguire tra Casal del Marmo e il mio ufficio, invece, mi preoccupava: i punti di partenza e di arrivo erano necessariamente obbligati, e i più esposti a eventuali attacchi; e se il tragitto in generale mi consentiva due o tre alternative e poco o nulla si poteva fare per accrescere la vigilanza intorno all’ufficio che si trovava in viale dell’Arte, nel cuore dell’Eur, vicino alla caserma c’era da percorrere invece un bel tratto completamente scoperto, dove solo saltuariamente transitavano i veicoli della Penitenziaria.

Lo feci presente, al mio ritorno dal sopralluogo, e Francesco Gratteri mi disse che avrebbero valutato se fare effettuare anche una saltuaria vigilanza dalle Volanti della Polizia. A Palermo c’è un detto comune che racchiude molto della filosofia siciliana, un detto che io non conoscevo ma che negli anni ho fatto mio perché si adatta molto bene alle attività di Polizia quando ci si trova a dover fare una cosa con quello che si ha a disposizione: “Chista è a zita…”, detto con tono definitivo.

L’espressione completa è “Chista è a zita, cu a voli sa marita”, e cioè “la fidanzata è così, chi la vuole se la sposi”, ma la seconda parte nell’uso comune viene sempre omessa, e la morale è: se ti va bene è così, perché alternative non ce ne sono. E io, della zita, non me ne innamorai, ma me la feci piacere. Il primo vero servizio di scorta iniziò, non senza qualche intoppo, alle 7.30 di domenica 8 ottobre.

Nell’ottica della segretezza, qualcuno aveva deciso che si dovesse utilizzare un mezzo che la burocrazia del mio ufficio definiva speciale: praticamente un normale mezzo di locomozione a motore la cui specialità consisteva, principalmente se non esclusivamente, nella necessità di elaborate procedure di richiesta e appositi conclavi di autorizzazione.

Nello specifico, si trattava di un furgone Volkswagen del tipo Westfalia, attrezzato a piccolo camper, con la finestratura blindata e inamovibile. Credo che la Polizia lo avesse acquistato quando si indagava sul mostro di Firenze, in vista di appostamenti da fare in campagna.

Nella parte posteriore si trovavano due strapuntini che obbligavano i passeggeri a sedere dando la schiena all’esterno e pesanti tendine di stoffa verde scuro impedivano qualsiasi visuale: in sostanza sembrava di viaggiare chiusi in una cassaforte. Il motore, per quanto generoso, era del tutto inadeguato rispetto al peso del veicolo e lo sforzo per muoverlo produceva velocità risibili, ma quantitativi consistenti di fumi.

Lo guidava Franco, che era stato per qualche anno autista di De Gennaro, ma che ora era in Sezione con me, e per il primo viaggio mi erano stati affiancati, ad abundantiam, due “anziani” dell’ufficio, Totò e Nicola; ci seguiva, a distanza, un’Alfa 33 di copertura senza contrassegni.

Dall’ufficio chiamai il numero della caserma che mi avevano dato il giorno prima, e fornii tipo e targa dei veicoli, anche se, a pensarci bene, la targa del Westfalia era del tutto superflua: penso proprio fosse l’unico in circolazione, così combinato, sulle strade del mondo. Quella mattina conobbi Francesco Marino Mannoia; io avevo esperienza solo di balordi di borgata romana, che si somigliano un po’ tutti: parlata strascicata, sfottente, quasi desiderosi di aderire il più possibile all’immagine malavitosa che li ispira.

Di mafiosi o per meglio dire di uomini d’onore, invece, nessuna esperienza diretta. Com’è un mafioso? Finalmente ne conosco uno di persona: arriva in silenzio, serio, preceduto da due agenti e seguito da altri due: il Maggiore Ragosa fa prendere in carico l’autorizzazione permanente al prelevamento, fa annotare l’orario sul registro e procede alle presentazioni.

Mannoia mi chiede conferma del mio grado, “ispettore”, e da quel momento si rivolgerà sempre a me con quello, in presenza di altre persone, sempre e soltanto dandomi un lei, ovviamente ricambiato. Mi scruta, quasi a pesarmi, poi senza parere, ma con attenzione, osserva i colleghi che sono entrati con me: mi chiede se saremo sempre gli stessi. Gli do piena assicurazione per quanto riguarda la mia persona, e una generica conferma per gli altri che di volta in volta mi accompagneranno.

Mi chiede anche se fra noi ci siano dei siciliani. Gli dico che nel nostro ufficio ce ne sta qualcuno, ma nessuno che sia impegnato nei servizi che lo riguardano direttamente: sembra soddisfatto, e me ne domando per un attimo la ragione. Mi guardo bene dal porgli domande, dal familiarizzare: col tempo si vedrà se è il caso. Il volto è scuro, pensieroso, e mi sembra giusto evitare chiacchiere: ho l’incarico di scortarlo e di tutelarne l’incolumità, a quello mi devo attenere.

DAL LIBRO "IO, SBIRRO A PALERMO" DI MAURIZIO ORTOLAN

La scorta al “superpentito”, molta riservatezza e itinerari sempre diversi. DAL LIBRO "IO, SBIRRO A PALERMO", DI MAURIZIO ORTOLAN su Il Domani il 03 gennaio 2023

Il lavoro quotidiano di scorta, comunque, lo pianificavo e lo eseguivo con scrupolo, per quanto mi era possibile: cambiare itinerari, sfalsare orari, evitare di dare troppo anticipo nelle comunicazioni telefoniche, ma più di questo, obiettivamente, non si poteva fare, e dopo i primi giorni affrontai il discorso proprio con Mannoia.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Io, sbirro a Palermo” di Maurizio Ortolan pubblicato per Melampo nel 2018 con la prefazione di Alessandra Dino e sarà ristampato per la Zolfo Editore alla fine di gennaio 2023.

Con qualche perplessità prendiamo posto sul camper. Sono il capo scorta e mi metto di fianco a Franco che lo guida, o meglio intavola trattative non sempre pacifiche con lo sgraziato e pesante veicolo per convincerlo a riportarci in ufficio. Nicola e Totò, gli “anziani” che mi hanno affiancato per l’occasione, si sistemano dietro, con Marino Mannoia.

Nicola si accende una sigaretta, mentre Totò, cullando in braccio il suo M12, si sistema in precario equilibrio su una sedia da ufficio, di quelle con le ruote, che ha posizionato tra la parte furgonata e lo spazio anteriore: due pessime iniziative, davvero incaute!

Poche centinaia di metri e i tre seduti dietro iniziano a dare evidenti segni di malessere: tra il fumo della sigaretta, subito spenta ma ristagnante, la mancata ventilazione, l’effetto distorcente dei vetri blindati uniti al beccheggio del mezzo, e nonostante la velocità più che moderata, da dietro mi arriva un crescente coro di lamentele. Apriamo tutto ciò – poco – che è possibile aprire, Totò abbandona la sedia, mi affida l’M12 che nascondo ai miei piedi e ci raggiunge davanti, dove si accascia su uno strapuntino.

Di domenica, per fortuna, le strade sono sgombre, per quanto possano esserlo le strade romane in una mattinata di ottobre, e arriviamo in ufficio. Mannoia durante il percorso non si è mai lamentato, ma appena sceso, prima ancora di arrivare all’ingresso, mi chiede, pallido e preoccupato, se abbiamo davvero intenzione di rientrare con lo stesso mezzo.

Glielo escludo (e tra me penso che se qualcuno si oppone posso sempre invocare i motivi di sicurezza e l’opportunità di diversificare i mezzi tra l’andata e il ritorno), e i visi e le espressioni di Totò e Nicola mi confortano sulla saggezza della decisione: tutti e due dichiarano solennemente che non ripeteranno l’esperienza.

Penso che dopo tutto la mia Dyane è sempre parcheggiata fuori e già conosce la strada, e se la riservatezza è quella che conta, allora portare un detenuto ad altissimo rischio a spasso su una Dyane sarebbe una soluzione non disprezzabile. Appena entrato in ufficio, accompagno Mannoia fino alla porta dell’ufficio di De Gennaro, dove è già arrivato il giudice Giovanni Falcone.

Lo avevo già incrociato in altre occasioni, a Roma, sempre lì in ufficio, ed è la prima volta che lo vedo così da vicino, dopo averne tanto sentito parlare, ma neanche mi guarda, sembra impaziente ed è concentrato su Mannoia. Deposito le armi lunghe nell’armadio corazzato e mi organizzo per il ritorno.

Ma c’è tempo: sarà una lunga domenica di attesa, dopo aver riportato Mannoia a Casal del Marmo a tarda sera, tornerò verso le undici in ufficio, e a casa poco prima della mezzanotte. Come inizio non c’è male, mi dico, ma il ritorno almeno lo abbiamo fatto con una Fiat Croma blindata e senza problemi: Mannoia si è lamentato per il mal di testa e ha chiesto se è possibile procurargli della Novalgina, in vista dei successivi impegni. […].

UN LAVORO METICOLOSO

Il lavoro quotidiano di scorta, comunque, al di là di ogni considerazione sulla sopravvalutazione dei rischi che in cuor mio pensavo avessero fatto tanto Manganelli quanto Falcone, lo pianificavo e lo eseguivo con scrupolo, per quanto mi era possibile: cambiare itinerari, sfalsare orari, evitare di dare troppo anticipo nelle comunicazioni telefoniche, ma più di questo, obiettivamente, non si poteva fare, e dopo i primi giorni affrontai il discorso proprio con Mannoia.

Signor Mannoia, – esordii – ormai è diversi giorni che facciamo questa vita, ha visto le nostre tecniche e le nostre abitudini… lei è stato un sacco di tempo dall’altra parte, ma adesso se succede qualcosa succede a tutti… perciò se ha consigli, se ha suggerimenti, se ha perplessità, non si faccia scrupolo a parlarne e se ne discute insieme, per la sicurezza di tutti.

Quel giorno credo di essermi guadagnato qualche punto di fiducia, dimostrando ragionevolezza e rispetto per il “nemico”, e tra l’altro il suo parere tecnico mi interessava davvero, specie dopo aver letto il verbale in cui proprio Mannoia aveva raccontato di quando Cosa nostra aveva pianificato l’attacco alla caserma di polizia di Palermo, dove qualche anno prima era stato momentaneamente custodito Salvatore Contorno Salvatore “Totuccio” Contorno era un altro “pentito” di Cosa nostra della cui gestione e protezione si era occupato il nostro Ufficio; uomo d’onore, schierato con i cosiddetti perdenti nella guerra di mafia che aveva attraversato la provincia di Palermo e non solo quella, si era alla fine deciso a collaborare con la giustizia, aggiungendo le sue dichiarazioni a quelle di “Masino” Buscetta, il pentito per antonomasia.

Anche lui, come Buscetta, aveva avuto numerosi familiari ammazzati, e quando era stato fatto scendere a Palermo per dare indicazioni su luoghi e persone era stato scortato da personale del nostro Ufficio, ma la cosa evidentemente era trapelata, tanto che Cosa nostra si era determinata a dare l’assalto al Commissariato di San Lorenzo, con quella che doveva essere una vera e propria azione di guerra, alla quale non era stato dato corso solo perché alla vigilia dell’attacco Contorno era stato trasferito altrove.

Mannoia espresse grande considerazione per le capacità di guida di Franco e degli autisti che si alternavano nell’Alfa 33 di appoggio, apprezzò l’attenzione che tutti noi ponevamo durante ogni spostamento, quando per tutto il tragitto non si pronunciava neppure una parola che non fosse strettamente necessaria, ma aggiunse che capacità e attenzione non sono sufficienti se si accompagnano alla ripetitività dei comportamenti e delle procedure, e soprattutto se viene meno la riservatezza.

Parole sagge, anche troppo, che ho tenuto a mente fino all’ultimo giorno del mio servizio in Polizia. Già, la riservatezza: difficile comprenderne il significato, operando in una struttura pubblica, dove l’organizzazione delle competenze è talmente frammentata che per risolvere qualsiasi problema hai la necessità di rivolgerti ad almeno quattro uffici differenti, nei quali trovi zelanti burocrati che pretendono di conoscere per filo e per segno i motivi di ciascuna richiesta, ma per fortuna il Nucleo centrale anticrimine, sotto questo profilo, godeva di ampio credito.

Era una specie di longa manus del capo della Polizia, e un po’ per questo, un po’ per l’aura vagamente misteriosa che lo accompagnava, alcune pratiche logistiche potevano essere svolte senza la necessità di fornire troppe spiegazioni. Così, per noi, tanto per fare un esempio, sui moduli da riempire per il rifornimento delle autovetture le voci “itinerario” e “motivo del servizio” si risolvevano per prassi con la parola Riservato, in barba a chilometriche circolari che ne disciplinavano minuziosamente la compilazione. […].

DAL LIBRO "IO, SBIRRO A PALERMO", DI MAURIZIO ORTOLAN

Stanze piene di fumo e di misteri, i verbali con il giudice Falcone. DAL LIBRO "IO, SBIRRO A PALERMO" DI MAURIZIO ORTOLAN su Il Domani il 04 gennaio 2023

Fumavamo un sacco, in quel teatro, Dunhill o a volte Marlboro Falcone, Ms Marino Mannoia e Camel io; Mannoia ne aveva sempre almeno tre pacchetti, ed era quello che fumava di più, mentre io, dovendo anche scrivere, ero costretto a limitarmi, si fa per dire. Più di una volta Antonio Manganelli, che non fumava, ci rimproverò tossendo, chiedendosi come facessimo invece noi a non morire soffocati.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Io, sbirro a Palermo” di Maurizio Ortolan pubblicato per Melampo nel 2018 con la prefazione di Alessandra Dino e sarà ristampato per la Zolfo Editore alla fine di gennaio 2023.

Insomma, doppio lavoro e doppia tensione: prima nel traffico, poi stando attento a non commettere errori durante la verbalizzazione. Non avevo mai lavorato, fino ad allora, così a diretto contatto con i magistrati, e poi, insomma, parliamo di una quasi leggenda: il dottor Falcone, mica uno qualunque.

Mi auguro che sia bravo a dettare, perché non è che sia cosa facile riassumere un discorso, a volte complesso, in poche righe, e renderlo comprensibile a chi quel discorso non lo ha ascoltato, ma lo leggerà sintetizzato.

Un conto, infatti, è ascoltare una conversazione, della quale cogli i toni, le iperboli, il senso a volte ironico, le sfumature di significato di qualche termine, le incertezze, le pause e le incomprensioni tra gli interlocutori, e un altro conto è restituire, necessariamente in poche parole e in maniera asettica e obiettiva, i contenuti di un discorso.

Beh, Falcone era davvero bravissimo: un grande potere di sintesi e molta attenzione ai particolari da inserire nel racconto, che sono fondamentali per facilitare la successiva ricerca di elementi di riscontro. Le dichiarazioni di un collaboratore hanno una valenza limitata, infatti, o quasi inesistente, se non sono supportate da elementi di riscontro, e di solito chi deve cercare gli elementi a sostegno non ha ascoltato il racconto integralmente; allora diventa importante, nella sintesi di un verbale, introdurre tutti quei dati che possono essere verificati, o smentiti, ma che comunque siano d’aiuto a ricostruire l’evento e a collocarlo nel tempo e nello spazio.

Più tardi, anni dopo, anche a causa delle polemiche intervenute per gli errori di sintesi lamentati un po’ da tutti, si introdusse l’uso di registrare gli interrogatori, innovazione che avrebbe dovuto garantire, almeno nelle intenzioni, la necessaria trasparenza nell’uso giudiziario delle trascrizioni, e ha, invece, solo aumentato la confusione, almeno a parer mio. […] .

LA BRAVURA DEL GIUDICE FALCONE

Falcone, dicevo, era davvero bravo a sintetizzare i discorsi, senza interpretarli e lasciandone inalterati i contenuti essenziali: aveva una scaletta degli argomenti che intendeva trattare nel corso dell’interrogatorio, e se qualcosa di nuovo emergeva in corso d’opera, aggiungeva la voce alla scaletta, o annotava a parte. Mannoia parlava e, grazie a una memoria che aveva del prodigioso, ricordava con precisione e con dovizia di particolari, mentre il giudice prendeva qualche appunto.

Finito il racconto, Falcone dettava la sintesi, e io ero anche facilitato, nello scrivere, avendo appena finito di ascoltare Mannoia stesso. Devo dire che il timore reverenziale che avevo pensato di provare quando Francesco Gratteri mi aveva preannunciato l’incarico supplementare di estensore di verbali si era rapidamente dissolto; e poi, tra lo stare per ore nella stanzetta a giocare a carte e l’assistere da un posto di prima fila alla rivelazione di fatti, relazioni, eventi che avevano costituito prima di allora solo oggetto di speculazioni e di ipotetiche ricostruzioni, beh, non c’era proprio paragone! Storie vere di fatti eclatanti, di fatti di vita e di sangue, racconti che suscitavano angoscia, sgomento, pietà, incredulità; a volte persino divertenti, in alcuni risvolti.

Falcone era così felice che sembrava un ragazzino: quasi si leggeva, nei suoi occhi attenti, la soddisfazione per la conferma di una sua vecchia intuizione, l’attenzione per l’emersione di un particolare nuovo, o di retroscena neanche immaginabili: era la felicità della scoperta della verità su qualcosa a lui particolarmente caro: Palermo e la Giustizia, la Sicilia e i siciliani.

Non credo che sarebbe stato lo stesso se a interrogare Mannoia fosse stato un magistrato non siciliano: se non sei nato, cresciuto e vissuto in quella terra, fatichi a comprendere situazioni, motivazioni, concause e passioni; Falcone e Mannoia si capivano al volo: da siciliano a siciliano, anzi, da palermitano a palermitano, che è qualcosa ancora di più… Io, invece, a volte mi sentivo un pesce fuor d’acqua: un dilettante dell’antimafia capitato lì per caso. Il 31 ottobre, al secondo giorno di lavoro, nel verbale scrissi Stefano Bontade, anziché Bontate, e mal me ne incolse, perché Falcone mi fulminò: «Chi si occupa di Cosa nostra – disse severo – non può commettere certi errori».

Certo lui non sapeva che io in Sicilia c’ero stato solo un paio di volte, che prima di allora m’ero occupato quasi solo del “pronto intervento” sulle questioni più disparate, mica sapevo, io, di mafia e di antimafia… Però aveva ben presente la diffusione e la pericolosità dell’organizzazione criminale, e sottolineava spesso quanto fosse importante la padronanza di ogni informazione e la conoscenza di ogni dettaglio sul proprio avversario, e giustamente se ne preoccupava anche per conto di quelli che avevano, invece, la propensione a minimizzare. Ignorante ero, sì, di Cosa nostra e dei fatti siciliani, ma mi appassionavo in fretta, tanto che Falcone, che se n’era accorto, quando Mannoia se ne usciva con termini in dialetto stretto, me li traduceva ridendo indulgente, bonario, così come fa un maestro di buona musica che si trova a insegnare a un allievo tanto poco portato per la materia quanto volenteroso e desideroso di apprendere.

Gli interrogatori si svolgevano nel teatro dell’Istituto Superiore; la sala non era molto grande, saranno stati un duecento posti o giù di lì, pesanti tendaggi di velluto, quelli dei cinema di una volta, oscuravano le poche finestre poste in alto e protette da grate metalliche, che si affacciavano sulla strada dalla parte che guardava l’ansa del Tevere; sempre in fondo, sullo stesso lato, si apriva il portoncino dal quale entravamo e uscivamo.

C’erano due accessi interni: quello del pubblico era stato chiuso a chiave e sbarrato, con il pretesto di lavori in corso, e quello di servizio, che metteva in comunicazione il palcoscenico con una scala interna attraverso una piccola saletta dove si andava a sistemare la scorta. Sul palcoscenico la direzione dell’Istituto aveva fatto mettere un paio di scrivanie, poste perpendicolarmente, e ai tre lati sedevamo noi, illuminati da un’unica grande lampadina che pendeva da un filo, in una nuvola di fumo azzurrino e stagnante, mentre il resto del teatro restava in penombra: sembrava una scenografia da film. Dietro di noi, sulla parete, un grande schermo bianco coperto da un drappo.

Fumavamo un sacco, in quel teatro, Dunhill o a volte Marlboro Falcone, MS Marino Mannoia e Camel io; Mannoia ne aveva sempre almeno tre pacchetti, ed era quello che fumava di più, mentre io, dovendo anche scrivere, ero costretto a limitarmi, si fa per dire. Più di una volta Antonio Manganelli, che non fumava, presentandosi con un album fotografico per i riconoscimenti o con qualche comunicazione urgente per il giudice, ci rimproverò tossendo, chiedendosi come facessimo invece noi a non morire soffocati.

Il secondo rimbrotto, da Falcone, me lo presi dopo qualche altro giorno di verbalizzazione, quando scrissi Nino Argano invece di Nino Gargano. Io rileggevo a voce alta il verbale, ogni tanto, quando lui me lo chiedeva per riprendere il filo del discorso là dove si era momentaneamente interrotto per qualche digressione durante l’esposizione, e s’accorse subito dell’errore: – Ma che scrisse davvero “Argano”? – mi chiese, con un lampo di severità negli occhi.

Io di certo timori non ne avevo, tanto più sentendomi nel giusto, e risposi che era scritto così come loro due, e sottolineai tutti e due, l’avevano pronunciato, ma che se era scritto male lo potevo ancora correggere. Intervenne Mannoia, quasi a scusarsi: – Nuantri così lo chiamavamo… Falcone si mise a ridere: – No, no, – disse – si chiama Antonino Gargano, ma u lassasse accussì, ispettore, che sa più di spontaneo e nessuno potrà dire che si tratta di cosa accomodata.

E me lo disse proprio così, in dialetto, dialetto che usava in diverse occasioni con Mannoia, durante gli interrogatori, quasi a sottolineare che la lingua che li accomunava era il miglior ponte possibile tra le rispettive realtà. – E non si preoccupasse, – aggiunse – che prima di delegare gli accertamenti i verbali in ufficio a Palermo me li ripassa Giovanni Paparcuri, e al bisogno ci mette le precisazioni!

A sentire il nome ho un sussulto: Giovanni Paparcuri è un dipendente del Ministero di Grazia e Giustizia che si è miracolosamente salvato, pur rimanendo gravemente ferito, nell’attentato con l’autobomba in cui sono rimasti uccisi, nel 1983, il giudice Chinnici, due uomini della scorta e il portiere dello stabile dove abitava il giudice. Lo conosco solo di nome e di fama, non sapevo che dopo l’attentato non solo avesse continuato a lavorare, ma fosse ancor più impegnato in prima linea: uno da cui imparare, insomma.

DAL LIBRO "IO, SBIRRO A PALERMO" DI MAURIZIO ORTOLAN

La strage di Bagheria, uccise le tre donne di Francesco Marino Mannoia . DAL LIBRO "IO, SBIRRO A PALERMO", DI MAURIZIO ORTOLAN su Il Domani il 05 gennaio 2023

23 ottobre 1989. Francesco Gratteri mi viene incontro sulla porta e mi chiede: – Tutto bene, Maurizio? La domanda mi pare oziosa. Rispondo con un laconico “certamente…”, che faccio seguire da evidenti punti di sospensione, rivolgendo un eloquente sguardo all’ufficio affollato. Non ci gira intorno: – A Bagheria stasera hanno ammazzato la madre, la sorella e la zia di Mannoia – secco. 

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Io, sbirro a Palermo” di Maurizio Ortolan pubblicato per Melampo nel 2018 con la prefazione di Alessandra Dino e sarà ristampato per la Zolfo Editore alla fine di gennaio 2023.

Dopo la trasferta a Regina Coeli riprendemmo a lavorare a pieno ritmo, anche il primo novembre; godemmo di qualche giorno di sospensione dalle attività solo dal 19 al 22, e si ricominciò a verbalizzare il 23. Il 23 novembre del 1989 si presentò come una giornata come altre, freddina, piovosa e con il solito maledetto traffico sul Raccordo Anulare, ma alle nove e un quarto avevo già intestato il verbale e iniziammo a scrivere.

Verso la fine della mattinata arrivarono De Gennaro e Alessandro Pansa con un album fotografico; già altre volte era successo, in precedenza, che venisse qualcuno a portare carte, o che De Gennaro si affacciasse un momento a vedere come procedeva, ma stavolta Falcone mi fece dare atto nel verbale della presenza dei due funzionari, che si trattennero fino alla fine della mattinata.

Il pomeriggio trascorse senza ulteriori novità, la scorta di ritorno al carcere di Casal del Marmo si svolse senza incidenti e la sera alle dieci eravamo di ritorno in ufficio, in viale dell’Arte. Quando tornavamo a quell’ora, di solito trovavamo ad aspettarci soltanto il piantone e un collega della segreteria che ci faceva riporre negli armadi blindati gli M12 e i giubbotti antiproiettile, ma già arrivando al cancello quella sera capii che qualcosa non quadrava.

Il parcheggio interno era pieno di macchine, dentro tutte le luci erano accese, e in ufficio c’era un sacco di gente, facce scure, espressioni preoccupate. Inusuale. C’è anche Francesco Gratteri, che mi viene incontro sulla porta e mi chiede: – Tutto bene, Maurizio? La domanda mi pare oziosa: siamo lì, quindi mi sembra ovvio che non ci siano stati problemi. Rispondo con un laconico “certamente…”, che faccio seguire da evidenti punti di sospensione, rivolgendo un eloquente sguardo all’ufficio affollato.

Non ci gira intorno: – A Bagheria stasera hanno ammazzato la madre, la sorella e la zia di Mannoia – secco. Il mio primo pensiero va alle parole di Antonio Manganelli, quando con espressione improvvisamente seria, poco più di due mesi prima, ci aveva detto: ragazzi, qui si muore! – Quando è successo? – chiedo. Mi faccio due conti: hanno preferito che Mannoia venisse informato dal Maggiore Ragosa, e mi dico che probabilmente avrei fatto anch’io lo stesso: dopotutto il rapporto con noi della Polizia è un rapporto di lavoro, formale, mentre paradossalmente il carcere è la “casa” e i secondini sono la “famiglia”.

Faccio mettere a posto le armi e aspettiamo disposizioni: poco prima di mezzanotte Gratteri mi dice che per il giorno dopo il servizio è confermato. L’indomani mattina, alle sei, al posto della solita blindata e della 33 di scorta abbiamo tre auto blindate e in armeria ci fanno trovare gli M12 con i caricatori doppi e già nastrati: è finita la riservatezza, e lo Stato mostra tutti i muscoli che è riuscito a mettere insieme con il minimo preavviso. A Casal del Marmo, in caserma, attendo Mannoia.

Arriva accompagnato dal Maggiore Ragosa. Il viso è grigio e segnato, ma non vi è traccia evidente di emozioni, gli faccio le condoglianze, che accetta ringraziandomi in maniera composta, e gli chiedo, come mi è stato detto di fare, se se la sente anche oggi. – Un impegno è un impegno – risponde asciutto. Ci avviamo. Il tempo della riservatezza è finito, la scorta da discreta è diventata operativa, non risparmiamo sui segnali e c’è tolleranza zero per chi intralcia il passaggio.

Mi fido della guida di Franco, che sa come farsi largo nel traffico, e non voglio farmi precedere da una delle altre blindate, preferisco vedere prima di tutti quel che ho davanti; dietro, nelle altre due macchine, ci sono otto colleghi: quelli che occupano i posti posteriori stanno seduti di traverso rispetto al senso di marcia, schiena contro schiena, con gli M12 imbracciati: la Polizia non ha saputo evitare la strage, ma adesso si gioca a carte scoperte, dal momento che non se ne può fare più a meno.

Anche a Casal del Marmo hanno alzato i livelli di allerta: incontro auto che pattugliano il perimetro esterno del complesso, mentre all’interno c’è personale in stato di allerta. Mannoia mi dice, con amarezza e insofferenza, che l’innalzamento delle misure di sicurezza ha riguardato anche la sua persona, e che viene inquadrato dalle telecamere senza interruzione.

La cosa non è facile da sopportare, le sue obiezioni sono ragionevoli: non c’è riservatezza neppure per il lutto, bisogna sorvegliare i potenziali nemici, non chi ti sta offrendo la collaborazione, eppure mi rendo conto che allentare le misure appena rafforzate dopo la strage di Bagheria costituirebbe una pesante responsabilità; nessuno se la sente, almeno per ora.

L’OPINEL

In quei giorni capita un altro episodio che fa aumentare il credito di cui godo da parte di Mannoia; siamo in ufficio, al Nucleo, per esigenze investigative, e sto preparando le carte per la scorta dell’indomani: devo fare una fotocopia del provvedimento di Giovanni Falcone che dispone la traduzione per l’interrogatorio e mandarlo per la notifica al difensore.

I fogli sono spillati, la levapunti stenta, fatico a staccare la graffetta metallica che unisce il provvedimento vero e proprio dal frontespizio del fax. Dal cassetto della scrivania tiro fuori il mio coltello Opinel, lo apro e allargo il maledetto punto. Mannoia mi osserva, guarda con interesse il mio Opinel. – Bello! – esclama con convinzione – E accenna ad allungare la mano per guardarlo meglio, ma il gesto si ferma a metà. Sono secondi, frazioni di secondo, non ho tempo per fare valutazioni troppo ragionate.

Siamo soli nella stanza, all’interno del Nucleo Centrale Anticrimine, la finestra è chiusa anche con una grata metallica e un’evasione mi pare alquanto improbabile, anche se non si può mai dire. Il coltello è di rispettabili dimensioni, chi mi dice che non gli venga in mente di usarlo contro di sé, specie in considerazione dei recenti lutti, della condizione attuale e dell’incertezza del futuro? Sono secondi, frazioni di secondo. Prima che lui abbia il tempo di ritrarre il braccio teso a metà, gli porgo il coltello, dalla parte del manico.

Lo guarda, ne apprezza l’impugnatura di legno lucido, con la scritta trasversale, la lama affilata dalla forma caratteristica. Osserva il meccanismo ad anello che lo mantiene aperto, lo ruota, poi lo chiude accuratamente mettendolo in sicura e me lo restituisce.

Non ci sono state parole, ma capisco che lui sa perfettamente cosa mi è passato per la mente, ha letto i miei dubbi e ha apprezzato la mia decisione di fidarmi. Difficilmente un uomo d’onore commette atti di autolesionismo: nella cultura mafiosa c’è anche l’educazione alla sopportazione e ad accettare le avversità con dignità, ma io non so ancora quasi niente di mafia e del concetto di dignità, ho accettato il rischio e mi sono fidato per istinto, non per calcolo.

Un gesto, è stato solo un gesto, banalissimo agli occhi di un osservatore, ma ha consentito a due persone di spiegarsi e di comprendersi meglio di tante parole.

DAL LIBRO "IO, SBIRRO A PALERMO" DI MAURIZIO ORTOLAN

Una storia dimenticata, quando i boss rubarono la Natività del Caravaggio. DAL LIBRO "IO, SBIRRO A PALERMO", DI MAURIZIO ORTOLAN su Il Domani il 06 gennaio 2023

Il furto del quadro della Natività del Caravaggio fu commesso nel 1969 da un giovanissimo Mannoia, a Palermo, nell’oratorio di San Lorenzo. Il quadro doveva essere rivenduto a un collezionista, forse svizzero, ma dopo essere stato tolto dalla cornice era stato malamente arrotolato e caricato su un camion...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Io, sbirro a Palermo” di Maurizio Ortolan pubblicato per Melampo nel 2018 con la prefazione di Alessandra Dino e sarà ristampato per la Zolfo Editore alla fine di gennaio 2023.

Un altro episodio che manca, sempre nei verbali, ma per altri motivi, è quello del furto del quadro della Natività del Caravaggio, commesso nel 1969 da un giovanissimo Mannoia, a Palermo, nell’oratorio di San Lorenzo. Il quadro doveva essere rivenduto a un collezionista, forse svizzero, ma dopo essere stato tolto dalla cornice era stato malamente arrotolato e caricato su un camion, e al momento di presentarlo all’acquirente ampie porzioni della pittura si erano irrimediabilmente staccate.

Il collezionista – raccontò Mannoia – non si dava pace e aveva iniziato a piangere e a inveire contro gli sciagurati ladri, tanto che qualcuno degli uomini d’onore presenti era intenzionato a strangolarlo seduta stante. Quel che restava del quadro era stato portato sul fiume Oreto e bruciato.

All’inizio di ogni interrogatorio Falcone stilava una specie di programma degli argomenti che intendeva affrontare, ma naturalmente durante i racconti le digressioni erano frequenti; Falcone, allora, prendeva nota del fatto nuovo che era emerso, ed esaurito il tema principale lo metteva in coda, per riprenderlo a fine verbale, anche solo come accenno, o dopo qualche giorno.

Nel caso specifico del quadro, disse che sarebbe tornato con il collega, il pubblico ministero che aveva in carico il fascicolo del fatto, per un interrogatorio che doveva essere dedicato a quel solo episodio, ma ciò non accadde, ed io non so perché, ma so che diversi anni dopo, quando in occasione di un altro interrogatorio Mannoia, tornato in Italia, raccontò nuovamente di quel fatto, ci fu qualcuno che gli contestò di non averne parlato prima, vista l’importanza. Ma lui ne aveva parlato, eccome! E poiché Falcone ormai era morto, un carabiniere venne a interrogare me, unico testimone diretto del suo primo racconto di quell’episodio.

LE INDAGINI

I Carabinieri hanno un reparto specializzato nella tutela dei beni culturali, e molti di loro, e non solo loro, sono tuttora convinti che Mannoia sia in errore e abbia fatto riferimento, invece, a un altro quadro simile, rubato sempre a Palermo in quegli anni, ma anche l’ultima volta che l’ho incontrato, quando gli ho riferito delle perplessità che ripetutamente riemergono e vengono riportate dai giornali, lui mi ha ribadito, con assoluta certezza, che si trattava proprio della Natività del Caravaggio e che “se qualcuno non ci credeva, se lo poteva continuare a cercare”.

Anche qualche altra cosa non è presente nei verbali, qualcosa volutamente omessa, omessa nel senso di “messa da parte” da Falcone. Recentemente, negli uffici che furono di Falcone, a Palazzo di Giustizia di Palermo, nel riordinare vecchie carte Giovanni Paparcuri ha ritrovato un biglietto manoscritto da Falcone, nel quale c’è anche il nome di Berlusconi.

Durante gli interrogatori ogni tanto il racconto di un fatto ne evocava un altro, a volte analogo, altre volte richiamato alla memoria da qualche associazione di idee, e fu ciò che accadde un giorno, un giorno in cui si parlava di grosse estorsioni di Cosa nostra e di pagamenti sistematici e ricorrenti.

Fu così che si arrivò a parlare anche dell’imprenditore Silvio Berlusconi, che versava quote regolarmente alla famiglia di Santa Maria di Gesù, e Falcone, mentre ascoltava Mannoia interrompendolo solo di tanto in tanto con qualche domanda, annotava i punti salienti. Alla fine chiese: – Ma di questo è possibile trovare riscontri? Mannoia si strinse nelle spalle, e rispose: – Riscontri… Cosa nostra non è come un’assemblea di condominio, che si fanno verbali. Non so che riscontri si possono trovare.

Falcone si fermò a riflettere, e pesando le parole aggiunse: – Noi, ora, abbiamo la necessità di arrestare, e presto, quelli che sono fuori e che vanno sparando; indagini lunghe per adesso non se ne possono fare e se infiliamo dentro cose non riscontrate rischiamo che ci fanno passare per matti e non arrestiamo nessuno. Mannoia assentì, e Falcone riprese a dettare il verbale.

Altro non so, non voglio e non posso dire, ma so che tutto quanto Mannoia ha riferito e confessato è stato valutato da chi doveva farlo, da chi ne aveva la potestà e la responsabilità per il ruolo rivestito e tanto mi basta, da cittadino e da poliziotto, e sono contento che sia stato ritrovato quell’appunto, tra le carte del giudice, a testimonianza di un momento così particolare.

E a proposito di riscontri, e dell’importanza che veniva loro attribuita da Falcone, mi tornano alla mente altri particolari; Mannoia aveva parlato a lungo del traffico di droga, dell’importazione dalla Turchia di morfina base, della trasformazione in eroina e delle spedizioni verso il mercato nordamericano.

Nel narcotraffico lui aveva un ruolo importantissimo, quello del chimico, il responsabile della trasformazione della morfina, e aveva descritto a un curiosissimo Falcone le diverse fasi della lavorazione di centinaia di chili di morfina. – Se le procurassimo tutto l’occorrente, lei sarebbe in grado di raffinare eroina? Restiamo perplessi, pensiamo a una battuta, non ne comprendiamo il motivo. Io già immagino i milioni di problemi burocratici da affrontare per fare una cosa che non aveva precedenti.

Mannoia accenna a problemi pratici: – Sì, potrei… ma dove, qui? Ma immagina la puzza… dottore Falcone, io già arrestato sono, ma lei ci vuole fare arrestare tutti quanti e lei per primo… Falcone ride, ci pensa, fa una smorfia, poi riprende, con una punta di rammarico: – S’immagina l’importanza e la valenza di un riscontro del genere? Negli Stati Uniti non ci penserebbero due volte a farglielo fare, ma da noi effettivamente ci potrebbero essere difficoltà… E il discorso finì lì, con mio visibile sollievo: già facevo la scorta e scrivevo i verbali, e aggiungerci il ruolo di aiuto chimico raffinatore di eroina francamente mi sarebbe parso troppo! Come dio volle, i sopralluoghi a Palermo finirono e arrivò finalmente l’11 dicembre.

Dalla prima mattina sentimmo gran rumore di macchine che venivano allontanate dalla piazza d’armi della caserma, ove erano solitamente parcheggiate. A piazzale finalmente sgombro, arrivò un elicottero che ci prese a bordo e ci riportò a Boccadifalco, dove ci aspettava l’Observer dell’andata, per un pacifico ritorno a Pratica di Mare.

Arrivai a casa a tarda sera, decisamente stanco, ma con la prospettiva di una settimana di riposo, che francamente pensavo di meritare, per i tre lavori che avevo fatto negli ultimi giorni: quello della scorta, quello dei verbali e quello dell’agente di custodia con i turni di 24 ore.

DAL LIBRO "IO, SBIRRO A PALERMO", DI MAURIZIO ORTOLAN

A scuola di antimafia, come i pentiti svelano i segreti dell’organizzazione. DAL LIBRO "IO, SBIRRO A PALERMO", DI MAURIZIO ORTOLAN su Il Domani il 07 gennaio 2023 • 19:00

Anche tra noi c’è chi guarda a Mannoia con sufficienza, addirittura con fastidio e disprezzo, eppure i risultati della sua collaborazione sono lì, sotto gli occhi di tutti, e ad aprile arriva anche la ciliegina sulla torta: l’arresto di Giuseppe Lucchese, “Lucchiseddu”, assassino per conto di Cosa nostra e latitante. Lo arresta, a Palermo, Franco Gratteri, grazie anche a indicazioni fornite da Mannoia.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Io, sbirro a Palermo” di Maurizio Ortolan pubblicato per Melampo nel 2018 con la prefazione di Alessandra Dino e sarà ristampato per la Zolfo Editore alla fine di gennaio 2023.

I servizi di scorta riprendono, con ritmo pressoché quotidiano, dal 16 gennaio; Falcone sale da noi con minore frequenza, ma vengono pubblici ministeri di Palermo e giudici istruttori siciliani e non solo; non si va più all’Istituto Superiore in viale Marconi, e i verbali si fanno solo da noi, in viale dell’Arte. Qualche volta i magistrati vengono con i funzionari di polizia o con gli ufficiali dei carabinieri che hanno svolto le indagini e i verbali se li scrivono per conto loro, ma il più delle volte scrivo io. Per l’ufficio passano magistrati anche stranieri, che interrogano per rogatoria; ricordo il giudice Sampieri, di Marsiglia, a dimostrazione delle dimensioni sovranazionali assunte da Cosa nostra e dell’importanza di una testimonianza resa dall’interno. […].

All’inizio di febbraio arriva la notizia che si dovrà scendere di nuovo a Palermo, Mannoia non la prende bene: l’impegno di gennaio non è stato affare di poco conto, e non solo per lo spavento del viaggio di andata. C’è qualche riunione burrascosa, al nucleo, ma non ci si può rifiutare di andare, e stavolta il mezzo scelto per il viaggio è il migliore tra quelli possibili: un piccolo jet del Cai, la compagnia aerea dei servizi segreti che organizza e gestisce i voli di stato, con partenza e arrivo nello stesso giorno dall’aeroporto di Ciampino; stavolta non sono chiamato in causa, mi tocca solo la solita scorta, da Casal del Marmo a Ciampino e il ritorno, a tarda sera. Meglio così.

Gli incontri con gli emissari americani si fanno più frequenti, pare che non ci siano ostacoli al trasferimento del “pentito” negli Stati Uniti e al suo inserimento nel loro programma di protezione dei testimoni: era tempo!

INFORMAZIONI UTILI

Per quanto mi riguarda io sono davvero stanco, anche se a metà marzo finalmente arriva il provvedimento che concede a Mannoia il beneficio degli arresti domiciliari: niente più Casal del Marmo, niente più blindate, si torna alla riservatezza di un domicilio scelto abbastanza vicino al nostro ufficio e conosciuto da pochissime persone, e a spostamenti fatti con auto che non diano troppo nell’occhio.

Mi auguro che arrivi presto l’ora della partenza: sono stanco anch’io, dopo otto mesi di questa vita, siamo tutti stanchi, al Nucleo, e alcuni faticano a mantenere quell’atteggiamento asettico e distaccato che si impone. Tra noi c’è chi semplicemente non si è mai posto il problema: fare una scorta, un servizio di vigilanza, ascoltare un’intercettazione o eseguire un arresto è semplicemente parte del lavoro, e non se ne fa una questione di gradimento.

Qualcuno apprezza diversamente il contributo che può dare un “pentito”, valuta il risparmio di risorse che si ottiene limitandosi a dover cercare riscontri alle dichiarazioni invece di avviare indagini da zero, valuta il peso dei crimini scoperti e puniti e di quelli evitati arrestando delinquenti in libertà, ma c’è anche chi manifesta abbastanza apertamente diffidenza e insofferenza nei confronti delle collaborazioni processuali.

La Polizia è caratterizzata da un forte senso di appartenenza, ritenuto un valore in senso assoluto, al punto che la solidarietà e il reciproco sostegno prevalgono talvolta sulla valutazione obiettiva di avvenimenti e circostanze; l’importanza attribuita a questo valore supera spesso ogni altra considerazione, e accade, così, che il giudizio negativo e il disprezzo nei confronti di chi lo tradisce o non vi adempie pongano in secondo piano elementi oggettivamente rilevanti: chi tradisce è infame per definizione, secondo alcuni, e poco importa se tradisce per necessità, per convenienza o persino in nome di un principio morale più importante.

Quasi nessuno, poi, si interroga sul dramma interiore che ogni collaboratore ha dovuto affrontare, sui tragici avvenimenti che hanno preceduto, accompagnato e fatto maturare il proposito di collaborazione, ma questo va bene, secondo me: siamo poliziotti, per fortuna, non giudici, e, come amava ripetere spesso Peppe Zannini Quirini, il primo funzionario che ho avuto come diretto superiore al nucleo centrale anticrimine: “siamo tutti peccatori”.

Anche tra noi c’è chi guarda a Mannoia con sufficienza, addirittura con fastidio e disprezzo, eppure i risultati della sua collaborazione sono lì, sotto gli occhi di tutti, e ad aprile arriva anche la ciliegina sulla torta: l’arresto di Giuseppe Lucchese, “Lucchiseddu”, assassino per conto di Cosa nostra e latitante. Lo arresta, a Palermo, Franco Gratteri, grazie anche a indicazioni fornite da Mannoia.

I pentiti sono utili, anzi utilissimi: non soltanto perché fanno luce sugli assetti, sulle strategie e sui metodi delle organizzazioni criminali, non soltanto perché indicano i responsabili di crimini che altrimenti resterebbero insoluti e impuniti (fermo restando che sta a noi trovare gli indispensabili riscontri), ma anche sul piano dell’investigazione pura, quando danno quelle indicazioni, sia pure generiche, che solo chi ha vissuto dentro l’organizzazione conosce.

È il caso dell’arresto di “Lucchiseddu”, il primo dei latitanti di spicco catturati dal Nucleo Centrale Anticrimine dopo il mio arrivo. Vedo tornare a Roma i colleghi che hanno partecipato all’indagine, agli appostamenti e alla cattura; provo una punta di invidia: a tutti piace recitare parti da protagonista, raccontare in prima persona l’emozione del successo, le sensazioni, le ansie, i dubbi che lo hanno preceduto, e inevitabilmente restano in secondo piano, o sullo sfondo, quelli che non hanno storie avvincenti da raccontare.

Chi conosce il lavoro di Claudio e Marco, che dal primo giorno si sono adoperati in ogni modo per soddisfare le mille esigenze del nucleo familiare di Mannoia? Chi può raccontare l’impegno e la dedizione di Giovanna, fresca di corso agenti, appena arrivata da noi e assegnata alla segreteria?

Le hanno affidato le chiavi degli armadi blindati, arriva prima di noi, all’alba, per consegnarci armi e giubbotti antiproiettile; ci aspetta ogni sera per riprenderli in consegna e si occupa di tutta la parte burocratica. Ma si sa: il pubblico vuole immedesimarsi nel protagonista, e – siccome l’uomo è vanitoso per natura – sono in molti quelli che sgomitano per guadagnarsi il posto sul palcoscenico. […].

UN’INDICAZIONE “UTILE”

Franco Gratteri torna da Palermo giustamente soddisfatto, chiede a Mannoia se può dare indicazioni utili anche su Bernardo Provenzano, ma Mannoia non lo conosce di persona, e si limita a dirgli che secondo lui andrebbe cercato non distante da Bagheria, che è sempre stata la sua roccaforte. Era l’aprile del 1990 e molti anni dopo, nel 2005, con il “gruppo Duomo” proprio da Bagheria abbiamo ripreso il filo che ci ha portato ad arrestarlo.

Nel “gruppo Duomo” c’ero anch’io, ma questa è un’altra storia, e la racconterò più avanti. Arriva l’ufficialità: Mannoia partirà a metà giugno, con modalità segrete, e due di noi lo accompagneranno: è un viaggio premio, o poco più. I capi mi chiedono se sono interessato.

È curioso, – rifletto – quando si trattava di scendere a Palermo con l’Observer non me l’ha chiesto nessuno se fossi interessato. Ma non ho lo spirito adatto per fare polemiche, così rispondo solo di no. L’11 giugno ricevo dal Ministero un “encomio solenne”, con la seguente motivazione: «Preposto alla squadra incaricata di tutelare l’incolumità personale di un noto “pentito eccellente”, già uomo di punta di una famiglia mafiosa palermitana, si è particolarmente distinto nell’assolvimento del delicato, difficile e rischioso compito, attesane la rilevanza connessa allo spessore del personaggio che con la dirompente decisione di collaborare con la giustizia rendeva possibile incrinare il fronte della fazione al vertice di Cosa nostra».

Leggo e rileggo: peccato, nessun riferimento alle centinaia di pagine di verbali scritti tra una scorta e l’altra, ma per fortuna qualcuno al Ministero ha aggiunto, e stavolta ufficialmente, all’encomio solenne altre cinquecentomila lire, vale a dire un terzo esatto del mio stipendio mensile.

Ripenso ai verbali: ho ascoltato il racconto, ho ascoltato le osservazioni e le considerazioni di Falcone e di Mannoia, spesso convergenti nell’individuazione di cause, motivazioni, retroscena e difficoltà della Sicilia e dei siciliani. Ho ascoltato e ho scritto, e scrivendo ho imparato qualcosa: ho imparato soprattutto ad avere dubbi. Ho imparato che la linea che divide il bene dal male non è sempre così netta, anche perché bene e male sociali spesso si intrecciano e si confondono nel bene e nel male personali.

Settimana dopo settimana ho imparato che per ogni azione bella o brutta non esiste quasi mai una sola causa che la determina, e che perfino gli omicidi che appaiono di facile lettura possono avere motivazioni nascoste, da mantenere in ombra addirittura nell’organizzazione mafiosa che li ha fatti commettere, o che li ha commessi per una inconfessabile convergenza di interessi.

Ho imparato che difficilmente, quando si muore, si muore per una sola causa diretta, e che in Sicilia quelli che sono morti solo ed esclusivamente per la loro opposizione alla mafia, alla mafia come metodo, sono molti meno di quelli che risultano nei conteggi ufficiali.

Ho imparato che le organizzazioni umane, tutte le organizzazioni umane, seguono un percorso sempre uguale, che le porta a deteriorarsi fino a crollare e a essere soppiantate da altre, e che l’inizio del loro declino coincide, sempre, con il momento in cui le regole che loro stesse si sono date iniziano a prevedere eccezioni via via più estese.

Ho imparato, infine, a non affrettare i giudizi, perché scegliere tra il bene e il male comporta diverse difficoltà e meriti diversi a seconda dell’ambiente in cui si è nati e cresciuti, degli esempi che si hanno avuti da bambini, dei modelli culturali di riferimento e dell’istruzione che si ha avuto la fortuna di avere. […].

DAL LIBRO "IO, SBIRRO A PALERMO", DI MAURIZIO ORTOLAN

Missione in Germania, alla ricerca di un mafioso calabrese. DAL LIBRO "IO, SBIRRO A PALERMO", DI MAURIZIO ORTOLAN su Il Domani l’08 gennaio 2023

Mi siedo e accendo una Camel: in ufficio, si sa, fumano quasi tutti, fumiamo quasi tutti: i tempi dei divieti sono di là da venire. Chiude il telefono e mi porge il foglietto: sopra c’è un nome e un cognome. – Vedi se riesci a identificarlo, è un calabrese, dovrebbe essere latitante per omicidio, cosa di diversi anni fa, al nord.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Io, sbirro a Palermo” di Maurizio Ortolan pubblicato per Melampo nel 2018 con la prefazione di Alessandra Dino e sarà ristampato per la Zolfo Editore alla fine di gennaio 2023.

Squilla il telefono, è Gratteri: – Maurizio, vieni un minuto? Quando chiama il capo ma non hai fascicoli importanti in trattazione ti incammini e intanto ti domandi cosa bolle in pentola.

Forse vogliono riprendere le intercettazioni per catturare i latitanti del sequestro di Esteranne Ricca? O non sarà qualcosa che riguarda Palermo? – Eccomi, doc. È al telefono, mi fa cenno di sedermi, sta scrivendo un appunto su un foglietto. Mi siedo e accendo una Camel: in ufficio, si sa, fumano quasi tutti, fumiamo quasi tutti: i tempi dei divieti sono di là da venire.

Chiude il telefono e mi porge il foglietto: sopra c’è un nome e un cognome. – Vedi se riesci a identificarlo, è un calabrese, dovrebbe essere latitante per omicidio, cosa di diversi anni fa, al nord. E fai prendere il cartellino fotosegnaletico alla Scientifica – aggiunge, dando per scontato che io ci riesca. Non dico niente, prendo il foglietto, trascrivo il nome e compilo la richiesta per il casellario di identità della scientifica, lasciando in bianco la data di nascita.

Chiamo Franco, sempre lui, e gli dico di prendere una macchina e iniziare ad andare in Direzione, quando sarà lì mi chiamerà e conto di dargli le generalità complete. Vado da Gioacchino. Gioacchino è una sicurezza: lo trovi sempre alle prese con i terminali a fare accertamenti negli archivi: ha le password di accesso per tutti gli schedari e gli archivi informatici ai quali la polizia è abilitata ad accedere, e se ne sa servire come nessun altro.

I terminali non sono veloci come nei telefilm delle serie americane, e le risposte non sono esattamente immediate, ma con i dati che gli metto a disposizione in cinque minuti ho la risposta: la data di nascita, gli estremi della condanna a venticinque anni per l’omicidio a scopo di rapina di un ragioniere, a Torino.

Chiamo Franco che nel frattempo è arrivato in archivio e gli dico di prendere anche il fascicolo, oltre alla foto. Tempo mezz’ora e mi riaffaccio alla porta di Gratteri. – Ecco, doc, – gli porgo le carte e la foto – dovrebbe essere questo.

PARTENZA PER LA GERMANIA

Guarda la foto con attenzione, e con un certo disappunto. – Una più recente non c’era, eh? – sacramenta. Alzo le spalle: la foto ha più di venti anni, ma non mi meraviglio, se lui si è dato latitante prima della condanna, difficile che ce ne siano di più recenti. – Tu te la cavi col tedesco? – ride.

Mi viene in mente quando si è informato sulle mie capacità di dattilografo, ma stavolta posso rispondere a cuor leggero senza dover aggiustare la realtà. – Zero, doc. Con l’inglese posso sopravvivere, ma di tedesco sono digiuno… – categorico e senza esitazioni. Stavolta non ci sono santi, non sarà cosa che mi riguarda – mi rassicuro. – Vabbe’ non fa niente, tanto vai con Filippo Miceli, il nostro Ufficiale di Collegamento a Wiesbaden… Ecco, appunto, mi pareva! – Scusi, ma andare dove? E quando? – obiezione inutile, lo so da me, ma è parte del copione, è la mia battuta e la recito comunque. – Ce lo hanno segnalato in Germania, – indica la foto – in un posto che si chiama Duisburg, e va a mangiare sempre in un ristorante vicino alla stazione dei treni, gestito da italiani; è basso e ha problemi di vista.

Vai, prendete contatti con i colleghi tedeschi, vi fate due servizi di appostamento, lo arrestate e te ne torni. Poi per l’estradizione se la vede l’Interpol. – Guarda il calendario, pensoso: Pasqua è pericolosamente vicina – Se lo trovi, bene, altrimenti per Pasqua ti faccio rientrare! – paterno e comprensivo.

È il 19 marzo del 1991 e l’ufficio mette in moto la pratica per mandarmi in missione: appunto per il Capo della Polizia… decreto… autorizzazione di spesa… richiesta di anticipo in valuta locale; la burocrazia ha comunque i suoi tempi, a volte anche quando ci sono di mezzo i latitanti, e solo alle 13.35 del giorno 26 sto rullando sulla pista di Fiumicino, con destinazione Francoforte.

Comodamente seduto in coda, zona fumatori, su un aereo della Lufthansa nuovo di pacca e coi sedili in pelle nera profumata che mi trasmettono solide, teutoniche certezze, mi gusto una Camel mentre mi sento scorrere addosso, ancora una volta, il brivido del mio amore per la polizia.

Essere poliziotto è come avere un rapporto con una donna affascinante e capace di offrirti seduzioni sempre nuove: è la mia prima missione all’estero, sono gratificato per la fiducia che il mio ufficio ripone in me, vivo la sensazione dell’attesa, la speranza di riuscire a individuare il latitante, il pensiero delle nuove persone che incroceranno la loro vita con la mia.

Mille volte le ho provate, quelle sensazioni, ogni volta nuove e diverse, alla partenza di ogni missione, eppure fondamentalmente uguali, come un amore che ogni giorno si riscopre, ma in fondo è sempre lo stesso. [...]. Quando vai in missione fuori, all’estero, ti vengono a prendere i colleghi del posto, che ovviamente non conosci, e io mi sono sempre divertito a cercare di individuarli tra le persone in attesa, ma stavolta non sarà così.

Filippo Miceli, il nostro Ufficiale di collegamento presso il Bundeskriminalamt, mi ha dato per telefono sommarie istruzioni: all’interno dell’aeroporto devo seguire le indicazioni per la stazione ferroviaria, che si raggiunge scendendo diversi piani, e lui mi aspetterà lì, al binario del treno diretto a Dusseldorf.

I biglietti li ha già fatti lui, che viene da Wiesbaden, dove ha sede il Bka, e si raccomanda di sbrigarmi, perché non c’è molto tempo tra l’arrivo del mio aereo e la partenza del treno. Mi dico che ce la posso fare: è martedì e conto di rientrare venerdì o sabato, e ho solo bagaglio a mano. In effetti ce la faccio: i tedeschi sono precisi per definizione, e nella segnaletica, in genere, accompagnano un simbolo alla scritta: quello del treno è inequivocabile.

Ci incontriamo al binario, dieci minuti e siamo comodamente seduti su un vagone confortevole e silenzioso.

DUISBURG

Duisburg, oggi, la conoscono tutti quelli che si occupano di ’ndrangheta o di criminalità organizzata, e il nome suona familiare anche a gran parte di coloro che hanno seguito le cronache di nera dell’agosto del 2007, ma nell’aprile del 1991 io non l’avevo mai neppure sentita nominare.

Me ne parla Filippo Miceli, mentre attraversiamo velocemente una Germania grigia, noiosa, piovosa e operosa: siamo nel Land Nordrhein-Westfalen, nel cuore della Ruhr, ci vivono molti italiani, immigrati e figli di immigrati che mantengono solidi contatti con l’Italia, e molti sono anche i legami con la criminalità organizzata italiana; lui se n’è occupato anche poco tempo prima, nelle indagini che hanno portato all’arresto di due dei killer del giudice Rosario Livatino e, aggiunge, proprio dalla zona di Duisburg erano partite telefonate rilevanti per i sequestri Casella e Celadon.

Alla stazione ci viene a prendere il responsabile della Fahndung di Duisburg, l’Oberkommissar della polizia criminale Majewsky, che segue personalmente il caso: sulla cinquantina, occhialuto, di buona stazza, parla un inglese persino peggiore del mio, ma Filippo Miceli, da anni in Germania, padroneggia il tedesco con disinvoltura e al bisogno ci fa da interprete.

Majewsky già prima del nostro arrivo si è dato da fare: ha individuato il ristorante “Da Bruno” e ha fatto fare accertamenti sugli attuali proprietari, su quelli precedenti e sulle persone che ufficialmente risultano lavorarci. Ci spiega tutto durante una cena di benvenuto che ci offre in un altro ristorante gestito da un italiano che lui conosce, e sulla cui affidabilità garantisce.

L’indomani mattina si tiene una riunione nel Polizeipraesidium: c’è anche un esperto di criminalità organizzata italiana, che è arrivato apposta dal Bka per seguire il caso, ma che non sembra godere di grande popolarità tra i suoi colleghi del posto. Non mi meraviglia: tutto il mondo è paese, come si suol dire, e dovunque nel mondo i poliziotti che operano sul territorio guardano con sufficienza e diffidenza a tutti i loro colleghi degli uffici “centrali” o comunque a loro sovraordinati.

Succedeva la stessa cosa a me, quando lavoravo nel Commissariato di San Basilio e guardavo di malocchio i questurini della Squadra Mobile che venivano a ficcare il naso nel “mio” quartiere, ed è la stessa aria che respiro, a ruoli invertiti, ogni volta che mi mandano in missione in qualche Questura italiana, almeno al primo impatto.

Il collega tedesco del Bka si trattiene solo un giorno; la sera ci porta in una discoteca che si sviluppa su diversi piani sottoterra, che lui dice essere frequentata da italiani e sul punto è categorico: se il nostro latitante è da quelle parti, deve per forza frequentare quella discoteca.

Ci passiamo un paio d’ore, ma siamo una compagnia davvero male assortita, puzziamo di sbirro da lontano e il solo risultato che otteniamo è il veloce allontanamento di tutti gli spacciatori e di numerosi dei loro clienti.

L’indomani è il Giovedì santo: passiamo la mattinata all’Ufficio stranieri, che in Germania è gestito dai comuni: i rapporti con la Polizei sono buoni, e ci mettono a disposizione i microfilm con le informazioni sui residenti; la ricerca non è facile e non produce risultati apprezzabili. Offro il pranzo a Majewsky in una steak house argentina, e nel pomeriggio saluto Filippo Miceli, che rientra a casa a Wiesbaden – lui sì – per Pasqua.

Non me lo aspettavo, a dirla tutta… e adesso come faccio? Chiamo Roma e mi informo sulle previsioni di rientro per me. Non prima di sabato, mi fanno sapere dalla segreteria, perché Gratteri dribbla con disinvoltura i miei tentativi di contatto diretto.

La sera Majewsky mi porta nella sede dell’Ipa di Duisburg, un’associazione internazionale di poliziotti, dove mi regalano adesivi e gagliardetti, tra una birra e l’altra. L’età media dei presenti è abbastanza elevata, almeno per i miei standard, pochissime le donne, qualcuno parlicchia inglese e tutti conoscono le inevitabili dieci parole di italiano, che comprendono naturalmente mafia, spaghetti, ’o sole mio e la prima strofa di Volare.

Apprendo qualcosa sull’organizzazione della polizia tedesca: la divisione tra quelli che stanno per strada, in divisa, e quelli che fanno le indagini, in borghese; mi colpisce il fatto che tutte le auto che vengono utilizzate in ciascun Länder sono fornite dalle case automobilistiche stabilite nello stesso territorio: un sistema pratico, come quasi tutto ciò che è tedesco, che ottimizza i risultati e riduce le spese. [...].

Il venerdì Majewsky organizza i servizi di avvistamento nei pressi del ristorante “Da Bruno”, chiedo se posso contribuire ma nicchia: all’estero difficilmente ti fanno partecipare direttamente a qualcosa che ti può esporre a rischio, anche se sei un poliziotto in servizio e in missione: è una responsabilità che non tutti si assumono, e il mio Oberkommissar ci va coi piedi di piombo. Pazienza.

Al ristorante “Da Bruno”

A Duisburg attrazioni turistiche non ce ne sono poi molte, ma il pomeriggio mi portano in una cittadina non troppo distante, Xanten, dove sulla base di pochi sassi sbrindellati i tedeschi sono riusciti a ricostruire un intero accampamento romano: è meta di visite domenicali, una via di mezzo tra gastronomia e cultura. Lodevole l’intenzione e soddisfacente il risultato.

La sera è d’obbligo la cena in un ristorante tipico, in un villaggio di minatori tipico, all’ingresso di una tipica area mineraria che mi appare dismessa. Ovviamente anche il menù è tipico, ricalca l’alimentazione dei minatori: abbondano patate, rape e cipolle.

L’indomani è la vigilia di Pasqua: Majewsky mi invita formalmente a trascorrerla con la sua famiglia, ma mi fa capire che la moglie lo sta pressando per gli acquisti dell’ultim’ora. Mi schermisco, mi invento degli improbabili parenti a Dusseldorf che andrei a trovare, ma l’Oberkommissar è sbirro almeno quanto me e non se la beve: ci accordiamo nel senso che lui dedicherà la vigilia allo shopping e mi verrà a prendere in albergo in serata.

Libero da impegni, mi incammino verso la stazione ferroviaria: sto andando a mangiare “Da Bruno”, voglio guardare con i miei occhi e rendermi conto dell’ambiente: dopo tutto mica me l’hanno proibito, no? Il ristorante si presenta bene, curato, pulito, anche elegante; non c’è molta gente, i camerieri tra loro parlano in italiano. Ho mandato a memoria l’elenco ufficiale dei dipendenti che mi ha dato Majewsky, e mentalmente cerco di individuarli. Al tavolo mi serve un abruzzese che non si pone neanche il problema, mi pesa con un’occhiata e si rivolge a me in italiano.

Assumo la mia espressione più beata e soddisfatta e mi esibisco in una lunga serie di luoghi comuni. All’estero, in qualsiasi parte del mondo, ho sempre accuratamente evitato la cucina italiana, non ho mai chiesto un espresso e mi sono rigorosamente attenuto a usi, costumi e gusti locali; qui mi costringo a fare l’esatto contrario.

Esordisco senza vergogna con espressioni di soddisfazione per aver finalmente trovato un vero ristorante italiano, mi lancio in un’invettiva contro la barbarie delle ricette tedesche, scaglio anatemi contro il Kaffee lungo e bollente che si usa in Germania (che invece apprezzo molto) e concludo invocando un piatto di spaghetti al ragù. Mi accontentano, purtroppo: spaghetti sottili, stracotti, affogati in un brodetto allungato, chiaramente derivato da un prodotto inscatolato.

Al termine del pasto, che mi costa 45 marchi -– anche caro, considerando l’ammontare della mia diaria di missione -– il cameriere mi interroga a puntino. Improvviso: sono a Duisburg ospite da un lontano cugino friulano, ma in realtà devo andare a Dusseldorf, per farmi operare agli occhi ed eliminare la miopia che mi affligge, obbligandomi alle lenti a contatto.

Ci può stare: ho letto che a Dusseldorf c’è un centro specializzato per le operazioni con il laser, e siccome il “mio” latitante pare ci veda poco, m’è venuta l’ispirazione di buttare lì il discorso. Il cameriere commenta: anche lui conosce “uno” che ci vede male ma non vuol portare gli occhiali, con ovvie conseguenze. Starà parlando del latitante? Non azzardo domande, resto quanto più a lungo posso, guardandomi bene intorno. Quando esco individuo i due colleghi tedeschi che stanno facendo osservazione: la strada non è di gran traffico e danno un po’ all’occhio, almeno a me che so della loro presenza, ma pazienza.

Pasqua e Pasquetta dopotutto le trascorro in famiglia, come aveva promesso Gratteri, non nella mia, ma in quella del buon Majewsky. Conosco la moglie, la figlia tredicenne e gli anziani genitori: è una full immersion nel tedesco, e riesco persino a capire, faticosamente e a grandi linee, i temi di qualche conversazione.

Il pomeriggio di Pasquetta mi portano sul battello della Polizia fluviale a fare un giro di pattuglia alla confluenza tra il Reno e la Ruhr.

Il comandante del battello parla il miglior inglese che ho ascoltato finora e mi spiega con pazienza e competenza le problematiche del traffico delle chiatte e i compiti della polizia. La prova più ardua mi aspetta a sera: torniamo nel locale tipico dei minatori e insisto per mangiare il piatto più caratteristico che hanno. Ridono, si consultano tra loro, chiamano il titolare e confabulano; avverto una sottile inquietudine, ma spavaldamente non demordo. Il piatto che mi hanno ordinato lo sento arrivare da lontano, per l’odore… Sono cipolle, solo grosse cipolle tagliate a fette non troppo sottili e fritte – immagino – nello strutto. Beh, penso, ce la posso fare… ma ho fatto i conti senza l’oste, nel senso più letterale del termine, perché torna il proprietario e mi spiega con mimica poco teutonica che le cipolle non vanno mangiate così, ma preventivamente cosparse con il contenuto del barattolo che ha in mano.

Un condimento? Vabbe’… Magari piccante? Non c’è problema: in Calabria ho mangiato lo “stocco” crudo con i peperoncini verdi, figurati se mi lascio impressionare, foss’anche “cren”. Niente di più sbagliato: nel barattolo c’è una sorta di marmellata dolcissima, che una volta spalmata sulle cipolle accende un insanabile conflitto di sapori.

Mi sforzo e mangio la prima fetta, tra le risate dei presenti… azzardo un gut di circostanza mentre tengo saldamente in mano il boccale della birra, unico e prezioso alleato nell’occasione. Ripenso con nostalgia perfino agli immangiabili spaghetti minestrati al ragù che m’hanno propinato al ristorante “Da Bruno”. Alla terza fetta i colleghi si dichiarano soddisfatti, fan portare via il piatto “caratteristico” e mi spiegano, ridendo, che neanche loro riescono a mangiarlo…

L’indomani torna Filippo Miceli ma i servizi di avvistamento, che proseguono, non portano risultati; io vado qualche altra volta a mangiare al ristorante, ma del latitante non c’è traccia. Majewsky nel frattempo ha proseguito nelle indagini, e ha scoperto che agli stessi proprietari fanno capo altri locali nelle vicine città di Essen, Bochum e Kleve. Allora, con lui, ci facciamo il giro dai colleghi dei Polizeipraesidium di quelle città, spieghiamo la faccenda, lasciamo copia della foto segnaletica del ricercato.

Il dieci aprile anche il mio ufficio si convince che tenermi ancora lì serve a poco e mi dicono di rientrare: dovevano essere quattro giorni e sono diventati quindici, senza essere venuti a capo di niente! Sull’aereo ripenso alla missione, all’estrema gentilezza e disponibilità mostrata dai colleghi tedeschi: ho con me nomi, indirizzi, biglietti da visita, ma so bene che non li rivedrò mai più.

DAL LIBRO "IO, SBIRRO A PALERMO", DI MAURIZIO ORTOLAN

Ritorno in Sicilia, la caccia per stanare l’ultimo boss di Corleone. DAL LIBRO "IO, SBIRRO A PALERMO", DI MAURIZIO ORTOLAN su Il Domani il 09 gennaio 2023

L’attività era concentrata sulla famiglia del latitante, avevamo delle microspie e un localizzatore gps sulla Fiat Uno che utilizzava Angelo Provenzano, il figlio maggiore. Sulla stessa macchina, montata dietro la mascherina anteriore, c’era anche una telecamera, che nelle nostre intenzioni ci avrebbe dovuto far vedere i luoghi dove si fermava...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Io, sbirro a Palermo” di Maurizio Ortolan pubblicato per Melampo nel 2018 con la prefazione di Alessandra Dino e sarà ristampato per la Zolfo Editore alla fine di gennaio 2023.

È il 5 marzo del 2005, sono a bordo di un vecchio Super 80 dell’Alitalia prossimo alla pensione, o a una nuova esistenza nel sud del mondo, diretto a Palermo. Sono passati tredici anni da quando mi richiamarono dalle ferie, subito dopo la strage di via D’Amelio; come già successo per la strage di Capaci, anche in quell’occasione pensavo di dover scendere a Palermo, magari di doverci restare a lungo, ma anche quella volta del mio ufficio non scese nessuno, e ci occupammo di altro.

Altro per modo di dire: a novembre del 1992 con le dichiarazioni di Leonardo Messina portammo a termine l’operazione “Leopardo”, a Caltanissetta, poi a Como altri 380 arresti in quella che credo sia ancora la più imponente operazione – per numero di arresti – mai fatta nei confronti della criminalità organizzata di tipo mafioso, le catture di capimafia latitanti del calibro di Giuseppe “Piddu” Madonia e di Nitto Santapaola; poi le indagini per il sequestro Soffiantini e la missione in Australia dove era stato localizzato uno dei responsabili, Giovanni Farina; la missione a Padova e l’arresto del serial killer Michele Profeta e tante altre storie, ciascuna delle quali, da sola, meriterebbe d’essere raccontata per filo e per segno ma ho scelto di riprendere da qui, dal 2005, dal mio ritorno a Palermo, per chiudere il cerchio di quel percorso ideale iniziato scortando un pentito tanti anni prima.

Fino a febbraio ero stato a Siracusa, per collaborare nelle indagini sull’incendio di un pub, del quale la stampa s’era parecchio interessata, ma Gilberto Caldarozzi, nel frattempo diventato il direttore della mia divisione, me l’aveva detto chiaro: – Mauri’, sta partendo un gruppo di lavoro a Palermo con la Catturandi, e io ci metto tutta la tua sezione, tre gruppi di cinque e turni di dieci giorni, la dirige Renato Cortese e dovete iniziare subito. Scegliti il gruppo e organizzati. Nel corso degli anni, prima al Nucleo Centrale Anticrimine e poi al Servizio Centrale Operativo, di funzionari ne avevo visti passare tanti, ma la sostanza era sempre la stessa: loro dicevano una cosa e noi dovevamo solo prenderne atto, almeno inizialmente, ma Caldarozzi era stato mio collega di corso, a Nettuno, nel 1983, e mi ero sempre sentito in diritto e in dovere di opporgli obiezioni, al bisogno. – Doc, – azzardo – ho qualche perplessità. Mia nonna diceva sempre “chiesa grande, devozione poca”, sicuro che dobbiamo scendere tutti? E poi i turni di dieci giorni non sono troppo brevi? Un giorno per andare e sistemarsi, l’ultimo per tornare e ne restano otto… poi uno sta via tre settimane e quando torna si deve andare a rivedere e a rileggere da capo quello che è successo nel frattempo… Non mi contraddice, ed è già tanto: – Senti, se tu vuoi stare fuori turno e rimanere di più non c’è mica problema! Intanto partiamo così, casomai ci si aggiusta strada facendo, e poi la Squadra Mobile di Palermo ce ne mette venti, tutti della Catturandi, e dobbiamo fare metà e metà… Vabbe’, mi dico, iniziamo ad andare e “comu finisci si cunta”.

In sostanza si tratta di un ritorno: a Palermo, dal 1988 in poi, c’ero stato un’infinità di volte, ma si era sempre trattato di missioni relativamente brevi, una settimana o dieci giorni al massimo, e mai per indagini lunghe. C’era stata una sola eccezione, proprio per le ricerche di Bernardo Provenzano, tra il 1994 e il 1995, quando ero stato inserito in un piccolo gruppo di lavoro con personale del Commissariato di Corleone e della squadra mobile di Palermo.

Eravamo pochi, una decina o giù di lì, e facevamo base in alcuni locali del palazzo delle Poste, in via Ausonia, e con quella composizione andò avanti per sette o otto mesi.

LA FAMIGLIA PROVENZANO “CONTROLLATA”

L’attività era concentrata sulla famiglia del latitante, avevamo delle microspie e un localizzatore Gps sulla Fiat Uno che utilizzava Angelo Provenzano, il figlio maggiore. Sulla stessa macchina, montata dietro la mascherina anteriore, c’era anche una telecamera, che nelle nostre intenzioni ci avrebbe dovuto far vedere i luoghi dove si fermava.

Forse la tecnologia a quei tempi non era abbastanza matura, non so, fatto sta che di quello che si diceva a bordo del mezzo intercettato si sentivano solo frammenti di conversazione, perché coperti da continue scariche e dall’autoradio sempre accesa, la localizzazione gps era alquanto approssimativa, e se in occasione di qualche pedinamento a Palermo l’auto veniva persa di vista, ritrovarla attraverso le coordinate del gps diventava un’impresa.

La telecamera in compenso funzionava, ma bastavano cento metri di trazzera polverosa per coprire completamente la lente. Col fango, poi, era pure peggio: bastavano due pozzanghere e fine delle trasmissioni! Tutti gli apparati, inoltre, si alimentavano dalla batteria della povera Fiat Uno, col risultato che spesso andava giù di carica.

La famiglia Provenzano era ricomparsa a Corleone nell’aprile del 1992 e nel 1994 abitava a poca distanza dal Commissariato di Polizia, in via Verdi, in un appartamento che si affacciava in strada, dove di solito era parcheggiata la Fiat Uno.

Questo di giorno, perché di notte molto spesso la macchina veniva presa da noi e portata in un box del Commissariato per regolare le apparecchiature, pulire la lente della telecamera e ricaricare la batteria; una volta arrivammo addirittura a sostituirla con una di maggiore amperaggio, nella speranza che diminuissero i problemi, ma con scarsi risultati.

Per tutte queste operazioni tecniche certe volte se ne andavano anche un paio d’ore, ed eravamo costretti a parcheggiare al posto della Fiat Uno dei Provenzano un’auto dello stesso tipo e colore per il tempo necessario. Insomma, buona volontà ce ne avevamo messa, ma era impossibile che non se ne fossero mai accorti. A tutto questo pensavo mentre il Super 80, dal lato di Terrasini, allineava il muso alla pista di Punta Raisi.

DAL LIBRO "IO, SBIRRO A PALERMO", DI MAURIZIO ORTOLAN

Il gruppo “Duomo”, così nasce il reparto che catturerà Bernardo Provenzano. DAL LIBRO "IO, SBIRRO A PALERMO", DI MAURIZIO ORTOLAN su Il Domani il 10 gennaio 2023

A fine gennaio c’è stata l’operazione “Grande Mandamento”: una cinquantina di persone arrestate, mafiosi e favoreggiatori tra Bagheria, Palermo e la provincia. A Provenzano ci si è andati vicini, anzi vicinissimi, ma ancora una volta “Binnu” aveva fiutato il pericolo e se ne erano perse le tracce...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Io, sbirro a Palermo” di Maurizio Ortolan pubblicato per Melampo nel 2018 con la prefazione di Alessandra Dino e sarà ristampato per la Zolfo Editore alla fine di gennaio 2023.

È una mattinata piovosa, e dall’aeroporto ci portano direttamente in quella che sarà la base del gruppo di lavoro: un edificio rettangolare a due piani dove una volta aveva sede il Commissariato di polizia “Duomo”.

Si trova tra corso Vittorio Emanuele, dove si arriva percorrendo lo strettissimo vicolo del Lombardo, e il mercato di Ballarò. Il cortile dell’ex Commissariato confina con quello della Caritas, che ospita un asilo multietnico dove giocano bambini multicolori, accomunati da un dialetto palermitano che padroneggiano meglio dei loro genitori.

Che bello, quell’asilo! Mi pare il simbolo stesso della Sicilia, che ha visto passare nel corso dei millenni coloni, conquistatori e migranti, e da ciascuno ha preso una parola, un modo di dire, un’espressione artistica, un’idea, dove tutto si è fuso in un prodotto nuovo e unico che ha tuttavia conservato, ben distinguibili, i caratteri propri e l’identità delle diverse civiltà.

Alle spalle del nostro Duomo, verso il mercato di Ballarò, il Liceo Scientifico Benedetto Croce, e sull’altro lato una scuola elementare e media. Il gruppo occuperà tutto il piano terreno, perché di sopra ci lavorano alcuni colleghi della sezione criminalità organizzata della squadra mobile.

Un piccolo corpo di guardia protegge un lungo corridoio sul quale si aprono, sul lato destro, sette stanze; l’ultima parte del corridoio è chiusa da una porta, ed è diventata a sua volta una stanza, più piccola, da dove si transita per entrare in quella del dirigente.

RENATO CORTESE E I SUOI 

Renato Cortese lo conosco, ma non benissimo: l’ho visto qualche volta a Roma e l’ho incontrato alla Squadra Mobile di Palermo qualche mese prima, al ritorno da una missione nell’interno della Sicilia.

Il gruppo lo dirigerà lui, per continuità nelle indagini, perché le ricerche di Bernardo Provenzano vanno avanti già da qualche anno, con la Catturandi. A fine gennaio loro hanno chiuso l’operazione “Grande Mandamento”, arrestando una cinquantina di persone, mafiosi e favoreggiatori tra Bagheria, Palermo e la provincia.

A Provenzano ci sono andati vicini, anzi vicinissimi, ma ancora una volta “Binnu” aveva fiutato il pericolo e se ne erano perse le tracce. Gli uomini del gruppo sono stati scelti da Cortese e sono tutti della Catturandi, ma non la sezione al completo, e la cosa ha destato qualche malumore tra gli esclusi, com’è naturale, e qualche altro malumore è nato per la presenza, nel gruppo, di personale del Servizio Centrale Operativo, e non gli si può dar torto.

Ancora una volta mi trovo nella situazione di chi arriva in un posto che conosce poco, a lavorare su ambienti criminali che magari un po’ comprende, ma di certo non con la padronanza di chi, invece, professionalmente è cresciuto a pane e latitanti.

È sabato, e il Duomo è pieno di tecnici e di operai: stanno montando scaffalature che ospiteranno i faldoni della vecchia indagine e quelli della nuova, sistemano i cablaggi dei computer per le intercettazioni telefoniche, i monitor per le telecamere e la saletta per i colleghi incaricati di riascoltare le conversazioni intercettate.

La giornata è prefestiva, il lavoro investigativo vero e proprio non è ancora iniziato e dei colleghi della Catturandi sono presenti solo quattro o cinque, che conosco di nome e di fama: me ne ha parlato Pippo, che conosco dai tempi delle scorte a Francesco Marino Mannoia e che da parecchi anni è stato trasferito nel mio ufficio, alla mia sezione: lui viene dalla squadra mobile di Palermo e a Palermo conosce tutti: è nel gruppo anche lui.

Renato Cortese fa le presentazioni, che si concludono come di prassi al bar; andiamo al Kaleido, in corso Vittorio.

Ci si arriva percorrendo il vicolo del Lombardo, una viuzza strettissima tra due palazzi vicinissimi tra loro, col risultato che è sempre in ombra: è una specie di camino naturale dove il vento si infila tutto l’anno, e sbuca quasi di fronte alla Cattedrale di Palermo, offrendo un colpo d’occhio che mi lascia senza fiato: un lato della piazza è occupato dal Liceo Classico Vittorio Emanuele II, un’architettura geometrica e austera, seria come la scuola che ospita e come ci si aspetta debba essere un liceo; di fronte, sull’altro lato della piazza, l’Arcivescovado, e a coprire il tutto un cielo sempre azzurro dove spiccano, a dar lavoro agli obiettivi fotografici dei tanti turisti, le sagome di altissime palme e i contorni della Cattedrale. Imparerò a conoscerli bene, quei luoghi intorno al mio nuovo ufficio: i negozi che si affacciano sul corso, il Kaleido, l’ottico Punto di Vista, di cui conservo ancora la tessera fedeltà, la libreria delle Paoline, la farmacia, l’Isola Saporita, l’armeria, il bar Marocco e tutti gli altri, ma per ora è solo uno sguardo di sfuggita.

Per oggi è tutto, mi vado a sistemare provvisoriamente in un alberghetto, a Ballarò, e penso alle difficoltà che mi aspettano. Nei giorni successivi conosco i nuovi colleghi: non è una squadra di centravanti, è una squadra, e in ciascun ruolo Renato Cortese ha scelto quanto di meglio poteva senza spogliare la Catturandi, perché quelli che sono rimasti a lavorare lì, negli uffici della Mobile, hanno le stesse caratteristiche dei prescelti.

Tra noi non ci sono nomi di fantasia, e mi dispiace deludere chi è convinto che chi fa questo lavoro abbia un nome di battaglia; no, ci si chiama per nome: Tommaso, Giuseppe, Alfonso, Paolo, Luigi, Salvatore, Luciano, Fabio, Adriano, Vincenzo, Rosario, Vittorio, Maurizio e così via.

I nomi di battaglia appartengono alle fiction, perché il pubblico li ama, ma questa è una cronaca, e nelle cronache al massimo ci sono i soprannomi, legati a caratteristiche fisiche, caratteriali, dell’abbigliamento: “er Pomata”, “er Caciara”, “il Cammello”, “l’Imperatore”.

UN REPARTO INVESTIGATIVO D’ECCELLENZA

Ho la qualifica di Sostituto Commissario, che nel gruppo è la più elevata dopo quella di Renato Cortese, ma mi rendo conto che ciascuno degli specialisti della Catturandi ha molto da insegnarmi dal punto di vista tecnico, e allora busso, chiedo permesso, ed entro in punta di piedi.

La squadra mobile di Palermo, nel 2005, è un reparto investigativo d’eccellenza e all’avanguardia: lavorano con microspie e telecamere di ultima generazione, almeno per gli standard della Polizia, e vedo con sollievo che la tecnologia ha fatto sensibili progressi dai tempi in cui, a Corleone, andavamo rubando la Fiat Uno dei Provenzano quasi tutte le notti: avrò molto da studiare per rimettermi in pari, ammesso che ci riesca.

Però posso occuparmi delle carte, di tutto quel lavoro noioso, ripetitivo, sedentario e indispensabile, che di solito non vuol fare nessuno, e nessuno di sicuro si offenderà se intanto me ne prenderò l’appalto, mettendomi a disposizione per il resto.

Il turno di marzo passa in fretta, si pianifica il da farsi e come iniziare: intercettazione dei colloqui in carcere di molti degli arrestati di “Grande Mandamento”, perché se favorivano Provenzano quando si nascondeva a Bagheria potrebbero avere qualche informazione che può ancora tornarci utile.

È un lavoraccio, dal punto di vista anche delle carte: per ciascun colloquio di ogni detenuto bisogna prendere contatto con il carcere dove si trova, interpellare le ditte che forniscono le microspie e le telecamere, farsi mandare i preventivi di spesa e portarli alla procura della Repubblica, che deve valutare e autorizzare caso per caso, recuperare i Cd con le registrazioni dopo i colloqui, occuparsi di chiedere eventuali proroghe, perché le prime autorizzazioni valgono quaranta giorni, le successive venti, e tanto le richieste iniziali quanto quelle per le proroghe vanno tutte e sempre motivate.

Iniziano anche le intercettazioni telefoniche: si discute se lasciare l’incarico di seguire quelle dei familiari del latitante al Commissariato di Corleone; dico che secondo me sarebbe preferibile avere notizie di primissima mano, anche gli altri sono d’accordo, anche perché piste calde da seguire non ce ne sono, per il momento. Nel gruppo funziona così, tutti devono essere a conoscenza di quello che si sta facendo, del perché lo si sta facendo e di come si intende proseguire a farlo; si ascoltano i pareri, poi si decide.

I componenti del gruppo sono intercambiabili tra loro, ma in ciascun settore ci sono i punti di riferimento, per le intercettazioni telefoniche individuo Alfonso: lui ascolta e riascolta tutto all’inizio di ogni turno, fa collegamenti, ricerca nelle vecchie conversazioni elementi che possano far luce su alcuni dialoghi poco comprensibili e, grandissima dote, quello che trova lo mette per iscritto, per futura memoria sua e degli altri. Al riascolto, che forse è il settore dove si nascondono le informazioni più utili, il riferimento è Totò.

Il riascolto è per così dire il cuore di un’indagine: tutto ciò che viene raccolto con le microspie e ascoltato, quando possibile, in diretta, finisce nella sua saletta; lì ogni conversazione viene ripulita da fruscii, scariche e rumori di fondo e viene sentita una, due, dieci, cento volte, al bisogno.

Sono incredulo, mi fanno provare: ascolto dieci secondi di quello che a me sembra il rumore del vento e delle voci indistinte e lontane. Totò mi guarda e chiede: – ’U capisti? – poi, come colto da un improvviso dubbio anche sulla mia competenza linguistica – Hai capito? – si affretta a tradurre. Lo guardo perplesso: mi sta sfottendo? No, è serissimo, manda indietro il cursore della traccia sul monitor e mi fa riascoltare, mi aggiusta le cuffie, rallenta la velocità, regola i toni, ma per me non cambia niente, rumori erano e rumori restano.

Mi aiuta, scandisce lentamente le parole che lui sente, fa ripartire il file audio; ora le colgo, stupito come un bambino.

Non ho passato il primo esame, ma Totò è indulgente, sa che non è facile. Però guai a disturbarlo mentre riascolta: tutti passiamo in punta di piedi davanti al suo minuscolo regno, funzionari compresi, e sono pochi quelli che si azzardano a contraddirlo nell’interpretazione: se nascono dubbi, i riascolti vanno avanti a oltranza, fino a quando tutti non sono convinti.

A volte succede che qualcuno nutra qualche dubbio, ma se lo va a chiarire a tarda sera, quando Totò non c’è. Nel gruppo ci sono due ispettori superiori della Catturandi, esperti e carismatici: uno più diretto, l’altro più diplomatico; tutti e due provengono dai gradi iniziali della Polizia e hanno fatto carriera a suon di promozioni ottenute sul campo, a differenza di quanto è successo a me, entrato nell’Amministrazione già con la qualifica di “ispettore”.

Fare carriera partendo dal basso comporta più tempo, ma impari a fare di tutto, a capire meglio le difficoltà di un lavoro e i problemi di chi lo deve svolgere, sei in grado di spiegare come si fa e come vuoi che venga fatto, e poi la strada maestra per imparare a comandare è iniziare obbedendo.

Mi accompagnano in procura e mi presentano ai magistrati che dirigono l’indagine, Giuseppe Pignatone è il Procuratore Aggiunto, che già conoscevo da altre vecchie attività, Michele Prestipino e Marzia Sabella. Conosco anche il personale della segreteria, Mariangela, Rita, Sandro, Giuseppe; non è solo personale del Ministero della Giustizia, ma anche della polizia e della “municipale” e anche loro sono una “squadra”; l’impressione che ricevo mi spinge all’ottimismo: se ognuno fa il suo e se si rema tutti a tempo e nella stessa direzione, strada se ne può fare. Alla fine del primo turno, risalgo a Roma più sereno di quando sono partito. […].

DAL LIBRO "IO, SBIRRO A PALERMO", DI MAURIZIO ORTOLAN

Sulle tracce di “Iddu”, un fantasma da quasi mezzo secolo. DAL LIBRO "IO, SBIRRO A PALERMO", DI MAURIZIO ORTOLAN su Il Domani l’11 gennaio 2023

Passa solo qualche giorno, e nella nuova casa di Simone Provenzano viene in visita il nipote, Carmelo Gariffo, da sempre ritenuto un soggetto vicinissimo al latitante...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Io, sbirro a Palermo” di Maurizio Ortolan pubblicato per Melampo nel 2018 con la prefazione di Alessandra Dino e sarà ristampato per la Zolfo Editore alla fine di gennaio 2023.

Nelle indagini, specie nelle indagini lunghe e complicate, ci sono due scuole di pensiero, e i poliziotti si dividono tra cacciatori e pescatori; il poliziotto cacciatore insegue la preda, la bracca, fa terra bruciata, chiude le tane e forza i servizi, a costo di farsi vedere: è il poliziotto delle serie americane un po’ datate, per intenderci, determinato nei modi e sbrigativo nell’azione.

Il poliziotto pescatore, invece, è più sul modello inglese, riflessivo, una via di mezzo tra Sherlock Holmes e il Tenente Colombo: tende le reti e attende, paziente, che la preda ci finisca dentro, contrapponendo l’acume alla furbizia. Alla Catturandi, e di conseguenza al Duomo, le due tecniche si sposano: si tendono reti e trappole ma c’è sempre la massima allerta per cogliere al volo la minima occasione. Siamo a maggio, e come si dice a Roma “nun se move ’na foglia”.

Dai colloqui dei detenuti in carcere non apprendiamo niente di rilevante, i familiari conducono vita assolutamente normale e ritirata; dalle altre intercettazioni, e anche da qualche “ambientale” che abbiamo in corso a Bagheria e in qualche masseria in provincia, non si ricava niente, tanto che qualcuno inizia persino a dar credito all’insolita intervista rilasciata dall’avvocato Traina, lo storico difensore di fiducia di Provenzano, che ipotizza addirittura che il boss sia morto già da anni, da quando la famiglia è ricomparsa a Corleone all’inizio del 1992.

L’indagine langue, e il mio ufficio riduce il personale della mia sezione che aveva destinato al “gruppo Duomo”, dirottando gli altri nella ricerca di un altro most wanted, Attilio Cubeddu, dell’Anonima sequestri sarda, ultimo ricercato per il sequestro Soffiantini dopo l’arresto a Sydney di Giovanni Farina.

Del servizio centrale operativo, a Palermo, restiamo in sette. Insomma si vivacchia, ma il destino segue strade sue, gli eventi si intrecciano, e le conseguenze degli intrecci sono imprevedibili e inaspettate. La svolta nell’indagine si presenta con le insospettabili sembianze di uno sfratto, uno sfratto che raggiunge alla fine di maggio Salvatore e Simone Provenzano, fratelli del latitante.

Lo sfratto è causato dalla confisca dell’abitazione nella quale vive Simone, che così è costretto a trasferirsi; dovrà traslocare in un’altra casa, sempre a Corleone, in Cortile Colletti. Chiamano la Telecom per farsi allacciare lì il telefono, al nuovo indirizzo, e la richiesta viene fatta da un numero che abbiamo già sotto controllo.

Il poliziotto pescatore coglie nell’aria l’occasione e lascia la scena al poliziotto cacciatore; il poliziotto cacciatore esegue l’allaccio del telefono con mezzi uguali a quelli della Telecom e con gli strumenti che usa la Telecom, ma nel frattempo abbiamo avuto dai magistrati l’autorizzazione a effettuare anche un’intercettazione ambientale, e così nel cavo che viene teso attraverso il giardino ed il portico per portare in casa la linea del telefono sono cablate un paio di microspie; per telefono non si parla di questioni delicate, lo sappiamo, ma fuori, in giardino, chissà… e la rete è tesa.

LA SVOLTA

Passa solo qualche giorno, e nella nuova casa di Simone Provenzano viene in visita il nipote, Carmelo Gariffo, da sempre ritenuto un soggetto vicinissimo al latitante.

Al telefono non si parla di questioni delicate; in casa non si parla di questioni delicate, ma anche le questioni delicate vanno trattate in qualche modo, sia pure con mille accortezze, e in giardino qualcosa la ascoltiamo.

Pare che ci sia in piedi una questione su un vecchio prestito che a Bernardo risulta restituito solo in parte: sono frammenti di frasi e di discorsi che non si colgono nella loro interezza, ma si capisce che Carmelo Gariffo si sta interessando della vicenda per conto del latitante. Drizziamo tutti le orecchie, specialmente Totò.

La mattina del 10 giugno c’è un’altra conversazione, sempre all’esterno, e sembra di percepire la voce di Simone che rivolgendosi al nipote Carmelo gli chiede, abbassando il tono: – Ma Iddu cca è? Una bella svolta! Ascoltiamo tutti… le orecchie più allenate del gruppo affiancano quelle di Totò per cogliere altri passaggi, mentre io raccolgo le carte che quotidianamente, o quasi, vanno portate in Procura e mi avvio, a piedi, come ogni giorno, con un collega.

Alla televisione, nelle fiction, le cose ordinarie non le fanno mai vedere, perciò pochi sanno che nei Palazzi di Giustizia esiste un Ufficio Intercettazioni dove convergono tutte le carte, dove arrivano tutte le richieste di intercettazione e da dove escono tutti i decreti da eseguire; è un collo di bottiglia, dove spesso si deve fare la fila per ritirare le autorizzazioni.

Fare la fila non emoziona e non dà emozione, quindi nelle fiction certi aspetti si tralasciano per dare spazio alla pubblicità, però senza la fila e senza l’Ufficio Intercettazioni non si fanno indagini, al massimo solo le fiction.

La telefonata mi arriva sul cellulare mentre, appunto, sto facendo la fila, e dall’altra parte c’è un arrabbiatissimo Renato Cortese, che mi sta chiamando dall’ufficio di Michele Prestipino, il pubblico ministero, e anche lui non mi pare tranquillo. – Ma come, parlano di Iddu, di Iddu che è Qua (qua lo pronuncia tutto in maiuscolo), e tu non mi dici niente? Ma ti rendi conto… La mia prima reazione è di meraviglia, non capisco il perché di tanta agitazione: – Doc, mica è ancora sicuro; la conversazione è di mezz’ora fa e la stanno tutti riascoltando, l’avrei informata appena avuta certezza… Credo che voglia mangiarmi, ma sono fuori tiro, l’Ufficio Intercettazioni sta nello stesso edificio, ma all’ultimo piano, praticamente nel sottotetto del Palazzo di giustizia di Palermo. – Cioè… stiamo parlando di uno che stiamo cercando da quarant’anni, che dicono sia morto… tu senti i parenti che chiedono se è Qua (di nuovo tutto a lettere maiuscole), e tu non lo dici Subito?

Io sono pragmatico, e non riesco ancora a sentirmi così colpevole: dopo tutto non è che lo abbia detto ad altri e non a lui, mio diretto superiore, semplicemente non mi è mai andato a genio l’atteggiamento di chi ad ogni minima cosa alza il telefono e allarma i “capi”, spesso inutilmente, ma evidentemente qualcuno, al Duomo, la pensa diversamente e ha bruciato i tempi. Pazienza, la lavata di testa me la sono presa, ma di sicuro la mia mancanza non ha portato danno all’indagine.

Mi stringo nelle spalle e continuo a fare la fila. Quando torno al Duomo nella stanzetta del riascolto c’è ressa, con grande disappunto di Totò, ma quell’“Iddu cca è?” appena sussurrato pare che lo vogliano sentire proprio tutti. Nei giorni seguenti preparo le richieste di intercettazione telefoniche e ambientali per Carmelo Gariffo, posto che, a quanto pare, è lui il collegamento con il latitante: con Iddu. [...]. 

DAL LIBRO "IO, SBIRRO A PALERMO", DI MAURIZIO ORTOLAN

Appostamenti e telecamere, il cerchio si stringe a Montagna dei Cavalli. DAL LIBRO "IO, SBIRRO A PALERMO", DI MAURIZIO ORTOLAN su Il Domani il 12 gennaio 2023

Chiudiamo Corleone in un cerchio di telecamere, vediamo verso quale trazzera si dirige Bernardo Riina quando esce dal paese dopo essersi incontrato con Lo Bue, mettiamo un’ulteriore telecamera che guarda tutta la zona dall’alto. Qualche giorno e sappiamo dove va: nella masseria di Giovanni Marino, in Contrada Montagna dei Cavalli...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Io, sbirro a Palermo” di Maurizio Ortolan pubblicato per Melampo nel 2018 con la prefazione di Alessandra Dino e sarà ristampato per la Zolfo Editore alla fine di gennaio 2023.

Sono in auto con uno degli ispettori della Catturandi, su una delle Fiat Stilo a gasolio che abbiamo in noleggio a lungo termine e dobbiamo stare “in zona” senza compiti particolari, se non quello d’essere in grado di raggiungere rapidamente Corleone nel caso ci fosse necessità di un pedinamento.

Le macchine a gasolio non le sopporto e non le ho mai sopportate fin da bambino, mi fanno venire la nausea; ho pure un inizio di mal di gola, fa freddo e il collega che è con me, alla guida, fuma il sigaro, il cui odore si mescola e si sovrappone a quello del gasolio bruciato.

Sono frullato dalle curve: stare in zona significa che non puoi stare fermo, perché fermarsi da qualche parte è il miglior modo per farsi notare, anche se stai su una Stilo grigia, che da quelle parti pare sia il mezzo di trasporto più diffuso.

Piove alla assuppa viddanu, passiamo il tempo andando da un paese a un altro, esplorando trazzere sconnesse e fangose; due soste in qualche bar fuori mano, dove non parlo neppure: che ci fa un romano, a metà gennaio, nelle campagne della provincia palermitana? Il tempo non vuole passare, fa buio presto, prestissimo, ma dobbiamo comunque restare fuori.

Ci si racconta la vita, le esperienze e le aspettative, poi si ricomincia, e poi di nuovo e ancora, ma alla fine si tace. Ho già scritto dell’importanza della pazienza? In certe occasioni il tempo non passa davvero mai. A sera torniamo, non abbiamo ricevuto nessuna telefonata per tutto il giorno: scendiamo a valle accompagnati da un senso di inutilità, scandisco ogni tornante con ripetuti colpi di tosse.

Per una sera anche una piccola stanza d’albergo ha il sapore di casa. Il giorno 20 torno a Roma, e arrivo in ospedale giusto in tempo: sta nascendo il mio primo nipote, che ha avuto la pazienza di aspettare e sapermi presente nei dintorni prima di affacciarsi al mondo.

IL FATTORE UMANO

Quand’è che succede? Non lo ricordo con precisione, e per una volta non posso indicare il giorno preciso, ma è a cavallo tra gennaio e febbraio. Siamo alle telecamere, come sempre, in una serata di routine: Giuseppe è andato a trovare Angelo Provenzano a casa, si trattiene all’interno pochi minuti poi esce.

In mano ha un sacchetto da supermercato abbastanza grande, con i manici legati a fiocco. Passa davanti ai contenitori della spazzatura, raggiunge la sua macchina parcheggiata poco più avanti, apre il cofano e ripone il sacchetto all’interno, mette in moto e va via.

È qui che succede, qui qualcuno si pone la domanda: perché non ha gettato il sacchetto nella spazzatura quando è passato davanti al contenitore? In qualsiasi indagine le microspie registrano conversazioni, le telecamere riprendono e documentano tutto ciò che accade, i server memorizzano ogni suono e ogni immagine, ma non servono a niente fino a quando un umano non si pone una domanda, anzi la domanda. Accade tutto in fretta: riprendiamo in mano le registrazioni precedenti e vediamo che anche altre volte Giuseppe, quando ha un sacchetto con sé, lo mette in macchina, e sempre nel cofano.

Perché? Dove va? Recuperiamo le localizzazioni del Gps, che ci dicono che va a casa. Cerchiamo analogie: cosa fa il giorno successivo a quando esce dalla casa di Provenzano con i sacchetti? Non emergono coincidenze, né comportamenti ripetuti. Beh, se porta i sacchetti a casa magari restano a casa, e la traccia che ci serve è lì che la dobbiamo cercare.

Serve un posto idoneo, lo troviamo in un edificio in costruzione che guarda la casa dei Lo Bue: ma è lontano, ci vuole una telecamera buona, che costa di più. La Procura ci autorizza, la installiamo. Aspettiamo. Siamo fortunati: già al primo sacchetto vediamo Giuseppe arrivare e infilare l’auto nel box che si apre sulla strada; prende il sacchetto, apre il baule della macchina del padre accanto alla sua e lo ripone all’interno.

La cosa si ripete nelle settimane seguenti, ma le telecamere non ci possono dare altro. Bisogna rischiare qualcosa in più: è il turno del poliziotto cacciatore. La sera del 17 marzo da casa Provenzano esce un sacchetto che viene messo da Giuseppe Lo Bue nell’auto del padre.

Dalla prima mattina del 18 noi abbiamo due auto a Corleone; nel pomeriggio Calogero esce in macchina, gira un po’ in paese, poi incontra per pochissimi secondi un uomo che viaggia a bordo di un’altra vettura; riusciamo a prendere la targa: è di Bernardo Riina; i due si dirigono fuori paese con le rispettive automobili, ma è impossibile seguirli senza farsi scoprire.

Abbiamo, netta, l’impressione di essere vicini, anzi vicinissimi. I nostri sospetti sono confermati da quello che ascoltiamo al telefono: quando Bernardo Riina e Calogero Lo Bue si devono incontrare, gli accordi vengono presi dai rispettivi figli, come se si trattasse di un incontro tra i due ragazzi, e invece a incontrarsi sono i genitori. Pensiamo tutti che Bernardo Riina sia l’ultimo tramite, preparo una richiesta per intercettare i telefoni della famiglia; Renato Cortese la porta in procura, ma me la riporta indietro. – Tienila in sospeso – dice. – Pignatone e Prestipino non la vogliono fare, quest’intercettazione. Almeno per ora – aggiunge. Stento a crederlo, ma Cortese, paziente, mi spiega. – Troppe volte siamo stati vicini a prenderlo, e troppe volte, quando eravamo vicini come ora, è successo qualcosa. Dopo tutto dei telefoni di Riina non abbiamo bisogno, se è davvero lui l’ultimo anello… L’intercettazione di un telefono è una faccenda riservata, sulla carta, ma in pratica lo viene a sapere un sacco di gente, oltre a noi che ascoltiamo e ai magistrati che la dispongono o la autorizzano. Lo sanno all’ufficio intercettazioni, lo sa la Telecom, lo sanno tutti i gestori delle compagnie telefoniche, lo sa la società che fornisce i server, il software e l’hardware che ci consentono di ascoltare, registrare e riascoltare.

È vero che conoscono solo il numero di utenza e non l’intestatario, però… Per un momento mi sembra un eccesso di prudenza e di diffidenza, ma mi viene subito in mente Falcone, quando nel 1989, nel teatro dell’Istituto Superiore di Polizia ci invitava a non parlare neanche per radio. E aveva ragione lui, allora, come adesso hanno ragione i magistrati che vogliono andare avanti con decisione, sì, ma anche con la massima cautela.

Chi si guardò, si salvò, si dice, e in effetti per rimanere latitante 43 anni magari non basta solo la furbizia da viddano. Chiudiamo Corleone in un cerchio di telecamere, vediamo verso quale trazzera si dirige Bernardo Riina quando esce dal paese dopo essersi incontrato con Lo Bue, mettiamo un’ulteriore telecamera che guarda tutta la zona dall’alto. Qualche giorno e sappiamo dove va: nella masseria di Giovanni Marino, in Contrada Montagna dei Cavalli.

DAL LIBRO "IO, SBIRRO A PALERMO", DI MAURIZIO ORTOLAN

L’arresto del vecchio boss e il mistero della sua Bibbia rossa. DAL LIBRO "IO, SBIRRO A PALERMO", DI MAURIZIO ORTOLAN su Il Domani il 13 gennaio 2023

Partono, alle 11.21 lo arrestano, lo vediamo in diretta, dalle telecamere, mi arriva un sms di conferma; al diavolo telefoni e telecamere, salgo anch’io e faccio in tempo a vedere i luoghi, i “pizzini”, il vecchio mafioso con i tre crocifissi al collo che ripete: – Non sapete che avete fatto…

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Io, sbirro a Palermo” di Maurizio Ortolan pubblicato per Melampo nel 2018 con la prefazione di Alessandra Dino e sarà ristampato per la Zolfo Editore alla fine di gennaio 2023.

Il 5 aprile abbiamo la certezza che nella casetta c’è qualcuno: Giovanni Marino sta sistemando un’antenna per la televisione su un palo, a una decina di metri dall’edificio; la sposta, la orienta, sembra rivolgersi a qualcuno che è in casa… sposta ancora l’antenna, sembra chiedere a qualcuno che sta all’interno, ma che non si affaccia mai, se la ricezione migliora.

Una sera, con discrezione, i magistrati vengono al Duomo, a rendersi conto di persona; da Roma scende Gilberto Caldarozzi, che è il direttore “reggente” del servizio centrale operativo.

Anche lui guarda le telecamere, con il dirigente della squadra mobile, Giuseppe Gualtieri. Noi siamo divisi: una parte vorrebbe intervenire subito, già quella stessa sera, perché ora pare esserci qualcuno, ma domani chi lo sa? Altri sono più prudenti: e se la casetta fosse solo un’ulteriore tappa del percorso dei sacchetti? La domanda è legittima, ma nessuno può rispondere.

Alla fine è Caldarozzi a decidere: si aspetterà di veder arrivare il prossimo pacco alla casetta di Montagna dei Cavalli, si farà osservazione diretta tutta la notte e poi a oltranza, fino a una nuova visita di Bernardo Riina, e allora si interverrà.

Avrei preferito agire di notte, e nel caso non si trovasse nessuno lasciare delle microspie, ma il capo è Gilberto, e la responsabilità è sua. Ci prepariamo all’azione, guardo avanti e guardo indietro, a vicende vissute in Polizia; l’esperienza mi ha insegnato che una cosa è raccontare, descrivere anche nei particolari, e una cosa è far vedere e documentare i fatti attraverso le immagini.

UN’INTUIZIONE EFFICACE

Di mia iniziativa dico a Daniele, un collega della Catturandi, di procurarsi una telecamera e gli dico che dovrà riprendere tutto, dall’inizio alla fine, e se si troverà qualcosa dovranno essere le immagini, prima dei verbali, a far vedere a tutti cosa si è trovato, come si è trovato e dove si è trovato.

Gli dico che è una cosa per noi, la metto sul gioco, gli dico di fare anche delle riprese in ufficio, al Duomo, prima dell’intervento, per un ricordo solo nostro. L’idea gli piace e inizia a darsi da fare. La mattina dell’11 aprile vediamo Giovanni Marino sulla porta della casetta, sembra bussare, ci pare di vedere una mano che attraverso la porta socchiusa gli porge qualcosa.

Alle 9.58 arriva Bernardo Riina, ha con sé un pacchetto, entra nella casetta. Inizia l’operazione: si parte! Tutti vogliono partecipare, tutti vogliono essere presenti; non è più la “sindrome del centravanti”, è un gruppo di persone che hanno lavorato, che si sono sacrificate, che si sono impegnate e ci hanno creduto, e ora si aspettano di raccogliere il frutto del lavoro svolto.

Non è possibile andare tutti, bisogna continuare ad ascoltare i telefoni e a guardare le telecamere. Renato Cortese indica i ragazzi della Catturandi che devono rimanere al Duomo, poi si rivolge a me. – Per lo Sco, decidi tu, è il tuo ufficio, almeno due devono restare… Mi sento morire.

Non è vero che è il mio ufficio, perché lui è un funzionario del Servizio Centrale Operativo, e ora devo essere io a scegliere i due colleghi che non giocheranno la partita? I mezzi sono pronti, il fuoristrada, il furgone, altre due auto.

Non posso mettermi a fare la polemica che vorrei: si sta andando ad arrestare, probabilmente, Bernardo Provenzano, latitante da quarantatré anni. Può essere un’occasione irripetibile per la Polizia e per la società tutta. – Luigi, io e te restiamo. L’esempio non si dà solo sfondando le porte o suonando la carica, ma anche rinunciando alla vanità di recitare il ruolo del protagonista.

L’ARRESTO

Partono, alle 11.21 lo arrestano, lo vediamo in diretta, dalle telecamere, mi arriva un sms di conferma; al diavolo telefoni e telecamere, salgo anch’io e faccio in tempo a vedere i luoghi, i “pizzini”, il vecchio mafioso con i tre crocifissi al collo che ripete: – Non sapete che avete fatto… Fisso in mente solo alcune immagini: una lettera iniziata infilata nel rullo di una delle macchine da scrivere, Adriano che aiuta il vecchio boss ad allacciarsi le scarpe, e il particolare mi fa piacere, perché noi del Servizio abbiamo sempre goduto di cattiva fama, quanto a durezza di modi.

Ma non c’è tempo, devo tornare di corsa: ci sono i verbali da preparare, le ordinanze di custodia cautelare da notificargli, mi precipito a Palermo e vado al Duomo a prendere le carte.

Le copie dei numerosi provvedimenti restrittivi pendenti le abbiamo preparate già dal giorno precedente, e abbiamo fatto bene ad anticipare, con un collega della Squadra Mobile che si è sobbarcato il lungo lavoro di ricerca e di fotocopia; io ho predisposto il verbale. Mi telefonano che stanno arrivando, e porteranno l’arrestato proprio lì alla Squadra Mobile, dove li devo raggiungere subito.

Dal Duomo alla Squadra Mobile, in piazza della Vittoria, saranno sì e no trecento metri, ma quando arrivo davanti la piazza è piena: c’è un’infinità di poliziotti, in divisa e in borghese, ma anche tanta gente; ormai le televisioni di mezzo mondo stanno parlando dell’arresto, ci sono giornalisti e telecamere, alcuni furgoni attrezzati si stanno organizzando per la diretta, contendendosi i posti migliori.

Provo a farmi largo ma non è facile, tutti vogliono essere in prima fila. Per fortuna tra i colleghi al portone ce n’è uno che mi conosce, sa quel che devo fare e ha una voce possente: – Maurizio, fate passare Maurizio! All’invito autorevole la folla si apre, guadagno l’ingresso, salgo al primo piano, alla Segreteria trovo un pc e inizio a stampare il verbale di notifica che ho preparato su un floppy. Nei corridoi della Mobile non si riesce a passare per quanti colleghi ci sono; preparo e stampo il verbale di arresto, poi mi portano Bernardo Provenzano: gli devo notificare le ordinanze.

Appare smarrito per la confusione, ma non sembra particolarmente turbato. È solo preoccupato per la sua salute, e anche a me ripete che ha urgenza di farsi praticare un’iniezione. Lo rassicuro, in carcere troverà chi se ne farà carico. Passo al verbale, sono tre pagine, che gli leggo: il provvedimento più vecchio è l’ordine di cattura 170/82 emesso il 26.07.1982 dalla procura della Repubblica di Palermo per «associazione per delinquere finalizzata alla commissione di delitti contro la persona, traffico di sostanze stupefacenti ed altri gravi reati”; proseguo, e scandisco bene quando arrivo all’ordine di esecuzione 74/98 emesso l’1.12.1998 procura della Repubblica presso il tribunale di Caltanissetta»…dovendo espiare l’ergastolo per la strage di Capaci e reati connessi”, e all’ordine di esecuzione 241/03 Res emesso il 7.04.2005 dalla procura generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Caltanissetta “…dovendo espiare l’ergastolo per vari reati, tra i quali la strage di Via D’Amelio, gli attentati di Roma, Firenze e Milano del 1993, il tentato omicidio di Salvatore ‘Totuccio’ Contorno”.

Gli spiego che si tratta dei provvedimenti restrittivi che lo riguardano, che gliene darò una copia, che se vuole mi firmerà una copia del verbale per ricevuta, altrimenti darò atto che si rifiuta di firmare. – Se lei mi dice che non importa, non firmo… Passo al verbale di sequestro: ottomilaseicento euro, un bisturi ancora sigillato in una busta di carta… Poi entra Mauro, collega dello Sco, e mi porge un libro rosso che ha in mano: – Dice Caldarozzi se gli dai un’occhiata, se è pure da sequestrare…

Prendo il libro in mano: è una Bibbia, assai consunta, guardo l’edizione, è del 1968; tra le pagine numerosi bigliettini, numerosissime sottolineature, e poi segnalibri, segni, crocette, qua e là qualche annotazione… – …e dice di sbrigarsi, perché c’è l’elicottero della Polizia che aspetta a Boccadifalco per portarlo in carcere e i tempi sono stretti perché di notte non vola… Impossibile sfogliarla tutta in pochi minuti: con Mauro conveniamo di sequestrarla, per poterla esaminare con calma. [...]. 

DAL LIBRO "IO, SBIRRO A PALERMO", DI MAURIZIO ORTOLAN

Il caso Dalla Chiesa insegna; nella lotta alla mafia mai abbassare la guardia. È stata notata la coincidenza per la quale Matteo Messina Denaro è stato arrestato proprio nei giorni in cui cadeva l’anniversario della nascita di Paolo Borsellino. C’è però un’altra coincidenza, per alcuni versi forse ancor più significativa, che dev’essere evidenziata. Gaetano Quagliariello su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Gennaio 2023

È stata notata la coincidenza per la quale Matteo Messina Denaro è stato arrestato proprio nei giorni in cui cadeva l’anniversario della nascita di Paolo Borsellino. C’è però un’altra coincidenza, per alcuni versi forse ancor più significativa, che dev’essere evidenziata.

In questi stessi giorni è stata trasmessa sulle reti della televisione di Stato una fiction dedicata a un’altra vittima illustre della mafia, il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. La ricostruzione che essa propone ci ricorda, tra l’altro, che il «metodo Dalla Chiesa» nella lotta all’eversione (quello a cui ha fatto esplicito riferimento chi ha catturato Messina Denaro) fu sperimentato per la prima volta all’inizio degli anni Settanta per combattere il fenomeno allora nascente delle Brigate Rosse.

Nel 1974, però, quel tentativo lo si volle inopinatamente interrompere. Al Generale furono assegnate nuove funzioni e così le Brigate Rosse potettero riprendere fiato, con tutto ciò che ne conseguì.

La storia non si fa né con i «se» né con i «ma»; per questo resta solo un’ipotesi che nel caso in cui a Dalla Chiesa e ai suoi uomini fosse stata concessa la possibilità di proseguire nell’azione intrapresa, l’Italia non avrebbe conosciuto uno dei suoi maggiori traumi: quello del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro. Invece, è un fatto incontrovertibile che rimuovere Dalla Chiesa da quell’incarico fu un errore, al quale tardivamente si provò a riparare.

Nei giorni della cattura di Matteo Messina Denaro, alla luce di quel precedente, vogliamo seguire lo stesso criterio: attenerci unicamente ai fatti, senza perderci in ipotesi, dietrologie, sospetti. E i fatti, per l’essenziale, ad oggi sono questi:

1) lo Stato con la cattura del latitante ha conseguito un eccezionale successo. Quando nel 2016 i Pubblici Ministeri Sava e Paci chiesero e ottennero il rinvio a giudizio nei confronti di Matteo Messina Denaro per le stragi di Capaci e di Via D’Amelio, quell’uomo era fatto di nebbia: niente più che un fantasma. Nei giorni scorsi per quel processo si è svolta un’udienza e il «grande imputato» non si è potuto presentare in aula. Egli , però, oggi non è più un fantasma ma una persona in carne ed ossa, certamente malato ma che, assicurato alla giustizia, potrà essere interrogato, si potrà difendere e, a tempo debito, potrà essere condannato in un regolare processo.

2) Un altro fatto è che presto la mafia, che ha regole che non ammettono deroghe, avrà un altro capo. Messina Denaro è stato colui il quale ha portato alle estreme conseguenze il mutamento genetico dell’organizzazione iniziato da Bernardo Provenzano. Questo cambiamento ha spinto la mafia a perdere ogni sostanza identitaria, circostanza che però le ha consentito di approdare nei territori della modernità: quelli che hanno a che fare con l’imprenditoria, il trasferimento dei capitali, la digitalizzazione. Questo spiega, tra l’altro, perché il suo consenso diffuso sia drammaticamente crollato: se, in occasione dell’arresto del boss, è giusto ricordare le connivenze e le connessioni con la società civile di cui lui ha sicuramente potuto godere in trent’anni di latitanza, non bisognerebbe dimenticare come anche in Sicilia si stia sviluppando un sentimento di ostilità nei confronti del fenomeno mafioso palesatosi, tra l’altro, negli applausi ai Carabinieri quando è avvenuto l’arresto.

3) Va a questo punto considerato un ultimo fatto, forse il più importante. La nuova mafia, per le caratteristiche che Matteo Denaro gli ha impresso, è molto più indefinita, sfuggente, difficile da combattere. È assai probabile che anche chi la guiderà dopo di lui vorrà proseguire lungo lo stesso percorso. Un successo è stato certamente conseguito ma considerarlo definitivo potrebbe rivelarsi un errore fatale.

Serva da lezione e da ammonimento quello che accadde al Generale Dalla Chiesa: invece di provare a sminuire e a dubitare dei risultati e dei successi conseguiti , la politica, senza distinzioni di parte, sappia assicurare ai servitori dello Stato gli strumenti e i mezzi per andare avanti. Sia vietato, questa volta, abbassare la guardia.

Abbiamo bisogno di eroi, ma parliamo di Dalla Chiesa e non di Messina Denaro. Soprattutto il cinema, specie americano, ha creato delle narrazioni così belle ed efficaci che sono diventate esse stesse le vere epopee degli eroi. Bianca Tragni su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Gennaio 2023.

«Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi». Questa famosa frase di Bertolt Brecht è stata talmente usata e abusata che ha perso ogni senso e significato. Perché invece tutti i popoli, nella loro storia, hanno avuto bisogno di eroi. E li hanno riconosciuti, celebrati, osannati; con monumenti, letteratura, arte, cinema. Soprattutto il cinema, specie americano, ha creato delle narrazioni così belle ed efficaci che sono diventate esse stesse le vere epopee degli eroi. Basti pensare all’epopea del Far West coi suoi protagonisti, da Buffalo Bill a Toro Seduto; o a quella delle guerre mondiali, coi vari soldati Ryan e così via.

L’Italia invece non ha mai creato epopee cinematografiche dei suoi eroi, che fossero garibaldini dell’Ottocento o soldati del Novecento. Non che non ci sia una letteratura del Risorgimento o della Resistenza. Ma il cinema no, ha fatto poco o nulla per incidere sull’immaginario collettivo. Ci vien fatto di rifletterci dopo aver visto la fiction Rai sul generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Lavoro ottimo, capace di farci entrare nei meccanismi più segreti della lotta alla criminalità, del genio organizzativo del Generale, della dedizione perinde ac cadaver dei suoi uomini. Un racconto capace di toccare le corde più profonde del cuore, dell’emozione, della compassione. E anche dell’orgoglio di avere da noi in Italia, e non nel Far West, simili eroi. Riflessioni rafforzate dalla recente cattura del criminale dei criminali, quel Messina Denaro che si vantava di aver creato un cimitero di morti ammazzati da lui.

Ebbene perché il cinema italiano non se ne impossessa per creare un vero filone di film e racconti tesi a celebrare ed esaltare gli oscuri eroi dei Carabinieri, della Polizia e di tutte le forze dell’ordine e della magistratura, che in settant’anni di repubblica democratica hanno dato e stanno dando il meglio di sé per difenderla? E con lei la nostra libertà, la nostra sicurezza, i nostri valori? Dovevamo aspettare la cattura di Messina Denaro per apprendere che le nostre Forze dell’Ordine sono una eccellenza italiana, riconosciuta non solo dai nostri operatori della Giustizia, ma anche da quelli stranieri, da quell’estero che riteniamo sempre superiore alla nostra bistrattata Italietta. Perché ci accontentiamo di esaltare le nostre eccellenze gastronomiche (il parmigiano, la pizza…), o del fashion (gli stilisti, i creatori di moda), o delle grandi dive (Gina Lollobrigida, Sofia Loren…), e non ci curiamo di chi ha grandi virtù civili, tanto da rischiare la vita nel suo lavoro quotidiano? Ai morti ammazzati dalla mafia/ndrangheta/camorra noi riserviamo al massimo l’intitolazione di una strada o di una piazza; qualche libro di approfondimento di un esperto giornalista o scrittore e nient’altro. Ci sarà mai un italiano che esponga in casa il poster di Carlo Alberto Dalla Chiesa, come il capomafia esponeva il poster del Padrino? Già, il padrino, il bellissimo film con Marlon Brando… proprio perché bellissimo ha fatto un danno enorme alla coscienza civile; ha eroizzato gli assassini, li ha circondati dell’aureola del coraggio, quasi una laica santità. E invece i veri uomini sono quelli che li combattono. Perché ci vuole molto più coraggio e carattere e intelligenza per combatterla, questa gentaglia. La vera aureola la meriterebbero gli eroi della lotta alla mafia, come Dalla Chiesa, i suoi agenti, i poliziotti, i giudici ammazzati con ferocia belluina, altro che coraggio.

Solo l’eccidio di Falcone e Borsellino hanno suscitato più emozione e più narrazione rispetto a tutti gli altri nostri eroi. L’altro ieri sulla tomba di Falcone si è trovato un biglietto anonimo con su scritto «A Giovà, ci abbiamo messo trent’anni, ma ce l’abbiamo fatta!». Ecco, questo sentimento di orgoglio, di fierezza, di riscatto, umile perché anonimo, dovrebbe portare sugli schermi il nostro miglior cinema. E non solo personaggi fittizi di pura fantasia come il commissario Montalbano o la vicequestora Lolita Lobosco. Vogliamo persone vere, storie vere di «guardie e ladri» dove il furbo, il vincente, il «padrino» per l’appunto, non sia il solo eroe della storia, come tanto cinema sulla mafia ha fatto, di qua e di là dell’oceano. Vogliamo un’epopea italiana che finora non è stata fatta. Vogliamo l’epopea mancata dei nostri eroi.

Dalla Chiesa e la fiction tv che fa torto al generale.

Sergio Castellitto interpreta il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa

Il Prefetto sosteneva l'adozione di una legislazione premiale anche per i pentiti di mafia, ma ne avvertiva anche il rischio. Francesco Damato su Il Dubbio il 25 gennaio 2023

Ho molto esitato prima di decidermi a scrivere della fiction televisiva sul prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa morto sul campo della lotta alla mafia, “Il nostro generale”, sentendomi un po’ parte in causa per il torto che ritengo gli sia stato fatto. E ciò pur tra i tanti meriti giustamente riconosciutigli, specie quelli acquisti nella lotta alle brigate rosse e poi sommersi, nella memoria, dalle emozioni per il tragico esito della sua ultima missione al servizio dello Stato.

Mi sono alla fine deciso a scriverne con un compromesso con me stesso: quello di non raccontare come e perché sono parte interessata all’omissione che ho avvertito nella ricostruzione degli ultimi mesi, direi anche giorni di vita del generale. Che non furono contrassegnati soltanto dagli incresciosi rapporti polemici col ministro democristiano dell’Interno Virginio Rognoni, un po’ renitente ai maggiori poteri che il prefetto rivendicava per svolgere al massimo delle sue capacità le funzioni finalizzate alla lotta alla mafia. Nei cui riguardi il generale temeva di apparire debole, nonostante il prestigio di cui godeva nel Paese: debole, ripeto, ma soprattutto solo. Che è la condizione peggiore in cui si possa trovare un combattente contro la criminalità organizzata di quel tipo.

In questa ricerca persino “ossessiva” di maggiori poteri - come una volta si lasciò scappare lo stesso Rognoni parlandone col presidente del Consiglio Giovanni Spadolini - il prefetto chiese ed ottenne anche l’aiuto mediatico di Giorgio Bocca con quell’intervista a Repubblica opportunamente ricostruita e valorizzata nella fiction televisiva. Che, purtroppo per il generale, finì però per ottenere l’effetto opposto a Roma perché al Viminale ebbero la sensazione di un eccesso di personalizzazione del problema.

Ebbene, proprio in quei giorni, e in quelli immediatamente successivi, oltre che per i suoi poteri personali e per le misure legislative che avrebbero dovuto supportarli, il generale si prodigò perché fosse sperimentata un’applicazione alla lotta alla mafia della legislazione cosiddetta premiale adottata con successo nella lotta al terrorismo. Che non si sarebbe certamente vinta senza il contributo dei pentiti, a cominciare dal più famoso che fu Patrizio Peci. Il quale peraltro, destinato a perdere barbaramente per ritorsione il fratello Roberto, era stato convinto a parlare proprio dal generale dalla Chiesa. Che si vantava di averlo convinto, dopo la cattura, parlandogli - diceva ai sottoposti - “da militare a militare”. E rivelandogli le scorrettezze e persino i tradimenti riservatigli dai compagni di lotta.

Nel sostenere l’adozione di una legislazione premiale anche per i pentiti di mafia, sopraggiunta di molto alla morte del generale ma completamente ignorata nella fiction televisiva chissà per quale ragione, il prefetto avvertiva tuttavia il rischio - date le diverse condizioni sociali in cui i due fenomeni si erano sviluppati e operavano, i terroristi peraltro tenendosi ben lontani dalla Sicilia - di non ripetere l’esperienza di chi, pur avendo parlato senza legislazione premiale, era finito in manicomio. E il prefetto ne fece anche il nome: il palermitano Leonardo Vitale, consegnatosi nel 1973, all’età di 32 anni, nelle mani dell’allora commissario di Polizia Bruno Contrada confessando due omicidi e il tentativo di un terzo.

Il primo pentito di mafia consentì con le sue rivelazioni una quarantina di arresti, ma il processo o i processi che ne conseguirono si conclusero fallimentarmente per lui. Gli accusati furono assolti per l’ancora fortissima omertà che copriva i mafiosi, e lui condannato a 25 anni di carcere, in gran parte scontati in manicomi criminali perché considerato pazzo.

L’ultima detenzione di Vitale, proveniente da Barcellona Pozzo di Gotto, fu a Parma. Da dove uscì nel 1984, circa due anni dopo l’assassinio del prefetto di Palermo. Ma ne uscì per poco perché la mafia si vendicò del suo ormai lontano tradimento, dagli effetti giudiziari peraltro contenuti, uccidendolo il 12 dicembre, prima che l’anno della liberazione passasse. Fu un’esecuzione di pena per la vittima, in applicazione delle leggi della mafia, e un avvertimento per gli altri intenzionati ad avvalersi delle norme premiali avvertite come probabili e sostenute dal generale. Che però aveva saputo seminare abbastanza nel pur poco tempo trascorso a Palermo da prefetto, e ancor più altrove nella lotta al terrorismo, per far crescere il pentitismo, pur nelle degenerazioni prodotte - bisogna ammetterlo - da una cattiva gestione del fenomeno. All’ombra del quale, con uomini ben diversi dalla stazza morale di Carlo Alberto dalla Chiesa, sono accadute nell’intreccio fra politica e mafia, o fra cronache giudiziarie e politiche, cose da pazzi: di una follia vera, non quella attribuita al povero Leonardo Vitale.

"Basta associare papà solo alla lotta alla mafia. Sconfisse anche le Br". Paolo Guzzanti su Il Giornale il 3 Gennaio 2023

La figlia del generale Carlo Alberto: "La sua azione contro i terroristi è rimasta invisibile"

Non c'è nulla di peggio degli anniversari per banalizzare la memoria. Per fortuna esiste il caso opposto: quello del recupero della memoria, un filmato che non è una fiction, ma piuttosto un docufilm, interpretato per di più da attori come Sergio Castellitto e tanti altri, bravissimi nel riprodurre non una somiglianza ma una memoria. È accaduto. (La serie Il nostro generale andrà in onda su RaiUno dal prossimo 9 gennaio).

Quaranta anni fa il generarle Carlo Alberto Dalla Chiesa e sua moglie Manuela Setti Carraro furono barbaramente assassinati a Palermo da Cosa Nostra. Da allora il Generale è salito sul palco degli eroi della guerra alla mafia. Ma Dalla Chiesa è stato prima di tutto il comandante in capo, unico e vittorioso, del Gruppo antiterrorismo dei carabinieri che accettarono di abbandonare la vita civile rinunciando a mogli e fidanzate per combattere e vincere la guerra dello Stato contro le sedicenti «Brigate rosse per il comunismo».

La figlia Rita oggi dice: «In questi anni io e la mia famiglia abbiamo spesso assistito, increduli e sgomenti a interpretazioni romantiche dei brigatisti, ritratti come ingenui idealisti oppure, nel peggiore dei casi, come vittime di un sistema politico che li manipolava». Ed è stato esattamente così: chi c'era e ricorda, sa che i brigatisti formavano una banda armata di carnefici, in parte certamente eteroguidati dal sistema sovietico (ho personalmente raccolto le dichiarazioni del Procuratore capo di Budapest nel 2006), uccidevano sparando alle spalle dei cittadini inermi, in nome di una narcisistica ideologia sanguinaria.

«È così ricorda Rita dalla Chiesa - venivano coccolati da un certo tipo di sinistra che li accoglieva nei salotti, li nascondeva nelle seconde case e arricciava il naso di fronte ai Gruppi Antiterrorismo di mio padre. Noi l'abbiamo proprio vissuta sulla nostra pelle questa ingiustizia perché, dopo mio padre, ho perso mia mamma, morta d'infarto a cinquantadue anni senza avere neanche avuto funerali decenti, dal momento che ci tenevano in caserma per proteggerci e non si poteva uscire».

Che cosa ricorda di quella mesta cerimonia di addio in un garage di una caserma?

«Ricordo carabinieri che aprivano le corone e distruggevano i fiori per assicurarsi che non ci fosse nascosto un ordigno. Non abbiamo avuto il tempo di piangere nemmeno mio padre ucciso dalla mafia. C'è gente secondo cui noi, i figli del generale, tutto sommato non ce la siamo cavata malissimo, tant'è che abbiamo raggiunto comunque posizioni. È una offensiva sciocchezza: quando uccisero papà io ero già una giornalista professionista, mio fratello Nando era professore universitario e nostra sorella consigliere comunale».

Lei ha dichiarato ieri che la memoria di suo padre è ostaggio dell'ambiguità politica. A che cosa si riferisce?

«Mi riferisco al fatto che non riuscendo a fare i conti con il proprio passato c'è una politica che ricorda quello che le fa comodo».

Insomma secondo lei i partiti di sinistra fingono di non ricordare la guerra vinta da suo padre contro i terroristi di sinistra e lo usano soltanto come icona antimafia?

«Non credo che sia un caso che la figura di mio padre sia più associata alla lotta alla mafia che non alla sua vittoria sui brigatisti rossi. Se fosse vero vorrebbe dire che un martire della criminalità organizzata è meno divisivo di colui che ha sconfitto le Brigate Rosse».

Ma qual è stato secondo lei il motivo reale, la causa immediata dell'uccisione di suo padre?

«L'arrivo del ministro Rino Formica a Palermo, quando annunciò una restaurazione della trasparenza. E questa affermazione ha esposto mio padre, già odiato da quando era tornato in Sicilia perché aveva sovvertito l'ordine naturale mafioso, fondato sulla trasversalità degli amici degli amici, i favori degli amici degli amici cui ti rivolgi per cose anche minime come una patente».

Beh, c'è una certa differenza fra i favoritismi e la mafia vera e propria.

«Da questo mercato di favori discende la non trasparenza nelle banche in cui sarebbero arrivate montagne di soldi da gestirsi fra amici e amici degli amici. Era il pericolo vero. E lo abbiamo visto materializzarsi proprio il giorno della morte del generale, quando decollò un aereo da Palermo diretto a New York: un volo mai esistito, salvo la sera in cui hanno ucciso mio padre».

Lei ha suggerito il modello del docufilm a Simona Ercolani che all'inizio pensava a una fiction e che lei ha poi ha convinto a convertire in un documento che, con l'aiuto di grandi attori, è ora un manuale di storia.

«All'inizio la Rai voleva fare una fiction e io ho detto di no: se ne sono già fatte due. Poi ho guardato Simona e ho detto: a meno che non vogliate parlare in questa serie soltanto degli anni di piombo, che non erano mai stati toccati se non in modo impreciso e provvisorio. Simona ha sposato immediatamente l'idea, perché è vero: degli anni di piombo e del terrorismo rosso non si parla mai. Ricordo quando mi resi conto che l'intero significato della vita e della morte di Dalla Chiesa era centrato tutto e soltanto sulla mafia siciliana, rendeva invisibile tutto ciò che mio padre aveva fatto lottando contro la cattiva politica e i cattivi maestri che fiancheggiarono il terrorismo delle Brigate Rosse».

E l'esercito quasi clandestino che usò suo padre?

«Questo è un film specialmente su questi ragazzi che non hanno mai avuto un nome vero, ma solo i soprannomi che gli aveva dato mio padre. Ieri mi ha scritto Trucido, e io Trucido non so come si chiami, perché per me è sempre e soltanto Trucido, anche sul mio cellulare. E questi ragazzi avevano lasciato le loro famiglie e le loro fidanzate per lavorare con papà: la loro è una grande storia, per la dedizione e l'amore che avevano per mio padre e l'amore che papà aveva per loro. La generazione che è arrivata dopo non può avere memoria di ciò che non ha vissuto».

È stato insomma un bel lavoro di squadra.

«E voglio ringraziare tutti gli attori, a partire da Castellitto, che hanno interpretato la nostra vita. Lui mi ha detto subito: Rita io non voglio somigliare fisicamente a tuo padre, ma voglio che mi racconti quello che lui aveva dentro, perché solo in questo modo io riesco a riviverlo per gli altri. E lo stesso vale per la persona che ha interpretato mia mamma, Teresa Saponangelo, un'attrice napoletana bravissima. Io le ho le ho raccontato di mamma e mi sono commossa, ho visto lo sforzo che hanno fatto e ho potuto apprezzare una casa di produzione che si è presa in carico la nostra vita, mia e dei miei fratelli, e ne è venuto fuori quel pezzo di storia che in Italia tutti dovrebbero conoscere. Questo docufilm può essere additato come esempio di ciò che andrebbe fatto per raccontare l'Italia, perché la memoria non si può costruire, la memoria non si può imporre, ma si possono fornire gli strumenti per formarla. Quando con Simona ne abbiamo parlato, le ho detto: beh beati voi che avete fatto una cosa su un pezzo della storia in Italia. E questo potrebbe davvero essere un punto di partenza per la ricostruzione della memoria, per dare consapevolezza alle nuove generazioni, visto che da loro si pretende il rispetto della memoria».

L'ex magistrato, il depistaggio Scarantino e la casa all'imputato. Con Scarpinato il partito di Grillo è diventato garantista e berlusconiano…Piero Sansonetti su Il Riformista il 30 Ottobre 2022 

Roberto Scarpinato, ex magistrato e oggi esponente di punta dei grillini, si è un po’ indignato per la risposta leggermente sprezzante che Giorgia Meloni ha dato, in sede di replica, al suo intervento al Senato (che per la verità era piuttosto sconclusionato). Dice Scarpinato – in una intervista alla Stampa – che Giorgia Meloni ha sbagliato due volte: nel definirlo giudice perché lui è stato sempre e solo Pm, e nell’accusarlo di essere responsabile del depistaggio (col falso pentito Scarantino) nelle indagini sull’uccisione di Paolo Borsellino. Poi ha aggiunto di essere stato lui ad avere “smascherato il depistaggio”.

Ha ragione Scarpinato? Ha ragione nel dire che non è mai stato giudice e di non essere responsabile del depistaggio (ma Meloni non ha attribuito a lui quel depistaggio ma ad alcuni settori della magistratura palermitana. In effetti il depistaggio coinvolse il Procuratore Tinebra e anche il giovane Di Matteo, ma non Scarpinato). Che però sia stato lui a smascherarlo è del tutto falso. Fu la procura di Caltanissetta, guidata dal procuratore Lari, che si accorse nell’inguacchio e chiese alla Procura generale di Palermo di sospendere le pene alle persone innocenti vittime del depistaggio. La Procura generale (cioè Scarpinato) non poteva che dare seguito alla richiesta di Lari. Nessun ruolo di Scarpinato nello smascheramento. Nel seguito dell’intervista Scarpinato propone altre due tesi che meritano un breve commento. Chiede: “Si può onorare Borsellino e poi poggiarsi sui voti di Berlusconi?” Stupisce il fatto che Scarpinato parli di Borsellino. Perché è stato proprio lui, poche ore dopo la morte di Borsellino, a chiedere l’archiviazione del dossier mafia-appalti, avviato da Falcone e sul quale Borsellino voleva indagare.

Vi sembra che chi ha archiviato quel dossier sia l’uomo giusto per onorare Borsellino? Le mancate indagini su quel dossier sono state un danno probabilmente irreparabile al lavoro di chi tentava in quegli anni di colpire la mafia. Tanto che oggi, finalmente, proprio la Procura di Caltanissetta (la stessa che smascherò Scarantino) ha aperto una indagine su quella dannata archiviazione. Vuole capire bene perché fu fatta e che danni provocò. Attenti, per carità, a usare la parola smascherare… Infine l’ultima battuta dell’intervista di Scarpinato è contro Nordio accusato di voler restituire alla polizia giudiziaria l’indipendenza che oggi non ha, rendendo in questo modo più libere ed equilibrate le indagini. Oggi la polizia giudiziaria è interamente nelle mani del Pm (che si sceglie gli uomini che dovranno indagare) ed è costretta ad obbedirgli, a seguire la strada che il Pm indica e a lavorare a favore delle sue tesi. Una follia, degna davvero degli Stati autoritari.

P.S. Ma Scarpinato, sebbene non sia stata smentita la notizia sull’acquisto, qualche anno fa, a un prezzo piuttosto alto, di un appartamento di cui era comproprietario, da parte di un suo ex imputato (assolto su sua richiesta) resta un esponente di punta dei 5 Stelle. Sebbene nessun articolo del codice penale proibisca a un magistrato di fare affari con i propri imputati, e dunque non c’è il reato, eravamo tutti convinti che il codice etico del partito di Grillo non considerasse accettabili simili comportamenti e dunque procedesse contro Scarpinato, allontanandolo dal gruppo parlamentare. Invece lo hanno fatto capogruppo. Forse, all’improvviso, sono diventati tutti garantisti e anche un po’ berlusconiani…

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019. 

Un colossale depistaggio orchestrato “solo per idee politiche diverse”. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 24 ottobre 2022

La condotta dell’allora maggiore Subranni non fu affatto ineccepibile ed esemplare; la sua ipotesi investigativa, in sintonia con il clima dell’epoca, appariva “giustificata dalle prime evidenze percepibili sulla scena del crimine”, e “avrebbe consentito una conclusione dell’inchiesta rapida e funzionale ad alimentare il teorema di infiltrazioni terroristiche tra le fila dell’estrema sinistra”.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.

Dall’esame degli atti processuali sull’omicidio Impastato e sulle relative indagini emerge che vi fu, nella fase iniziale di dette indagini, una chiusura pregiudiziale a far luogo ad accertamenti e acquisizioni, sia documentali che testimoniali, che potessero avvalorare una pista alternativa a quella dell’eclatante gesto suicida o della morte accidentale del presunto attentatore.

Ma è pure vero che il compendio probatorio, integrato e arricchito da quelle risultanze che la fretta di chiudere le indagini dirette dall’allora Maggiore Subranni aveva precluso, consentì al giudice istruttore dell’epoca di affermare che si era trattato di un delitto e di accreditarne con ragionevole certezza la matrice mafiosa.

Ma non fu possibile andare oltre l’archiviazione per essere rimasti ignoti gli autori del delitto, anche se, nel chiosare tale conclusione, lo stesso g.i non mancò di imputare anche “agli irreparabili ritardi derivati da quello che nella requisitoria del pm viene definito l’iniziale “depistaggio delle indagini”, oltre che alla sopravvenuta uccisione di Finazzo Giuseppe, le cause che avevano impedito di tradurre in ben definite responsabilità individuali le verità che emergono dalle carte processuali.

Nella stessa sentenza del g.i dott. Caponnetto si dà atto che il Subranni (nel frattempo promosso al grado di Colonnello), già estensore dei due rapporti in data 10 e 30 maggio 1978 nei quali esprimeva la ferma convinzione che l'Impastato Giuseppe si fosse “suicidato compiendo scientemente un atto terroristico”, ammetteva sostanzialmente di esseri sbagliato.

In particolare, nella deposizione resa il 25.12.1980, egli precisava di avere appreso, dai suoi contatti con l’A.g., che dalle ulteriori indagini erano scaturiti “elementi tali da far ritener plausibile una causale diversa da quella formulata con il rapporto”. E nella successiva deposizione resa il 16.07.1982, lo stesso colonnello Subranni “in termini ancora più espliciti e con una lealtà che gli fa onore, dichiarava: «Nella prima fase delle indagini si ebbe il sospetto che l'Impastato morì nel momento in cui stava per collocare un ordigno esplosivo lungo la strada ferrata. Questi sospetti però vennero meno quando in sede di indagini preliminari, svolte da magistrati della Procura, emersero elementi che deponevano più per l’omicidio dell'Impastato che per una morte accidentale cagionata dall’ordigno esplosivo. Dalle indagini a suo tempo svolte, emerse in maniera certa che l'Impastato era seriamente e concretamente impegnato nella lotta contro il gruppo di mafia capeggiato da Gaetano Badalementi, che l'Impastato accusava di una serie di illeciti, anche di natura edilizia, In ordine a questa ultima circostanza, muoveva anche accuse ad un certo Finazzo, ritenuto mafioso e legato al Badalamenti».

Sempre nella sentenza Caponnetto viene richiamato il rapporto giudiziario del 10 febbraio 1982 a firma del Comandante della Compagnia dei Carabinieri di Partinico che attesta quanto fossero mutati gli orientamenti e le convinzioni degli inquirenti — e dei carabinieri in particolare — in ordine alle circostanze, alle cause e alle modalità del tragico avvenimento verificatosi la notte del 9 maggio 1978. lvi si parla infatti del Finazzo Giuseppe come affiliato al clan mafioso capeggiato dal noto Gaetano Badalamenti, e lo si indica come indiziato di vari delitti il più grave dei quali risaliva al 9/05/78, ed era “la soppressione di Impastato Giuseppe, noto esponente di democrazia proletaria, di Cinisi, che pubblicamente non cessò mai, fino al giorno della sua morte, di accusare, arrivando financo a ridicolizzarlo, il Finazzo Giuseppe, il Badalementi Gaetano e gli altri esponenti della mafia”.

In realtà, sulla causale del delitto e quindi sulla sua stessa matrice mafiosa, persistevano differenze di valutazioni e di convinzioni in seno all’Arma, che trascendevano e prescindevano dalle iniziali e improvvide prese di posizioni, presto ritrattate, del Subranni.

Convinzioni che riflettevano radicati pregiudizi politico-ideologici, quando non addirittura meschine antipatie personali, assai più che non sordidi interessi collusivi con la criminalità mafiosa (fatta salva la possibilità di strategiche convergenze, sempre da dimostrare, nel comune interesse e nell’atavico obbiettivo di arginare il pericolo rosso, cioè l’avanzata dei comunisti o comunque della sinistra nella paventata marcia verso la conquista del potere in Italia).

LA SCONCERTANTE NOTA DEL CAPITANO  HONORATI

Ne costituisce riprova la sconcertante Nota del 20 giugno 1984 a firma del nuovo comandante del nucleo operativo del gruppo carabinieri di Palermo, Maggiore Tito Baldo Honarati (citato anche che nel decreto di archiviazione del procedimento a carico del Subranni per il reato di favoreggiamento aggravato in relazione all’omicidio Impastato).

Questi, infatti, nel rispondere alle richieste dei comandi superiori che sollecitavano, anche a seguito delle polemiche seguite all’intervenuta archiviazione, ulteriori indagini per fare luce sul caso Impastato, ribadiva come le indagini — definite molto articolate e complesse — condotte dal nucleo operativo al suo comando — hanno condotto al convincimento che l'Impastato Giuseppe abbia trovato la morte nel predisporre un attentato di natura terroristica; e tale esito non lasciava prevedere né giustificava allo stato ulteriori possibilità investigative.

Nella Nota si sottolineava che «L‘ipotesi di omicidio attribuito all‘organizzazione mafiosa facente capo al boss Gaetano Badalamenti operante nella zona di Cinisi è stata avanzata e strumentalizzata da movimenti politici di estrema sinistra ma non ha trovato alcun riscontro investigativo ancorché sposata dal Consigliere Istruttore del tribunale di Palermo, dr. Rocco Chinnici, a sua volta, è solo opinione di chi scrive, solo per attirarsi le simpatie di una certa parte dell'opinione pubblica conseguentemente a certe sue aspirazioni elettorali, come peraltro è noto, anche se non ufficializzato ai nostri atti, alla scala gerarchica».

Che si arrivasse a dire tanto del dr. Chinnici, a meno di un anno dalla sua tragica morte in occasione della strage mafiosa di via Pipitone Federico, lascia ancora oggi basiti. Ma quel che interessa qui segnalar è che, nel merito, l’estensore delta nota si sforzava di motivare il rilancio della tesi della morte dell'Impastato nel compimento di un attentato per finalità terroristiche, richiamando gli elementi a suo tempo forniti dal medesimo nucleo operativo, ed evidenziando le ragioni che facevano (a lui) ritenere assai fragile la pista alternativa dell’omicidio di mafia: «si vuol fare

osservare, e ciò è di immediata intuizione per chi conosca anche specificatamente questioni di mafia, come una cosca potente, e all'epoca dominante, come quella facente capo al Badalemnti, non sarebbe mai ricorsa per l'eliminazione di un elemento fastidioso ad una simulazione di un fatto così complesso nelle sue componenti anche di natura ideologica, ma avrebbe organizzato o la soppressione eclatante ad esempio e monito di altri eventuali fiancheggiatori dell'Impastato, o la più sbrigativa e semplice eliminazione con il sistema della lupara bianca che ben difficilmente avrebbe comportato particolari ripercussioni».

Erano passati sei anni dal delitto e quasi quattro anni da quando per la prima volta l’allora maggiore (rectius, colonnello) Subranni aveva ritrattato il suo iniziale convincimento.

[…] Ed allora, sul punto può concludersi che la condotta dell’allora maggiore Subranni non fu affatto ineccepibile ed esemplare; ma non può inferirsene che essa sia stata frutto di un deliberato proposito di favoreggiamento nei riguardi della locale cosca mafiosa e non l’espressione, piuttosto, del pervicace attaccamento all’ipotesi investigativa più in sintonia con il clima dell’epoca (oltre che con orientamenti ideologici verosimilmente a quel tempo ancora molto radicati nell’Arma): un’ipotesi investigativa che appariva peraltro giustificata dalle prime evidenze percepibili sulla scena del crimine, e che avrebbe consentito una conclusione dell’inchiesta rapida e funzionale ad alimentare il teorema di infiltrazioni terroristiche tra le fila dell’estrema sinistra. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO

Una “cantata” incerta e la spregiudicata azione di un capitano. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 30 ottobre 2022

Il Cap. De Donno partecipa agli interrogatori del Li Pera dinanzi all’A.g. catanese senza farne cenno a quella stessa A.g. palermitana per conto della quale contemporaneamente stava espletando una complessa indagine sulle medesime vicende sulle quali vertevano le dichiarazioni rese dal Li Pera al pm di Catania

Su Domani pRosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.

Insomma, ove si volesse ancora dare credito alla pRospettazione accusatoria, dovrebbe sostenersi che vi sarebbe stato un tentativo di depistaggio orchestrato dal Cap. De Donno, che però non conseguì l’obbiettivo prefissato (e cioè quello di ridimensionare il ruolo di Cosa nostra nel sistema di gestione unitaria e verticistica della Spartizione e aggiudicazione degli appalti pubblici in Sicilia), ed anzi sortì l’effetto contrario, inducendo finalmente il Li Pera, le cui propalazioni avrebbero dovuto servire da propellente per quel disegno di depistaggio, a iniziare con l’A.g. palermitana un primo parziale rapporto di collaborazione attendibile.

Ma se il Ros., attraverso l’azione spregiudicata del Cap. De Donno (che partecipa agli interrogatori del Li Pera dinanzi all’A.g. catanese senza farne cenno a quella stessa A.g. palermitana per conto della quale stava nel medesimo torno di tempo espletando una complessa indagine sulle medesime vicende sulle quali vertevano le dichiarazioni rese dal Li Pera al pm di Catania, dr. Lima) avesse avuto interesse a valorizzare le dichiarazioni del sedicente o aspirante collaboratore per depistare l’indagine in corso su mafia e appalti, non si vede per quale ragione non acquisire quella fonte agli atti della medesima inchiesta.

Invece, come si evince sempre dalla citata relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini su mafia e appalti, nella ulteriore corposa informativa redatta dallo stesso Cap. De Donno e consegnata alla procura di Palermo il 5.09.1992, avente ad oggetto gli stessi fatti, e cioè l’attività della Sirap Spa su cui riferiva il Li Pera (...) non vi era traccia delle dichiarazioni che costui stava rendendo (cfr. pag. 28). Si può anche comprendere che De Donno scontasse l’imbarazzo di dover trasmettere ai magistrati della procura palermitana gli atti relativi alle escussioni de Li Pera, in quanto questi aveva tra l’altro formulato pesanti accuse nei riguardi di taluni magistrati del medesimo ufficio, indicandoli come autori dell’illecita divulgazione del rapporto mafia-appalti avvenuta prima ancora del suo arresto. Ma tale spiegazione non regge per i primi verbali — e cioè quelli del 13 e 15 giugno che sono stati qui acquisiti – nei quali già il Li Pera illustra il sistema triangolare di Spartizione degli appalti, senza che vi sia traccia di accuse contro i magistrati della procura di Palermo, ai quali inizialmente il Li Pera addebitava solo di non avere avuto interesse a sentirlo, nonostante egli avesse fatto pervenire attraverso il proprio difensore la propria disponibilità.

E in effetti, come puntualmente rilevato nella corposa ordinanza di archiviazione del gip di Caltanissetta del 15 marzo 2000, le prime accuse del Li Pera ai magistrati palermitani risultano verbalizzate nell’interrogatorio reso al cap. De Donno delegato dal pm. Lima ad assumerlo, in data 20 luglio 1992. Sicché, a volere indugiare sul terreno di astratte e improbabili congetture, se ne potrebbe persino inferire che il De Donno omise di inserire le propalazioni del De Donno nell’informativa Sirap. proprio perché esse potevano pregiudicare o mettere in discussione l’impianto originario dell’indagine mafia-appalti. 

IL TRAVAGLIATO PERCORSO COLLABORATIVO DI LI PERA

Piuttosto, è la stessa Relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini mafia e appalti a fornire una chiave di lettura del travagliato e incerto percorso collaborativo del Li Pera che l’affranca da qualsiasi ipotesi di intenzionale depistaggio sobillato dal Ros, traendone anzi un indiretto riscontro al ruolo di progressivo protagonismo assunto in Sicilia da Cosa nostra nel sistema di “tangentopoli”: ruolo che ne faceva un caso unico nel panorama nazionale e che rende ragione dei motivi per citi, a differenza che in altre regioni d’Italia, gli imprenditori attinti a vario titolo dalla presente inchiesta hanno generalmente assunto un atteggiamento di ostinata omertà, chiudendosi a qualsiasi collaborazione con l’Autorità Giudiziaria.

Ivi si rimarca infatti che lo stesso Li Pera fu vittima delle pressioni intimidatorie esercitate da qualificati esponenti mafiosi nell’intento di interferire sulle indagini in terna di mafia e appalti. E che solo dopo essere stato sottoposto a programma di protezione aveva iniziato a riferire le notizie di cui era in possesso anche sii/la realtà mafiosa, mentre in una prima fase, e cioè quella della sua collaborazione con l’A.g. catanese, si era limitato a riferire quanto a sua conoscenza sul versante della corruzione politico—amministrativa.

Per la verità, già dal verbale dell’interrogatorio reso al pm. dott. Lima (sempre nell’anomala veste di persona informata sui fatti - il 15 giugno risulta che il dichiarante aveva iniziato a fare qualche ammissione, sia pure velata da palese reticenza. Infatti, egli, da un lato, nega di avere mai avuto un qualsiasi contatto con organizzazioni criminali (e quindi nega anche di avere avuto problemi nel suo lavoro con la delinquenza organizzata); […]. Ma poi aggiunge: «In ogni caso, poiché ero consapevole della situazione che c‘è in Sicilia, ho sempre prevenuto questo tipo di problemi subappaltando quanta più parte possibile del lavoro ad imprese del posto dove realizzavamo il lavoro stesso. Inoltre, compravo tutti i materiali dai fornitori locali e assumevo quanta più gente possibile del posto. Questo ci assicurava la tranquillità».

[…] Certo è che quel velo di reticenza sembra essersi dissolto il 12 novembre 1992, quando Io stesso Li Pera renderà al pm. dott. Antonio Di Pietro, magistrato di punta del pool di “Mani Pulite”, dichiarazioni (presente all’atto istruttorio anche il Capitano De Donno: v. infra) che denotano un’approfondita conoscenza dei meccanismi di funzionamento dei comitati d’affari che presiedevano alla Spartizione degli appalti, tra politici di rilievo corrotti (fra i quali indicherà Salvo Lima, ma anche Turi Lombardo, Rino Nicolosi e proprio Calogero Mannino) e le cordate e cartelli imprenditoriali di cui erano partecipi i più importanti imprenditori dell’epoca, sia siciliani (come Graci, Costanzo, Rendo Salamone, Vita, Siino Angelo, e Farinella Cataldo), che nazionali (come Astaldi, Torno, Lodigiani, Tor di Valle, Cogefar, C.M.C., Edilter, Grassetto Costruzioni, Todini, Tosi, Matauro, Ilva, Codelfa e altri), attribuendo un ruolo preminente all’interno dei comitati predetti ad alcuni imprenditori in particolare, come Filippo Salamone Ma al contempo, il dichiarante ammette senza riserve che in Sicilia esisteva anche la componente mafiosa, che aveva un ruolo di primaria importanza nell‘assicurare la funzionalità degli stessi comitati.

Inutile aggiungere poi che lo sforzo profuso dal Capitano De Donno per valorizzare una fonte come Li Pera - che non lesinava accuse ai politici tra i quali proprio Calogero Mannino - sia pure con condotte discutibili o decisamente censurabili sotto il profilo della correttezza e lealtà dei suoi rapporti di cooperazione con le autorità giudiziarie di riferimento, denota quanto infondato sia anche solo il sospetto di compiacenza nei riguardi dell’ex ministro per gli interventi nel Mezzogiorno. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO

Il pentito fasullo e il depistaggio. La strage di via D’Amelio, i figli di Borsellino presi in giro per 30 anni dallo Stato e da Scarantino. Paolo Liguori su Il Riformista il 19 Luglio 2022

Via D’Amelio, Palermo. Trent’anni fa l’omicidio di Paolo Borsellino, poco dopo quello di Giovanni Falcone. Trent’anni fa fu così. Oggi sono passati trent’anni per tutte e due, Falcone e Borsellino, vittime della mafia. Certo vittime della mafia. Ma nel caso Borsellino, anche però protagonisti di uno dei più grandi depistaggi di Stato che sono mai stati fatti in Italia. Perché su Borsellino, naturalmente, non si riesce ancora a stabilire esattamente come sono andate le cose. E chi sono stati mandanti, esecutori con precisione. Perché c’è stato un depistaggio effettuato dalla magistratura.

All’improvviso spuntò fuori un pentito, Scarantino, che disse ‘vi dico io chi sono stati i colpevoli’. E lo disse. Beh, dopo trent’anni abbiamo scoperto che quel pentito era un pentito fasullo. Aveva capito che volevano da lui delle cose. Ai magistrati le aveva dette, ma subito dopo ritrattò e ritrattò pubblicamente. Chi vi parla faceva il direttore di Studio Aperto all’epoca. Scarantino ritrattò a Studio Aperto. E anche in una rubrica che avevo a Studio Aperto – Fatti e misfatti – noi lo dicemmo subito. Ebbene, fummo silenziati e addirittura il testo di quell’intervista fu secretato e rimase segretato per molti anni. Perché? Perché disturbava i magistrati che avevano raccolto quella testimonianza? Io, senza fare nomi, vi dico che il magistrato che raccolse quella testimonianza fu il pm Di Matteo.

Però poi la cosa è proseguita. Siamo andati avanti con altri processi, tutti basati sulle testimonianze di Scarantino. Come se non avesse ritrattato. E lui continuava a dire no, non è vero. No, non è andata così. Gli conveniva fare quella falsa confessione finché non si è arrivati a un processo a Catania che ha rimesso in libertà alcuni poliziotti che erano stati ingiustamente accusati e poi adesso a un processo a Caltanissetta che ne ha accusati altri.

Insomma, tutte le istituzioni hanno partecipato a questo depistaggio. Se qualcuno volesse vederci chiaro, bisognerebbe davvero su questo istituire una commissione ad hoc sulla questione di Borsellino, non sulla mafia, ma su come in trent’anni di lotta alla mafia alcuni apparati dello Stato hanno fatto la loro parte, hanno fatto i loro interessi, hanno cercato le loro carriere.

Questa è l’idea nostra e anche quella dei figli di Borsellino. Loro infatti sono stati i primi a denunciare sin dall’inizio questo depistaggio. E quindi noi ci associamo a loro, a Fiammetta Borsellino che l’ha più volte denunciato. Perché è vergognoso il depistaggio, oltre che naturalmente la perdita a seguito dell’omicidio. Son dolori che abbiamo già subito con Falcone, ma in questo caso molto più gravi. 

Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom

Non sappiamo i loro nomi, ma a uccidere Borsellino non è stata solo la mafia. ATTILIO BOLZONI Il Domani il 19 luglio 2022

Con l’autobomba del 19 luglio 1992 hanno assassinato Borsellino e “suicidato” la Cosa Nostra di Totò Riina. Un piano perfetto.

La regia è altrove e se ne rintracciano indizi fin da prime indagini. Mai un'investigazione ha raccolto in sé tante anomalie e forzature, mai tanti inganni sono riusciti a passare al vaglio di procure della repubblica, corti di assise e corti di assise di appello fino a ricevere il bollo ultimo della Cassazione.

Il depistaggio di cui tanto si parla non è partito dopo l'attentato, il depistaggio è partito prima. Pentiti fabbricati in laboratorio, atti spariti, procuratori ben disposti a prendere ordini dagli apparati. Una giustizia piegata a interessi non di giustizia.

Borsellino, la strage di via d'Amelio: trent’anni di bugie e silenzi. Quella verità negata dal depistaggio di Stato. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 18 Luglio 2022.

l depistaggio ci fu, ha detto la sentenza del tribunale di Caltanissetta. Anche se è ormai prescritto. E per la prima volta sono stati ritenuti responsabili uomini dello Stato per il mancato accertamento della verità

La grande incompiuta del nuovo tribunale, accanto al vecchio palazzo di giustizia, è diventata un monito per tutti quelli che passano. Qui, lo Stato si è fermato. Da dodici anni non riesce a completare un edificio che doveva essere il simbolo della verità e della giustizia nel distretto di corte d'appello chiamato a trovare i responsabili delle stragi del 1992.

Borsellino, la strage di via d'Amelio: trent’anni di bugie e silenzi. Quella verità negata dal depistaggio di Stato. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 18 luglio 2022.

Caltanissetta - La grande incompiuta del nuovo tribunale, accanto al vecchio palazzo di giustizia, è diventata un monito per tutti quelli che passano. Qui, lo Stato si è fermato. Da dodici anni non riesce a completare un edificio che doveva essere il simbolo della verità e della giustizia nel distretto di corte d'appello chiamato a trovare i responsabili delle stragi del 1992. Un monito sinistro, che però non ha mai scoraggiato magistrati, investigatori, avvocati di parte civile e familiari delle vittime che sono arrivati in questa trincea nel cuore della Sicilia. Nei dodici anni della grande incompiuta, al quarto piano del vecchio palazzo di giustizia, dove ha sede la procura della Repubblica, sono state invece scritte pagine che nessuno immaginava: le dichiarazioni del killer Gaspare Spatuzza hanno svelato la grande impostura del falso pentito Vincenzo Scarantino e hanno consentito di avviare l'indagine sul depistaggio messo in atto da alcuni poliziotti. Il depistaggio ci fu, ha detto la sentenza del tribunale di Caltanissetta. Anche se è ormai prescritto. E per la prima volta, trent'anni dopo le stragi, sono stati ritenuti responsabili uomini dello Stato per il mancato accertamento della verità.

Resta la domanda: perché i poliziotti guidati dall'allora capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera si resero protagonisti del "più colossale depistaggio della storia giudiziaria d'Italia"? Se non era per favorire la mafia, come dice il tribunale, per quale altra finalità? Solo per ottenere presto un risultato? "Tesi troppo riduttiva", hanno osservato i legali di parte civile. Un falso pentito e una verità di comodo potevano trasformarsi presto in un boomerang per chi invece coltivava sogni di gloria antimafia. Dunque, cosa c'è davvero dietro il depistaggio? Se non fu architettato per favorire il boss Giuseppe Graviano e gli altri mafiosi che sventrarono via D'Amelio con un'autobomba, chi doveva proteggere e nascondere?

Sono stati trent'anni di misteri e di silenzi di Stato. La procura di Caltanissetta, oggi diretta da Salvatore De Luca, non ha mai smesso di indagare. I magistrati sono tornati a riesaminare decine di vecchi fascicoli in archivio, alla ricerca di piste e tracce. Un'attenzione particolare viene adesso data al dossier mafia e appalti, a cui Borsellino si era dedicato negli ultimi tempi: secondo la famiglia del giudice, potrebbe essere stata la ragione dell'accelerazione della strage.

Questa è una storia che continua a portare verso ambienti esterni alla mafia. Non sono dei mafiosi (già condannati) i volti ancora senza nome che compaiono nel lungo video che la procura fece realizzare anni fa dalla Scientifica, con tutti gli spezzoni Tv esistenti del 19 luglio. Chissà se fra quegli uomini c'è l'agente dei servizi segreti di cui ha parlato uno dei primi poliziotti arrivati in via D'Amelio, chissà se fra quegli uomini senza nome c'è il ladro dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. Di un altro Mister X ha parlato il pentito Spatuzza: "Il giorno prima dell'attentato, nel garage di via Villasevaglios dove si caricava l'autobomba, c'era una persona che non conoscevo". La verità la conosce Giuseppe Graviano, il capomafia di Brancaccio a cui Salvatore Riina affidò l'incarico di realizzare l'attentato. "All'inizio di luglio partì, andò fuori dalla Sicilia", ha raccontato il suo autista oggi collaboratore di giustizia, Fabio Tranchina. Dove andò Giuseppe Graviano? E chi incontrò?

Da qualche tempo, sono tornati gli operai nella grande incompiuta di Caltanissetta. E lo Stato ha riaperto il cantiere dell'opera simbolo. Ma, intanto, fra i corridoi e le aule del vecchio palazzo in cui si cerca la verità sulle stragi, sembra di stare dentro un labirinto. I pm hanno appena svelato l'ennesima impostura, quella dell'ex pentito Maurizio Avola, che aveva annunciato addirittura con un libro di essere fra i killer di via D'Amelio, vestito da poliziotto. Forse, voleva allontanare tutti i sospetti sugli uomini senza volto?

Sono tante le domande che continuano ad animare questo palazzo di giustizia dove negli ultimi anni è stata riscritta anche la storia dell'antimafia, con le condanne di due "paladini", Antonello Montante e Silvana Saguto. Sussurra uno dei ragazzi delle scorte: "Qui, i magistrati hanno toccato fili ad alta tensione".

«La verità sulle stragi di Cosa Nostra deve venire fuori, si indaghi ancora». Il Dubbio il 18 luglio 2022.

Il procuratore generale di Palermo Lia Sava crede che ci sia ancora del tempo utile per conoscere nuovi elementi su Capaci e via d'Amelio. Ma ricorda: «I processi non sono sociologia, ma si fanno raccogliendo elementi da portare in dibattimento e da trasformare in prove»

«Sappiamo tanto delle stragi e non è una sconfitta continuare a indagare, a trent’anni di distanza». Lia Sava, procuratore generale di Palermo, nella sua decennale esperienza a Caltanissetta ha indagato a lungo sugli eccidi del 1992 a Capaci e in via D’Amelio. «L’ansia di verità e giustizia – spiega in un colloquio con AGI – e il desiderio di colmare i buchi neri, a 360 gradi, non sono solo dei familiari delle vittime, ma appartengono a un intero Paese. Sarà sempre fatto il massimo sforzo per arrivare a una verità il più possibile completa».

In questo contesto c’è anche la vicenda del «gigantesco e inaudito depistaggio», come lo ha definito nell’ultima requisitoria la procura nissena, delle indagini sulla strage Borsellino del 19 luglio 1992, conclusa lo scorso 12 luglio, a Caltanissetta, con una assoluzione e due dichiarazioni di prescrizione nei confronti dei tre poliziotti imputati.

«Per serietà – spiega il Pg di Palermo – ogni commento andrà fatto solo dopo il deposito delle motivazioni della sentenza. Io ribadisco che in tutta la vicenda delle stragi ci sono punti oscuri, come emerge anche da sentenze definitive pronunciate a Caltanissetta e non solo. Tante procure, quella nissena come Palermo, Reggio Calabria e Firenze, continuano ad approfondire queste storie, sotto il coordinamento della Direzione nazionale antimafia, più che mai fondamentale, dato che occorre rimettere insieme i pezzi ancora mancanti alla verità sulle stragi, via D’Amelio in particolare, di cui domani ricorre il trentennale».

«L’agenda rossa di Borsellino sparita – dice ancora Lia Sava – e “l’extraneus” nel garage di via Villasevaglios, in cui fu caricato il tritolo nella 126 usata per l’attentato, e di cui parla Gaspare Spatuzza. Elemento che si collega all’altro estraneo alle cosche, che sarebbe stato nel garage di Troia quando venne macinato il tritolo per la strage di Capaci. Cosa che però non vuol dire che ci siano stati mandanti esterni, perchè Cosa nostra non si fa dettare nulla da nessuno. Noi infatti abbiamo sempre parlato di concorrenti esterni».

Poi l’aspetto più inquietante: la famosa “tastata di polso” di cui ha parlato Nino Giuffrè: «Fu il sondaggio in ambienti esterni alla mafia – aggiunge ancora l’alto magistrato – per decidere se procedere a quanto la commissione aveva deliberato già in precedenza, cioè di uccidere Falcone e Borsellino in caso di esito negativo del maxiprocesso in Cassazione. La tastata di polso ebbe esito favorevole, da quegli ambienti esterni e deviati arrivò il placet. E in questa direzione si continua a indagare, per individuarli: fermo restando che i processi non sono sociologia, ma si fanno raccogliendo elementi da portare in dibattimento e da trasformare in prove».

Delitto Borsellino, il procuratore nazionale antimafia chiede scusa per il depistaggio. Il Domani il 19 luglio 2022.

«Per la responsabilità della mia funzione non posso che chiedere pubblicamente scusa per tutte le omissioni e gli errori, ma anche per le superficialità e persino le vanità che hanno ostacolato la ricerca della verità sulla strage»

Trent’anni dopo la strage di via D’Amelio, molti anni dopo che si è concluso il processo senza portare alla verità sulla morte di Paolo Borsellino, ucciso dalla mafia ma non solo il 19 luglio del 1992, il procuratore antimafia Giovanni Melillo chiede scusa in un’intervista al Corriere della Sera.

Quello che, ricorda il giornalista Giovanni Bianconi, fu una sentenza ha definito «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiani», dopo l’assoluzione e le prescrizioni nel processo ai poliziotti accusati di calunnia: «A prescindere dalle responsabilità dei singoli, che si possono valutare soltanto nelle sedi istituzionali», ha risposto Melillo, «per la responsabilità della mia funzione non posso che chiedere pubblicamente scusa per tutte le omissioni e gli errori, ma anche per le superficialità e persino le vanità che hanno ostacolato la ricerca della verità sulla strage. Sono scuse che porgo con rispetto e profonda consapevolezza ai familiari delle vittime e alle persone che, innocenti, sono state trascinate nel baratro della condanna per quel delitto. Gli uni e le altre sanno assai meglio di noi che il tempo non lenisce quelle ferite, se tante domande restano senza risposta».

Il procuratore sembra aprire all’ipotesi che sul caso si lavorerà ancora: «È importante ricordare ciò che avvenne, per conservare l’ammirazione e la gratitudine che il paese deve alle vittime di quel terribile delitto. Soprattutto per riconoscere l’enorme debito di verità e giustizia che ancora oggi abbiamo verso le vittime e i loro familiari». Un debito, dice, «che impone di lavorare in silenzio e con serietà per placare quella sete insoddisfatta di verità e di evitare la retorica e la ritualità di celebrazioni che, seppure sentite e commosse, inevitabilmente rischiano di esacerbare il dolore di chi non può non guardare con diffidenza e fastidio alle formali promesse di impegno succedutesi negli anni».

LA POSIZIONE DELLA FAMIGLIA

Fiammetta Borsellino, la figlia del giudice ucciso, in una lunga intervista all’Espresso uscita qualche settimana fa, ha spiegato che non avrebbe partecipato alle commemorazioni. Posizione che la famiglia porta avanti da anni: «Ho deciso che è inutile andare allorquando ho avuto chiara certezza che personaggi di primo piano delle istituzioni non avevano fatto il loro dovere.

La piena consapevolezza di questo l’ho avuta quando le prime sentenze hanno documentato l’esistenza del più grande depistaggio nella storia della Repubblica italiana oggi noto a tutti, quello relativo alle indagini sulla strage di via D’Amelio, per la quale era stato costruito un finto pentito ed erano stati condannati degli innocenti». La moglie di Borsellino, Agnese Piraino Leto (sua madre), ha ricordato, «aveva rifiutato i funerali di stato. Allo stesso modo, noi figli abbiamo deciso di non partecipare mai più a cerimonie e celebrazioni di stato finché non sarà chiarito, anche fuori dai processi penali, tutto quello che è accaduto».

La famiglia chiede altro: «Per me fare memoria è avere risposte in termini di cose concrete, che ci avvicinino alla verità. Fare memoria non è dire vuote parole».

Melillo: «Le mie pubbliche scuse per il depistaggio e gli errori sul delitto Borsellino». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 18 luglio 2022.

Giovanni Melillo, procuratore nazionale antimafia dal 4 maggio scorso: che senso ha celebrare, trent’anni dopo, l’anniversario della «È importante ricordare ciò che avvenne, per conservare l’ammirazione e la gratitudine che il Paese deve alle vittime di quel terribile delitto. Soprattutto per riconoscere l’enorme debito di verità e giustizia che ancora oggi abbiamo verso le vittime e i loro familiari. Un debito che impone di lavorare in silenzio e con serietà per placare quella sete insoddisfatta di verità e di evitare la retorica e la ritualità di celebrazioni che, seppure sentite e commosse, inevitabilmente rischiano di esacerbare il dolore di chi non può non guardare con diffidenza e fastidio alle formali promesse di impegno succedutesi negli anni».

La sua sembra una risposta ai figli di Che cosa può dire ai familiari del magistrato e degli agenti uccisi, su quello che una sentenza ha definito «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiani», dopo l’assoluzione e le prescrizioni nel processo ai poliziotti accusati di calunnia? «A prescindere dalle responsabilità dei singoli, che si possono valutare soltanto nelle sedi istituzionali, per la responsabilità della mia funzione non posso che chiedere pubblicamente scusa per tutte le omissioni e gli errori, ma anche per le superficialità e persino le vanità che hanno ostacolato la ricerca della verità sulla strage. Sono scuse che porgo con rispetto e profonda consapevolezza ai familiari delle vittime e alle persone che, innocenti, sono state trascinate nel baratro della condanna per quel delitto. Gli uni e le altre sanno assai meglio di noi che il tempo non lenisce quelle ferite, se tante domande restano senza risposta».

Si poteva arrivare prima a scoprire le bugie smascherate dal pentito Spatuzza solo nel 2008? «Nessuno può dirlo con certezza. Però non c’è dubbio che la scelta di Spatuzza di collaborare con la giustizia fu per anni frenata dal timore di ritorsioni e vendette di Cosa Nostra. Non bisogna dimenticarlo. Anche per non rischiare di perdere di vista l’importanza, assolutamente fondamentale nel contrasto alle mafie, dello strumento dei collaboratori di giustizia, per cui tanto si spese Giovanni Falcone. Anzi, da tempo è matura l’esigenza di assicurare al sistema di protezione dei collaboratori reali standard di modernità ed efficienza; ancora oggi, ad esempio, per un’inerzia legislativa davvero incomprensibile, manca una disciplina dei documenti di copertura che impedisca, come purtroppo è accaduto, che una cosca mafiosa rintracci il collaboratore che ne ha svelato i delitti attraverso mirati accessi abusivi alle informazioni dei sistemi sanitari, previdenziali e fiscali».

Ma proprio il depistaggio sul delitto ha mostrato i rischi di un cattivo uso del pentitismo. «In generale, proprio il valore essenziale di quello strumento rende ancora più importante la responsabilità della magistratura di assicurare un rigoroso controllo della sua applicazione. Ciò richiede elevata professionalità, rigore metodologico e profonda conoscenza della natura e delle dinamiche dei fenomeni mafiosi. A partire dalla raccolta delle dichiarazioni del collaboratore».

Ci sono analogie tra quanto accaduto per la strage di via D’Amelio e altre pagine oscure della storia giudiziaria italiana? «Abbiamo bisogno di riflettere a fondo su ognuna di quelle che lei chiama “pagine oscure”. Il prossimo anno, ad esempio, sarà l’occasione per ricordare, quarant’anni dopo, la strage mafiosa nella quale perse la vita Rocco Chinnici, cui tanto deve l’esperienza del pool antimafia di Palermo, ma anche per riflettere sull’emblematica storia di Enzo Tortora. I delicatissimi poteri affidati a magistratura e apparati di polizia a fini di giustizia esigono, per ricevere una “giustificazione sociale”, la più scrupolosa osservanza delle regole e delle garanzie individuali. Un generale ripudio della tentazione di coltivare immagini edulcorate e a tutto tondo di sé, assegnandosi sempre e solo ruoli benefici e salvifici, aiuterebbe a evitare ogni affievolimento di quel ruolo di garanzia dei diritti e della legalità processuale, innanzitutto nella fase delle indagini, che fonda l’indipendenza della magistratura, e in particolare del pubblico ministero. Ma bisogna evitare anche rischi contrapposti».

Ad esempio? «L’uso politico strumentale dell’errore giudiziario e persino della fisiologica diversità delle pronunce giudiziarie traspare spesso nelle proposte di comprimere le prerogative processuali del pubblico ministero, indebolendone la responsabilità nella direzione delle indagini. Che resta essenziale, anche per evitare che la giustizia torni, come in un tempo non troppo lontano, a scorrere solo lungo i binari tracciati dai mattinali delle questure».

Che cosa resta da scoprire sulle «Obiettivamente, molto. Sin dal primo momento fu drammaticamente chiaro che le stragi rivelavano disegni e relazioni criminali difficilmente riconducibili alle sole strategie di un’organizzazione schiettamente criminale come Cosa Nostra. Basti ricordare le parole che il presidente del Consiglio Ciampi pronunciò dinanzi alle Camere riunite dopo i simultanei attentati del luglio ’93, additando la responsabilità di “una torbida alleanza” di forze eterogenee, ma con comuni obiettivi di destabilizzazione politica. Molti elementi, anche di recente acquisizione, sembrano indicare quello scenario anche in relazione ad altri non meno gravi delitti, la ricostruzione dei quali esige però ancora grande impegno ed un estremo rigore nelle valutazioni del materiale indiziario; anche perché ogni tentativo mal riuscito allontana la formazione di prove affidabili. In questa prospettiva, stiamo definendo un’apposita intesa con il Dis per rendere concretamente accessibili ai magistrati che indagano tutti i documenti dei servizi segreti versati all’Archivio di Stato, in attuazione delle direttive politiche, da ultimo del presidente Draghi, sulla declassificazione delle informazioni di intelligence sulle stragi che hanno insanguinato l’Italia repubblicana».

Che cosa può e intende fare la Procura nazionale per aiutare ancora in corso? «La Dna deve garantire l’impulso e l’effettivo coordinamento delle indagini che da tempo impegnano le Procure di Caltanissetta, Firenze, Palermo, Roma, Reggio Calabria e Catanzaro. Siamo dunque impegnati ad assicurare la tempestiva condivisione delle informazioni e l’opportuna concertazione delle iniziative dei vari uffici, anche attraverso l’applicazione ad alcune di quelle indagini di magistrati della Dna, secondo un modello di integrazione degli indirizzi investigativi che va consolidato e va potenziato. Anche per evitare aporie, contraddizioni e tensioni, che sono incomprensibili all’opinione pubblica e capaci di minare la credibilità e l’efficacia della nostra azione. Tuttavia, va riconosciuto che la grandissima parte dei pm italiani ha da tempo imparato a lavorare insieme, interiorizzando la cultura del coordinamento. Confido che ciò renderà più efficace il nostro sforzo di lavorare accanto alle Procure distrettuali per sostenerne e valorizzarne l’impegno, rifuggendo dai rischi di approcci autoritari e autoreferenziali».

Borsellino: «Grati per le scuse, ma chi ha sbagliato sia fuori dalle indagini». Giovanni Bianconi  su Il Corriere della Sera il 19 luglio 2022.  

Nella città che celebra uno dei suoi martiri antimafia, le magliette indossate da bambini e ragazzi che al tempo della strage non erano nati lanciano un messaggio di speranza: «La memoria di ieri per i cittadini di oggi. Borsellino 2.0». In via D’Amelio, il luogo dell’eccidio, a decine sfoggiano questo slogan, insieme ad altri (del movimento «Agende rosse») che suonano più agguerriti: «Trent’anni senza verità e giustizia», «No cerimonie di Stato per stragi di Stato».

Il 30mo anniversario

Mai come quest’anno omaggio (alle vittime) fa rima con depistaggio, a pochi giorni dalla sentenza che ha certificato il contributo di almeno due poliziotti dell’epoca al falso pentimento del falso mafioso Vincenzo Scarantino, accusa oggi dichiarata prescritta; ma non sono certo loro gli ideatori, né i mandanti delle prove manipolate. Lo spiega l’avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino, primogenita del magistrato assassinato, e di fatto rappresentante legale della famiglia. Sia nei processi in cui è stato legale di parte civile, sia nel giorno in cui i figli di Borsellino hanno deciso di disertare le cerimonie ufficiali; solo Manfredi, funzionario di polizia, è andato alla caserma dell’ufficio scorte dove il capo del Dipartimento Lamberto Giannini ha deposto una corona di fiori sulla lapide che ricorda i cinque agenti caduti nella strage: Agostino Catalano, Claudio Traina, Emanuela Loi, Walter Eddie Cosina e Vincenzo Li Muli.

Il depistaggio

«Non sono quei due imputati i primi responsabili del depistaggio», dice l’avvocato Trizzino che fa una rapida apparizione in via D’Amelio riepilogando le manovre cominciate ben prima del finto pentimento di Scarantino: «Subito dopo l’esplosione viene fatta sparire l’agenda rossa, poi si ipotizza che la Fiat 126 trasformata in auto-bomba sia stata riempita di tritolo nello stesso garage in cui era stata rubata la targa applicata alla macchina. C’è un’osmosi di veline tra Squadra mobile e Sisde sull’identificazione degli autori del furto dell’auto e del luogo in cui sarebbe stata custodita, e si arriva al futuro questore Arnaldo La Barbera che, riconsegnando la borsa di Paolo, dice a mia moglie Lucia che l’agenda rossa non c’è perché non c’era».

Sono tutti anelli di un’unica catena, sostiene il marito di Lucia Borsellino, che per sedici anni ha legato l’attentato di via D’Amelio a una falsa verità costruita dagli investigatori e avallata dai pubblici ministeri e poi dai giudici di primo e secondo grado di Caltanissetta, fino a quelli della Cassazione. Per questi errori tramutatisi in depistaggio, dopo trent’anni, il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo ha chiesto pubblicamente scusa ai familiari di Borsellino e agli innocenti condannati all’ergastolo, scarcerati dopo 17 anni di detenzione. «Un atto di sensibilità umana e istituzionale di cui siamo grati — commenta Trizzino — e che altri avrebbero dovuto compiere prima. Penso però che la magistratura debba fare un passo ulteriore, trovando dei meccanismi per cui chi è stato coinvolto, anche in buona fede, in quelle indagini inquinate e inquinanti non siano più investiti in futuro delle indagini sulla strage. Quegli inquirenti hanno avuto la loro occasione, hanno fallito, ora devono lasciare il campo a chi può guardare e leggere con occhi diversi quelle carte».

Il «pentito» Scarantino

Le parole dell’avvocato sembrano indicare un nome e un cognome: il pubblico ministero Nino Di Matteo, che a Caltanissetta partecipò alle indagini su via D’Amelio al tempo del falso pentito Scarantino e che, dopo l’esperienza al Csm che terminerà in autunno, da sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia potrebbe tornare ad occuparsene con il «gruppo stragi» di cui faceva parte. «Di Matteo è l’ultima persona di cui penserei male a questo mondo — chiarisce l’avvocato —, ma non possiamo ignorare conflitti d’interessi anche solo ipotetici. E del resto lui nel 2009, da pm di Palermo, mostrava perplessità sull’attendibilità del pentito Spatuzza che sconfessava Scarantino, e che invece era considerato già credibile dai suoi colleghi di Caltanissetta. Ci vogliono menti libere per andare avanti nelle indagini. Del resto se un chirurgo sbaglia un’operazione a un ginocchio, trent’anni dopo non mi faccio operare da lui all’altro ginocchio, mi pare una considerazione di senso comune».

«Bugie e verità»

Nel 2018, prima di farne parte, lo stesso Di Matteo (unico tra gli inquirenti di allora) è stato ascoltato dal Csm, in seduta pubblica su sua richiesta, dove ha rivendicato l’estraneità ai depistaggi e un ruolo minino nella gestione di Scarantino, puntando il dito su chi «l’ha imboccato mescolando bugie e verità» e lamentando le «campagne di disinformazione» orchestrate per «strumentalizzare la sacrosanta ansia di verità» della famiglia Borsellino. Parole che non hanno evitato il cortocircuito tra due posizioni oggi tanto distanti quanto stridenti, in una celebrazione inevitabilmente segnata da assenze e polemiche. Nonostante le magliette sfoggiate da bambini e ragazzi.

L'ultimo oltraggio a Borsellino. Felice Manti il 20 Luglio 2022 su Il Giornale.

A trent'anni dalla morte (annunciata) di Paolo Borsellino e della sua scorta, la verità è nascosta in una prigione di carta composta da "errori e omissioni, superficialità e vanità".

A trent'anni dalla morte (annunciata) di Paolo Borsellino e della sua scorta, la verità è nascosta in una prigione di carta composta da «errori e omissioni, superficialità e vanità», stando alle parole del Procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo. L'elenco di chi ha oltraggiato con la sua superficialità e la sua vanità la morte del magistrato, dilaniato in via D'Amelio sotto casa della mamma il 19 luglio del 1992, è sterminato. Eppure, a distanza di 30 anni, nessuno ha il coraggio di metterli in fila, questi «errori e omissioni» di cui parla Melillo, chiedendo scusa ai familiari.

C'è stato un depistaggio? Sì. Chi ne è stato vittima sono i pm, che hanno abboccato alle balle colossali di Vincenzo Scarantino, imbeccato da qualcuno neanche troppo bene e che però ha ingannato per anni stuoli di magistrati, a partire da Antonino Di Matteo. Che contro l'assoluzione del falso pentito ha fatto più volte appello. Sbagliare è umano, perseverare è diabolico. Come diabolico è continuare a instillare il dubbio che dietro le stragi che hanno insanguinato la Sicilia ci sia Silvio Berlusconi, come ancora ieri insisteva il Fatto. Se depistaggio c'è Stato, con la S maiuscola, non poteva esserne Berlusconi il beneficiario né il mandante occulto. Sono altri politici, altri partiti, altre cariche dello Stato a incassare il dividendo di quelle stragi. Lo dice la logica, lo dice la Storia con la stessa S maiuscola, lo dicono alcune sentenze - che hanno fatto a brandelli alcuni traballanti castelli accusatori - eppure ancora oggi a Firenze e in altre Procure su e giù per lo Stivale c'è ancora chi insegue questi fantasmi. Come si fa a prendersela (invano) con tre poliziotti senza indagare su tutta la filiera di comando che potrebbe averli istruiti? Ancora oggi andiamo dietro alle fantasie di pentiti con la memoria ritrovata, che dicono cose inverosimili eppure finiscono sui libri e nei talk show. Ah, la vanità. Se un decimo delle risorse messe in campo soltanto per danneggiare un avversario politico fossero state spese per la ricerca della verità sulla strage oggi piangeremmo un magistrato morto lanciando sulle sue spoglie fiori di verità. E invece l'abbiamo lasciato solo. Anche ieri, come ha preteso la famiglia.

Se Melillo vuole davvero fare chiarezza come dice, provi a cercare la risposta a queste semplici domande: ancora oggi non si sa come fecero a sapere dell'arrivo di Borsellino, inaspettato e imprevedibile. Chi avvisò il commando che piazzò la 126, che disponeva da mesi di telefonini clonati, come scoprì Gioacchino Genchi? Dove fu azionato il telecomando? È vero che, secondo quanto riferisce un dispaccio confidenziale dell'ambasciata di Roma del primo giugno del 1992, Borsellino era stato incaricato di partecipare alle indagini su Falcone? È vero che il 30 maggio Liliana Ferraro a Palermo avrebbe dovuto informare Borsellino di questa decisione, come risulta nell'agenda grigia dalle 18.30 alle 19.30 con il memo «Morvillo (L. Ferraro)», pubblicata su Il Giornale? La morte è collegata al dossier mafia e appalti, frettolosamente archiviato a Palermo dal pm Roberto Scarpinato alla vigilia dei funerali del giudice?

Nessuno pagherà per la strage di via D’Amelio, ma l’Italia è troppo scossa dal dramma Totti-Blasi per indignarsi. Antonio Scarpata il 14/07/2022 su Notizie.it.

Nessuno pagherà per la strage di via D’Amelio, ma l’Italia è troppo scossa dal dramma Totti-Blasi per indignarsi

Il 1992 è in balia della corrente, si allontana lento ma inesorabile, trascinando nell'oblio tutti i misteri di uno dei fatti più inquietanti della storia della Repubblica. 

“Non parteciperemo agli anniversari di via D’Amelio. Ci asterremo fino a quando lo Stato non ci spiegherà cos’è accaduto davvero“. Così Fiammetta Borsellino, figlia del giudice assassinato insieme alla sua scorta, ha annunciato la volontà di disertare tutte le cerimonie previste in ricordo del padre.

Avreste il coraggio di darle torto? A maggior ragione ora, che da poche ore il tribunale di Caltanissetta ha dichiarato prescritte le accuse per due dei tre poliziotti imputati di aver depistato le indagini sulla strage di via d’Amelio. I due, accusati di calunnia con l’aggravante dell’agevolazione mafiosa, avrebbero indotto e forzato le false confessioni di Vincenzo Scarantino, l’uomo che nel 1992 mentì sulla sua partecipazione all’attentato, dando luogo a un depistaggio che avrebbe portato alla condanna di persone innocenti.

In altre parole, come troppo spesso accade, anche stavolta nessuno pagherà. Vite e destini annientati da quella prescrizione che nessuno, dalle parti di Roma, ha mai avuto davvero intenzione di riformare.

“A parte che ho ancora il vomito per quello che riescono a dire, non so se son peggio le balle oppure le facce che riescono a fare“. Così dice Ligabue e noi conosciamo fin troppo bene che tipologia di faccia occorra per riempirsi la bocca di Falcone e Borsellino, per sfoggiarli su t-shirt e mascherine, per poi sostenere un referendum come l’ultimo aberrante sulla giustizia.

Una chiamata alle urne dove (alla faccia di chi proprio come Borsellino diceva che “un politico in odor di mafia, anche se non condannato, non va candidato“) sono stati in grado di chiederci di abolire la legge Severino sull’incandidabilità e la decadenza da ruoli politici per le persone condannate, tra gli altri, proprio per reati di mafia e terrorismo. 

E anche se non è andata come lor signori avrebbero voluto, non possiamo spacciare per una nostra vittoria il mancato raggiungimento del quorum. Dei leader politici veri, degni di questo nome, non avrebbero mai strizzato l’occhio all’astensionismo, ma invitato apertamente e senza paura a votare contro, toccando le corde giuste. Un Paese con un minimo di memoria storica avrebbe dunque sotterrato il quesito sulla Severino sotto milioni di “no”, in onore degli eroi che hanno dato la propria vita nella lotta alla criminalità organizzata e alle sue perverse ramificazioni nei palazzi del potere.

La sete di verità da noi è fonte inesauribile di frustrazione, la ricerca di giustizia in Italia è un’eterna lotta contro i mulini a vento, dove chi vuole sopravvivere spesso deve farlo da solo, destreggiandosi tra menzogneri di professione, politicanti da passerella e indifferenti cronici. E ogni 23 maggio, così come tutti i 19 luglio, sfumano i confini tra social e vita reale: su quella passerella tanto cara a chi si nutre di salotti, voti e sondaggi, a sfilare, puntuali, sono sempre e solo parole vuote, quelle dal like facile. Dai microfoni e dagli smartphone sgorgano i soliti patetici appelli a “non dimenticare”, quelli con scadenza a 24 ore.

Il 1992 è in balia della corrente, si allontana lento ma inesorabile, trascinando nell’oblio tutti i misteri di uno dei fatti più inquietanti della storia della Repubblica. 30 anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio: avremmo potuto, avremmo dovuto presentarci meglio a questo triste appuntamento. C’era chi nutriva una speranza, c’era ancora chi aspettava una sentenza che restituisse dignità al dolore di appartenere a un Paese che continua imperterrito a nascondere la parte migliore di sé.

Non tutti sanno che subito dopo l’attentato, Lucia Borsellino, l’altra figlia di Paolo, volle a tutti i costi vedere ciò che era rimasto del padre e che non si limitò a questo. Decise di ricomporlo e infine lo vestì all’interno della camera mortuaria. Poche ore dopo avrebbe sostenuto un esame universitario, lasciando incredula l’intera commissione.

Dobbiamo ammetterlo. Avremmo un po’ tutti bisogno di mettere da parte, anche solo per un attimo, la separazione tra Totti e Ilary Blasi o le avvincenti lezioni di una perfetta sconosciuta che vuole insegnarci a parlare in corsivo e ritrovare quella voglia di saperne di più. Di mettere insieme i pezzi mancanti, di focalizzarci sugli “influencer” che contano davvero, semplicemente di imparare dalla dignità disarmante e dalla forza di Lucia Borsellino.

Nessuna verità a 30 anni dall'uccisione. Strage di via D’Amelio, storia del più grande depistaggio di Stato e di un processo che non s’ha da fare. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 14 Luglio 2022. 

Nessun responsabile per il più grande depistaggio di Stato della storia. Questo processo non lo vogliono proprio fare. E questa è vera mafia. La mafia delle complicità che, attraverso la tortura, ha costruito un fantoccio che inventasse una verità di comodo, una qualunque sulla strage di via D’Amelio e sui perché dell’uccisione di Paolo Borsellino. Il fantoccio, una vittima pure lui alla fine, si chiama Vincenzo Scarantino. Ma poi ci sono gli altri, fantocci e mandanti di una storia lunga trent’anni. Ci sono quelli che lo hanno preso, strattonato, minacciato e torturato. Poi gli altri che gli hanno voluto a ogni costo credere mentre lui ripeteva a paperetta quel che altri gli avevano scritto sui foglietti o infilato in gola. E tutti quelli che non hanno voluto controllare neanche se un tipo che si autoaccusava di aver imbottito di tritolo un’auto in un certo garage, almeno avesse mai visto il luogo. Se sapesse come aprirne la porta.

La curiosità, la grande assente nella storia di questi inquirenti. E’ bene sempre ricordarne i nomi: Anna Palma, Carmelo Petralia, Nino Di Matteo. Si sono mai domandati questi bravi magistrati per esempio come mai di quel sopralluogo nel garage dove fu accompagnato Scarantino non esisteva neanche un verbale? E perché nessuno dei tre pm ha avuto la curiosità di parteciparvi? Certo, il regista di quelle indagini condotte con quei metodi fu Arnaldo La Barbera, un poliziotto abile che fu chiamato a Palermo a dirigere il gruppo d’indagine “Falcone e Borsellino” e che ci costruì la propria carriera, diventando subito dopo questore di Palermo. Certo, il meno curioso è stato sicuramente il procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, mostratosi sordo anche alle segnalazioni di Ilda Boccassini. Ma il cerchio non si può chiudere qui. E non solo perché i due non ci sono più. E neanche ci si sarebbe potuti accontentare (lo diciamo per la famiglia Borsellino e per gli innocenti calunniati) delle condanne dei collaboratori di La Barbera, il dirigente del gruppo “Falcone e Borsellino” Carlo Bò e l’ispettore Luigi Mattei.

La sentenza del tribunale di Caltanissetta che ha registrato la prescrizione del reato di calunnia, non ne ha dichiarato l’estraneità al depistaggio, quindi, un punto fermo l’ha messo: anche per la nostra malandata giustizia qualche comportamento doloso nella costruzione del fantoccio c’è stato. Leggeremo le motivazioni. Ma questo processo è arrivato in tribunale portando sulle spalle due pesanti zavorre. La prima è quella del tempo, perché si è cominciato a indagare solo dopo il deposito degli atti del processo “Borsellino quater” e le rivelazioni del “pentito” Gaspare Spatuzza, il quale per esempio di quell’auto imbottita di tritolo e di quel garage aveva potuto parlare con cognizione di causa perché lui, lui sì, c’era stato. Ritardo doloso, comunque. La seconda zavorra è frutto di quell’ossessione che si chiama “antimafia”. Perché la procura di Caltanissetta ha voluto a tutti i costi contestare agli imputati anche l’aggravante mafiosa. Che è, pur se transitata indenne dalle mani del gup, ovviamente, crollata subito al primo grado di giudizio.

Ma veramente questi pubblici ministeri hanno pensato anche solo per un attimo che questi poliziotti avessero costruito il fantoccio Scarantino in combutta con i boss di Cosa Nostra? Che si fossero impicciati di cose di mafia fino al punto di cercare di incastrare quelli della Guadagna per proteggere i fratelli Graviano? Tutti questi bravi magistrati avrebbero fatto meglio prima di tutto a studiare un po’ di storia politica di quegli anni in cui furono compiute le stragi, con i governi che si succedevano di corsa, con i ministri di giustizia che cadevano come birilli e la prima repubblica che si spegneva a suon di bombe. Avrebbero forse capito anche l’urgenza che avevano a livello istituzionale di trovare subito qualche responsabile.

In quel momento Cosa Nostra, se pur sconfitta dal maxiprocesso voluto da Giovanni Falcone, era ancora vincente perché i capi erano tutti latitanti. E sarebbe stato meglio, per la magistratura e per lo Stato, cercare i responsabili “giusti” delle bombe, senza la fretta di dare in pasto all’opinione pubblica qualche pezzo di carne da sacrificare. Come sta accadendo di nuovo, visto che il tribunale di Caltanissetta ha trasmesso alla procura della repubblica le deposizioni di quattro testimoni, tutti poliziotti che avrebbero giurato il falso per aiutare i colleghi imputati. Allora, ricominciamo daccapo?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

La sentenza sul falso pentito Scarantino. Depistaggio della strage di via D’Amelio, non sapremo mai chi è stato. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 13 Luglio 2022. 

Cade l’aggravante mafiosa, ed è giusto. Così il reato di calunnia semplice è prescritto, ma uno dei tre agenti accusati di depistaggio, Michele Ribaudo, è anche assolto. Nulla di scandaloso, nella sentenza pronunciata ieri sera dal Presidente del tribunale di Caltanissetta, alla presenza di Lucia e Manfredi (Fiammetta lontana dalla Sicilia), due dei tre figli di Paolo Borsellino, dopo nove ore di camera di consiglio. Ancora una volta una procura esce sconfitta da un processo di mafia, anche se in realtà non in senso stretto. Proprio perché le cosche non c’entravano niente, nel più grande depistaggio di Stato, quello della costruzione a tavolino di un finto pentito, Enzino Scarantino. Depistaggio che non aveva la finalità di aiutare Cosa Nostra, questo è sicuro. Questo è stato l’errore della procura di Caltanissetta, ed è sempre il solito, quello di vedere mafia dappertutto. Per poi perdere l’occasione di un pezzettino di verità e di giustizia.

Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo (in aula erano presenti solo gli ultimi due) erano accusati di calunnia, ma soprattutto, sospetto infamante, con l’aggravante di aver favorito la mafia, con i loro comportamenti. Un processo di cento udienze, iniziato nel novembre 2018, che è diventato simbolico, da quando si è capito che solo di lì poteva emergere un po’ di verità, un pezzetto di giustizia. Tanto che nell’aula del tribunale di Caltanissetta, davanti al Presidente Francesco D’Arrigo, a rappresentare la pubblica accusa non ci sono soltanto i pm Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso, che hanno chiesto condanne severe, 11 anni e 10 mesi per Bo, 9 anni e mezzo ciascuno per gli altri due. Non fa mancare la sua presenza, nei giorni della requisitoria, lo stesso capo della procura Salvatore De Luca. Sono qui, aveva detto, per testimoniare la presenza dell’intera Procura. Anche lui però, aveva finito per scaricare ogni responsabilità solo sui “pesci piccoli”.

Ma non era il più grande depistaggio di Stato? I magistrati, tutti innocenti, dunque? Ecco il capolavoro del Procuratore De Luca, successore di Tinebra: «Non si tratta di una frattura rispetto al passato bensì di una lenta e costante evoluzione che ci porta oggi a contestare la sussistenza dell’aggravante di mafia». Si spara alto, dunque, per non perdere il vizio di dare del mafioso a chicchesia, ma poi si mette il silenziatore, puntando il dito solo sui tre poliziotti, che avrebbero fatto tutto da soli, magari insieme allo “sbirro” morto La Barbera. Ma non alla toga morta Tinebra. Né ai vivi della Procura di Caltanissetta che “gestirono” il pentimento e il pentito, e neanche a tutti quelli che avrebbero potuto far scoppiare il bubbone già trent’anni fa. Sarebbe sufficiente prima di tutto far mente locale su quegli appunti scritti con grafia femminile che Scarantino teneva in mano quando doveva andare a testimoniare, dopo esser stato chiuso per ore negli uffici con i pubblici ministeri. Anche con lo stesso Tinebra, ha detto Ilda Boccassini. Chi gli dava l’imbeccata? Nessuno, e forse la grafia femminile è quella della moglie. Ma ci sono stati i ruoli attivi e anche quelli passivi.

Innocenti, nessuno. Basterebbe ricordare quel che disse Antonio Ingroia nella sua veste di testimone in aula nel dicembre 2021, e poi ancora nel maggio scorso davanti alla commissione antimafia siciliana. Quando ricordò come, da giovane pm palermitano, fosse stato incaricato di sentire quel “pentito” e le cose che aveva da raccontare su Bruno Contrada e su Silvio Berlusconi come “narcotrafficante”. Il magistrato era andato, e si era reso conto subito del fatto che Enzo Scarantino diceva cose a casaccio, che inventava. Così lasciò perdere. Ci ponemmo il problema, come Procura palermitana, ha poi aggiunto, se aprire un fascicolo nei suoi confronti per il reato di calunnia, ma “c’era il rischio che se si incriminava per calunnia questo pentito si sarebbe innescata una guerra”. Era dunque così importante, questo ragazzotto. Ma per chi? Chi avrebbe innescato un clima di guerra se qualcuno avesse osato toccarlo? La procura di Caltanissetta? E perché? Il giovane Ingroia era uno dei tanti che avrebbero potuto smascherarlo trent’anni fa. Non lo ha fatto.

Il capitolo Ilda Boccassini, che con il collega Roberto Saieva nel 1994 fiutò da subito l’imbroglio, entra ed esce dalle cronache come un fiume carsico. Ma solo di recente, ed è un peccato, come ha ricordato indignata Fiammetta Borsellino, che sui media non se ne sia parlato allora, quando lei e il suo collega avevano inviato una relazione al procuratore di Caltanissetta Tinebra e in copia agli uffici di Palermo retti da Giancarlo Caselli. Siamo nel 1994, a due anni dalla strage. Si sarebbe potuto fare allora quel che si è cominciato trent’anni dopo. Denunciare pubblicamente la costruzione a tavolino del “falso pentito”. Boccassini avrebbe potuto. Caselli avrebbe potuto. Ma anche Ingroia. E anche Di Matteo, che invece difese la genuinità della testimonianza di Scarantino anche pubblicamente in un’aula di tribunale. E il procuratore di Palermo, insieme alle massime autorità, dal pg fino al questore e al prefetto –non ci stancheremo mai di ricordarlo- in una conferenza stampa non solo valorizzò l’indifendibile reputazione di Arnaldo La Barbera, ma disse anche che coloro che mettevano in dubbio la parola di Scarantino stavano dalla parte della mafia. Tra questi “amici dei mafiosi” c’era anche qualche parlamentare.

Se dobbiamo credere alla buona fede di tutti loro, di chi non parlò pubblicamente, così come di chi al contrario parlò solo per mettersi al fianco dei depistatori, facciamo fatica a prestare orecchio a quel che si è sentito ieri nell’aula da parte dei difensori dei tre imputati. Che hanno insistito nel descrivere un picciotto tossicodipendente della Guadagna con la terza elementare, come unico organizzatore e realizzatore del “più grande depistaggio dello Stato”. Ci rendiamo conto che stiamo parlando degli anelli finali della catena, anche se non proprio gli ultimissimi, visto che, per l’esperienza diretta di quegli anni nelle carceri di Pianosa dove fu costruito il “pentimento” di Scarantino, di agenti di polizia penitenziaria “pacifisti” non ne abbiamo proprio incontrati. Le torture ci furono e non le commise di certo personalmente La Barbera. Per ora abbiamo visto sul banco degli imputati solo persone accusate di calunnia.

Ma abbiamo un tarlo, e ci domandiamo: tutti i magistrati che hanno incontrato in quei giorni Enzo Scarantino e altri finti pentiti di serie B che avevano fruito del “trattamento Pianosa”, li hanno sempre trovati integri, nel corpo e nello spirito? La dottoressa Annamaria Palma e il dottor Carmelo Petralia, che sono stati prosciolti dall’accusa di calunnia e salvati da un Csm distratto e in cui “aleggiava”, come ha scritto Luca Palamara, il nome di Di Matteo che rendeva improponibile qualunque curiosità su quei fatti, hanno sempre tenuto le palpebre abbassate? Lo interrogavano con le bende sugli occhi e gli orecchi chiusi? Sarebbe bastato un piccolo sospetto su un occhio tumefatto, su una “caduta dalle scale”, per intuire quel che stava succedendo. Senza dover arrivare all’omertà di Stato che è partita dalle torture nelle segrete di Pianosa per arrivare al Csm e ai procuratori generali. Per poi atterrare ieri nell’aula del tribunale di Caltanissetta con un pugno di mosche in mano. Nemmeno la verità storica.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

A 30 anni dalla strage. Depistaggio su Borsellino, fuori tutti i nomi. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 21 Luglio 2022

Caro Direttore,

condivido interamente gli articoli che sulla questione del depistaggio del processo Borsellino ha pubblicato Tiziana Maiolo e l’intervista rilasciata dalla figlia di Borsellino che sull’argomento sta conducendo una grande battaglia. Però per evitare che tutto rimanga sul generico perché non partiamo da un dato certo e cioè che uno dei protagonisti principali del depistaggio fu il questore La Barbera, altro che poveri agenti di pubblica sicurezza rimasti alla fine in un processo farsa.

Ora La Barbera non era un personaggio di poco conto, era a un uomo di punta della polizia di stato tant’è che lo ritroviamo a far danni anche alla Diaz durante il G8 di Genova. Possibile che chi dirigeva allora la polizia di stato non ha nulla da dire sul ruolo svolto da un personaggio fondamentale all’interno della pubblica sicurezza in quella fase?

Fabrizio Cicchitto

Giustizia negata persino a Borsellino. Claudio Brachino il 14 Luglio 2022 su Il Giornale.

Alla fine giustizia non è stata fatta. Il paradosso è che stiamo parlando di chi la missione della giustizia l'ha interpretata nel senso più alto, per etica e coraggio pagati con il sacrificio della vita, Paolo Borsellino

Alla fine giustizia non è stata fatta. Il paradosso è che stiamo parlando di chi la missione della giustizia l'ha interpretata nel senso più alto, per etica e coraggio pagati con il sacrificio della vita, Paolo Borsellino. La sentenza del tribunale di Caltanissetta smentisce la tesi dell'omonima procura, da un depistaggio gigantesco e inaudito siamo passati a tre ex poliziotti a cui non viene riconosciuta l'aggravante mafiosa, uno assolto e per due calunnie in prescrizione. Erano imputati di aver spinto il controverso pentito Scarantino a formalizzare le bugie che hanno mandato in carcere degli innocenti e ci hanno allontanato per anni dalla verità. E proprio la verità sembra la grande assente di questo anniversario importante, trent'anni dalla strage di Capaci, un anniversario in cui chi sa dovrebbe dire qualcosa, in cui si dovrebbe fare un passo in avanti rispetto alle ombre che hanno accompagnato errori nelle indagini e inchieste sbagliate. Non voglio tirar dentro questa polemica i familiari delle vittime, il cui bisogno di verità rimane ineccepibile al di là delle tifoserie ideologiche. Il depistaggio, che ha animato con veemenza per anni il circuito giustizialista nostrano, non ha trovato una dimostrazione formale giudiziaria. Gli addetti ai lavori in realtà non si attendevano nulla dal processo di Caltanissetta, con agli attori di primo rilievo già passati a miglior vita, dal questore la Barbera, al procuratore Tinebra, all'ex capo della polizia Parisi. Ripeto, dire che non ci sono state cose inquietanti in questa storia non si può. Il divieto di parcheggio non scattato sotto la casa della madre di Borsellino dove fu invece lasciata la 126 imbottita di tritolo, l'agenda rossa sparita, i troppi personaggi strani presenti sulla scena del crimine e arrivati troppo presto. Soprattutto l'aver creduto per anni più che a una versione a uno schema, che quello fosse un delitto di mafia semplice, per di più compiuto da cosiddetti pesci piccoli e poco strutturati. Come per Falcone la mafia fu committente e manovalanza, ma ancor più che in Falcone rimane uno iato, uno spazio tra la cronaca e la verità riempito dal mistero e dal buio. L'unica cosa formalizzata in sede giudiziaria è «l'ipotesi che la decisione di morte assunta dai vertici mafiosi abbia intersecato convergenti interessi di altri soggetti o gruppi di potere estranei a Cosa nostra». Sono parole che purtroppo vanno bene anche per altre tragedie italiane. Le ricostruzioni storiche sono una cosa, e ognuno in quello spazio nero indistinto può mettere servizi segreti, pezzi di Stato e di politica corrotti, massoneria, poteri forti internazionali. Poi però c'è la giustizia, che ha i suoi linguaggi, le sue necessità dimostrative, le sue verifiche, direbbe forse il grande investigatore Borsellino. Rileggendo la sua storia straordinaria di uomo e magistrato colpisce non tanto il livore dei suoi nemici, ma il non amore dei suoi colleghi, fino ad ostacolarne il lavoro e la serenità interiore, fino all'isolamento, come con Falcone. E un giudice che rimane solo, forse tradito come avrebbe confessato Paolo alla moglie prima della fine, è già con un piede nella morte, morale, prima dell'omicidio materiale. Giustizia non è stata fatta, mai, per Borsellino.

Borsellino, l'ultima beffa: nessuno pagherà per le indagini depistate. L'amarezza della famiglia. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 12 Luglio 2022.  

A trent'anni dalla strage di via D'Amelio, la prescrizione salva due poliziotti. Cade l'aggravante mafiosa, reato non più punibile. Assolto l'ex ispettore Michele Ribaudo

Lucia e Manfredi restano immobili mentre il presidente Francesco D’Arrigo legge la sentenza: «Il tribunale dichiara non doversi procedere nei confronti di Mario Bò e Fabrizio Mattei per i reati loro ascritti essendo gli stessi estinti per prescrizione». E, poi, ancora: «Assolve Michele Ribaudo dal reato a lui ascritto perché il fatto non costituisce reato». Lucia e Manfredi, i figli del giudice Paolo Borsellino, ascoltano la sentenza e vanno via subito dal tribunale.

Depistaggio Borsellino, prescritte accuse per Bo e Mattei. Assolto Ribaudo. Valentina Mericio il 12/07/2022 su Notizie.it.

Il tribunale di Caltanissetta si è espresso sulle accuse di depistaggio delle indagini sulla morte di Borsellino. Due prescrizioni e una assoluzione. 

Due prescrizioni e una assoluzione. Il tribunale di Caltanissetta si è espresso così sul caso di depistaggio delle indagini della strage di Via D’Amelio che ha portato alla morte del giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta. Per Mario Bo e Fabrizio Mattei è stata pronunciata la prescrizione.

Assolto Michele Ribaudo.

Depistaggio delle indagini per la morte di Borsellino: cade l’aggravante mafiosa

Stando a quanto viene riportato dal dispositivo della sentenza del processo sul depistaggio, la prescrizione del reato è stata attuata in quanto è decaduta l’aggravante mafiosa. Per ciò che riguarda invece il terzo imputato, il poliziotto Michele Ribaudo, il tribunale ha pronunciato l’assoluzione in quanto “Il fatto non costituisce reato”. Tutti e tre, inoltre, erano stati accusati di concorso in calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa Nostra.

Avrebbero in particolare obbligato Vincenzo Scarantino ad auto-accusarsi. Con quest’ultimo sono state accusate altre sette persone innocenti.

Il procuratore capo di Caltanissetta aveva chiesto al termine della requisitoria una pena di 11 anni e 10 mesi reclusione per Mario Bo. Per Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, la condanna chiesta era di 9 anni e 6 mesi.

Il pubblico ministero Stefano Luciani, nella requisitoria del processo che si è tenuto a maggio 2022 aveva dichiarato: “La sparizione dell’agenda rossa, se sparizione c’è stata, non fu di interesse di Cosa Nostra ma da collegare a interessi estranei […] La borsa di colore scuro di Paolo Borsellino giace per mesi sul divano di Arnaldo La Barbera. Fino alla data del 5 novembre del 1992 non è mai acquisita perché manca un verbale di sequestro”, sono le sue parole riportate da Blog Sicilia.

Borsellino e i depistaggi: prescritte accuse per due imputati, un assolto. Redazione Tgcom24 il 12 luglio 2022.

A una settimana dal trentesimo anniversario della strage di via d'Amelio, costata la vita al magistrato Paolo Borsellino e alla sua scorta, arriva la sentenza di primo grado. E scontenta quasi tutti: accuse prescritte e un'assoluzione.  Un'altra occasione persa per arrivare alla verità e ancora tanti tasselli da aggiungere a quel pomeriggio tragico per l'Italia intera. Il Tribunale di Caltanissetta, dopo undici ore di camera consiglio, ha stabilito che il depistaggio delle indagini sull'attentato ci fu e che a commetterlo furono due poliziotti: Mario Bo e Fabrizio Mattei, oggi imputati.  Ma la prescrizione, scattata per il venir meno dell'aggravante di mafia, li ha salvati dalla condanna. Mentre esce assolto "per non aver commesso il fatto" Michele Ribaudo, terzo imputato, collega di Bo e Mattei ai tempi dell'inchiesta sugli attentati del 1992.  

La linea dell'accusa - Secondo la Procura, rappresentata dai pm Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso, gli imputati, che appartenevano al pool incaricato di indagare sulle stragi di Capaci e Via D'Amelio, con la regia del loro capo, Arnaldo La Barbera, poi deceduto, avrebbero creato a tavolino i falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Salvatore Candura e Francesco Andriotta, imbeccandoli e costringendoli a mentire e ad accusare della strage persone poi rivelatesi innocenti: da qui la contestazione di calunnia. Il castello di menzogne costruito grazie ai falsi collaboratori di giustizia avrebbe aiutato i veri colpevoli a farla franca e avrebbe coperto per anni le responsabilità dei clan mafiosi di Brancaccio e dei suoi capi, i fratelli Graviano. Per questo ai tre poliziotti la Procura aveva imputato l'aggravante di aver favorito Cosa nostra, oggi caduta. "I plurimi, gravi elementi depongono tutti nel senso che il depistaggio ha voluto coprire delle alleanze strategiche di Cosa Nostra, che in quel momento riteneva di vitale importanza", aveva detto la Procura durante la requisitoria. Solo il lavoro dei pm nisseni e le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, che ha ridisegnato le responsabilità nell'attentato dei clan rimasti fuori dalle indagini, e che ha scagionato gli imputati accusati ingiustamente, ha consentito dunque di arrivare a una verità sulla fase esecutiva dell'attentato. E ha svelato un depistaggio, definito dai giudici dell'ultimo processo sulla morte di Borsellino come il più grave della storia della Repubblica. Il processo di oggi nasce da qui. Un dibattimento durato quattro anni e cento udienze, fatto di decine di deposizioni e faldoni di migliaia di pagine. Un processo che ha riservato continui colpi di scena e ha fatto intravedere una regia e un piano preciso: inquinare le indagini. Un puzzle che è andato componendosi fino alla sentenza di oggi che, però, ancora una volta, non chiude il cerchio e non restituisce tutta la verità ai familiari delle vittime e all'Italia intera. Non commentano i figli del giudice Paolo Borsellino, Manfredi e Lucia, presenti alla lettura del dispositivo.

I legali della famiglia - Mentre è duro il loro legale, l'avvocato Fabio Trizzino.  "È una sentenza rispetto alla quale è decisivo leggere le motivazioni, ma che va rispettata. Il dato che evidenzio è che Bo e Mattei hanno commesso la calunnia, quindi la prescrizione che nasce da un ritardo dello Stato li salva perchè sono fatti di 30 anni fa, ma l'elemento della calunnia resta", dice. Opposta la valutazione del legale di Mattei, l'avvocato Giuseppe Seminara che, riferendosi all'invio degli atti in Procura per calunnia per Scarantino, deciso dai giudici, sostiene: "Anche in questo processo Scarantino è stato ritenuto un calunniatore".

Borsellino e la strage di via d’Amelio, la prescrizione salva i poliziotti accusati di calunnia. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 13 Luglio 2022.  

Niente aggravante mafiosa per i funzionari imputati del processo per depistaggio: prescritti i reati per Mario Bo e Fabrizio Mattei mentre Michele Ribaudo è stato assolto 

Reato prescritto, perché non c’è l’aggravante di avere favorito la mafia, per Mario Bo e Fabrizio Mattei, i poliziotti imputati di calunnia aggravata per aver indotto il falso pentito della strage di via D’Amelio, Vincenzo Scarantino, a mentire accusando se stesso e altri innocenti di aver partecipato all’attentato che, il 19 luglio 1992, uccise Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta. Per il terzo agente, Michele Ribaudo, assoluzione piena perché il fatto non costituisce reato. È il verdetto del processo di primo grado sul depistaggio della strage, che porta con sé ulteriori strascichi per possibili false testimonianze di altri funzionari di polizia testimoni e nuove menzogne di Scarantino. Una sconfessione dell’impostazione della Procura di Caltanissetta che, dopo aver ristabilito un pezzo di verità smascherando la Grande Bugia che per 16 anni ha inquinato i processi sul delitto Borsellino, ha cercato di fare un passo avanti nell’interpretazione di quei fatti. Senza successo.

«Un ordinario agguato di Cosa Nostra»

Nonostante i tempi e le modalità con cui avvenne (un attentato terroristico a meno di due mesi dall’eccidio di Capaci che uccise Giovanni Falcone), la strage di via D’Amelio fu inquadrata dagli investigatori di allora in un ordinario agguato di Cosa nostra. Con la partecipazione di un piccolo malavitoso di borgata imparentato con un uomo d’onore, Scarantino appunto. Questo stabilirono le prime indagini e i primi verdetti, caso chiuso con le confessioni del sedicente ladro della Fiat 126 imbottita di tritolo e fatta esplodere davanti alla casa della madre del magistrato: quello Scarantino sconfessato solo nel 2008 da Gaspare Spatuzza, vero autore del furto dell’auto-bomba. Un depistaggio non direttamente collegato, ma ipoteticamente connesso, agli altri misteri legati alla morte di Paolo Borsellino. A cominciare dalla sparizione dell’agenda rossa del magistrato, verosimilmente prelevata dalla sua borsa dopo l’attentato.

L’inchiesta deviata

«Le indagini hanno subito condizionamenti esterni e indebiti da parte di taluni degli stessi inquirenti — hanno scritto i giudici nell’ultima sentenza sull’attentato di via D’Amelio —, che hanno “forzato” le dichiarazioni dei primi pentiti in modo da confermare una verità preconfezionata e preesistente, pur rimanendo ignote le finalità perseguite». Arrivando a ipotizzare che «la decisione di morte assunta dai vertici mafiosi abbia intersecato convergenti interessi di altri soggetti o gruppi di potere estranei a Cosa nostra». La Procura di Caltanissetta è partita da queste conclusioni per contestare ai tre poliziotti l’aggravante di aver favorito la mafia con il depistaggio costruito attraverso Scarantino . Nella consapevolezza che i principali protagonisti dell’inchiesta deviata non ci sono più: dal questore Arnaldo La Barbera, morto nel 2002, al procuratore Giovanni Tinebra, morto nel 2017, passando dall’ex capo della polizia Vincenzo Parisi che incaricò La Barbera e mandò da Tinebra l’ex poliziotto Bruno Contrada, dirigente di quel servizio segreto che puntellò la «pista Scarantino» accreditandolo di contiguità mafiose inesistenti o quasi. Pm e giudici che hanno avallato le indagini sbagliate, invece, sono stati prosciolti o — nella maggior parte dei casi — nemmeno inquisiti. «Ma non sono mai arrivate le scuse», ha accusato l’avvocato Fabio Trizzino a nome dei figli di Borsellino, che ora si rammarica: «È una sentenza che non ci soddisfa ma ci prendiamo quel che di buono c’è». Cioè il riconoscimento della calunnia, ma con troppo ritardo «da parte dello Stato».

Il depistaggio

«Nessuno ha mai pensato di trovare la soluzione definitiva da questo processo», ha detto il pm Stefano Luciani aprendo la requisitoria con cui aveva chiesto condanne da 9 e mezzo a quasi 12 di pena. Partendo da un presupposto: «Scarantino ha recitato un copione come gli è stato detto di fare da La Barbera», aggiungendo il racconto di maltrattamenti e vessazioni per costringerlo ad accusare sette innocenti. Nonostante i difensori degli imputati di allora — a cominciare dall’avvocata Rosalba Di Gregorio, che in questo giudizio s’è trasformata in parte civile ed è costretta ad accontentarsi di «un altro pezzetto di verità» — avessero denunciato persino la «psicolabilità» del falso pentito. Ma Scarantino ha continuato a calunniare anche in questo processo accusando gli imputati che l’avrebbero costretto a mentire, hanno ribattuto i difensori dei poliziotti. In parte convincendo i giudici, che non hanno creduto alla prova della connessione con gli interessi della mafia. Ma il depistaggio c’è stato, sia pure prescritto. Le motivazioni della sentenza spiegheranno come e perché. 

Processo Borsellino: prescrizione e assoluzione per i poliziotti, il depistaggio rimane senza autori. Nel primo grado del processo per il depistaggio per la morte di Paolo Borsellino: prescrizione per Mario Bo e Fabrizio Mattei, assoluzione per Michele Ribaudo. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 12 luglio 2022.

Due prescrizioni e una assoluzione perché il fatto non sussiste, così si conclude in primo grado il processo per il depistaggio per la morte di Paolo Borsellino nei confronti di Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. I tre poliziotti accusati di calunnia per aver indotto il falso pentito Vincenzo Scarantino a mettere a verbale bugie e ad accusare ingiustamente degli innocenti, che poi furono condannati all’ergastolo per la strage. I reati contestati a Bo e Mattei sono stati dichiarati prescritti, mentre Ribaudo è stato assolto. Il Borsellino quater, ricordiamo, ha sentenziato che è stato messo in atto il più grande depistaggio della storia giudiziaria del nostro Paese. Ma con questa sentenza, sommandola all’archiviazione nei confronti dei magistrati che seguirono le indagini, si rimane senza colpevoli. Un depistaggio senza autori, quindi.

Ricordiamo che, durante la requisitoria, secondo il pubblico ministero Stefano Luciani, i tre imputati «hanno avuto molteplici condotte e tutte estremamente gravi, che rendono tangibile il grado di compenetrazione nelle vicende: non una condotta illecita di passaggio, ma che dal primo momento fino all’ultimo si ripete e si reitera». E poi ha aggiunto: «È dimostrato in maniera assoluta il protagonismo del dottor Mario Bo, sulle false dichiarazioni di Vincenzo Scarantino e nella illecita gestione di Scarantino nella località protetta». Ma con la sentenza di primo grado, tale reato – se c’è stato – è prescritto.

Rimangono così sospesi tanti punti interrogativi. Ricordiamo che a parere del procuratore Luciani ci sarebbero forti elementi a dimostrare «convergenze che certamente ci sono state nella ideazione della strage di via D’Amelio, tra i vertici e gli ambienti riferibili a Cosa nostra, e ambienti esterni ad essa». Ma quali sarebbero stati questi ambienti? Il pm Luciani fa riferimento a ciò che disse l’ex boss Antonino Giuffrè pentito nel 2001. Cosa nostra, prima di deliberare le stragi di Capaci e Via D’Amelio aveva assunto dei contatti con soggetti esterni ad essa per sondare i loro umori. Giuffrè è stato preciso e il pm ha sottolineato di prestare attenzione agli ambienti di riferimento di cui parla il pentito. Ovvero imprenditori e una parte di politici. Di cosa si è parlato? «Hanno inciso profondamente – ricorda Luciani le parole di Giuffrè – in discorsi economici e in modo particolare il discorso degli appalti pubblici».

Il dato, tra l’altro riportato in tutte le sentenze sulle stragi, è che le stragi sono frutto di una convergenza di interessi tra Cosa nostra e ambienti imprenditoriali e politici. Ma a facilitare la strage è stato anche il clima di isolamento nei confronti di Borsellino soprattutto dal suo ambiente lavorativo. Anche qui il pm Luciani è stato chiaro durante la requisitoria. I dati sono incontrovertibili. Sono tanti, a partire – così ha ricordato il pm durante la requisitoria – dalla testimonianza della moglie Agnese quando si riferì alla passeggiata sul lungomare senza essere seguiti dalla scorta. In tale circostanza, così riferì la moglie, «Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ud ucciderlo della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere». Quindi i suoi colleghi ed altri avrebbero permesso che si potesse addivenire alla sua eliminazione. «E questa è la traduzione di quello di cui ha parlato Giuffrè, ovvero il clima di isolamento che crea le condizioni per arrivare ad eliminare il dottor Borsellino!», ha chiosato il pm Luciani.

Per Lipari con l’arrivo di Borsellino Giammanco avrebbe avuto problemi

Altro dato, ma è solo la punta dell’iceberg, è ciò che disse Pino Lipari in merito al trasferimento di Borsellino alla Procura di Palermo. Il pm Luciani ha ricordato le motivazioni della sentenza del quater: «Il pentito Angelo Siino ha riferito i commenti di Pino Lipari secondo cui l’arrivo di Borsellino avrebbe certamente creato delle difficoltà a quel santo cristiano di Giammanco e cioè al procuratore della Repubblica con il quale già Giovanni Falcone aveva avuto contrasti e incomprensioni dal punto di vista professionale che l’avevano determinato ad accettare l’incarico propostogli del ministero della giustizia». Ma perché il pm ha fatto riferimento a ciò? Si ritorna sempre agli ambienti esterni riferiti da Giuffrè. Ricorda che durante l’udienza del 2019, il pentito Brusca fece riferimento all’impresa Reale e tale azienda era proprio legata a Lipari. «Era un’impresa fallita, ma a un certo punto questa impresa riemerge e viene sponsorizzata da Salvatore Riina – ha spiegato il pm sempre durante la requisitoria – e messa nel giro dei grandi appalti: doveva essere lo strumento per creare il nuovo canale politico istituzionale: uno degli strumenti che venne individuato da Cosa Nostra quale possibile cerniera tra il mondo mafioso, quello politico di rilievo nazionale e imprenditoria di rilievo nazionale». E chi c’era dietro l’impresa reale come referenti per Cosa nostra? Pino Lipari e Antonino Buscemi. Quest’ultimo doveva curare il rapporto con le figure del gruppo Ferruzzi, «ma era l’ingegner Bini quello che rappresentava questa nuova cordata politica imprenditoriale», ha sottolineato Luciani. Tutta questa operazione, come ha riferito Brusca, avviene tra il 1989 e il 1992. «Siamo nel pieno periodo stragista!», ha chiosato Luciani.

L’avvocato Trizzino: «Un disegno criminoso di chi doveva cercare la verità»

Quindi il depistaggio non può non essere slegato dalla genesi dell’attentato di Via D’Amelio. Entrambi i momenti sono stati congegnati da Cosa nostra con il benestare di queste forze esterne appena descritte. Aiutano le parole dette in aula dall’avvocato Fabio Trizzino, legale di parte civile dei figli di Borsellino: «Nell’opera di ricostruzione di ciò che è avvenuto dopo la strage di via D’Amelio, l’approssimazione, le anomalie e negligenze corrispondevano a un disegno criminoso portato avanti da uomini che doveva ricostruire la verità: è stato compromesso il diritto dell’accertamento della verità negli eventi antecedenti e successivi che hanno portato alla strage di via d’Amelio!».

È oramai storia nota che erano state condannate – con tanto di conferma in Cassazione – delle persone innocenti, accusate di essere stati gli esecutori della strage di Via D’Amelio. Tesi che si è retta esclusivamente sulle accuse da parte di Salvatore Candura, Francesco Andriotta e soprattutto da Vincenzo Scarantino, il quale (pur attraverso un percorso dichiarativo disseminato di contraddizioni e ritrattazioni) aveva accusato di partecipazione alla strage di Via D’Amelio, oltre che sé stesso, numerose persone, alcune delle quali appartenenti alla famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù (uomini di Pietro Aglieri).

Con le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza nel 2008 la svolta nelle indagini

La svolta si ebbe nel 2008, con un lavoro iniziato dalla “nuova” procura di Caltanissetta sulla scorta delle dichiarazioni sconvolgenti di Gaspare Spatuzza, il quale nel giugno dello stesso anno aveva manifestato tale intendimento al Procuratore Nazionale antimafia, spiegando che la propria decisione era frutto di un sincero pentimento basato su una autentica conversione religiosa e morale, oltre che sul desiderio di riscatto. Spatuzza si è attribuito la responsabilità – unitamente ad altri soggetti inseriti in Cosa nostra – di un importante segmento della fase esecutiva della strage di Via D’Amelio. Siamo così arrivati al Borsellino quater che accertò il depistaggio, da lì è nata anche una indagine nei confronti dei magistrati di allora, coloro che gestirono lo pseudo pentito Scarantino. Ma è stata archiviata. Erano rimasti soltanto i poliziotti, conclusasi con la prescrizione e una assoluzione.

Il tribunale di Caltanissetta sulla strage di via D'Amelio. Depistaggio Borsellino, due poliziotti prescritti e uno assolto: “Salvati da ritardo dello Stato”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 12 Luglio 2022

Due prescrizioni e un’assoluzione. È quanto ha deciso il tribunale di Caltanissetta sulle accuse contestate a Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, i tre poliziotti erano accusati di avere depistato le indagini sulla strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992 nella quale morirono il giudice Paolo Borsellino e alcuni agenti della scorta. L’attentato di Cosa Nostra si inseriva in quella strategia stragista che solo due mesi prima aveva colpito e ammazzato il giudice Giovanni Falcone. La sentenza lascia scontenti quasi tutti e rappresenta l’ennesimo giro a vuoto nella ricerca della verità sull’attentato di trent’anni fa in via D’Amelio.

Gli imputati, che appartenevano al pool incaricato di indagare sulle stragi del 1992, erano accusati di calunnia aggravata dall’avere favorito la mafia. Secondo l’accusa avevano costruito a tavolino, con la regia del loro capo deceduto Arnaldo La Barbera, una falsa verità sull’attentato costringendo Vincenzo Scarantino e gli altri due pentiti Salvatore Candura e Francesco Andriotta ad autoaccusarsi e ad accusare sette persone innocenti della strage di via D’Amelio che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Il processo per il depistaggio è iniziato nel novembre 2018. Ha avuto quasi cento udienze.

Stando all’accusa quella costruzione di falsi collaboratori di giustizia avrebbe aiutato i veri colpevoli a farla franca e coperto per anni le responsabilità dei clan mafiosi di Brancaccio e dei suoi capi, i fratelli Graviano. “I plurimi, gravi elementi depongono tutti nel senso che il depistaggio ha voluto coprire delle alleanze strategiche di Cosa Nostra, che in quel momento riteneva di vitale importanza”, aveva detto la Procura durante la requisitoria. L’aggravante di aver favorito Cosa Nostra non ha retto al vaglio del tribunale che quindi ha dettato la prescrizione. Al termine della requisitoria il procuratore capo di Caltanissetta Salvatore De Luca e i pubblici ministeri Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso avevano chiesto la condanna a 11 anni e 10 mesi per Mario Bo, 9 anni e 6 mesi ciascuno per Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Fra le parti civili nel processo la famiglia Borsellino (assistita dall’avvocato Fabio Trizzino), l’avvocato Rosalba Di Gregorio a rappresentare Gaetano Murana, l’ex netturbino in carcere per 17 anni da innocente, l’avvocato Giuseppe Scozzola, legale di Gaetano Scotto e l’avvocato Roberto Avellone in rappresentanza di alcuni familiari degli agenti di scorta.

Il venire meno dell’aggravante ha determinato la prescrizione del reato di calunnia. Ribaudo è stato assolto “perché il fatto non costituisce reato” secondo quanto si legge nel dispositivo di sentenza sul depistaggio. A presiedere il collegio era Francesco D’Arrigo. Il lavoro dei pm nisseni e le parole del pentito Gaspare Spatuzza avevano ridisegnato le responsabilità nell’attentato dei clan rimasti fuori dalle indagini, ha scagionato gli imputati accusati ingiustamente, e ha svelato quel depistaggio, definito dai giudici dell’ultimo processo sulla morte di Borsellino come il più grave della storia della Repubblica.

“Aspetteremo di leggere le motivazioni per capire eventualmente quali sono gli aspetti che potranno costituire motivi d’appello”, le prime parole dell’avvocato Fabio Trizzino che ha rappresentato durante tutto il dibattimento i fratelli Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino, i primi due presenti in aula alla lettura del dispositivo di sentenza. “Il Tribunale non ha accolto la nostra ricostruzione specie all’aggravante, è una sentenza che va rispettata. Il dato che evidenzio è che Bo e Mattei hanno commesso la calunnia, quindi la prescrizione che nasce da un ritardo dello Stato li salva perché sono fatti di 30 anni fa, ma l’elemento della calunnia resta. Il fatto che lo Stato ha esercitato in ritardo la potestà punitiva li ha posti al riparo, però è una sentenza che non ci soddisfa ma ci prendiamo quel che di buono c’è”.

Insoddisfatto dalla sentenza anche l’avvocato Giuseppe Panepinto, legale del funzionario di polizia Mario Bo, “perché riteniamo che i nostri assistiti sono completamente estranei ai fatti contestati”. Il tribunale di Caltanissetta ha rinviato alla procura gli atti affinché valuti se procedere per il reato di calunnia nei confronti del falso pentito Vincenzo Scarantino. Tramessi anche gli atti in ordine alle dichiarazioni rese dai poliziotti Maurizio Zerilli, Angelo Tedesco, Vincenzo Maniscaldi e Giuseppe Di Gangi in quanto testimoni sospettati di falsità o reticenza.

“Ritenere in questo processo – ha aggiunto l’avvocato Giuseppe Seminara, legale di Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo – che calunnia vi sia stata e nello stesso tempo assolvere Ribaudo significa che anche in questo processo Scarantino è stato ritenuto un calunniatore. Il fatto che sia stata dichiarata la prescrizione non significa affatto che noi siamo in presenza di elementi certamente univoci rispetto alla responsabilità di Bo e di Mattei. Dovremo analizzare le motivazioni della sentenza per comprendere qual è il percorso motivazionale. Certamente è stata esclusa l’aggravante. Quindi sotto questo aspetto per quanto riguarda l’agevolazione all’associazione criminale non c’è alcun dubbio secondo questa ricostruzione che anche i nostri assistiti sul punto devono essere ritenuti estranei. Sul resto aspetteremo la motivazione della sentenza e anche se ci fosse un solo pelo che possa turbare l’onore, il decoro delle loro posizioni professionali in 40 anni di attività, presenteremo appello e vedremo cosa ci sarà da fare“.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Depistaggio sulla morte di Borsellino, le difese: «Poliziotti e magistrati screditati dalla procura». Parla l'avvocato Panepinto, difensore di Mario Bo. Un duro attacco alla procura di Caltanissetta che in precedenza aveva puntato il dito contro i poliziotti. Il Dubbio l'1 giugno 2022.

Parla di «accuse infamanti» e di «gogna mediatica» ma anche di «schizzi di fango» che «hanno colpito i tre poliziotti imputati» del processo sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio, l’avvocato Giuseppe Panepinto, difensore di uno degli imputati, Mario Bo, che oggi ha iniziato l’arringa difensiva davanti al Tribunale di Caltanissetta. La Procura ha chiesto per Mario Bo undici anni e dieci mesi, nove anni e mezzo per gli altri due imputati, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, accusati tutti di concorso in calunnia aggravata perché secondo la Procura avrebbero indotto il falso pentito Vincenzo Scarantino ad accusare falsamente delle persone su via D’Amelio. «Prima di formulare accuse infamanti che espongono alla gogna mediatica, non solo i poliziotti ma anche i magistrati colpiti da schizzi di fango, prima di fare queste accuse ed esporre alla gogna mediatica un uomo dello Stato, magistrati, poliziotti, ci vogliono delle prove – dice Panepinto – abbiamo sentito parlare di prove granitiche che non abbiamo mai visto, e abbiamo trovato semplici sospetti, dubbi ed illazioni, fatte in quest’aula di giustizia». Presenti i tre imputati.

Panepinto parla poi di «ricostruzioni romanzesche» che «non possono trovare spazio in un processo». «Non possono trovare spazio protagonisti, che sono personaggi in cerca di autore». L’avvocato spiega poi: «Siamo arrivati alla conclusione in un processo che abbiamo vissuto lungamente, finalmente è arrivato il momento di fare sentire la voce degli imputati, dopo avere ascoltato a lungo le deposizioni dei testimoni». «Chi mi ha preceduto ha ritenuto di dovere ringraziare il Tribunale – dice riferendosi al pm Stefano Luciani e alle parti civili – non me ne voglia questo Tribunale, ma io ritengo che non si debba ringraziare nessuno, perché se siamo qui in un’aula di giustizia, è perché il mio assistito avrebbe fatto a meno di stare in questa aula e perché il pm ha ritenuto di fare un’indagine che era stata archiviata ed esercitare l’azione penale».

«Ho avuto un certo smarrimento in diversi momenti, non certo perché vi siano stati argomenti particolarmente incisivi, non è mancanza di rispetto nei confronti dell’accusa – prosegue ancora l’avvocato Giuseppe Panepinto – Ma un grande senso di smarrimento perché ho avuto l’impressione di partecipare a un processo diverso delle altre parti, di avere valutato prove documentali diverse da quelle di cui vi hanno parlato le parti. Ovviamente abbiamo sentito parlare del “dovere di verità”, di rispetto delle vittime della strage e di rispetto per la memoria. Ovviamente totale rispetto per le parti delle vittime di questa terribile tragedia che ha sconvolto lo Stato italiano, per i loro parenti e coloro che hanno subito un danno e tutti i cittadini italiani».

«Fu un periodo che ha scosso le coscienze di tutti gli italiani – prosegue il legale di Mario Bo – Ma sono certo che altrettanto rispetto meritino tutti coloro che con grande senso del dovere si sono impegnati in quegli anni nella lotta alla mafia, e con grande senso del dovere hanno messo la propria vita per lo Stato. Mi riferisco ai magistrati, agli uomini del gruppo Falcone e Borsellino (di cui facevano parte i tre imputati ndr) che hanno condotto una guerra alla mafia. Hanno arrestato mandanti ed esecutori».  «Se oggi abbiamo un momento storico diverso, se oggi non c’è più quella guerra è dovuto grazie a loro, per merito loro che Cosa nostra ha subito un durissimo colpo – dice ancora Panepinto – Abbiamo sentito criminalizzare tutti gli uomini dello Stato». E ancora: «La memoria di coloro che non possono difendersi è stata ampiamento screditata, mi riferisco a tutti gli uomini dello Stato che si sono succeduti, dei testimoni tacciati di essere collusi, di volere coprire e infangare, occultare, sono accuse gravi che vengono fatte, specie in un’aula di giustizia».

Il legale di Mario Bo, citando la requisitoria del pm Stefano Luciani, parla ancora di «illazioni» e cita quanto dice il vocabolario. «Sono ipotesi, un giudizio formulato per via deduttiva. È questo che ci è stato prospettato in questi processo. Un processo che per anni ha costretto gli imputati a subire tutto, ciò che un processo comporta, le sofferenze, conseguenze in ambito personale, familiare e lavorativo. Anche malattie e sofferenze, sono la conseguenza di questo processo». E del suo assistito, Bo, oggi presente con la moglie in aula, dice: «È un uomo dello Stato integerrimo, un uomo del quale ho avuto modo di apprezzare la dignità, e soprattutto il grande senso di abnegazione e rispetto per lo Stato, ancora oggi dopo quello che ha subito, ancora oggi dice che rifarebbe tutto ciò che ha fatto». E aggiunge: «Mario Bo continua ad avere massima dignità per lo Stato».

«Lasciamo ai libri, scritti da ex magistrati e giornalisti, chiunque scrive e parla di questa vicenda – dice Panepinto – il top è stato raggiunto quando anche Candura (il falso pentito ndr) aveva un memoriale che voleva pubblicare. E poi ancora interviste televisive. lasciamole fuori dall’aula di giustizia». E aggiunge: «Si continua a parlare di fatti mai accaduti ed esistiti, si continua parlare di altre verità». (adnkronos)

Depistaggio sulla strage di via D’Amelio, il legale della famiglia Borsellino: «Di Matteo si crede “assolto”, ma è lo stesso coinvolto». Il Dubbio il 20 maggio 2022. L'avvocato Fabio Trizzino nel corso della discussione per la parte civile costituita, ha menzionato anche i magistrati Palma e Petralia, inizialmente accusati di calunnia.

«Definire questo processo “epocale” è anche riduttivo». Inizia con queste parole la sua arringa difensiva, l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia di Paolo Borsellino, parte civile nel processo sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio. «Il pm Stefano Luciani all’inizio della requisitoria ha ritenuto di chiedere scusa alle parti civili presenti, io vorrei rassicurare il dottor Luciani che non è lui che deve chiedere scusa, perché ha dato un contributo fondamentale per almeno 13 anni alla ricostruzione di questi eventi così dolorosi – dice l’avvocato Trizzino – Sono altri i pm che avrebbero dovuto chiedere scusa. Scuse mai arrivate. Nonostante noi crediamo che loro siano in qualche modo convolti nel confezionamento di quello che è stato definito nella sentenza “Borsellino quater” come uno dei “più grandi depistaggi” della storia giudiziaria italiana». Presente in aula anche Manfredi Borsellino, figlio di Paolo Borsellino, che è funzionario di Polizia. Sono poliziotti anche i tre imputati, Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di concorso in calunnia aggravata, perché secondo la Procura avrebbero imbeccato il falso pentito Vincenzo Scarantino a dichiarare il falso.

«Mi rendo conto che è un’affermazione forte e dolorosa – dice Trizzino – ma visto il contegno tenuto nel corso del loro esame, per quanto riguarda la dottoressa Palma e Petralia come indagati di reato connesso, e il dottor Di Matteo, noi diciamo che “per quanto loro si possano credere assolti, riteniamo che siano lo stesso per sempre coinvolti”, e lo dimostrerò nel corso di questa arringa la validità».  

L’avvocato cita il testo di una canzone di Fabrizio De Andrè, “Canzone del maggio”, che recita: «Anche se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio, se la paura di guardare, vi ha fatto chinare il mento, se il fuoco ha risparmiato le vostre Millecento, anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti». I giudici Annamaria Palma e Carmelo Petralia erano stato indagati dalla Procura di Messina per concorso in calunnia, sempre per la gestione del falso pentito Vincenzo Scarantino, ma il gip ha archiviato la loro posizione. Mentre Antonino Di Matteo, oggi consigliere del Csm, era stato il pm che si era occupato della prima inchiesta sulla strage Borsellino.

Petralia replica al legale della famiglia Borsellino: «Sono stato assolto, meritavo delle scuse». Il Dubbio il 20 maggio 2022.  

L’anno scorso, il magistrato e Annamaria Palma erano stati indagati dalla Procura di Messina per concorso in calunnia aggravata, perché accusati di avere indottrinato il falso pentito Vincenzo Scarantino. Ma il gip di Messina ha archiviato la loro posizione.

«Il fair play non è una dote che può esigersi in chi ha subito lutti gravissimi, ma altra cosa è il rispetto delle regole dello Stato di diritto. Ciò vale per le parti private, ma ancora di più per chi rappresenta la parte pubblica. In nome di chi viene chiesto scusa, mi domando. In nome di quei magistrati che ostinatamente sono stati accusati, perseguiti e processati per poi venire assolti con una motivazione che non ha lasciato spazio a ombre o sospetti? O in nome addirittura del giudice che li ha giudicati e assolti? O in nome della procura competente per questo giudizio che non ha impugnato la sentenza? Forse qualcun altro avrebbe avuto il diritto di esigere delle scuse, ma il fair play e comunque il rispetto per il dolore di una famiglia atrocemente colpita glielo hanno impedito». Lo ha detto all’Adnkronos il magistrato Carmelo Petralia, replicando così a distanza all’avvocato Fabio Trizzino, legale di parte civile dei familiari di Paolo Borsellino.

Oggi, nel corso dell’arringa difensiva, nel processo sul depistaggio sulla strage di Via D’Amelio, Trizzino ha duramente attaccato Petralia, ma anche l’ex pm Annamaria Palma, che subito dopo le stragi indagarono sull’uccisione di Borsellino e dei cinque agenti della scorta. « Il pm Stefano Luciani all’inizio della requisitoria ha ritenuto di chiedere scusa alle parti civili presenti, io vorrei rassicurare il dottor Luciani che non è lui che deve chiedere scusa, perché ha dato un contributo fondamentale per almeno 13 anni alla ricostruzione di questi eventi così dolorosi – ha detto Trizzino, seduto vicino a Manfredi Borsellino – Sono altri i pm che avrebbero dovuto chiedere scusa. Scuse mai arrivate», e il riferimento è proprio a Petralia e Palma, oltre che all’attuale consigliere del Csm Antonino Di Matteo che per un periodo indagò sulle stragi. «Nonostante noi crediamo che loro siano in qualche modo convolti nel confezionamento di quello che è stato definito nella sentenza “Borsellino quater” come uno dei “più grandi depistaggi” della storia giudiziaria italiana», ha detto ancora Trizzino. Ed ecco l’attacco frontale ai magistrati: «Mi rendo conto che è un’affermazione forte e dolorosa – ha detto Trizzino – ma visto il contegno tenuto nel corso del loro esame, per quanto riguarda la dottoressa Palma e Petralia, come indagati di reato connesso, e il dottor Di Matteo, noi diciamo che “per quanto loro si possano credere assolti, riteniamo che siano lo stesso per sempre coinvolti”, e lo dimostrerò nel corso di questa arringa la validità», citando una canzone di Fabrizio De Andrè, “Canzone del maggio”, che recita: «Anche se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio, se la paura di guardare, vi ha fatto chinare il mento, se il fuoco ha risparmiato le vostre Millecento, anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti» «Solo abbassando i toni e ricordandoci che ci sono dei limiti che tutti – parti civili e parti pubbliche – dobbiamo rispettare si rende onore alla Giustizia e ai tanti eroi che in nome di essa hanno sacrificato le loro vite», ha poi aggiunto il magistrato Carmelo Petralia parlando ancora con l’Adnkronos.

L’anno scorso, Petralia e Annamaria Palma erano stati indagati dalla Procura di Messina per concorso in calunnia aggravata, perché accusati di avere indottrinato il falso pentito Vincenzo Scarantino. Ma il gip di Messina ha archiviato la loro posizione.  Ecco cosa scriveva il gip di Messina, che aveva accolto la richiesta di archiviazione della Procura: «Sono insussistenti gli elementi probatori certi e univoci tali da consentire la sostenibilità in un eventuale futuro dibattimento dell’accusa di calunnia a carico degli indagati».

I due magistrati facevano parte del pool che coordinò l’indagine sull’attentato costato la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta. A entrambi si contestava il reato di concorso in calunnia aggravato dall’avere favorito Cosa nostra. Nell’ipotesi accusatoria, in concorso con tre poliziotti tuttora sotto processo a Caltanissetta per la medesima accusa – Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo – i due pm avrebbero depistato le indagini sulla strage di via D’Amelio imbeccando tre falsi pentiti, tra cui Vincenzo Scarantino, e suggerendo loro di accusare dell’attentato persone ad esso estranee. Quelle false accuse avevano poi portato all’ingiusta condanna all’ergastolo nei confronti di sette persone: Cosimo Vernengo, Gaetano La Mattina, Gaetano Murana, Gaetano Scotto, Giuseppe Urso e Natale Gambino. I sette, ora persone offese dal reato, si erano opposte alla richiesta di archiviazione presentata dai pm.

Il depistaggio su Borsellino scaricato su due morti. Luca Fazzo l'1 Maggio 2022 su Il Giornale.

La "colpa" di aver creduto al finto pentito Scarantino attribuita a Tinebra e La Barbera. Ma gli altri dov'erano?

Non c'è miglior colpevole di un morto. Qui di morti ce ne sono addirittura due. Quindi c'è poco da stupirsi se a venire indicati come gli inventori di questo scandalo, efficacemente - ma non del tutto correttamente - etichettato come «il più grande depistaggio della storia d'Italia», siano due defunti, incapaci di difendersi o almeno di spiegare come sia accaduto che un balordo di terza fila sia stato trasformato in un superpentito di mafia, e le sue «sciocchezze» (copyright di Ilda Boccassini) sul massacro di Paolo Borsellino e della sua scorta siano state spacciate per verità assolute, portando alla condanna all'ergastolo di sette innocenti. I due geni del male, viene raccontato ora, furono un magistrato, Giovanni Tinebra, procuratore di Caltanissetta, e un poliziotto, anzi un «superpoliziotto», Arnaldo La Barbera, che avrebbero convinto Vincenzo Scarantino, ladro d'auto, a inventare accuse false. Morti Tinebra e La Barbera, sul banco degli imputati nel processo che si avvia a conclusione a Caltanissetta sono rimasti tre pesci piccoli, tre poliziotti accusati di calunnia.

Ma anche nella ricostruzione dell'accusa non sono certo loro tre ad avere architettato la gigantesca messa in scena, né sono loro a sapere quali inconfessabili interessi abbiano mosso il depistaggio. Gli ordini venivano dall'alto. Tinebra e La Barbera d'altronde sono i colpevoli ideali, non solo perché morti ma per il resto che emerge post mortem su di loro: il primo animatore della fantomatica Loggia Ungheria, il secondo a libro paga dei servizi segreti. Un profilo perfetto di depistatori al soldo di poteri oscuri.

Ma tutti gli altri dov'erano?

Basta frugare senza paraocchi gli archivi per avere contezza che se le «scemenze» di Scarantino gli vennero messe in bocca a forza di pestaggi e di ricatti nel carcere di Pianosa, e poi messe a verbale e portate con successo fino in Cassazione, questo avvenne sotto il naso di magistrati, giornalisti, politici che all'operato di La Barbera e della sua squadra applaudivano senza porsi domande. Salvo poi defilarsi, non ricordare, quando lo scandalo esplode. Uno per tutti: Gian Carlo Caselli, allora procuratore di Palermo. Che adesso dice di non avere mai utilizzato le dichiarazioni di Scarantino, ma nel luglio 1995, quando la moglie del «pentito» accusa La Barbera di avere fatto torturare il marito per convincerlo a riempire i verbali sulla strage di via D'Amelio, insorge a difesa del superpoliziotto, e accusa i giornali che danno retta alla donna di «contribuire a una campagna di delegittimazione dei collaboratori di giustizia».

Si dirà: allora nessuno poteva sapere che Scarantino mentiva. Invece no, perché almeno due pm in servizio nel pool che indagava sulle stragi sentirono puzza di bruciato e misero per iscritto i loro dubbi: Ilda Boccassini e Roberto Saieva. Ma il resto del pool andò avanti per la sua strada: non il solo Tinebra ma una sfilza di pm - Anna Maria Palma, Carmelo Petralia, Antonino Di Matteo - vengono indicati dalla figlia di Borsellino, Fiammetta, come coloro che presero per oro colato le dichiarazioni di Scarantino, che dopo avere detto di avere rubato la 126 da imbottire di tritolo e da piazzare in via D'Amelio aveva accusato come mandati una lunga serie di mafiosi che non c'entravano niente. Da allora i sopravvissuti si rimpallano le colpe, Di Matteo - nel frattempo approdato al Consiglio superiore della magistratura - dice che lui nel pool nemmeno c'era, e che anzi la prima a interrogare Scarantino era stata la Boccassini. Ma in questo valzer di verità l'unica certezza che emerge è quella di una gestione scellerata dei pentiti, con Scarantino che nel suo ricovero protetto ha persino i numeri di cellulare privati dei pm, e con loro si sfoga, chiede aiuti, conforto. C'è una frase che andrebbe resa immortale, perché riassume bene l'intero clima. Quando il pentito Scarantino si mette a piangere, a dire che lui in realtà della strage non sa niente e sta accusando degli innocenti si sente consolare così dalla Palma: «Mi disse di stare tranquillo e aggiunse: se non hanno fatto questo hanno fatto altre cose e pagano».

Come tutti i bravi pentiti, Scarantino ha ritrattato anche questo, dicendo che a istruirlo, a suggerirgli cosa dire, erano solo i poliziotti e non i pm. Il Csm ne ha approfittato per archiviare il fascicolo aperto dopo l'esposto di Fiammetta Borsellino, che accusava i pm di avere avallato le «gravissime, grossolane anomalie investigative» nell'inchiesta sulla strage. Niente da fare. La colpa ufficiale è tutta dei due morti, il procuratore Tinebra e lo sbirro La Barbera. Eppure è lo stesso La Barbera che quando nel 2001 lo cacciarono dall'Antiterrorismo per i fatti del G8 i giornali che oggi lo indicano come il genio del male descrivevano come «un grande poliziotto», «un generoso, imprevedibile mastino».

Resta da chiedersi: perché? Perché il «generoso mastino» si inventa il pentito, perché Tinebra e i suoi gli vanno dietro? È qui che mostra la corda l'etichetta di «depistaggio» affibbiata a questa storia. Perché sottintende che ci fossero altri, veri colpevoli da salvare: al di fuori della mafia, sopra la mafia. È il teorema Ingroia. Ma di questi mandanti eccellenti in trent'anni non si è mai trovata traccia. E l'intero affare Scarantino va forse allora letto come una truce storia di furore investigativo, di ansia da risultato priva di scrupoli, di ambizione di carriera: nella convinzione di essere comunque nel giusto, perché dovunque si fosse colpito si sarebbe colpito bene.

Il depistaggio sul cadavere di Paolo Borsellino e le troppe facce di uno stato omertoso. ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 28 aprile 2022

C'è qualcos'altro da aggiungere sul depistaggio orchestrato sul cadavere di Paolo Borsellino. In questi trent'anni centinaia e centinaia di mafiosi hanno salto il fosso, alcuni hanno raccontato tanto e altri hanno raccontato poco. Ma non c'è un solo rappresentante dello stato che abbia confessato qualcosa, nemmeno il più piccolo dettaglio.

Per Cosa Nostra il muro di omertà è crollato, per lo stato no.

Nelle prossime settimane conosceremo il verdetto del dibattimento sulle trame che hanno scaraventato il falso pentito Scarantino al centro dell'intrigo ma già ora, e al di là di quello che sarà la sentenza, abbiamo sufficienti elementi per capire come siano andate le cose.

ATTILIO BOLZONI. Giornalista, scrive di mafie. Ha iniziato come cronista al giornale L'Ora di Palermo, poi a Repubblica per quarant'anni. Tra i suoi libri: Il capo dei capi e La Giustizia è Cosa Nostra firmati con Giuseppe D'Avanzo, Parole d'Onore, Uomini Soli, Faq Mafia e Il Padrino dell'Antimafia.

Mattia Feltri per “la Stampa” il 29 aprile 2022.  

Da un paio di giorni un pubblico ministero sta pronunciando la requisitoria più angosciante che si sia mai sentita in Italia. Oddìo, sentita. Non la sente nessuno, non ne sa niente nessuno, a meno che non si sintonizzi su Radio radicale, che ne dà conto perché solo Radio radicale fa servizio pubblico (ricordate la bella idea dei grillini di levarle i fondi statali?).

Il pm si chiama Stefano Luciani, il tribunale è quello di Caltanissetta, il processo è sul "più colossale depistaggio della storia giudiziaria italiana": gli ergastoli rifilati per la strage di via D'Amelio - Paolo Borsellino e la sua scorta - a gente innocente sulla base di dichiarazioni di un falso pentito (Vincenzo Scarantino), individuato, torturato, istruito dalla polizia, infine creduto - diciamo così - dalle procure e dai giudici. Questo racconta Luciani, e questo racconta da anni Fiammetta, la figlia di Borsellino. Io ogni tanto torno qui, con questa storia, sebbene mi paia proprio di annoiarvi. E succederà ancora.

Perché il pm si è scusato - dovremmo scusarci tutti - di una requisitoria non all'altezza «di un processo di questa portata», dove gli imputati sono tre poliziotti, e una specie di omertà istituzionale impedisce di sapere chi li abbia incaricati e attrezzati, probabilmente anche dentro i palazzi di giustizia. Le più alte corresponsabilità della morte di Borsellino - altro che quella boiata della trattativa Stato mafia - sono coperte e ignote da anni, salvo poi versare la lacrimuccia coccodrillesca a ogni ricorrenza. Una roba degna della Russia di Putin. E noi, che non ce ne curiamo, siamo già degni sudditi del putinismo.

LA REQUISITORIA. Le indagini sulla strage di via D'Amelio, il pm: "Fu più grande depistaggio della storia". La Gazzetta del Sud il 26 Aprile 2022.

Per l’accusa è stato il più grande depistaggio della storia italiana. Una definizione forte, la stessa che venne usata anni fa dalla corte d’assise che, per la prima volta in una sentenza, puntò il dito sul clamoroso tentativo di inquinare le indagini sulla strage di Via D’Amelio, uno dei crimini più efferati commessi da Cosa nostra. A Caltanissetta è il giorno della requisitoria della Procura che di quel depistaggio accusa tre funzionari dello Stato: i poliziotti Fabrizio Mattei, Mario Bo e Michele Ribaudo, imputati di aver creato a tavolino un castello accusatorio fasullo, riuscito, però, a reggere ad anni di processi. Gli imputati rispondono di calunnia aggravata dall’avere favorito la mafia nel quinto dibattimento istruito sull'attentato in cui, ormai quasi trent'anni fa, persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta.

«Mi scuso in anticipo con le parti civili perché la requisitoria che mi accingo a fare certamente non sarà adeguata a quella che sarebbe dovuta essere la conclusione di un processo di questa portata», ha detto il pm Stefano Luciani che ha ricordato i «numeri» del dibattimento: "70 udienze, 112 testimoni, 4.900 pagine di trascrizioni». Per l'accusa i fatti emersi sono chiari. I tre ex investigatori, che facevano parte del gruppo "Falcone-Borsellino", avrebbero costretto Vincenzo Scarantino, piccolo criminale palermitano, a mentire minacciandolo, picchiandolo, facendo su di lui pressioni psicologiche. Vessazioni preordinate e finalizzate a costruire falsi collaboratori di giustizia e una falsa verità sulla strage che solo le rivelazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza riuscirono poi a smascherare. «Fu Spatuzza - dice Luciani - a raccontare una verità che da subito è apparsa dirompente. Ed era una verità che andava a sconvolgere ben due processi che si erano già celebrati per la strage di via D’Amelio, una verità che andava a mettere in discussione condanne all’ergastolo comminate sulla base di prove manipolate. Infatti era stata manipolata la collaborazione di Salvatore Candura, quella di Francesca Andriotta e infine quella di Vincenzo Scarantino». Luciani ha poi ricordato le vessazioni subite durante la detenzione a Pianosa da Scarantino, piccolo spacciatore assurto, nella falsa ricostruzione degli investigatori, al rango di boss al corrente dei più oscuri segreti della stagione stragista.

«I suoi precedenti - spiega il pm- erano assolutamente distonici rispetto al quadro che si è voluto rappresentare. Scarantino ha subito un pressing asfissiante. Interrogatori costanti e ripetuti, plurimi procedimenti penali, condanne per traffico di droga perché mentisse accusando persone che con la strage non c'entravano nulla». «La moglie - continua Luciani - raccontò che era un uomo robusto di oltre 100 chili. Quando lo vide a Venezia era già ridotto alla metà, a Pianosa era ormai in condizioni terribili». Fu lui stesso a raccontare che aveva incontrato a Pianosa Arnaldo La Barbera (ex capo del pool investigativo poi morto, ritenuto la mente del depistaggio ndr). Fu lui stesso a riferire che i poliziotti l’avrebbero picchiato, gli avrebbero messo i vermi nella minestra, gli avrebbero instillato il dubbio di essere malato di Hiv. Lo facevano spogliare nudo, gli dicevano che lo volevano impiccare. Vere e proprie torture che avrebbero fatto crollare un uomo insicuro, fragile costringendolo ad ammissioni fantasiose e ad accuse false. A Scarantino, insomma, ne è certa la Procura, fu fatto recitare un copione col quale chiudere in fretta l’indagine sulla strage e assicurare colpevoli facili alla giustizia. «Più andavo avanti e più bravo diventavo», ha ammesso il finto pentito ai pm. Una frase che la procura cita perché, per gli inquirenti, Scarantino non è una vittima. Contribuì al depistaggio, contribuì a inquinare l'inchiesta.

Borsellino, processo per il depistaggio contro tre poliziotti. Il pm: “Sono passati 30 anni, se c’è stato altro ditelo”. Il Fatto Quotidiano il 27 aprile 2022.  

Davanti ai giudici di Caltanissetta sono imputati Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo perché accusati di aver indotto Vincenzo Scarantino a raccontare falsità sulla strage di via D’Amelio, in cui morirono il magistrato e i cinque agenti della sua scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina. 

Il processo a coloro che sono ritenuti tra gli autori di uno dei “più grandi depistaggi della storia” è, dopo oltre 70 udienze e 112 testimoni, arrivato al secondo giorno di requisitoria. “Se gli appunti sui verbali in possesso di Vincenzo Scarantino non erano tutti farina del suo sacco, ci dica Fabrizio Mattei chi altro ci ha messo mano. Sono passati 30 anni, se c’è stato dell’altro ditelo” ha detto il pm Stefano Luciani. Nel processo sono imputati tre poliziotti: Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo sono accusati del depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina.

Secondo l’accusa i tre ex componenti del gruppo “Falcone Borsellino” avrebbero indotto Vincenzo Scarantino a dichiarare il falso, mediante minacce, pressioni psicologiche e maltrattamenti. Come raccontato dallo stesso Scarantino ai giudici di Caltanissetta nel giugno del 2019. Il pm Stefano Luciani si è soffermato nel corso della requisitoria sugli appunti che Fabrizio Mattei avrebbe scritto di proprio pugno sui verbali in possesso di Scarantino. In un primo tempo il poliziotto, secondo la ricostruzione dell’accusa aveva detto che erano stati interamente scritti da lui per poi dire che non erano tutti suoi. L’accusa – di cui sono chiamati a rispondere davanti al Tribunale collegiale presieduto da Francesco D’Arrigo – è di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra. “Mattei – ha aggiunto il pm Luciani – non ha detto il vero quando ha tentato di disconoscere la paternità di queste scritture poste a margine. Se si arrivano a rendere dichiarazioni che vengono smentite dalla realtà dei fatti evidentemente una motivazione c’è. Non puoi rispondere in esame con un ‘non lo so’ se ti viene chiesta se è tua la paternità di quelle manoscritture. Allora Mattei non diceva il vero nel 1994 “. “Sono trascorsi trent’anni, adesso è ora di dire basta. Se c’è stato dell’altro, ditecelo. Mattei ci dicesse, una volta per tutte, chi gli ha dato questi benedetti appunti” ha proseguito. Sulla strage di via D’Amelio “i falsi collaboratori di giustizia”, come Vincenzo Scarantino, “hanno costruito un castello di menzogne“. In particolare, Luciani ha ripercorso le “due settimane che avevano preceduto l’esame dibattimentale di Scarantino al processo Borsellino uno”, “in cui Scarantino stesso è imputato”, dice. “Era il primo vaglio dibattimentale serio alla sua collaborazione”, aggiunge. E poi ha ribadito che bisogna “Maneggiare con assoluta cura le propolazioni di tutti questi soggetti che avevano falsamente collaborato con la giustizia costruendo quel castello di menzogne sono stati su questa vicenda sempre coerenti, una narrazione che ha riferito sempre gli stessi dettagli”.

Per l’accusa i fatti emersi sono chiari. Scarantino subì vessazioni preordinate e finalizzate a costruire falsi collaboratori di giustizia e una verità sulla strage che solo le rivelazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza – che presto potrebbe tornare libero – riuscirono poi a smascherare. “Fu Spatuzza – dice Luciani – a raccontare una verità che da subito è apparsa dirompente. Ed era una verità che andava a sconvolgere ben due processi che si erano già celebrati per la strage di via D’Amelio, una verità che andava a mettere in discussione condanne all’ergastolo comminate sulla base di prove manipolate. Infatti era stata manipolata la collaborazione di Salvatore Candura, quella di Francesca Andriotta e infine quella di Vincenzo Scarantino”. A Scarantino, ne è certa la Procura, fu fatto recitare un copione col quale chiudere in fretta l’indagine sulla strage e assicurare colpevoli facili alla giustizia. “Più andavo avanti e più bravo diventavo”, ha ammesso il finto pentito ai pm. Una frase che la procura cita perché, per gli inquirenti, Scarantino non è una vittima. Contribuì al depistaggio, contribuì a inquinare l’inchiesta. Per quelle ricostruzioni false furono condannati da innocenti nove persone per cui solo nel 2017, con il processo di revisione, è arrivata una sentenza di assoluzione.

Borsellino e l’illegalità sfacciata dei poliziotti imputati nella strage di via D’Amelio, il pm: “Il più grave depistaggio della storia italiana”. Giuseppe Salvaggiulo su La Stampa il 27 aprile 2022.

«L’illegalità contrassegnava i giri dei poliziotti imputati. Sono trascorsi trent’anni, adesso è ora di dire basta e di parlare», dice il pubblico ministero Stefano Luciani nella requisitoria del processo, in corso a Caltanissetta, a carico di tre poliziotti (Fabrizio Mattei, Mario Bo e Michele Ribaudo) imputati di calunnia aggravata nella gestione del falso pentito Vincenzo Scarantino. La vicenda, che affonda nelle indagini sulla strage mafiosa di via d’Amelio del 1992 in cui morirono il giudice Borsellino e cinque agenti della scorta, rappresenta «il più grave depistaggio della storia italiana» secondo la sentenza che ha ribaltato la verità giudiziaria sulla strage, dopo che i primi processi, basati sulle dichiarazioni di Scarantino, avevano portato a condanne all’ergastolo di innocenti. I tre poliziotti sono accusati di aver «indottrinato» a tavolino il falso pentito. «È incredibile quello che ci è stato detto in questo processo. Questa vicenda è costellata dal costante piegare strumenti di indagine processuali e non processuali a finalità di legge diverse dalle quali sono pensate», ha detto il pm. In particolare si è soffermato sulle telefonate di Scarantino, all’epoca in cui era sotto protezione in quanto collaboratore di giustizia ritenuto affidabile. «Ci sono troppe anomalie, tra cui telefonate che stranamente saltavano» quando Scarantino parlava con magistrati e poliziotti. L’inchiesta e il processo, che ha raccolto 112 testimonianze in 70 udienza e oltre 10mila pagine di prove, non è riuscita a risalire ai livelli apicali della catena di comando che avrebbe ordito il depistaggio. «Ma non si dica che la montagna ha partorito il topolino», ha protestato il pm, chiedendo agli imputati di aiutare a individuare eventuali mandanti e moventi.

Depistaggio Borsellino, l'appello del pubblico ministero ai poliziotti imputati: "Dopo 30 anni, è l'ora di parlare". A Caltanissetta, prosegue la requisitoria di Stefano Luciani nel processo per le pesanti ombre attorno alle indagini su D'Amelio. La Repubblica il 27 aprile 2022.   

"Mi hanno fatto studiare, mi dicevano quali erano le contraddizioni, mi hanno preparato: queste erano le parole di Scarantino - dice il pm Stefano Luciani - Tutto questo lavoro di indottrinamento, di aggiustamento di dichiarazioni è servito per fare condannare la gente all'ergastolo". Nell'aula bunker di Caltanissetta prosegue la requisitoria nel processo sul depistaggio delle indagini di via D'Amelio, che vede imputati i poliziotti Mario Bò, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, tutti appartenenti al gruppo d'indagine "Falcone Borsellino".

Via D'Amelio, l'accusa dei pm: "Sulla strage il depistaggio dei poliziotti". Fiammetta Borsellino: "Omertà di Stato"

dal nostro inviato Salvo Palazzolo26 Aprile 2022

I tre imputati sono accusati di aver indotto, con minacce e pressioni, il falso pentito Vincenzo Scarantino a dichiarare il falso per depistare le indagini. "Mario Bò - ha continuato Luciani - era il supervisore dell'attività fatta illegalmente da Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Ce lo conferma la ex moglie di Vincenzo Scarantino, Rosalia Basile, e lo stesso Scarantino. E' una verità che emerge dai documenti che abbiamo mostrato, tutti attribuibili, senza alcun dubbio, a Fabrizio Mattei, sulla base della consulenza tecnica disposta dal pubblico ministero e non smentita dalla consulenza di parte. La difesa, da canto suo, non offre elementi per sgravare di responsabilità Mattei. E se mai residuasse un micro margine di dubbio, quella menzogna che ha retto per oltre 20 anni è spazzata via da Gaspare Spatuzza che ci dice che Scarantino aveva mentito".

Luciani rivolge parole accorate in aula ai poliziotti: "E' ora di parlare", sussurra. "Mattei ci dicesse una volta per tutte chi gli ha dato questi benedetti appunti, sono passati trent'anni, è ora di dire basta. Se c'è stato dell'altro ditecelo".

Al centro della requisitoria anche alcune "anomalie" nelle intercettazioni. E su questo argomento il pm Luciani è tornato a rilevare alcune "contraddizioni" nelle deposizioni rese dai poliziotti che a quell'epoca si occupavano proprio dell'ascolto e della registrazione delle telefonate che partivano dal'utenza messa a disposizione di Vincenzo Scarantino. "Con queste deposizioni - ha detto il magistrato - si voleva dimostrare che questa famosa macchina era costellata da frequenti anomalie e malfunzionamenti. Sui brogliacci veniva scritto che non si procedeva per anomalia o interruzione della macchina, ma poi si è visto che c'erano eventi telefonici di diversi minuti. Un ingegnere, consulente della difesa, nella sua deposizione è venuto anche a parlarci del fatto che bisognava tenere conto del "fattore stress". Ma se la linea da registrare era solo una? E le conversazioni da ascoltare solo quelle?".

Tra le telefonate "saltate" vi sono quelle che il falso pentito Vincenzo Scarantino avrebbe effettuato alla procura di Caltanissetta e agli uffici della Questura di Palermo. Una ricostruzione, con date e progressivi, per dimostrare che i problemi tecnici si sarebbero evidenziati solo per determinate telefonate mentre "sugli scontrini - ha detto il pm - risultano i tempi delle chiamate e poi i nastri non registrano niente".

Salvo Palazzolo per “La Repubblica” il 27 aprile 2022.

«Prima lo sfiancarono con interrogatori e accuse, poi lo torturano nel carcere di Pianosa».

Così un gruppo di poliziotti costruì il falso pentito Vincenzo Scarantino, fra il 1993 e il 1994. «Mentre tutto ciò accadeva - accusa il pubblico ministero Stefano Luciani - la moglie del pregiudicato denunciava le violenze: mandò lettere al presidente della Repubblica, al presentatore Funari, alla signora Borsellino, che non poteva certo immaginare cosa stesse accadendo» . Il più colossale depistaggio della storia d'Italia, attorno alla strage di via D'Amelio, si poteva evitare.

Invece, il balordo della Guadagna fu trasformato un provetto Buscetta. E, oggi, sul banco degli imputati ci sono tre investigatori del gruppo d'indagine della polizia che avrebbe dovuto fare luce sulle bombe di Cosa nostra: il dirigente Mario Bò, oggi in servizio nel Nord Italia, e gli ispettori in pensione Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Erano i collaboratori più stretti dell'allora capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera, ritenuto il principale responsabile di questa drammatica vicenda, è stato stroncato da un tumore nel 2002.

«Ecco come lo spinsero a parlare», ripete il pubblico ministero all'inizio della requisitoria contro gli uomini dello Stato. «Con un pressing asfissiante e con violenze inaudite».

Rosalia Basile, la moglie di Scarantino ha ribadito in questo processo quello che aveva già detto nel 1994: «La prima volta che lo andai a trovare a Pianosa, mi raccontò che lo torturavano, fisicamente e psicologicamente. Arnaldo La Barbera e altri poliziotti. Gli dicevano che lo avrebbero impiccato e che avrebbe fatto la stessa fine di Gioè. Un giorno, gli misero dei vermi nella minestra. Un'altra volta, gli dissero che forse aveva l'Aids. Un'altra volta ancora gli fecero intendere che io avevo l'amante».

Il pm punta l'indice contro La Barbera e i suoi poliziotti. Non solo gli imputati: « In questo processo - dice Luciani con tono di voce deciso - ci sono stati anche testimoni chiamati dalla procura, appartenenti al gruppo Falcone-Borsellino, che non hanno fatto onore alla divisa che indossavano: si sono trasformati in testi della difesa in maniera grossolana». 

E giù con un elenco di omissioni e non ricordo. Già nel momento delle indagini. « Fecero un sopralluogo con Scarantino nella carrozzeria dove diceva di avere rubato l'auto e non fu redatto un verbale » . E ancora: « Verbali non furono fatti neanche durante gli incontri nel carcere di Pianosa, fatti da La Barbera e Bò».

C'è dell'altro: «I colloqui investigativi autorizzati dal ministero e dalla magistratura avevano il solo scopo di indottrinare il falso pentito». Così fu creato «il più grande depistaggio della storia d'Italia». Il pm lo chiama anche in un altro modo: «Una vicenda incredibile». Una montagna di falsi di cui non si accorsero neanche i giudici che poi celebrarono i primi due processi per la strage di via D'Amelio. Sotto accusa sono finiti anche due ex pm di Caltanissetta, Annamaria Palma e Carmelo Petralia, ma poi la loro posizione è stata archiviata.

Restano le accuse nei confronti dei poliziotti che facevano parte del gruppo di La Barbera. Accuse ancora una volta fondate sulle parole della moglie di Scarantino: «Due agenti lo facevano studiare sui verbali che aveva fatto: si chiamano Fabrizio e Michele». I verbali che il balordo della Guadagna aveva infarcito delle cose suggerite, ma pure di « ricostruzioni di cose apprese dalla stampa o esperienza di vita vissuta » . Scarantino, insomma, ci mise anche del suo.

« Il canovaccio fu riempito delle sue goffe dichiarazioni - ricostruisce il pm - Lo dice lo stesso Scarantino: "Più andavo avanti e più bravo diventavo"» . Luciani mostra in aula gli appunti su cui veniva fatto studiare il falso pentito. C'è scritto: «Chiarimenti perché Graviano prima c'era e poi non c'era » . Le richieste di condanna saranno fatte l'11 maggio.

Borsellino, depistaggio per la strage: tutto iniziò con le torture a Pianosa. Il pm Luciani nella requisitoria: “Facevano spogliare nudo Scarantino, gli dicevano che lo volevano impiccare”. Battute finali del processo contro i 3 poliziotti. Ecco come sono state deviate le indagini. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 26 aprile 2022.

Iniziata la requisitoria da parte del pubblico ministero Stefano Luciani nel processo di Caltanissetta contro i tre poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra perché avrebbero indotto Vincenzo Scarantino a dichiarare il falso, sviando così le indagini sull’attentato di Via D’Amelio nel quale morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta.

Anche Vincenzo Scarantino subì delle torture

Secondo il pm Luciani, tutto è iniziato nell’allora supercarcere di Pianosa, chiuso in seguito alle denunce da parte degli organismi internazionale in merito alle indicibili torture che avvenivano nei confronti dei detenuti. Anche Scarantino subì delle torture, e secondo il pm fu quello l’inizio – come sentenzierà il Borsellino Quater – del più grande depistaggio della Storia giudiziaria. «Come si arriva all’interrogatorio del 24 giugno 1994? Quindici giorni dopo l’arresto di Vincenzo Scarantino – ricostruisce Luciani -, avvenuto il 29 settembre 1992, atterra sul tavolo del procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra una nota del Sisde veicolata attraverso la Squadra Mobile di Caltanissetta nella quale incredibilmente, il Servizio segreto civile anziché dire che Scarantino è un piccolo delinquente di borgata, lo definisce un boss mafioso.

Da quel momento Vincenzo Scarantino subisce un pressing asfissiante. A Venezia, a Busto Arsizio, viene sottoposto a interrogatori costanti e ripetuti. Viene sottoposto a plurimi procedimenti penali a condanne per traffico di droga, rinviato a giudizio per la strage. Il 24 giugno 1994, quando disse di volere parlare della strage Scarantino era un uomo, disperato, sfiancato».

La moglie di Scarantino: «La Barbera non lo lasciava in pace»

Ed ecco che arriviamo a Pianosa. «La moglie di Scarantino – prosegue il pm Luciani durante la requisitoria – fece mettere a verbale che il marito le diceva: “Non mi lasciano in pace sono sempre qua”. Scarantino, come diceva la moglie, veniva malmenato, gli mettevano i vermi nella minestra, gli hanno instillato il dubbio di essere affetto da Hiv. Lo facevano spogliare nudo, gli dicevano che lo volevano impiccare». Il pm ripercorre la testimonianza della moglie del falso pentito, la quale disse che Arnaldo La Barbera (l’uomo che fu messo alla guida del gruppo Falcone – Borsellino) non lo lasciava in pace, capendo che era un soggetto fragile.

Scarantino riferiva alla moglie che non c’entrava nulla con la strage ma che gli avevano promesso la libertà e denaro. «Scarantino aveva raccontato alla moglie – riferisce sempre il pm Luciani – che aveva incontrato a Pianosa Arnaldo La Barbera. Scarantino veniva minacciato di morte, gli veniva detto che gli facevano fare la fine di un ragazzo che era morto in carcere. Erano loro i poliziotti di La Barbera».

L’iniziativa di indagare sul falso pentito non è certamente proveniente dal Sisde

Per verità di cronaca, in merito alla nota del Sisde, va precisato che l’allora capo Bruno Contrada ha sempre riferito – e in effetti lo si evince dalla prima informativa – di aver consigliato di indirizzare le indagini proprio sui Madonia (coloro che effettivamente furono tra i mandanti), in merito alla strage di Via D’Amelio. La nota che fu inviata su Scarantino era su richiesta di Arnaldo La Barbera stesso. In sostanza l’iniziativa di indagare sul falso pentito, non è certamente proveniente dal Sisde. Contrada verrà tratto in arresto a dicembre del 1992 e quindi non ha potuto incidere sulle indagini. Di fatto, non ha mai potuto interrogare Scarantino. A detta di Contrada, se l’avesse fatto, si sarebbe accorto che era uno che raccontava cose non vere.

Ecco tutte le tappe del depistaggio

A questo punto, ripercorriamo la vicenda depistaggio. È oramai storia nota che erano state condannate – con tanto di conferma in Cassazione – delle persone innocenti, accusate di essere stati gli esecutori della strage di Via D’Amelio. Tesi che si è retta esclusivamente sulle accuse da parte di Salvatore Candura, Francesco Andriotta e soprattutto da Vincenzo Scarantino, il quale (pur attraverso un percorso dichiarativo disseminato di contraddizioni e ritrattazioni) aveva accusato di partecipazione alla strage di Via D’Amelio, oltre che sé stesso, numerose persone, alcune delle quali appartenenti alla famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù (uomini di Pietro Aglieri).

La svolta su Via D’amelio nel 2008 con le rivelazioni di Gaspare Spatuzza

La svolta si ebbe nel 2008, con un lavoro iniziato dalla “nuova” procura di Caltanissetta sulla scorta delle dichiarazioni sconvolgenti di Gaspare Spatuzza, il quale nel giugno dello stesso anno aveva manifestato tale intendimento al Procuratore Nazionale antimafia, spiegando che la propria decisione era frutto di un sincero pentimento basato su una autentica conversione religiosa e morale, oltre che sul desiderio di riscatto.

Spatuzza, soprannominato negli ambienti di cosa nostra “u tignusu”, già condannato all’ergastolo per le stragi del 1993 e per altri numerosi e gravissimi delitti, ha iniziato a rendere le sue dichiarazioni il 26 giugno 2008 alle Procure di Caltanissetta, Firenze e Palermo che, successivamente, hanno proseguito gli interrogatori e le indagini autonomamente (nell’ambito delle rispettive competenze), pur rimanendo in collegamento investigativo e pertanto curando lo scambio di atti informazioni e notizie, anche nell’ambito di apposite riunioni di coordinamento svolte presso la Procura nazionale antimafia.

Spatuzza si è attribuito la responsabilità – unitamente ad altri soggetti inseriti in Cosa nostra – di un importante segmento della fase esecutiva della strage di Via D’Amelio. In particolare ha confessato di avere eseguito in concorso con altri, su incarico del capo mandamento di Brancaccio, Giuseppe Graviano, il furto della autovettura Fiat 126 utilizzata come autobomba, il furto delle targhe di un’altra autovettura della stessa tipologia e marca custodita presso l’autofficina di Orofino Giuseppe, nonché di aver reperito il materiale necessario ad innescare l’ordigno e di essere l’artefice del reperimento di notevoli quantità di sostanze esplosive utilizzate per le stragi mafiose degli anni ‘92 e ‘93.

Nel Borsellino quater è stato accertato il depistaggio

Spatuzza ha quindi messo in discussione l’esito di processi consacrati in sentenze passate in giudicato (soprattutto Borsellino uno e bis) con le quali erano stati inflitti numerosi ergastoli e centinaia di anni di reclusione per gravissimi delitti. Fu fatta la revisione, assolvendo quindi le persone innocenti e iniziò il famoso processo Borsellino Quater che accertò il depistaggio, sottolineando anche le irritualità processuali. Da lì scaturì l’indagine nei confronti dei poliziotti, il quale ha prodotto il processo attuale.

Un altro troncone di indagine è nato anche nei confronti dei magistrati di allora, coloro che gestirono lo pseudo pentito Scarantino. Ma nei loro confronti si concluse con una archiviazione. Rimangono soltanto i poliziotti che ovviamente si professano innocenti. Se dovessero essere condannati, rimane però l’interrogativo: agirono in completa autonomia? La ex pm Ilda Boccassini ha sempre sottolineato che erano i magistrati i dominus di quelle indagini e doveva essere sempre il pm che doveva coordinare l’attività della polizia giudiziaria.

Gaspare Spatuzza libero dopo 26 anni. Confessò le stragi di mafia. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 10 Marzo 2023.

La detenzione finita, tra carcere e arresti domiciliari. Da uomo dei Graviano a pentito: su via D’Amelio ha svelato il depistaggio e fatto condannare anche Matteo Messina Denaro

Gaspare Spatuzza, l’autore delle stragi di mafia del 1992 e 1993 che ne ha riscritto la storia con un «pentimento» dal quale sono emersi clamorosi depistaggi e condanne di innocenti, è tornato in libertà. Sia pure «vigilata», ancora per un po’. Da due settimane ha ottenuto la liberazione condizionale, senza più i vincoli della detenzione domiciliare a cui era sottoposto dal 2014. 

Gli restano cinque anni di prescrizioni da osservare — come, ad esempio, non frequentare «abitualmente» pregiudicati, o non uscire dalla provincia in cui abita senza autorizzazione — ma di fatto ha chiuso i conti con la giustizia italiana. Quella che l’ha condannato all’ergastolo per le bombe di Roma, Firenze e Milano esplose nell’estate di trent’anni fa (dieci morti e oltre cinquanta feriti) e per l’omicidio di padre Pino Puglisi, ammazzato il 15 settembre ’93; nonché a 12 anni di pena per il sequestro di Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino Di Matteo, poi ucciso e sciolto nell’acido dai suoi carcerieri. 

Una carriera mafiosa tutta in ascesa sotto il nomignolo di ’u tignusu (il pelato) e all’ombra dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, dai quali nel 1994 ha ereditato la guida del clan palermitano di Brancaccio su indicazione dei capi di Cosa nostra, compreso Matteo Messina Denaro. Del quale ha svelato, da collaboratore di giustizia, un’operazione agli occhi sotto il nome di copertura di un affiliato alla sua cosca; lo stesso sotterfugio con cui ha curato il tumore e che ha portato alla sua cattura, nel gennaio scorso.

Arrestato nel luglio 1997, Spatuzza ha trascorso undici anni al «carcere duro», finché nel 2008 decise di parlare con i magistrati. Confessando le stragi per le quali era già stato condannato, ma anche quelle di Capaci e via D’Amelio di cui non era nemmeno sospettato. E sull’attentato che uccise Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta smascherò la macchinazione orchestrata col falso pentito Scarantino, costata l’ergastolo a sette persone estranee all’eccidio. 

Le dichiarazioni del nuovo pentito, che si autoaccusò del furto della macchina utilizzata come autobomba, furono riscontrate in ogni dettaglio e sono servite a mandare alla sbarra per Capaci e via D’Amelio anche Messina Denaro, condannato in primo grado e in attesa dell’imminente sentenza d’appello. 

Per Spatuzza i magistrati chiesero nel 2010 il programma di protezione, proposta inizialmente respinta dal governo di centrodestra. L’apposita commissione del Viminale contestò le dichiarazioni «a rate» che avevano coinvolto anche Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri e un presunto accordo con i Graviano al tempo della nascita di Forza Italia. Successivamente il programma gli fu accordato e la collaborazione di Spatuzza è proseguita senza intoppi, con i permessi-premio, la detenzione domiciliare e ora la condizionale che un anno fa il tribunale di Sorveglianza di Roma gli aveva negato. Sostenendo che il «positivo percorso intrapreso» verso il «sicuro ravvedimento» previsto dalla legge non era ancora giunto a compimento. La sua avvocata Valeria Maffei s’è rivolta alla Cassazione che ha annullato quel verdetto viziato da «palese contraddizione tra premesse e conclusioni». 

La nuova pronuncia della stessa Sorveglianza, su parere conforme di tutte le Procure antimafia interpellate, ha infine concesso la liberazione condizionale che chiude, a 26 anni dall’arresto, la vita da recluso di Spatuzza. Il quale tra un mese compirà 59 anni, e insieme al «pentimento» giudiziario ha maturato, secondo il suo difensore e ora anche secondo i giudici, una conversione religiosa che l’ha portato a compiere concreti «atti di riparazione e solidarietà sociale». Ne sarebbero prova il perdono chiesto alle vittime, l’attività di volontariato, l’invito a collaborare rivolto a tutti i mafiosi con cui è stato messo a confronto in quindici anni di indagini e processi. 

A riprova del proprio riscatto il killer di mafia aveva esibito anche una lettera di don Vincenzo Russo, cappellano del penitenziario di Sollicciano. Testimone dell’incontro tra l’allora detenuto e il fratello di padre Puglisi che, ha scritto il sacerdote, «si presentava con un carico enorme di aspettative già consolidate: avrebbe conosciuto un criminale feroce, un mafioso per eccellenza. Invece è rimasto particolarmente colpito nel trovarsi di fronte una persona diversa da quella immaginata. Dopo i primi momenti di freddezza e imbarazzo, quasi gelo, egli ha colto di avere davanti a sé una persona che aveva rielaborato, che non era più la stessa. Non stupisce, perciò, se alla fine di quell’incontro egli sia riuscito a parlare addirittura di volontà di perdono». 

Parole considerate sintomo di ravvedimento di Spatuzza, come pure «la preghiera e la riflessione» all’Accademia dei Georgofili, luogo della strage consumata a Firenze trent’anni fa; «un altro importantissimo gesto» da parte dell’attentatore, ha commentato il sacerdote: «Di grande significato, direi quasi catartico».

Il boss in libertà. Rita Cavallaro su L’Identità l’11 Marzo 2023

Ventisei anni di carcere, tra 41bis, qualche permesso premio e gli arresti domiciliari. Ora il pentito di mafia Gaspare Spatuzza, la gola profonda che svelò il depistaggio di via D’Amelio e fece condannare Matteo Messina Denaro per le stragi del ’92, è tornato in libertà. Il mafioso non ha del tutto chiuso conti con la giustizia italiana: la sua pena non è stata ancora estinta, ma da due settimane i giudici gli hanno concesso la libertà condizionale per i prossimi cinque anni, durante i quali Spatuzza dovrà rispettare una serie di prescrizioni, come non frequentare pregiudicati né lasciare il territorio di residenza senza le dovute autorizzazioni, pena la revoca del beneficio e la conseguente carcerazione dell’ex detenuto. Un detenuto che, seppur ritenuto “modello” negli ultimi anni, ha un profilo criminale di primo piano e le mani macchiate del sangue di vittime innocenti.

 CAPO CLAN

 Spatuzza detto “U tignusu”, soprannome che significa “il pelato”, ha iniziato la sua ascesa in Cosa nostra come uomo di fiducia dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, i boss del clan palermitano di Brancaccio catturati da latitanti il 27 gennaio 1994 mentre cenavano in un ristorante di Milano. Fu allora che Spatuzza ereditò il comando della cosca, con la benedizione dei capi dell’organizzazione mafiosa, tra cui Messina Denaro. D’altronde l’affiliato aveva dimostrato la sua caratura: tra il ’92 e il ’93 si era infatti distinto nella Famiglia per la sua indole spietata e per i terribili fatti di sangue che sconvolsero l’Italia. Fu lui a piazzare le bombe di Roma, Firenze e Milano che provocarono dieci morti e oltre cinquanta feriti. Il sicario della mafia si rese complice anche del delitto di don Pino Puglisi, il parroco di San Gaetano a Brancaccio ammazzato con un colpo di pistola alla nuca il 15 settembre 1993, nel giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno. A sparare fu Salvatore Grigoli, ma Spatuzza accompagnò con la moto l’assassino sul luogo del delitto, quel portone di casa del sacerdote, dal quale i due si dileguarono poi a tutto gas. Ma il punto più basso della malvagità, Spatuzza lo toccò con il rapimento del piccolo Giuseppe Di Matteo, il dodicenne figlio del collaboratore di giustizia Santino, reato per cui U tignusu fu condannato a 12 anni di galera. Il bambino venne fatto prigioniero il 23 marzo 1993 su ordine del boss Matteo Messina Denaro e di Giovanni Brusca, il mafioso che il 23 maggio 1992 premette il pulsante e fece saltare in aria con 400 chili di tritolo il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, sull’autostrada all’altezza di Capaci. L’obiettivo del rapimento del piccolo Giuseppe era quello di persuadere il genitore a non rivelare gli affari di Cosa Nostra ai magistrati. Ma dopo 799 giorni di prigionia, i capi decisero che il bambino doveva morire. Fu ammazzato da altri affiliati l’11 gennaio 1996, dopo che Brusca apprese dal telegiornale della sera di essere stato condannato all’ergastolo per l’assassinio di Ignazio Salvo. Il bambino venne allora strangolato e il suo corpo sciolto nell’acido. Per il delitto, il 16 gennaio 2012, arrivò un’altra condanna al fine pena mai sia per Brusca, che si trovava in cella dal 20 maggio 1996, che per Denaro, latitante e giudicato in contumacia. A inchiodarli furono proprio le dichiarazioni del pentito Spatuzza, catturato il 2 luglio 1997 con una trappola. A vendere alla polizia il super killer, che in quel momento progettava l’assassinio dell’allora procuratore capo di Palermo Gian Carlo Caselli ed era in fuga da tre anni nel tentativo di sottrarsi ai numerosi mandati di cattura per le stragi e per oltre quaranta omicidi, fu il suo gregario Giovanni Garofalo. Gli investigatori lo avevano beccato e il sodale decise immediatamente di diventare pentito. “Vabbè dotto’ collaboro, vi porto da Gaspare Spatuzza, il capo, abbiamo un appuntamento”, disse incredibilmente ai poliziotti. E li condusse nel parcheggio dell’ospedale Cervello, dove il mafioso aspettava il suo uomo. Quando il reggente di Brancaccio si accorse dell’imboscata era ormai troppo tardi: tentò di fuggire, ma gli uomini della Catturandi aprirono il fuoco, convinti che il boss fosse armato della sua solita mitraglietta Uzi, e lo ferirono leggermente a una mano. U tignusu finì così in galera, in esecuzione di una sfilza di mandati di cattura spiccati per le stragi di Roma, Firenze e Milano, per gli omicidi di Giuseppe e Salvatore Di Peri, di padre Pino Puglisi, di Gaetano Buscemi, di Giovanni Spataro, di Marcello Grado, di Domingo Buscetta, di Gianmatteo Sole e tanti altri ancora. Il capo di Brancaccio è stato infine condannato a diversi ergastoli. Dopo undici anni di 41bis e gli studi alla Facoltà di teologia, Spatuzza venne folgorato sulla via di Damasco. Addirittura dopo la condanna al fine pena mai per l’assassinio di don Puglisi, il prigioniero chiese di sua iniziativa all’amministrazione del carcere di poter andare in isolamento, al fine “di poter intraprendere un cammino di ricerca dell’uomo”, spiegò. E alla conversione religiosa seguì il pentimento, che arrivò nell’estate del 2008.

 IL DEPISTAGGIO

 Spatuzza fece il nome del super latitante Messina Denaro quale mandante delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, per cui il capo dei capi è già stato condannato, in contumacia, all’ergastolo e, ora, è in corso il processo d’appello davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta, le cui udienze il padrino continua a disertare. Per l’attentato al giudice Paolo Borsellino del 19 luglio 1992, il pentito, inoltre, svelò il depistaggio operato con le false dichiarazioni del collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino, a causa delle quali erano state ingiustamente condannate sette persone, poi assolte nel processo di revisione. Spatuzza disse infatti di essere stato lui, e non Scarantino, a rubare, su mandato dei fratelli Graviano, la Fiat 126 esplosa con i 50 chili di tritolo che non lasciarono scampo a Borsellino. La Procura riaprì così le indagini sulla strage e affrontò il quarto processo, in cui venne avanzata per la prima volta l’ipotesi di “depistaggio di Stato” ad opera del gruppo investigativo che, a detta dei pentiti, li massacrò di botte per indurli a parlare e fare anche false rivelazioni. Nel 2010 i magistrati chiesero per lui il programma di protezione testimoni, che solo in un primo momento gli venne negato. Poi arrivarono i permessi premio e dal 2014 la detenzione domiciliare. Il cambiamento di Spatuzza è stato definito dallo stesso mafioso come “atti di riparazione e solidarietà sociale”. Sia nella collaborazione, che ha portato a inchiodare numerosi boss, che nella ricerca del perdono, con le lettere alle sue vittime o ai familiari delle persone innocenti che ha ucciso brutalmente. Molte delle quali credono che la trasfigurazione di Spatuzza sia reale e ben radicata in un cammino spirituale e in un “sicuro ravvedimento”, fino a poco tempo fa non del tutto giunto a compimento. La decisione sulla liberazione condizionale è arrivata dopo che la Cassazione, nell’aprile scorso, aveva annullato con rinvio l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Roma, che in precedenza aveva negato la misura alternativa alla custodia cautelare. Ora è arrivata la nuova pronuncia della stessa Sorveglianza, che si è espressa su parere favorevole delle procure antimafia interpellate.

"Spatuzza ha ucciso mio fratello don Pino Puglisi, ma è pentito: giusto che esca". Salvo Palazzolo su La Repubblica il 10 marzo 2023.

Gaspare Spatuzza, il giorno dell'arresto, avvenuto il 12 giugno 1997 (fotogramma)

Intervista a Franco Puglisi. "L'ho incontrato dopo una lettera in cui chiedeva perdono. Ho subito capito che era un uomo cambiato"

«Quando mi sono trovato davanti a Gaspare Spatuzza, ho subito capito che era un uomo profondamente cambiato». Franco Puglisi, il fratello di don Pino, il parroco di San Gaetano ucciso dalla mafia nel 1993, ricorda ancora con emozione quel giorno di qualche anno fa. Adesso, Spatuzza è tornato in libertà — anche se è una libertà condizionale — dopo 26 anni trascorsi fra carcere e domiciliari: così ha deciso il tribunale di sorveglianza di Roma.

Estratto dell’articolo di Salvo Palazzolo per “la Repubblica” l’11 marzo 2023

«Quando mi sono trovato davanti a Gaspare Spatuzza, ho subito capito che era un uomo profondamente cambiato». Franco Puglisi, il fratello di don Pino, il parroco di San Gaetano ucciso dalla mafia nel 1993, ricorda ancora con emozione quel giorno di qualche anno fa. Adesso, Spatuzza è tornato in libertà — anche se è una libertà condizionale — dopo 26 anni trascorsi fra carcere e domiciliari: così ha deciso il tribunale di sorveglianza di Roma.

Come nacque quell’incontro con il collaboratore di giustizia che ha confessato di aver partecipato alle stragi del 1992-1993 e poi anche al delitto di suo fratello?

«Spatuzza ci aveva scritto una lettera dai toni accorati. Raccontava la sua storia, ripercorreva i momenti dell’omicidio. E poi, soprattutto, rievocava cosa accadde in carcere.

Dopo la condanna all’ergastolo per il delitto di mio fratello, chiese di andare in isolamento: “Una scelta che mi consentirà di intraprendere un cammino di ricerca dell’uomo”, […]».

[…] Decise subito di incontrare Spatuzza?

«All’inizio, ero perplesso, titubante, ma ero curioso di conoscere questa persona che scriveva di aver fatto un percorso di pentimento rispetto al passato da mafioso. Accettai di vederlo dopo alcuni mesi di riflessione. Non era facile per me, conoscendo tutte le malefatte di cui era accusato».

[…] «Restammo insieme un’intera giornata, insieme ad altre persone. Era diverso da come appariva nelle immagini delle televisioni e dei giornali. Era commosso, mi sembrava davvero addolorato per quello che aveva fatto. Capivo che le sue parole erano espressione di una macerazione interna […] Diceva che la lettura del Vangelo lo aveva trasformato. Non ho avuto l’impressione si trattasse di un’impostura».

Cosa le disse?

«Ci sono parole di quel giorno che terrò solo per me. Posso però dire che erano le parole di un uomo che aveva fatto una profonda riflessione: per dieci anni era stato in isolamento, al carcere duro. Credo che solo lui sia davvero pentito dei crimini che ha commesso, perché la sua scelta non è avvenuta per convenienza, pochi istanti dopo l’arresto, come accaduto in tanti altri casi. È stata una scelta molto ponderata».

Cosa le ha risposto quando le ha chiesto di essere perdonato?

«Gli ho detto: “Se sei veramente pentito il Signore ti ha perdonato, chi sono io per non fare altrettanto?” Dopo mi sono sentito sollevato da un peso interiore e più sereno, in pace con me stesso».

 […] Che effetto le fa sapere che oggi Spatuzza è libero?

«Nessuna emozione: né caldo, né freddo, sono indifferente a questa notizia. Se non avessi passato con lui una giornata intera forse non sarebbe stato lo stesso, e non so se lo incontrerei nuovamente. Ma gli auguro di rifarsi una vita, se ciò è possibile. Adesso nei suoi confronti non ho alcun rancore».

Morto l’ex boss Vincenzo Galatolo: nell’attentato al giudice Palermo uccise una donna e i suoi due figli. Storia di Alfio Sciacca  su Il Corriere della Sera lunedì 13 novembre 2023.

Il suo nome è legato ad uno dei più spietati (e dimenticati) crimini di Cosa nostra: l’attentato al giudice Carlo Palermo. La mafia voleva ucciderlo a Pizzolungo (Erice) utilizzando un’autobomba. Era il 2 luglio del 1985. Quel giorno il magistrato sfuggì miracolosamente all’agguato perché a fare scudo alla sua auto fu un’utilitaria che casualmente transitava lungo la stessa strada. Nell’esplosione furono investite in pieno e dilaniate le persone che erano a bordo: una mamma, Barbara Rizzo, e i suoi due bambini, Giuseppe e Salvatore Asta. Due gemelli di appena 6 anni. Per quel terribile attentato Vincenzo Galatolo, boss del quartiere Arenella a Palermo, pochi mesi fa si era visto confermare anche in Cassazione la condanna a trenta anni di carcere. Galato, storico componente della commissione di Cosa Nostra, aveva poi altre condanne all’ergastolo, tra le quali quelle per le stragi di Capaci e di Via D’Amelio.

Da tempo Vincenzo Galatolo, 81 anni, era rinchiuso al 41bis nel carcere milanese di Opera, dove è morto per le conseguenze di diverse patologie. Proprio per via delle sue precarie condizioni di salute di recente i legali ne avevano chiesto la scarcerazione, ma la richiesta era stata rigettata. Il nome dei Galatolo è legato anche alla lunga scia di morte che insanguinò Palermo dalla metà degli anni ottanta ai primi anni novanta. Dal regno della famiglia Galatolo, vicolo Pipitone, partivano infatti gli «squadroni della morte» incaricati di regolare i conti con le cosche rivali, ma anche di compiere delitti eccellenti. Da vicolo Pipitone partirono anche i sicari incaricati di uccidere il giudice istruttore Rocco Chinnici, il segretario del Pci Pio La Torre, il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa. E sempre vicolo Pipitone, ribattezzato lo «scannatoio dei Corleonesi», era il luogo di tortura degli esponenti dei clan i rivali.

Per la strage di Pizzolungo furono condannati, come mandanti, anche i boss Totò Riina e Vincenzo Virga. E il processo per quell’attentato svela una singolare storia di riscatto, tutta interna alla stessa famiglia Galatolo. Oltre alle prove raccolte dagli inquirenti ad accusarlo di essere stato il responsabile di quella strage fu anche la figlia, Giovanna, diventata collaboratrice di giustizia. «Avevo vent’anni — raccontò tra l’altro la ragazza— a casa sentivo mio padre che diceva: “Quel giudice è un cornuto”. Poi, si verificò l’attentato».

Ma è normale che Cicchitto, molto vicino a Berlusconi, su stragi di mafia e Mani Pulite attacchi La7 (e Giletti) e sposi la tesi di Baiardo? Da mowmag.com il 14 novembre 2023

Fabrizio Cicchitto, figura storica di Forza Italia, va all’attacco sul tema di Mani Pulite e delle stragi di Cosa Nostra in occasione della pubblicazione del libro del generale Mario Mori e del capitato Giuseppe De Donno “La verità sul dossier mafia-appalti”: se la prende con La7 (e quindi con Massimo Giletti) per le trasmissioni sul tema e sulle inchieste del biennio 1992-1994 e i legami con la politica esprime una tesi apparentemente analoga a quella del non-pentito Salvatore Baiardo. E su Paolo Borsellino non risparmia l’allora procuratore capo Pietro Giammanco

“Mori, De Donno e Subranni hanno riconquistato la parola. Credevano di averli messi a tacere con i processi e le trasmissioni su La7. Fortunatamente così non è stato”: così Fabrizio Cicchitto (con Forza Italia figura storica nella politica italiana, e attualmente presidente di ReL Riformismo e Libertà) intervenendo su Libero in occasione della pubblicazione di “La verità sul dossier mafia-appalti” (Piemme), libro firmato dal generale Mario Mori e dal capitano Giuseppe De Donno, protagonisti della lotta contro Cosa Nostra poi finiti nel processo per la presunta trattativa tra Stato e criminalità organizzata (e assolti in Cassazione). E, quando parla di trasmissioni su La7, il riferimento non può che essere a colui che si è occupato del tema in una maniera evidentemente non molto gradita a Cicchitto, ossia Massimo Giletti all’epoca di “Non è l’Arena”. E sempre a “Non è l’Arena” fu (chiacchierato) protagonista il non-pentito Salvatore Baiardo (in passato vicino ai fratelli Graviano), le cui tesi, almeno per quel che riguarda Mani Pulite, non sembrano così distanti da quelle espresse dal politico ex socialista.

Massimo Giletti all'epoca di "Non è l'Arena"

Per Cicchitto è ora di fare “una rilettura di due anni decisivi della storia italiana, il biennio ’92-’94. Una rilettura che riguarda tutta l’impostazione di Mani Pulite che causò una terribile forzatura giudiziaria e mediatica con sconvolgenti ed eversive conseguenze politiche. Il sistema di Tangentopoli, infatti, coinvolgeva tutto e tutti, tutti i partiti senza eccezione e tutti i grandi gruppi industriali, finanziari, editoriali privati e pubblici; ma Mani Pulite ha colpito Craxi, tutto il Psi, i partiti laici, il centrodestra Dc e ha salvato il Pds e la sinistra Dc”. Cicchitto sottolinea poi come il libro di Mori e De Donno possa riaprire il dibattito sulla “grande differenza fra quello che è avvenuto al centro nord e ciò che si è verificato in Sicilia. Al Nord Mani Pulite è penetrata come un coltello nel burro degli imprenditori, dei partiti, degli amministratori nazionali e locali. Così il pool dei pm ha potuto fare tutto ciò che ha voluto, utilizzando gli arresti per ottenere confessioni, dando una impostazione di parte al risvolto politico delle vicende processuali e mediatiche. Poi Mani Pulite è scesa a Roma e nel Sud, ma non ha mai passato lo Stretto di Messina. Il libro di Mori e De Donno mette in evidenza che in Sicilia Mani Pulite non è mai arrivata, neanche col dossier mafia appalti costruito dal Ros. La possibilità di una estensione di Mani Pulite in Sicilia era molto pericolosa sia per la mafia, sia per l’establishment industriale, finanziario e per le cooperative rosse. […]. Per bloccare tutto ciò, si è ricorso a ben due “depistaggi atipici”: il primo, quello più devastante, costituito dalle stragi di tipo libanese che hanno colpito Falcone e Borsellino con una metodologia del tutto diversa da quella solitamente seguita dalla mafia”. Per Cicchitto così facendo “la mafia ha inviato due messaggi: il primo consisteva nell’ultimatum a bloccare i grandi processi e la realizzazione di procedure come il 41bis. Il secondo sottolineava che Mani Pulite non poteva passare lo Stretto anche sotto forma del procedimento mafia appalti apprestato con il dossier costituito dal Ros e su cui Borsellino aveva manifestato grande interesse”.

Fabrizio Cicchitto, attualmente presidente di Riformismo e Libertà

Per il presidente di Riformismo e Libertà c’è stato poi un altro “depistaggio atipico”, ossia “quello di mettere fuori gioco per circa 15 anni proprio coloro che avevano preparato il dossier mafia appalti, con il pretesto della inesistente trattativa Stato mafia, mettendo così a tacere quei rompiscatole dei carabinieri con processi interminabili e conseguenti richieste di condanne durissime, evitando che essi potessero testimoniare su tutto l’andamento reale della vicenda”: in questo Cicchitto attacca l'allora procuratore capo Pietro Giammanco, sottolineando che “invece di insistere su un filone investigativo per il quale aveva affidato le indagini proprio a Borsellino alle 7.30 del giorno del suo assassinio, tre giorni dopo chiese l’archiviazione, accettata dal Gip il 14 agosto, fra la disattenzione generale”.

Paolo Borsellino e l'allora procuratore capo Pietro Giammanco

Per Cicchitto, “Giammanco ha messo in atto quella archiviazione a favore di due entità di straordinaria potenza: la mafia e alcuni pezzi forti dell’establishment finanziario, imprenditoriale, editoriale e dei vertici delle cooperative rosse. In un quadro di quel tipo il successivo depistaggio del processo Borsellino per la strage di Via d’Amelio, è stato una sorta di conseguenza naturale: non ci si poteva inoltrare in indagini reali su una materia così scivolosa e compromettente”.

La sentenza sulla Trattativa non basta a cambiare una giustizia incentrata su una visione salvifica dell’accusa.

Se non si cambia il modo di intendere la giustizia, le cose resteranno ancorate a questo insano paradigma “accuso-centrico” in virtù del quale l’assoluzione degli imputati resta solo un’opinione. Francesco Petrelli, presidente Ucpi, il 14 novembre 2023

Le motivazioni con le quali la Corte Suprema ha chiuso l’annosa questione del processo della cd. “trattativa” fra Stato e mafia contengono qualche radicale cadenza censoria che riguarda non solo la qualità della prova ma il percorso metodologico seguito nei precedenti giudizi.

Leggere della “inidoneità delle condotte poste in essere dai tre ufficiali del R.O.S. ad integrare una forma di concorso punibile nel reato di minaccia ad un corpo politico”, lascia comprendere su quali incerte ed evanescenti basi sia stata costruita quella prima sentenza che aveva avuto bisogno di ben 5237 pagine per spiegare il perché della condanna. Secondo i giudici di legittimità, infatti, l’assunto accusatorio, che nel suo clamoroso sviluppo ha segnato la storia repubblicana, lacerando vite umane ed istituzioni delle Stato, non era «fondato su alcuno specifico dato probatorio, né argomentato sulla base di consolidate massime di esperienza», il che significa che l’ipotesi secondo la quale i vertici stragisti avrebbero trasmesso attraverso i Ros le minacce nei confronti del governo non era supportata da alcuna prova.

Insomma, non solo il reato di “trattativa”, come già sapevamo, non esiste, ma neppure esistevano le prove di quei fatti che da “trattativa” erano stati travestiti. Ma ancor più interessante risulta il passaggio nel quale i giudici della Cassazione censurano il fatto che i giudici di merito avrebbero «optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico».

A fronte di tale critica il dottor Ingroia ha risposto affermando come si tratti di una «sentenza che odora più di politica che di diritto», immaginando che i giudici di legittimità abbiano voluto disegnare con quella decisione un confine, non di tipo giuridico, ma “territoriale”, lasciando intendere – secondo quel primo interprete della “trattativa” - che «la magistratura non deve avventurarsi su questi terreni».

Quali siano i terreni interdetti all’indagine giudiziaria il dott. Ingroia non lo spiega. Ma a ben vedere, la Corte non ha affatto escluso che l’indagine giudiziaria possa scrutinare il terreno scivoloso dei rapporti politico-istituzionali, ma ha al contrario osservato - a monito dei colleghi - come «anche quando il giudice penale deve confrontarsi con complessi contesti fattuali di rilievo storico-politico, l’accertamento del processo penale resta, invero, limitato a fatti oggetto dell’imputazione e deve essere condotto nel rigoroso rispetto delle regole epistemologiche dettate dalla costituzione e dal codice di rito, prima tra tutte quella dell’oltre ogni ragionevole dubbio».

Ma ciò che appare ancor più grave in questa terribile vicenda giudiziaria (solo apparentemente a lieto fine) è la mancata pubblica presa di coscienza di un modo di intendere la giustizia penale nel quale l’idea di prova si adatta plasticamente alle finalità dell’accusa e che, ribelle ad ogni standard probatorio imposto dalle norme, ed indifferente alla cultura del limite, sviluppa indagini e dibattimenti monstre capaci di partorire decisioni altrettanto teratologiche.

E tanto poco si prende coscienza di questa idea deviata di giustizia che, con una tipica inversione di stigma, ad essere oggetto di diffidenza resta paradossalmente l’esito assolutorio e non l’improvvida azione esercitata da una Procura. Viviamo chiusi dentro un sentire comune nel quale risuonano ancora le parole scritte da Hobbes nel suo Leviatano: “la condanna assomiglia alla giustizia più che l’assoluzione”, condizionati da una organizzazione ordinamentale della magistratura nella quale solo allontanandosi da quei luoghi, nei quali giudici e pubblici ministeri appaiono legati a quell’unico e comune scopo di combattere il male, si riesce a intravedere lo spazio per una giustizia laica e liberale nel quale la ragione governa il processo con le sue regole. Così che mentre l’autorevolezza e la legittimazione della figura del giudice appaiono come una chimera futura ed incerta, il pubblico accusatore, nonostante simili battute d’arresto, conserva integro nella pubblica opinione il suo tratto egemonico e salvifico. Insomma, il dato sul quale nessuno riflette è che se non si cambia il modo corrente di intendere la giustizia le cose resteranno ancorate a questo insano paradigma “accuso-centrico” in virtù del quale mentre la “trattativa Stato-mafia” è un fatto, l’assoluzione degli imputati resta solo un’opinione.

Marcello Dell’Utri, un amico degli amici. ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA su Il Domani il 29 ottobre 2023

È stato uno dei processi più complicati e discussi della recente storia giudiziaria italiana. Con un imputato eccellente, anzi eccellentissimo, Marcello Dell'Utri, già senatore e tra i fondatori di Forza Italia, il partito “nuovo” di Silvio Berlusconi che nel 1994 dopo il crollo della Prima Repubblica ha stravinto le elezioni

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

È stato uno dei processi più complicati e discussi della recente storia giudiziaria italiana. Con un imputato eccellente, anzi eccellentissimo, Marcello Dell'Utri, già senatore e tra i fondatori di Forza Italia, il partito “nuovo” di Silvio Berlusconi che nel 1994 dopo il crollo della Prima Repubblica ha stravinto le elezioni.

Da allora, niente nel nostro Paese sarebbe più stato come prima. Nemmeno la mafia.

Un percorso giudiziario lungo e difficile quello del processo Dell'Utri, iniziato nel lontano 1997. Dopo una condanna in primo grado nel 2004 a nove anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, due in meno quelli inflitti nel 2010 dai giudici d'appello.

Poi l'annullamento della Cassazione, poi ancora un nuovo processo celebrato in appello fino alla definitiva condanna a sette anni. Nel 2014 il senatore Marcello Dell'Utri è entrato nel carcere romano di Rebibbia.

Per i giudici della Suprema Corte Marcello Dell’Utri ha avuto «un importante ruolo di collegamento tra Silvio Berlusconi e Cosa Nostra», cessato nel 1992 e non - come sosteneva la sentenza di primo grado - fino al 1998.

Nonostante trent'anni di indagini e molti processi è una vicenda italiana con ancora tanti punti oscuri, dove si mescolano storie di cavalli e di ”stallieri” come Vittorio Mangano, il boss di Porta Nuova definito “eroe” sia dal senatore che dal Cavaliere Berlusconi.

Misteri che si sono intrecciati fra Milano e Palermo per più di mezzo secolo.

Da oggi sul Blog Mafie pubblichiamo ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte.  ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA

Il processo di primo grado, l’inizio di una lunga  vicenda giudiziaria. SENTENZA D'APPELLO BIS su Il Domani il 29 ottobre 2023

Le funzioni di Dell'Utri erano state quelle di segretario personale di Berlusconi ; a lui Berlusconi aveva affidato il controllo dei lavori di restauro di Villa Casati ad Arcore, acquistata in quel periodo dall'imprenditore milanese e dove quest'ultimo si era trasferito intorno alla Pasqua del 1974

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Con sentenza dell' 11 dicembre 2004, il Tribunale di Palermo ha condannato Marcello Dell 'Utri alla pena di anni nove di reclusione ritenendolo responsabile dei delitti, avvinti dal vincolo della continuazione: di concorso esterno in associazione per delinquere di cui agli artt.110 e 416 commi 1, 4 e 5 c.p. per avere concorso nelle attività della associazione di tipo mafioso denominata "Cosa Nostra", nonché nel perseguimento degli scopi della stessa, mettendo a disposizione della medesima associazione l'influenza ed il potere derivanti dalla sua posizione di esponente del mondo finanziario ed imprenditoria/e, nonché dalle relazioni intessute nel corso della sua attività, partecipando in questo modo al mantenimento, al rafforzamento ed alla espansione della associazione medesima. E così ad esempio:

partecipando personalmente ad incontri con esponenti anche di vertice di Cosa Nostra, nel corso dei quali venivano discusse condotte funzionali agli interessi della organizzazione;

intrattenendo, inoltre, rapporti continuativi con l'associazione per delinquere tramite numerosi esponenti di rilievo di detto sodalizio criminale, tra i quali Bontate Stefano, Teresi Girolamo, Pullarà Ignazio, Pullarà Giovanbattista, Mangano Vittorio, Cinà Gaetano, Di Napoli Giuseppe, Di Napoli Pietro, Ganci Raffaele, Riina Salvatore;

provvedendo a ricoverare latitanti appartenenti alla detta organizzazione;

ponendo a disposizione dei suddetti esponenti di Cosa Nostra le conoscenze acquisite presso il sistema economico italiano e siciliano.

Così rafforzando la potenzialità criminale dell'organizzazione in quanto, tra l'altro, determinava nei capi di Cosa Nostra ed in altri suoi aderenti la consapevolezza della responsabilità di esso Dell'Utri a porre in essere (in varie forme e modi, anche mediati) condotte volte ad influenzare - a vantaggio della associazione per delinquere - individui operanti nel mondo istituzionale, imprenditoriale e finanziario. Con le aggravanti di cui all'articolo 416 commi 4° e 5° c.p. trattandosi di associazione armata ed essendo il numero degli associati superiore a dieci. Reato commesso in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo della associazione per delinquere denominata Cosa Nostra), Milano ed altre località, da epoca imprecisata sino al 28.9.1982; (capo a) di concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso di cui agli artt. 110 e 416 bis commi 1, 4 e 6 c.p. per avere concorso nelle attività della associazione di tipo mafioso denominata "Cosa Nostra", nonché nel perseguimento degli scopi della stessa, mettendo a disposizione della medesima associazione l'influenza ed il potere derivanti dalla sua posizione di esponente del mondo finanziario ed imprenditoriale, nonché dalle relazioni intessute nel corso della sua attività, partecipando in questo modo al mantenimento, al rafforzamento ed alla espansione della associazione medesima. E così ad esempio:

partecipando personalmente ad incontri con esponenti anche di vertice di Cosa Nostra, nel corso dei quali venivano discusse condotte funzionali agli interessi della organizzazione;

intrattenendo, inoltre, rapporti continuativi con l'associazione per delinquere tramite numerosi esponenti di rilievo di detto sodalizio criminale, tra i quali, Pullarà lgnazio, Pullarà Giovanbattista, Di Napoli Giuseppe, Di Napoli Pietro, Ganci Raffaele, Riina Salvatore, Graviano Giuseppe;

provvedendo a ricoverare latitanti appartenenti alla detta organizzazione;

ponendo a disposizione dei suddetti esponenti di Cosa Nostra le conoscenze acquisite presso il sistema economico italiano e siciliano. Così rafforzando la potenzialità criminale dell'organizzazione in quanto, tra l'altro, determinava nei capi di Cosa Nostra ed in altri suoi aderenti la consapevolezza della responsabilità di esso Dell'Utri a porre in essere (in varie forme e modi, anche mediati) condotte volte ad influenzare - a vantaggio della associazione per delinquere - individui operanti nel mondo istituzionale, imprenditoriale e finanziario.

Con le aggravanti di cui ai commi 4° e 6° dell'art.416 bis c.p., trattandosi di associazione armata e finalizzata ad assumere il controllo di attività economiche finanziate, in tutto o in parte, con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti. Reato commesso in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo dell'associazione per delinquere denominata Cosa Nostra), Milano ed altre località, dal 28.9.1982 ad oggi. (capo b)

Lo stesso imputato è stato dichiarato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici ed in stato d'interdizione legale durante l'esecuzione della pena, sottoposto alla misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di due anni da eseguirsi a pena espiata e condannato al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite (Provincia Regionale di Palermo e Comune di Palermo ) da liquidarsi in separato giudizio nonché al pagamento delle spese sostenute dalle stesse parti civili.

Detta sentenza - al cui contenuto si rinvia integralmente - ha esaminato la condotta di Marcello Dell'Utri ritenendola penalmente rilevante in relazione alle due contestazioni originariamente formulate nei suoi confronti ( 110, 416 c.p. e 110 e 416 bis c.p.) con riguardo ad un arco temporale compreso tra i primi anni '70 fino al 1998. In primo luogo il Tribunale ha ricostruito i rapporti esistenti tra Dell 'Utri, Silvio Berlusconi, Gaetano Cinà e Vittorio Mangano.

Dell’Utri aveva conosciuto Silvio Berlusconi nel 1961, anno in cui aveva lasciato Palermo ed era andato a Milano a studiare presso l'Università Statale. Nel 1970 era ritornato a Palermo ed era stato assunto presso la Cassa di Risparmio delle Province Siciliane a Catania dove aveva lavorato dal 2 febbraio 1970 al 25 febbraio 1971.

Nel maggio del 1973 - dopo un breve periodo di lavoro presso l'agenzia della stessa banca di Belmonte Mezzagno - era stato trasferito al Servizio di Credito Agrario presso la Direzione Generale di Palermo. Rientrato a Palermo aveva ripreso i rapporti con la società calcistica Bacigalupo che lui stesso aveva fondato nel 1957.

Nell'ambito di detta società aveva conosciuto Gaetano Cinà, padre di un ragazzo che giocava a calcio e che aveva mostrato un particolare talento, e Vittorio Mangano, amico di Cinà, che assisteva alle partite di calcio.

Lo stesso Mangano aveva confermato di avere conosciuto Dell'Utri all'epoca in cui era presidente della società calcistica appena citata e che a presentarglielo era stato Cinà che gli aveva detto che era un suo amico.

Dell’Utri aveva rammentato, in particolare, che la funzione di Mangano era stata quella di tutelare i giocatori della Bacigalupo "società prestigiosa costituita con la base dei ragazzi del Gonzaga", allorchè le partite si giocavano contro squadre composte da ''figli della società meno nobile palermitana". Nell'agosto del 1973 Berlusconi aveva proposto a Dell 'Utri di svolgere mansioni alle sue dipendenze e per tale ragione l'imputato aveva presentato la propria lettera di dimissioni dalla Cassa di Risparmio il 5 marzo 1974 con decorrenza dal mese di aprile successivo.

Le dimissioni erano state accettate formalmente dalla banca con delibera dell'8 aprile 1974. Fedele Confalonieri, sentito all'udienza del 31 marzo 2003, aveva anticipato l'inizio del rapporto lavorativo all'autunno del 1973, ricordando che Dell 'Utri era entrato alla Edilnord cinque o sei mesi dopo la sua assunzione avvenuta nell'aprile dello stesso anno.

Di fatto, le funzioni di Dell 'Utri erano state quelle di segretario personale di Berlusconi ; a lui Berlusconi aveva affidato il controllo dei lavori di restauro di Villa Casati ad Arcore, acquistata in quel periodo dall'imprenditore milanese e dove quest'ultimo si era trasferito intorno alla Pasqua del 1974.

SENTENZA D'APPELLO BIS

La prima sentenza di condanna a 9 anni di carcere per concorso esterno. SENTENZA D'APPELLO BIS su Il Domani il 30 ottobre 2023

L'attività posta in essere da Dell'Utri - in conclusione - aveva costituito "un concreto, volontario, consapevole, specifico e prezioso contributo al mantenimento, consolidamento e rafforzamento di " cosa nostra" alla quale è stata, tra l'altro, offerta l'opporunità di entrare in contatto con importanti ambienti dell'economia e della finanza, e di perseguire in modo più agevole i " suoi fini illeciti, sia meramente economici che latu sensu, politici"

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Subito dopo l'inizio dell'attività lavorativa di Dell'Utri, Vittorio Mangano era arrivato ad Arcore. Dell'Utri in sede di spontanee dichiarazioni aveva collocato temporalmente l'arrivo di Mangano ad Arcore nell'aprile del 1974, data è stata ritenuta corretta dal Tribunale in quanto Mangano aveva trasferito la propria residenza anagrafica a Milano dall' 1 luglio 1974 e Fedele Confalonieri aveva indicato detto arrivo nell'estate del 1974.

Mangano era stato assunto proprio grazie all'intermediazione dell'imputato così come era stato dichiarato da Dell'Utri nel corso dell'interrogatorio dinanzi al P.M. del 26 giugno 1996 ed anche in sede di spontanee dichiarazioni rese il 29 novembre 2004 e dallo stesso Silvio Berlusconi al Giudice Istruttore di Milano il 26 giugno 1987.

Il Tribunale ha ritenuto che il motivo dell'assunzione di Mangano ad Arcore era da ravvisarsi nella funzione di "garanzia" e di "protezione" di Silvio Berlusconi e dei suoi familiari; detta considerazione era stata confermata dal fatto che, dopo l'allontanamento di Vittorio Mangano da Arcore, l'imprenditore si era munito di un servizio di sicurezza privata e che, come aveva dichiarato lo stesso Dell'Utri (v. verb. spontanee dichiarazioni in data 29 novembre 2004), a Mangano era stato affidato il compito di accompagnare i figli di Berlusconi a scuola.

La sentenza di primo grado ha poi delineato i rapporti esistenti tra Gaetano Cinà, soggetto con il quale Dell'Utri ha svolto il ruolo di intermediazione tra "cosa nostra" e Berlusconi, con esponenti mafiosi del calibro di Benedetto Citarda ( suo cognato avendo sposato la sorella Caterina Cinà), Girolamo Teresi, sottocapo della famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù ( che aveva sposato una delle figlie di Caterina Cinà Citarda), Giovanni Bontade ( fratello di Stefano Bontade, che aveva sposato un'altra figlia dei Citarda), Giuseppe Albanese, uomo d'onore della famiglia mafiosa di Malaspina e Giuseppe Contorno uomo d'onore della famiglia di Santa Maria di Gesù ( anche loro mariti delle figlie del Citarda).

La sentenza di primo grado ha anche esaminato le dichiarazioni del collaborante Francesco Di Carlo, uomo d'onore della famiglia di Altofonte, ( v. dich. rese da Di Carlo il 16 febbraio e 2 marzo 1998) della quale aveva fatto parte fin dagli anni '60 divenedone in seguito il consigliere e poi il sottocapo. Fin dall'inizio della sua collaborazione aveva riferito di avere conosciuto Dell'Utri nei primi anni '70 in un bar vicino alla lavanderia di Gaetano Cinà: era stato proprio quest'ultimo a presentargli l'imputato.

Aveva inoltre immediatamente raccontato di avere visto Dell 'Utri anche nell'incontro avvenuto a Milano nella primavera o nell'autunno del 1974 ed in seguito al matrimonio di Girolamo Fauci a Londra. Il collaboratore aveva dunque ricordato che poco dopo la presentazione di Dell'Utri da parte di Cinà aveva incontrato quest'ultimo a Palermo con Stefano Bontade e Mimmo Teresi che gli avevano proposto un incontro a Milano, dove dovevano recarsi, fissandogli un appuntamento negli uffici di Ugo Martello (latitante appartenente alla famiglia mafiosa di Bolognetta) siti in via Larga.

Si erano pertanto ritrovati tutti a Milano ed era stato m quell'occasione che Cina, Teresi e Bontade gli avevano proposto di accompagnarli ad un appuntamento con un industriale di nome Silvio Berlusconi, il cui nome in quel momento non gli aveva detto nulla, e con Marcello Dell'Utri che invece aveva conosciuto a Palermo.

L'incontro, organizzato da Cinà e da Dell'Utri (Di Carlo: "Dell 'Utri parla con Tanino ( Gaetano Cinà) e fanno questo incontro"), era avvenuto, secondo Di Carlo, nella primavera o nell'autunno del 1974. A detto incontro avevano partecipato Berlusconi, Dell'Utri, Cinà - che seppur non essendo ritualmente affiliato era presente in quanto era stato lui a "portare questa amicizia di Dell' Utri e Berlusconi a Bontade e Teresi" ed ovviamente Teresi, Bontade ed il collaboratore.

Secondo il racconto, arrivati nel luogo dell'appuntamento (un ufficio che aveva sede in un palazzo), era stato proprio Dell'Utri ad accoglierli ed a condurli in una sala, dove avevano atteso l'arrivo di Berlusconi. L'imputato aveva baciato Cinà ed aveva scambiato delle battute scherzose con Nino Grado, che dunque conosceva ed al quale infatti dava del tu. Poco dopo era arrivato Silvio Berlusconi. Durante l'incontro, dopo avere parlato di edilizia ( Di Carlo ha ricordato che Berlusconi aveva in corso la realizzazione di "Milano 2"), avevano affrontato il problema della garanzia. Stefano Bontade aveva rassicurato l'imprenditore valorizzando la presenza a suo fianco di Marcello Dell'Utri e garantendogli l'invio di "qualcuno".

Appena aveva lasciato l'ufficio Cinà, rivolgendosi a Teresi e Bontade aveva indicato Vittorio Mangano, che Di Carlo conosceva come uomo d'onore della famiglia di Porta Nuova ( all' epoca aggregata alla famiglia di Stefano Bontade) e che gli era stato presentato " ritualmente ... come "cosa nostra", nel 1972/1973. Mangano dunque era stato mandato ad Arcore per attestare la presenza di" cosa nostra": il collaboratore aveva escluso che la funzione svolta da quest'ultimo fosse stata quella di stalliere (''perché cosa nostra non ne pulisce stalle a nessuno '') Cinà gli aveva confidato di essere imbarazzato perché gli era stato detto di chiedere a Berlusconi la somma di 100.000.000, somma che, in effetti, gli era stata poi consegnata.

Di Carlo non aveva saputo riferire se oltre a quella somma ne erano state consegnate delle altre ed aveva soggiunto che il denaro, non solo garantiva di non essere sequestrati, ma tutelava da tutto ciò che poteva accadere ad un industriale. Il Tribunale ha ritenuto attendibili le dichiarazioni del Di Carlo, mettendo in evidenza come le stesse avessero ricevuto rilevanti riscontri esterni. In particolare è stata evidenziata la corrispondenza tra la descrizione dell'edificio in cui era avvenuto l'incontro appena evocato e le foto dei locali della Edilnord, società di Berlusconi che aveva da poco trasferito la propria sede in via Foro Bonaparte n. 24. Lo stesso giudice ha rilevato che Di Carlo era stato il primo a parlare, non solo dell'incontro tra Berlusconi e Bontade, incontro nel quale Dell'Utri e Cinà avevano svolto il ruolo di intermediari, ma anche della partecipazione di Dell'Utri al matrimonio di Girolamo Fauci tenutosi a Londra nel 1980, partecipazione che era stato confermata dallo stesso Dell 'Utri.

[…] In conclusione il Tribunale ha ritenuto che fosse stata raggiunta la prova della "posizione assunta da Marcello Dell' Utri nei confronti di esponenti di "cosa nostra"; dei contatti diretti e personali con taluni di essi ( Bontade, Teresi Mangano e Cinà); del ruolo svolto dall'imputato quale mediatore con il "coordinamento di Gaetano Cinà, tra il sodalizio mafioso e gli ambienti imprenditoriali e finanziari milanesi ed in particolare con il gruppo Fininvest; della ''funzione dì "garanzia" assunta da Dell 'Utri nei confronti di Berlusconi che temeva il sequestro dei suoi familiari, "adoperandosi per l'assunzione di Mangano presso la villa di Arcore quale "responsabile" e non già come stalliere, seppur consapevole dello spessore criminale di quest'ultimo, ottenendo l'avallo di Stefano Bontate e Girolano Teresì che "all'epoca erano già due degli uomini d'onore più importanti di "cosa nostra" a Palermo"; della protrazione dei rapporti dello stesso imputato con il sodalizio mafioso , per circa un trentennio, rapporti che, in alcuni casi, erano stati favoriti anche dall'intermediazione di Cinà; del rapporto di Dell 'Utri con Cinà con Vittorio Mangano, che nel tempo aveva assunto un ruolo di vertice nel mandamento di Porta Nuova ed al quale Dell 'Utri ha mostrato costante disponibilità, incontrandolo più volte; dell'avere, l'imputato, consentito, anche grazie al Cinà, che "cosa nostra percepisse lauti guadagni a titolo estorsivo dall'azienda milanese facente capo a Silvio Berlusconi , intervenendo per mediare i rapporti tra l'associazione mafiosa e la Fininvest in momento in cui il rapporto aveva palesato una crisi ( è stata citata come esempio la vicenda degli attentati ai magazzini Standa a Catania) e chiedendo ed ottenendo da Mangano favori (come nella vicenda Garraffa), promettendo appoggio in campo politico e giudiziario.

L'attività posta in essere da Dell'Utri - in conclusione - aveva costituito "un concreto, volontario, consapevole, specifico e prezioso contributo al mantenimento, consolidamento e rafforzamento di " cosa nostra" alla quale è stata, tra l'altro, offerta l 'opporunità di entrare in contatto con importanti ambienti dell'economia e della finanza, e di perseguire in modo più agevole i " suoi fini illeciti, sia meramente economici che latu sensu, politici". SENTENZA D'APPELLO BIS

Il processo d’appello, nuovi verbali e nuove testimonianze. SENTENZA D'APPELLO BIS su Il Domani il 31 ottobre 2023

Nel giudizio di appello - a seguito di una parziale rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale - sono stati acquisiti atti, verbali di dichiarazioni dibattimentali rese in altri processi; è stata ammessa la produzione dell'agenda dell'imputato relativa all'anno 1974. Si è acquisito poi il verbale di dichiarazioni spontanee rese da Dell'Utri nell'ambito del processo celebratosi a suo carico per il reato di calunnia aggravata; è stato ammesso l'esame di Gaspare Spatuzza, di Filippo e Giuseppe Graviano e di Cosimo Lo Nigro

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Con sentenza del 29 giugno 2010 la Corte d'Appello di Palermo, assorbita l'imputazione ascritta al capo A) della rubrica ( art. 416 c. p.) in quella di cui al capo B) (art. 416 bis c.p.), nell'unico reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, in parziale riforma della sentenza di primo grado, limitatamente alle condotte commesse in epoca successiva al 1992, ha assolto Marcello Dell 'Utri per insussistenza del fatto.

In relazione all'unico reato permanente di concorso esterno in associazione di tipo mafioso per le condotte commesse sino al 1992, escludendo l'aumento di pena per la continuazione, ha ridotto la pena inflitta all'imputato ad anni sette di reclusione, confermando nel resto la sentenza impugnata. Nel giudizio di appello - a seguito di una parziale rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale - sono stati acquisiti atti, verbali di dichiarazioni dibattimentali rese in altri processi ( Mario Masecchia), è stato disposto un nuovo esame di Aldo Papalia e di Maria Pia La Malfa, è stata ammessa la produzione dell'agenda dell'imputato relativa all'anno 1974, è stato disposto, ai sensi dell'art 603, II comma c.p.p, l'esame del collaboratore Maurizio Di Gati, che è stato sottoposto a confronto con Antonino Giuffrè. Si è acquisito poi il verbale di dichiarazioni spontanee rese da Dell'Utri nell'ambito del processo celebratosi a suo carico per il reato di calunnia aggravata; è stato ammesso l'esame di Gaspare Spatuzza, di Filippo e Giuseppe Graviano e di Cosimo Lo Nigro.

Sono stati acquisiti il dispositivo e la sentenza della Corte di Cassazione di annullamento con rinvio della sentenza della Corte d'appello di Milano nel processo celebratosi a carico di Dell 'Utri e di Vincenzo Virga per il delitto di tentata estorsione aggravata ai danni di Vincenzo Garraffa.

Preliminarmente deve rilevarsi che la difesa aveva sottoposto alla Corte d'Appello l'esame di alcune questioni preliminari di natura processuale riguardanti profili di inutilizzabilità di alcuni atti per violazione degli artt. 191 e 526 c.p.p. La Corte, dopo avere ritenuto fondate alcune di dette questioni (l'inutilizzabilità dell'esame dibattimentale reso Vittorio Mangano il 13 luglio 1998 e della deposizione di Giuseppe Messina nel corso dell'incidente probatorio che si era svolto nell'ambito di altro procedimento), ha riaffermato la legittima acquisizione:

delle dichiarazioni rese da Dell'Utri in data 26 giugno e 1 luglio 1996 nonché di quelle rese dallo stesso imputato al Giudice Istruttore di Milano limitatamente alle affermazioni che non riguardavano la responsabilità di altri, ma che erano inerenti allo stesso Dell 'Utri;

delle dichiarazioni rese da Silvio Berlusconi in data 20 giugno 1987 davanti al Giudice Istruttore di Milano limitatamente agli elementi favorevoli alla difesa di Dell 'Utri;

delle dichiarazioni testimoniali rese nel corso delle udienze del 6 e del 13 novembre 2000 da Vincenzo Garraffa, persona offesa dal delitto di tentata estorsione aggravata e nei cui confronti era stata presentata denuncia per il delitto di calunnia (processo che si era concluso con un'archiviazione) e per il delitto di diffamazione a mezzo stampa, che invece era pendente alla data delle suddette dichiarazioni;

delle dichiarazioni rese da Antonino Giuffrè nel corso delle udienze dibattimentali del 7 e del 20 gennaio 2003. In relazione poi all'eccezione difensiva di inutilizzabilità dei tabulati telefonici elaborati dal consulente del P.M. dott. Gioacchino Genchi e della relativa deposizione dibattimentale per le parti che avevano riguardato Dell 'Utri, parlamentare della Repubblica sulla base dell'irrilevanza del consenso prestato dal quest'ultimo nel corso delle dichiarazioni spontanee del 15 dicembre 2003 essendo l'immunità di cui all'art. 68 Cost. una garanzia irrinunciabile, la Corte d'Appello, ha sottolineato che i risultati dei tabulati ( che erano stati richiamati dal giudice di primo grado solo in due casi giudicato dalla Corte d'appello privi di ogni valenza accusatoria) e le dichiarazioni rese dal consulente non erano stati utilizzati in alcun modo per la decisione di secondo grado: la questione dunque era priva di rilievo.

La sentenza della Corte ha preso le mosse dall'analisi dei rapporti di Dell'Utri con Vittorio Mangano e Gaetano Cinà, rapporti iniziati nei primi anni '70 e proseguiti fino ai primi anni '90. La difesa, nell'atto di appello aveva sottolineato che l'origine dei rapporti tra l'imputato, Vittorio Mangano e Gaetano Cinà era da collegarsi alla loro comune passione calcistica nel contesto della squadra calcistica del Bacigalupo.

Dell 'Utri, nel corso delle dichiarazioni spontanee rese il 29 novembre 2004, aveva riferito che l'origine della conoscenza con il Mangano era da collegarsi alla necessità di tutelare i giocatori della Bacigalupo allorchè disputavano le partite di calcio m zone particolarmente degradate e con una tifoseria aggressiva. Mangano - secondo quanto aveva riferito l'imputato - aveva una forza dissuasiva nei confronti delle aggressioni dei tifosi avversari sui giocatori della Bacigalupo che si presentavano" tutti puliti, tutti graziosi " e che a volte vincevano le partite. Dell 'Utri aveva precisato che, mentre al Mangano lo legava un rapporto di conoscenza, Cinà era per lui un vero amico. Nella genesi del rapporti di Mangano con Dell'Utri, secondo la Corte, doveva poi spiegarsi il motivo dell'assunzione del primo ad Arcore nei primi degli anni '70 proprio grazie all'interessamento dell'imputato e con la collaborazione dell'amico Cinà.

La Corte ha ritenuto infondata la censura della difesa alla sentenza del Tribunale, nella parte in cui aveva sostenuto che Mangano era stato assunto ad Arcore per occuparsi, quale stalliere, degli animali ed in particolare dei cavalli e non già, come aveva ritenuto il giudice di primo grado, per garantire, su iniziativa concordata tra Dell 'Utri, Cinà e gli esponenti mafiosi, la sicurezza di Silvio Berlusconi e della sua famiglia. In particolare, secondo i giudici di appello, non era credibile che Berlusconi avesse affidato le funzioni di fattore o di curatore della manutenzione degli animali ad un perfetto sconosciuto. Dell 'Utri aveva dichiarato, nel corso delle spontanee dichiarazioni, che Berlusconi non aveva trovato in Brianza una persona che capisse di cavalli, di cani e di terreni sicchè aveva chiesto a lui se conosceva qualcuno in Sicilia.

Era stato allora che l'imputato si era rivolto a Mangano, che lui sapeva interessarsi di cani e non di cavalli; con tale affermazione era caduto in contraddizione in quanto nel corso dell'interrogatorio al P .M. del 26 giugno 1996 lo stesso Dell 'Utri aveva invece dichiarato che Mangano si intendeva di cavalli. Vittorio Mangano aveva accettato la proposta e si era trasferito a Milano con la famiglia. Secondo la Corte era innegabile che Mangano si intendesse di cavalli; la circostanza era emersa dalle concordi dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia: Mutolo, Cucuzza, Contorno, Calderone nonché dal tenore della conversazione intercettata il 14 febbraio 1980 a Milano all'Hotel Duca di York intercorsa tra Mangano e Dell 'Utri.

A parere della Corte, tuttavia, detta esperienza non giustificava l'assunzione di Mangano: Dell'Utri si era interessato a fare assumere Mangano non perché Berlusconi era alla ricerca di un fattore o di un responsabile della villa di Arcore, ma soltanto per assumere un soggetto dotato di un rilevante e noto spessore criminale al fine di tutelare Berlusconi da minacce ed attentati. Detta circostanza - secondo la Corte ( che condivideva le argomentazioni del Tribunale sul punto) - aveva trovato conferma nelle dichiarazioni rese dal collaborante Francesco Di Carlo che aveva parlato dell'incontro avvenuto a Milano al quale aveva partecipato il boss mafioso Stefano Bontade ed aveva affermato quest'ultimo aveva deciso di mettere al fianco dell'imprenditore milanese, per proteggerlo, Vittorio Mangano.

La Corte, sottolineando che il Tribunale non aveva stabilito, in base alle dichiarazioni del Di Carlo, se l'arrivo di Mangano ad Arcore aveva preceduto o seguito la riunione con Bontade, ha ritenuto che l'arrivo di Mangano ad Arcore era stato deciso all'esito di detta riunione che si era tenuta tra il 16 ed il 29 maggio 1974. Doveva invero tenersi conto del fatto che l'l luglio 1974 Mangano aveva trasferito la propria residenza ad Arcore e che Dell 'Utri, in sede di dichiarazioni spontanee del 29 novembre 2004, aveva riferito che Mangano era andato a lavorare per Berlusconi nel luglio- agosto 1974 (l'indicazione dell'anno 1973 era stata reputata dalla Corte un errore in cui era incorso l'imputato, atteso che da altre inequivocabili emergenze probatorie era risultato che l'anno in cui Mangano era andato a lavorare ad Arcore era il 1974).

La Corte d'Appello ha ritenuto che era emerso che Mangano era stato adibito alla sicurezza di Berlusconi e dei suoi familiari; ed invero, anche se l'imprenditore aveva alle sue dipendenze un autista, era stato Vittorio Mangano ad accompagnare i figli a scuola e talvolta la moglie a Milano. Lo stesso Dell 'Utri, nel corso delle dichiarazioni spontanee rese il 29 novembre 2004 aveva confermato che Mangano era " un uomo di fiducia assoluta tant'è che Berlusconi faceva accompagnare i bambini a scuola solo da lui neanche dal suo autista".

Quando il Mangano era stato arrestato alla fine del 197 4 per poche settimane, decidendo poi di lasciare il suo lavoro ad Arcore, Berlusconi aveva deciso di allontanarsi con la famiglia dall'Italia e si era organizzato con un numero considerevole di guardie private ed un pullman blindato, come avevano riferito il suo collaboratore Fedele Confalonieri e lo stesso Dell 'Utri ( v. interrogatorio reso il 26 giugno 1996).

L'imputato, nel corso dell'interrogatorio al P .M. appena citato, aveva ammesso che Berlusconi aveva subito minacce fin dai primi degli anni '70 e che esse erano cessate senza che vi fosse stato alcun intervento. Secondo la Corte, detta affermazione non era credibile; le minacce erano state messe in atto per chiedere denaro a Berlusconi e quest'ultimo si era rivolto a Dell'Utri per cercare di risolvere il problema. Dell 'Utri ne aveva parlato con Cinà che - così come aveva riferito il Di Carlo - aveva organizzato l'intervento di Stefano Bontade e l'invio di Mangano ad Arcore, per proteggere l'imprenditore milanese. […].

SENTENZA D'APPELLO BIS

La condanna confermata, ma la pena ridotta a 7 anni di reclusione. SENTENZA D'APPELLO BIS su Il Domani l'01 novembre 2023

Nell'ultimo capitolo della sentenza, la Corte d'Appello ha sintetizzato le conclusioni alle quali era pervenuta e che erano consistite nella conferma della condanna dell'imputato in ordine all'unico reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso limitatamente alle condotte poste in essere fino al 1992

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

La Corte ha ritenuto che il coinvolgimento di un personaggio di rilievo come Bontade non poteva che essere avvenuto con l'intervento di Cinà, amico di Dell 'Utri, al quale quest'ultimo si era rivolto per risolvere il problema della sicurezza di Silvio Berlusconi, consapevole delle parentele mafiose che Cinà e la sorella Caterina avevano acquisito.

E difatti Caterina Cinà aveva sposato Benedetto Citarda, uomo d'onore della famiglia di Malaspina, una loro figlia aveva sposato Girolamo Teresi, sottocapo deila famiglia di Santa Maria di Gesù, a capo della quale vi era Stefano Bontade che Teresi aveva accompagnato all'incontro a Milano.

La presenza di Cinà all'incontro, secondo la Corte, aveva confermato il fatto che era stato proprio Cinà ad informare Bontade del problema della sicurezza di Silvio Berlusconi in tal modo organizzando l'incontro a Milano. In relazione a detto incontro, la Corte ha confermato il giudizio di piena attendibilità di Di Carlo che aveva formulato il Tribunale, rilevando che il collaborante aveva parlato di tale incontro, al quale era stato invitato da Cinà, da Bontade e da Teresi, fin dall'inizio della sua collaborazione.

La difesa aveva rilevato che le dichiarazioni di Di Carlo erano state l'unica fonte rappresentativa diretta dell'incontro e che il collaboratore non aveva alcun interesse a partecipare all'incontro caratterizzato da un profilo di particolare riservatezza.

La Corte ha reputato plausibili le giustificazioni date dallo stesso Di Carlo in ordine alla sua presenza all'incontro: il collaboratore aveva riferito che lui e Bontade erano legati da rapporti di stretta amicizia e che quest'ultimo era consapevole che Di Carlo sapeva comportarsi ed era abituato a trattare con industriali e persone di rilievo.

Del resto Cinà che, secondo il Di Carlo, aveva " portato quest'amicizia di Dell'Utri e Berlusconi a Bontade e a Teresi" non era un uomo d'onore e tuttavia era presente all'incontro. La difesa dell'imputato aveva rilevato che non era emersa alcuna certezza sulla collocazione temporale dell'incontro, atteso che Di Carlo era stato estremamente incerto sia in relazione all'anno ( 1974 o 1975 ) che alla stagione (autunno o primavera).

La Corte ha condiviso le conclusioni alle quali era pervenuto il Tribunale ritenendo che l'incontro a Milano era avvenuto tra il 16 maggio 1974 ( arresto di Liggio) ed il 29 maggio 1974 (arresto del Bontade ).

Tale data era compatibile con le dichiarazioni di Dell 'Utri che aveva riferito che il Mangano era stato assunto ad Arcore tra maggio e giugno del 1974 ed anche con le risultanze anagrafiche che avevano registrato il trasferimento della residenza di Mangano ad Arcore l' 1 luglio 1975.

La Corte ha evidenziato che l'incontro non poteva essere spostato in un tempo compreso tra la fine del 1974 e la primavera del 1975 - come aveva prospettato il P.G. - atteso che nel gennaio del 1975 Mangano si era allontanato definitivamente da Arcore. L'incontro dunque veniva collocato tra il 16 maggio 1974 ed il 29 maggio 1974.

La difesa aveva contestato detta collocazione temporale, depositando documenti che dovevano provare impegni ed obblighi processuali di Bontade e di Teresi in quel periodo: la Corte, valutando le date delle udienze e gli obblighi del Teresi e del Bontade, ha concluso rilevando che gli obblighi e le prescrizioni dei due boss non erano tali da escludere la presenza di entrambi a Milano per partecipare all'incontro.

La Corte ha poi osservato che l'oggetto della discussione svoltasi nel corso dell'incontro era stato la garanzia di protezione che Berlusconi aveva inteso ricercare tramite Dell'Utri e che, all'esito di detto incontro, Bontade si era impegnato ad assicurargli. Era stato lo stesso Bontade ad indicare Marcello Dell 'Utri a Berlusconi, quale soggetto al quale rivolgersi per qualsiasi esigenza; gli aveva garantito inoltre che gli avrebbe mandato qualcuno che gli sarebbe stato vicino, facendo il nome di Mangano, soggetto che dopo poco dicembre 1975) era stato affiliato alla famiglia mafiosa di Porta Nuova all'epoca formalmente aggregata al mandamento di Santa Maria di Gesù, comandato da Stefano Bontade.

La Corte ha ritenuto che non era importante che Mangano fosse stato individuato o contattato da Cinà o da Dell 'Utri prima o dopo l'incontro, o se la sua designazione fosse stata successiva a detto incontro; ciò che era certo era l'assunzione di Mangano e la sua permanenza in servizio ad Arcore con un" incarico specifico deciso da Stefano Bontade uno dei capi più potenti della mafia siciliana dell'epoca", capo della famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù e che da quel momento doveva essere chiaro che il Berlusconi era divenuto "intoccabile". […].

Nell'ultimo capitolo della sentenza, la Corte d'Appello ha sintetizzato le conclusioni alle quali era pervenuta e che erano consistite nella conferma della condanna dell'imputato in ordine all'unico reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso limitatamente alle condotte poste in essere fino al 1992. Era stato provato - secondo la Corte - che Dell'Utri, ricorrendo all'amico Gaetano Cinà ed alle sue autorevoli conoscenze e parentele, aveva svolto un 'opera di mediazione tra "cosa nostra" in persona del suo più autorevole esponente del tempo, Stefano Bontade, e Silvio Berlusconi.

In tal modo aveva apportato un consapevole e rilevante contributo al rafforzamento del sodalizio criminoso al quale aveva procurato una cospicua fonte di guadagno illecito rappresentata dalle ingenti somme di denaro sborsate per quasi due decenni dall'imprenditore milanese.

Dell 'Utri, dunque, non aveva cercato di soltanto di risolvere 1 problemi dell'amico Silvio Berlusconi, ma aveva mantenuto nel tempo con coloro che erano gli " aguzzini" dell'amico rapporti amichevoli, incontrando e frequentando sia Mangano che Cinà ed "a loro ricorrendo ogni qualvolta sorgevano problemi derivanti da attività criminali rispetto ai quali i suoi amici ed interlocutori avevano una sperimentata ed efficace capacità di intervento ".

Detta condotta - riconducibile secondo la Corte nel delitto contestato all'imputato - si era protratta oltre la morte di Stefano Bontade ( 1981 ), fino al 1992, data fino alla quale era rimasto provato il pagamento di somme di denaro da parte di Berlusconi all'associazione mafiosa.

Dopo il 1992 non era stato possibile ravvisare - a parere della Corte - ''prove in equivoche e certe di concrete e consapevoli condotte di contributo materiale ascrivibili a Marcello Dell'Utri aventi rilevanza causale in ordine al rafforzamento dell'organizzazione mafiosa ". Non era, poi, emerso alcun elemento concreto, ancorchè indiziario, in ordine ai pretesi rapporti intercorsi tra Dell'Utri ed i fratelli Graviano, essendo stato reputato inconsistente il contributo che aveva offerto il collaborante Gaspare Spatuzza nel giudizio di appello.

La Corte ha infine ribadito che erano mancate prove sufficienti a supportare l'accusa rivolta a Dell'Utri di avere stipulato nel 1994 un patto politico -mafioso con " cosa nostra", nei termini rilevanti per l'ipotesi delittuosa di cui agli artt. 110,416 bis c.p. SENTENZA D'APPELLO BIS

L’annullamento in Cassazione, il processo Dell’Utri è da rifare. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 02 novembre 2023

Con sentenza del 9 marzo 2012 la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso del Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Palermo ed ha annullato la sentenza della Corte d'Appello nel capo relativo al reato del quale l'imputato era stato dichiarato colpevole (con riferimento al periodo compreso tra il 1978 ed il 1992)

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Avverso la sentenza della Corte d'Appello proponevano ricorso per Cassazione la difesa dell'imputato ed il Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Palermo, quest'ultimo limitatamente alla pronuncia di assoluzione per le condotte successive al 1992 e con riferimento a cinque ordinanze pronunciate nel 2008, 2009 e 2010 con le quali erano state decise questioni istruttorie. Con sentenza del 9 marzo 2012 la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso del Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Palermo ed ha annullato la sentenza della Corte d'Appello nel capo relativo al reato del quale l'imputato era stato dichiarato colpevole (con riferimento al periodo compreso tra il 1978 ed il 1992), rinviando per un nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'Appello di Palermo.

I giudici di legittimità preliminarmente hanno ritenuto infondato il motivo di ricorso relativo alle ordinanze con le quali la Corte d'Appello aveva respinto le istanze di rinnovazione del dibattimento proposte dalla difesa, rilevando che dette istanze avevano riguardato non già, come aveva sostenuto l'impugnante, prove acquisite nel corso di indagini difensive effettuate successivamente alla sentenza di primo grado, ma prove ''preesistenti'' a detta sentenza e che, in quanto tali, potevano essere introdotte nell'istruttoria in appello alla condizione" di vincere la presunzione di completezza dell'istruttoria già compiuta", così come previsto dall'art. 603, I comma c.p.p.

In particolare gli stessi giudici di legittimità hanno ritenuto infondato il motivo di ricorso della difesa laddove era stata denunciata l'illogicità della decisione della Corte d'appello che non aveva ritenuto decisiva l'assunzione nella qualità di testi dei seguenti soggetti: - i domestici della Villa di Arcore di Berlusconi (al fine di confutare l'attendibilità del collaborante Di Carlo Francesco in ordine all'incontro tra Berlusconi e Bontade, che aveva costituito "l'antecedente logico e storico dell'assunzione di Mangano"ad Arcore); - coloro che si erano occupati della ristrutturazione degli uffici della Edilnord. Ha rilevato la Suprema Corte che la mancata descrizione degli arredi di detta società da parte dello stesso Di Carlo ben poteva collegarsi a diversi motivi e non già, necessariamente alla "falsità" delle dichiarazioni; Silvio Berlusconi, che nel giudizio di pnmo grado si era avvalso della facoltà di non rispondere ed in ordine al quale - secondo i giudici di legittimità - la difesa non aveva allegato elementi concreti da cui desumere che l'audizione "sarebbe stata concretamente idonea a vincere la presunzione di completezza della istruzione dibattimentale ed avrebbe apportato chiari elementi innovativi rispetto al panorama probatorio acquisito".

È stata poi ritenuta "ineccepibile" la motivazione del rigetto della domanda di ammissione della videoregistrazione della intervista del giudice Paolo Borsellino. E' stato poi ritenuto inammissibile il secondo motivo di ricorso con il quale la difesa aveva dedotto la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza ( motivo che veniva proposto anche con riferimento alla asserita violazione dell'art. 6 della Cedu) "specie sotto il profilo della enorme amplificazione dei temi d'indagine e la violazione dell'art. 430 c.p.p. essendosi trovata, la stessa difesa, nell'impossibilità di fronteggiare tutti i temi e le acquisizioni proposte dalla accusa e ammesse dai giudici".

Si è ritenuto che la formulazione fosse generica e manifestamente infondata, tenuto conto, da un lato delle ragioni addotte dalla Corte d'Appello, che i giudici di legittimità hanno ritenuto di condividere e dall'altro della" riperimetrazione (in senso quantitativamente riduttivo) della rilevanza della questione posta dalla difesa dovuta alla riduzione della condotta ritenuta meritevole di condanna, condotta dalla quale è stata esclusa in maniera definitiva ( a seguito della inammissibilità del ricorso del Procuratore Generale) la parte del concorso che era stato ipotizzato in relazione al presunto patto politico - mafioso".

Gli stessi giudici hanno poi ritenuto del tutto inammissibile il motivo di ricorso proposto dalla difesa che aveva lamentato la violazione dell'art. 6 Cedu ed hanno sostenuto, a tal proposito, come la difesa non aveva allegato rispetto a quali accuse era stato limitato, in concreto, il proprio mandato. Il Procuratore Generale della Cassazione ritenendo di riprendere il motivo di ricorso appena enunciato dedotto dalla difesa ( ma in realtà aggredendo "un punto nuovo e diverso rispetto alla questione sollevata dalla difesa'') - aveva fatto notare (nel corso della propria requisitoria e nelle note depositate ali 'udienza di trattazione del ricorso) che nel caso in esame era mancata l'imputazione, "nel senso che quella formulata era generica, insufficiente secondo i criteri della giurisprudenza Cedu e, secondo i giudici di merito, surrogata dalla contestazione dei fatti su cui sono caduti i mezzi di prova:evenienza, quest'ultima, che renderebbe ancor più atipica la già atipica fattispecie del concorso esterno); con la conseguenza che detto difetto, avrebbe coinvolto la stessa tenuta logica della motivazione e che doveva essere demandata al giudice del rinvio " la precisazione della condotta di rilevanza penale".

La Corte di Cassazione, ritenendo " impossibile apprezzare" detta richiesta sotto molteplici punti di vista, ha voluto sottolineare che non poteva trovare spazio la soluzione proposta dal Procuratore Generale di investire il giudice del rinvio del compito di precisare la condotta avente rilevanza penale, rilevando che sì operando si sarebbe attribuito a detto giudice un potere che non era previsto da alcuna norma.

Dopo avere ribadito l'infondatezza del motivo di ricorso della difesa rilevando che il fatto ritenuto in sentenza non era "altro" e non era "diverso" da quello contestato, ma era il medesimo, la Suprema Corte ha reputato fondata la censura difensiva relativa alla " tenuta della motivazione" per quanto concerneva una serie di fatti databili a partire dal 1978, rilevando che la motivazione, per quella parte, aveva risentito "della mancanza di sponda derivante dalla formulazione della imputazione "per grandi linee" e si era dunque articolata in una serie di condotte non sempre aderenti alla prospettazione accusatoria.

E' stata altresì dichiarata l'inammissibilità del secondo motivo ricorso per genericità e manifesta infondatezza nella parte in cui era stata dedotta la violazione del principio del " ne bis in idem" con riguardo a due processi che si erano conclusi con due sentenze di proscioglimento dell'imputato, emesse dal G.I.P. di Milano nel 1990. E' stato a tal proposito, rilevato che detta violazione era stata proposta alla Corte d'appello come motivo di impugnazione e che detto giudice aveva" correttamente" illustrato i motivi in base ai quali detta censura doveva reputarsi infondata. E' stata poi decisa l'inammissibilità del motivo di ricorso con il quale era stato censurato, in termini del tutto generici, il criterio di valutazione dei collaboranti di giustizia adottato dalla Corte d'Appello.

Orbene i giudici di legittimità con riguardo, ad esempio, al collaborante Cucuzza, hanno sostenuto che le dichiarazioni rese da quest'ultimo, in quanto confermate da riscontri esterni (la presenza di Mangano ad Arcore e le dichiarazioni di Galliano e di Di Carlo), erano state poste a fondamento della condanna del Dell'Utri per il concorso esterno relativo al primo periodo, mentre lo stesso collaborante non era stato ritenuto autore di affermazioni sufficienti ed idonee a provare l'esistenza di un patto politico con "cosa nostra" in quanto le stesse si erano presentate come frutto di un ricordo confuso in contrasto con quanto riferito da altri collaboratori. […].

Fatte le superiori premesse i giudici di legittimità hanno rilevato che la consapevolezza e volontà del fine perseguito dall'imputato, indicato e motivato dalla Corte d'Appello come fine di conservazione proprio del sodalizio mafioso, con particolare riferimento all'acquisizione di "nuove e proficue relazioni patrimoniali" era stata individuata nelle forme proprie del dolo diretto e ciò in linea con la citata giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione; dolo che non era contraddetto dal fatto che fino al 1978 l'imputato era stato mosso anche dalla volontà di risolvere il problema della sicurezza dell'amico Berlusconi e che, in relazione al quel periodo temporale era stato caratterizzato dalla consapevolezza e dalla volontà che la condotta in esame si sarebbe posta "nella linea del perseguimento dei fini ultimi dell' associazione criminale", come la Corte d'Appello aveva motivato citando i significativi incontri tra Dell 'Utri e soggetti mafiosi di vertice. La Corte di Cassazione, in tale prospettiva ha rievocato gli episodi riportati nella sentenza della Corte d'appello che apparivano idonei a supportare la sussistenza dell'elemento soggettivo del dolo diretto di Dell'Utri e che non potevano in alcun modo giustificare la ricostruzione alternativa proposta dalla difesa che intendeva, invece, attribuire all'imputato il ruolo della vittima costretta soltanto a subire. Sono stati indicati pertanto: - l'incontro presso il ristorante milanese "Le Colline Pistoiesi" avvenuto tra il 1975 ed il 1976, incontro che la Corte d'Appello - con motivazione reputata del tutto logica dai giudici di legittimità - aveva ritenuto sintomatico della considerazione in cui Dell'Utri era tenuto all'interno di "cosa nostra" "quale soggetto affidabile" da potere coinvolgere in relazioni estremamente riservate del sodalizio mafioso, perché riguardanti personaggi come Mangano, il quale lo aveva presentato come il suo "principale" e Antonino Calderone che accompagnava a Milano il fratello che era un boss mafioso che ricopriva un ruolo apicale all'interno dell'associazione mafiosa; -la partecipazione di Dell'Utri alla cena con Stefano Bontade avvenuta nella villa di quest'ultimo intorno al 1977, evento che era stato reputato indicativo dei rapporti che Dell 'Utri intratteneva con i boss mafiosi, rapporti che non consentivano di considerarlo una "vittima".

La Corte di Cassazione ha voluto mettere in risalto che l'importanza attribuita correttamente dai giudici di merito ai suddetti episodi, non aveva assunto il significato del superamento della tesi ribadita in giurisprudenza secondo cui le frequentazioni e le vicinanze con soggetti mafiosi non costituivano prova del concorso esterno. Detti episodi, cioè, erano stati ritenuti capaci di "colorire" prove di altro spessore costituite ''primariamente " dalla promozione dell'incontro di Milano del 1974 con i capi mafiosi, dal raggiungimento, in quella sede, dell'accordo per la protezione di Silvio Berlusconi e dal versamento per alcuni anni, da parte di quest'ultimo, tramite Dell'Utri, di cospicue somme di denaro a "cosa nostra".

Detti comportamenti, sono stati reputati dalla Suprema Corte indicativi del fatto che Dell'Utri "avesse accettato di risultare aderente al fine perseguito dal sodalizio, il quale traeva il vantaggio patrimoniale finale dell'intera operazione". Proseguendo l'esame dell'elemento psicologico del delitto in contestazione, la Suprema Corte ha sostenuto l'illogicità e la incompletezza della motivazione nella parte relativa alla disamina del dolo nel periodo successivo al 1978 specificando inoltre che "nel quadriennio e quinquennio successivo ali' allontanamento di Dell'Utri dall'area imprenditoriale berlusconiana, si è rilevata addirittura una carenza di motivazione riguardo ali 'elemento oggettivo che, se solo superabile, renderebbe rilevante e da emendare anche la carenza dei requisiti ulteriori del reato".

Per il periodo successivo al ritorno di Dell'Utri a Publitalia, in relazione ai numerosi elementi che la Suprema Corte ha ritenuto problematici e che riguardavano "essenzialmente i comportamenti riluttanti di Dell'Utri verso cosa nostra nonché gli attentati realizzati ai danni di beni privati e inerenti ali 'attività imprenditoriale di Berlusconi", è stata richiesta ai giudici del rinvio una valutazione "unitaria e non parcellizzata" che sia in grado di dare "un senso compiuto, sul piano argomentativo, di elementi probatori e normativi apparentemente contrapposti".

Da un lato, cioè, la condotta dell'Utri che si era risolta oggettivamente in un arricchimento di "cosa nostra", ma che negli anni '80 era "divenuta riottosa e recalcitrante, oltre che punteggiata da recriminazioni e atteggiamenti ostruzionistici" nei riguardi degli esponenti mafiosi ed "in contrappunto alquanto equivoco con gli attentati anche dinamitardi dalla evidente carica intimidatoria. Dall'altro lato il rigore della prova del dolo diretto che non ammette presunzione e che richiederebbe che, anche in ordine ai comportamenti appena rievocati, potesse darsi una spiegazione compatibile ed in linea con la tesi secondo cui Dell'Utri avrebbe accettato e perseguito l'evento del rafforzamento del sodalizio mafioso recando un contributo alla realizzazione del programma comune.

La prova della suddetta finalizzazione non poteva - secondo l'assunto dei giudici di legittimità - ritenersi acquisita negando o misconoscendo , così come era stato fatto nella sentenza della Corte d'Appello la valenza di emergenze che si sono contraddistinte, "ali 'apparenza, come segni del contrario e cioè di una possibile caduta della precedente unitarietà d'intenti". Di detti comportamenti la Suprema Corte ha chiesto una "nuova giustificazione probatoria ad opera del giudice di rinvio "essendo apparso il ragionamento effettuato dalla Corte di merito insufficiente nella parte in cui, anzichè motivare sulle cause di certe prese di distanza da parte di Dell'Utri nei confronti di cosa nostra anche in costanza degli attentati, si era soffermata sulle conseguenze delle prime (le prese di distanza nei confronti dell'associazione mafiosa) e dei secondi (gli attentati) e sulla "asserita significatività della ripresa di contatti tra le parti " nonostante" quegli eventi". Riprendendo l'argomento della prescrizione la Corte di Cassazione ha esaminato il motivo di ricorso con il quale la difesa dell'imputato - rilevando che i pagamenti non si erano protratti oltre 1986 - aveva asserito che il reato si era prescritto.

La Corte di Cassazione ha rilevato:

-che la Corte d'Appello, sulla base delle dichiarazioni rese da Ferrante, la cui credibilità sul tema era stata adeguatamente analizzata, aveva sostenuto che i pagamenti si erano protratti con cadenza semestrale o annuale fino al 1992, con la conseguenza che il termine di prescrizione - ove in sede di rinvio venisse data una congrua motivazione sull'elemento psicologico del dolo nel periodo già indicato- decorreva da tale data;

-che il delitto in esame aveva natura permanente e che la permanenza cessava "nel momento in cui il concorrente aveva perso il potere e la capacità di far cessare gli effetti pregiudizievoli del proprio comportamento antigiuridico il quale, però, deve ritenersi abbia visto il momento d'inizio della rilevanza causale nella data del raggiungimento dell'accordo o della rinnovazione dell'accordo col quale ha prodotto un rafforzamento della mafia";

-che il patto - diversamente da quanto ritenuto dalla difesa - non era il fatto consumativo di un reato istantaneo, "ma un evento dotato di rilevanza causale per la vitalità del sodalizio " per cui i suoi effetti antigiuridici hanno conservato efficacia permanente individuabile nei pagamenti che i giudici di merito avevano ritenuto procrastinati, secondo quanto riferito da Ferrante, "fino a tutto il 1992;

che, dunque il giudice del rinvio aveva il compito di "nuovamente esaminare e motivare, con percorso argomentativo diverso da quello contenuto nella parte di motivazione censurata, se il concorso esterno contestato è oggettivamente e soggettivamente configurabile a carico del ricorrente anche nel periodo di assenza dell'imputato dall'area imprenditoriale Fininvest e società collegate (periodo intercorso, secondo la sentenza impugnata, tra il 1978 ed il 1982); se il reato contestato è configurabile, sotto il profilo soggettivo, anche nel periodo successivo a quello indicato" e di pronunciarsi eventualmente a seconda della decisione adottata, sulla prescrizione del delitto - che non è oggetto di rinvio sull'an - ai sensi dell'art. 129, I comma c.p. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

E il ricorso della procura generale è giudicato “inammissibile”. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 03 novembre 2023

Il Procuratore Generale ha impugnato la sentenza della Corte d'Appello sia in ordine all'intervenuta assoluzione per le condotte successive al 1992 sia con riguardo a cinque ordinanze con le quali venivano decise questioni istruttorie

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Il Procuratore Generale ha impugnato la sentenza della Corte d'Appello sia in ordine all'intervenuta assoluzione per le condotte successive al 1992 sia con riguardo a cinque ordinanze con le quali venivano decise questioni istruttorie.

La Corte di Cassazione ha ritenuto inammissibile la prima censura del P.G. con la quale aveva preteso di sollecitare una diversa valutazione del risultato di prova in ordine alla data fino alla quale si erano protratti i pagamenti; hanno sottolineato i giudici di legittimità che la Corte d'Appello aveva considerato, in particolare, che le dichiarazioni di Galliano, riguardanti la protrazione di pagamenti a "cosa nostra" fino al 1995, erano rimaste prive di riscontri obiettivi.

I giudici di legittimità hanno poi ritenuto manifestamente infondata la seconda censura con la quale il P.G. ricorrente aveva censurato la valutazione della Corte d'appello che, secondo l'assunto dell'accusa, aveva trascurato di considerare il movente politico degli attentati ai magazzini Standa di Catania, movente che era stato affermato nelle sentenze rese dai giudici di Catania che avevano giudicato quei fatti. Secondo i giudici di legittimità la Corte d'Appello aveva svolto un ragionamento diverso e non esposto a censure ed aveva dato atto della tesi sostenuta dall'accusa in ordine al movente politico degli attentati del 1990 ai magazzini Standa compiuto dal Santapaola ( così come aveva riferito il collaborante Siino) ed aveva anche considerato la volontà di "cosa nostra" palermitana a partire dagli '80 di avvicinare l'onorevole Bettino Craxi. Gli stessi giudici di merito avevano tuttavia ritenuto che detta volontà era stata estremamente imprecisa atteso che - secondo quanto riferito da Siino - Brusca nel 1991 aveva incitato il boss mafioso Santapaola ad effettuare azioni intimidatorie contro Berlusconi e che Riina, tra il 1992 ed il 1993, aveva iniziato ad attuare una politica stragista: "segno di assenza di contatti politici" .

Secondo la Suprema Corte la motivazione adottata dai giudici di merito era stata del tutto logica. Del resto - hanno osservato i giudici di legittimità - anche ove si fossero accertate le finalità politiche perseguite dai mafiosi attraverso gli attentati in questione, ciò non avrebbe escluso la necessità di individuare un ruolo del Dell'Utri nella composizione della vicenda relativa agli attentati alla Standa di Catania, ruolo che la Corte di appello aveva escluso sulla base di quanto era emerso nel processo catanese in cui non era stato provato né il pagamento di pizzo, né l'esistenza di trattative avviate nell'interesse della parte offesa. In relazione poi alla testimonianza di Garraffa Vincenzo, l'inattendibilità della stessa è stata reputata dai giudici di legittimità del tutto plausibile e completa, atteso che la Corte d'appello aveva evidenziato come le notizie sui movimenti di Dell 'Utri in merito agli attentati non potevano essere appresi da Garraffa da terzi che erano stati menzionati nella sentenza in quanto li aveva conosciuti m un periodo successivo ai suddetti movimenti.

È stata poi ritenuta del tutto fattuale e non rispettosa dei criteri contenuti nella sentenza Mannino in tema di valutazione indiziaria, la considerazione del P.G. in ordine al riconoscimento della validità delle asserite intromissioni di Alberto Dell'Utri nella vicenda degli attentati alla Standa. Anche il terzo motivo di ricorso è stato giudicato inammissibile. I P.G. aveva definito un esempio di parcellizzazione della valutazione della prova, il criterio che aveva adottato la Corte d'Appello nella ricerca, e successiva esclusione, del patto politico mafioso del 1993- 1994, sulla base delle negazione della valenza probatoria di circostanze ed incontri avvenuti nel 1994 che la Corte d'Appello aveva ritenuto ininfluenti rispetto ad un patto che doveva avere avuto ad oggetto le consultazioni elettorali del marzo 1994. Il P.G. aveva rilevato che detto patto non doveva essere inteso in senso notarile, ma avrebbe comportato "sollecitazioni ed incontri" tra la mafia e Dell'Utri anche successivi alle elezioni per ottenere i risultati legislativi sperati a seguito di un clima politico favorevole che si era formato.

La Corte di Cassazione ha ritenuto detta doglianza inammissibile m quanto non specifica sulle ragioni di fatto che avrebbero dovuto sostenerla ed ha rilevato che la prova non poteva fermarsi all'accertamento dell'insorgere di "favorevoli contingenze determinate dal futuro assetto politico complessivo, non precisabili al momento della promessa e volte a sollecitare l'attuazione della consuete provvidenze legislative da cosa nostra ".

Manifestamente infondato è stato poi ritenuto il quarto motivo di ricorso con il quale il P.G. aveva messo in rilievo come il giudice di primo grado non aveva considerato che Cannella, a causa delle pressione che su di esso aveva esercitato Cesare Lupo, aveva riferito meno di quello che sapeva sul coinvolgimento di Dell 'Utri nel tentare di inserire esponenti di Sicilia Libera, partito " nato per volontà della mafia", all'interno delle liste di Forza Italia. I giudici di merito - a parere della Suprema Corte - avevano dato una motivazione del tutto plausibile: avevano in particolare rilevato che in ogni caso le dichiarazioni del Cannella non erano idonee a provare il coinvolgimento dell'imputato nelle attività politiche relative al periodo 1993-1994.

Le dichiarazioni rese dal Calvaruso in ordine al coinvolgimento di Mangano nel sostenere le iniziative di Cannella, per la nascita del nuovo movimento politico favorevole alla mafia, non avevano assunto alcun rilievo atteso che il collaborante aveva collocato la sospensione della decisione di uccidere il Mangano nel 1994 , data successiva all'espletamento delle elezioni del marzo del 1994.

Inammissibile, per manifesta infondatezza è stato ritenuto il quinto motivo di ricorso con il quale il P.G. aveva criticato la valutazione delle dichiarazioni rese da Cucuzza effettuata dalla Corte d'Appello che aveva escluso che potessero considerarsi riscontro esterno a quanto aveva riferito Galliano, sull'incontro avvenuto tra Dell 'Utri e Mangano, finalizzato ad ottenere promesse favorevoli in esecuzione del presunto patto politico stipulato ed avvenuto (secondo il Cucuzza) nella seconda metà del 1994; la Corte d'Appello aveva invece ritenuto che la data dell'incontro non era stata riscontrata da alcun elemento oggettivo.

Il P .G. ricorrente aveva preteso che i giudici di legittimità accreditassero delle congetture sul motivo per il quale si erano verificate le discrasie tra le dichiarazioni di Cucuzza e quelle di Galliano sulla data dell'incontro, senza indicare " il tema specifico al quale queste dichiarazioni afferirebbero " e rimettendo alla Corte di Cassazione, sui punti critici della sentenza impugnata, un'alternativa ricostruzione della vicenda. Veniva ritenuto inammissibile, per manifesta infondatezza, il sesto motivo di ricorso per Cassazione, con il quale il P.G. aveva censurato la valutazione della Corte d'Appello in ordine alle annotazioni, fatte sull'agenda della segretaria di Dell'Utri, che non potevano costituire prova degli incontri tra Dell 'Utri e Mangano.

Il P.G. ricorrente, con un ragionamento reputato dai giudici di legittimità "congetturale ed indimostrabile", aveva ritenuto che almeno un incontro poteva essere effettivamente avvenuto nel novembre del 1993 tra l'imputato ed il Mangano "non essendo stato provato il contrario".

[…] La Corte di Cassazione ha ritenuto inammissibile, reputando il ragionamento seguito dalla Corte d'Appello ''plausibile e rispondente ai criteri della logica e della razionalità", il settimo motivo di ricorso relativo al ragionamento seguito dai giudici di merito nella parte in cui non aveva ritenuto che fossero stati provati i rapporti tra Dell 'Utri ed i fratelli Graviano (arrestati nel 1994 insieme ai loro favoreggiatori Giuseppe D'Agostino e Salvatore Spataro ), rapporti utili al fine di provare il legame di natura politica tra il Dell 'Utri e la mafia riferibile al 1994.

Veniva rilevato dal P.G. che i giudici di merito dovevano sospettare che D'Agostino (le cui dichiarazioni, secondo lo stesso procuratore, erano entrate nel dibattimento in quanto oggetto di contestazione effettuatao nell'interrogatorio di Dell'Utri), non avesse detto la verità in dibattimento, considerato che, per ben due volte nel 1996, aveva riferito al p.m. di avere chiesto ai Graviano di dargli una mano per inserire il figlio nella società calcistica Milan Calcio. La menzogna poteva essere legata al fatto che - subito dopo l'arresto dei Graviano - si aveva interesse ad escludere ogni rapporto tra i boss mafiosi e Dell 'Utri. Era stato anche censurato dal P.G. il fatto che le dichiarazioni di Spataro erano state ritenute non attendibili e che il provino del figlio di D'Agostino di cui avevano parlato i tecnici del Milan era stato collocato nel 1992 e non nel 1994.

La Cassazione ha a tal proposito rilevato che:

- non era stato rispettato il principio dell'autosufficienza del ricorso che imponeva di allegare la copia integrale o la trascrizione integrale del contenuto dell'atto ( l'interrogatorio di D'Agostino: n.d.r.);

-le dichiarazioni rese dal D'Agostino nel corso delle indagini preliminari erano state valutate corrispondenti a quelle rese m dibattimento dallo stesso D'Agostino, negative di interessamenti di Graviano presso Dell 'Utri e la società Milan Calcio in favore del figlio;

- il tema in questione sarebbe stato utile per dimostrare non già accordi di rilievo penale, ma relazioni di contiguità e frequentazione tra l'imputato e soggetti gravitanti in ambienti mafiosi ed in quanto tali non idonee ad integrare l'ipotesi delittuosa in contestazione;

- non era stato neppure indicato come "l'ipotetico favore fatto da Dell'Utri a Graviano nel gennaio del 1994 relativamente alla questione d'interesse calcistico potesse costituire elemento di riscontro individualizzante dell'accusa principale, rappresentata dalla realizzazione di un patto politico che avrebbe dovuto riguardare le elezioni del marzo del 1994 con soggetti mafiosi neppure coincidenti con quelli menzionati".

E' stata poi ritenuta manifestamente infondata ( ai limiti della "soglia assolutamente prossima all'inammissibilità " e peraltro infondata nel merito), la censura con la quale il P.G. si era lamentato della negativa valutazione fatta dalla Corte in ordine all'attendibilità intrinseca del collaborante Spatuzza Gaspare. Detta censura - ha ritenuto la Corte di Cassazione - aveva proposto un accertamento sul fatto che si sottraeva al sindacato demandato ai giudici di legittimità. Questi ultimi hanno ritenuto che la Corte d'Appello aveva fondato il proprio giudizio sull'attendibilità del collaborante appena citato su di un "ragionamento logico e completo" ritenendo che Spatuzza, prima di parlare dell'incontro che aveva avuto con Graviano presso il bar Doney ( nel corso del quale quest'ultimo gli aveva rivelato che avevano ottenuto ciò che volevano dal mondo politico grazie a persone come Berlusconi e Dell 'Utri), aveva lasciato trascorrere troppo tempo. Il collegamento, poi, tra detto incontro e quello precedente avvenuto tra gli stessi soggetti a Campofelice di Roccella nel 1993, nel corso del quale Spatuzza era stato convocato dal Graviano per progettate un nuovo attentato per " smuovere" i politici di Roma, era stato frutto di personale convincimento operato dallo stesso collaborante.

[…] E' stata giudicata inoltre inammissibile la doglianza con la quale il P.G. aveva chiesto alla Corte di Cassazione di interpretare le intercettazioni secondo il significato che era stato loro attribuito dal Tribunale e non già dalla Corte d'appello, interpretazione che costituiva un giudizio di fatto devoluto al giudice di merito, non sindacabile da parte della Cassazione ove la ricostruzione fosse stata frutto di un'operazione logica e completa da parte del giudice di merito.

La Corte d'appello - nel caso in esame - aveva messo in rilievo non solo la distanza di tempo (cinque anni) intercorsa tra le conversazioni ed il patto politico mafioso che dette conversazioni avrebbero dovuto dimostrare ed il fatto che Dell'Utri era stato eletto in un collegio del Nord e non già nel collegio Sicilia-Sardegna; ma anche che la conversazione intercettata nel 1999, da cui si era desunto l'impegno elettorale di "cosa nostra" in favore di Dell 'Utri, non aveva provato l'esistenza di un patto a monte e la sua natura sinallagmatica.

La Corte di Cassazione ha messo in rilievo che il motivo di ricorso proposto dal P .G. non aveva sostanzialmente aggredito i passaggi della sentenza impugnata ove i giudici di merito avevano spiegato le ragioni per le quali non sussistevano le ragioni per configurare - dopo il 1992 - la condotta di concorso esterno in associazione mafiosa a carico di Dell'Utri; quest'ultimo - anche ove avesse eventualmente accettato l'appoggio elettorale di " cosa nostra" - non aveva posto in essere alcun comportamento " capace di determinare, anche istantaneamente, un concreto effettivo rafforzamento del sodalizio mafioso di riferimento misurabile ex post in termini apprezzabili e non rapportabili semplicemente alla causalità psichica".

Inammissibile è stata reputata la decima doglianza con la quale il P.G. aveva contestato il ragionamento della Corte d'Appello nella parte in cui aveva ritenuto che le dichiarazioni di Mangano, rese alla fine 1993 o nel 1994 sugli incontri politici che aveva avuto con Dell 'Utri erano state frutto di millanterie. La Corte d'Appello aveva poggiato detta convinzione sul fatto - desunto da prove testimoniali - che Mangano era considerato all'interno di cosa nostra un chiacchierone. I giudici di merito avevano ritenuto che con la condotta millantatrice, Mangano aveva cercato di accreditarsi presso i boss Bagarella e Brusca come utile collegamento con Dell'Utri in modo da sfuggire alla condanna a morte decisa dallo stesso Bagarella.

Neppure - a parere della Corte di Cassazione - poteva reputarsi capace di inficiare il ragionamento della Corte d'Appello il fatto, dedotto dal P.G, secondo cui Mangano era presente ad una cena ad Arcore la notte di Sant'ambrogio del I 974 essendo "tali fatti già ritenuti provati a capaci di dimostrare l'esistenza di un concorso esterno riferibile in epoca antecedente al 1992, sulla base di una condotta del Del/' Utri diversa da quella del patto politico-mafioso ".

[…] Veniva dichiarata altresì inammissibile la undicesima censura che costituiva la riproposizione dei motivi di gravame già sottoposti alla Corte d'Appello e che detto giudice aveva respinto sostenendo in diversi passaggi della sentenza - invero non aggrediti specificamente, secondo i giudici di legittimità, con il ricorso del P.G. - che non sussistessero gli estremi per la configurazione del concorso esterno nella condotta ascritta all'imputato nel periodo successivo al 1992. Il P.G. aveva censurato l'operato del giudice di secondo grado nella parte in cui, disattendendo i principi affermati nella sentenza delle Sezioni Unite della Corte del 2005, aveva ritenuto che non sussistessero le prove per poter configurare il patto politico mafioso patto, patto che invece nel caso in esame poteva desumersi :

-dai rapporti tra Dell'Utri e gli" emergenti" fratelli Graviano;

-dai plurimi rapporti esistenti tra Mangano e Dell 'Utri anche prima dell'epoca indicata (1994) dal Cucuzza, rapporti di cui vi era traccia nelle annotazioni dell'agenda del 1993, epoca in cui il D'Agostino aveva ricevuto dal Graviano la promessa di ottenere tramite amicizie milanesi l'inserimento del figlio nella formazione giovanile del Milan;

- dal summit di mafia, tenutosi alla fine 1993, di cui aveva parlato Spatuzza, nel corso del quale Graviano - all'epoca latitante - aveva annunciato allo stesso Spatuzza "una cosa politica" dalla quale tutti avrebbero tratto vantaggi;

-dall'incontro avvenuto nel gennaio del 1994 tra Graviano e Spatuzza al bar Doney nel corso del quale il primo aveva comunicato al secondo di avere ottenuto quello che il gruppo voleva, grazie alla serietà di Berlusconi e di Dell'Utri;

- dal fatto riferito da La Marca secondo cui Mangano, che era andato da Dell 'Utri alla vigilia delle elezioni del 1994, era tornato invitando il collaborante a votare Forza Italia, perché gli avevano "qualche possibilità per il 41 bis";

-dai due incontri che il Mangano aveva avuto con Dell 'Utri a Como dopo le elezioni dei 1994, così come aveva riferito il collaborante Cucuzza, all'esito dei quali vi era stata la promessa della emanazione di provvedimenti legislativi favorevoli in materia di regime carcerario (" 41 bis") ed di misure cautelari per il delitto di associazione mafiosa;

-dalle dichiarazioni del collaborante Giusto Di Natale che aveva riferito di avere visto Giuseppe Guastella, reggente di Resuttana, tornare euforico da un incontro con Mangano, che aveva dato buone speranze, dopo avere parlato con Dell'Utri, di "cose politiche".

[…] Secondo la Corte di legittimità la sentenza impugnata, passando in rassegna le dichiarazioni dei collaboranti aveva ritenuto che esse non contenessero elementi da cui desumere un impegno preciso in tema di interventi legislativi che Dell'Utri aveva preso net confronti del Mangano. […].

SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO BIS

Il nuovo appello, sotto esame la “condotta” di Dell’Utri sino al 1992. CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 04 novembre 2023

La Corte di Appello di Palermo aveva confermato l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa solo per la parte relativa all'opera di mediazione svolta da Dell'Utri in favore di Silvio Berlusconi e della consorteria mafiosa, assicurando al primo un'ampia protezione personale ed anche imprenditoriale ed alla seconda cospicui guadagni costituiti dal pagamento di somme di denaro versate dall'imprenditore, fino al 1992

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La sentenza di annullamento con rinvio pronunciata dalla Corte di Cassazione il 9 marzo 2012 segna il percorso logico - giuridico che questa Corte, quale giudice del rinvio, dovrà seguire nell'esaminare la condotta di Marcello Dell'Utri al fine di verificare se essa, nell'arco temporale compreso tra il 1978 ed il 1992 - nei termini che saranno di seguito specificati - possa essere ricompresa nell'unico reato di natura permanente di concorso esterno in associazione mafiosa.

Deve essere brevemente rammentato che il Tribunale di Palermo con la sentenza dell' 11 dicembre 2004 aveva ritenuto la condotta di Marcello Dell 'Utri penalmente rilevante per le ipotesi originariamente formulate nei suoi confronti in due distinti capi d'imputazione, concorso esterno in associazione (reato commesso in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo della associazione per delinquere denominata Cosa Nostra), Milano ed altre località, da epoca imprecisata sino al 28.9.1982 ( capo a) e concorso esterno in associazione mafiosa (reato commesso in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo dell'associazione per delinquere denominata Cosa Nostra), Milano ed altre località, dal 28.9.1982 ad oggi (capo b).

In particolare, erano stati individuati due snodi investigativi che avevano entrambi condotto all'affermazione della responsabilità dell'imputato. Il primo aveva riguardato i rapporti di Dell'Utri con i boss mafiosi Stefano Bontade e Girolamo Teresi e la funzione di mediatore che Dell'Utri, ricorrendo all'amico Gaetano Cinà (condannato dal Tribunale alla pena di anni sette di reclusione per i delitti di cui agli artt. 416 e 416 bis c.p.) ed alle sue autorevoli conoscenze e parentele, aveva svolto tra" cosa nostra" e Silvio Berlusconi, anche dopo la morte di Bontade e Teresi.

Era stato ritenuto dal giudice di primo grado che Dell 'Utri, in tal modo, aveva apportato un consapevole e rilevante contributo al rafforzamento del sodalizio criminoso al quale aveva procurato una cospicua fonte di guadagno illecito rappresentata dai soldi provenienti dall'estorsione posta in essere nei confronti dell'imprenditore milanese Silvio Berlusconi, il quale in cambio aveva ricevuto un'ampia protezione dall'associazione mafiosa.

Il secondo tema di indagine e di responsabilità aveva riguardato la condotta, posta in essere da Dell'Utri nel periodo successivo al 1992, che si era tradotta nella promessa fatta da quest'ultimo all'associazione mafiosa, di futuri benefici anche legislativi in tema di giustizia, m cambio di un appoggio elettorale.

La Corte di Appello di Palermo, pervenendo ad una soluzione parzialmente confermativa di quella del Tribunale, aveva confermato l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa solo per la parte relativa all'opera di mediazione svolta da Dell 'Utri in favore di Silvio Berlusconi e della consorteria mafiosa, assicurando al primo un'ampia protezione personale ed anche imprenditoriale ed alla seconda cospicui guadagni costituiti dal pagamento di somme di denaro versate dall'imprenditore, fino al 1992.

Non aveva ritenuto invece che sussistessero elementi probatori capaci di convalidare la tesi dell'accusa con riguardo al secondo tema d'indagine dello scambio politico - mafioso che Dell'Utri avrebbe asseritamente concluso nel 1994 con "cosa nostra" ritenendo che non erano rinvenibili a carico dell'imputato prove inequivoche e certe di concreti e consapevoli contributi a lui riconducibili aventi rilevanza causale in ordine al rafforzamento dell'organizzazione mafiosa. CORTE D'APPELLO BIS

Sospetti, soldi sporchi ma collaboratori di giustizia poco attendibili. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 05 novembre 2023

La deposizione testimoniale del collaboratore di giustizia Gaetano Grado richiesta dalla Procura Generale non ha determinato l'ampliamento della condotta delittuosa attribuita a Dell'Utri, al quale tendeva il Procuratore Generale

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Deve rilevarsi preliminarmente che la rinnovazione dibattimentale disposta dal Collegio con l'ordinanza del 17 ottobre 2012, ammissiva della deposizione testimoniale del collaboratore di giustizia Gaetano Grado richiesta dalla Procura Generale (ordinanza alla quale si rinvia e che fa parte integrante della presente decisione), non ha determinato l'ampliamento della condotta delittuosa attribuita a Dell'Utri, al quale tendeva il Procuratore Generale.

Il Collegio, infatti, ha ritenuto che le dichiarazioni rese da Grado non consentono di esprimere un giudizio di attendibilità intrinseca del collaborante, con ciò restando preclusa ogni valutazione delle dichiarazioni rese anche da Bruno Rossi, l'altro collaboratore di giustizia (pure ammesso con la stessa ordinanza), che avrebbero dovuto fornire un riscontro esterno alle propalazioni del primo.[…].

Deve essere precisato che il tema di approfondimento prospettato dal P.G, con la richiesta di esame del collaboratore Grado, tema relativo agli investimenti di "cosa nostra" nella realizzazione di "Milano 1" e di "Milano 2" che sarebbero stati effettuati da Dell'Utri con denaro che lo stesso avrebbe ricevuto da "cosa nostra" nel periodo successivo alla morte di Stefano Bontade e di Girolamo Teresi e, dunque durante l'epoca del predominio dei corleonesi e di Totò Riina, non si era tradotto - diversamente da quanto sostenuto dalla difesa - nella formulazione di " un accusa nuova (..) o in fatto diverso rispetto a quello contestato ".

Il riciclaggio del denaro di "cosa nostra" in attività imprenditoriali milanesi rientranti nel gruppo Berlusconi che, secondo l'ipotesi accusatoria, sarebbe stato effettuato da Dell'Utri al quale detto denaro veniva consegnato a Milano da "spalloni" siciliani, occultato all'interno delle autovetture con le quali costoro partivano dalla Sicilia, avrebbe avuto un preciso valore probatorio sotto rilevanti profili, già, peraltro sinteticamente esposti nell'ordinanza del 17 ottobre 2012 con la quale, ritenendone "la decisività al fine della valutazione della condotta contestata", questa Corte aveva ammesso l'esame testimoniale di Grado e di Rossi.

L'investimento di ingenti somme di denaro da parte di "cosa nostra" in attività imprenditoriali del gruppo Berlusconi da parte di Dell 'Utri sarebbe rientrato - ove provato - a pieno titolo nel contributo atipico del concorrente esterno così come indicato nel capo d'imputazione, contrariamente a quanto dedotto dalla difesa dell'imputato. Ed infatti, a Dell'Utri è stato contestato di aver messo a disposizione di "cosa nostra" le proprie conoscenze acquisite presso il sistema economico siciliano ed italiano nonché "l'influenza ed il potere derivanti dalla sua posizione di esponente del mondo finanziario ed imprenditoriale"; val la pena di sottolineare che i soggetti appartenenti all'associazione mafiosa indicati nel capo d'imputazione insieme a Dell'Utri (Stefano Bontade e Mimmo Teresi e poi Salvatore Riina) sono proprio gli esponenti mafiosi che Grado aveva evocato nelle sue dichiarazioni. Non può non essere sottolineato che il tema degli investimenti di Dell'Utri di denaro di "cosa nostra", proveniente dalla Sicilia e trasportato in contante a Milano da esponenti mafiosi, era già emerso nel corso delle indagini che hanno condotto al presente procedimento, sulla base delle dichiarazioni rese dall'imprenditore Filippo Alberto Rapisarda, presso il quale Dell'Utri era andato a lavorare nel 1978 allontanandosi per un certo periodo dal gruppo imprenditoriale facente capo a Berlusconi.

Il Tribunale, allorquando si era soffermato sulle dichiarazioni di Rapisarda, con motivazioni che questo Collegio ritiene del tutto condivisibili, dopo avere sottolineato che l'imprenditore non poteva essere considerato "un teste totalmente affidabile", aveva tuttavia precisato che le sue dichiarazioni, sfuggivano al giudizio di inattendibilità solo allorchè avevano trovato conferme esterne.

Orbene Rapisarda ha dichiarato nel corso dell'istruzione dibattimentale che, alla fine del 1978, primi del 1979, era passato dall'ufficio di Dell'Utri della Bresciano di Via Chiaravalle ed aveva notato l'imputato insieme a Bontade e Teresi; questi ultimi stavano ''facendo delle sacche" ed avevano soldi in contanti sul tavolo.

I soldi dovevano essere consegnati a Berlusconi con il quale Dell 'Utri stava parlando a telefono e, dal tenore della conversazione, Rapisarda aveva capito che l'imprenditore milanese si stava lamentando con Dell'Utri per non avere ancora ricevuto i soldi. Rapisarda non aveva saputo dire quanto fosse il loro ammontare, ma all'incirca riteneva che si fosse trattato di dieci miliardi di lire.

“Rapisarda: I soldi, i soldi .... ho visto i soldi. Nel 1979 ... '78/'79 io mi recai dal notaio Sessa in via Lanza 3, vicino a Piazza Castello, uscendo di là dentro... uscendo di là dentro a Piazza Castello incontrai Stefano e Mimmo Teresi, i quali mi dissero: «Pigliamoci un caffè .... » e compagnia bella. Parlando parlando mi dissero che avevano appuntamento con Dell' Utri e che dovevano fare delle operazioni, mi dissero che li aveva chiamati per le televisioni e compagnia bella .... tanto che io rimasi, perchè le televisioni li avevo fatto pure io, quindi ... Comunque io ero già nel periodo in cui avevo un mandato di cattura addosso, lo sapevo benissimo, stavo cercando di mettere a posto alcune cose per andarmene"; P .M. : Quindi è poco prima della sua fuga? "; Rapisarda:" Si, poco prima della mia... gennaio '79. L 'incontro fu alla fine di dicembre, non credo che era già gennaio '79. Dopo un po' di giorni, ricordo che una sera andai nell'ufficio di Dell'Utri e trovai Stefano Bontade e Mimmo Teresi che avevano... stavano facendo delle sacche, avevano dei soldi sul tavolo .. "; P.M. : " Quindi avevano soldi in contanti"; Rapisarda:" Si. E lui era al telefono, come Marcello Dell'Utri mi ha detto, con Silvio Berlusconi, il quale diceva ... anzi si era lamentato perchè doveva andare ... quella sera doveva portare i soldi subito "; P .M. : "Questo perchè non lo ha detto precedentemente? Perchè non mi risulta che lei ne abbia parlato"; Rapisarda : "E non l'ho detto perchè sa ... "; P.M.: "Cioè, il fatto dei dieci miliardi lo aveva già riferito, ma questa circostanza non era stata riferita"; Rapisarda: "E questa circostanza ... si era lamentato anzi che era tardi e doveva portare ... dovevano portare questi soldi da cosa ad Arcore""; Presidente:"Mi scusi, si era lamentato chi, signor Rapisarda? "; Rapisarda : " Lui, il dottor Dell'Utri"; P.M.:"Allora, ritorniamo indietro perchè ci sono delle cose di cui lei non ha mai parlato e quindi è il caso che ne parli approfonditamente, anzi la invito se ha delle altre dichiarazioni da fare, parli tutto oggi e non farne altre in altre occasioni. E allora voglio sapere: l'incontro con Teresi e Bontade si colloca sempre in questa .. "; Rapisarda· "In questa ottica, dopo questa prima cosa sono rimasti .. "; P .M.:" Quindi siamo nel gennaio del 1979? "; Rapisarda: "Si, '79 ": P.M.:" Lo stesso giorno lei vede questi sacchi di .... "; Rapisarda: "No, credo che siano passati.... io stavo per... credo che è stato alcuni giorni dopo, io penso che sono andato via dopo tre/quattro giorni da questo fatto, sono andato via dall'Italia. Quindi lei faccia il conto, io sono andato via il 16 febbraio del '79 alle ore 21. 00 e questo fatto deve essere stato otto giorni prima ... sette giorni prima. E io ero lì, sapevo che avevo questo disastro addosso e stavo cercando di ... (... )"

Rapisarda ha ancora parlato di investimenti di denaro da parte di "cosa nostra" in attività imprenditoriali di Berlusconi ed in particolare nelle attività di Canale 5 , nel frammento delle dichiarazioni relative all'incontro, avvenuto nei primi mesi del 1980 a Parigi presso l'Hotel George V , tra lui e Dell 'Utri che aveva dato appuntamento a Bontade e Teresi.

L'imputato, in quell'occasione, aveva chiesto ai due boss mafiosi la somma di 20 miliardi di lire " ...perché Canale 5 aveva bisogno di soldi". Rapisarda ha precisato, in maniera dettagliata, che "la proposta venne fatta per l'acquisto dei film e per sviluppare le televisioni".

I due boss mafiosi gli avevano risposto che avrebbero valutato la richiesta e che, secondo lui, Bondate e Teresi erano già "dentro con i soldi", avendo visto con i suoi occhi tempo prima la consegna del denaro alla Bresciano, alla quale si è già fatto cenno. L'argomento degli investimenti da parte di "cosa nostra" in attività imprenditoriali riconducibili a Berlusconi con l'intervento di Dell'Utri non sarebbe stato di poco rilievo, in quanto avrebbe fornito un'ulteriore conferma del ruolo assunto da quest'ultimo nei confronti della consorteria mafiosa e anche dell'amico Berlusconi e la sua consapevolezza di agire rafforzando il potere economico di "cosa nostra" tutelando gli interessi del gruppo imprenditoriale dal quale non si era mai distaccato, neppure quando era andato a lavorare da Rapisarda.

Se dette dichiarazioni avessero ricevuto una conferma esterna nelle propalazioni di Gaetano Grado, il loro peso probatorio avrebbe sicuramente inciso sulla valutazione della condotta dell'imputato: è questo il motivo per il quale questo Collegio ha ritenuto rilevante l'esame testimoniale di Grado (e di Rossi) richiesto dalla Procura Generale. Tuttavia così non è stato in quanto il giudizio di inattendibilità intrinseca del collaborante ha escluso ogni valutazione della circostanziata deposizione resa da quest'ultimo e i fatti da lui enunciati non possono considerarsi idonei a superare neppure la soglia di mero indizio.

SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Gaetano Grado e gli incontri milanesi degli Anni Settanta. SENTENZA D'APPELLO BIS su Il Domani il 06 novembre 2023

I fatti narrati avrebbero costituito, con tutta evidenza, una conferma alle attività di investimento di cui aveva parlato Rapidarda. Tuttavia, allorché il collaborante si è soffermato sul tema dei traffici di stupefacenti, le dichiarazioni hanno assunto un tale grado di mendacio che, senza alcuna esitazione, non può che formularsi su di lui un giudizio di inattendibilità soggettiva

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

In ordine a Grado non può essere trascurato che con sentenza definitiva (acquisita agli atti del presente giudizio all'udienza del 30 ottobre 2012) relativa alla strage di Viale Lazio, il G.U.P. del Tribunale di Palermo del 12 dicembre 2008 aveva espresso un giudizio positivo sull'attendibilità intrinseca ed estrinseca del collaborante, concedendogli l'attenuante della collaborazione di cui all'art. 8 D.L. 13.5.1991, n. 152.

Nel corso della sua deposizione testimoniale (v. trascrizione dell'udienza del 30 ottobre 2012) resa nel presente giudizio di rinvio, Grado - dopo avere riferito fatti che erano caduti sotto la sua diretta percezione o che aveva appreso da altri esponenti mafiosi ed avere spiegato le ragioni della propria collaborazione e cioè che non credeva più in "cosa nostra" che aveva coinvolto nelle " stragi'' " donne, bambini", escludendo che dette ragioni fossero state dettate da motivi di convenienza personale ( stava invero per concludere il periodo di detenzione in carcere), ha affermato, con una particolare enfasi, alcune circostanze che ne . hanno irrimediabilmente annullato l’attendibilità soggettiva.

Richiamando, seppur brevemente le dichiarazioni, va ricordato che il collaboratore - fratello di Antonino Grado, uomo d'onore della famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù a capo della quale vi era Stefano Bontade e che aveva guidato l'auto con la quale Di Carlo, Teresi, Cinà e lo stesso Bontade si erano recati all'appuntamento a Milano nel 1974 con Dell'Utri e Berlusconi - ha dichiarato che nel 1969 era entrato ritualmente a fare parte della suddetta famiglia; aveva iniziato il suo percorso di collaborazione da dieci anni e si era accusato di delitti per i quali non era neppure indagato; aveva partecipato inoltre alla strage di Viale Lazio avvenuta il 1 O dicembre 1969 con Bernardo Provenzano, Calogero Bagarella, Emanuele D'Agostino e Damiano Caruso; si era reso responsabile degli omicidi di "tanti rappresentanti" della famiglia mafiosa dei corleonesi nell'ambito della guerra di mafia iniziata dopo la morte di Stefano Bontade, avvenuta il 23 aprile 1982.

Ha precisato che la rottura con i corleonesi era avvenuta dopo " la scarcerazione del processo dei 114" e che era stato lui a dire a Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti di eliminare Salvatore Riina " perché spadroneggiava". Ha poi evidenziato che il fratello Antonino, scomparso "a lupara bianca" e che viveva a Milano, era uno dei più grandi "trafficanti di eroina"; il "boom" del commercio di detta sostanza era stato nel 1970 ed il fratello aveva continuato a trafficare fino a quando non era scomparso nel 1984.

Grado nel corso della sua deposizione ha in primo luogo dimostrato di conoscere fatti rientranti a pieno titolo nelle vicende oggetto del presente procedimento (l'assunzione di Vittorio Mangano ad Arcore, il coinvolgimento di Gaetano Cinà in detta vicenda ed il ruolo di quest'ultimo che, pur non essendo intraneo a "cosa nostra", sapeva più di quanto potesse sapere un uomo d'onore e che aveva saputo che era stato inserito nella famiglia mafiosa di Resuttana, solo dopo la guerra di mafia) e anche gli interessi economici di Bontade, Teresi e dello stesso fratello Nino Grado. Il collaborante ha in particolare ricordato che il fratello e Bontade, avevano investito nella realizzazione di "Milano l" e di "Milano 2" ( "Grado:" Ma guardi, su Milano Stefano Bontade a quanto ne sappia io, che mi diceva mio fratello e poi me lo confermava pure Stefano, era che stavano facendo Milano 1 e Milano 2 ").

Ha poi parlato del denaro da investire che veniva portato in contante dalla Sicilia a Milano da Vittorio Mangano o da un "certo" Rosario D'Agostino in auto o anche in altri modi e che gli investimenti erano avvenuti fin dal 1972/1973. In relazione alla destinazione di detti soldi appare rilevante sottolineare che Grado ha riferito che i soldi, giunti a Milano, venivano consegnati a Marcello Dell 'Utri. Lo aveva saputo da Stefano Bontade, dal fratello Nino Grado e da Vittorio Mangano : il denaro veniva investito nella costruzione di "Milano 1" o di " Milano 2", ma poi non sapeva che fine facesse .(Presidente:"( ... ) suo fratello e il Mangano le dissero mai a chi portavano il denaro?; Grado:"si,si";Presidente:" Glielo dissero? E che cosa le dissero?"; Grado" Si, mi dissero che lo portavano a Marcello Dell'Utri che era il riferimento di .. il referente di Berlusconi ").

Gaetano Grado ha riferito di avere tentato di recuperare i soldi investiti dal fratello su "Milano l" e "Milano 2", di essere stato arrestato nel 1989 e di avere conosciuto nel carcere di Vasto un ragazzo napoletano di nome Rossi che sarebbe stato scarcerato di lì a poco. Al carcere aveva conosciuto anche Giacomo Cavalcante che era capo della famiglia di cui faceva parte il Rossi, una famiglia "perdente".

Poiché quest'ultimo aveva mostrato di tenerlo in considerazione, Grado gli aveva chiesto di fargli un favore: uccidere un uomo, "un certo Vittorio Mangano a Milano" ed il Rossi gli aveva detto di si. Ha parlato poi delle tangenti pagate per le antenne televisive alla famiglia di Santa Maria di Gesù, ( Grado: " Un certo Salvatore Cucuzza, che pigliava soldi dalle antenne televisive di Berlusconi e che - per una buona parte - venivano presi da Stefano Bontade "), della destinazione di dette somme dopo la morte di Bontade affermando che, secondo la regola mafiosa, era naturale che i soldi andassero ai Pullarà atteso che costoro erano reggenti. ( P.G.:" - Le risulta che dopo Stefano Bontade questi soldi finivano a Pullarà? "; GRADO:" Ma naturalmente, se era lui il reggente, certo che li pigliava Pullarà''); ha inoltre mostrato di essere a conoscenza degli attentati a Berlusconi ed in particolare di quello avvenuto ''prima dell '80" per il quale si era voluto realizzare " un messa in scena": avevano fatto esplodere una bomba "carta" di "polvere di cave" che gli aveva annerito solo il cancello.

Per quel gesto tuttavia erano riusciti a prendere - tramite Mangano - dei soldi a Berlusconi. Grado poi ha dichiarato di essere a conoscenza di un tentativo di sequestro, ad opera dei calabresi, dei figli di Berlusconi e di quello che aveva fatto Stefano Bontade per impedirlo. I fatti narrati avrebbero costituito, con tutta evidenza, una conferma alle attività di investimento di cui aveva parlato Rapidarda, essendo riferibili non solo alla fase in cui erano vivi i due boss mafiosi Teresi e Bontade, ma anche al tempo in cui il potere era andato nelle mani di Totò Riina vincitore nella guerra di mafia.

Tuttavia, allorchè il collaborante si è soffermato sul tema dei traffici di stupefacenti, le dichiarazioni hanno assunto un tale grado di mendacio che, senza alcuna esitazione, non può che formularsi su di lui un giudizio di inattendibilità soggettiva. SENTENZA D'APPELLO BIS

Cosa Nostra, Dell’Utri e “l’estorsione imposta” a Silvio Berlusconi. SENTENZA D'APPELLO BIS su Il Domani il 07 novembre 2023

Marcello Dell'Utri, in tale periodo ha prestato, con coscienza e volontà, un rilevante contributo all'associazione mafiosa "cosa nostra" consentendo ad essa di rafforzarsi economicamente grazie al pagamento del prezzo dell'estorsione imposta a Berlusconi, che non si era sottratto alla richiesta di denaro per garantirsi protezione

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È stato invero ritenuto che Marcello Dell'Utri, in tale periodo ha prestato, con coscienza e volontà, un rilevante contributo all'associazione mafiosa "cosa nostra" consentendo ad essa di rafforzarsi economicamente grazie al pagamento del prezzo dell'estorsione imposta a Berlusconi, che non si era sottratto alla richiesta di denaro per garantirsi protezione.

La Corte di Cassazione ha ritenuto che i giudici di merito avevano "adeguatamente rappresentato come la condotta dell'agente, riferita agli anni che vanno da 1974 fino alla fine del 1977" aveva costituito un "antecedente causale" alla conservazione del sodalizio criminoso che si fonda notoriamente sulla sistematica acquisizione di proventi economici che utilizza per crescere e rafforzarsi.

"E' indubbio - ha osservato la Suprema Corte - che l'accordo di protezione mafiosa propiziato da Dell'Utri, con il sinallagma dei pagamenti sistematici in favore di cosa nostra vada ad inserirsi in un rapporti di causalità, nella realizzazione dell'evento del finale rafforzamento di cosa nostra".

Reputa il Collegio, seppur considerando che questo periodo non rientra tra le condotte devolute al nuovo esame essendosi formato su di esso un giudicato, che sia necessario soffermarsi comunque sui tre fatti storici essenziali nella ricostruzione della condotta di Dell'Utri, individuabili proprio in tale periodo e ciò in quanto le considerazioni che saranno svolte costituiscono l'antecedente logico-giuridico dell'esame della condotta successiva dello stesso imputato (1978-1992), che viceversa rientra nella valutazione richiesta dai giudici di legittimità a questa Corte, quale giudice del rinvio.

Detti fatti storici definitivamente accertati sono costituiti:

a) dall'incontro avvenuto a Milano tra il 16 ed il 29 maggio 1974 tra lo stesso Dell 'Utri, Silvio Berlusconi, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi ed il collaborante Di Carlo, nel corso del quale è stato raggiunto l'accordo di reciproco interesse tra "cosa nostra", rappresentata autorevolmente dai boss mafiosi Bontade e Teresi e l'imprenditore Berlusconi, accordo che era stato realizzato proprio con la mediazione di Dell'Utri che aveva coinvolto l'amico Gaetano Cinà il quale, grazie ai saldi collegamenti con la consorteria mafiosa, aveva garantito il realizzarsi dell'incontro stesso;

b) dall'assunzione di Vittorio Mangano ad Arcore, avvenuta non già per garantire la presenza di uno stalliere o di un uomo che curasse la villa o i cani di Berlusconi, ma quale dimostrazione del presidio mafioso di protezione e controllo del ricco imprenditore che temeva per la sua sicurezza e per quella dei suoi familiari;

c) dal pagamento di somme da parte dell'imprenditore a "cosa nostra" al fine di ricevere protezione in virtù del suddetto patto. Detti fatti storici devono essere richiamati in quanto essi non hanno esaurito i loro effetti solo nel periodo storico di riferimento, già coperto da "giudicato" e come tale non più discutibile, ma hanno sicuramente permeato di profondo significato tutto il periodo di contestazione del reato successivo.

SENTENZA D'APPELLO BIS 

Quel faccia a faccia fra il Cavaliere e il capomafia Stefano Bontate. SENTENZA D'APPELLO BIS su Il Domani l'8 novembre 2023

Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo ed aveva siglato il patto di protezione di Berlusconi

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Tra il 16 ed il 29 maggio 1974 è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato ad un incontro organizzato da lui stesso e da Cinà a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano ed aveva siglato il patto di protezione di Berlusconi.

Esso dunque ha costituito la genesi del rapporto sinallagmatico che ha legato l'imprenditore Berlusconi e "cosa nostra" con la mediazione costante ed attiva dell'imputato che - come sarà esposto di seguito - non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti e che, in particolare, ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento.

Appare necessario soffermarsi sui soggetti con i quali Dell 'Utri ha concluso quell'incontro al fine non solo di chiarire da chi era rappresentata la componente soggettiva dell'accordo al quale ha partecipato Dell 'Utri, ma anche per sottolineare che i soggetti di quell'accordo saranno i suoi riferimenti mafiosi privilegiati per tutto il periodo in esame fino al 1992 (con l'esclusione solo di Bontate e Teresi vittime della guerra di mafia del 1981).

Tra questi soggetti l'unico che Dell 'Utri ha definito suo amico è Gaetano Cinà che, anche se non è stato ritualmente inserito in " cosa nostra", ha assunto costantemente ruoli talmente delicati - anche prima della sentenza di condanna inflittagli dalla sentenza del Tribunale di Palermo - da poter essere considerato di fatto fin da allora appartenente alla famiglia mafiosa di Malaspina. Se così non fosse stato, del resto, sarebbe stato del tutto inimmaginabile che Bontate e Teresi gli avrebbero consentito di partecipare all'incontro del 1974 e che Filippo Alberto Rapisarda, avrebbe provato il timore, di cui lui stesso ha parlato, di rifiutargli la raccomandazione che Cinà gli aveva fatto al fine di fargli assumere alle sue dipendenze Dell'Utri.

Lo stesso imputato, seppur negando di essere stato assunto a seguito della raccomandazione di Cinà, nel corso delle dichiarazioni spontanee, non aveva potuto negare di avere notato che Rapisarda, allorché si era presentato con Cinà, era rimasto impressionato dalla presenza di quest'ultimo.

Se Dell'Utri non avesse attribuito a Cinà una contiguità con l'ambiente mafioso, non si spiegherebbe il motivo per il quale, dopo l'attentato della notte del 29 novembre 1986, dopo avere parlato con Berlusconi e Confalonieri, lo aveva chiamato immediatamente per avere notizie.

Deve poi rilevarsi che in quell'occasione Cinà aveva dato all'amico Dell'Utri una risposta in termini chiari sulla matrice dell'atto intimidatorio ed aveva escluso così il coinvolgimento del Mangano. Appare evidente che l'imputato non si era fatto accompagnare o aveva chiamato Cinà in quanto titolare di una lavanderia o solo come suo amico dai tempi della squadra calcistica della Bacigalupo: l'imputato era sicuramente a conoscenza che Cinà intratteneva stretti rapporti con soggetti autorevoli di "cosa nostra" che potevano fare effetto su Rapisarda o che potevano consentigli di avere notizie certe sui mandanti dell'attentato.

Altro soggetto presente all'incontro era il boss mafioso Stefano Bontate, capo della famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù e che aveva fatto parte fino a poco tempo prima del "triumvirato", massimo organo di vertice di "cosa nostra" del quale facevano parte anche Gaetano Badalamenti e Luciano Liggio. Anche Girolamo Teresi era un soggetto attivo all'interno dell'associazione criminale in quanto sottocapo della famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù. Alla riunione era presente inoltre il collaboratore Francesco Di Carlo, uomo d'onore della famiglia di Altofonte, di cui ha fatto parte fin dagli anni '60 e della quale, nel 1973/74, era divenuto consigliere ed in seguito sottocapo.

Dell'Utri, partecipando all'incontro di pianificazione, ha siglato in modo definitivo un patto con " cosa nostra" che - come sarà in seguito argomentato da questo Collegio - proseguirà, senza interruzioni, fino al 1992. In virtù di tale patto i contraenti ("cosa nostra" da una parte e Silvio Berlusconi dall'altra) ed il mediatore contrattuale (Marcello Dell'Utri), legati tra di loro da rapporti personali, hanno conseguito un risultato concreto e tangibile costituito dalla garanzia della protezione personale dell'imprenditore mediante l'esborso di somme di denaro che quest'ultimo ha versato a "cosa nostra" tramite Marcello Dell 'Utri che, mediando i termini dell'accordo, ha consentito che l'associazione mafiosa rafforzasse e consolidasse il proprio potere sul territorio mediante ingresso nelle proprie casse di ingenti somme di denaro.

V'è da aggiungere che nella prima fase dell'accordo, fintantoché i protagonisti non erano mutati e cioè prima della guerra di mafia e della morte di Bontate e Teresi, Dell 'Utri, nella sua condotta di mediazione tra le parti, era entrato in diretto contatto con i boss mafiosi Bontate e Teresi incontrandoli personalmente e discutendo con loro i termini dell'accordo e anche intrattenendosi in rapporti conviviali.

Su tale circostanza e cioè sull'esistenza della prova dell'incontro del 1974 la Corte di Cassazione ha dedicato un passaggio della decisione affermando che la tesi difensiva dell'inattendibilità di Di Carlo, che di tale incontro è la principale fonte dichiarativa, era infondata e che il collaboratore Di Carlo " nel presente processo, è risultato soggetto meritevole di pieno credito; che il suo racconto in ordine alla circostanza dell'incontro di Milano fra le menzionate parti interessate abbia presentato credibilità anche oggettiva e che sia stato riscontrato obiettivamente da un pluralità di elementi. " (pag. 99).

L'acclarata esistenza di un interlocuzione diretta di Dell'Utri con gli esponenti di "cosa nostra" Bontatee Teresi all'epoca della definizione dei termini dell'accordo costituisce - per i motivi che saranno spiegati in altro paragrafo - la differenza unica e del tutto peculiare rispetto a quello che sarà il paradigma contrattuale nell'accordo che l'imputato manterrà con l'associazione mafiosa anche dopo la morte di costoro e con l'ascesa dei corleonesi e del capo Salvatore (Totò) Riina, con il quale invece non si sono mai registrati contatti diretti. L'incontro, dunque, segna l'inizio del patto che legherà Berlusconi, Dell'Utri e "cosa nostra" fino al 1992.

E' da questo incontro che l'imprenditore milanese, abbandonando qualsiasi proposito ( da cui non è parso, invero, mai sfiorato) di farsi proteggere dai rimedi istituzionali, è rientrato sotto l'ombrello di protezione mafiosa, assumendo Vittorio Mangano ad Arcore e non sottraendosi mai all'obbligo di versare ingenti somme di denaro alla mafia, quale corrispettivo della protezione. SENTENZA D'APPELLO BIS

Lo “stalliere” e i cavalli di Arcore, l’assunzione di Vittorio Mangano. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 09 novembre 2023

È stato definitivamente accertato che l'assunzione di Vittorio Mangano ad Arcore, avvenuta nell'estate del 1974, è stata decisa non tanto per la nota passione di Mangano per i cavalli, ma per garantire un presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore milanese

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È stato definitivamente accertato che l'assunzione di Vittorio Mangano ad Arcore, avvenuta nell'estate del 1974, è stata decisa non tanto per la nota passione di Mangano per i cavalli, ma per garantire un presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore milanese (pag. 100 sentenza Cass.). Detta decisione è stata presa all'esito della più volte citata riunione tenutasi a Milano tra il 16 ed il 29 maggio 1974, sulla base di un accordo "di natura protettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia tramite Dell'Utri che di quell'assunzione è stato l'artefice grazie anche all'impegno specifico profuso da Cinà" (pag 102- 105).

Orbene, reputa il Collegio, che la presenza di Mangano ad Arcore e la decisione sottesa all'assunzione costituiscono un altro dei passaggi fondamentali di quella parte della decisione che a seguito della sentenza dei giudici di legittimità è ormai divenuta definitiva e che, secondo questo Collegio ha assunto un rilievo determinante in quanto - seppur temporalmente collocato in un periodo in cui ogni valutazione di merito è definitivamente preclusa - ha permeato di significati decisivi il periodo successivo e cioè quello oggetto del giudizio di rinvio compreso tra il 1978 ed il 1992.

Vittorio Mangano, che era andato ad Arcore nel maggio/giugno 1974 dopo l'incontro di Milano esclusivamente per proteggere l'imprenditore e la propria famiglia (la Corte di Cassazione ha indicato gli argomenti per i quali era da escludersi ogni altro scopo dell'assunzione che era seguita all'incontro ed ha anche indicato le dichiarazioni di Galliano e di Cucuzza a conferma di quelle di Di Carlo), era stato assunto su indicazione di Dell 'Utri.

Quest'ultimo, seppur confermando detta circostanza (Dell'Utri: "Il Mangano venne assunto alle dipendenze del dr. Berlusconi su mia indicazione") ,ha affermato che la finalità di detta assunzione era stata quella, definitivamente esclusa dalla Corte di Cassazione, di trovare un soggetto che potesse " mandare avanti la Villa Casati".

Dell'Utri ha sempre negato che Mangano fosse un amico per lui (come invece lo era stato il Cinà) ed ha anzi affermato di esserne intimorito, tanto da sopportare i contatti con lui.

Deve essere solo accennato (la disamina dei rapporti con Mangano sarà oggetto di successiva trattazione) che il rapporto tra i due non si è mai interrotto almeno fino al 1992 ed ha subito delle forzate interruzioni per i periodi di detenzione del Mangano che già nel dicembre 1975 e cioè dopo meno di un anno dal momento in cui aveva definitivamente lasciato Arcore, veniva affiliato alla famiglia mafiosa di Porta Nuova all'epoca formalmente aggregata al mandamento di Santa Maria di Gesù, comandato da Stefano Bontate.

La continuità della frequentazione, l'avere pranzato in diverse occasioni con lui sono circostanze che hanno consentito di escludere che i rapporti svoltisi in un arco temporale che ha coperto quasi un ventennio nel corso del quale il Mangano è stato arrestato e prosciolto e poi nuovamente arrestato e poi ancora prosciolto, possano essere stati determinati da paura. Del resto, Dell 'Utri non ha mai mostrato di temere i contatti con i boss mafiosi e di concludere accordi con loro. L'incontro milanese del 1974 lo aveva posto a contatto con mafiosi del calibro del Bontate e del Teresi che erano i capi di "cosa nostra".

Né può affermarsi che Dell'Utri, fin da momento in cui Mangano era stato assunto nella Villa di Arcore, non già come stalliere o custode, ma solo per realizzare concretamente il patto di protezione stipulato tramite lo stesso Dell'Utri tra "cosa nostra" e Berlusconi, non fosse stato consapevole del fatto che Mangano era un soggetto dotato di una particolare caratura criminale. Va rammentato che nel 1975 Mangano, anche se non in maniera traumatica - come lui stesso ha affermato - era stato allontanato dalla Villa di Arcore non solo in quanto coinvolto come basista nel tentato sequestro del principe D' Angerio, ma perché era stato arrestato seppur per pochi giorni. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

I pagamenti di Silvio Berlusconi a Cosa Nostra per avere protezione. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 10 novembre 2023

È stato infine definitivamente accertato che a seguito dell'incontro del 1974 erano iniziate le richieste di pagamento da parte di "cosa nostra" a Berlusconi, quale prezzo per la protezione e corrispettivo del patto stretto tra i mafiosi (Bontade e Teresi) e l'imprenditore Berlusconi con la mediazione del concorrente esterno Dell 'Utri

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

È stato infine definitivamente accertato che a seguito dell'incontro del 1974 erano iniziate le richieste di pagamento da parte di "cosa nostra" a Berlusconi, quale prezzo per la protezione e corrispettivo del patto stretto tra i mafiosi (Bontate e Teresi) e l'imprenditore Berlusconi con la mediazione del concorrente esterno Dell'Utri. Del versamento di somme - ha evidenziato la Corte di Cassazione ( pag. 103) - hanno parlato Di Carlo, Galliano, Scrima e Cucuzza, con dichiarazioni che sono state reputate «capaci di riscontrarsi in maniera reciproca».

Appare necessario riprendere seppur in estrema sintesi, le modalità ed i passaggi dei pagamenti e ciò - solo anticipando il paragrafo che sarà dedicato ai pagamenti relativi al periodo oggetto del giudizio di rinvio ( 1979-1992) - in quanto reputa questo Collegio che dette modalità, detti passaggi e le ragioni sottese agli stessi pagamenti sono del tutto sovrapponibili a quelli realizzati nell' epoca successiva, così come del tutto coincidenti sono gli atteggiamenti di Dell 'Utri nel periodo coperto da giudicato rispetto a quelli relativi al periodo compreso tra 1978 ed il 1992.

Francesco Di Carlo (v. dich. rese all'udienza del 16 febbraio 1998) ha riferito che, proprio a seguito dell'incontro milanese, Cinà gli aveva confidato il suo imbarazzo perché dopo l'incontro gli avevano fatto chiedere a Berlusconi la somma di lire 100.000.000, somma che gli era stata consegnata. Non sapeva se oltre a quella somma ne erano state consegnate delle altre e spiegava che il denaro serviva ad avere la garanzia, non solo di non essere sequestrato, ma per tutto quello che poteva accadere ad un industriale.

Antonino Galliano, nipote di Raffaele Ganci e vicino al figlio di quest'ultimo Domenico, uomo d'onore ritualmente affiliato alla famiglia mafiosa della Noce della quale era stato anche reggente per un certo periodo, ha riferito di avere saputo da Cinà dell'incontro milanese avvenuto tra quest'ultimo, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Dell'Utri e Berlusconi e del fatto che quest'ultimo era stato rassicurato da Bontade che "per maggiore sicurezza" gli aveva mandato Mangano. Secondo Galliano, Berlusconi aveva deciso di fare un regalo a Stefano Bontade ed aveva consegnato a Cinà, due volte all'anno, presso lo studio di Dell'Utri, la somma di 50.000.000 di lire. Salvatore Cucuzza, uomo d'onore dal 1975 appartenente alla famiglia del Borgo e che dal giugno del 1994 ( dopo la sua ultima scarcerazione) aveva affiancato per un certo periodo di tempo Vittorio Mangano nella reggenza del mandamento di Porta Nuova, ha riferito di aver saputo dallo stesso Mangano che quest'ultimo, grazie ali' interessamento di Cinà, era andato a lavorare ad Arcore da Berlusconi.

Lo stesso collaborante ha poi dichiarato che l'imprenditore versava 50.000.00 di lire che erano stati consegnati in un primo momento a Mangano che tramite Nicola Milano li faceva pervenire alla famiglia di Santa Maria di Gesù.

Della consegna di somme di denaro al Mangano ha parlato anche Francesco Scrima, uomo d'onore dellafamiglia mafiosa di Porta Nuova, che aveva conosciuto Mangano in carcere nel 1975, presentatogli come uomo d'onore.

Il collaborante lo aveva incontrato di nuovo nel 1988-1989 presso il carcere di Palermo "Ucciardone" ed anche in seguito fuori dal carcere presso i fratelli Milano con i quali il Mangano intratteneva rapporti. Mangano aveva parlato a Scrima della propria attività di stalliere svolta ad Arcore negli anni '70 e si era lamentato con lui, nel 1988/1989, del comportamento, che aveva giudicato scorretto, tenuto nei suoi confronti da parte di Ignazio Pullarà, reggente della famiglia S.Maria del Gesù, che si era appropriato delle somme che versava Berlusconi e che Mangano riteneva spettassero a lui.

SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

I pentiti raccontano dei “regali” ai boss con Marcello Dell’Utri mediatore. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani l'11 novembre 2023

La Suprema Corte ha ritenuto definitivamente accertato: «La non gratuità dell'accordo protettivo in cambio del quale sono state versate cospicue somme da parte di Berlusconi in favore del sodalizio mafioso che aveva curato l'esecuzione di quell'accordo essendosi posto anche come garante del risultato»

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

In conclusione, con la pronuncia di annullamento, la Suprema Corte ha ritenuto definitivamente accertato - in virtù del giudizio positivo formulato in ordine all'attendibilità soggettiva ed alla esistenza di riscontri reciproci delle dichiarazioni di Di Carlo, Galliano e Cucuzza , collaboranti gravitanti all'interno di" cosa nostra" - i seguenti fatti:

-"l'assunzione - per il tramite del Dell'Utri - di Mangano ad Arcore come la risultante di convergenti interessi di Berlusconi e di "cosa nostra";

- "la non gratuità dell'accordo protettivo in cambio del quale sono state versate cospicue somme da parte di Berlusconi in favore del sodalizio mafioso che aveva curato l'esecuzione di quell'accordo essendosi posto anche come garante del risultato";

-il raggiungimento dell'accordo di natura ''protettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia per il tramite di Dell'Utri che, di quell'assunzione, è stato l'artefice grazie anche all'impegno specifico profuso dal Cinà”. (pag 105)

In relazione ai pagamenti è di particolare rilievo sottolineare che la Corte di Cassazione ha poi condiviso l'operato dei giudici della sentenza annullata nella parte in cui avevano ritenuto che le divergenze dei collaboratori in ordine all'ammontare dei pagamenti (Di Carlo aveva riferito che l'imprenditore aveva versato L. 100.000.000, Galliano aveva dichiarato che la somma, corrisposta a titolo di regalo, era pari a L. 50.000.000 e Cucuzza aveva parlato di un versamento annuo di L. 50.000.000), dovessero essere considerate alla stregua di dettagli, trattandosi di racconti "indiretti" che potevano avere subito "variazioni e/o interpretazioni in occasione dei passaggi di confidenze dall'uno all'altro soggetto" considerato inoltre il notevole lasso di tempo intercorso dalla notizia che era pervenuta Galliano ( dieci anni) e la conclusione dell'accordo.

Il nucleo essenziale che era indiscutibilmente emerso dalle dichiarazioni dei collaboratori e che era rimasto" invariato e ripetuto" - secondo i giudici di legittimità (pag. 105) era costituito dalla "ricerca e dal raggiungimento di un accordo tra Berlusconi e "cosa nostra'' per il tramite di Cinà e di Dell'Utri volto a realizzare una proficua reciproca collaborazione di intenti".

Orbene le condotte fin qui delineate e consistite nella ricerca di un contatto con esponenti di "cosa nostra" al fine del raggiungimento di un accordo tra Berlusconi e l'associazione mafiosa, la mediazione nei pagamenti di somme di denaro da parte dell'imprenditore milanese alla stessa consorteria mafiosa in cambio di una generale protezione, sono state ritenute sintomatiche della fattispecie delittuosa contestata all'imputato di concorso esterno in associazione mafiosa. Sono stati ritenuti significativi i rapporti intercorsi tra Dell'Utri ed esponenti acclaratamente mafiosi come Bontate, Teresi, Mangano e soggetti sostanzialmente mafiosi come Cinà, con i quali ed in favore dei quali l'imputato ha posto in essere condotte risultate utili sia per Berlusconi che per l'intera associazione mafiosa alla quale è stato consentito di mantenere e rafforzare il potere economico ed anche il prestigio tramite il contatto con un imprenditore dell'importanza di Silvio Berlusconi.

Tali rapporti intrattenuti con Bontate, Teresi, Cinà e Mangano da parte di Dell'Utri, per il significato concreto che hanno assunto nella conclusione del patto del 1974, lungi dal rientrare tra quelli definiti dalla Corte di Cassazione nella nota sentenza del 12 luglio 2005, n. 33748, come espressione di relazioni e contiguità sicuramente riprovevoli da un punto di vista etico sociale, ma di per sé estranee all'area penalmente rilevante del concorso esterno in associazione mafiosa, sono stati considerati dalla Corte di Cassazione nella sentenza di annullamento, rilevanti e significativi proprio nella realizzazione della condotta tipica dell'imputato in ordine al delitto contestatogli.

Acclarata la conclusione alla quale era pervenuta la Corte di Cassazione, che aveva attribuito alla condotta del Dell'Utri, nel periodo compreso tra il 1974 e la fine del 1977 una definitiva connotazione di rilevanza penale, deve evidenziarsi che lo stesso giudice di legittimità ha rilevato invece un vizio di motivazione della sentenza della Corte d'Appello sia con riferimento al "periodo di quattro anni almeno in cui Dell'Utri si era allontanato dall'area imprenditoriale berlusconiana ed aveva lavorato alle dipendenze di Rapisarda; sia alla questione del dolo che avrebbe assistito la fase dei successivi pagamenti, fino al 1992.

SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Lontano dal Cavaliere, Marcello cambia lavoro ma non quegli “amici”. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 12 novembre 2023

Malgrado Dell 'Utri avesse deciso di lasciare Berlusconi e fosse andato a lavorare con Rapisarda in contesto imprenditoriale del tutto differente, non ha mai interrotto i suoi rapporti con i soggetti mafiosi, intranei a "Cosa nostra", con cui aveva agito in precedenza

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Affrontando il tema oggetto del giudizio di rinvio, deve in primo luogo esaminarsi la condotta tenuta da Dell 'Utri in seguito al suo allontanamento da Silvio Berlusconi e la sua assunzione alle dipendenze dell'imprenditore Filippo Alberto Rapisarda, periodo in ordine al quale la Corte di Cassazione ha rinvenuto un "vuoto argomentativo per quanto concerne la possibile incidenza di tale allontanamento sulla permanenza del reato già commesso (pag.112). Tanto premesso deve essere evidenziato, seguendo le considerazioni della Suprema Corte nella sentenza di annullamento (pag. 116) e in linea con altre pronunce dello stesso giudice di legittimità (v. anche Cass. 10 maggio 2007, n. 542) che il reato di concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso è un reato permanente, un reato cioè in cui " l'agente ha il potere di determinare la situazione antigiuridica ed anche di mantenerla volontariamente nonché di rimuoverla così dando luogo egli stesso (...) alla riespansione del bene giuridico compresso", pag. 117).

Detto bene giuridico - costituito dall'integrità dell'ordine pubblico - nel caso in esame è stato violato allorché Dell'Utri ha promosso e propiziato quel patto concluso nel 1974 tra Berlusconi, costretto a pagare somme di denaro rilevanti a "cosa nostra" e la stessa associazione che, con tali sicuri e lauti guadagni, ha esteso la propria forza economica ed il proprio potere sostituendosi a sistemi di tutela istituzionali. Deve qui precisarsi dunque che fintantoché il concorrente esterno ha protratto volontariamente l'esecuzione dell'accordo che egli ha voluto e di cui si era fatto garante presso i due poli ai quali si è fatto più volte cenno (Berlusconi da un parte e "cosa nostra" dall'altra) si è manifestata la permanenza del reato posto in essere.

Il dies a quo del reato di concorso esterno è stato individuato - in modo del tutto condivisibile - dalla Suprema Corte nella "realizzazione dell'accordo mafia- imprenditore" ed "era destinato a cessare quando e se fossero cessati i comportamenti che l'imputato teneva in esecuzione dell'accordo (...), sempre ovviamente restando impregiudicata l'analisi de/l'atteggiamento psicologico" (argomento sul quale si ci soffermerà in seguito).

La Corte di Cassazione, seppur evidenziando che la Corte d'Appello con la sentenza annullata, "in linea di principio" uniformandosi ali' orientamento testè richiamato, aveva ancorato la cessazione del concorso esterno di Dell 'Utri al 1992 e cioè alla data di effettuazione degli ultimi pagamenti da parte di Berlusconi alla mafia tramite Dell 'Utri in esecuzione del patto di protezione, ha poi precisato che il suddetto giudice non aveva tenuto conto o comunque non aveva motivato sulle ragioni in base alle quali una prima fase di cessazione della condotta in esame non poteva essere individuata nel periodo 1978- 1982 durante il quale Dell'Utri non era rimasto più alle dipendenze del Berlusconi, soggetto in favore del quale il patto con la mafia era stato stipulato.

Questo giudice del rinvio quindi - in relazione al periodo suindicato (1978-1982) dovrà colmare detta lacuna "ove ricorrano gli elementi, con specifiche indicazioni di quale sia stato il comportamento, nel periodo, da parte di Dell 'Utri, non potendo darsi ingresso a presunzioni basate sulla bontà dei rapporti di amicizia con Berlusconi, rapporti che non provano l'intromissione di Dell 'Utri in affari penetranti per la vita dell'imprenditore dal quale si era allontanato atteso che di ciò non risultano esplicitate neppure la ragione e le modalità concrete del concorso nei versamenti che si dicono comunque avvenuti materialmente dunque anche ad opera di terzi a partire dal 1978 "(pag. 118).

In relazione al protrarsi di detti pagamenti da Berlusconi a "cosa nostra" nel periodo successivo al ritorno di Dell'Utri nell'area imprenditoriale berlusconiana, la motivazione della Corte d'Appello - dal punto di vista oggettivo - essendo logica e congrua aveva superato il controllo di legittimità, "richiedendo invece una opportuna chiarificazione solo se si sia trattato di un prosecuzione senza soluzione di continuità dopo l'allontanamento di Dell'Utri ovvero di una ripresa dopo un 'interruzione".

Questo passaggio della sentenza induce a fare una considerazione. La Corte di Cassazione ha ritenuto che era stato correttamente individuato dai giudici di merito il fatto oggettivo che Berlusconi, dopo il ritorno di Dell'Utri all'interno della propria area imprenditoriale, abbia versato a "cosa nostra" ingenti somme di denaro e ciò fino al 1992 data in cui è stato accertato l'ultimo pagamento; oggetto di esame demandato a questo giudice di rinvio è solo l'esame dell'elemento soggettivo dell'imputato.

Questo Collegio dovrà verificare se s1 sia trattato di una prosecuzione di pagamenti, senza soluzione di continuità, ovvero se vi sia stata un'interruzione durante il periodo di attività lavorativa svolta presso Rapisarda e poi una successiva ripresa al momento del ritorno di Dell'Utri dall'amico Berlusconi. Sarà necessario, in altri termini verificare - propno per la riconosciuta natura permanente del reato di concorso esterno - se Dell 'Utri, nel periodo in cui è stato alle dipendenze di Rapisarda, abbia palesato condotte che abbiano manifestato una sua precisa volontà di allontanarsi non solo dall'attività imprenditoriale berlusconiana, ma anche e soprattutto da quel contesto mafioso criminale con il quale era sceso a patti, favorendo un accordo che, se da un lato aveva garantito all'imprenditore amico protezione, dall'altro aveva rafforzato e conservato il sodalizio mafioso. E' stato già rilevato che la condotta che ha espresso il concreto, specifico, consapevole e volontario contributo dell'imputato è stato quello di mediare tra gli interessi di esponenti di spicco di cosa nostra e Berlusconi, favorendo la conclusione dell'accordo milanese del 1974.

I rapporti con tali esponenti di "cosa nostra" (Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Gaetano Cinà e Vittorio Mangano), protagonisti dell'accordo milanese che ha sancito l'inizio della condotta di concorso esterno per l'imputato, non rientrano tra le "relazioni e contiguità sicuramente riprovevoli da un punto di vista etico e sociale, ma di per sé estranee tuttavia ali 'area penalmente rilevante del concorso esterno in associazione mafiosa" ( SS.UU Cass. 12 luglio 2005, 33748, Mannino). Tali rapporti con i soggetti appena citati sono stati ritenuti penalmente rilevanti e significativi. Sono stati invero i rapporti con costoro che hanno consentito di attribuire a Dell 'Utri la veste di concorrente esterno ed è proprio all'associazione mafiosa di cui i soggetti appena citati facevano parte, con ruoli diversi, che Dell'Utri ha fornito un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo che ha avuto l'effettiva rilevanza causale ai fin della conservazione e del rafforzamento delle capacita operative di "cosa nostra".

Orbene, deve rilevarsi che la disamina delle condotte tenute da Dell'Utri ha dimostrato, a parere del Collegio (che poi si soffermerà anche sulla effettività della prosecuzione dei pagamenti in favore di "cosa nostra" anche durante detto periodo) che, malgrado Dell 'Utri avesse deciso di lasciare Berlusconi e fosse andato a lavorare con Rapisarda in contesto imprenditoriale del tutto differente, non ha mai interrotto i suoi rapporti con i soggetti mafiosi, intranei a "cosa nostra", con cui aveva agito in precedenza. Dell'Utri, in altre parole, non ha mai cessato la sinergia con quei partecipi interni a "cosa nostra" che lui - seppur a fronte di accertati rapporti - ha sempre negato di conoscere (Teresi e Bontate) o con cui aveva rinnegato di avere avuto legami di amicizia ( Mangano) o con i quali ha affermato di avere condiviso nient'altro altro se non una comune passione per il calcio ed un'amicizia dai profili affatto illeciti (Cinà).

Quella sinergia è proseguita anche dopo il suo allontanamento da Rapisarda e si è interrotta (attenendosi al limite segnato dal decisum della Suprema Corte) nel 1992 e ad essa - per i motivi che saranno spiegato in seguito- sono stati sempre coniugati i pagamenti di Berlusconi di somme di denaro alla stessa consorteria mafiosa. Appare necessario - al fine di spiegare l'irrilevanza che per Dell’Utri ha avuto il periodo di lavoro con Rapisarda nei suoi comportamenti nei confronti dei soggetti che con lui avevano concluso il patto del 1974 – prendere le mosse dalla genesi del suo rapporto di lavoro con Filippo Alberto Rapisarda.

SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

La raccomandazione mafiosa per farlo assumere dall’immobiliarista Rapisarda. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 13 novembre 2023

Dopo avere chiarito la propria consapevolezza dei legami mafiosi che aveva Cinà, Rapisarda ha ammesso di avere dovuto assumere Dell'Utri (Rapisarda: "avevo del timore'') proprio perché era consapevole del gruppo mafioso che vi era dietro Cinà

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Marcello Dell'Utri era andato a lavorare dall'imprenditore Filippo Alberto Rapisarda alla fine del 1977 dopo avere lasciato l'incarico di segretario personale del Berlusconi. Rapisarda, in quegli anni, era a capo di uno dei maggiori gruppi immobiliari italiani che comprendeva: la Bresciano s.p.a. (società della quale Dell'Utri veniva nominato amministratore delegato, come dichiarato dallo stesso imputato all'udienza del 26 giugno 1996); la Cofire s.p.a. (Compagnia Fiduciaria di Consulenze e Revisione) della quale Dell'Utri era divenuto consigliere; la Inim s.p.a (Internazionale Immobiliare) costituita dopo l'assunzione del concordato fallimentare della Facchin e Gianni, di cui Rapisarda era socio al 60per cento insieme ad Alamia Francesco Paolo socio al 30per cento e Caristi Angelo socio al 10per cento (v. dich. di Rapisarda) e tra i cui consiglieri vi erano Marcello e Alberto Dell'Utri.

Appare necessario mettere immediatamente in evidenza che, malgrado vi fosse stato un netto cambiamento nella vita lavorativa di Dell'Utri, quest'ultimo non aveva in alcun modo deciso di mutare il suo rapporto con gli esponenti mafiosi con cui aveva concluso il patto, volendo in modo del tutto consapevole fornire il proprio contributo di mediatore - concorrente esterno al fine di garantire la permanenza degli effetti del suddetto patto. Ogni tentativo di intravedere un atteggiamento diverso e non omogeneo alle condotte che la giurisprudenza costante della Corte di Cassazione ha ricondotto nell'alveo del delitto di cui agli artt. 11 O, 416 bis c. p. è del tutto vano.

Anche lontano dall'area imprenditoriale di Berlusconi, Dell'Utri ha continuato ad interagire con gli esponenti di "cosa nostra" con i quali è stato accertato definitivamente ha commesso il delitto di concorso esterno in associazione, mantenendo con loro rapporti acclaratamente rilevanti dal punto di vista penale. E non solo.

L'imputato ha tenuto nei confronti degli stessi soggetti mafiosi la medesima cordialità autentica senza dare alcun segnale concreto e serio di un voluto e deciso distacco. Condividendo le argomentazioni della Corte di Cassazione, nella trattazione del periodo in esame, non si farà alcun cenno, al fine di spiegare le ragioni per le quali si ritiene che vi sia stata una permanenza della condotta delittuosa di concorrente esterno, ai rapporti di amicizia con l'imprenditore Berlusconi che invero ben potevano essere mantenuti anche in un momento in cui le strade professionali si erano divise.

Quel che si vuole sottolineare è che, in primo luogo, trattandosi di reato permanente nel quale il contributo causale del concorrente non si esaurisce in una prestazione precisa ed occasionale, ma si svolge in un arco di tempo rilevante, mai è stata registrata nel periodo in esame una condotta che abbia solo fatto dubitare che Dell'Utri, andato a lavorare da Rapisarda, abbia voluto rimuovere la situazione antigiuridica iniziata nel 1974 con il patto mafioso al quale lui aveva partecipato e che aveva promosso.

Già la genesi del rapporto di lavoro con Rapisarda è assolutamente significativa del valore attribuito da Dell'Utri ai rapporti di protezione mafiosa. Marcello Dell'Utri, dopo avere lavorato con Berlusconi per diversi anni ed essendo certamente consapevole delle sue doti personali, doti che gli consentiranno di realizzare i progetti imprenditoriali e politici sicuramente significativi nella storia italiana, ha ritenuto che il suo curriculum personale e la sua sola presenza, non erano sufficienti a impressionare positivamente l'imprenditore Rapisarda e per questo motivo si era fatto accompagnare da Gaetano Cinà, che lui ben sapeva essere se non ritualmente mafioso, sicuramente vicino o contiguo a "cosa nostra".

Escludendo che la presenza di Cinà sia stata collegata a eventuali intenzioni delle consorteria mafiosa di riciclare denaro nelle imprese di Rapisarda, tramite Dell'Utri (già la Corte d'Appello nella sentenza annullata ed Tribunale nel giudizio di primo grado, avevano negato qualsiasi condotta di riciclaggio di Dell'Utri nelle imprese del Rapisarda), ciò che assume rilievo è il dato incontrovertibile che Dell'Utri si è presentato da Rapisarda con Cinà, senza un'apparente ragione.

Il 5 maggio 1987, nell'ambito di altro processo svoltosi a Milano per il fallimento della società Bresciano ed anche il 22 settembre 1998, nel corso delle dichiarazioni rese nel presente giudizio dinanzi al Tribunale, Rapisarda ha riferito di avere assunto Dell'Utri su richiesta di Cinà, che aveva conosciuto insieme a Bontate ed a Teresi e che, consapevole dunque delle frequentazioni mafiose intrattenute da Cinà, non si era sentito di negargli il favore.

Lo stesso Rapisarda ha dichiarato di avere conosciuto tempo prima, "tra il '75 ed il '76" Dell'Utri tramite la cognata del Prof. Giacomo Delitala. Nel 1977, forse in primavera (Rapisarda: "in primavera credo”), Cinà e Dell'Utri erano andati da lui e gli avevano rappresentato la situazione di grave crisi che attraversava Berlusconi. Era stato in quell'occasione che Cinà gli aveva detto che i fratelli Dell'Utri dovevano lavorare (Rapisarda: " ( .. )Dopo qualche giorno venne con Marcello Dell'Utri; P .M.: "Venne chi? "; Rapisarda:" Cinà (. .) portò Marcello Dell'Utri e mi disse che lui doveva lavorare perché da Berlusconi in questo momento va tutto male, non prendono soldi e Berlusconi sta per ... non ha possibilità. Questa era ... e per questo passò subito da me''). Dopo avere chiarito la propria consapevolezza dei legami mafiosi che aveva Cinà, Rapisarda ha ammesso di avere dovuto assumere Dell'Utri ( Rapisarda: "avevo del timore'') proprio perché era consapevole del gruppo mafioso che vi era dietro Cinà.

Aveva poi ribadito le medesime motivazioni che avevano determinato l'assunzione di Dell'Utri nel corso del giudizio dinanzi al Tribunale in cui aveva dichiarato che non se l'era sentita di dire di no a Cinà per il timore che nutriva nei suoi confronti ( Rapisarda:"Non me lo sono sentita di dirgli di no(..) perché avevo del timore"; P.M.:" perché?"; Rapisarda:" e cosa vuole un ambiente di quel genere lì, lei gli dice no e diventa un 'offesa, io memore ... ricordo di Palermo che appena uno diceva no a uno di questi diventava un 'offesa"v. dichiarazioni rese all'udienza del 22 settembre 1998, cit. ). Rapisarda era infatti consapevole che Teresi e Bontate facevano parte di "quell'ambiente mafioso " e per questo motivo non aveva mai voluto avere contatti con loro. Riteneva che Cinà appartenesse alla " famiglia" di Stefano Bontate. (Rapisarda: "Guardi allora le dico che Stefano .. Tanino Cinà fa parte della famiglia di Stefano Bontate, perciò è inutile che ..'').

Rispondendo alla richiesta di chiarimento formulata dal P .M. sul significato che doveva attribuirsi al temine "famiglia" il Rapisarda aveva spiegato che tale significato era collegato all'emisfero dei rapporti mafiosi (Rapisarda: "che le famiglie sono le famiglie mafiose") e ricordava tuttavia che tra Cinà e Bontate esistevano anche rapporti familiari di diverso tipo. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Minacce e picciotti, le “vanterie” di Dell’Utri per non farsi dire di no. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 14 novembre 2023

Dell'Utri: «Ritornando alla domanda dell'Ufficio riguardante le minacce a Berlusconi e la mia presunta mediazione presso mafiosi, debbo dire che io queste cose a Rapisarda le dissi; dissi che avevo mediato tra gli autori delle minacce e Berlusconi ma lo dissi per vanteria. Rapisarda si vantava di conoscere questo e quello, io feci la stessa cosa. Rapisarda si vantava di essere amico dei Bono».

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Dell'Utri, sentito nell'ambito dello stesso processo "Bresciano" il 20 magg10 1987 (in ordine alle ragioni dell'utilizzabilità dell'interrogatorio acquisito dal Tribunale all'udienza del 18 marzo 2003, si rinvia alle considerazioni svolte nel paragrafo dedicato nella sentenza della Corte d'appello, pagg. 143-149, che questo Collegio condivide integralmente e peraltro non hanno costituito oggetto di specifico motivo di ricorso dinanzi alla Suprema Corte), ha confermato di avere iniziato a lavorare nel gruppo societario del Rapisarda negli uffici di Via Chiaravalle, nell'ottobre del 1977.

Aveva deciso di lasciare la Edilnord e Berlusconi perché dal Rapisarda guadagnava il doppio ed aveva un maggiore spazio di iniziativa e di autonomia, in quanto da Berlusconi svolgeva l'attività di" segretario personale" e non un'attività "dirigenziale o di qualsiasi livello nel campo edilizio ".

Dell 'Utri ha ricordato che aveva rivisto Rapisarda "prima dell'estate del 1977'' forse presso gli uffici di quest'ultimo a Milano dove era stato accompagnato da Marcello Caronna ed in seguito in occasione di un pranzo sempre prima dell'estate del 1977.

Nel settembre dello stesso anno si erano incontrati ancora ed era stato allora che Rapisarda gli aveva manifestato il suo entusiasmo per l'acquisto della Bresciano s.p.a. che lui aveva ritenuto un ottimo affare. Già nel gennaio del 1978, tuttavia, Rapisarda si era reso conto che la società non poteva lavorare perchè mancavano i soldi e lui non poteva più impegnarsi.

Il 26 giugno 1996 Dell 'Utri, nel corso delle indagini preliminari relative al presente processo, ha dichiarato che Gaetano Cinà lo aveva accompagnato da Rapisarda, ma ha negato che il primo lo avesse raccomandato, così come aveva dichiarato Rapisarda che lui reputava un megalomane. ( Dell'Utri:" "E' vero che io e Cinà andammo da Rapisarda. (...) Non è vero che Cinà ci (Dell 'Utri si riferiva al fratello Alberto ed al Marcello Caronna) abbia raccomandati a lui.

Il Rapisarda è una persona megalomane"(...) " E' vero che sono stato designato dal Rapisarda amministratore delegato di una società del suo gruppo, la Bresciano s.p. a ma non è vero che Rapisarda lo fece su sollecitazione del Cinà. Anzi Cinà mi diceva che ero pazzo a lasciare Berlusconi per andare a lavorare con il Rapisarda'').

Orbene, appare del tutto singolare che Dell 'Utri, laureato presso l'Università Statale di Milano, che aveva svolto un'attività lavorativa presso la Cassa di Risparmio per le Province Siciliane e che dal 1973 aveva iniziato a lavorare con Berlusconi a Milano, avesse scelto proprio il titolare di una lavanderia per recarsi da Rapisarda e che abbia individuato in Cinà, non solo il soggetto con cui partecipare ad incontri di mafia, ma l'interlocutore con cui discutere delle proprie scelte lavorative.

E' lo stesso imputato che ha affermato di avere parlato con Cinà della proposta di lavoro del Rapisarda e che Cinà lo aveva sconsigliato di andare a lavorare da quell'imprenditore (Dell'Utri: " ..quando Cinà mi dice : "io lo conosco questo tizio, è un truffaldino" gli dico " vieni con me che se lo conosci, te lo faccio vedere se è lui, ma io penso che tu sbagli persona. Questo qui sta in un palazzo principesco" v. dich. spont. 29 novembre 2004, cit).

Appare indiscutibile che la presenza di Cinà abbia palesato ancora una volta il fatto che Dell'Utri abbia fatto ricorso ad un soggetto notoriamente collegato ad ambienti mafiosi per realizzare senza difficoltà gli obiettivi che si era prefissato.

La ragione di simile accompagnamento dunque non può che essere spiegata con la consapevolezza che aveva l'imputato dell'effetto convincente che la presenza di Cinà avrebbe avuto su Rapisarda che difatti, come dichiarato dallo stesso Dell'Utri era rimasto "impressionato" dal suo accompagnatore (Dell'Utri: "Siamo andati a trovarlo ed ho riscontrato che effettivamente si conoscevano ed il Rapisarda è rimasto anche impressionato di vedere che era con me Cinà" (v. dich. spontanee cit.

Che l'impressione di Rapisarda nel vedere arrivare Dell'Utri con Cinà era determinata dai legami di quest'ultimo con la consorteria mafiosa, di cui Rapisarda era consapevole, è testimoniato (non solo dalle chiare ammissioni dello stesso imprenditore), ma anche da quanto riferito dallo stesso Dell'Utri che nel corso delle spontanee dichiarazioni del 20 novembre 2004. Dell'Utri spiegando le affermazioni di Rapisarda che aveva asserito che l'imputato gli aveva detto di conoscere esponenti mafiosi essendosi interessato di mediare tra questi ultimi che minacciavano Berlusconi, e lo stesso Berlusconi, ha affermato, in modo del tutto inverosimile che lo aveva fatto per vantarsi e non essere da meno del Rapisarda.

Appare rilevante evidenziare la circostanza che Dell'Utri, uomo di indiscutibile intelligenza e - cosi come è risultato dalle sue dichiarazioni e dalle considerazioni svolte dalla difesa - dotato di un personale patrimonio culturale, giustificando quanto aveva riferito a Rapisarda in ordine ai suoi rapporti con esponenti mafiosi, ha spiegato che si era trattato solo di una "vanteria".

Deve dunque essere sottolineato con riferimento ai rapporti intrattenuti dall'imputato con soggetti mafiosi, che Dell'Utri ha ritenuto di "vantarsi" di simili contatti non reputandoli dunque frequentazioni riprovevoli e delle quali invece non vi sarebbe stata alcuna ragione di fame cenno e meno che mai di vantarsene (Dell'Utri: (...) ritornando alla domanda dell'Ufficio riguardante le minacce a Berlusconi e la mia presunta mediazione presso mafiosi, debbo dire che io queste cose a Rapisarda le dissi; dissi che avevo mediato tra gli autori delle minacce e Berlusconi ma lo dissi per vanteria.

Rapisarda si vantava di conoscere questo e quello, io feci la stessa cosa. Rapisarda si vantava di essere amico dei Bono "( v. dich. del 26 giugno 1996). Che poi Dell'Utri, come lo stesso aveva dichiarato, si era presentato da Rapisarda con Cinà per dimostrargli che non poteva essere lui quel truffaldino di cui Cinà gli aveva parlato è assolutamente inverosimile, ma tuttavia dimostra la considerazione m cm Dell 'Utri teneva Cinà.

Dell'Utri, dunque, coinvolgendo Cinà, ha dimostrato di non avere interrotto i legami con colui che gli aveva consentito di entrare in contatto con il boss Stefano Bontade e che aveva partecipato alla conclusione del patto scellerato del 1974. Appare evidente allora che non assume alcun rilievo la considerazione della difesa che ha sottolineato che non era stato Cinà ad "introdurre" Dell'Utri presso il Rapisarda, in quanto i due erano stati presentati nel 1975 dalla cognata del professor Giacomo Delitala.

Detta circostanza - riferita anche dallo stesso Rapisarda - non incide in alcun modo sui motivi già evidenziati sottesi alla decisione di farsi accompagnare da Cinà, motivi che attengono all'atteggiamento, mai mutato di Dell 'Utri, nei confronti di coloro con i quali aveva stretto il patto di protezione del 1974. Né può affermarsi dunque che l'avere deciso di farsi accompagnare da Cinà poteva essere considerato un fatto rimproverabile sul piano "per così dire etico", ma non rilevante sul piano penale, come ha proposto la difesa ( che ha peraltro sottolineato che Cinà era estraneo all'associazione).

Ed invero - al di là di ogni considerazione sulla mafiosità di Cinà che peraltro è stato condannato in questo processo per i delitti di cui agli artt. 416 e 416 bis c.p., proprio per gli inequivocabili comportamenti mafiosi che aveva assunto negli anni- quel che deve essere messo in evidenza è Cinà è uno di quei soggetti appartenenti a "cosa nostra" con i quali Dell 'Utri ha agito quale concorrente esterno al fine di realizzare il fatto criminoso collettivo in virtù del patto del 1974.

L'aver continuato mantenere rapporti con quest'ultimo non può essere relegato alla sfera dei rapporti sconvenienti dal punto di vista etico, assumendo (rectius: mantenendo) viceversa il significato penalmente rilevante, sotto il profilo dell'assenza di condotte significative della volontà di interrompere la permanenza del delitto contestatogli. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Il ritorno del “figliol prodigo”, Marcello ancora alla corte del Cavaliere. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 15 novembre 2023

La durata dell'allontanamento del tutto irrilevante dal gennaio del 1978 al 1980/1981 e l'atteggiamento assunto da Dell 'Utri nei confronti di coloro che erano stati i protagonisti del patto del 1974, consentono di affermare che detta parentesi lavorativa non ha assunto un particolare rilievo nella vita di Dell'Utri

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

La Cassazione, ha individuato il periodo in cui Dell 'Utri era andato a lavorare per Rapisarda abbandonando l'area imprenditoriale di Berlusconi, nel quadriennio compreso tra l'inizio del 1978 ed il 1982. Deve rilevarsi che l'impegno professionale di Dell'Utri presso la Bresciano s.p.a. è stato in effetti di gran lunga inferiore.

Dell'Utri, infatti, ha dichiarato (v. dich. del 20 maggio 1987) che già dopo due mesi dall'inizio del suo nuovo lavoro si era reso conto del fatto che il destino della Bresciano era già segnato e che la società era destinata a fallire; anche Rapisarda già nel gennaio del 1978 aveva capito che la società non poteva lavorare perché mancavano i finanziamenti. Il 26 giugno 1996 lo stesso Dell'Utri ha dichiarato di essere stato amministratore delegato della Bresciano s.p.a. dal gennaio 1978 sino alla fine del 1979 allorché la società era fallita e di non avere avuto ''più niente a che fare con aziende e società del gruppo Rapisarda" dopo avere esaurito la propria attività di curatore fallimentare. Ed ancora nel corso della telefonata del 14 febbraio 1980 Dell 'Utri, parlando con Vittorio Mangano dall'Hotel Duca di York , aveva manifestato la propria preoccupazione per la situazione grave in cui lui si trovava a seguito del fallimento della società e delle vicissitudini in cui era incorso il fratello Alberto (Dell'Utri: " Ho dovuto pagare per mio fratello soltanto otto milioni solo per la perizia contabile, sto uscendo pazzo poi ho bisogno di soldi per me per gli avvocati perché sono nei guai ... perché sempre il discorso del pazzo là ( ... ) l'ufficio non c'è più l'ho levato. Dov'ero prima io lei ci venne. La società fallita, è venuto il Tribunale, curatore sigilli, eccetera ed hanno chiuso tutto .. e quindi sono in mezzo ad una strada'').

Va ancora evidenziato che Rapisarda, per sfuggire ai provvedimenti restrittivi per il fallimento della società Venchi Unica, nel 1979 ( il 16 febbraio 1979, secondo quanto dichiarato dallo stesso Rapisarda) si era recato in Venezuela. In seguito era andato in Francia dove - dopo essere stato ospitato da un amica bulgara- era andato a vivere in una casa che aveva affittato Alberto Dell 'Utri in Avenue Foch a Parigi. Secondo quanto riferito da Rapisarda , nei primi mesi del 1980 Dell 'Utri lo aveva incontrato a Parigi all'Hotel George V ; nella stessa occasione Dell'Utri aveva dato appuntamento a anche Bontade e Teresi. Era stato allora che Rapisarda aveva sentito Dell'Utri chiedere ai due boss mafiosi 20 miliardi di lire per l'acquisto di film per Canale 5.

Le dichiarazioni di Rapisarda possono ritenersi attendibili in ordine al suo allontanamento in Venuezuela ed in Francia, abbandonando dunque l'Italia, per sfuggire all'arresto sia in relazione all'incontro con Dell'Utri. Deve in primo luogo rilevarsi che lo stesso Dell 'Utri ha dichiarato di essere a conoscenza di detti luoghi di latitanza affermando (v.int del 26 giugno 1996) che, a seguito del fallimento della Venchi Unica 2000, il fratello Alberto era stato arrestato e che Rapisarda era andato m Venezuela.

Detta circostanza era basata su una sua personale deduzione atteso che un atto di vendita, concluso nel periodo in cui Rapisarda era latitante con alcuni soggetti venezuelani, era stato stipulato in Venezuela. Aveva poi saputo da alcuni funzionari della Questura di Roma che Rapisarda era andato in Francia e che aveva utilizzato il passaporto del fratello Alberto (v. int 26 giugno 1996). Anche Giorgio Bressani, che aveva svolto il ruolo di direttore di cantieri di Rapisarda, all'udienza del 21 maggio 2001 nel dibattimento di primo grado ha riferito di avere conosciuto Marcello Dell 'Utri ed ha parlato della fuga con Rapisarda in Venezuela e degli incontri di Rapisarda con Dell'Utri a Parigi durante la sua latitanza. Orbene ciò che interessa rilevare e che può considerarsi accertato è che nel febbraio del 1979 Rapisarda ha abbandonato l'Italia e le sue attività lavorative per non essere arrestato.

Ed ancora deve essere evidenziato che lo stesso Dell 'Utri, nel corso delle spontanee dichiarazioni del 29 novembre 2004, seppur formalmente riassunto da Berlusconi l' 1 marzo 1982 , ha dichiarato che il rapporto di lavoro con Rapisarda era finito nel 1980 e che era tornato da Berlusconi alla fine del 1980/1981 (Dell'Utri:" .. io sono tornato da Berlusconi nell '80, nell '81 per la precisione, a fine '80, quanto è finita l'avventura Rapisarda ") Alla luce delle suddette circostanze ( il fallimento della Bresciano, la latitanza dell'imprenditore Rapisarda nel 1979, le stesse ammissioni di Dell'Utri) può affermarsi che il rapporto lavorativo di Dell'Utri con Rapisarda non era in realtà durato "quattro anni" fino al 1982, ma si era di fatto interrotto nel 1980.

La durata dell'allontanamento del tutto irrilevante (dal gennaio del 1978 al 1980/1981) e l'atteggiamento assunto da Dell'Utri nei confronti di coloro che erano stati i protagonisti del patto del 1974, consentono di affermare che detta parentesi lavorativa non ha assunto un particolare rilievo nella vita di Dell'Utri che difatti, poco dopo, senza mai interrompere i rapporti né con gli esponenti mafiosi di riferimento né con l'amico Berlusconi, tornava a lavorare con quest'ultimo, senza mai avere smesso di fare da tramite l'imprenditore e "cosa nostra". SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Il racconto di Calderone, la cena al ristorante fra i boss e Dell’Utri. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 16 novembre 2023

Calderone ha dichiarato di avere effettuato soprattutto con il fratello alcuni viaggi a Milano per individuare i soggetti che dovevano essere eliminati nel contesto di una guerra di mafia che si stava consumando a Catania. In occasione di uno di essi aveva partecipato insieme a Nino Grado e Vittorio Mangano, era presente anche Dell'Utri. Calderone ha ricordato che Mangano gli aveva presentato l'imputato come il suo "principale"

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La Corte di Cassazione con la sentenza di annullamento ha ritenuto che la Corte d'appello aveva reso una motivazione ampia e logica sulla "natura e la qualità dei rapporti che Dell'Utri ha dimostrato di continuare ad intrattenere con Mangano e con Cinà, anche dopo l'allontanamento del primo dalla villa di Arcore: rapporti che la Corte ha argomentato sulla base di elementi oggettivi (colloqui telefonici, partecipazione a cene e ad un matrimonio ) essere stati - quantomeno nella relativa fase temporale - di natura assolutamente opposta a quella che connota il rapporto tra l'estorto (asseritamente Dell'Utri) e l'estortore ( cosa nostra) (pag. 108).

Prima di procedere all'esame della telefonata avvenuta il 14 febbraio 1980 tra Dell'Utri e Mangano e ribadendo le considerazioni della Corte di Cassazione che ha ritenuto del tutto estranea ai rapporti tra Dell 'Utri e Mangano ogni connotazione di costrizione del rapporto e di timore del primo nei confronti del secondo, deve mettersi in evidenza la ininterrotta prosecuzione dei suddetti rapporti anche dopo l'allontanamento di Mangano da Arcore.

In detto periodo e cioè dopo l'allontanamento di Mangano da Arcore, ma prima dell'inizio dell'attività lavorativa di Dell'Utri da Rapisarda, si colloca la cena al ristorante milanese "Le colline pistoiesi". Di essa ha parlato Antonino Calderone, uomo d'onore della famiglia mafiosa di Catania, che dal 1975 aveva accompagnato il fratello Giuseppe che era a capo dell'organismo direttivo di "cosa nostra" a Milano. Calderone, ha dichiarato di avere effettuato soprattutto dal 1975 con il fratello alcuni viaggi a Milano per individuare i soggetti che dovevano essere eliminati nel contesto di una guerra di mafia che si stava consumando a Catania.

In occasione di uno di essi aveva partecipato nel 1976 (forse il 24 ottobre 1976, giorno del suo 41 A compleanno), presso il ristorante già richiamato, insieme a Nino Grado e Vittorio Mangano, era presente anche Dell'Utri. Calderone ha ricordato che Mangano gli aveva presentato l'imputato come il suo "principale". L'episodio - confermato da Dell'Utri che tuttavia aveva riferito che Mangano gli aveva presentato dei suoi amici senza fargli il nome - era stato considerato dalla Corte d'Appello, con motivazione ritenuta dalla Corte di Cassazione "ampia e logica", come segno della continuità dei rapporti tra Dell'Utri e Mangano che avevano una natura del tutto diversa da quella esistente tra vittima ed estortore e cioè di natura cioè consuetudinaria e progettuale oltre che sintomatica di una affidabilità reciproca degli interlocutori". (v. pag 108 sent. Cassazione)

La stessa natura consuetudinaria e progettuale era stata attribuita ai "colloqui telefonici" intercorsi tra gli stessi protagonisti. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

E in una telefonata lo “stalliere” propone un affare al suo “principale”. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 17 novembre 2023

Passando adesso all'esame della telefonata intercorsa tra Dell'Utri e Mangano dall'utenza telefonica dell'Hotel Duca di York di Milano, in uso al Mangano, nel febbraio del 1980, deve immediatamente rilevarsi che tale chiamata ha palesato la precisa volontà di Dell'Utri di non interrompere la consuetudine e la progettualità del rapporto intercorso con Mangano

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Passando adesso all'esame della telefonata intercorsa tra Dell'Utri e Mangano dall'utenza telefonica dell'Hotel Duca di York di Milano, in uso al Mangano, nel febbraio del 1980, e dunque nel periodo in esame in cui Dell'Utri si era allontanato dall'area imprenditoriale di Berlusconi, deve immediatamente rilevarsi che tale chiamata ha palesato la precisa volontà di Dell'Utri di non interrompere la consuetudine e la progettualità del rapporto intercorso con Mangano e soprattutto la permanenza del medesimo atteggiamento psicologico dell'imputato nei confronti di coloro che, come Mangano, erano collegati al patto mafioso di protezione concluso nel 1974 con "cosa nostra".

Deve rilevarsi che Dell 'Utri avrebbe avuto innumerevoli motivi per interrompere il rapporto con Mangano, peraltro nel periodo in cui quest'ultimo si era allontanato da Arcore (deve essere rammentato inoltre che Mangano era stato arrestato il 27 dicembre 1974, per espiare una pena definitiva relativa ad una condanna per truffa e scarcerato il 22 gennaio 1975 si era allontanato da Arcore) e Dell'Utri aveva smesso di lavorare per l'imprenditore Berlusconi per andare da Rapisarda.

Il rapporto, però, prescindeva da connotazione personali (quali ad esempio la risalente conoscenza ai tempi della squadra di calcio Bacigalupo di cui Dell'Utri era presidente e che Mangano seguiva per passione) ed aveva sullo sfondo il ruolo che a Mangano era stato assegnato da Bontade all'esito della riunione del 1974 e che Dell'Utri aveva promosso.

Deve essere rammentato che Mangano è stato assunto ad Arcore proprio su indicazione di Dell 'Utri e che detta presenza - a seguito delle decisioni prese alla riunione milanese del 1974 - ha assunto il significato di assicurare un presidio mafioso all'interno di Villa Casati al fine di proteggere l'imprenditore Silvio Berlusconi (fatto ormai accertato in modo definitivo a seguito della sentenza della Corte Cassazione, malgrado le dichiarazioni di diverso tenore rese dall'imputato il 26 giugno 1996 nel corso delle quali seppur ammettendo di avere fatto assumere Mangano ad Arcore ha negato che quest'ultimo aveva avuto il compito di proteggere Berlusconi ed i suoi familiari, dichiarando che doveva essere adibito solo all'allevamento dei cavalli ed alla cura delle piante).

Fin dalle spontanee dichiarazioni rese all'udienza del 29 novembre 2004 l'imputato ha sottolineato in maniera chiara che Mangano - a differenza di Cinà - non era suo amico (Dell'Utri: " Il Mangano non è mai stato un mio amico nel senso di frequentazione, un conoscente perché veniva lì come tanti tifosi e padri di ragazzi venivano a seguire le partite la domenica ( ... ) mentre per me il Cinà è stato un amico''). Tuttavia, ha sempre mostrato nei suoi confronti una assoluta cordialità che era sicuramente conosciuta da "cosa nostra" che, proprio per il rapporto che Mangano aveva con Dell'Utri, aveva revocato la condanna a morte che era stata decisa da Bagarella. Quest'ultimo, invero, aveva deciso di graziarlo proprio per la sua amicizia con Dell'Utri, a sua volta amico di Berlusconi, imprenditore in continua ascesa e che, in seguito, avrebbe manifestato anche una speciale versatilità anche nel mondo della politica: Mangano era dunque per il boss Bagarella ancora utile.

Non è in alcun modo significativo l'assunto della difesa secondo la quale il contenuto della conversazione intercorsa tra Mangano e Dell'Utri era privo di valore atteso che i due interlocutori avevano parlato di "un argomento di nessuna rilevanza ai fini dell'imputazione (la vendita di un cavallo)" , atteso che da un lato il contenuto del dialogo contiene riferimenti e frasi che assumono invece un preciso significato al fine di provare la permanenza dell'atteggiamento dell'imputato e la sua prosecuzione dei rapporti con i soggetti con i quali aveva concluso il patto di protezione; dall'altro che il tono del dialogo ha lasciato trasparire una continuatività dei contatti tra i due interlocutori ed una progettualità comune non dissimile a quella che era esistita nel 1974.

Dell'Utri, invero, si era rivolto al Mangano con un tono tipico di rapporti, per usare le stesse parole della Corte di Cassazione di "natura consuetudinaria e progettuale" ( pag. 108), e che appartiene a coloro che non hanno mai interrotto i loro rapporti (Dell 'Utri : "Chi mi disturba? lo stavo lavorando qua, per cui ... Dov'è, dov'è?"; Mangano : "Sono in albergo. Ha telefonato Tony Tarantino?"; Dell'Utri: "Mah, ieri c'ho parlato. Avevo telefonato io, però"; Mangano: "Oggi doveva telefonare per darci l'appuntamento per me"; Mangano: "Esatto, mi disse che alle quattro mi chiamava"; Mangano: "Alle 4. lo invece, siccome forse lui deve andare fuori, comunque ... "; Dell'Utri: "eh") e che intendono costruire progetti comuni (Mangano : "Eh, ci dobbiamo vedere?: Dell'Utri: "Come no? Con tanto piacere"; Mangano: "Perché io le devo parlare di una cosa ... "; Dell'Utri:" Benissimo"; Mangano: "Anzitutto un affare"; Dell'Utri: "Eh beh, questi sono bei discorsi").

Il frammento del dialogo che rileva, al fine di poter affermare che l'allontanamento per un periodo peraltro di gran lunga inferiore al quadriennio indicato dalla Corte di Cassazione, dall'area imprenditoriale berlusconiana è stato del tutto insignificante sulla permanenza del reato già commesso, è quello in cui Mangano ha indicato Berlusconi come il datore di lavoro (''principale'') di Dell'Utri in un periodo (1980) in cui quest'ultimo era formalmente alle dipendenze di Rapisarda. Per Mangano, che ha dimostrato di avere mantenuto i contatti con Dell'Utri e che era messo a parte da quest'ultimo anche delle vicissitudini del fratello Alberto e della società in cui lo stesso Dell'Utri aveva lavorato con Rapisarda, Berlusconi in quel momento (1980) era ancora il "principale" di Dell'Utri (Mangano: "Ne hai tanti di soldi. Non buttatevi indietro"; Dell'Utri: "No, no, non scherzo! Sono veramente in condizioni di estremo bisogno"; Mangano: "Vada dal suo principale! Silvio!").

Sempre nel corso della medesima conversazione, i due interlocutori hanno fatto riferimento a Cinà e a luoghi soliti di incontro ( "Mangano: "va bene a che ora ci vediamo'"; Dell'Utri: "Quando dice lei''; Mangano: "No, va bene"; Dell'Utri: "Dov'è lei. Al solito in Via Moneta"'; Mangano: "Eh si"; Dell'Utri: "(..) e allora telefona a Tonino (nel corso del suo interrogatorio del 26 giugno 1996 Dell'Utri ha identificato "Tonino" nell'amico Gaetano Cinà affermando che la trascrizione del nome era inesatta e che lui ed il Mangano avevano parlato di "Tanino" Cinà).

Orbene, emerge con tutta evidenza che Dell'Utri, seppur nel periodo in cui si era allontanato professionalmente da Berlusconi, aveva continuato ad avere contatti con Mangano e Cinà, non mostrando alcun comportamento indicativo della volontà di porre fine all'esecuzione dell'accordo interrompendo in primo luogo i contatti con i soggetti che di quell'accordo erano stati i protagonisti.

SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Il matrimonio londinese di Girolamo "Jimmi" Fauci, trafficante di droga. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 18 novembre 2023

Infine deve e essere esaminata la vicenda della partecipazione di Dell'Utri al matrimonio di Girolamo Fauci celebratosi a Londra il 19 aprile 1980 della quale ha parlato Francesco Di Carlo che vi aveva preso parte in qualità di testimone dello sposo, indicando tra i presenti Dell'Utri, Cinà e Mimmo Teresi che era stato testimone della sposa

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Infine deve e essere esaminata la vicenda della partecipazione di Dell'Utri al matrimonio di Girolamo Fauci celebratosi a Londra il 19 aprile 1980 della quale ha parlato Francesco Di Carlo che vi aveva preso parte in qualità di testimone dello sposo, indicando tra i presenti Dell'Utri, Cinà e Mimmo Teresi che era stato testimone della sposa. Il Collegio ha ritenuto del tutto irrilevante che Dell'Utri si trovasse causalmente a Londra per motivi personali (era stata per tale motivo rigettata la richiesta di integrazione probatoria proposta dalla difesa che intendeva depositare il manifesto di una mostra che in quei giorni si teneva a Londra), attribuendo invece particolare rilievo, al fine di esaminare il periodo 1978/1982, alle seguenti circostanze:

- che Dell 'Utri avesse continuato ad intrattenere rapporti con gli stessi soggetti con i quali aveva concluso il patto di protezione del 1974 (Teresi e Cinà);

- che "cosa nostra" riponeva in Dell'Utri ancora nel 1980 la stessa fiducia manifestargli nel 1974;

- che gli fosse consentito di partecipare ad un matrimonio in cui era presente un latitante del calibro di Di Carlo.

Sotto il primo profilo deve rilevarsi che Dell'Utri non ha esitato ad accettare l'invito di Cinà a recarsi al matrimonio di Girolamo ("Jimmi") Fauci con una cittadina inglese celebratosi a Londra il 19 aprile 1980. Non è rilevante il fatto, che ha costituito un motivo preciso di censura, che Dell'Utri sia stato o meno invitato da Fauci (la difesa ha contestato che Dell'Utri fosse nella lista degli invitati, mentre Di Carlo ha riferito di ricordare che l'imputato era tra gli invitati in quanto Fauci aveva considerato che era necessario, vista la presenza di Di Carlo, invitare soggetti di cui potersi fidare (Di Carlo: "ma certo che era invitato (Dell'Utri) ma a parte tutto le dico che Jimmi lo ripeto mi aveva detto chi c'erano, va bene, e questo erano nomi che mi potevano vedere non erano persone che chi sa avrebbero cominciato a parlare: l'abbiamo visto là oppure che avrebbe fatto lo sbirro, come si suol dire'').

Ciò che interessa (ed è circostanza assolutamente incontrovertibile) è che Dell'Utri, seppur non essendo stato invitato dagli sposi, si sia presentato al matrimonio, ed abbia partecipato anche al ricevimento.

Detta circostanza ha palesato la pervicace volontà dell'imputato di non volere interrompere la permanenza dei contatti con soggetti che lui ben sapeva a quale società mafiosa appartenessero neppure rifiutando l'invito ad un matrimonio come quello di Jimmi Fauci soggetto condannato per traffico internazionale di sostanze stupefacenti e per Dell'Utri un perfetto sconosciuto.

Sotto il secondo profilo, assume rilievo determinante la circostanza riferita da Di Carlo che ha dichiarato che, fuori dalla chiesa, Mimmo Teresi rivolgendosi a Dell 'Utri gli aveva comunicato che Di Carlo era latitante e gli aveva detto che, ove quest'ultimo si fosse trovato a passare da Milano, lui (Dell 'Utri) si sarebbe dovuto mettere a disposizione. Dell'Utri non si era tirato indietro e gli aveva dato il suo numero di telefono (Di Carlo Francesco: «E c'era davanti la chiesa c'era anche Marcello Dell'Utri che ci siamo risalutati con una stretta di mano, poi con Mimmo Teresi, Teresi, io, Mimmo Teresi e Dell'Utri ci siamo appartati un po' e Mimmo Teresi parlando ci ha detto, dice: tu lo sai che Franco - perché io avevo da 3 mesi che ero latitante ufficialmente, poi il latitante cercavo di farlo sempre per passare inosservato, visto il mestiere - ha detto, tu lo sai che è latitante - lui mi ricordo ha detto... si, si, perché non ha un'espressione abbastanza facile il dottore Dell'Utri, almeno per me, quello che... e dice: chi sa viene a Milano, chi sa Franco si trova a passare a Milano, mettiti a disposizione. Dice: si. M'ha dato il numero di telefono, l'ho scritto in maniera che non ... pero' ... sia di un ufficio e sia di casa, proprio, Mimmo mi ha detto: ci ha abitazione, ci ha tutto, ne ha fatto dormire tanti, non ti preoccupare se... Poi non l'ho usato mai, non ci sono stato mai, anche se andavo a Milano sapevo dove andare''). SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

E il pentito Francesco Di Carlo ricorda che volevano “combinare” Marcello. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 19 novembre 2023

Di Carlo, considerato soggetto "meritevole di pieno credito" ha riferito che Teresi, nel corso del matrimonio, gli aveva tessuto le lodi di Dell'Utri e gli aveva detto che avevano intenzione di combinarlo

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Le affermazioni di Di Carlo, collaboratore sul quale la Corte di Cassazione ha ritenuto che "la Corte di merito aveva (abbia) prodotto, ( ...) una giustificazione completa e rispondente ai criteri di razionalità e della plausibilità in ordine al fatto che il Di Carlo, nel presente processo, è risultato soggetto meritevole di pieno credito, "sono di assoluto rilievo atteso che esse hanno dimostrato che, malgrado Dell'Utri avesse abbandonato l'imprenditore Berlusconi, "cosa nostra" continuava a considerarlo un soggetto del tutto affidabile.

Va poi rilevato - esaminando l'ultimo profilo - che Dell'Utri ha partecipato ad un matrimonio in cui testimone dello sposo era proprio un soggetto latitante. E mentre detta circostanza poteva non essere conosciuta agli altri invitati al matrimonio, molti dei quali peraltro di nazionalità inglese, ciò non poteva essere ignoto a Dell'Utri anche prima che glielo comunicasse Teresi davanti alla chiesa (Di Carlo, peraltro aveva dichiarato che l'imputato quando Teresi, all'ingresso della chiesa gli aveva chiesto se era a conoscenza della latitanza del Di Carlo e l'imputato aveva risposto di si).

La notizia della latitanza di Di Carlo era stata resa nota peraltro il 6 febbraio 1980, come dichiarato dallo stesso collaboratore (Di Carlo: ".. (..) ma giusto che mesi prima, perché io sono latitante ufficialmente è uscito in televisione il 6 febbraio, quella me la ricordo la data 6 febbraio poi lui (Jimmi Fauci n.d.r.) mi sembra in aprile perciò c'è nemmeno due mesi").

Orbene, com'è noto, "cosa nostra" riserva i contatti con i latitanti solo a soggetti sui quali riporre la propria fiducia. Dell'Utri dunque sicuramente rientrava tra quelli atteso che Teresi e lo stesso Di Carlo si erano avvicinati a lui senza alcun timore.

Ed ancora - v'è da rilevare - che nel 1980 Dell'Utri era con Cinà e con lui si recava in un luogo ove avrebbe incontrato sia Teresi che Di Carlo protagonisti entrambi dell'incontro milanese del 1974.

Di Carlo, considerato soggetto "meritevole di pieno credito" dalla Corte di Cassazione (che ha ritenuto valide le argomentazioni in tal senso esposte dalla Corte d'Appello) ha riferito che Teresi, nel corso del matrimonio, gli aveva tessuto le lodi di Dell'Utri e gli aveva detto che avevano intenzione di combinarlo (Di Carlo: «ci prepariamo per andare all'altare con Teresi, comunque e siamo appartati mi dice: bonu picciottu: In gergo cosa nostra si capisce un bonu picciottu e che ... a disposizione una persona di qua, me ne parla bene, dice noi con Stefano abbiamo intenzione di combinare a Dell'Utri, e allora io ... tu che ne pensi»).

Rileva il Collegio che la richiesta di ospitalità avanzata da Teresi a Dell'Utri e l'apprezzamento manifestato da Teresi nei confronti dello stesso imputato, non sembrano argomenti sui quali Di Carlo aveva motivi di mentire.

In relazione alla disponibilità offerta da Dell'Utri di aiutarlo ove si fosse trovato a Milano, il collaboratore ha precisato di non avere avuto mai la possibilità di sperimentarla avendo sfruttato la disponibilità di altri soggetti che lo avevano ospitato. In relazione al gradimento manifestato da Teresi sulla persona di Dell 'Utri al punto da volerlo fare entrare stabilmente in cosa nostra, reputa il Collegio che non sussistono motivi per ritenere che tale affermazione sia frutto della fantasia di Di Carlo.

Del resto Dell 'Utri era tenuto in grande considerazione sicuramente dagli esponenti di "cosa nostra" atteso che è colui che ha stretto con "cosa nostra" un patto di particolare rilievo per la vita dell'associazione mafiosa, patto che - per le valutazioni che saranno di seguito esposte - non ha mai tradito assicurando con la sua costante attività di mediazione fino al 1992, cospicui e sicuri guadagni all'associazione mafiosa mediante i pagamenti di somme di denaro versate da Berlusconi. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

I ricordi di Angelo Siino su quei viaggi dei “palermitani” a Milano. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 20 novembre 2023

Il collaboratore, la cui attendibilità intrinseca è stata accertata in importanti e numerosi processi, che è conoscitore profondo delle logiche di "cosa nostra" nella gestione degli appalti negli anni '90, all'udienza del 9 giugno 1998 ha riferito che nella seconda metà degli anni '70 aveva più volte accompagnato a Milano in macchina Stefano Bontate

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Anche Angelo Siino ha riferito un episodio che può essere collocato nel periodo in esame e che dimostra come Dell'Utri non si fosse mai allontanato dal nucleo mafioso con il quale aveva interagito ed al quale aveva consentito di rafforzarsi con la sua opera di mediazione.

Il collaboratore, la cui attendibilità intrinseca è stata accertata in importanti e numerosi processi, che è conoscitore profondo delle logiche di "cosa nostra" nella gestione degli appalti negli anni '90, all'udienza del 9 giugno 1998 ha riferito che nella seconda metà degli anni '70 aveva più volte accompagnato a Milano in macchina Stefano Bontate.

In occasione di uno di detti viaggi, aveva incontrato Dell'Utri che scendeva le scale di Via Larga, dove vi era l'ufficio di Ugo Martello, insieme allo stesso Martello, a Stefano Bontate e, forse, a Mimmo Teresi (della cui presenza il Siino non era certo).

L'incontro è stato correttamente collocato dai giudici di primo grado nel periodo 1977- 1979 ed in ogni caso nel periodo in cui l'imputato lavorava già per Rapisarda atteso che Dell'Utri gli aveva fatto cenno ad una società di costruzioni in cui lavorava "un certo Alamia". Ancora una volta è emersa la conferma della precisa volontà di Dell 'Utri di mantenere i rapporti con i soggetti mafiosi protagonisti del patto mafioso del 1974.

Deve mettersi in evidenza che il Tribunale - contrariamente a quanto affermato dalla difesa all'udienza dell'11 febbraio 2013 - non ha ritenuto Siino "poco attendibile", ma, dopo avere indicato il valore processuale che avevano assunto nei processi le sue dichiarazioni e le sue conoscenze, aveva rilevato che le sue affermazioni relative al fatto che Dell'Utri aveva curato gli interessi di Ciancimino non potevano essere riscontrate dall'incontro di cui aveva parlato ("Pertanto, il Collegio non è in grado di collegare quell'incontro ad una circostanza specifica e di dare un significato alla frase usata dal Ronfate (secondo cui Dell'Utri avrebbe "curato" gli interessi di Ciancimino), rendendola suscettibile di autonomo riscontro. Quello descritto non è il solo viaggio fatto dal Siino in compagnia di Stefano Ronfate: pag 748 ).

SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

E Marcello fu invitato a cena nella villa del “principe di Villagrazia”. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 21 novembre 2023

Infine, devono essere rammentate le dichiarazioni di Di Carlo che ha parlato di una cena avvenuta nel 1979 nella villa di Stefano Bontate a Palermo alla quale avevano preso parte una ventina di persone tra le quali Di Carlo, Marcello Dell'Utri, Bontate, Mimmo Teresi e Totuccio Federico

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Infine, devono essere rammentate le dichiarazioni di Di Carlo che ha parlato di una cena avvenuta nel 1979 nella villa di Stefano Bontate a Palermo alla quale avevano preso parte una ventina di persone tra le quali Di Carlo, Marcello Dell'Utri, Bontate, Mimmo Teresi e Totuccio Federico.

Di Carlo ha precisato che in quell'occasione non si era parlato di affari illeciti.

La circostanza - ai fini dell'approfondimento del tema della permanenza dei contatti tra Dell 'Utri e gli esponenti mafiosi con i quali aveva stretto il patto del 1974 - è del tutto irrilevante, ma ciò che preme sottolineare, ancora una volta, è non solo la sinergia delittuosa con boss mafiosi del calibro di Bontate, ma anche la omogeneità ideologica e culturale tra Dell'Utri e Bontate con il quale l'imputato condivideva anche momenti di convivialità.

Né può attribuirsi alcun rilievo al fatto che Dell'Utri abbia negato di conoscere Teresi e Bontate, considerato il fatto che la sua partecipazione ali' incontro milanese del 1974 con costoro è stato ormai accertato definitivamente con la sentenza della Suprema Corte e che dei rapporti tra Dell'Utri e Bontate hanno parlato non solo collaboratori di giustizia come Calogero Ganci, Antonino Galliano e Francesco Paolo Anzelmo, ma anche Angelo Siino, collaboratore di giustizia di acclarata attendibilità che ha riferito dell'incontro avvenuto mentre l'imputato scendeva le scale dell'ufficio di via Larga insieme a Bontate e a Ugo Martello.

Ritornando alle dichiarazioni di Di Carlo, quest'ultimo all'udienza del 16 febbraio 1998, dopo avere descritto la villa di Stefano Bontate, ha riferito che, in occasione di una cena organizzata, nel 1979 o in un periodo di poco anteriore, aveva incontrato Dell'Utri. (Di Carlo :" ... una cantina .. ecco uno scantinato, ma non era uno scantinato .. perché di solito il scantinato si pensa un garage, una cosa, è bellissimo l'ha fatto per ricevere amici di cosa nostra o persone, infatti c'era un grandissimo tavolo, una cucina che era metà sala di questa . . . questa Corte, potevano entrarci pure 100 persone, ed aveva questa, l'aveva fatto per ospitare o per fare mangiate, come le chiamavano loro, riunione e cose, ma no riunioni a livello di cosa nostra, perché le riunioni si facevano in altri posti, però aveva fatto qua in questo modo, e una sera mi hanno invitato, ci sono stato più di una sera, una volta eravamo pochissimi, mentre quella sera ho visto più di venti persone, venti o qualcuno in più, e mi ricordo una cena che c'era Marcello Dell'Utri"; PM: "Una cena, quante persone erano presenti, se ricorda se erano presenti altri uomini d'onore? ";Di Carlo:" Si, uomini d'onore ce n'erano tantissimi, ma c'era pure qualcuno che non era uomo d'onore"; PM: Chi era presente tra gli uomini d'onore, che lei ricordi? Di Carlo:" C'era i soliti Mimmo Teresi, c'era l'avvocato, chiamiamolo avvocato, fratello di Stefano Bontate ( ... ) C'era Totuccio Federico, non so se c'era Mannoia, non mi ricordo veramente, c'era un altro dei Teresi, che era vicino, che abitava vicino da Stefano Bontate, c'era uno che ci dicevano a 'nciuria , ma forse si chiama Gambino, pure Giuseppe Gambino, della Guadagna della famiglia di Stefano, aveva a 'nciuria che lo chiamavano sempre, il cogn,ome dopo l'ho saputo .. ( ... ) P.M . . "Senta, lei ha detto che questo incontro è avvenuto quando? Di Carlo:" Ma verso il '79, mi sembra ";PM: " Come? ";Di Carlo :" Verso il '79 , se non faccio sbaglio"; PM: "Ricorda in che periodo è avvenuto(..) Senta signor Di Carlo, nell'interrogatorio del 14 febbraio 97 lei specificamente ha indicato che questa cena di cui sta parlando adesso, leggo:" avvenne all'incirca nel 1977, data che ricostruisco basandomi sulle circostanze di fatto che allora avevo già conosciuto Gimmi Fauci e che tale conoscenza , come ho detto, era avvenuta nel '76 "; Di Carlo :" No, più avanti è stato, '77 ... più avanti è stato ... o fine '78, fine, quando dico fine ... settembre o '79, non è '77 "; PM: "Non è '77? "; DI CARLO: " No, no '') . Tale circostanza rileva non solo perché attesta la prosecuzione dei rapporti con gli esponenti mafiosi di speciale calibro, ma perché conferma una constante cordialità dei rapporti che è del tutto incompatibile con il rapporto (invero escluso dalla Suprema Corte) tra estorto ed estortori. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

I boss Bontate e Teresi sistemano la questione delle antenne televisive. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 22 novembre 2023

La vicenda della "messa a posto" delle antenne televisive si colloca proprio nel periodo in esame - in cui l'interesse di Dell'Utri sarebbe dovuto essere rivolto alle sorti dell'impresa di Rapisarda - la richiesta che, secondo quanto ha riferito il collaborante Di Carlo, Dell 'Utri ha rivolto a Cinà di occuparsi della" messa a posto "per l'installazione delle antenne televisive

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Rinviando ad un esame successivo la vicenda della "messa a posto" delle antenne televisive, deve rilevarsi che si colloca proprio nel periodo in esame - in cui l'interesse di Dell'Utri sarebbe dovuto essere rivolto alle sorti dell'impresa di Rapisarda - la richiesta che, secondo quanto ha riferito il collaborante Di Carlo, Dell 'Utri ha rivolto a Cinà di occuparsi della" messa a posto "per l'installazione delle antenne televisive.

Di Carlo ha riferito che Cinà si era rivolto a lui per avere un consiglio su come comportarsi ed ha collocato - seppur in modo non del tutto certo - il dialogo tra il "'77-'78'' (Di Carlo:" ... Poi un 'altra volta solo ho avuto discorsi con Tanino al riguardo però siamo più avanti, non so quanti anni sono passati che aveva il problema che ci hanno detto di mettere antenne là, cosa dovevano mettere, per la televisione aveva questo problema. P.M. Chi aveva questo problema?" ; Di Carlo :" Gaetano Cinà "; PM: "Eh, si, ma a chi ... chi si era rivolto a Gaetano Cinà? "; Di Carlo: "Di nuovo ... Dell'Utri": P.M. "Dell'Utri Marcello?"; Di Carlo:" Sì, e siccome non era ... non era nella zona di Stefano da metter questa cosa e allora ... ecco, siamo sempre là, Tanino non capiva che pure che non era nella zona di Stefano, una volta che è interessato Stefano può dirlo sempre a Stefano e Stefano ci pensa lui anche che è un 'altra zona lo dice, sa come mettersi d'accordo con altri capi mandamento o meno ". ( ... ) PM: Ma erano già istallate o era un 'intenzione di istallare queste ... "; Di Carlo:"Mi sembra che era intenzione di istallare queste ... PM : "Ricorda il periodo in cui ... "; Di Carlo:"Se erano istallate e non dicevano prima erano guai"; P.M: "Dopo quanto tempo dall'incontro di Milano avvenne questo discorso?"; Di Carlo: "Non lo so se era '77-'78 questo discorso'').

La richiesta era poi stata risolta da Bontate e Teresi che avevano" sistemato tutto". L'episodio, da collocarsi con ogni probabilità nel 1979- 1980 in relazione all'interesse del gruppo Fininvest nel settore delle emittenti private ( risale proprio in quegli anni la prima trattativa di Fininvest per l'acquisto da parte di Rete Sicilia s.r.l.. società collegata a Fininvest, di TVR Sicilia), dimostra che Dell'Utri, malgrado fosse stato ancora alle dipendenze di Rapisarda, aveva continuato ad avere contatti con Cinà e a cercare, attraverso quest'ultimo, di mediare tra gli interessi di "cosa nostra" e Berlusconi.

SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

I giudici: «Berlusconi non ha mai smesso di pagare per non avere problemi». SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 23 novembre 2023

E’ fin troppo evidente che non essendo emerso in alcun modo un ripensamento dell'imprenditore - che anzi aveva sempre affermato di volere pagare pur di essere lasciato in pace - né lamentele dell'organizzazione mafiosa, deve ritenersi che Berlusconi non abbia mai smesso di pagare

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Alla luce delle considerazioni fin qui esposte reputa il Collegio che è dimostrato come Dell 'Utri, nel periodo di tempo in cui era rimasto alle dipendenze del Rapisarda (sostanzialmente interrotto nel 1980 a seguito del fallimento della Bresciano s.p.a. di cui Dell 'Utri era amministratore delegato e della fuga di Rapisarda dapprima in Venezuela e poi in Francia) non ha mai interrotto i rapporti con i soggetti che avevano stretto con lui il patto che aveva dato la spinta psicologica iniziale nel pregresso accordo per il sodalizio mafioso e con i quali aveva agito nella veste di concorrente esterno.

Né sussistono motivi per ritenere che il breve allontanamento dall'area imprenditoriale berlusconiana abbia fatto mutare la natura dei rapporti con tali soggetti non essendo emersi comportamenti di Dell 'Utri che abbiano mostrato la sua volontà di rimuovere o interrompere la situazione antigiuridica che aveva posto in essere fino agli inizi del 1978, prima di abbandonare l'area imprenditoriale di Berlusconi.

Dopo avere messo in evidenza il mantenimento dei suddetti rapporti, al fine di potere affermare che il concorrente esterno Dell'Utri abbia protratto volontariamente l'esecuzione dell'accordo che egli aveva ''propiziato e del quale si era fatto garante presso i due poli " è necessario accertare che l'imputato non abbia cessato le condotte che aveva tenuto in esecuzione dell'accordo e che tali condotte siano state sempre supportate dal medesimo atteggiamento psicologico.

La Corte di Cassazione, sempre con riferimento a tale periodo ha mvero rilevato "una carenza di motivazione riguardo all'elemento oggettivo" non essendo "state esplicitate neppure le ragioni e le modalità concrete del concorso nei versamenti che si dicono avvenuti materialmente dunque ad opera di terzi a partire dal 1978 ". L'arco temporale di cui si deve dare prova dei pagamenti è dunque circoscritto al periodo 1978/1982, essendo stato definitivamente accertato che per il periodo successivo i pagamenti erano avvenuti (resterà da esaminare l'elemento psicologico dell'imputato), considerato che la Corte di Cassazione infatti ha ritenuto che la motivazione del giudice di merito non si era esposta a censure per quanto riguardava l'affermazione della effettività oggettiva della protrazione dei pagamenti da Berlusconi a "cosa nostra" negli anni '80 e poco oltre (1983) fino al 1992.

Poiché, ad avviso di questa Corte territoriale, i pagamenti garantiti a"cosa nostra" in cambio della protezione all'imprenditore, oggetto del sinallagma contrattuale dell'accordo del 1974 (che ha visto protagonista Dell 'Utri quale mediatore tra le parti Berlusconi da una parte e "cosa nostra" dall'altra) costituiscono l'antecedente causale anche dei pagamenti effettuati in seguito, al fine di affermare la permanenza del reato e l'assenza di soluzione di continuità anche nel periodo di allontanamento di Dell'Utri dall'area imprenditoriale di Berlusconi, appare necessario ripercorrere, seppur brevemente le modalità di tali pagamenti fin dall'inizio e cioè fin dal 1974.

Deve a tal proposito essere rammentato che Di Carlo - ritenuto soggetto meritevole di pieno credito nel presente processo atteso che il suo racconto sull'incontro del 1974 ha presentato credibilità oggettiva ed è stato riscontrato obiettivamente da una pluralità di elementi (v. sent. Cass. Pag, 99) ha riferito che la prima consegna di denaro era stata fatta a Gaetano Cinà subito dopo l'incontro del 1974: 100 milioni di lire che Cinà aveva chiesto personalmente a Dell'Utri e che quest'ultimo gli aveva consegnato.

Galliano aveva parlato di un "regalo" che Berlusconi aveva voluto fare ai suoi interlocutori mafiosi di 100 milioni di lire l'anno che venivano pagati in due rate da 50 milioni e che - su incarico di Stefano Bontate - venivano ritirate da Cinà presso lo studio di Dell 'Utri. Anche Cucuzza ha parlato delle somme che venivano consegnate da Berlusconi; ha solo ricordato che Mangano gli aveva confidato che era lui a ricevere le somme ( 50 milioni di lire all'anno) che tratteneva per una parte, consegnandone un'altra parte a Nicola Milano per il mandamento di Santa Maria di Gesù. Fin qui la Corte di Cassazione ha ritenuto che le motivazioni della Corte d'Appello avevano resistito alle censure di legittimità.

Orbene, reputa questa Corte territoriale che, anche in relazione al periodo in esame ( 1978-1982) non sussista dubbio alcuno sulla prosecuzione dei pagamenti da parte di Berlusconi a "cosa nostra" sulla base dell'accordo mafia-imprenditore che aveva dato inizio alla condotta di concorso esterno dell'imputato nel 1974. Ed invero l'allontanamento di Dell'Utri dall'area imprenditoriale di Berlusconi e la sua assunzione alle dipendenze di Rapisarda non ha in alcun modo inciso sulla permanenza del reato sia sul piano obiettivo e materiale, che sul piano soggettivo.

La prova risiede ad avviso del Collegio non solo nell'assenza (di cui si è già parlato) di alcun comportamento dell'imputato da cui potere desumere il suo voluto distacco non solo dai protagonisti dell'accordo mafioso del 1974 che lui stesso aveva richiesto e determinato svolgendo la sua opera di mediazione tra l'imprenditore e "cosa nostra"; ma soprattutto nel fatto che l'esecuzione del suddetto accordo che prevedeva da un lato la protezione di Berlusconi e dall'altro la sistematica acquisizione di proventi economici da parte dell'associazione mafiosa è sempre proseguito senza soluzione di continuità. La circostanza è di particolare rilievo atteso che la protezione ha costituito nucleo essenziale e fondamentale del patto e il motivo del corrispettivo dei pagamenti da parte dell'imprenditore stesso. Deve mettersi immediatamente in evidenza che non può attribuirsi alcun rilievo, al fine di escludere che era venuta meno la ragione di pagamenti, al fatto che Berlusconi dopo l'allontanamento di Mangano da Arcore si era munito di un servizio di protezione privata: l'imprenditore invero ha sempre manifestato in modo chiaro di essere convinto del fatto che per la propria attività - che si stava espandendo sul tutto il territorio nazionale - la protezione istituzionale o privata non era sufficiente. Berlusconi ha sempre accordato una personale preferenza al pagamento di somme come metodo di risoluzione preventiva dei problemi posti dalla criminalità ( circostanza questa richiamata anche dalla Corte di cassazione: pag 103).

Anche in epoca successiva a quella in esame, nel corso di una conversazione del 17 febbraio 1988, l'imprenditore dialogando con l'amico Renato Della Valle aveva ancora manifestato la sua disponibilità a pagare somme di denaro, pur di non essere tormentato da minacce estorsive (Berlusconi:" ... ma io ti dico sinceramente che, se fossi sicuro di togliermi questa roba dalla palle, pagheri tranquillo).

Ed ancora parlando con Dell'Utri la notte dell'attentato del 29 novembre 1986 ( attentato che l'imprenditore aveva definito un "una cosa anche . .. rispettosa ed affettuosa") aveva detto che se lo avessero chiamato telefonicamente lui avrebbe consegnato anche trenta milioni. Ridendo aveva riferito all'amico che aveva manifestato detta sua disponibilità anche ai Carabinieri che erano rimasti scandalizzati ( Berlusconi: "Stamattina gliel'ho detto anche ai Carabinieri .. gli ho detto. "Ah, si? In teoria se mi avesse telefonato, io trenta milioni glieli davo! (ride) Scandalizzatissimi: "Come trenta milioni? Come? Lei non glieli deve dare che poi noi lo arrestiamo!".

Dico: "Ma no, su per trenta milioni". Acclarata l'accettazione di Berlusconi a pagare somme di denaro pur di non ricevere atti di intimidazione o ritorsione, deve rilevarsi che la protezione da parte di "cosa nostra" dell'imprenditore era continuata anche in seguito all'allontanamento di Mangano da Arcore e di Dell'Utri da Berlusconi e prima della morte di Bontate e Teresi. Il collaborante Angelo Siino ( v. dich del 9 luglio 1997), la cui attendibilità, come è stato già rilevato, è stata acclarata ali' esito di numerosi processi, ha invero ricordato dell'intervento effettuato da Stefano Bontate per impedire un progetto di sequestro ai danni di Berlusconi o di un suo familiare ad opera di mafiosi calabresi, nella seconda metà degli anni '70 ("1977, ma sicuramente prima del 1979 "). Siino aveva accompagnato Bontate a Milano, erano passati da Roma a prendere Vito Cafari, massone calabrese vicino alla 'ndrangheta, e si erano poi diretti a Milano, dove avevano incontrato dei calabresi ("certi Conde/lo'') che " dovevano fare da tramite con questi personaggi di Locri " che avevano intenzione di sequestrare Berlusconi o un suo familiare.

Bontate era interessato alla vicenda mentre il Cafari faceva solo da tramite con i calabresi. Siino ha riferito di non avere assistito alla discussione con questi ultimi e Bontate, ma avere appreso il motivo ed il contenuto dell'incontro dallo stesso Bontate durante il viaggio di ritorno.

Aveva tuttavia notato che al pranzo che vi era stato dopo l'incontro tra i commensali ( Siino, Bontate, Cafari, un soggetto latitante ed altri due o tre personaggi di Locri) vi era un clima teso. Bontate, faceva battute e lui aveva capito che non aveva alcuna considerazione dei calabresi che "per lui non erano nessuno ". Il boss mafioso era molto contrariato del fatto che i calabresi ( "quelli di Locri") si erano interessati a Berlusconi che lui considerava " a lui vicino " ed aveva detto che, ove non avessero smesso di " inquietare" Berlusconi, "gli avrebbe fatto vedere lui". E' ancora significativo che Bontate aveva riferito a Siino che i fratelli Pullarà avevano "protetto Berlusconi dalle ingerenze calabresi dalle vessazioni che gli facevano i calabresi"; per questo motivo avevano ricevuto dall'imprenditore milanese "notevoli riscontri, rientri in denaro"; ricordava che Bontate - proprio per sottolineare che la protezione gli stava costando un prezzo talmente alto da sradicarlo, da togliergli le radici, distruggendolo - gli aveva detto che i Pullarà " ci (a Berlusconi) stanno tirando u radicuni ". Lo stesso Bontate aveva riferito a Siino che i Pullarà una volta in discoteca avevano difeso il fratello di Berlusconi o lo stesso imprenditore, dalle offese rivolte dai calabresi. Le circostanze fin qui esposte dimostrano due fatti estremamente rilevanti: 1) la protezione garantita nel 1974 era proseguita senza sosta e senza registrazione di alcun allentamento dell'interesse degli esponenti mafiosi che quel patto avevano concluso, patto che, deve essere rammentato, costringeva l'imprenditore Berlusconi a versare cospicue somme a "cosa nostra"; 2) Ignazio e Giovan Battista Pullarà già prima della morte di Bontate, avevano preteso il pagamento di somme di denaro da Berlusconi per proteggerlo, somme che, come meglio verrà in seguito esposto, erano in concreto collegate a forniture di materiali teatrali che gli stessi fornivano all'imprenditore.

Se è vero - com'è vero - che la protezione era proseguita in virtù dell'accordo del 1974 e se è vero che il sinallagma "contrattuale" aveva previsto che la protezione dell'imprenditore avesse come corrispettivo il pagamento di somme di denaro da parte di Berlusconi, è fin troppo evidente che non essendo emerso in alcun modo un ripensamento dell'imprenditore - che anzi aveva sempre affermato di volere pagare pur di essere lasciato in pace - né lamentele dell'organizzazione mafiosa, deve ritenersi che Berlusconi non abbia mai smesso di pagare.

Detta conclusione è non solo del tutto logica, ma soprattutto fondata anche sulle dichiarazioni rese dai collaboranti Galliano, Anzelmo e Calogero Ganci e si collega peraltro anche al pagamento in epoca successiva delle somme, pagamento in ordine al quale la Suprema Corte ha chiesto a questo un nuovo esame solo sulla sussistenza dell'elemento psicologico essendo definitivamente accertata la loro oggettiva protrazione. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Quando l’amico interviene per chiedere uno sconto a Totò Riina. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 24 novembre 2023

È emerso che Berlusconi ha sempre pagato a "cosa nostra" e che Dell'Utri, non ha mai smesso di controllare che il rapporto sinallagmatico venisse rispettato, pronto ad intervenire per tutelare le ragioni del Berlusconi che in un certo periodo si sentiva eccessivamente pressato ("tartassato") o per mediare, in seguito, le pretese di Riina che aveva imposto il raddoppio della somma

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

In relazione all'attività in concreto svolta da Dell'Utri, reputa il Collegio che deve mettersi in evidenza che in relazione alla causale di detti pagamenti, i giudici di legittimità hanno rilevato che la Corte d'Appello in passaggio della sentenza annullata aveva tenuto conto e giustificato come "possibile" la tesi di Galliano secondo cui i pagamenti di Berlusconi erano stati fatti per la protezione, e non anche per l'installazione dei ripetitori ritenendo acquisite «prove rassicuranti della effettività dei pagamenti e non altrettanto rassicuranti circa la aggiunta della causale dei ripetitori alla causale della protezione».

Ciò che era stato ritenuto rilevante e certo era che Berlusconi aveva continuato a pagare a "cosa nostra" con continuità somme di denaro cospicue per la propria protezione. Orbene ad avviso di questa Corte territoriale non può negarsi che proprio nel periodo in esame in cui Dell'Utri era passato alle dipendenze di Rapisarda si era profilato un interesse di Berlusconi per le emittenti private.

A tal proposito - a riprova del fatto che l'allontanamento dall'area berlusconiana non aveva comportato alcuna interruzione dell'interesse di Dell 'Utri per il mantenimento del patto siglato nel 1974 - va ricordata la richiesta fatta dall'imputato a Cinà, così come dichiarato da Di Carlo, di occuparsi della "messa a posto" delle antenne televisive nel " 1977/1978", anni in cui si delineava l'interesse di Fininvest per le emittenti private in Sicilia. Del pagamento del pizzo per le antenne si è continuato a parlare anche in seguito ed in particolare - quando Riina ( come si vedrà nel paragrafo relativo al periodo compreso tra il 1983 ed il 1992) aveva preteso il raddoppio della somma e Dell 'Utri aveva detto a Cinà che avrebbe pagato tale somma, ma che per i ripetitori in Sicilia a pagare dovevano essere i titolari delle emittenti locali e non la Fininvest.

Orbene reputa questo Collegio - considerato che Galliano aveva riferito che le somme erano date solo per la protezione dell'imprenditore con ciò escludendo che la causale dei pagamenti era collegata solo al "pizzo per le antenne" - che non è rilevante indagare quale sia stata questa causale (antenne e/o protezione personale) dei pagamenti, ma che sta necessario accertare che sia avvenuta (rectius: proseguita) l'oggettiva e materiale consegna di denaro nel periodo in questione, la "materialità del comportamento dell'imputato", così come chiesto dalla Suprema Corte (pag.110).

Del resto il patto concluso grazie alla mediazione di Dell'Utri prevedeva una protezione dell'imprenditore che non era limitata all'incolumità della sua persona, ma anche a tutto ciò che ad un imprenditore poteva accadere nello svolgimento della sua attività e dunque, eventualmente, anche per l'affare imprenditoriale dei ripetitori televisivi.

Alla luce degli elementi probatori emersi nel corso del giudizio e costituiti essenzialmente dalle dichiarazioni rese dai collaboranti di giustizia può immediatamente anticiparsi che la consegna del denaro da Berlusconi a "cosa nostra" non si era mai arrestata ed il ruolo di mediatore di Dell'Utri non si era mai interrotto.

Per la sua generale protezione è emerso che Berlusconi ha sempre pagato a "cosa nostra" e che Dell'Utri, non ha mai smesso di controllare che il rapporto sinallagmatico venisse rispettato, pronto ad intervenire per tutelare le ragioni del Berlusconi che in un certo periodo si sentiva eccessivamente pressato ("tartassato") o per mediare, in seguito, le pretese di Riina che aveva imposto il raddoppio della somma.

Del resto la stessa natura giuridica di reato permanente e non istantaneo, richiede che fintantoché il concorrente esterno protragga volontariamente l'esecuzione dell'accordo che egli ha propiziato e di cui si sia fatto garante, presso i due poli più volte evocati (Berlusconi - "cosa nostra"), si manifesta il carattere permanente del reato che ha posto in essere; evenienza che la giurisprudenza richiamata dalla sentenza di annullamento della Corte di Cassazione (pag. 118), ha riassunto nella locuzione secondo cui " la suddetta condotta partecipativa (esterna) si esaurisce, quindi con il compimento delle attività concordate": Cass. 17.7.2002. n. 21356).

Volendo mettere m luce la "materialità del comportamento dell'imputato in tale periodo" (pag. 110 sent. Cass.) deve rilevarsi che le modalità di pagamento nel periodo in esame, precedente e di poco successivo alla morte di Stefano Bontate avvenuta il 23 aprile 1981, sono emerse essenzialmente dalle dichiarazioni dei collaboranti Calogero Ganci e Francesco Paolo Anzelmo Antonino Galliano, tutti appartenenti alla famiglia mafiosa della Noce a capo della quale vi era Raffaele Ganci ed in ordine ai quali la Suprema Corte ha ritenuto che non sussistessero dubbi in ordine alla loro attendibilità così come era stata ricostruita nella sentenza annullata.

Le loro dichiarazioni - evocate nella sentenza annullata ed anche in quella di primo grado solo - contengono elementi significativi a riprova del fatto che i pagamenti non si sono mai interrotti neppure quando Dell'Utri era andato a lavorare per Rapisarda. Calogero Ganci, uomo d'onore della famiglia della Noce, all'udienza del 9 gennaio 1998, ha riferito circostanze apprese dal padre Raffaele, capo della suddettafamiglia, relative ai pagamenti effettuati da Berlusconi a "cosa nostra".

Il collaboratore, dopo aver parlato dei pagamenti effettuati da Dell'Utri a Stefano Bontate, ha proseguito nel suo racconto riferendo che dopo la morte di quest'ultimo i pagamenti non si erano interrotti, ma erano stati effettuati ai Pullarà, Ignazio e Giovan Battista, che erano divenuti (prima Giovan Battista e, dopo il suo arresto, Ignazio) reggenti del mandamento di Santa Maria di Gesù ed avevano ereditato i rapporti intrattenuti da Stefano Bontate e Mimmo Teresi (Ganci :"Cinà quando fu contattato da Dell'Utri (1984-1985: n.d.r.) aveva avuto rapporti con il mandante della Guadagna, quindi io mi riferisco a Stefano Bontate, Mimmo Teresi. Poi dopo la morte di queste persone questi rapporti li ha intrattenuti con i Pullarà, Pullarà Giovanni e Pullarà Ignazio, questo le posso dire").

Ciò era avvenuto fino al 1984-1985 allorchè Cinà era stato chiamato da Dell'Utri che si era lamentato perché si sentiva "tartassato " dai Pullarà (dei pagamenti successivi al 1982 si parlerà in seguito nel paragrafo relativo all'elemento soggettivo sotteso a tali pagamenti) Le dichiarazioni di Ganci hanno dunque messo in evidenza che i pagamenti da parte dell'imprenditore milanese non si erano interrotti nel periodo in cui Dell 'Utri era andato a lavorare da Rapisarda. Il collaborante ha indicato una chiara successione nella gestione di tali pagamenti da parte di Dell'Utri ( Bontate-Pullarà) che lascia intuire che i termini del patto contrattuale erano rimasti i medesimi e che in seguito alla morte "dei mandanti della Guadagna", cioè di Bontate e Teresi, erano cambiati solo i percettori delle somme che erano divenuti i Pullarà e ciò senza soluzione di continuità.

Ha parlato dell'interesse mostrato da Dell'Utri per la situazione delle antenne televisive, ma lo ha riferito al 1984-1985, periodo successivo a quello in esame. Dalle sue dichiarazioni è emersa con tutta evidenza che Dell 'Utri, anche nel periodo in esame in cui aveva lasciato professionalmente Berlusconi, aveva continuato a mediare tra gli interessi di cosa nostra e 'imprenditore milanese, intrattendo rapporti non più con Bontate, ma con i Pullarà.

Del resto non vi era alcuna ragione per la quale gli esponenti mafiosi non si rivolgessero a lui visto che Dell'Utri non aveva mai mostrato alcun atteggiamento che lasciasse presumere la sua volontà di interrompere i contatti con coloro che avevano con lui siglato il patto del 1974, ponendo fine alla situazione antigiuridica che lui stesso aveva contribuito a creare. Con tali soggetti - come è stato già messo in evidenza - aveva continuato ad interagire mantenendo identico atteggiamento di cordialità e soprattutto di progettualità. Ma vi è di più. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Le lamentele di Dell’Utri per i Pullarà che “tartassano” Silvio Berlusconi. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 25 novembre 2023

La gestione dei Pullarà era, infatti, piuttosto fuori dalle regole di "cosa nostra" (Riina infatti li sostituirà con Cinà) ed era collegata a pretese economiche che, se da un lato avevano come corrispettivo la protezione dell'imprenditore milanese, dall'altro servivano al raggiungimento di loro interessi personali ( a detta di Ganci i Pullarà intrattenevano rapporti con Dell'Utri ''per conto di una ditta milanese per cose di spettacolo")

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Il fatto che Dell'Utri nel 1984 si sia lamentato con Cinà per il comportamento assunto dai Pullarà che "tartassavano" Berlusconi (la decisione di Riina di estromettere i Pullarà dai rapporti con Dell'Utri sarà oggetto del paragrafo successivo riguardante il periodo 1983-1992) conferma che tali richieste erano state state incalzanti e vessatorie e che dunque non si erano mai arrestate. Il termine "tartassamento" indica proprio l'incalzare di richieste vessatorie mai interrotte e protratte nel tempo, che mettono a dura prova il destinatario.

Né può esprimersi alcun dubbio sulla legittimazione dei Pullarà a ricevere i pagamenti, considerato che costoro avevano iniziato la pressione sull'imprenditore addirittura prima della morte di Bontate. Deve a tal proposito rammentarsi che Siino, allorchè era m compagnia dello stesso Bontate, aveva sentito quest'ultimo confidargli che per la protezione accordata ai Berlusconi, i Pullarà lo stavano pressando oltre misura al punto di sradicarlo, togliergli le radici vitali ( gli stavano "tirando u radicuni").

La gestione dei Pullarà era, infatti, piuttosto fuori dalle regole di "cosa nostra" (Riina infatti li sostituirà con Cinà) ed era collegata a pretese economiche che, se da un lato avevano come corrispettivo la protezione dell'imprenditore milanese, dall'altro servivano al raggiungimento di loro interessi personali (a detta di Ganci i Pullarà intrattenevano rapporti con Dell'Utri ''per conto di una ditta milanese per cose di spettacolo").

Il fatto che i pagamenti a "cosa nostra" per la protezione di Berlusconi erano proseguiti senza interruzione e che Dell'Utri non aveva voluto interrompere il suo rapporto con gli esponenti mafiosi che ricevevano tali pagamenti e ciò anche nel momento in cui si era allontanato per andare a lavorare da Rapisarda, è emerso anche dalla dichiarazioni di Francesco Paolo Anzelmo uomo d'onore dal 1980, appartenente alla stessa famiglia mafiosa della Noce alla quale apparteneva il Ganci.

Alla fine del 1986, a seguito dell'arresto di Raffaele Ganci, Anzelmo era divenuto reggente del mandamento insieme all'altro figlio di Ganci, Domenico ("Mimmo''). Anche Anzelmo ha riferito di avere saputo da Raffaele Ganci che Cinà riscuoteva i soldi da Dell 'Utri e che quest'ultimo aveva intrattenuto dapprima rapporti con Stefano Bontate e in seguito dopo la morte di quest'ultimo, con i Pullarà (Anzelmo: "ho saputo da Mimmo Ganci .. , da Ganci Raffaele che lui si interessava a riscuotere dei soldi da Marcello Dell'Utri e che questi in passato aveva intrattenuto rapporti non meglio definiti con Bontate e Teresi, ripresi, dopo la morte di costoro, da Ignazio Pullarà. Questo so. So che erano stati vicini diciamo.

Che si conoscevano, che si frequentavano, per quali rapporti non lo so''). Anche il collaborante aveva saputo che Dell 'Utri in seguito si era lamentato con Cinà in quanto si sentiva tartassato da Ignazio Pullarà, uomo d'onore che aveva sostituito Bontate nella reggenza dellafamiglia di Santa Maria di Gesù.

(Difensore: "senta lei a domanda del Pubblico Ministero, ha parlato di rapporti con Bontate e Teresi. Mi vuole spiegare a quali anni lei si riferisce?"; Anzelmo:" Evidentemente prima dell'"81 quando poi Stefano Bontatefu ucciso. A me lo raccontò questo, Ganci Raffaele nel contesto di queste lamentele che portava Tanino Cinà''). Anzelmo non aveva saputo riferire, tuttavia, i motivi per i quali Dell'Utri si sentiva "tartassato " da Pullarà, ma evocando detto termine aveva confermato che l'imputato, anche dopo la morte di Bontate e durante la gestione dei Pullarà, gestiva il patto di protezione di Berlusconi. In relazione al periodo in esame hanno assunto particolare rilievo le dichiarazioni rese da Antonino Galliano, uomo d'onore "riservato", appartenente dal 1986 alla famiglia della Noce e nipote di Raffaele Ganci.

All'udienza del 19 gennaio 1998 Galliano ha ricostruito con precisione i pagamenti effettuati da Berlusconi fin dall'inizio, riferendo che subito dopo il primo incontro del 1974 i soldi versati da Berlusconi a "cosa nostra" erano consegnati a Gaetano Cinà che si recava presso lo studio di Dell 'Utri per riceverli. Cinà li consegnava a Stefano Bontate che li teneva per la propria famiglia: la somma era pari a 50 milioni di lire in due soluzioni.

Tutto ciò era avvenuto senza soluzione di continuità fino alla morte di Bontate (1981) ( Galliano: "Sin dal primo incontro Berlusconi decide di fare questo regalo alla mafia palermitana; P.M.: "Ho capito Questa somma per quello che lei ha appreso dal Cinà, da Gaetano Cinà veniva consegnata materialmente da chi a chi?"; Galliano:" .. cioè veniva consegnata prima allo Stefano Bontate. Poi dopo la guerra di mafia ... " (...) P.M.: "Materialmente questi soldi venivano ritirati per conto di cosa nostra da chi?" Galliano: "Da Gaetano Cinà nello studio di Marcello Dell'Utri"; P.M.: .. e si trattava, lei ha detto di 50 milioni all'anno in due soluzioni "; Galliano:"si"; P.M." venticinque l'uno"; Galliano:" Esatto") Dopo la morte di Stefano Bontate il denaro veniva consegnato da Dell 'Utri a Cinà che lo dava a Pippo Di Napoli.

Quest'ultimo lo faceva avere, tramite Pippo Contorno uomo d'onore della stessa famiglia, ad uno dei Pullarà che all'epoca era divenuto uno dei rappresentanti della famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù (P.m: "poi quando la guerra di mafia viene ucciso Stefano Bontate e allora (..) questa dazione continua sempre da Dell'Utri a Cina ? "; Galliano:" Si"; P.M. : "e Cinà a chi li porta?": Galliano:" Li porta a Pippo Di Napoli che a sua volta Pippo Di Napoli li girava ad un uomo d'onore della famiglia di Santa Maria di Gesù che li portava al .. in quel periodo a Pullarà al rappresentante della famiglia'').

Le considerazioni fin qui svolte consentono di affermare - sulla base delle dichiarazioni dei collaboratori Ganci , Anzelmo e Galliano, considerati attendibili dalla Corte di Cassazione, sul rilievo che si riscontrassero reciprocamente - che nel periodo compreso tra il 1978 ed il 1982 allorchè l'imputato aveva interrotto i rapporti professionali con Berlusconi per essere assunto alle dipendenze di Rapisarda, non vi è stata alcuna interruzione del pagamenti che anzi erano continuati senza soluzione di continuità con le stesse modalità che erano state contemplate nel patto originario: i soldi dunque, tramite Cinà, al quale Dell 'Utri li consegnava pervenivano a Stefano Bontate.

La morte di Stefano Bontate aveva determinato una successione dei rapporti facenti capo al reggente dellafamiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù al quale erano subentrati i Pullarà, che Dell 'Utri aveva riconosciuto come sua controparte e come successori di Bontate e Teresi nel patto concluso nel 1974. Orbene, rammentando ancora una volta che Dell'Utri - che quel patto aveva concluso - non ha mai mostrato alcun atteggiamento di distacco dall'associazione avendo mantenuto negli anni in cui s1 era allontanato dall'area berlusconiana, contatti continui con gli stessi soggetti con i quali il patto di protezione era stato concluso e che i pagamenti erano proseguiti senza soluzione di continuità da Berlusconi a "cosa nostra" senza che si sia registrato alcuna modifica nella "causa" del patto, deve concludersi affermando che il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso dunque è rimasto configurato sotto il piano obiettivo e materiale e anche soggettivo, manifestando la sua natura permanente.

In relazione all'elemento soggettivo deve rilevarsi che Dell'Utri infatti con la sua immutata condotta aveva mantenuto lo stesso elemento psicologico del reato, sapendo e volendo che "cosa nostra" rafforzasse il suo potere economico grazie alla sua intermediazione con l'imprenditore Berlusconi che aveva sempre continuato a pagare.

La continuità dei rapporti con " cosa nostra" e la medesima connotazione che detti rapporti avevano mantenuto, supportata dagli elementi probatori concreti ed inconfutabili già esposti nel periodo in esame è del resto coerente e logica con il dato definitivamente accertato della sussistenza dei pagamenti avvenuti "negli anni '80 e poco oltre" fino al 1992, sulla cui realtà oggettiva non è richiesta alcuna indagine atteso che la Corte di Cassazione ha demandato a questo Collegio, quale giudice di rinvio, unicamente "la questione del dolo" che avrebbe assistito la suddetta fase dei pagamenti. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Muoiono i boss storici e cambiano gli “equilibri” con Berlusconi. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 26 novembre 2023

Il mutamento sostanziale degli equilibri esistenti rispetto a quelli che erano stati garantiti con l'accordo del 1974 tra Berlusconi con l'intermediazione di Dell'Utri (e di Cinà) e "cosa nostra" che aveva a capo i boss mafiosi Bontate e Teresi. Dopo la morte di costoro, vi era stato l'avvento della reggenza stragista e caratterizzata da una cifra criminale più alta di Salvatore Riina

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Dopo avere chiarito che i pagamenti di Berlusconi a "cosa nostra" si erano protratti senza soluzione di continuità anche nel periodo in cui Dell'Utri si era allontanato dall'area imprenditoriale berlusconiana per andare a lavorare da Rapisarda, deve adesso affrontarsi il problema indicato dalla Cassazione come "la questione del dolo" nei pagamenti successivi al suddetto periodo fino al 1992.

La Corte, invero, seppur ritenendo che la motivazione del giudice di merito era stata rispettosa dei parametri normativi sia in ordine all'affermazione della effettività della protrazione dei pagamenti "negli anni '80 e poco oltre" da parte di Dell'Utri sulla base della nota causale del patto di protezione con la mafia, sia sul tema dell'attendibilità dei collaboratori di giustizia, ha affermato che le stesse fonti di prova che avevano consentito di pervenire alla suddetta conclusione, coniugate ad eventi oggettivi, quali ad esempio gli attentati subiti da Berlusconi nell'arco temporale in esame avevano evidenziato "elementi di una certa torsione o avvitamento dei rapporti tra le parti interessate all'interno dei quali quei pagamenti avrebbero dovuti essere reinterpretati".

Detti "eventi oggettivi" individuati dalla Suprema Corte, hanno riguardato aspetti problematici collegati sia ad atteggiamenti di Dell'Utri verso "cosa nostra" che la Suprema Corte ha definito "riluttanti" che ad attività intimidatorie poste in essere nei confronti delle proprietà di Berlusconi , eventi che apparentemente potrebbero sembrare contrapposti agli elementi probatori acquisiti in relazione alla condotta di Dell'Utri che negli anni '80 si era comunque risolta in un arricchimento di "cosa nostra".

L'esame di tali eventi demandato dalla Cassazione a questa Corte è necessario al fine di affermare o escludere la persistenza dell'elemento soggettivo del dolo diretto che - così come è stato sostenuto la Suprema Corte - non può ritenersi acquisita misconoscendo o negando, così come era avvenuto nella sentenza annullata, "la valenza di emergenze che si connotano segni di una possibile caduta della precedente unitarietà degli intenti".

Ove, all'esito di detto esame, non fosse possibile individuare l'elemento soggettivo necessario del dolo diretto, si andrebbe incontro ad un delimitazione cronologica del reato permanente al 1982.

Gli "eventi oggettivi" individuati dalla Suprema Corte che devono essere esaminati da questo giudice di rinvio al fine di individuare o di escludere una diversa interpretazione dei rapporti che esistevano tra le parti interessate possono essere riassunti secondo i profili che seguono.

In primo luogo viene in evidenza l'attentato di via Rovani del novembre del 1986 subito da Berlusconi che, secondo la Corte di Cassazione, non poteva essere spiegato, così come aveva fatto la Corte d'Appello, come una prassi tenuta dalla consorteria mafiosa per non allentare la tensione con la propria vittima. Secondo i giudici di legittimità, detto costrutto era del tutto irrazionale atteso che non sarebbe stato spiegato come una vittima potesse essere contemporaneamente considerata concorrente esterno nella associazione che aveva messo in atto dette pressioni, anche contro di essa.

Era stato inoltre considerato l'atteggiamento scostante assunto da Dell'Utri nei confronti di Cinà in relazione al quale Antonino Galliano aveva riferito di un incontro avvenuto nel 1986 tra esponenti mafiosi e del fatto che, nel corso di tale incontro Cinà si era lamentato di detto atteggiamento assunto da Dell'Utri nei suoi confronti ed aveva comunicato che non voleva più recarsi a Milano per riscuotere le somme dall'imputato. Ed ancora la conversazione intercorsa il 24.12.1986 tra Alberto Dell'Utri e Cinà nel corso della quale quest'ultimo aveva descritto al suo interlocutore l'atteggiamento assunto nei suoi confronti da Marcello Dell 'Utri che lo faceva aspettare o che spariva per non incontrarlo.

Inoltre la risposta del Riina che - informato di tale atteggiamento assunto da Dell'Utri - aveva posto in essere azioni intimidatorie nel 1987 sì da ottenere da un lato la riconsiderazione del Cinà presso Dell'Utri e dall'altro l'imposizione del doppio della somma versata in cambio della protezione. Sono state indicate poi le dichiarazioni di Ganci Calogero, riferite al 1984-1985 che aveva riferito delle lamentale fatte da Dell'Utri a Cinà in guanto si sentiva tartassato dai fratelli Pullarà, uno dei quali era reggente della famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù e dopo la morte di Bontate aveva iniziato a riscuotere le somme da Dell'Utri per poi essere rimosso dall'incarico dallo stesso Riina che lo aveva sostituito con Cinà.

Devono poi essere considerati gli attentati di matrice mafiosa ai magazzini Standa di Catania appartenenti alla Fininvest che la Corte d'Appello aveva svalutato nell'ottica di provare un interessamento di Dell'Utri per comporre la questione sottostante con "cosa nostra" e che secondo i giudici di legittimità, dovevano essere valutati "nell'ottica della tesi difensiva del potere essi rappresentare o meno l'espressione di un rapporto tra Berlusconi e la mafia non più regolato da un reciproco interesse e di riflesso quale causa o quale effetto - poco importa - di un rapporto di Dell'Utri con cosa nostra comunque non più convergente nel perseguimento di comuni interessi". Infine il mutamento sostanziale degli equilibri esistenti rispetto a quelli che erano stati garantiti l'accordo del 197 4 tra Berlusconi con l'intermediazione di Dell'Utri (e di Cinà) e "cosa nostra" che aveva a capo i boss mafiosi Bontate e Teresi.

Dopo la morte di costoro, vi era stato l'avvento della reggenza stragista e caratterizzata da una cifra criminale più alta di Salvatore Riina che aveva eliminato Bontate (ucciso) e Teresi (scomparso con il metodo della lupara bianca) nel 1981. Orbene, reputa il Collegio che al fine di esaminare ed interpretare gli elementi probatori indicati dalla Corte di Cassazione apparentemente contrapposti ai pagamenti che comunque erano stati fatti da Berlusconi a "cosa nostra", sia necessario, prima di valutare la permanenza dell'elemento psicologico, descrivere le modalità con i quali tali pagamenti sono stati effettuati "negli anni '80 e poco oltre", fino al 1992.

Tale descrizione, apparentemente superflua, (va rammentato che la Suprema Corte ha demandato a questo giudice di rinvio solo la valutazione dell'elemento soggettivo del dolo), appare invece necessaria al fine di verificare un dato di particolare significato e cioè se dal raffronto tra le modalità di pagamento nel periodo in esame (1983-1992) con quelle già sperimentate in epoca precedente (1974-1977) (ed in ordine alle quali era stata acclarata dalla Suprema Corte la responsabilità penale di Dell'Utri per il ruolo di mediatore che aveva svolto tra gli interessi di Berlusconi a ricevere una generale protezione e quelli di "cosa nostra" che assicurava la richiesta protezione ricevendo in cambio cospicue somme di denaro dall'imprenditore), era possibile registrare una modifica rilevante di tali modalità e della condotta delle parti interessate. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

I ricordi di Calogero Ganci e le confidenze del padre. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 27 novembre 2023

Calogero Ganci, uomo d'onore della famiglia della Noce, ha riferito circostanze apprese dal padre Raffaele. In particolare il collaboratore ha ricordato che il padre gli aveva parlato del fatto che Dell'Utri nel 1984-1985 si era rivolto a Cinà...

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Per le modalità di pagamento nel periodo successivo alla morte di Bontate vengono in rilievo essenzialmente le dichiarazioni dei già citati collaboranti Calogero Ganci, Francesco Paolo Anzelmo e Antonino Galliano, tutti appartenenti alla famiglia mafiosa della Noce a capo della quale vi era Raffaele Ganci ed in ordine ai quali, come è stato già rilevato, la Suprema Corte ha ritenuto che non sussistessero dubbi in ordine alla loro attendibilità così come era stata ricostruita nella sentenza annullata. Si è trattato di collaboratori "tutti uomini d'onore i quali, in ragione di tale loro posizione soggettiva, avevano avuto modo di apprendere, ora dalla voce di Cinà (Di Carlo e Galliano) ora dalla voce del reggente Biondino (Ferrante) fatti attinenti alla vita del sodalizio, in parte sovrapponibili ed in parte strettamente concatenati" (pag. 107).

Preliminarmente deve rilevarsi che il nucleo essenziale delle dichiarazioni è stato ritenuto dalla Corte d'Appello - con motivazioni che la Suprema Corte ha condiviso - quello della consegna di denaro da parte dell'imprenditore milanese, tramite Dell 'Utri, a "cosa nostra" per l'ampia protezione che quest'ultima assicurava a Berlusconi. Tanto premesso, e prendendo le mosse dalle dichiarazioni di Calogero Ganci, uomo d'onore della famiglia della Noce rese all'udienza del 9 gennaio 1998 deve rilevarsi che quest'ultimo ha riferito circostanze apprese dal padre Raffaele. In particolare il collaboratore ha ricordato che il padre gli aveva parlato del fatto che Dell 'Utri nel 1984-1985 si era rivolto a Cinà "per aggiustare la situazione delle antenne televisive". Dell'Utri, cioè, voleva "mettersi a posto con cosa nostra al fine di ottenere, in cambio del versamento di una somma di denaro, protezione per le suddette antenne in Sicilia".

In quella stessa occasione Dell'Utri si era lamentato con il Cinà per essere stato "tartassato" dai fratelli Pullarà, come già detto, uomini d'onore della famiglia di Santa Maria di Gesù ai quali era stata affidata da Salvatore Riina la reggenza del mandamento dopo la morte di Bontate e Teresi.

È stato già messo m evidenza che i Pullarà avevano avanzato pretese nei confronti dell'imprenditore milanese, al quale garantivano protezione, anche prima della morte di Stefano Bontate, per vicende personali collegate a forniture di materiali per lo spettacolo. Siino aveva ricordato che Bontate - proprio per sottolineare che la protezione dei Pullarà stava costando un caro prezzo a Berlusconi - aveva detto che i Pullarà "ci (a Berlusconi: n.d.r.) stanno tirando u radicuni" (il significato della frase è stato già spiegato).

Prescindendo da detti rapporti di tipo personale che avevano con Berlusconi, ciò che è emerso è che, dopo la morte di Stefano Bontate, i Pullarà avevano ereditato i rapporti che Dell'Utri aveva intrattenuto fino a quel momento con Bontate, ucciso nella guerra di mafia nel 1981. Come è stato messo in rilievo nel precedente paragrafo, Ganci ha infatti dichiarato proprio detta circostanza e cioè che, dopo la morte di Bontate e di Teresi, Dell'Utri aveva continuato i rapporti, che lui prima aveva intrattenuto con i due boss mafiosi deceduti, con i fratelli Pullarà (Ganci: "Guardi io mi ricordo che quando fu contattato dal Dell'Utri venne a dire al Di Napoli che il Dell'Utri aveva avuto rapporti con il mandante della Guadagna, quindi io mi riferisco a Stefano Bontate, Mimmo Teresi, poi dopo la morte di queste persone, io questi rapporti li ha intrattenuti con i Pullarà. Pullarà Giovanni e Pullarà Ignazio, questo le posso dire'').

Già da questo frammento della dichiarazione è emerso, con tutta evidenza, che il mutamento dei vertici di "cosa nostra", non aveva modificato in alcun modo l'impegno finanziario del gruppo Berlusconi nei confronti dell'organizzazione criminale mafiosa e che dunque i pagamenti erano sempre proseguiti. Se così non fosse stato Dell'Utri, lamentandosi con Cinà del comportamento dei Pullarà, non avrebbe detto che si sentiva "tartassato" termine - come già si è detto - che presuppone un'azione continuata nel tempo che aveva creato in lui un vero e proprio malessere (P.M.: senta in relazione al malessere di cui lei ha parlato io volevo sapere per quale motivo vi era questo malessere da che cosa nasceva questo malessere, se lei lo sa chiaramente, tra il Pullarà ed il Dell 'Utri, e se può indicarci per quale motivo la sostituzione del Pullarà con il Cinà poteva essere vantaggiosa, poteva essere vantaggiosa da Riina e dallo stesso Dell'Utri"; Ganci: "E allora, il Dell'Utri con il Cinà si era confidato per dire che si sentiva tartassato da richieste forse di denaro oppure di .... cioè di pressione di forniture queste cose no, si era rivolto al Cinà perché erano amici si conoscevano ( ... )".

Dell'Utri dunque non aveva chiamato l'amico Cinà perché, stanco delle pressioni subite dai Pullarà, aveva deciso di non pagare più, ma lo aveva chiamato, da un lato per fare presente che i Pullarà stavano esagerando nelle richieste estorsive; dall'altro per chiedergli protezione per l'attività imprenditoriale collegata alle emittenti televisive. (Ganci: " .. . Dell 'Utri si riferì, contattò Cinà, appunto perché con i Pullarà non ci voleva avere a che fare più, perché si sentiva tartassato, qualcosa del genere "(. .) Avv. "E lei sa se in seguito alla estromissione dei Pullarà e l'intervento di Cinà il Dell'Utri si era lamentato mai per queste richieste di soldi che praticavate?" Ganci: "che io sappia, no").

Tale lamentela era stata comunicata da Cinà a Pippo Di Napoli che a sua volta ne aveva parlato con Raffaele Ganci e quest'ultimo con Totò Riina. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Totò Riina e il desiderio di avvicinare Bettino Craxi attraverso Berlusconi. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 28 novembre 2023

Riina che riceveva i soldi da Dell'Utri, tramite Cinà e Raffaele Ganci, non aveva fatto mistero del fatto che l'interesse che lo spingeva a curare questo canale di approvvigionamento era anche quello di natura politica. Dell'Utri, per il boss mafioso, rappresentava un contatto determinante con Silvio Berlusconi e dunque - a suo avviso - con l'onorevole Bettino Craxi

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Riina, risentito per non essere stato informato dei rapporti dei Pullarà con l'impresa milanese e preoccupato di salvaguardare una sì rilevante fonte di rafforzamento per l'associazione mafiosa, aveva estromesso i Pullarà dalla gestione dei rapporti con Dell'Utri, ed aveva delegato la gestione di tali rapporti con l'imputato solo a Gaetano Cinà di cui Dell 'Utri si fidava da anni.

Cinà - secondo quanto riferito a Calogero Ganci dal padre - s1 recava a Milano un paio di volte all'anno per ricevere da Marcello Dell 'Utri una somma che tuttavia Ganci non sapeva precisare. Tale somma veniva consegnata da Cinà a Pippo Di Napoli che a sua volta la dava a Raffaele Ganci che la faceva pervenire a Riina.

Reputa il Collegio che già da dette dichiarazioni è emerso che i pagamenti erano continuati senza soluzione di continuità e che l'atteggiamento di Dell'Utri nei confronti di "cosa nostra" non era in alcun modo mutato, avendo l'imputato continuato ad assicurare i pagamenti a "cosa nostra" nella assoluta consapevolezza di contribuire in modo rilevante, alla realizzazione del programma criminoso del sodalizio mafioso, rivolgendosi ove necessario, come aveva sempre fatto, all'amico Cinà sia per la messa a posto delle antenne televisive, sia per lamentarsi dei Pullarà.

Riina che riceveva i soldi da Dell'Utri, tramite Cinà e Raffaele Ganci, non aveva fatto mistero del fatto che l'interesse che lo spingeva a curare questo canale di approvvigionamento era anche quello di natura politica. Dell'Utri, per il boss mafioso, rappresentava un contatto determinante con Silvio Berlusconi e dunque - a suo avviso - con l'onorevole Bettino Craxi. Il fatto che Dell'Utri avesse continuato a versare somme a "cosa nostra" per la protezione di Berlusconi è emerso anche dalle dichiarazioni di Francesco Paolo Anzelmo, uomo d'onore dal 1980, appartenente alla stessa famiglia mafiosa della Noce alla quale apparteneva il Ganci e della quale - alla fine del 1986, a seguito dell'arresto di Ganci Raffaele - era divenuto reggente insieme all'altro figlio del Ganci, Ganci Domenico ("Mimmo"). 

Anche Anzelmo era venuto a conoscenza delle lamentele di Dell'Utri nei confronti dell'atteggiamento assunto dai Pullarà nei suoi confronti; aveva infatti saputo, tra il 1985 ed il 1986 da Raffaele Ganci, che Cinà si era interessato a riscuotere i soldi da Dell'Utri e che aveva riferito a Di Napoli che Dell 'Utri si era lamentato con lui in quanto si sentiva tartassato da Ignazio Pullarà. Anzelmo non sapeva riferire, tuttavia, i motivi per cui il Dell 'Utri si sentiva pressato da Pullarà.

Di Napoli, ricevuta la notizia dal Cinà ne aveva parlato con Raffaele Ganci e quest'ultimo ne aveva parlato con Riina che aveva estromesso il Pullarà affidando la gestione dei rapporti solo al Cinà. Il denaro (L. 200.000.000 suddivise in due rate semestrali) veniva ritirato da Cinà che si recava a Milano da Dell 'Utri; Cinà a sua volta lo consegnava al Di Napoli; quest'ultimo lo dava a Ganci Raffaele che lo faceva pervenire a Riina che li depositava nella " cassa comune".

Reputa il Collegio che è sicuramente significativo un frammento della dichiarazione in cui Anzelmo ha sottolineato quale era stato il motivo del pagamento della somma di denaro con ciò confermando che, malgrado fossero mutate le parti contrattuali mafiose ( Bontade e Teresi), non vi era stata alcuna modifica del patto stipulato anni prima da Berlusconi e Dell'Utri e "cosa nostra".

Anzelmo, invero, ha dichiarato che Dell 'Utri pagava per la "tranquillità", per impedire che potesse succedere qualcosa a Berlusconi (Anzelmo: "i soldi Dell'Utri diciamo li dava per questa situazione per tranquillità"; Presidente: "Signor Anzelmo, mi scusi, quando lei parla di tranquillità a cosa allude?"; Anzelmo: ".... ( .... ) che non ci succede niente, che non succedeva niente'').

Il collaboratore ha precisato che la protezione serviva per gli impianti televisivi di Canale 5 (Anzelmo; "È a titolo pizzo che ce lo richiedeva diciamo. Questa situazione l'ha gestita Tanino Cina' e la chiuse con duecento milioni l'anno"; Difensore: " Ma per quale attività del Dell 'Utri ? Erano somme del Dell 'Utri o Dell 'Utri? "; ... Anzelmo: " Ma quale somme del Dell'Utri. Erano somme dì Canale 5 questi per i ripetitori che c'erano in Sicilia. Quali somme del Dell'Utri. Questa era tutta una situazione che veniva di là").

Il collaborante - così come aveva fatto Calogero Ganci - ha riferito che Riina, tuttavia, perseguiva anche un altro scopo ( Anzelmo: "ma le ripeto che l'interesse di Riina non era di questi soldi. Aveva altri scopi''), quello di avvicinare l'onorevole Craxi al quale il Berlusconi era legato. Riina infatti per le elezioni politiche del 1987 aveva ordinato di votare il PSI. Anche se Riina aveva estromesso Pullarà dal contatto diretto con Dell 'Utri, e ciò per non compromettere il rapporto, aveva tuttavia versato ai Pullarà la somma di 50.000.000 di lire ( Anzelmo: "ma guardi se io le dico che ... che poi tra l'altro Totò Riina incassando quei duecento milioni ci mandava i cinquanta milioni a Ignazio Pullarà ''), per far loro capire che non era stata una questione di soldi. In relazione al periodo in esame, hanno assunto particolare rilievo le dichiarazioni rese da Antonino Galliano che ha dichiarato di avere incontrato, alla fine del 1986, Gaetano Cinà presso la villa di Giovanni Citarda (uomo d'onore della famiglia di Malaspina) dove Pippo Di Napoli trascorreva la propria latitanza.

Il collaboratore ha ricordato di avere accompagnato Mimmo Ganci, che all'epoca sostituiva il padre Raffaele nella "conduzione del mandamento della Noce" e che Riina aveva " mandato a chiamare". Presso la villa vi erano Pippo Di Napoli e Gaetano Cinà. Era stata quella l'occasione in cui Cinà si era lamentato di non volere più andare da Dell 'Utri a ritirare i soldi perché quest'ultimo aveva assunto nei suoi confronti un atteggiamento distaccato, facendolo attendere o lasciando la busta con i soldi al suo segretario.

Cinà aveva registrato questo mutamento di atteggiamento dopo la morte di Bontade e quindi dopo 1'81 '-82' ( Galliano."Succede che Dell'Utri, diciamo, dopo questi omicidi. cioè dopo 1'81 ', 82' incomincia ad avere l'atteggiamento ritroso nei riguardi del ... del Cinà. E questo, diciamo, era una doglianza del Cinà dice non mi tratta più come una volta, non mi riceve più come una volta e quindi io non ci voglio andare più").

Mimmo Ganci aveva ritenuto la questione degna di rilievo in quanto, tramite Berlusconi, si poteva entrare in contatto con l'onorevole Craxi ed aveva dunque deciso di informare Riina. Galliano ha precisato di avere saputo in un secondo tempo che Raffaele Ganci era ben consapevole del fatto che Dell'Utri consegnava a Cinà il denaro. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Le minacce telefoniche e la bomba a Catania “firmata” Nitto Santapaola. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 29 novembre 2023

Riina aveva ordinato che la telefonata e la lettera provenissero da Catania in quanto in quel periodo la mafia catanese di Nitto Santapaola aveva effettuato un attentato a Berlusconi posizionando un esplosivo in una "proprietà" dell'imprenditore. Riina - dopo averne parlato con il boss catanese - aveva fatto credere a Berlusconi che ad agire fossero stati i catanesi

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Ganci aveva parlato delle doglianze riferite da Cinà con Riina e quest'ultimo aveva avuto una reazione violenta, sulla quale appare necessario soffermarsi atteso che dai passaggi che la descrivono, possono trarsi rilevanti considerazioni (che costituiranno, tuttavia oggetto di specifica trattazione) sulla matrice degli attentati posti in essere ai danni di Berlusconi ai magazzini Standa della provincia di Catania.

Riina, che non aveva avuto mai rapporti diretti con Marcello Dell'Utri, a differenza di quanto era accaduto in precedenza tra quest'ultimo e Bontate e che considerava l'imputato solo un tramite con Berlusconi che per lui rappresentava solo una disponibile fonte di guadagno ed anche un modo per tenere vivo il legame con l'onorevole Craxi, aveva messo in atto due azioni ritorsive che a suo avviso avrebbero ridimensionato l'atteggiamento arrogante che Dell'Utri, secondo quanto aveva riferito Cinà, aveva assunto nei confronti di quest'ultimo, atteggiamento che secondo il boss mafioso Dell'Utri, non poteva permettersi di avere.

Aveva incaricato Mimmo Ganci di recarsi a Catania per imbucare una lettera intimidatoria indirizzata a Berlusconi e per effettuare, sempre da Catania, una telefonata di minaccia allo stesso imprenditore. Mimmo Ganci, dunque, agli inizi del 1987, si era recato a Catania in compagnia di Francesco Spina, uomo d'onore della famiglia della Noce, per imbucare una lettera intimidatoria indirizzata a Berlusconi. Dopo qualche settimana costoro erano tornati nuovamente a Catania per fare una telefonata intimidatoria diretta ad Arcore (al numero telefonico che gli aveva dato il Cinà) allo stesso Berlusconi.

Riina aveva ordinato che la telefonata e la lettera provenissero da Catania in quanto in quel periodo la mafia catanese di Nitto Santapaola aveva effettuato un attentato a Berlusconi posizionando un esplosivo in una "proprietà" dell'imprenditore. Riina - dopo averne parlato con il boss catanese - aveva fatto credere a Berlusconi che ad agire fossero stati i catanesi (Galliano: "Il Riina quando li manda a Catania, li manda a Catania per due motivi: uno perché, dice, che quando aveva parlato con ... quando Riina parla con i catanesi .. i catanesi avevano messo in quel periodo una bomba in una proprietà del Berlusconi e quindi questo fatto cadeva a fagiolo ... diciamo .. autorizza ... i catanesi autorizzano, diciamo, i palermitani a imbucare la lettera e fare la telefonata a Catania per far capire che sempre le intimidazioni provengano dalla mafia catanese'').

Mimmo Ganci aveva poi confidato a Galliano che in effetti aveva mandato la lettera e fatto la telefonata. Dopo gli atti d'intimidazione, Cinà era stato convocato "urgentemente" a Milano da Dell'Utri che gli aveva chiesto di interessarsi per risolvere la questione (Galliano: "Marcello Dell'Utri convocò nuovamente il Gaetano Cinà urgentemente a Milano e gli spiegò ... quello che era ... che avevano subito. Prima la bomba, poi la telefonata, e cioè la lettera .. poi la telefonata e se si poteva interessare nuovamente come la prima volta''). Tornato a Palermo, Cinà aveva riferito la richiesta di Dell'Utri a Di Napoli, quest'ultimo ne aveva parlato con Ganci che aveva riferito il fatto a Riina. Il boss, ''per tenere i rapporti in maniera tranquilla", aveva raddoppiato la somma dovuta dal Dell'Utri ( da 50.000.000 a I 00.000.000), somma che doveva essere consegnata in due rate semestrali. Il pagamento doveva essere fatto per proteggere l'imprenditore e non per l'installazione delle antenne ("P.M.:"Quindi i cento milioni annuali non c'entravano nulla con il pizzo ... "; Galliano :"No come ho detto poco fa erano questi ... erano soltanto a fronte di un regalo diciamo per l'interessamento avuto da parte di ... prima di Stefano Bontate e poi diciamo da ... da parte di Totò Riina, diciamo''). Cinà si era dunque recato a Milano per parlare di tale decisione con Dell'Utri che dopo gli aveva riferito che Berlusconi era d'accordo per il raddoppio della somma, ma che per il pizzo delle antenne il denaro doveva essere richiesto ai responsabili delle emittenti locali. Il Galliano ha riferito che i soldi da quel momento vemvano consegnati da Dell'Utri a Cinà, quest'ultimo li consegnava a Di Napoli che li dava a Ganci, il quale su incarico di Riina ne consegnava una parte alla famiglia di Santa Maria di Gesù, e quindi ai Pullarà (e dopo all'Aglieri) mentre la restante parte era divisa in tre quote: "una alla famiglia di San Lorenzo, quindi a Salvatore Biondino che era, diciamo l'autista, diciamo di Totò Riina, una parte darla alla famiglia di Malaspina e una parte alla famiglia della Noce cioè a mio zio").

Nel 1988, Galliano aveva assistito alla consegna del denaro da Di Napoli a Ganci Raffaele allorchè quest'ultimo era uscito dal carcere. In relazione al tempo dei pagamenti, Galliano ha dichiarato che il denaro era arrivato da Dell'Utri fino al 1995 e che per le elezioni del 1987 il Riina aveva dato disposizioni di votale per il P.S.I.; il motivo per il quale vi era stata quell'indicazione di voto era legato al fatto che si sapeva che vi era stato un accordo con "esponenti nazionali del Partito Socialista" per dare un aiuto ai "carcerati", "per la mafia .. per aiutare la mafia".

Le dichiarazioni di Galliano appaiono rilevanti non solo perché hanno costituito un'ulteriore conferma dei pagamenti di denaro che da Dell'Utri transitavano nelle casse di "cosa nostra", ma perché hanno vieppiù palesato che le ragioni di detti pagamenti erano sempre costituiti dall'ampia protezione garantita a Berlusconi sia prima che dopo la morte dei boss Bontate e Teresi. Sulla consegna del denaro da Fininvest nel periodo 1989/1990 sono state esaminate le dichiarazioni di Giovan Battista Ferrante e di Salvatore Cancemi, che hanno confermato le dichiarazioni di Ganci, Galliano e Anzelmo. Ferrante, uomo d'onore dellafamiglia di San Lorenzo dal 1980, ha dichiarato di non avere mai conosciuto né Dell 'Utri né Cinà, ma di avere saputo che Raffaele Ganci consegnava somme di denaro a Biondino provenienti da Canale 5 con cadenza semestrale o forse annuale.

Lui stesso aveva assistito a qualche consegna del denaro: cinque milioni di lire, non collegati al pagamento di pizzo imposto dalla famiglia mafiosa di San Lorenzo ai ripetitori Finivest o agli uffici di Canale 5.

La consegna di denaro era avvenuta almeno dal 1988/1989, possibilmente anche in epoca precedente ed era proseguita fino al 1992. Le dichiarazioni di Ferrante coincidevano con quelle di Galliano in particolare nella parte in cui il primo collaboratore aveva affermato che Raffaele Ganci, dopo la propria scarcerazione avvenuta il 28 novembre 1988, aveva nuovamente gestito la situazione relativa ai soldi che arrivavano da Fininvest per mezzo di Dell 'Utri e di Cinà ed aveva provveduto lui stesso a dividerli tra le tre famiglie mafiose ( Noce, San Lorenzo e Malaspina) dopo avere preso i soldi per quella di Santa Maria di Gesù.

Della corresponsione di somme provenienti da Berlusconi ai fratelli Pullarà ne aveva parlato anche il collaborante Francesco Scrima, uomo d'onore della famiglia di "Porta Nuova" che aveva dichiarato nel periodo in cui era stato in carcere con Vittorio Mangano, tra il 1988 ed il 1989, quest'ultimo gli aveva manifestato il proprio risentimento per il fatto che Ignazio Pullarà, durante la sua reggenza a Santa Maria di Gesù, dunque dopo la morte di Bontate, si era appropriato del denaro proveniente da Berlusconi e che secondo Mangano spettava a lui.

Anche Salvatore Cucuzza - nel periodo di codetenzione con il Mangano che il Tribunale ha collocato temporalmente durante il maxi processo tra il febbraio 1986 ed il dicembre 1987 - aveva raccolto le confidenze dello stesso Mangano. Quest'ultimo gli aveva manifestato il suo disappunto per il fatto che, dal momento della sua detenzione ( dal 1980 in poi), non aveva più ricevuto le somme di denaro provenienti da Berlusconi (50 milioni di lire) che lui sin da epoca precedente alla morte di Bontate aveva percepito e che in seguito ( dopo la morte del Bontate) erano state date a coloro che avevano avuto la reggenza del mandamento di Santa Maria di Gesù e cioè ai fratelli Pullarà.

Salvatore Cancemi - le cui dichiarazioni sono state ritenute complessivamente già in primo grado prive di un autonoma significatività probatoria - ha confermato l'esistenza di consegne di denaro dalla Fininvest a "cosa nostra" anche in epoca successiva alla morte di Bontate e Teresi, prima attraverso i fratelli Pullarà e poi tramite Cinà. I pagamenti erano avvenuti in un periodo compreso tra il 1989- 1990 fino all'epoca delle stragi del 1992. Cancemi ha poi precisato che le somme di importo pari a 200 milioni di lire all'anno venivano consegnate a Cinà e, tramite Di Napoli, a Raffaele Ganci che le dava infine a Salvatore Riina ed ha ricordato di avere assistito alla loro divisione tra le famiglie di Santa Maria di Gesù e di Resuttana. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Un attentato contro Berlusconi “fatto con rispetto, quasi con affetto”. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 30 novembre 2023

Deve essere rilevato che Riina aveva fatto sì che le proprie azioni intimidatorie - di rilievo molto modesto rispetto all'attentato alla villa (anche questo invero non era stato di particolare gravità (Berlusconi: "fatta con molto rispetto, quasi con affetto") - creassero un turbamento in Dell'Utri per fargli cambiare atteggiamento nei confronti di Cinà e pagare una somma più alta; aveva però voluto escludere che tali azioni fossero riconducibili a lui

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Il 28 novembre 1986 - undici anni dopo l'attentato subito da Berlusconi ai danni della villa di Via Rovani - ancora ai danni di detta villa, in fase di restauro, si verificava un secondo attentato, seppur di non particolare gravità (Berlusconi: “fatta con molto rispetto, quasi con affetto”: v. conversazione intercorsa con Dell'Utri il 29.11.1986). Alle 00,12 del 29 novembre 1986, cioè subito dopo l'attentato, Silvio Berlusconi chiamava Dell'Utri e gli rappresentava che - a suo avviso - il responsabile del gesto, così come lo era stato 11 anni prima, era Vittorio Mangano. Dell'Utri, mostrando qualche perplessità (Dell'Utri: "perché non si spiega proprio spiega proprio'') diceva all'amico che non sapeva che Mangano fosse libero (''fuori'').

Il 30 novembre 1986 nel corso di una telefonata intercorsa sempre tra Berlusconi e Dell'Utri, quest'ultimo riferiva al primo di avere parlato con Cinà e che quest'ultimo aveva escluso che la responsabilità dell'attentato potesse attribuirsi a Mangano, perché era detenuto.

Dell'Utri, tranquillizzando Berlusconi, concludeva la telefonata dicendogli che gliene avrebbe parlato di persona (Dell'Utri:" "Dunque, io stamattina ho parlato con quello lì... e poi ho visto Tanino ( .. ) che è qui a Milano. Ed invece è da escludere quella ipotesi .. perché è ancora dentro. Non è fuori. ( .) . E Tanino mi ha detto che assolutamente è proprio da escludere, ma proprio categoricamente. Comunque, poi ti parlerò .... perché ..... di persona. E quindi, non c'è proprio ... guarda, veramente, nessuna, da stare tranquillissimi, eh!"; Berlusconi: "ho capito''). Dell'Utri, dunque, da un lato escludeva la possibilità che l'artefice dell'attentato potesse essere stato Vittorio Mangano; dall'altro sottolineava a Berlusconi che poteva stare tranquillissimo e che in ogni caso, al riguardo, vi era qualcosa di cui doveva parlargli di persona.

Orbene, il motivo di detta rassicurazione è collegato al fatto che l'attentato di Via Rovani è del tutto estraneo ai rapporti di Berlusconi e Dell'Utri con "cosa nostra" e non è in alcun modo collegabile a quegli elementi di "avvitamento" nei rapporti tra le parti, indicati dalla Suprema Corte.

L'attentato, infatti, non era stato commesso da Riina e ad esso non può essere attribuito alcun significato rilevante nell'indagine della sussistenza dell'elemento soggettivo del dolo nella condotta di Dell'Utri. Come è stato già evidenziato dalle dichiarazioni di Galliano è emerso invero che tale attentato era stato commesso dalla mafia catanese di Nitto Santapaola. Deve essere ricordato che alla fine del 1986 Cinà in quella riunione tenutasi presso la villa di Giovanni Ci tarda ( uomo d'onore della famiglia di Malaspina e nipote di Cinà), Galliano - dopo avere appreso delle consegne di denaro da Dell 'Utri a Cinà e da quest'ultimo dapprima a Stefano Bontate e dopo la morte di Bontate ai Pullarà - aveva sentito Gaetano Cinà, che era "molto arrabbiato", lamentarsi del fatto che Dell'Utri aveva assunto un atteggiamento "ritroso" nei suoi riguardi, comunicando che, per questo motivo, aveva deciso che non sarebbe più andato a ritirare i soldi da Dell 'Utri a Milano.

Questo atteggiamento era iniziato subito dopo la morte di Stefano Bontate "cioè quindi dopo 1'81, '82". Mimmo Ganci - intuendo che la vicenda era rilevante, (Galliano "attraverso Berlusconi potevamo arrivare a Craxi'') ne aveva parlato con Salvatore Riina. E così agli inizi del 1987 Mimmo Ganci su ordine di Riina si era recato a Catania per imbucare una lettera intimidatoria indirizzata al Berlusconi e per effettuare, sempre da Catania, una telefonata di minaccia all'imprenditore. Ganci era andato con Francesco Spina, uomo d'onore della famiglia della Noce; dopo qualche settimana erano tornati nuovamente a Catania per fare una telefonata intimidatoria diretta ad Arcore ( al numero telefonico che gli aveva dato il Cinà) allo stesso Berlusconi.

Riina aveva ordinato che la telefonata e la lettera provenissero da Catania in quanto in quel periodo la mafia catanese di Nitto Santapaola aveva effettuato un attentato a Berlusconi posizionando un esplosivo nella "proprietà "di quest'ultimo. Riina - dopo averne parlato con il boss catanese - aveva fatto credere all'imprenditore che ad agire fossero stati i catanesi. (Galliano:" Il Riina quando li manda a Catania, li manda a Catania per due motivi: uno perché, dice, che quando aveva parlato con ... quando Riina parla con i catanesi .. i catanesi avevano messo in quel periodo una bomba in una proprietà del Berlusconi e quindi questo fatto cadeva a fagiolo ... diciamo .. autorizza ... i catanesi autorizzano, diciamo, i palermitani a imbucare la lettera e fare la telefonata a Catania per far capire che sempre le intimidazioni provengano dalla mafia catanese ").

Orbene appare evidente che l'attentato alla proprietà di Berlusconi la notte del 28 novembre 1986, poco prima che Ganci si recasse a Catania per mettere in atto le azioni intimidatorie nei confronti di Berlusconi (lettere e telefonate anonime), non era stata opera dei mafiosi palermitani, ma dei catanesi che avevano messo una bomba in una proprietà di Berlusconi). Riina, che ben conosceva la matrice di detto attentato, aveva ritenuto che l'azione di intimidazione che lui aveva ordinato a Mimmo Ganci sarebbe stata ricondotta alla mafia catanese. Detta circostanza doveva essere stata riferita a Dell'Utri da Cinà allorché l'imputato lo aveva chiamato per avere notizie dell'attentato, apprendendo che non poteva essere stato Mangano perché era in galera.

Come è stato già rilevato il giorno successivo, quando Dell'Utri aveva chiamato Berlusconi escludendo categoricamente la responsabilità di Mangano, gli aveva anche detto di stare tranquillissimo e che poi gli avrebbe spiegato di persona perché il coinvolgimento di quest'ultimo era categoricamente da escludere (Dell'Utri:" e Tanino mi ha detto che assolutamente è proprio da escludere ma proprio categoricamente .. comunque poi ti parlerò ... perché .. di persona'').

Orbene appare del tutto evidente che detto attentato non può m alcun modo significativo di "avvitamento o torsione" dei rapporti tra le parti interessate, proprio perché dette parti non erano protagoniste dell'attentato. Deve essere rilevato che Riina aveva fatto sì che le proprie azioni intimidatorie e cioè le lettere e le telefonate minatorie - di rilievo molto modesto rispetto all'attentato alla villa (anche questo invero non era stato di particolare gravità (Berlusconi: "fatta con molto rispetto, quasi con affetto") - creassero un turbamento in Dell'Utri per fargli cambiare atteggiamento nei confronti di Cinà e pagare una somma più alta; aveva però voluto escludere che tali azioni fossero riconducibili a lui.

Va invero ricordato che Dell 'Utri, malgrado avesse assunto un atteggiamento "ritroso" nei confronti di Cinà, secondo quanto riferito da quest'ultimo, facendolo aspettare per consegnargli la busta con i soldi, ha sempre onorato il patto del 1974. Non può tuttavia negarsi (l'argomento sarà oggetto di un successivo paragrafo) che la successione di Riina a Stefano Bontate aveva cambiato i rapporti interpersonali tra i protagonisti del patto. Riina, uomo dalle caratteristiche totalmente diverse da Bontate, che non ha mai avuto rapporti diretti e personali con Dell'Utri e che considerava quest'ultimo solo una disponibile fonte di guadagno ed anche un modo per tenere viva la possibilità di un legame con l'onorevole Craxi (attraverso Berlusconi), non aveva tollerato l'atteggiamento arrogante di cui si era lamentato Cinà.

Orbene dopo le azioni intimidatorie, Dell'Utri aveva chiamato a Milano Cinà per riferirgli quello che era successo. Cinà era tornato in Sicilia, aveva parlato con Di Napoli che aveva convocato Mimmo Ganci il quale si era rivolto al boss Riina. Era stato allora che quest'ultimo aveva ordinato che la somma doveva essere raddoppiata e che doveva chiedersi a Dell'Utri chi doveva pagare per la "messa a posto" delle emittenti televisive.

La richiesta di raddoppio della somma era stata accettata da Berlusconi e comunicata tramite Dell 'Utri che tuttavia per le televisioni aveva risposto che dovevano rivolgersi ai titolari delle emittenti locali. Le considerazioni fin qui svolte consentono di affermare che l'attentato alla villa di via Rovani, non ha lascito trasparire alcun mutamento dei rapporti tra le parti interessate; e se vi era stato un aumento della richiesta da parte di Riina, esso era da collegarsi non già all'attentato che era stato opera dei catanesi, ma alla volontà di Riina di riequilibrare i rapporti tra Dell'Utri e Cinà e di aumentare nel 1987 la somma che l'imprenditore in ascesa versava fin dal 1974. […]. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Nessun problema, si raddoppia il “pizzo” da versare a Cosa Nostra. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani l'01 dicembre 2023

Berlusconi sia con Bontate che con il capo corleonese, ha sempre manifestato costantemente la sua personale propensione a non ricorrere a mezzi ufficiali di tutela, contando sempre sulla mediazione di Dell'Utri. Quest'ultimo, nel tempo, ha pagato all'amico Cinà, ai Pullarà (dai quali si era sentito vessato e "tartassato") e poi di nuovo a Cinà, accordando a Riina l'aumento della posta cosi come gli era stato richiesto

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Il discorso riferito da Cinà, che aveva ingigantito i toni della questione e che aveva detto addirittura che non voleva più ritirare i soldi da Dell 'Utri, aveva preoccupato Riina che non aveva tollerato un simile gesto da parte di Dell'Utri e che temeva che i rapporti tra quest'ultimo e Cinà potessero interrompersi. Riina, come è stato più volte rilevato, considerava il rapporto con Dell'Utri di massima importanza non solo per i guadagni cospicui che da esso derivavano, ma anche in quanto Dell'Utri era il tramite con Berlusconi che avrebbe consentito a Riina di arrivare a Bettino Craxi.

E così, di fronte ad un atteggiamento che a lui era sicuramente sembrato di arroganza nei confronti non tanto di Cinà, ma di "cosa nostra", aveva deciso di rispondere mandando a Catania Mimmo Ganci per inviare le lettere e fare telefonate minatorie a Berlusconi di cui si è già detto. Anche tali az1om, del tutto sproporzionate rispetto al reale atteggiamento che Dell'Utri aveva tenuto nei confronti di Cinà, non appaiono significative di un mutamento dei rapporti esistenti tra Dell'Utri e "cosa nostra".

Del resto lo stesso Riina, non aveva voluto collegare le lettere e le telefonate minatorie del 1987 a lui ed alla famiglia mafiosa che rappresentava ed aveva fatto in modo che si credesse che l'attentato, le lettere e le telefonate avevano la stessa matrice mafiosa catanese. Il gesto, tuttavia, aveva avuto i suoi effetti in quanto Dell'Utri, che non aveva rapporti diretti con Riina a differenza di quanto era avvenuto con Bontate e Teresi, aveva chiamato Cinà per risolvere la questione. La risposta di Riina era stato il raddoppio della somma che da 50 milioni di lire era divenuta 100 milioni di lire.

I rapporti tuttavia erano rimasti immutati e Dell'Utri aveva continuato a pagare fino al 1992 senza alcuna lamentela. Né al raddoppio della somma deve attribuirsi un significato di vessazione considerato che se è vero che la richiesta era seguita alle minacce ricevute da Berlusconi, è pur vero che l'entità della somma era rimasta uguale dal 1974, eppure la posizione imprenditoriale di Berlusconi era mutata ed i suoi interessi, anche in Sicilia con le emittenti private erano in continua ascesa. Dell Utri non è mai parso riluttante nei pagamenti e anche di fronte al raddoppio della richiesta non aveva opposto alcun rifiuto, chiedendo solo che per le antenne " cosa nostra" doveva rivolgersi ai titolari delle emittenti locali. [...]. 

L'AVVENTO DI SALVATORE RIINA E DEI CORLEONESI

La Corte di Cassazione, infine, ha individuato come possibile elemento di torsione dei rapporti tra Dell'Utri e "cosa nostra" il "mutamento sostanziale degli equilibri esistenti rispetto a quelli che avevano garantito l'accordo del 1974 tra Berlusconi con l'intermediazione di Dell’Utri (e di Cinà) e "cosa nostra" che aveva a capo i boss mafiosi Bontate e Teresi. ", mettendo in evidenza che l'avvento della reggenza stragista era stato caratterizzato da una cifra criminale più alta voluta da Salvatore Riina.

Deve essere messo immediatamente in evidenza che l'esame del paradigma mafioso mostra in generale una tale complessità del fenomeno, risultante dall'insieme di infiniti aspetti, che non è possibile affermare, con rigido automatismo, che al mutamento soggettivo dei vertici mafiosi consegua un sostanziale mutamento degli equilibri nella gestione degli affari di "cosa nostra".

La mafia invero non è un fenomeno congiunturale, ma strutturale e continuativo seppur nel diverso svolgimento delle attività criminali che invero interessano diversi campi del vivere sociale. Fintanto che l'azione criminale sul territorio persiste nel districarsi tra crimine, accumulazione, arricchimento, gestione di potere, intimidazione e contestuale ricerca di mediazione, non può che affermarsi che si è di fronte all'agire mafioso tipico che può tuttavia estrinsecarsi in un intreccio di diverse attività.

Tanto premesso, reputa il Collegio che non può in alcun modo affermarsi - per le ragioni che già hanno costituito oggetto di esame - che la morte di Stefano Bontate e Girolamo Teresi ed il sopravvento di Totò Riina e dei corleonesi abbia mutato gli equilibri che avevano garantito l'accordo del 1974 tra Berlusconi e "cosa nostra" con l'intermediazione di Dell'Utri.

Ed invero gli equilibri sanciti nel patto del 1974, che prevedevano il pagamento di una somma di denaro da parte dei Berlusconi a "cosa nostra" con la costante mediazione di Dell'Utri che aveva assicurato, da un lato la generale protezione dell'imprenditore, dall'altro profitti e guadagni illeciti utili al rafforzamento e/o alla conservazione dell'associazione mafiosa che per circa un ventennio aveva mantenuto contatti con il facoltoso imprenditore, sono rimasti del tutto immutati nel corso degli anni e, quantomeno, fino al 1992.

L'unico cambiamento sostanziale del patto del 1974 ha riguardato la componente soggettiva che, nel 1981 nel corso della guerra di mafia, è cambiata in seguito all'eliminazione di Bontate e Teresi seguita dall'avvento di Totò Riina. Detta successione, tuttavia, dal punto di vista della "causa" illecita del patto, ha comunque lasciato immutato il mancato riconoscimento del monopolio statale (o privato, ma lecito) nella ricerca della protezione.

Berlusconi, infatti, sia con Bontate che con il capo corleonese, ha sempre manifestato costantemente la sua personale propensione a non ricorrere a mezzi ufficiali di tutela, contando sempre sulla mediazione di Dell'Utri. Quest'ultimo, nel tempo, ha pagato all'amico Cinà, ai Pullarà (dai quali si era sentito vessato e "tartassato") e poi di nuovo a Cinà, accordando a Riina l'aumento della posta cosi come gli era stato richiesto.

La caratteristica tipicamente egemonica e dittatoriale storicamente riconosciuta ai "corleonesi" (i mafiosi cioè provenienti da Corleone) ed al loro capo Riina si è espressa totalmente al di fuori del patto stretto tra "cosa nostra" da una parte e Dell'Utri e Berlusconi dall'altra. Detto patto è rimasto del tutto estraneo alla guerra di mafia svoltasi tra il 1981 ed il 1983 che ha visto vincitori i corleonesi che, per conquistare un potere assoluto all'interno di " cosa nostra", avevano eliminato fisicamente i loro avversari (tra i quali Bontate e Teresi) stringendo nuove alleanze ed imponendosi con uno spargimento di sangue che è rimasto unico nella memoria della storia mafiosa siciliana.

La strategia di Totò Riina, seppur caratterizzata da una cifra criminale elevata ed efferata, non ha mai palesato nessuna volontà di modificare il rapporti con Berlusconi e con Dell'Utri. Basti pensare che, seppur azzerando i vertici mafiosi delle famiglie avversarie (comprese quelle che facevano parte della " commissione"), Riina ha consentito che il pagamento del prezzo dell'estorsione venisse riscosso dai fratelli Pullarà, uomini d'onore originariamente appartenenti alla famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù passati poi ai corleonesi e ai quali poi lo stesso Riina aveva affidato la reggenza del mandamento; tale decisione ha manifestato la precisa volontà di mantenere immutato il rapporto estorsivo che era stato fino a quel momento di Bontate e Teresi Ed ancora, milita proprio a favore della volontà di mantenere sostanzialmente intatto il patto del 1974, il fatto che Riina, subito dopo avere ascoltato le lamentele di Dell'Utri in ordine al "tartassamento" subito dai Pullarà, abbia pensato di estrometterli dal rapporto con Dell'Utri, ripristinando l'antico rapporto di consegna di denaro che era stato deciso nel 1974 proprio a seguito dell'incontro milanese.

Né dalla richiesta del raddoppio della somma chiesta da Riina, può desumersi un mutamento dei rapporti tra le parti interessate, atteso che a fronte di tale richiesta - fatta in risposta all'atteggiamento riottoso di Dell Utri del quale si era lamentato Cinà e per adeguare la somma già percepita alla crescita economica delle società dell'imprenditore milanese - non era intervenuto nessun rifiuto e nessuna lamentela da parte di Dell 'Utri che aveva accettato di pagarla senza nulla obiettare. Riina, invero, aveva un fortissimo interesse al mantenimento del rapporto con Dell 'Utri, essendo ben noto il suo legame personale e professionale con Berlusconi che Riina considerava vicino a Bettino Craxi. […]. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Dell’Utri e i “rapporti di vicinanza” con Vito Ciancimino e Arturo Cassina. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 02 dicembre 2023

L'altro fatto accaduto nel contesto temporale in esame che ha palesato una contiguità significativa con personaggi mafiosi, è la visita presso la Banca Popolare di Palermo di Dell 'Utri e Vito Ciancimino. Deve rilevarsi che qui si tratta di esaminare contatti che, seppur non rilevanti penalmente, tradiscono il medesimo atteggiamento che l'imputato ha costantemente tenuto nel corso del periodo oggetto del presente giudizio nei confronti di "cosa nostra" e dei suoi associati

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

L’altro fatto accaduto nel contesto temporale in esame che ha palesato una contiguità significativa con personaggi mafiosi, è la visita presso la Banca Popolare di Palermo di Dell 'Utri e Vito Ciancimino nel 1987.

Deve in primo luogo rilevarsi che qui non si tratta di valutare rapporti di "vicinanza" di un soggetto nei confronti di un esponente dell'associazione mafiosa "cosa nostra", relazioni di per sé riprovevoli da un punto di vista etico sociale", ma di per sé estranee, tuttavia l’area penalmente rilevante del concorso esterno in associazione mafiosa" (v. sentenza "Mannino "), ma piuttosto di esaminare contatti che, seppur non rilevanti penalmente, tradiscono il medesimo atteggiamento che l'imputato ha costantemente tenuto nel corso del periodo oggetto del presente giudizio nei confronti di "cosa nostra" e dei suoi associati.

Scilabra, sentito all'udienza del 17 ottobre 2012 ha reso dichiarazioni che, per i motivi che saranno di seguito espressi, devono ritenersi attendibili e sulla base delle quali è possibile affermare che nel 1987 Dell'Utri si sia recato con Vito Ciancimino, che era stato Sindaco di Palermo e già condannato per mafia, presso la Banca Popolare di Palermo, rivolgendosi a Scilabra, direttore generale dell'epoca, per chiedere un finanziamento, non garantito, di venti miliardi di lire.

La vicenda di Scilabra ha preso le mosse da una sua intervista su “Il Fatto Quotidiano” il 23 ottobre 2010 a seguito della quale, lo stesso veniva sentito dai magistrati della D.D.A. della Procura della Repubblica di Palermo il 29 ottobre 2010. All'udienza del 17 ottobre 2012 Scilabra, direttore generale della Banca Popolare di Palermo dal 1975, dinanzi questa Corte territoriale, confermando quanto dichiarato ai PP.MM. ha affermato che nel 1987 (la data era stata in precedenza indicata nel 1986), su indicazione di Arturo Cassina, azionista della Banca Popolare di Palermo di cui Scilabra aveva ricevuto Marcello Dell 'Utri e Vito Ciancimino.

Cassina era "agganciatissimo" a Vito Ciancimino, in quanto quest'ultimo era Sindaco di Palermo e Cassina svolgeva lavori nell'edilizia pubblica (''faceva manti stradali, fognature ... sostanzialmente era agganciatissimo a Ciancimino "). L'oggetto della visita era stato la richiesta di un finanziamento di venti miliardi di lire che dovevano essere restituiti in 36 mesi.

Dell'Utri aveva proposto quest'operazione e Ciancimino, secondo Scilabra, aveva svolto il ruolo di "mediazione, di presentazione ". Nelle dichiarazioni rese il 29 ottobre 2010 al P.M. (confermate all'udienza del 17 ottobre 2012) Scilabra aveva ricordato che era stato Ciancimino a presentargli Dell 'Utri, che si era definito come consulente del gruppo di Berlusconi (Scilabra: "prima Ciancimino mi presentò Dell'Utri: “Direttore sa qui c'è la possibilità di fare grosse operazioni perché se tutte le Popolari vi mettete in pool fate un 'operazione in pool poniamo di un miliardo l'anno .. venti popolari fate una bella operazione .. gli interessi vengono pagati in maniera sostanziosa").

Dell'Utri aveva chiarito i termini dell'operazione fornendo precisi dettagli: si trattava di una richiesta di 20 miliardi da restituire in 36 mesi. Scilabra gli aveva detto che doveva sentire i colleghi delle altre sedi della Sicilia e prospettava il rientro della somma con un'operazione di revolving (Scilabra: "dico .. questi venti miliardi rientrano con un operazione di revolving ... cioè io vi do 20 miliardi .. tu dopo i quattro mesi lavori ... me ne restituisci due intanto paghi gli interessi").

Dell'Utri non aveva assecondato la proposta del direttore ed aveva detto che l'operazione doveva essere secca in "36 mesi", senza che da ciò potesse derogarsi. Scilabra ha ricordato che, ancor prima di chiamare la Centrale Rischi della Banca d'Italia, aveva considerato che un 'operazione in questi termini, priva di garanzie, non si poteva fare (Scilabra:" io la fattibilità l'ho considerata immediatamente perché non si fa un 'operazione revolving a "babbo morto", ma dove è scritto in quale trattato di tecnica bancaria è scritto... operazioni revolving sono revolving perché c'è un'entrata ed un'uscita di denaro ed il banchiere deve vedere come vanno le cose ... in 30 mesi si fallisce e buonanotte e il banchiere non ne capisce un tubo'').

Scilabra, così come aveva detto a Ciancimino e a Dell'Utri, aveva chiamato le altre banche popolari della Sicilia (Carlo La Lumia e Giuseppe Di Fede della Banca Popolare di Canicattì, il direttore della Banca Popolare di Augusta, Gaetano Trigilia, direttore della Banca di Siracusa, Francesco Romano della Popolare di Carini), ma i colleghi delle altre banche non avevano considerato conveniente l'operazione ("non mi hanno fatto pernacchie per miracolo di Dio'') ( v.dich. rese il 20 ottobre 2010 ai PP.MM).

La Centrale Rischi presso la Banca d'Italia rispondendo alla richiesta di controllo che Scilabra aveva inoltrato sui conti Fininvest, gli aveva riferito che in quel momento il debito della Fininvest si stava impennando.

Le risposte che forniva la Centrali Rischi venivano date su alcune strisce di carta che venivano conservate per dieci anni. Ciancimino era ritornato dopo qualche giorno e, venuto a conoscenza della risposta negativa, aveva offeso Scilabra dicendogli che non sapevano fare i banchieri e che erano delle banche di nessun valore (Scilabra:" poi lui con me quando gli ho dato a risposta mi ha detto "siti bancaredde" ( siete banchette) ... non contate niente '').

Scilabra ha ricordato che in un primo momento un suo amico giornalista de "Il Sole 24 ore" gli aveva chiesto di rendere un'intervista su "queste vicende palermitane" in quanto lui era "memoria storica della Sicilia".

L'intervista tuttavia non era stata fatta perché il direttore Gianni Riotta aveva detto che in quel momento non era possibile, comunicandoglielo "con nota riservata". Scilabra allora si era adirato ("allora m'incazzo'') ed aveva deciso di parlare ugualmente; era stato così che, tramite amici che conosceva, avendo in mente di scrivere un libro aveva reso l'intervista sul Fatto Quotidiano.

Su queste basi deve essere espressa una valutazione positiva, sia in punto di credibilità soggettiva sia in punto di attendibilità intrinseca delle dichiarazioni di Scilabra che appaiono sicuramente spontanee e coerenti.

Né esse appaiono ricollegarsi ad alcuna situazione di coercizione e di condizionamento, contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa che, nel corso dell'udienza del 17 ottobre 2010 aveva chiesto al testimone se era stato "sollecitato" a chiedere di fare l'intervista al Sole 24 Ore e al Fatto Quotidiano. Scilabra ha spiegato i motivi che lo avevano spinto a parlare di tali circostanze. Il tono e le frasi adoperate hanno manifestato la spontaneità e la genuinità della risposta: aveva "finalmente" deciso di dire la verità.

Era stato spinto a parlare da un senso civico; ad un certo punto della sua vita aveva avuto coraggio e non aveva tollerato, alla sua età e dopo aveva lavorato per 43 anni, che ancora si ci chiedesse se Dell'Utri e Ciancimino si conoscevano o meno. (Scilabra: Nella vita arriva il coraggio, ad un certo momento. Questa è la risposta"; Avvocato:" È arrivato così ali 'improvviso?". Scilabra:"Eh, si! Che vuole! Dopo quarantatre anni di lavoro e ancora parliamo se si conoscevano, se non si conoscevano .. (..) Dell'Utri ed il sindaco di Palermo "Presidente:" cioè Ciancimino ? Scilabra:" Si''. (v. dich. rese all'ud. del 17.10.2012).

Non può non sottolinearsi che il racconto del teste sulla Banca Popolare di Palermo e più in generale sul sistema del credito siciliano negli anni in cui lui aveva ricoperto la carica di direttore è dettagliatissimo ed è stato costellato da commenti che possono provenire solo da un soggetto che ha vissuto un'esperienza lavorativa con serietà e competenza.

La visita di Ciancimino e di Dell'Utri presso il suo ufficio non ha assunto nell'intero racconto dei fatti una centralità assoluta e lo Scilabra lo ha descritto senza alcuna enfasi. Appare invero del tutto impensabile che Scilabra, a settantatrè anni, direttore generale dal 1975 della Banca Popolare di Palermo abbia mentito inventando un incontro che non era mai avvenuto e che poi a distanza di due anni abbia ancora una volta ribadito quanto aveva dichiarato in precedenza dinanzi a questo Collegio, con lo stesso tono deciso e spontaneo.

La difesa aveva chiesto di produrre documentazione riguardante la situazione economico finanziaria della Fininvest per gli anni 1986 e 1987 e ciò al fine di contestare le affermazioni dello Scilabra che nel descrivere la situazione economico finanziaria della Fininvest aveva riferito fatti che non corrispondevano alla realtà.

Il Collegio ha rigettato detta richiesta di integrazione probatoria ritenendola non decisiva. Rinviando alle motivazioni contenute nell'ordinanza del 23 novembre 2012, deve qui solo sottolinearsi che, com'è noto, non sempre a bilanci apparentemente in attivo o, come ha dedotto la difesa nella nota difensiva del 17 ottobre 2012, che manifestano un indebitamento "nei confronti delle banche di entità modesta", si accompagna una reale forza finanziaria ed un liquidità della stessa società.

È possibile dunque, malgrado tali bilanci vi sia la necessità di chiedere la concessione di un prestito di somme di denaro meglio se non accompagnate da sicure garanzie.

Deve rilevarsi che Scilabra ha riferito che Ciancimino aveva un suo personale interesse a che Dell'Utri ottenesse il prestito di 20 miliardi, in quanto dal buon esito dell'operazione avrebbe ottenuto una somma per la sua intermediazione ( Scilabra:"non è stato detto ... ma io ho capito che c'era la sensalia").

SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO BIS

Una zona grigia fatta di raccomandazioni, mediazioni e amicizie pericolose. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 03 dicembre 2023

Le considerazioni fin qui svolte hanno consentito di ritenere che le dichiarazioni di Scilabra sono del tutto attendibili e che, dunque, Dell'Utri si sia recato con Ciancimino presso la Banca Popolare, per chiedere un importante finanziamento. Nel richiedere tale finanziamento Dell'Utri aveva scelto di andare con Ciancimino in quanto costui non solo era intraneo a "cosa nostra", ma era principalmente amico del presidente della banca e ciò al fine di ottenere vantaggi che altrimenti non avrebbe potuto ottenere

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Il rapporto di Ciancimino con l'ing. Cassina avrebbe potuto facilitare la concessione del prestito, appare dunque spiegabile il motivo per il quale Dell'Utri avesse deciso di ricorrere ad un banca siciliana chiedendo, nel 1987 un prestito "secco" a trentasei mesi, di venti miliardi.

A fronte dei rilievi della difesa sulla attendibilità delle dichiarazioni di Scilabra, rileva il Collegio che non sono emerse ragioni di astio o di rancore nei confronti di Dell 'Utri che Scilabra neppure conosceva.

La difesa infine ha messo in evidenza che Scilabra non aveva assunto un serio contegno nel corso delle dichiarazioni rese davanti ai PP.MM., rilevando che si era fatto delle risate come se raccontasse barzellette. Orbene rileva il Collegio che, contrariamente a quanto sottolineato dalla difesa non può attribuirsi alcun rilievo negativo al tono adoperato da Scilabra nel corso delle dichiarazioni e ad alcune affermazioni iperboliche che lo stesso ha pronunciato quale ad esempio "lo posso dire che se io potessi li ammazzerei fisicamente? No l'arrestassi - che vuole che le dica io a Berlusconi lo ammazzerei".

È stato proprio il tono adoperato dal teste m alcuni tratti dissacratore, in altri accoratamente disilluso, m altri ancora amareggiato per le sorti della Sicilia, che ha conferito credibilità alle dichiarazioni che lo stesso ha reso.

Lo stesso Scilabra, anche chiedendo con tono scherzoso l'eliminazione di alcuni passaggi di tali dichiarazioni di contenuto, chiaramente provocatorio, pronunciate ridendo ( P .M.:" no, siamo in registrazione quindi"; Scilabra : "tagliamola ( ridendo)") e rivolte in larga misura non a Dell 'Utri, ma semmai a Berlusconi, ha spiegato - anche nel corso del presente giudizio - che lo sfogo si inseriva in un contesto di rammarico" di un vecchissimo liberale" (v. dich rese all'ud. del 17.10.2010) per la situazione in cui si trovava l'Italia e in cui alla fine degli anni '80 si erano trovate le banche siciliane, compresa la sua, banche che erano state acquistate dai " signori padani".

I toni, invero, non sempre consoni ad una deposizione testimoniale hanno tuttavia tradotto fedelmente quello che Scilabra intendeva dire e non hanno mai oscurato la serietà delle circostanze riferite ( si pensi ad esempio al passaggio in cui, volendo sottolineare che le altre banche popolari avevano ritenuto del tutto impensabile che potesse essere accolta la richiesta di finanziamento nei termini prospettati da Dell'Utri , Scilabra ha dichiarato: "non mi hanno fatto pernacchie per miracolo di Dio"; o quando ha ricordato la sua arrabbiatura allorchè aveva ricevuto la nota con cui il giornalista Riotta gli aveva comunicato con una nota che non gli avrebbe fatto rilasciare alcun intervista sui fatti siciliani di cui Scilabra avrebbe voluto parlare; o ancora deve essere rammentata la definizione data ai figli di Cassina come degli assoluti incompetenti - "niente cretini tutti, tutti un pugno di cretini uno più cretino dell'altro perché lì la persona intelligente era Pasquale Nisticò il marito della figlia Giovanna il braccio destro " - e che Scilabra reputava responsabili di avere estromesso il cognato ed avere portato al crollo la Banca).

Né la spontaneità e l'assenza di ragioni di astio nei confronti di Dell'Utri, chiaramente emerse da quanto fin qui esposto, possono essere annebbiate, come prospettato dalla difesa, dal giudizio civile proposto da Dell'Utri nei confronti di Scilabra a seguito dell'intervista sul Fatto Quotidiano, atteso che tale giudizio, successivo alle dichiarazioni rese da quest'ultimo al PP.MM, non ha inciso in alcun modo sul contenuto delle stesse che difatti sono state confermate nel presente giudizio.

Peraltro sarebbe giuridicamente illogico fare dipendere l'attendibilità di chi rende dichiarazioni accusatorie nei confronti di un soggetto dalla presentazione della denuncia per il reato di calunnia da parte da parte dell'accusato.

Vè da rilevare che oltre a tale irrilevanza, deve considerarsi che tale atto non è compreso tra quelli indicati nell'art 238 c.p.p. ed il Collegio, ha rigettato anche per tale motivo la richiesta di acquisizione dell'atto di citazione relativo a quel giudizio ( v. ordinanza del 23 novembre 2012 al cui contenuto si rinvia). Ed ancora non appare significativo, per escludere credibilità al racconto del teste, il fatto che Vito Ciancimino, nel periodo in cui Scilabra aveva collocato la visita in banca, era sottoposto con decreto della Sezione misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo del 5 luglio 1985, alla misura della sorveglianza speciale di P.S. con obbligo di soggiorno nel Comune di Rotello (Campobasso) per la durata di quattro anni e che lo stesso Ciancimino, si era allontanato da tale Comune, nell'arco di tempo compreso tra il 1986 ed il 1987, solo in 5 occasioni per comparire dinanzi alle autorità giudiziarie in occasione di diversi procedimenti penali o per predisporre difese.

Rileva invero il Collegio che le modalità dei permessi concessi a Ciancimino durante la misura di prevenzione alla quale era sottoposto escludono qualsiasi incompatibilità di tale misura con la breve visita di Dell'Utri e Ciancimino (Scilabra: "un quarto d'ora, venti minuti'') che si era svolta a Palermo, dove quest'ultimo era stato autorizzato a recarsi.

Ed infatti, deve mettersi in rilievo da un lato che i permessi sono stati concessi per presentarsi davanti le autorità giudiziarie palermitane; dall'altro che il periodo di tempo concesso per ciascuno dei permessi è stato compreso tra i nove giorni ed i quindici giorni. ( v. documentazione depositata all'udienza del 5 dicembre 2012).

Deve infine considerarsi che dell'esistenza di rapporti esistenti tra Ciancimino e Dell'Utri ha parlato anche Angelo Siino che, nel corso del giudizio di primo grado all'udienza del 9 giugno 1998, ha affermato che Stefano Bontade gli aveva confidato che Dell'Utri aveva rapporti con Ciancimino ed Alamia con i quali aveva una società di costruzioni (Siino:" diceva .. al Dell'Utri così parlammo chiaramente e ci ho detto : Si lo conoscevo, conosco il fratello, l'avevo visto al Don Bosco, eravamo compagni di scuola" lui mi disse che si occupava di questioni finanziarie e poi aveva una società riguardante costruzioni e mi feve un accenno anche a Vito Ciancimino e mi pare un certo Alamia, con cui avevano a che fare, con cui Dell'Utri aveva a che fare).

E cosi mentre il Tribunale non era stato "in grado" di attribuire a tale frase uno specifico significato, nel presente giudizio di rinvio essa si pone come una conferma alle affermazioni di Scilabra.

Le considerazioni fin qui svolte hanno consentito di ritenere che le dichiarazioni di Scilabra sono del tutto attendibili e che, dunque, Dell'Utri si sia recato con Ciancimino, soggetto della quale all'epoca già si conosceva lo spessore criminale, presso la Banca Popolare, per chiedere un importante finanziamento, nei termini già chiariti.

Nel richiedere tale finanziamento Dell'Utri aveva scelto di andare con Ciancimino in quanto costui non solo era intraneo a "cosa nostra", ma era principalmente amico del presidente della banca e ciò al fine di ottenere vantaggi che altrimenti non avrebbe potuto ottenere.

La condotta di Dell'Utri mostra come ancora una volta come l'imputato, così come era avvenuto allorchè si era fatto accompagnare da Cinà dall'imprenditore Rapisarda, abbia scelto di chiedere appoggio ad esponenti di cosa nostra per realizzare propri interessi personali.

Il fatto del suo rapporto di conoscenza con Ciancimino e della sua richiesta di finanziamento presso la Banca Popolare di Palermo, ove si era recato con quest'ultimo - a fronte del quadro probatorio emerso e sulla base del quale è stato ritenuto provato che l'imputato ha fornito il contributo "atipico" del concorrente esterno dal 1974 al 1992 - assume una rilevanza del tutto marginale, ma consente di affermare che Dell'Utri ha chiesto appoggio, seppur nella forma di una semplice "raccomandazione", ad esponenti di cosa nostra in situazioni (recupero delle somme in nero del contratto di sponsorizzaizone, concessione di un prestito "secco" di venti miliardi da restituire in trentasei mesi) in cui riteneva si prospettasse come necessario un aiuto per superare limiti che si erano presentati alla realizzazione dei suoi interessi.

SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

La sentenza: colpevole «al di là di ogni ragionevole dubbio». SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 04 dicembre 2023

La consuetudine della condotta e dell'atteggiamento assunto dall'imputato nei confronti di soggetti appartenenti al sodalizio mafioso ed ai quali ha fatto ricorso per tutelare gli interessi delle attività imprenditoriali di Berlusconi, hanno mostrato che Dell'Utri, per venti anni, ha contribuito al rafforzamento ed alla conservazione del sodalizio mafioso incidendo effettivamente sulle concrete capacità operative dello stesso, che difatti, non ha mai voluto rischiare di mettere in crisi il rapporto con l'imputato

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte

Le considerazioni fin qui svolte consentono di affermare la responsabilità penale dell'imputato per l'unico delitto di concorso esterno in associazione mafiosa, assorbita l'imputazione di cui al capo a) della rubrica in quella di cui al capo b) per un periodo di tempo compreso tra il 1974 ed il 1992. Ed invero a seguito della sentenza della Corte di Cassazione ( con riguardo al periodo 1974-1977) era stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontate e Teresi avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a "cosa nostra" per ricevere in cambio protezione.

Tale accordo era stato raggiunto proprio in virtù dell'opera di mediazione svolta da Dell'Utri - che aveva fatto ricorso a Gaetano Cinà - tra l'associazione mafiosa e Berlusconi. In seguito all'incontro e su indicazione dello stesso imputato, si era verificato l'arrivo ad Arcore di Vittorio Mangano che non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi ed i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore.

Esisteva poi la prova dei pagamenti che Berlusconi aveva fatto proprio in virtù di quell'accordo e dei quali avevano parlato Di Carlo, Galliano, Cucuzza e Scrima; Galliano in particolare aveva rammentato che Cinà gli aveva riferito che era stato lui a ritirare le somme e Di Carlo aveva dichiarato che dopo l'incontro del 1974 Cinà gli aveva riferito il suo imbarazzo perché gli era stato detto di chiedere, per la protezione, la somma di 100 milioni di lire.

Svolgendo detta attività di mediazione, Dell'Utri, che aveva contatti diretti non solo con l'amico Cinà, ma anche con i boss Teresi e Bontate ed anche con Vittorio Mangano ( che lui aveva segnalato per farlo assumere ad Arcore), aveva contribuito con assoluta consapevolezza e volontà al rafforzamento dell'associazione mafiosa; quest'ultima con la costante opera di mediazione di Dell'Utri aveva realizzato il proprio programma economico essendo entrata in contatto con l'imprenditore Berlusconi dal quale riceveva cospicue somme di denaro.

All’esito di questo giudizio di rinvio, questa Corte territoriale ritiene che deve affermarsi la responsabilità penale dell'imputato per il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa anche con riferimento al periodo compreso tra il 1978 ed il 1992. Seguendo il percorso tracciato dalla sentenza della Corte di Cassazione e sottoponendo a nuova valutazione i fatti e le circostanze indicate in tale pronuncia è incontestabilmente emersa la permanenza del delitto di concorso esterno per tutto il periodo in esame ed anche nel periodo in cui Marcello Dell'Utri era andato a lavorare da Rapisarda lasciando l'area imprenditoriale di Berlusconi e anche per il tempo successivo fino al 1992.

Con riferimento al primo segmento temporale, non può non rammentarsi come Dell'Utri avesse cercato l'appoggio di Cinà anche con riferimento a tale rapporto lavorativo, facendosi accompagnare da quest'ultimo dall'imprenditore Rapisarda. Lui, l'imputato, che avrebbe potuto contare sui suoi titoli professionali, si era fatto accompagnare presso l'imprenditore che sarebbe stato il suo nuovo datore di lavoro da Gaetano Cinà, titolare di una lavanderia a Palermo e soggetto al quale lo stesso imputato già da anni consegnava i soldi di Berlusconi per farli pervenire a" cosa nostra".

Nello stesso periodo sono stati registrati contatti rilevanti con i soggetti con i quali Dell'Utri aveva stretto il patto nel 197 4 o che a tale patto erano in altro modo direttamente collegati ( Vittorio Mangano, assunto proprio a tutela dell'imprenditore e della sua famiglia) e ciò a riprova della sua volontà di mantenere la situazione antigiuridica che aveva egli stesso determinato.

Il ruolo di agevolazione dell'esecuzione della parte patrimoniale dell'accordo (in ordine al quale la Corte di Cassazione aveva ritenuto che la sentenza annullata avesse omesso di fornire un'adeguata motivazione) è emerso altresì dalle dichiarazioni rese dai collaboranti di giustizia, Galliano, Ganci ed Anzelmo che hanno dichiarato che dopo la morte di Bontate, i rapporti che facevano capo a quest'ultimo erano stati ereditati dai fratelli Ignazio e Giovan Battista Pullarà, con ciò confermando una prosecuzione del rapporto sinallagmatico che era stato concluso nel 1974 e la continuità dei pagamenti non essendo peraltro emersi fatti o circostanze che ne hanno lasciato intravedere un'interruzione.

Le dichiarazioni rese da Brusca, che aveva parlato di una ripresa di tali pagamenti nel 1986 a seguito di una loro interruzione dopo la morte di Bontate, sono risultate in assoluto contrasto con le concordi dichiarazioni rese dai collaboranti di giustizia che avevano riferito che i rapporti che facevano capo a Bontate erano stati ereditati dai Pullarà ( con ciò palesando una continuità dei pagamenti) e per la loro incertezza e contraddittorietà, inidonee a superare quanto era stato probatoriamente accertato sulla base delle suddette dichiarazioni.

In relazione poi al periodo successivo al 1982 è stato dimostrato che il patto concluso nel 1974 aveva subito solo un cambiamento della componente soggettiva mafiosa: dopo la morte di Bontate, avvenuta nell'aprile del 1981 era subentrato Totò Riina che con i corleonesi era stato vincitore della efferata guerra di mafia.

Gli accadimenti, sui quali la Corte di Cassazione aveva chiesto un nuovo giudizio da parte di questo giudice di rinvio, non hanno palesato alcun mutamento o torsione nei rapporti tra Dell'Utri-Berlusconi e" cosa nostra", essendo emerso l'interesse delle parti a salvaguardare un equilibrio prezioso per entrambe. Deve rilevarsi che le uniche doglianze che, nell'arco di un ventennio sono state registrate da parte di Dell'Utri, hanno riguardato solo il comportamento dei fratelli Pullarà che, secondo l'imputato, avevano esagerato con le vessazioni e dai quali si era sentito "tartassato".

La lamentela sull'atteggiamento vessatorio dei Pullarà era stata esposta da Dell'Utri, ancora una volta all'amico Cinà, e - pervenuta a Riina- aveva avuto come conseguenza l'estromissione dei Pullarà dal rapporto con l'imputato e la sostituzione con Cinà, senza che vi fosse stata mai una condotta di Dell'Utri di recessione dal patto.

E' stato altresì messo in luce come l'imputato non abbia mai cessato di mediare tra gli interessi di Berlusconi e "cosa nostra" garantendo l'esecuzione del patto anche rivolgendosi - a seguito dell'attentato subito dall'amico imprenditore nel 1986- immediatamente a Cinà per sapere quale fosse la matrice dello stesso e rassicurando Berlusconi sull'estraneità di Vittorio Mangano alla vicenda.

Né è possibile affermare che Dell'Utri sia stato una vittima, associata in tale destino all'amico Berlusconi: i rapporti cordiali e di amicizia che Dell'Utri (ed anche la famiglia di quest'ultimo) ha intrattenuto con Gaetano Cinà, cioè con colui che aveva personalmente raccolto i soldi che provenivano dall'imprenditore Berlusconi; i rapporti intrattenuti con Vittorio Mangano, rapporti di assoluta confidenza e mai condizionati dal timore evocato dall'imputato, l'atteggiamento di mediazione sperimentato, sempre attraverso Cinà, con Totò Riina nel periodo successivo alla morte di Bontate e fino al 1992, sono del tutto incompatibili con il rapporto che lega l' estortore e la vittima. Già la Corte di Cassazione, per il periodo compreso tra il 197 4 ed il 1977 aveva ritenuto di " natura assolutamente opposta a quella che connota il rapporto tra estorto ed estortore" i rapporti intrattenuti da Dell'Utri con i soggetti mafiosi già evocati.

La permanenza della condotta delittuosa ed il riproporsi senza rilevanti mutamenti, se non quelli collegati alla successione nel tempo di Riina a Bontate e Teresi, consentono di affermare con decisa convinzione che anche per il periodo successivo, oggetto del presente giudizio di rinvio, non si sono neppur intravisti indizi che potessero far insorgere il dubbio che Dell'Utri avesse assunto il nuovo ruolo di vittima e non più di intermediario tra gli interessi di Berlusconi e di "cosa nostra".

Il procuratore Generale aveva avanzato una richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale chiedendo di sentire, nella qualità di testimone, Silvio Berlusconi perché, genericamente, riferisse su fatti attinenti al presente processo. La Corte aveva ritenuto non indispensabile e non decisiva detta deposizione e pertanto aveva rigettato, per le motivazioni esposte nell'ordinanza del 25 luglio 2012, alla quale si rinvia, detta richiesta. Deve rilevarsi solo rammentarsi che nel corso del giudizio di primo grado, Berlusconi si era avvalso della facoltà di non rispondere e che la Corte d'Appello della sentenza annullata aveva rigettato la richiesta di ammissione della prova testimoniale rilevando proprio che Berlusconi si era avvalso di tale facoltà.

La Corte di Cassazione aveva ritenuto "affidata ad ipotesi e congetture della difesa la denuncia di manifesta illogicità della motivazione della Corte" che invece aveva reso una congruente motivazione del rigetto. Peraltro in questo processo non era stato allegato alcun elemento che poteva far ritenere che la deposizione testimoniale di Berlusconi fosse idonea a superare la completezza della istruzione dibattimentale: questo Collegio ha ritenuto pertanto che non sussistessero valide ragioni per ammettere la richiesta del P.G. Dell'Utri ha sempre svolto un proprio ruolo di mediatore mantenendo il canale di collegamento tra "cosa nostra" e Berlusconi ed accogliendo le richieste di pagamento ed anche il raddoppio di detto pagamento disposto da Riina.

La consuetudine della condotta e dell'atteggiamento assunto dall'imputato nei confronti di soggetti appartenenti al sodalizio mafioso ed ai quali ha fatto ricorso per tutelare gli interessi delle attività imprenditoriali di Berlusconi, hanno mostrato che Dell'Utri, per venti anni, ha contribuito al rafforzamento ed alla conservazione del sodalizio mafioso incidendo effettivamente sulle concrete capacità operative dello stesso, che difatti, non ha mai voluto rischiare di mettere in crisi il rapporto con l'imputato.

I vantaggi che sono derivati dall'opera di mediazione svolta da Dell'Utri sono stati di enorme rilievo anche per il tempo in cui si sono protratti e per l'importanza del soggetto che era costretto a pagare per ricevere un'ampia protezione. La peculiarità del comportamento di Dell'Utri è consistita nel suo modo speciale e duraturo di rapportarsi con gli esponenti di "cosa nostra" non provando mai in un ventennio, nessun imbarazzo o indignazione nell'intrattenere rapporti conviviali con loro, sedendosi con loro allo stesso tavolo.

Qui non si tratta di "ravvisare relazioni e contiguità sicuramente riprovevoli da un punto di vista etico e sociale , ma di per sé estranee ali 'area penalmente rilevante del concorso esterno in associazione", si tratta di valutare la condotta di un soggetto che, per un ventennio, pur non essendo intraneo all'associazione mafiosa, ha voluto consapevolmente interagire sinergicamente con soggetti acclaratamente mafiosi, rendendosi conto di apportare con la sua opera di mediazione un'attività di sostegno all'associazione senza dubbio preziosa per il suo rafforzamento

Né può sostenersi che Dell'Utri, dopo avere intrattenuto così a lungo rapporti personali con boss mafiosi del calibro di Bontate, non sia stato consapevole delle finalità perseguite dall'associazione mafiosa: l'imputato aveva perfettamente chiari sia il vantaggio perseguito da "cosa nostra" , che l'efficacia causale della sua attività per il mantenimento ed il rafforzamento della stessa associazione criminale. Dell'Utri, pertanto, va ritenuto penalmente responsabile "al di là di ogni ragionevole dubbio" della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS

Le motivazioni. La trattativa tra Stato e Mafia non è mai esistita, perché Mori e De Donno sono stati assolti in Cassazione. Non ci sono più scuse per una Commissione parlamentare d’inchiesta sul dossier per il quale Borsellino si era scontrato con i colleghi della Procura di Palermo e che, secondo l’ex comandante del Ros “avrebbe potuto cambiare l’Italia”. Paolo Comi su L'Unità il 14 Novembre 2023

Non ci sono più scuse a questo punto per una Commissione parlamentare d’inchiesta sul dossier “Mafia e appalti”, come richiesto in questi mesi dal generale dei carabinieri Mario Mori, all’epoca comandante del Ros che aveva lavorato a quell’indagine per la quale Paolo Borsellino si era scontrato duramente con i colleghi in Procura a Palermo.

“Avrebbe potuto cambiare l’Italia”, ha commentato l’altro giorno Mori dopo il deposito delle motivazioni con cui la Cassazione ha definitivamente messo una pietra tombale sulla Trattativa Stato-mafia.

“Fermo restando il riconoscimento per l’impegno profuso nell’attività istruttoria di merito, deve, tuttavia, rivelarsi che la sentenza impugnata, e ancor più marcatamente quella di primo grado, hanno, invero, optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico”, scrive il collegio di piazza Cavour, presidente Giorgio Fidelbo, che ha confermato, ma per “non aver commesso il fatto”, l’assoluzione in appello di Mori e del capitano Giuseppe De Donno dopo la condanna in primo grado.

Nessuna ‘Trattativa’, dunque, ma un vero depistaggio durato 30 anni sulla stragi di mafia, ad iniziare proprio da quella dove perse la vita Borsellino e gli agenti della sua scorta. Ma veniamo ai fatti. Secondo la tesi della Procura di Palermo, amplificata per anni dal Fatto Quotidiano, i carabinieri del Ros attraverso l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino avevano veicolato la minaccia di Cosa nostra al governo.

Per la Cassazione, invece, l’iniziativa dei carabinieri non era volta a spingere la mafia a minacciare il governo, bensì mirava al perseguimento dell’obiettivo opposto di porre fine alla stagione stragista. Nel corso della loro azione, Mori e De Donno miravano simultaneamente alla “contestuale decapitazione dell’ala stragista o militarista” attraverso la cattura dei suoi esponenti, come dimostrato dall’arresto di Totò Riina avvenuto il 15 gennaio 1993.

Per i giudici, però, dalla motivazione della sentenza d’appello emerge una contraddizione logica insanabile tra l’elemento soggettivo (ovvero l’intenzione) che animava gli ufficiali del Ros nella loro interlocuzione con i vertici mafiosi e il riconoscimento di una valenza agevolatrice oggettiva della minaccia risultante dalla loro condotta.

La Cassazione sottolinea infatti che anche se l’apertura di un dialogo con i vertici di Cosa nostra, come evidenziato dalla sentenza impugnata dalla Procura generale di Palermo, è stata molto più di una spregiudicata iniziativa di polizia giudiziaria, assumendo piuttosto la connotazione di un’operazione di intelligence, tale condotta non è espressamente sanzionata dalla legislazione penale e, in assenza della dimostrazione di un preciso nesso di condizionamento o agevolazione delle condotte degli autori del reato, non può integrare il concorso nel reato di minaccia a corpo politico dello Stato oggetto di contestazione.

La Procura di Palermo, in particolare, per dimostrare l’avvenuta minaccia al corpo politico dello Stato aveva messo sul piatto la mancata proroga del ‘carcere duro’ a circa 300 detenuti, di cui solo un piccolissima percentuale legati a Cosa nostra, su iniziativa del ministro della Giustizia dell’epoca Giovanni Conso. La Cassazione specifica chiaramente che non è stata raggiunta la prova “oltre ogni ragionevole dubbio” che la minaccia mafiosa sia stata “veicolata” da Mori a Francesco Di Maggio, in quel periodo vice capo del Dap, e da egli riferita a Conso.

Dichiarata poi la prescrizione, essendo stato riqualificato il reato di violenza e minaccia ad un corpo politico dello Stato nella forma del tentativo, per Leoluca Bagarella, condannato in appello a 27 anni e per il medico Antonino Cinà, vicino a Riina, al quale furono inflitti 12 anni di reclusione.

“La minaccia prospettata dall’organizzazione mafiosa, del resto, nel momento in cui venne esternata a Mori e a De Donno, in ragione del proprio contenuto, della sua provenienza e, segnatamente, degli omicidi e delle stragi compiute da “Cosa nostra” in quel periodo, aveva obiettivamente un’attitudine ad intimorire e a turbare l’attività del Governo, a prescindere dal fatto che non si abbia l’ulteriore dimostrazione che sia stata poi concretamente trasmessa e pervenuta a conoscenza del destinatario finale”, puntualizza quindi la Cassazione riguardo il dialogo avviato con Ciancimino, ricordando che non aveva lo scopo di veicolare alcuna minaccia né di scendere a patti con la mafia.

Un concetto sempre sostenuto da Mori in questi anni e che aveva espresso anche in Procura a Palermo dopo l’uscita di scena del procuratore Pietro Giammanco, colui che la mattina del 19 luglio 1992 chiamerà al telefono Borsellino per dirgli che avrebbe dovuto indagare sul dossier mafia appalti. Borsellino, purtroppo, morirà a via d’Amelio nel pomeriggio senza aver saputo che quel dossier era stato già archiviato. Paolo Comi 14 Novembre 2023

Trattativa Stato-mafia: sono uscite le motivazioni della sentenza di Cassazione. Stefano Baudino su L'Indipendente lunedì 13 novembre 2023.

Dopo oltre sei mesi dall’uscita del verdetto, la Corte di Cassazione ha pubblicato le motivazioni della sentenza con cui ha chiuso un processo lungo e pieno di colpi di scena: quello sulla “Trattativa Stato-mafia”. Ad aprile i giudici, annullando senza rinvio la sentenza di Appello, avevano definitivamente assolto dal reato di “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato” l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri e gli ex vertici del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno per “non aver commesso il fatto”, prescrivendo i mafiosi Leoluca Bagarella e Antonino Cinà a causa della riqualificazione del reato nella forma “tentata”. All’interno delle 95 pagine di motivazioni, i giudici scrivono che, nel contesto dell’invito al dialogo lanciato ai vertici di Cosa Nostra dal Ros dei carabinieri tra le stragi di Capaci e di Via D’Amelio tramite l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, risulta che gli ufficiali “si sono limitati a ricevere la minaccia mafiosa senza sollecitarla”. E che, allo stesso modo, in occasione della minaccia mafiosa rivolta al governo Berlusconi “da Brusca e Bagarella con l’intermediazione di Vittorio Mangano”, Marcello Dell’Utri “si sarebbe limitato a riceverla senza sollecitarla”. La sentenza, che arriva dopo due pronunce ben diverse – in primo grado uomini dello Stato e mafiosi erano stati condannati insieme a pene ingenti, mentre in Appello i mafiosi erano stati condannati e i membri delle istituzioni assolti “perché il fatto non costituisce reato” – ha già scatenato aspre polemiche.

Nelle motivazioni, i giudici indirizzano varie stoccate ai giudici di primo e secondo grado, affermando che “la sentenza impugnata, e ancor più marcatamente quella di primo grado” avrebbero “optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico”. La Corte ha sancito come “la trama di entrambe le sentenze di merito, pur muovendo dal corretto rilievo che la cosiddetta trattativa Stato-Mafia (che non viene, dunque, affatto smentita come passaggio storico, ndr) non costituisce di per sé reato, in quanto condotta non punita dalla legislazione penale, è tuttavia, monopolizzata dal tema dei contatti intercorsi, successivamente alla strage di Capaci, tra esponenti del Ros e quelli della associazione mafiosa denominata Cosa Nostra e dall’accertamento dello sviluppo degli stessi negli anni successivi, riservando un rilievo proporzionalmente minimale alle condotte contestate di minaccia al Governo”. I giudici di appello, in particolare, secondo la Cassazione non hanno “osservato il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio quale metodo di accertamento del fatto”.

Gli ermellini ritengono che il Ros abbia agito, in quel frangente, con l’obiettivo di frenare l’escalation di violenza perpetrata da Cosa Nostra dall’omicidio di Salvo Lima (12 marzo 1992) in avanti: “L’interlocuzione promossa da Mori e da De Donno con Ciancimino, per quanto accertato dalla sentenza impugnata, era, infatti, volta a comprendere le condizioni per la cessazione degli omicidi e delle stragi da parte di Cosa Nostra e la ricerca dell’apertura di un dialogo, sia pure con una spietata organizzazione criminale, non può assumere la valenza obiettiva, sulla base di un inammissibile automatismo probatorio, di una istigazione a minacciare lo Stato”, scrive la Corte, pur ricordando che, come già rilevato dalla sentenza di Appello, quella del Ros fu “molto di più che una spregiudicata iniziativa di polizia giudiziaria, assumendo piuttosto la connotazione di un’operazione di intelligence”. Secondo i giudici, insomma “l’apertura dell’interlocuzione con i vertici di Cosa Nostra” non può “essere considerata quale forma di rafforzamento dell’altrui proposito criminoso, in quanto ha solo creato l’occasione nella quale ha trovato realizzazione l’autonomo intento ricattatorio dei vertici di Cosa Nostra, ulteriore espressione della strategia minatoria già in corso verso gli organi dello Stato”. La Suprema Corte asserisce poi che non sia provato che il generale Mori abbia riferito l’esistenza della minaccia di Cosa nostra all’allora guardasigilli Giovanni Conso per il tramite di Francesco Di Maggio, che era vicecapo del Dap. Secondo la Procura, infatti, sarebbe stato proprio questo il tassello che avrebbe convinto Conso, nel novembre del ’93 (in seguito alle stragi di Roma, Milano e Firenze) a non prorogare 334 decreti di 41-bis ad altrettanti mafiosi reclusi. La Cassazione, a tal proposito, boccia le ricostruzioni dei giudici di secondo grado, che avrebbero “invertito i poli del ragionamento indiziario”, poiché “l’esclusione di possibili ipotesi alternative non può supplire alla carenza di certezza dell’indizio”.

In merito alla figura dell’ex senatore Marcello Dell’Utri – già condannato in passato per concorso esterno in associazione mafiosa, essendo stato la “cerniera” tra l’ex capo di Cosa Nostra e Silvio Berlusconi quando, nel 1974, il mafioso e l’allora imprenditore stipularono un “patto” che garantì a Berlusconi la protezione sul versante familiare ed economico e alla mafia ingenti pagamenti dal “Cavaliere” almeno fino al 1992 – gli ermellini scrivono che “entrambe le sentenze di merito concordano nell’escludere che le iniziative legislative del Governo e del partito di Forza Italia furono determinate o condizionate dalla minaccia mafiosa, in quanto costituirono libera espressione delle ragioni ideali di tale movimento, che, per risalente asserita vocazione garantista, da tempo si battevano contro alcuni provvedimenti adottati in funzione antimafia dai precedenti Governi”. Evidenziando quanto già sancito nella pronuncia di assoluzione per Dell’Utri in secondo grado, aggiungono che “secondo la ricostruzione operata nella sentenza impugnata, la minaccia mafiosa sarebbe stata rivolta al Governo da Brusca e Bagarella, con l‘intermediazione di Mangano, ma Dell’Utri si sarebbe limitato solo a riceverla, senza sollecitarla, agevolarla, divulgarla in alcun modo a esponenti di governo o, comunque, concorrere in alcun modo alla condotta di reato”.

Molte sono le considerazioni critiche che, pur nel rispetto di una pronuncia definitiva, possono essere sollevate sul suo dettato, specie in correlazione con sentenze precedenti. In primis, il fatto che la “trattativa” inaugurata dal Ros dei Carabinieri convinse i mafiosi a ritenere che la strategia delle bombe fosse la più funzionale a ricattare lo Stato non è solo il pensiero dell’accusa (a cui, evidentemente, si contrappone la Cassazione), ma un dato sancito da numerose pronunce emerse negli ultimi anni. Già nel 1998, i giudici della Corte d’Assise di Firenze, che si esprimevano sulla strage di via dei Georgofili del 1993, avevano scritto che “l’iniziativa dei Ros” aveva “tutte le caratteristiche per apparire come una ‘trattativa‘” che ebbe l’effetto di convincere “definitivamente” i boss mafiosi “che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione”. Ancor più a fuoco la sentenza “Tagliavia” della Corte d’Assise d’Appello di Firenze del febbraio 2016 – divenuta irrevocabile nel 2017 -, che considera “provato che dopo la prima fase della cd. trattativa avviata dopo la strage di Capaci, peraltro su iniziativa esplorativa di provenienza istituzionale (cap. De Donno e successivamente Mori e Ciancimino), arenatasi dopo l’attentato di via D’Amelio, la strategia stragista proseguì alimentata dalla convinzione che lo Stato avrebbe compreso la natura e l’obiettivo del ricatto proprio perché vi era stata quell’interruzione”.

Una serie di perplessità dal punto di vista tecnico-giuridico vengono invece sollevate dall’ex pm Antonio Ingroia, che è stato il rappresentante della pubblica accusa al processo: «Con tutto il rispetto per i giudici della Cassazione, questa sentenza ha passaggi molto deboli in punta di diritto – ha detto in un’intervista al Fatto Quotidiano –. Mi sembra che si fosse pregiudizialmente deciso di chiudere questo capitolo. E di doverlo chiudere con l’assoluzione più ampia possibile per gli uomini dello Stato». Nello specifico, Ingroia ritiene che «la Cassazione non può cambiare la formula assolutoria» soltanto «perché il medesimo fatto non è provato al di là di ogni ragionevole dubbio», poiché ciò può essere fatto «solo nei confronti di chi è stato condannato». Questo, aggiunge Ingroia, «lo prevede la giurisprudenza della stessa Cassazione: i precedenti citati sono tutti casi di annullamento di sentenze di colpevolezza. Al di là di ogni ragionevole dubbio è un criterio solo per chi viene condannato, non per chi è stato assolto». E i Ros «erano stati assolti in Appello». Ingroia inquadra come «l’ennesima contraddizione» della pronuncia il fatto che essa «da una parte, per assolvere i carabinieri, valorizza percorsi alternativi attraverso i quali le minacce sarebbero arrivate al governo. Dall’altra, però, dice che il reato di minaccia non è stato consumato. Ecco perché occorreva un altro processo. Ed ecco perché per me questa è una sentenza che odora di politica. Non mi spiego altrimenti questa sentenza saracinesca». [di Stefano Baudino]

Trattativa Stato-mafia, le motivazioni della Cassazione: “Interlocuzione dei Ros con Ciancimino puntava a fermare le stragi, non istigò i boss”. Giuseppe Pipitone su Il Fatto Quotidiano il 10 novembre 2023

Quando nel 1992 i carabinieri del Ros aprirono un dialogo con Cosa nostra avevano come obiettivo solo quello di far cessare le stragi. L’apertura di questa interlocuzione non ha provocato “una istigazione a minacciare lo Stato” nei ranghi della mafia. E dunque Totò Riina non decise di mettere altre bombe per lanciare un messaggio alle Istituzioni, solo perché si sentì rafforzato dal dialogo cercato dai militari: aveva già intenzione di mettere a ferro e fuoco il Paese. È questo uno dei punti fondamentali della sentenza della Corte di Cassazione sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Sono 95 pagine che il consigliere estensore Fabrizio D’Arcangelo ha scritto in quasi sette mesi. Tanto è passato da quando, il 27 aprile del 2023, la sesta sezione penale presieduta da Giorgio Fidelbo aveva messo un punto a una complessa vicenda processuale iniziata quasi 15 anni fa.

Le decisioni della Suprema corte – In pratica la Suprema corte aveva annullato senza rinvio le assoluzioni degli alti ufficiali del Ros dei carabinieri, Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, che in secondo grado erano stati giudicati non colpevoli perché il fatto non costituisce reato. Per gli ermellini i carabinieri andavano assolti in via definitiva, ma per non aver commesso il fatto. Il fatto è il reato contestato, cioè la violenza e minaccia a un corpo politico dello Stato: l’accusa per i militari era di aver trasmesso fino al cuore delle Istituzioni – nel dettaglio erano i governi di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi – la minaccia di Cosa nostra, cioè altre stragi e altri omicidi eccellenti se non fossero state allegerite le condizioni carcerarie dei mafiosi detenuti. Un reato che secondo i supremi giudici non è stato commesso da Mori e da De Donno, e per estensione anche da Subranni, che non aveva fatto ricorso contro la sentenza d’Appello. Se i carabinieri non hanno trasmesso la minaccia proveniente da Cosa nostra, allora la condotta dei mafiosi da consumata è diventata soltanto tentata: ecco perché la Suprema corte aveva riqualificato il reato per il boss corleonese Leoluca Bagarella e per Antonino Cinà, il medico di Totò Riina che aveva fatto da “postino” al papello, cioè la lista delle richieste avanzate dal capo dei capi in cambio di uno stop alle bombe. La riqualificazione del reato aveva fatto scattare la prescrizione (quantificata in 20 anni) delle condanne emesse in secondo grado a 27 anni per Bagarella e a 12 anni per Cinà. Per quanto riguarda Marcello Dell’Utri, accusato di aver trasmesso la minaccia mafiosa al governo di Silvio Berlusconi, la Corte si era limitata a far diventare definitiva l’assoluzione per non aver commesso il fatto, che era stata decisa in secondo grado e che la stessa procura generale aveva chiesto di confermare.

“Indizi insussistenti sui carabinieri” – La parte più delicata della sentenza, ovviamente, è quella relativa ai carabinieri. “Ritiene questa Corte che la motivazione della sentenza impugnata evidenzi la strutturale inidoneità della condotta degli ufficiali del Ros a integrare, già sotto li profilo oggettivo, una forma penalmente rilevante di istigazione o di determinazione alla commissione del reato di minaccia ad un corpo politico commesso dai vertici di Cosa nostra”, scrivono i giudici della Suprema corte. E per spiegare la decisione di optare per la più ampia formula di non colpevolezza, gli ermellini tornano indietro di trentuno anni. “Invero, la mera apertura di un’interlocuzione con i vertici di Cosa nostra non può ritenersi essere stata idonea ex se a determinare i vertici dell’organizzazione criminale a minacciare il Governo in quanto questo assunto, argomentato nella sentenza impugnata come autoevidente, non è fondato su alcuno specifico dato probatorio, né argomentato sulla base di consolidate massime di esperienza”, si legge a pagina 79 della sentenza. Il riferimento è ai colloqui avuti da Mori e De Donno con Vito Ciancimino nell’estate del 1992. “L’interlocuzione promossa da Mori e da De Donno con Ciancimino, per quanto accertato dalla sentenza impugnata, era, infatti, volta a comprendere le condizioni per la cessazione degli omicidi e delle stragi da parte di Cosa nostra e la ricerca dell’apertura di un dialogo, sia pure con una spietata organizzazione criminale non può assumere la valenza obiettiva, sulla base di un inammissibile automatismo probatorio, di una istigazione a minacciare lo Stato”. Dunque secondo la Suprema corte la decisione dei carabinieri di andare a parlare con Ciancimino non provocò in Riina la volontà di minacciare lo Stato con altre bombe. “Nella ricostruzione operata dalla sentenza impugnata, l’iniziativa degli alti ufficiali del Ros era, infatti, intesa non già a indurre Cosa nostra a rivolgere minacce al Governo – scrivono i giudici della Cassazione – bensì al perseguimento dell’obiettivo contrario di far cessare la stagione stragista, cercando di comprendere se le eventuali condizioni poste da quest’ultima potessero o meno essere considerate nella prospettiva di prevenzione di ulteriori attacchi criminali. Nella loro azione, infatti, Mori, Subranni e De Donno miravano al contempo alla contestuale decapitazione dell’ala stragista o militarista mediante la cattura dei suoi esponenti, come di seguito avvenuto il 15 gennaio 1993 con l’arresto di Salvatore Rina. Vi è, dunque, per quanto emerge dalla motivazione della sentenza impugnata, un’insanabile contraddizione logica tra l’elemento soggettivo che animava i tre ufficiali del Ros nell’interlocuzione con i vertici mafiosi e il riconoscimento di una obiettiva valenza agevolatrice della minaccia mafiosa della loro condotta”.

“Cosa nostra voleva già fare le stragi” – Per rafforzare il suo convincimento sui carabinieri che non hanno indotto Cosa nostra a organizzare altre stragi, la Cassazione sottolinea come Riina avesse già deciso di mettere a ferro e fuoco il Paese: “Le stesse sentenze di primo e di secondo grado, del resto, esprimono, non certo incongruamente, il convincimento che Cosa nostra, sotto la direzione di Salvatore Riina, sin dall’omicidio dell’On. Salvo Lima stesse realizzando una propria strategia terroristica, volta all’ottenimento di concessioni da parte dello Stato, e che, dunque, sarebbe proseguita, anche a prescindere dall’intervento degli imputati appartenenti al nucleo operativo dei Ros”. Secondo la Suprema corte “nelle condizioni di contesto descritte dalla sentenza impugnata, non è possibile affermare l’esistenza di un preciso rapporto di causalità tra l’azione dei pubblici ufficiali e la genesi del ricatto mafioso”: insomma non è provato che il dialogo coi carabinieri abbia provocato in Riina la decisione di alzare il tiro. È la famosa esclamazione “si sono fatti sotto“, che il capo dei capi avrebbe pronunciato alla presenza di Giovanni Brusca: secondo il pentito si riferiva proprio alle Istituzioni, nei panni dei militari. Ma per i giudici, “non è configurabile, sul piano logico, prima ancora che giuridico, l’istigazione o la determinazione di un proposito criminoso che è già in corso di esecuzione”. E ancora, sostiene la corte, “l’apertura dell’interlocuzione con i vertici di Cosa nostra non può, pertanto, essere considerata quale forma di rafforzamento dell’altrui proposito criminoso, in quanto ha solo creato l’occasione nella quale ha trovato realizzazione l’autonomo intento ricattatorio dei vertici di Cosa nostra, ulteriore espressione della strategia minatoria già in corso verso gli organi dello Stato”.

“In Appello carenza di certezza dell’indizio” – I giudici, poi, smentiscono che il generale Mori avrebbe riferito l’esistenza della minaccia di Cosa nostra – altre stragi se non si fossero migliorate le condizioni carcerarie dei boss detenuti – fino al cuore del governo, cioè all’allora guardasigilli Giovanni Conso, attraverso Francesco Di Maggio, che era il vicecapo del Dipartimento amministrazione penitenziaria. Secondo l’accusa era per questo motivo che a un certo punto il ministro della Giustizia aveva lasciato scadere più di trecento provvedimenti di 41bis, il carcere duro per i mafiosi. Anzi, più che smentire, la Suprema corte boccia le motivazioni della Corte d’Assise d’Appello, accusata di aver “invertito i poli del ragionamento indiziario” in quanto “l’esclusione di possibili ipotesi alternative non può supplire alla carenza di certezza dell’indizio“. Secondo gli ermellini, in pratica, i giudici del processo di secondo grado non hanno “osservato il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio quale metodo di accertamento del fatto”. A sostenerlo erano sia il sostituto procuratore generale della Cassazione che gli avvocati difensori: “L’argomento del ‘nessun altro avrebbe potuto‘ si rivela fallace sul piano logico e giuridicamente errato, in quanto la confutazione delle spiegazioni alternative di un fatto non può supplire alla radicale mancanza di prova positiva del fatto medesimo”. Secondo la Suprema Corte, i giudici dell’appello hanno commesso un errore a ritenere “che solo Mori potesse aver rivelato l’informazione relativa al ricatto mafioso e alla spaccatura in essere all’interno di Cosa nostra, senza aver previamente dimostrato, oltre ogni ragionevole dubbio, che questa informazione riservata non fosse previamente nota al Ministro, che costituisse patrimonio conoscitivo esclusivo” di Mori “e che non fosse pervenuta a conoscenza del Ministro per effetto di canali diversi ed autonomi“. Dunque è per questo che la Suprema corte ha deciso di assolvere i carabinieri con la più ampia formula possibile: “Pertanto, una volta escluso, in quanto non provato oltre ogni ragionevole dubbio, che gli ufficiali del Ros abbiano riferito la minaccia mafiosa ad esponenti dell’autorità di governo, dalla sentenza impugnata risulta che i medesimi si sono limitati a ricevere la minaccia mafiosa, senza sollecitarla, né rafforzare l’altrui intento criminoso. Ogni forma di concorso penalmente rilevante degli imputati Mori e De Donno nel reato commesso dagli imputati appartenenti a Cosa nostra è, all’evidenza, insussistente”. La Cassazione conferma che “l’apertura di un dialogo con i vertici di Cosa nostra, come rilevato dalla sentenza impugnata, è stata molto di più che una spregiudicata iniziativa di polizia giudiziaria, assumendo piuttosto la connotazione di un’operazione di intelligence (pag. 2190 della sentenza impugnata)”, ma “tale condotta non è espressamente sanzionata dalla legislazione penale e, in assenza della dimostrazione di un preciso nesso di condizionamento o di agevolazione delle condotte degli autori del reato, non può integrare concorso nel reato di minaccia al Governo”.

“Forza Italia garantista, non minacciata dalla mafia” – Sulla figura di Dell’Utri, già assolto in Appello dall’accusa di aver trasmesso al primo esecutivo di Silvio Berlusconi le minacce mafiose, i giudici scrivono: “Entrambe le sentenze di merito concordano nell’escludere che le iniziative legislative del Governo e del partito di Forza Italia furono determinate o condizionate dalla minaccia mafiosa, in quanto costituirono libera espressione delle ragioni ideali di tale movimento, che, per risalente asserita vocazione garantista, da tempo si battevano contro alcuni provvedimenti adottati in funzione antimafia dai precedenti Governi”. E ricordano come l’imputato sia già stato assolto in Appello per non aver commesso il fatto: “Secondo la ricostruzione operata nella sentenza impugnata, la minaccia mafiosa sarebbe stata rivolta al Governo da Brusca e Bagarella, con ‘intermediazione di Mangano, ma Dell’Utri si sarebbe limitato solo a riceverla, senza sollecitarla, agevolarla, divulgarla in alcun modo a esponenti di governo o, comunque, concorrere in alcun modo alla condotta di reato”.

Le critiche alle sentenze di merito: “Approccio storiografico” – Per il resto in vari passaggi i giudici della sesta sezione penale criticano le sentenze emesse dai loro colleghi della corte d’Assise e della corte d’Assise d’Appello. “Le sentenze di merito, conferendo di fatto preminenza ad un approccio storiografico nell’interpretazione del dato probatorio, hanno, inoltre, finito per smarrire la centralità dell’imputazione nella trama del processo penale, profondendo sforzi imponenti nell’accertare fatti spesso poco o per nulla rilevanti nell’economia del giudizio”, si legge a pagina 72 della sentenza. E ancora: “La Corte di assise di appello, dunque non ha rispettato il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio nella sentenza impugnata, in quanto ha posto a fondamento della dimostrazione dell’avvenuta consumazione del reato di minaccia ai danni dei Governi Amato e Ciampi elementi di prova privi di adeguata efficacia dimostrativa, quanto all’avvenuta dinamica di trasmissione della minaccia da Mori al Ministro, e, al contempo, non ha dimostrato l’irragionevolezza delle ipotesi ricostruttive antagoniste prospettate dalla difesa sulla base delle prove acquisite al processo”. La Cassazione riconosce “l’impegno profuso nell’attività istruttoria dai giudici di merito” ma poi aggiunge che “deve tuttavia, rilevarsi che la sentenza impugnata, e ancor più marcatamente quella di primo grado, hanno, invero, optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico. Tuttavia, anche quando oggetto del processo penale siano accadimenti di rilievo storico o politico, e, dunque, connotati da una genesi complessa e multifattoriale, l’accertamento del giudice penale non muta la sua natura, la sua funzione e il suo statuto garantistico, indefettibile sul piano costituzionale”. E ancora, si legge nelle motivazioni della Suprema corte “la trama di entrambe le sentenze di merito, pur muovendo dal corretto rilievo che la cosiddetta trattativa Stato-Mafia non costituisce di per sé reato, in quanto condotta non punita dalla legislazione penale, è tuttavia, monopolizzata dal tema dei contatti intercorsi, successivamente alla strage di Capaci, tra esponenti del Ros e quelli della associazione mafiosa denominata Cosa nostra e dall’accertamento dello sviluppo degli stessi negli anni successivi, riservando un rilievo proporzionalmente minimale alle condotte contestate di minaccia al Governo”. Secondo la Cassazione “tale marcata discrasia tra imputazione e oggetto principale dell’accertamento processuale ha, inoltre, determinato un’eccessiva dilatazione delle motivazioni delle sentenze, che hanno assunto, sia in primo, che in secondo grado, una mole imponente (5237 pagine in primo e 2971 pagine in secondo grado), tale da offuscare le ragioni della decisione e rendere le linee argomentative di difficile identificazione e interpretazione”.

Il verdetto che ha confermato le assoluzioni per gli ex ufficiali del Ros. Trattativa Stato-Mafia, pubblicate le motivazioni della sentenza. "Ogni forma di concorso penalmente rilevante degli imputati Mori e De Donno nel reato commesso dagli imputati appartenenti a cosa nostra è, all'evidenza, insussistente", si legge nelle 95 pagine redatte dalla Sesta sezione penale della Cassazione. Rainews.it il 10 novembre

La sesta sezione penale della Corte di Cassazione ha pubblicato le motivazioni della sentenza con cui mette la parola fine al processo per la presunta trattativa tra pezzi dello Stato e boss di cosa nostra, confermando le assoluzioni per gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni, e Giuseppe De Donno. 

"La Corte di assise di appello" ha "invertito i poli del ragionamento indiziario" in quanto "l'esclusione di possibili ipotesi alternative non può supplire alla carenza di certezza dell'indizio", inoltre la Corte di assise di appello di Palermo "non ha osservato il canone dell'oltre ogni ragionevole dubbio quale metodo di accertamento del fatto". 

Con queste motivazioni - si legge nel verdetto 45506 della Cassazione depositato oggi - gli 'ermellini' hanno confermato l'assoluzione nel processo sulla presunta trattativa Stato-Mafia degli ex Ros Mori, Subranni e De Donno e per l'ex parlamentare Marcello Dell'Utri.

Ad avviso degli 'ermellini', "come rilevato dal Procuratore generale presso la Corte di Cassazione e dalle difese degli imputati, tuttavia, l'argomento del 'nessun altro avrebbe potuto' si rivela fallace sul piano logico e giuridicamente errato, in quanto la confutazione delle spiegazioni alternative di un fatto non può supplire alla radicale mancanza di prova positiva del fatto medesimo". 

Secondo la Suprema Corte, i giudici di merito dell'appello - convinti della tesi che ai mafiosi il Guardasigilli Conso non rinnovò il 41bis per cercare di spegnere la stagione stragista e non, come lo stesso Conso sostenne, per adeguarsi alle indicazioni della Consulta - hanno sbagliato a ritenere "che solo Mori potesse aver rivelato l'informazione relativa al ricatto mafioso e alla spaccatura in essere all'interno di cosa nostra, senza aver previamente dimostrato, oltre ogni ragionevole dubbio, che questa informazione riservata non fosse previamente nota al Ministro, che costituisse patrimonio conoscitivo esclusivo" di Mori "e che non fosse pervenuta a conoscenza del Ministro per effetto di canali diversi ed autonomi". 

Sul punto, gli 'ermellini' rilevano che le difese degli imputati avevano fatto presente nel giudizio di appello che "per quanto emerso nel giudizio di primo grado, la consapevolezza della spaccatura interna a Cosa Nostra, tra l'ala stragista e l'ala moderata non sarebbe stata esclusiva di Mario Mori, ma fosse una conoscenza acquisita per lo meno in qualificati ambienti investigativi". 

"Questo dato - segnala il verdetto - emergerebbe dalla nota dello Sco del 12 agosto 1993, a firma Manganelli, relativa a una 'profonda spaccatura' negli esponenti di maggior spicco di Cosa Nostra e dalla nota della Dia del 10 agosto 1993, a firma De Gennaro, in ordine all'esistenza, secondo le dichiarazioni di Salvatore Cancemi, di 'un profondo contrasto tra mafia stragista ed un'altra, invece, pacifista e quasi rassegnata". 

Tale spaccatura, secondo le difese, aggiunge il verdetto "sarebbe, peraltro, risultata dalle dichiarazioni rese dal Presidente della Repubblica in dibattimento e dalle dichiarazioni di Paolo Borsellino in una intervista del 3 luglio 1992". 

Per la Cassazione, "fermo restando il riconoscimento per l'impegno profuso nell'attività istruttoria dai giudici di merito, deve, tuttavia, rilevarsi che la sentenza" emessa dalla Corte di Assise di Appello di Palermo il 23 settembre 2021 "e ancor più marcatamente quella di primo grado, hanno, invero, optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico". 

"Anche quando il giudice penale deve confrontarsi con complessi contesti fattuali di rilievo storico-politico, l'accertamento del processo penale resta, invero, limitato a fatti oggetto dell'imputazione e deve condotto - conclude la Suprema Corte - nel rigoroso rispetto delle regole epistemologiche dettate dalla Costituzione e dal codice di rito, prima tra tutte quella dell'oltre ragionevole dubbio".

''Ritiene questa Corte che la motivazione della sentenza impugnata evidenzi la strutturale inidoneità della condotta degli ufficiali del Ros a integrare, già sotto li profilo oggettivo, una forma penalmente rilevante di istigazione o di determinazione alla commissione del reato di minaccia ad un corpo politico commesso dai vertici di 'Cosa nostra'''. 

È quanto scrivono i giudici della sesta sezione penale della Cassazione nelle 95 pagine di motivazioni della sentenza, depositata oggi, che lo scorso 27 aprile ha reso definitive le assoluzioni per gli ex ufficiali del Ros, il generale Mario Mori, il generale Antonio Subranni e l'ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno e per l'ex senatore Marcello Dell'Utri nel processo sulla presunta trattativa tra Stato e mafia. 

''Invero, la mera apertura di un'interlocuzione con i vertici di 'cosa nostra' non può ritenersi essere stata idonea 'ex se' a determinare i vertici dell'organizzazione criminale a minacciare il Governo - si legge - in quanto questo assunto, argomentato nella sentenza impugnata come autoevidente, non è fondato su alcuno specifico dato probatorio, né argomentato sulla base di consolidate massime di esperienza. L'interlocuzione promossa da Mori e da De Donno con Ciancimino, per quanto accertato dalla sentenza impugnata, era, infatti, volta a comprendere le condizioni per la cessazione degli omicidi e delle stragi da parte di 'cosa nostra' e la ricerca dell'apertura di un dialogo, sia pure con una spietata organizzazione criminale - sottolineano i supremi giudici - non può assumere la valenza obiettiva, sulla base di un inammissibile automatismo probatorio, di una istigazione a minacciare lo Stato''. 

''Nella ricostruzione operata dalla sentenza impugnata, l'iniziativa degli alti ufficiali del Ros era, infatti, intesa non già a indurre 'Cosa nostra' a rivolgere minacce al Governo - affermano i giudici della Cassazione - bensì al perseguimento dell'obiettivo contrario di far cessare la stagione stragista, cercando di comprendere se le eventuali condizioni poste da quest'ultima potessero o meno essere considerate nella prospettiva di prevenzione di ulteriori attacchi criminali. Nella loro azione, infatti, Mori, Subranni e De Donno miravano al contempo alla 'contestuale decapitazione dell'ala stragista o militarista' mediante la cattura dei suoi esponenti, come di seguito avvenuto il 15 gennaio 1993 con l'arresto di Salvatore Riina. Vi è, dunque, per quanto emerge dalla motivazione della sentenza impugnata, un'insanabile contraddizione logica tra l'elemento soggettivo che animava i tre ufficiali del Ros nell'interlocuzione con i vertici mafiosi e il riconoscimento di una obiettiva valenza agevolatrice della minaccia mafiosa della loro condotta''. 

''Pertanto, una volta escluso, in quanto non provato oltre ogni ragionevole dubbio, che gli ufficiali del Ros abbiano riferito la minaccia mafiosa ad esponenti dell'autorità di governo, dalla sentenza impugnata risulta che i medesimi si sono limitati a ricevere la minaccia mafiosa, senza sollecitarla, né rafforzare l'altrui intento criminoso - concludono i supremi giudici che hanno assolto gli ex vertici dei Ros con la formula 'per non aver commesso il fatto' - Ogni forma di concorso penalmente rilevante degli imputati Mori e De Donno nel reato commesso dagli imputati appartenenti a 'Cosa nostra' è, all'evidenza, insussistente''.

Mafia, la Cassazione stronca il teorema contro Berlusconi. "Più storiografia che fatti". Una pietra sopra la vocazione di certi giudici a giudicare il mondo e la storia, anziché occuparsi di reati. Luca Fazzo l'11 Novembre 2023 su Il Giornale.

Una pietra sopra la vocazione di certi giudici a giudicare il mondo e la storia, anziché occuparsi di reati. È questa la sentenza - per alcuni aspetti memorabile - con cui la Cassazione non si limita ad assolvere definitivamente i carabinieri del Ros, l'ex senatore Marcello Dell'Utri e persino un paio di boss di Cosa Nostra imputati nel processo Stato-Mafia, ma condanna invece i colleghi che a quel processo hanno dedicato sentenze colossali in cui invece che delle prove - assenti, ipotizzate - si occupavano di scrivere a modo loro la storia d'Italia. Un giudizio che rimbalza sulla vera responsabile di questa impresa titanica, la Procura di Palermo che ha portato sul banco degli imputati i vertici del Ros dei carabinieri, servitori dello Stato come Mario Mori e Antonio Subranni, con accuse che la Cassazione liquida con un solo aggettivo: «Insussistenti».

Passaggio chiave delle motivazioni, che investe sia le condanne pronunciate in primo grado che le assoluzioni in appello: «Le sentenze hanno optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico». Invece anche quando si tratta di fatti di estrema rilevanza, il giudice deve limitarsi «all'accertamento dei fatti oggetto dell'imputazione». Questo a Palermo non è avvenuto: i giudici «hanno finito per smarrire la centralità dell'imputazione nella trama del processo penale, profondendo sforzi imponenti nell'accertare fatti spesso poco o per nulla rilevanti nell'economia del giudizio». E quando hanno affrontato i reati, i giudici siciliani si sono dimenticati che la colpevolezza va dimostrata «ogni ragionevole dubbio».

Solo in questo modo, dice la Corte, si è potuto sostenere che il governo - prima Ciampi, poi Berlusconi - abbia preso decisioni in ossequio alle minacce di Cosa Nostra. A queste minacce le sentenze hanno dedicato un ruolo cruciale, ma le hanno ricostruite in modo «minimale», affogando il dettaglio in un mare di fatti irrilevanti: «Le motivazioni delle sentenze hanno assunto, sia in primo, che in secondo grado, una mole imponente (5.237 pagine in primo e 2.971 pagine in secondo grado), tale da offuscare le ragioni della decisione e rendere le linee argomentative di difficile identificazione e interpretazione». Sono parole che oggettivamente travalicano anche il galateo che tra magistrati prevede in genere di non infierire sui colleghi. Ma davanti allo «smarrimento» dei giudici siciliani la Sesta sezione penale della Cassazione, presieduta da Giorgio Fidelbo, ha ritenuto fosse doveroso parlare chiaro.

Tutto, nella ricostruzione dei pm palermitani (con in testa Antonino Ingroia e Nino Di Matteo) ruotava intorno alle concessioni che Cosa Nostra avrebbe ottenuto dal governo per fare cessare la stagione delle stragi: di quelle pretese Mario Mori sarebbe stato il mediatore, e per questo gli è stata distrutta la carriera. Ma la Cassazione dice che analizzare le divisioni interne alla Cupola fu semplicemente una «operazione di intelligence», e che Mori non recapitò mai alcuna minaccia. Fece il suo lavoro, insomma. Peraltro le spaccature interne alla mafia erano ben note al governo anche da altre fonti.

Altri aspetti delle sentenze Stato-Mafia vengono demolite dalla Cassazione, che le accusa di avere «invertito i poli del ragionamento indiziario» in quanto «l'esclusione di possibili ipotesi alternative non può supplire alla carenza di certezza dell'indizio». Ma sono vizi già visti e criticati in altri processi. Ad essere inedito, e contundente, è quell'aggettivo: «storiografico». Il diritto, la giustizia, sono un'altra cosa, manda a dire ieri la Cassazione. 

«Totale mancanza di prove». Così muore il processo Trattativa. Le motivazioni della sentenza con cui la Cassazione ha confermato l’assoluzione di Mori, De Donno e Dell’Utri: un processo non può diventare una lezione di storia, scrivono i giudici. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 10 novembre 2023

«Fermo restando il riconoscimento per l’impegno profuso nell’attività istruttoria di merito, deve, tuttavia, rivelarsi che la sentenza impugnata, e ancor più marcatamente quella di primo grado, hanno, invero, optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico». Una leggera stoccata al processo “trattativa” da parte dei giudici della Cassazione, che hanno confermato, ma per «non aver commesso il fatto», l’assoluzione degli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno.

Una sentenza, quella della Corte Suprema, che ha voluto sottolineare come i giudici di merito - pur muovendo dal corretto rilievo che la cosiddetta trattativa Stato-Mafia non costituisce di per sé reato - hanno assunto, sia nelle motivazioni di primo che di secondo grado, una mole imponente (5237 pagine in primo e 2971 pagine in secondo grado), tale da «offuscare le ragioni della decisione e rendere le linee argomentative di difficile identificazione e interpretazione». Ed è così. Da ribadire che la tesi giudiziaria della Trattativa Stato-mafia è una ricostruzione che ha tentato di riscrivere la storia di un determinato periodo del nostro Paese.

Ogni legittima scelta politica, lotta tra correnti all’interno dell’ex Democrazia cristiana, atti amministrativi da parte dell’allora Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria o dell’allora ministero della Giustizia, azioni investigative portate avanti dalle divise, in particolare il reparto speciale dei carabinieri (Ros), viene riletta sotto la lente "trattativista". Un vero e proprio teorema che prende vari episodi, li decontestualizza, si avanzano sospetti e suggestioni, e li riunisce creando così una narrazione apparentemente scorrevole. Non a caso i giudici della Cassazione, nelle motivazioni che hanno sigillato definitivamente la fine della "guerra" giudiziaria nei confronti degli ex Ros, sottolineano che secondo le Sezioni Unite, il «virtuoso paradigma della chiarezza e concisione» impone, infatti, di discutere, "ove occorra anche diffusamente, solo i fatti rilevanti e le questioni problematiche, liberando la motivazione dalla congerie di dettagli insignificanti che spesso vi compaiono senza alcuna necessità».

Ma andiamo sul punto. Gli ex Ros, attraverso l’interlocuzione con Don Vito Ciancimino, hanno sì o no veicolato la minaccia mafiosa al governo? La risposta dei giudici supremi è un categorico no. Secondo la ricostruzione effettuata dalla sentenza impugnata, l'iniziativa dei carabinieri non era volta a spingere "cosa nostra" a minacciare il governo, bensì mirava al perseguimento dell'obiettivo opposto di porre fine alla stagione stragista. Nel corso della loro azione, Mori e De Donno miravano simultaneamente alla «contestuale decapitazione dell'ala stragista o militarista» attraverso la cattura dei suoi esponenti, come dimostrato dall'arresto di Salvatore Riina avvenuto il 15 gennaio 1993.

Secondo i giudici emerge, quindi, dalla motivazione della sentenza impugnata, una contraddizione logica insanabile tra l'elemento soggettivo (ovvero l'intenzione) che animava gli ex ufficiali dei Ros nella loro interlocuzione con i vertici mafiosi e il riconoscimento di una valenza agevolatrice oggettiva della minaccia mafiosa risultante dalla loro condotta. Sempre i giudici supremi, sottolineano che anche se l'apertura di un dialogo con i vertici di "cosa nostra", come evidenziato dalla sentenza impugnata, è stata molto più di una spregiudicata iniziativa di polizia giudiziaria, assumendo piuttosto la connotazione di un'operazione di intelligence, tale condotta non è espressamente sanzionata dalla legislazione penale e, in assenza della dimostrazione di un preciso nesso di condizionamento o agevolazione delle condotte degli autori del reato, non può integrare il concorso nel reato di minaccia al Governo.

Ma qual è l’unica “prova” che la procura di Palermo aveva in mano per dimostrare l’avvenuta minaccia al corpo politico dello Stato? È la non proroga del 41 bis a circa 300 detenuti (solo una piccolissima percentuale erano mafiosi) su iniziativa dell’allora ministro della giustizia Conso. Ebbene, la Cassazione specifica chiaramente che non è stata raggiunta la prova "oltre ogni ragionevole dubbio" che la minaccia mafiosa sia stata «veicolata» da Mori a Di Maggio (all’epoca vice capo del Dap) e da quest'ultimo riferita al Ministro Conso. Onde per cui, per quanto riguarda cosa nostra, nei confronti di quest’ultimi, la minaccia deve essere ritenuta integrata nella sola forma del tentativo.

I giudici ermellini hanno quindi dichiarato la prescrizione per il boss di Cosa nostra, Leoluca Bagarella, condannato dai giudici di Appello di Palermo a 27 anni e per il medico Antonino Cinà, vicino a Totò Riina, a cui in secondo grado furono inflitti 12 anni di reclusione. I giudici, come detto, hanno infatti riqualificato i reati di violenza e minaccia ad un corpo politico dello Stato nella forma del tentativo. Con la riqualificazione la fattispecie è andata in prescrizione.

Qual è stata la minaccia tentata? La Cassazione spiega che «La minaccia prospettata dall'organizzazione mafiosa, del resto, nel momento in cui venne esternata a Mori e a De Donno, in ragione del proprio contenuto, della sua provenienza e, segnatamente, degli omicidi e delle stragi compiute da "cosa nostra" in quel periodo, aveva obiettivamente un'attitudine ad intimorire e a turbare l'attività del Governo, a prescindere dal fatto che non si abbia l'ulteriore dimostrazione che sia stata poi concretamente trasmessa e pervenuta a conoscenza del destinatario finale». Ora il capitolo è finalmente chiuso. Nessun reato hanno commesso gli ex Ros e il dialogo avviato con Don Vito non era volto a veicolare alcuna minaccia né scendere a patti con la mafia. Ed era quello che hanno sempre sostenuto gli ex ros e riferito subito alla procura di Palermo dopo la “caduta” dell’allora procuratore Pietro Giammanco.

Estratto dell’articolo di Carlo Vulpio per il “Corriere della Sera” lunedì 13 novembre 2023.

«Io e De Donno siamo vivi perché la morte di Borsellino ha praticamente reso inutile la nostra soppressione». Lo scrive il generale dei carabinieri Mario Mori, che con il colonnello Giuseppe De Donno è autore de La verità sul dossier mafia-appalti (Piemme, 235 pagine, 19,90 euro). Il libro è «quel» libro sulla mafia e sul «sistema della corruzione coessenziale alla mafia», con nomi e cognomi, che mancava. 

I due autori, militari del Ros, il Raggruppamento operativo speciale dell’Arma, sono stati i più stretti collaboratori di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, e questo libro volevano scriverlo da tempo, ma non hanno potuto, perché hanno dovuto trascorrere quindici anni a difendersi dall’accusa surreale di aver «trattato» con la mafia (per dissuaderla dalle stragi).

Un’accusa dalla quale sono stati assolti definitivamente «perché il fatto non costituisce reato» solo sette mesi fa. 

La maxi-inchiesta Mori e De Donno raccontano l’inchiesta che «avrebbe potuto cambiare l’Italia», svolta dai Ros in Sicilia e consegnata nel 1991 a Falcone. Partita dagli appalti nei comuni di Baucina e di Bagheria, l’inchiesta si estese a tutta l’Isola e poi all’Italia, come aveva profetizzato Leonardo Sciascia ne Il giorno della civetta (1961) con la metafora della «linea della palma, che viene su, su per l’Italia, ed è già oltre Roma».

Il dossier dei Ros non ebbe mai vita facile. Nemmeno dopo l’assassinio di Falcone, il 23 maggio 1992, e poi di Borsellino, avvenuto il successivo 19 luglio. E alla fine venne seppellito definitivamente insieme con i due magistrati. 

[…]

«Da un lato c’era il nemico — scrivono i due autori — e dall’altro quelli che senza essere oppositori dichiarati, omettevano, ritardavano, silenziavano». Il riferimento, esplicito, è non solo ai politici, ma anche e soprattutto ai magistrati. Un lungo elenco, tra quelli vivi e quelli morti (di vecchiaia) e secondo una differente gradazione di responsabilità, che va da Pietro Giammanco a Giuseppe Pignatone, a Giancarlo Caselli. Tutti, politici e magistrati, raccontati per ciò che hanno fatto (di male) o per ciò che non hanno fatto (di bene), o per la loro dantesca ignavia. Stesso discorso per il fronte antimafia «di professione».

Palermo, le collusioni

L’ex sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, per esempio. Mentre in tv accusava Falcone di tenere chiusi nei cassetti documenti su delitti eccellenti, custodiva in cassaforte documenti su imprese compromesse con la mafia, negandone l’esistenza davanti al magistrato Alberto Di Pisa, il quale fece perquisire il Municipio e trovò quei documenti. 

Di Pisa stava per incriminare Orlando, ma due giorni dopo finì sui giornali con l’accusa di essere «il Corvo», cioè l’autore di lettere anonime contro Falcone e altri. Un falso, grazie al quale però gli tolsero l’inchiesta, di cui non si saprà più nulla. Poi, quattro anni dopo, nel 1993, distrutta la sua carriera, Di Pisa verrà assolto.

Gli appalti pubblici

Nell’orgia di appalti pubblici preconfezionati, in cui «la mafia che uccide è il “ministero della Difesa” dell’anti-Stato politico-economico», i Ros, Falcone, Borsellino e pochi altri (come il pm Felice Lima a Catania, che per non fare la stessa fine dovette lasciare il penale e trasferirsi al civile) capirono di aver messo a nudo «il sistema cardiocircolatorio della mafia, in tutta la Sicilia e in tutta l’Italia», «un sistema in cui guadagnavano tutti e in cui il mondo dell’economia non era certo vittima (come nello schema monco di Tangentopoli), ma al contrario era complice, anzi erano proprio gli imprenditori ad avviare la macchina».

Tanti i nomi importanti in cui si sono imbattuti i Ros - il libro ne contiene decine -, dall’impresa Tor di Valle di Roma, con il suo titolare Pietro Catti, genero di Alcide De Gasperi, alla Calcestruzzi di Ravenna del capitano d’industria Raul Gardini, che finirà suicida, fino all’«uomo degli appalti» in Sicilia, Filippo Salamone da Agrigento. 

Dopo Giovanni Falcone E tuttavia, uccisi Falcone, la moglie e la sua scorta il 23 maggio ’92, l’inchiesta mafia-appalti non fa in tempo a passare nelle mani di Borsellino che il 13 luglio i pm Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato (oggi senatore del M5S) ne chiedono l’archiviazione. Ma a Borsellino non dicono nulla. Nemmeno nella riunione tra magistrati che si tenne in Procura a Palermo il giorno dopo, il 14 luglio, in cui Borsellino intervenne in maniera dura e preoccupata. Di questi e di molti altri «particolari» si è venuti a conoscenza solo trent’anni dopo […]

Il 19 luglio esplode l’autobomba che uccide Paolo Borsellino e i cinque membri della scorta, il 22 luglio il procuratore Giammanco appone il suo «visto» alla richiesta di archiviazione e il 14 agosto, la vigilia di Ferragosto, il gip di Palermo, Sergio La Commare, archivia mafia-appalti, «l’archiviazione più veloce della storia». Borsellino non doveva indagare.

Estratto della lettera di Gian Carlo Caselli per il "Corriere della Sera" mercoledì 15 novembre 2023.

Caro direttore, l’entusiastica «recensione» di Carlo Vulpio del libro degli Ufficiali del Ros Mori e De Donno sulla questione mafia-appalti comprende una distinzione fra «buoni» e «cattivi». Fra i secondi, in una «gradazione di responsabilità» non meglio specificata, viene inserito anche il mio nome in modo apodittico e senza alcun contradditorio. Ecco dunque una nuova «medaglia», dopo quelle di fascista, comunista e mafioso, che mi sono guadagnato in cinquant’anni di impegno sul versante Br, Cosa nostra e violenze NoTav.

Più in generale, scrive Vulpio che il dossier del Ros su mafia e appalti non ebbe mai vita facile.

Nemmeno dopo l’assassinio di Falcone il 23 maggio 1992 e poi di Borsellino, avvenuto il successivo 19 luglio. E alla fine venne seppellito definitivamente insieme con i due magistrati. Anche in questo caso si tratta di affermazioni recepite apoditticamente ancorché smentite dagli atti processuali citati analiticamente nella Relazione predisposta dalla Sezione grandi appalti (2 Aggiunti e 5 sostituti), che come Procuratore capo di Palermo avevo consegnato alla Commissione Antimafia mi pare nel 1999. 

Essa dimostra che l’indagine non fu mai archiviata e che a far data dal giugno 1992 vi fu una ininterrotta serie di arresti e/o rinvii a giudizio, oltre che per tutti i mafiosi che gestivano gli appalti (tra i quali Riina, Buscemi Antonino, Lipari ed altri) anche per più di 120 persone tra cui uomini politici, imprenditori di rilievo nazionale (come Lodigiani, Rizzani, De Eccher, Salomone), professionisti e dirigenti di enti regionali. Vennero richieste autorizzazioni a procedere nei confronti di ministri e parlamentari.

[...] 

Infine, nessuno pretende che i pm di Palermo del dopo stragi (organizzati in una squadra compatta, senza di che sarebbe stato illusorio sperare di vincere le difficoltà che il grande Nino Caponnetto ha sintetizzato con le parole «è tutto finito, non c’è più niente da fare») siano perennemente ringraziati per il decisivo contribuito dato alla salvezza della nostra democrazia dall’attacco criminale mafioso: ma neppure si vorrebbe che fossero coperti troppo disinvoltamente con schizzi di fango di dubbia natura .

LA RISPOSTA DI CARLO VULPIO

Caselli ha il diritto di dire ciò che vuole. Ma «schizzi di fango», no. Il libro di Mori e De Donno è lì. Può «recensirlo» lui, se crede, e come crede. (cv).

Da “il Giornale” venerdì 10 novembre 2023.

Pubblichiamo un estratto del libro scritto dal generale dei Carabinieri Mario Mori con Fabio Ghiberti dal titolo «M.M. Nome in codice unico» (la Nave di Teseo, 224 pagine, 20 euro), già in libreria. Nel capitolo pubblicato, tutti i dubbi sui fatti intercorsi tra l’attentato al giudice Giovanni Falcone del 13 maggio 1992, e quello a Paolo Borsellino, avvenuto solo 57 giorni più tardi. Un excursus puntuale e documentato da parte di uno componenti fondativi del Ros, il raggruppamento operativo speciale che si occupò in prima linea della lotta alla criminalità organizzata. 

Testo di Mario Mori 

Tra le due stragi successero le seguenti cose. Le elenco in maniera fredda, senza trarre alcuna conseguenza, ma un quesito lo voglio porre: se di fronte a ciò che sto per raccontare si applicasse la poetica teoretica dei miei detrattori, a quali conclusioni si dovrebbe giungere?

1. Il 19 giugno 1992 due ufficiali del ROS, i capitani Umberto Sinico e Giovanni Baudo, informano direttamente Borsellino di avere ricevuto notizie confidenziali da una fonte di un altro nostro eccellente ufficiale di PG, il maresciallo Antonino Lombardo, sulla preparazione di un attentato nei suoi confronti, precisando che in merito erano stati formalmente allertati gli organi istituzionali competenti per la sua sicurezza. Anche per Antonio Di Pietro vi erano le stesse avvisaglie. Giammanco, che aveva ricevuto specifica informativa sul punto, la trasmise per competenza alla procura di Caltanissetta, ma non informò Borsellino.

2. Il 25 giugno 1992 Borsellino mi chiese un incontro riservato che si svolse a Palermo nella caserma Carini, presente anche il capitano De Donno. Il magistrato, che già aveva ottenuto dal ROS il rapporto «Mafia e appalti» quando era a Marsala – in merito ci sono le dichiarazioni processuali a conferma da parte dei magistrati Alessandra Camassa, Massimo Russo e Antonio Ingroia, oltre a quelle dell’allora maresciallo Carmelo Canale –, sostiene di volere proseguire le indagini già coordinate da Giovanni Falcone, che gliene aveva parlato ripetutamente, e sollecita la disponibilità operativa del capitano De Donno e degli altri militari che avevano condotto l’inchiesta.

3. Il 2 luglio 1991, come detto, avviene la cattura di cinque indagati, tra i quali Giuseppe Li Pera, all’epoca capo area per la Sicilia di un’importante società del Nord. Provvedimento che noi del ROS, che molto credevamo nelle nostre indagini, ritenemmo riduttivo. Vi è anche da dire che l’indagine era in fieri e pertanto continuavamo a confidare in prossimi e futuri sviluppi. 

4. Il 12 luglio 1992 il procuratore Giammanco, che evidentemente non credeva alla «centrale unica» di falconiana memoria, invia quasi per intero l’informativa ROS sugli appalti ad altri uffici giudiziari siciliani «per conoscenza e per le opportune determinazioni di competenza».

Riporto il dato arido, senza entrare nel merito delle scelte giuridiche che non mi competono, ma di certo la circostanza non aiutò a portare avanti l’inchiesta per come era stata concepita.

5. Il 13 luglio 1992 i sostituti procuratori Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato chiedono l’archiviazione per i fatti e le residue posizioni di quel primo troncone. Devo pensare che il materiale rimasto non fosse sufficiente a sostenere efficacemente l’accusa, ma devo anche dire che non fummo interpellati per eventuali approfondimenti. Si seguiva intanto una pista la cui traccia si trovava già nell’informativa del 16 febbraio 1991: la SIRAP, ente economico della regione siciliana incaricato di gestire l’enorme cifra di mille miliardi dell’epoca per la creazione di venti aree industrializzate nel territorio della regione Sicilia. La relativa informativa, che sarà depositata meno di due mesi dopo, il 5 settembre 1992, darà poi luogo a venticinque ordini di custodia cautelare.

6. Il 14 luglio 1992 in una riunione dei magistrati della procura di Palermo, Borsellino chiede notizie sull’inchiesta e manifesta chiaramente il suo interesse a riprenderla e svilupparla ulteriormente. Dalle successive dichiarazioni al CSM da parte dei presenti a quella riunione, non emerge che qualcuno in quella circostanza lo abbia informato della menzionata richiesta di archiviazione.

Guido Lo Forte era tra i presenti. 

7. Il 16 luglio 1992 si tiene a Roma una cena tra Borsellino, l’onorevole Carlo Vizzini e i magistrati palermitani Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli. Nel corso dell’incontro (a riguardo c’è la testimonianza processuale di Vizzini) Borsellino manifesta un grande interesse per il tema dei rapporti tra la mafia e gli appalti («l’argomento che impegnò il tempo più grande della cena fu un forte interesse del dottore Borsellino alla vicenda di mafia e appalti»).

8. Il 19 luglio 1992, di primo mattino, Borsellino riceve la telefonata del procuratore Giammanco che gli conferisce la delega a occuparsi delle indagini di mafia relative a Palermo e provincia. Nel pomeriggio il magistrato viene ucciso da un’autobomba unitamente ai cinque agenti della sua scorta. 

9. Il 22 luglio 1992, tre giorni dopo la morte di Borsellino, il procuratore Giammanco inoltra al GIP del tribunale di Palermo la richiesta di archiviazione.

10. Il 23 luglio 1992 otto componenti della DDA di Palermo (Ignazio De Francisci, Giovanni Ilarda, Antonio Ingroia, Alfredo Morvillo, Antonio Napoli, Teresa Principato, Roberto Scarpinato e Vittorio Teresi) redigono un documento per denunciare la conduzione di Giammanco e le condizioni di insicurezza in cui si svolge il loro lavoro, giungendo a prospettare financo le loro dimissioni dall’ufficio.

11. Il 14 agosto 1992, il GIP del tribunale di Palermo, dottor Sergio La Commare, archivia. La decisione passa inosservata nella completa distrazione tipica del periodo ferragostano.

Redazione. L’intervista di Giachetti al generale Mori: “La piena poteva travolgermi ma credo ancora nella giustizia”. L’intervista al Generale Mori: “La verità sul dossier Mafia e Appalti? Si deve preoccupare chi ha steso un giudizio facendosi precedere dall’ideologia, e un magistrato questo non lo può fare”. Roberto Giachetti su Il Riformista il 25 Novembre 2023

Generale Mori, sono in libreria due suoi testi. C’è stato bisogno di riscrivere la sua verità sulla trattativa Stato Mafia, non bastavano le sentenze?

«No, non mi bastava la verità processuale, anche se con l’ultima spero siano finiti i dubbi sulla linearità mia e dei miei ufficiali. In 15 anni sono stato sottoposto a un fuoco di fila di considerazioni negative che pensavo di non meritare; qualsiasi attività umana può essere censurata, a maggior ragione la mia personale che indago su altre persone, quindi una valutazione è fondamentale. Ma non ho accettato il giudizio da parte di alcuni magistrati su un non reato, perché in 20 anni ammetto che possa esserci chi non condivide magari la mia tecnica operativa, ma che ci fossero dubbi su da che parte stessero Mori, De Donno e gli altri, questo non lo consento. Non ammetto che anche qualche magistrato che mi ha conosciuto possa dire che ero in combutta con un bieco assassino come Toto Riina».

Eppure taluni contestano addirittura le sue assoluzioni con formula piena.

«Faccio una constatazione per chi si intende poco di norme penali. L’assoluzione con formula piena per non aver commesso il fatto significa che io, per ragioni del mio ufficio, dovevo interessarmi di quella vicenda e che non ho commesso atti di rilevanza penale. Quindi ero già assolto pienamente. Ciò che mi ha soddisfatto nella valutazione della Cassazione è che il magistrato deve applicare leggi fatte da un altro potere, quello politico, e non può interpretare né emettere un giudizio che prescinda dai dati di fatto. Il magistrato non fa la storia, applica la legge che altri hanno formulato».

Ci sarà qualcuno che dovrà preoccuparsi per l’uscita di questi due libri?

«Abbiamo scritto Mafia e Appalti mettendoci nei panni del lettore raccontando solo i fatti, pensando che fosse lui a dover dare un giudizio. Se avessimo scritto un libro in cui davamo delle spiegazioni sul nostro operato avremmo fatto un servizio non corretto. Quindi si deve preoccupare chi ha steso un giudizio facendosi precedere dall’ideologia, e un magistrato questo non lo può fare».

Come si vive 20 anni sotto processo?

«Io non sono stato un imputato normale. Quando sono stato coinvolto conoscevo i fatti di cui ero stato anche protagonista e le carte su cui i magistrati lavoravano, se qualche documento mi mancava i miei me lo avrebbero reperito, perché ho avuto sostegno non solo dai miei dipendenti ma da tutta l’arma dei Carabinieri. Ho scelto l’avvocato non per il nome più o meno roboante ma per capacità tecniche e conoscenza del fenomeno. Avevo i soldi per andare a Palermo alle udienze, tutto questo fa di me un imputato fuori dal contesto generale. Se io fossi stato il solito quisque de populo coinvolto in una vicenda che conosce vagamente, di cui non ha le carte, col primo avvocato che gli consigliano, sarei stato travolto. Giorni fa con Gaia Tortora facevamo un parallelo tra il caso del padre e il mio. Io mi sono visto arrivare da lontano la piena che poteva travolgermi, Enzo Tortora se l’è trovata improvvisamente addosso come una secchiata di acqua fredda, la differenza è enorme».

Lei ha dichiarato di credere ancora nella giustizia. Dopo un calvario di 20 anni come ci si riesce?

«Io ho frequentato i tribunali e i magistrati requirenti, la gran parte delle persone sono corrette, preparate ed equilibrate. Lo dimostra il fatto che una procura si è scagliata contro di me e tre complessi di giudici mi hanno assolto. Quindi bisogna avere fiducia nella giustizia perché il mondo non è ingiusto, è solo lento. A volte arriva in ritardo, magari dopo la morte di un innocente punito ingiustamente, ma normalmente arriva in tempo per dare soddisfazioni e umiliare chi ha attaccato determinate persone senza motivi seri».

Il processo Trattativa è stato anche molto mediatico. Secondo lei aveva ragione Sciascia quando parlava di professionisti dell’antimafia?

«Sciascia ce l’aveva con qualche magistrato. Io ho trovato più professionisti dell’antimafia tra i giornalisti che tra i magistrati. Tra questi c’è chi, attraverso le inchieste, si fa propaganda, ne ho conosciuti tanti che sfruttavano indagini per autocelebrarsi. Ma quello che è avvenuto tra i cronisti giudiziari in questi 30, 40 anni di lotta alla mafia è qualcosa di avvilente. Questa gente si è rifiutata di fare il giornalista, ha trasmesso le veline dei magistrati alla pubblica opinione. Il giornalista deve interpretare notizie che si va a cercare per poi trasmetterle, non deve trasportare la verità già confezionata da altri sui giornali, perché questo non è giornalismo».

A sentirla si ha la sensazione di una grande serenità interiore e però poi leggiamo che lei “corre per vendicarsi”.

«A volte, come diceva un mio vecchio maresciallo, mi faccio precedere dal muscolo, nel senso che certe cose le dico e le penso per metà. È una battuta la mia. Mi auguro solo che qualcuno, dopo aver letto questi libri sia costretto a prendersi tanto Maalox».

Anche in politica c’è chi ha preso tanto Maalox negli anni passati.

«Penso di sì, dovrebbe essere una dotazione individuale di molte persone».

Qual era il suo rapporto con Falcone e Borsellino?

«Conoscevo molto bene Giovanni Falcone, un po’ meno bene Borsellino. Però dei due avevo una concezione e una visione molto precisa. Rappresentavano due tipologie classiche del siciliano, Falcone era quello di astrazione spagnoleggiante, distaccato, rigido, di difficile contatto ai primi incontri. Borsellino era invece il siciliano di astrazione araba, molto aperto, ti chiedeva subito la sigaretta, ti abbracciava. Due tipi così diversi ma proprio per questo forse cosi uniti. Erano due mondi entrambi significativi e belli ma molto diversi».

Perché qualcuno ha avuto tanta fretta nell’archiviare l’inchiesta su mafia e appalti?

«Io dò la mia interpretazione chiaramente, tra l’altro sono anche parte in causa. Mafia e Appalti andava a colpire non solo la criminalità, ma coinvolgeva anche imprenditoria, politica, e, restando alla Sicilia, la medio alta borghesia fatta di un mondo abbastanza ristretto di correlazioni, conoscenze, interessi. Colpendo un sistema in cui non c’era solo la mafia ma quelli che allora erano considerate vittime della mafia, cioè politici e imprenditori, abbiamo scagliato un masso nello stagno. E da una parte c’è stata una reazione, mentre per quelli che non avevano nessuna collusione con la mafia un senso di disagio a capire cosa stava accadendo, e quindi c’è stato un contrasto alla nostra iniziativa».

La mafia di oggi è certamente diversa da quella di 30 anni fa. Secondo lei è più forte o più debole?

«La mafia di oggi è più pericolosa. Quella dei Riina, dei Provenzano, che io ho contrastato, era la cosiddetta mafia militare, se non andavi bene ti sparava. E quindi era chiaro il modo di affrontarla. La mafia di oggi la definisco più una cultura, un sentire mafioso. Un modo di rapportarsi ai fatti concreti con un approccio deviato. È una cultura pericolosissima perché si tarda a comprendere. Non è più la mafia del possesso del territorio e dei beni, è una mafia di tipo economico. L’aveva già intuito Falcone quando nel 91 disse “la mafia è entrata in borsa”, stava cioè passando da un sistema parassitario, dal pizzo, dalla cointeressenza e dalle percentuali sugli appalti, alla mafia che gestiva gli appalti. Per questo sostengo l’idea di un’intelligence economica settoriale. In Italia su questo siamo molto indietro, questa è l’intelligence del futuro, e lo è anche nel contrasto alla mafia».

Qualche giorno fa è uscita la notizia per cui la famosa agenda rossa di Borsellino potrebbe trovarsi a casa dell’ex questore La Barbera. Secondo lei è verosimile?

«Potrebbe essere possibile, La Barbera potrebbe aver avuto accesso a questo tipo di documenti. Ben venga se si ritrovasse quell’agenda, ci sarebbero tante notazioni che forse farebbero un po’ di chiarezza, ma non le ritengo determinanti. Se Borsellino avesse potuto avere documentalmente notizie da trasmettere alla magistratura competente sarebbe corso a farlo, lì era ancora alla ricerca di elementi utili ma non aveva ancora una verità che sovvertisse il sistema». Roberto Giachetti

Mori: “In Mani Pulite e appalti e mafia, Borsellino e Di Pietro collaborarono. Urge un’intelligence economica in vista del Giubileo”. Edoardo Sirignano su L'Identità il 20 Novembre 2023

“In Mani Pulite e nel dossier mafia e appalti, Di Pietro e Borsellino hanno collaborato. In vista del Giubileo, occorre quanto prima un’intelligence economica”. A dirlo il generale Mario Mori, ex comandante del Ros, che per la prima volta parla dopo l’assoluzione per la vicenda della Trattativa Stato-Mafia.

Qualche giorno fa è stato assolto…

Sono, purtroppo, le vicende della vita. Non c’è solo il mio caso. Ce ne sono tanti altri. Quando si innesca un circuito non corretto nei rapporti tra magistratura, forze di polizia e ambiente in cui si sta operando, è possibile che si verifichino questo tipo di cose.

C’è una differenza tra la sua storia e quelle di malagiustizia che sentiamo ogni giorno?

L’aspetto più negativo di questa vicenda è la continuità dell’attenzione sulle mie attività, durata oltre quindici anni. È un qualcosa che va fuori da ogni norma.

Chi ha combattuto Cosa Nostra, intanto, è finito sotto la gogna mediatica, mentre invece magari chi ne ha agevolato la crescita ha fatto carriera…

Sono considerazioni che si possono fare, ma fanno parte dell’esistenza. Per quanto mi riguarda, ho subito qualche modifica nel mio modo di vivere, ma la carriera l’avevo già fatta. Quando mi è capitato addosso questo sistema, ero arrivato alla fine di un percorso e quindi non mi è pesato in maniera particolare. Ha colpito più profondamente altre persone che hanno lavorato insieme a me. Mi riferisco al capitano Sergio De Caprio e a Giuseppe De Donno, per quanto concerne la vicenda della Trattativa. Queste persone sono state colpite e hanno avuto dei condizionamenti nell’esercizio della loro professione.

Tra qualche giorno parteciperà a un convegno in cui viene spiegato perché Mani Pulite non ha oltrepassato lo Stretto di Messina. Perché è stata archiviata l’indagine su mafia e appalti?

È la famosa vicenda di Paolo Borsellino. Nell’ultimo periodo della sua vita si rese conto della potenzialità di mafia e appalti e si rese soprattutto conto del fatto che Mani Pulite era l’alter ego della sua inchiesta. Entrò in contatto con Di Pietro ed entrambi notarono un fatto, ovvero che le due indagini, quella di Milano e Palermo, potevano essere gestite insieme perché c’era un fattore che le univa ed era quello appunto quello mafioso, rappresentato da Antonino Buscemi e dalla società Calcestruzzi, che quest’ultimo gestiva dopo essersi accordato con Raul Gardini. Questo era il concetto base. Quello che lamento è che nessuno, in particolare dopo la morte di Borsellino, abbia ripreso l’unicità strategica delle due operazioni.

Continuano, nel frattempo, le perquisizioni per trovare l’agenda rossa…

È doveroso. Speriamo che ciò si verifichi, in modo che si possa fare chiarezza sul suo contenuto.

Potrà cambiare la storia che ci è stata raccontata fino a ora?

Non credo. Borsellino era alla ricerca della verità. Non l’aveva ancora trovata, purtroppo. Ci saranno, però, delle annotazioni significative, che potranno farci vedere molte cose in modo diverso.

Cosa Nostra, quindi, ritiene sia stata sconfitta?

L’apparato di contrasto da parte dello Stato esiste. La dimostrazione è la cattura di Matteo Messina Denaro. Detto ciò, la mafia sta cambiando. Non c’è più quella militare di Totò Reina e Bernardo Provenzano, ma ce ne è una più evoluta, più versata sul fronte economico, che non su quello strettamente operativo.

Qualcuno sostiene che viviamo in uno Stato non sicuro, a maggior ragione dopo l’ultimo femminicidio, che ha scatenato più di una semplice discussione…

Di matti che uccidono la fidanzata ne sentiamo parlare da migliaia di anni. Stiamo parlando di una vicenda che non ha nulla a che vedere con la sicurezza. Questa viene messa a repentaglio quando, ad esempio, c’è l’attacco di un’organizzazione criminale allo Stato, come faceva appunto la mafia. Se un povero ragazzo, colto da follia, uccide una povera ragazza, purtroppo, fa parte della storia della vita. Sbagliato creare inutili allarmismi.

Sono stati trovati, invece, gli anticorpi per combattere la malavita organizzata e in particolare le nuove mafie?

Lo Stato, in questa fase, è abbastanza presente sia con le sue strutture di polizia che con la magistratura. Lo si evince dal fatto che qualsiasi tentativo di ripresa della mafia viene stroncato sul nascere. Sollecito, invece, maggiore attenzione sull’aspetto economico-finanziario, il futuro della criminalità.

Considerando che, a breve, in Italia ci saranno eventi come il Giubileo, non c’è pericolo che quel connubio di cui parlava in precedenza, continui a gestire gli affari…

Auspico un’immediata creazione di un’intelligence economica in grado di contrastare questi fenomeni emergenti. Il legame tra gli appalti a cui facevo riferimento prima e quelli di oggi, pure se qualcuno fa finta di non capire, è automatico. È diventato il profitto criminale di determinati individui o di intere organizzazioni. È il fatto criminale a collegare aspetti temporalmente distinti.

Oggi si parla molto di riforma della giustizia. Crede nel lavoro di Nordio?

É un discorso annoso. Posso dirle la mia valutazione personale. Ho molta fiducia nell’attuale ministro della Giustizia. Nordio non ha bisogno dei miei consigli. Dal punto di vista giuridico e penalistico, è nettamente superiore alla mia conoscenza. Cercherà di fare bene. Spero solo che venga aiutato da tutte le componenti politiche e della magistratura.

Stefano Cappellini per la Repubblica - Estratti domenica 5 novembre 2023.

Generale Mario Mori, nella prefazione al suo libro di memorie in uscita, M.M. Nome in codice Unico, Giovanni Negri la accosta a Enzo Tortora come vittima simbolo della malagiustizia, per i due lunghi processi, mancata perquisizione del covo di Totò Riina e trattativa Stato-mafia, da cui è stato assolto in via definitiva. La convince il paragone?

«Non completamente. Nel caso di Tortora ci fu una lunga catena di errori dei magistrati, cui bastarono le parole di alcuni presunti pentiti. Il mio è un caso diverso, quasi tutti i magistrati che si sono occupati del mio caso hanno agito per convinzione». 

Con il “quasi” a chi si riferisce?

«A chi ha dimostrato di agire per pregiudizio ideologico e magari dopo si è anche candidato in politica».

Cioè Antonio Ingroia. Restano i fatti: fu o no un errore non perquisire il covo di Riina dopo il suo arresto?

«Ne discutemmo in una riunione tra carabinieri e magistrati. Il capitano Ultimo suggerì di non perquisire per continuare l’osservazione e io ero d’accordo. La decisione comportava dei rischi, ce li assumemmo. Poi l’indirizzo del covo fu bruciato da un ufficiale dei carabinieri cui scappò una battuta con i giornalisti». 

Nessuna autocritica?

«Non dico che tutta la ragione stia dalla parte mia e il torto da quella degli altri. Quel che mi dispiace è che le sentenze di assoluzione hanno valore giuridico ma non di convinzione: per molti io resterò quello che ha fatto la trattativa con Ciancimino».

Vito Ciancimino, mafioso ed ex sindaco democristiano di Palermo.

«Combattere la criminalità organizzata non è come arrestare i ladri di polli. Con pericolo personale andai a proporre a Ciancimino di collaborare e di parlare con i capi mafia per convincerli a consegnarsi. Come sempre in questi casi, offrivamo garanzie sul trattamento delle famiglie».

Lei scrive che la chiave per comprendere la strage in cui morì Paolo Borsellino sta nell’indagine mafia e appalti, poi rapidamente insabbiata dopo la sua uccisione.

«Il procuratore capo di Palermo Giammanco telefonò la domenica mattina a Borsellino, poche ore prima dell’attentato a via D’Amelio, per comunicargli che gli affidava le indagini sulla provincia di Palermo. Strano, no? Non poteva dirglielo il lunedì in ufficio?». 

Di cosa accusa Giammanco?

«Giammanco è morto nel 2018, ci sono stati molti anni per sentirlo e chiedergli ragione di tante cose. Non è stato fatto. È una constatazione prima che un’accusa». 

Che c’entra Tangentopoli con le stragi di mafia?

«C’era un filo nelle indagini sulla corruzione tra Milano e Palermo.

L’imprenditore Antonino Buscemi, pezzo grosso di una delle famiglie più importanti di Cosa Nostra, aveva comprato la Calcestruzzi dal gruppo Ferruzzi». 

Sta dicendo che Gardini si suicidò perché temeva l’emersione di legami del suo gruppo con la mafia?

«Penso di sì».

Fu Berlusconi a volerla capo del Sisde.

«Prima mi telefonò Gianni Letta». 

(...)

I politici più stimati?

«Cossiga, Pecchioli e, in tempi più recenti, Minniti. Gente che sa cos’è l’intelligence». 

E Craxi?

«Pagò Sigonella e la ribellione agli americani. Lì cominciò la sua fine». 

(...)

Ha citato Pecchioli, il ministro dell’Interno ombra del Partito comunista. Lei racconta di aver assistito a un incontro tra lui e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nel quale fu decisa l’infiltrazione di un giovane del Pci nelle Br.

«Era la fine del 1979. Fui testimone silente di un dialogo che in alcuni momenti fu condotto quasi in dialetto piemontese. L’infiltrato aveva nome in codice “Fontanone”, mai conosciuto né visto. Pecchioli chiese come unica condizione che fosse infiltrato e poi esfiltrato, come poi accadde. Ci aiutò a smantellare mezza colonna romana delle Br».

 (...)

La morte di Dalla Chiesa, ucciso dalla mafia, fu voluta anche da altri?

«Questo non lo credo. Fu lasciato troppo solo, certo, ma purtroppo il generale aveva un po’ abbassato la guardia. Lo vidi pochi giorni prima della sua uccisione. Aprì il portafoglio e mi mostrò una foto della moglie. Non era un gesto da lui». 

I Servizi deviati.

«L’espressione non mi piace. Deviate erano alcune persone che agivano per interesse personale».

E la P2?

«Bisogna distinguere. I vertici, Gelli e Ortolani, avevano un disegno politico. La maggior parte degli iscritti cercavano solo avanzamenti di carriera e benefici economici». 

Lei è stato involontario motore del cosiddetto lodo Moro, l’accordo allora segreto tra il nostro Paese e i gruppi palestinesi per evitare attentati sul territorio italiano.

«Catturammo una cellula di terroristi palestinesi a Ostia nel 1973. La loro liberazione concordata con George Habash, capo del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, fu la base del lodo Moro. Ma io questo allora non lo sapevo. Gli israeliani si vendicarono subito». 

Parla della caduta dell’aereo Argo 16 in uso ai Servizi?

«Era l’aereo che aveva accompagnato a Tripoli i palestinesi liberati. Non ci sono prove che siano stati gli israeliani, ma forti sospetti sì».

L’Italia ha cambiato linea sul conflitto israelo-palestinese?

«Noi avevamo in Medio Oriente uno dei più grandi uomini di intelligence, il colonnello Stefano Giovannone, uno capace di avere buoni rapporti tanto con l’Olp quanto col Mossad». 

(...)

L’intelligence migliore nel mondo?

«Quella inglese. Ci si entra a 27-28 anni e, se sei bravo, ne esci direttore. Da noi ormai si arriva ai vertici solo perché si indossa la stessa maglietta politica di chi ti nomina». 

E l’intelligence italiana?

«Siamo bravi nel controspionaggio, molto meno nello spionaggio».

Il caso dell’ex colonnello Carmelo Canale, grazie all’avvocato Giordano, arriva alla Corte Europea. Il governo dovrà rispondere sulla lesione della presunzione di innocenza tramite le motivazioni dell’archiviazione, avvenuta nonostante l’opposizione dell’indagato. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 26 ottobre 2023

La Cedu, la Corte europea di Strasburgo, chiede conto e ragione allo Stato italiano in merito alla evidente violazione della presunzione di innocenza nei confronti dell’ex colonnello dei carabinieri Carmelo Canale, ex braccio destro di Paolo Borsellino. I giudici della Corte dei diritti umani hanno accolto il ricorso presentato nel 2019 dall’avvocato Stefano Giordano del Foro di Palermo. I fatti si riferiscono a un fascicolo d’indagine, aperto dall’allora procura di Palermo nel 2012, nei confronti di Canale per un presunto reato, sebbene ormai prescritto. Inevitabilmente chiede archiviazione. Tuttavia, l’ex carabiniere, professandosi innocente, si oppone alla richiesta di archiviazione producendo prove a confutazione della tesi. Il gip decide dapprima di svolgere ulteriori indagini, ma alla fine archivia. Nell'ordinanza, accogliendo le argomentazioni del Pm, si dava quasi per certo che il reato fosse stato commesso.

Questa vicenda sembra ricalcare un destino comune a coloro che erano vicini a Borsellino o che conducevano indagini per suo conto. Dopo l'arresto di Totò Riina, gli ex membri dei Ros, dal capitano Ultimo a Mario Mori, subirono numerosi processi che si conclusero con la loro completa assoluzione. L’allora maresciallo Antonino Lombardo, in assoluto uno dei migliori dell’Arma e vicinissimo a Borsellino, fondamentale per la cattura del capo dei capi grazie alle sue fonti, si suicidò dopo che lo avevano infangato pubblicamente in una trasmissione televisiva di grande audience.

Stesso travaglio giudiziario ha dovuto subire Carmelo Canale, all’epoca maresciallo. Fu accusato prima di concorso esterno in associazione mafiosa. Poi, fra il primo e il secondo grado, di essere direttamente affiliato alla mafia, curandone gli interessi. Il 15 novembre 2004, otto anni dopo le prime accuse, Canale è stato assolto in primo grado, perché il fatto non sussiste. Tra le accuse, quelle di aver dato addirittura il dossier mafia-appalti ai mafiosi. Parliamo dell’informativa dei Ros voluta da Giovanni Falcone. Quella della quale si interesso lo stesso Borsellino. Con le sentenze sulle stragi oggi sappiamo che quella di Via D’Amelio ha a che fare con questo interessamento.

Questione che è riemersa fuori grazie alle audizioni in commissione Antimafia dell’avvocato Fabio Trizzino e di sua moglie Lucia Borsellino.

Il 17 luglio 2008, dodici anni dopo, Canale è assolto in secondo grado. La Corte fissa in novanta giorni (come prevede la legge) i termini per il deposito delle motivazioni, che, però, arrivano solo ad agosto 2009. La procura generale fece ricorso in Cassazione. Il 12 luglio del 2012 arriva il sigillo definitivo della sua innocenza.

Ma finisce qui? Nello stesso anno della sua assoluzione definitiva, la Procura della Repubblica apre un fascicolo contro di lui per il reato di falso ideologico in atto pubblico, in tesi commesso nell'ambito dell'attività di indagine condotta (quale componente del Ros di Palermo dei Carabinieri, all'epoca dei fatti diretto dal maggiore Antonio Subranni) in relazione alla morte del giornalista Giuseppe Impastato, deceduto il 9 maggio 1978 a seguito di un attentato dinamitardo poi risultato di matrice mafiosa.

Come ha ben descritto l’avvocato Stefano Giordano nel ricorso alla Cedu, in particolare, secondo la prospettazione accusatoria, Canale - nel redigere e sottoscrivere, unitamente ad altri due colleghi, il verbale di perquisizione e sequestro eseguiti il 9 maggio 1978 presso l'abitazione di Fara Bartalotta, zia dell'Impastato – avrebbe falsamente dato atto di avere rinvenuto unicamente sei missive e un manoscritto in cui l'Impastato preannunciava la sua volontà suicida; mentre avrebbe sottaciuto di avere informalmente asportato altra copiosa documentazione, non inserita nel fascicolo processuale (asporto che sarebbe emerso, viceversa, dalle dichiarazioni rese da Giovanni Impastato, fratello della vittima).

Nel novembre 2012, il Pm ha formulato una prima richiesta di archiviazione del procedimento, per essere il reato configurato a carico di Canale “estinto per intervenuta prescrizione”. In detta richiesta, peraltro, si sono formulati pesanti apprezzamenti circa la responsabilità dell’indagato. Lo stesso Canale si oppose alla prescrizione. Il Gip ha rigettato la richiesta di archiviazione e restituito gli atti al Pm, affinché procedesse a indagini suppletive. A marzo 2016 il Pm chiede di nuovo l’archiviazione. Nel 2018 il Gip ne ha disposto l'archiviazione, ma esprimendo nell’ordinanza delle considerazioni e censure a carico di Canale che – come sottolinea l’avvocato Giordano – “tratteggiavano inequivocabilmente una sua responsabilità penale, sebbene non giudizialmente accertata”.

L'attenzione ora si è spostata sulla Cedu, dove Canale ha presentato un ricorso sostenendo che le azioni delle autorità italiane hanno violato i suoi diritti costituzionali e convenzionali. La Corte Europea ha accolto il ricorso e ha posto alcune domande al governo italiano. Queste domande rivelano profonde preoccupazioni riguardo al rispetto dei diritti umani nel sistema giudiziario italiano.

In primo luogo, il caso solleva dubbi sulla trasparenza dei procedimenti giudiziari. Canale, attraverso l'avvocato Giordano, ha contestato se la descrizione dettagliata delle indagini fosse veramente necessaria per dichiarare estinto il reato per prescrizione. La mancanza di chiarezza in questo ambito può portare a interpretazioni ambigue e a decisioni giudiziarie discutibili, mettendo a rischio la fiducia nel sistema legale.

In secondo luogo, la Corte di Strasburgo ha sollevato la questione della rinuncia alla prescrizione. Il fatto che questa possibilità non sia stata considerata dai giudici nazionali solleva interrogativi sulla parità di trattamento tra l'indagato e l'imputato. Tale disparità rappresenta una violazione del principio fondamentale che ogni individuo ha il diritto di difendersi adeguatamente dalle accuse mosse nei suoi confronti.

Il terzo punto riguarda il diritto di difesa di Canale. Se non gli è stato concesso di difendersi pienamente e adeguatamente contro le accuse, la Cedu solleva un interrogativo significativo sulla correttezza e l'equità del procedimento giudiziario. La presunzione di innocenza, uno dei pilastri del sistema legale, sembra essere stata compromessa in questo caso.

Infine, la questione di un ricorso interno efficace è di vitale importanza. La Corte chiede allo Stato italiano se Canale non abbia avuto un mezzo adeguato per contestare la presunta violazione della presunzione di innocenza, sancita nelle motivazioni del decreto di archiviazione. Nel caso contrario, si profila una potenziale violazione dei suoi diritti umani.

Il caso di Canale alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo rappresenta un banco di prova cruciale per il sistema giudiziario italiano. La decisione della Cedu non solo avrà un impatto significativo sulla vita di Canale, ma potrebbe anche gettare luce su presunte disfunzioni sistemiche, mettendo in discussione l'integrità del sistema giudiziario italiano.

Depistaggi, neofascismo e servizi: le verità del legale di Borsellino su via D’Amelio. Stefano Baudino su L'Indipendente martedì 7 novembre 2023.

Ieri pomeriggio, la Commissione Parlamentare Antimafia ha ospitato la dirompente audizione di Fabio Repici, legale di Salvatore Borsellino (fratello di Paolo Borsellino e fondatore del Movimento delle Agende Rosse), coda di un primo appuntamento andato in scena lo scorso 18 ottobre. Il legale dell’attivista, riallineando le scottanti vicende collegate alla morte del magistrato Paolo Borsellino, ucciso il 19 luglio 1992 in via D’Amelio, ha apertamente contestato le ricostruzioni effettuate nella medesima sede dal legale dei figli del giudice, Fabio Trizzino. Quest’ultimo, nelle scorse settimane, aveva voluto sgombrare il campo dalle riflessioni sulle presunte compartecipazioni esterne a Cosa Nostra di apparati deviati delle istituzioni negli attentati e sull’incidenza che la “Trattativa Stato-mafia”, inaugurata dal Ros dei Carabinieri tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio, potrebbe aver avuto dietro l’omicidio Borsellino. Secondo Trizzino, infatti, il movente del delitto perpetrato il 19 luglio 1992 sarebbe l’interessamento mostrato da Borsellino verso il rapporto “mafia-appalti”, partorito dallo stesso Ros, poco prima della sua morte. Nel corso dell’audizione, Repici ha provveduto a dimostrare le numerose contraddizioni interne a tale ricostruzione, fornendo preziosi spunti sulle modalità con cui vennero effettuati gli attentati nella cornice del “biennio nero”, sui colpevoli ritardi di cui si sarebbe resa partecipe negli anni la procura di Caltanissetta, deputata a indagare sull’eccidio, e sulle contraddizioni che avrebbero caratterizzato le tesi attraverso cui i Ros hanno pubblicamente difeso la loro azione.

Le “ombre” nere e istituzionali

Già nel corso della precedente sessione, Repici aveva voluto mettere i puntini sulle i, sostenendo che, per cercare davvero la verità, la strage di via D’Amelio debba essere considerata «in un quadro ampio», sottraendosi a quel «fenomeno di negazionismo-revisionismo» che vorrebbe parcellizzare la lettura dei delitti eccellenti e delle stragi che hanno insanguinato lo Stivale dalla fine degli anni Settanta all’inizio degli anni Novanta negando la presenza di apporti esterni ai mafiosi di Cosa Nostra. L’avvocato Repici ha dunque ripercorso tappe di storia fondamentali per giostrarsi negli angusti meandri dei retroscena delle stragi, facendo ad esempio riferimento al fallito attentato all’Addaura il 21 giugno 1989 ai danni di Giovanni Falcone, il quale per la prima volta parlò di “menti raffinatissime” che sarebbero state capaci di orientare la mafia dall’esterno. E, come testimoniato da alcuni collaboratori o diretti conoscenti del giudice, tra cui il giornalista Saverio Lodato, Falcone avrebbe parlato espressamente della figura di Bruno Contrada, allora numero 2 del Sisde, poi arrestato e condannato in via definitiva a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa (ma successivamente “salvato” dalla Cedu, che annullò gli effetti penali della condanna – non entrando nel merito delle condotte di Contrada, accertate dai giudici – perché, a suo parere, all’epoca il reato di concorso esterno non sarebbe stato adeguatamente codificato).

Repici ha poi fatto riferimento a un altro condannato per concorso esterno, Marcello Dell’Utri, braccio destro di Silvio Berlusconi e poi senatore di Forza Italia. Nello specifico, il legale ha ricostruito un tassello ormai accertato della storia recente italiana che riguarda le strategie politiche di Cosa Nostra dopo lo scoppio di Tangentopoli, quando la mafia decise di promuovere la nascita di un nuovo soggetto politico, “Sicilia Libera”, una forza di stampo meridionalista che Cosa Nostra, scevra dei suoi referenti politici tradizionali caduti sotto i colpi degli arresti e delle indagini del pool di Antonio Di Pietro, voleva utilizzare come “trampolino” per «passare tra gli equilibri della prima repubblica a quelli della seconda repubblica» attraverso la costituzione di una fedele rappresentanza in parlamento. Tale progetto politico sarebbe stato poi messo da parte dai vertici della mafia, che grazie ai pregressi rapporti con Dell’Utri avrebbero infine deciso di dare pieno appoggio a Forza Italia, che poi vinse le elezioni del ’94.

Repici ha evidenziato come gli «artefici» del progetto politico “Sicilia Libera”, poi naufragato, furono «Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano e Leoluca Bagarella». Proprio questi tre elementi formarono il commando omicida che nel settembre 1992 avrebbero dovuto mettere al tappeto l’allora questore Calogero Germanà, che si salvò miracolosamente dall’attentato. Lo stesso Germanà che, insieme a Borsellino, si era occupato di uno dei maggiori esponenti della massoneria in Italia: quel Luigi Savona che un importante infiltrato, Luigi Ilardo, aveva indicato come il personaggio che «aveva curato l’ingresso della massoneria in Cosa Nostra» e il soggetto che aveva avviato l’indirizzo di Cosa Nostra verso una strategia stragista in contatto con esponenti di apparati istituzionali e esponenti del mondo massonico». Tutti elementi «confermati dai successivi accertamenti giudiziari». Un’altra figura rilevante nella narrazione di Repici è poi quella di Pietro Rampulla, l’esperto artificiere di Cosa Nostra, esponente della mafia messinese direttamente collegato ai Santapaola di Catania, «che si occupò di imbottire di esplosivo il canale sotto la autostrada a Capaci» in vista dell’attentato in cui, il 23 maggio 1992, venne ucciso Giovanni Falcone. E Pietro Rampulla non fu solo un mafioso, ma anche un militante di Ordine Nuovo, organizzazione dell’estrema destra extraparlamentare protagonista della “Strategia della tensione” negli anni Settanta.

Le parole di Agnese Borsellino

Altro importante passaggio ha riguardato le rivelazioni fatte da Agnese Borsellino, moglie di Paolo, alcuni anni dopo la morte del marito ai magistrati in riferimento a una circostanza collocata temporalmente al 15 luglio ’92 (quattro giorni prima della strage), in cui il giudice le avrebbe confidato di aver «visto la mafia in diretta» e che una fonte terza gli aveva riferito che il capo del Ros Antonio Subranni fosse «punciuto», ovvero affiliato alla mafia. L’avvocato dei figli di Borsellino, Fabio Trizzino, aveva cercato di sviare il significato di quelle parole in Commissione Antimafia, sostenendo che la frase di Borsellino debba essere in realtà letta come «Ho visto la mafia in diretta PERCHÈ mi hanno detto che Subranni è punciutu». Insomma, secondo Trizzino la fonte delle preoccupazioni del giudice sarebbe da ricondurre non alla presunta contiguità a Cosa Nostra di Subranni, ma alle trame anti-Ros a cui la fonte del giudice (rimasta ignota) avrebbe in quel frangente preso parte. Repici, però, ha riallineato sapientemente i fatti, ricordando come Subranni, in un’intervista resa al Corriere della Sera successivamente all’uscita delle rivelazioni di Agnese Borsellino, «ebbe l’ardire di riferire che bisognava prestare poca credibilità alle dichiarazioni di Agnese Borsellino perché “si sa che è malata di alzheimer”». Consapevole, dunque, che fosse proprio lui il “bersaglio” di quelle parole. Pochi giorni dopo la pubblicazione di quell’intervista, come ricordato da Repici, Agnese Borsellino «disse pubblicamente che le parole di Subranni non meritavano commento». A demolire la ricostruzione di Trizzino, insomma, sarebbero state secondo Repici le stesse parole di Agnese.

L’agenda rossa

Tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio, come ci hanno raccontato i suoi congiunti e i suoi più stretti collaboratori, Paolo Borsellino utilizzò incessantemente un’agenda rossa, da cui non si separava mai, per mettere nero su bianco i suoi spunti investigativi più importanti. Un’agenda che fu trafugata dal perimetro della strage di Via D’Amelio lo stesso pomeriggio della morte del giudice e dei suoi agenti di scorta. Soffermandosi sul furto dell’agenda rossa, Repici l’ha definito la «frazione degli accertamenti della strage più vittima di trascuratezza e omissioni da parte degli uffici giudiziari». Mentre da un lato si proscioglieva in udienza preliminare sull’imputazione per furto dell’agenda rossa Giovanni Arcangioli – il carabiniere che una fotografia risalente al pomeriggio del 19 luglio ’92 ritrae con la borsa di cuoio del giudice in mano, intento ad allontanarsi dal luogo della strage – senza quindi avere un accertamento processuale dei fatti tramite una verifica dibattimentale, «non ha avuto analogo sviluppo in sede istituzionale» il grande lavoro fatto negli ultimi anni da un esponente delle Agende Rosse, Angelo Garavaglia, il quale era riuscito a ricostruire parte dei movimenti dell’agenda dopo aver raccolto documenti video che gli vennero rilasciati da una serie di operatori dell’informazione presenti sul posto. Infatti, ha detto Repici, l’autorità giudiziaria non ha successivamente provveduto a effettuare «un’acquisizione di tutta la documentazione in archivio» relativa ai video «raffiguranti i minuti e le ore successivi alla strage».

Il furto dell’agenda rossa rappresenta solo il primo tassello del depistaggio delle indagini sulla strage di via d’Amelio, completato dal finto pentimento di Vincenzo Scarantino, il “balordo di quartiere” che, costretto con la forza dalla polizia ad andare davanti ai magistrati ad ammettere di aver effettuato una strage in cui in realtà non ebbe alcun ruolo, contribuì allo sviamento delle indagini. Tale azione depistante fu disinnescata solo dal 2008 in avanti, quando il vero esecutore materiale di quell’attentato, Gaspare Spatuzza (uomo dei fratelli Graviano, capi del mandamento di Brancaccio), decise di pentirsi e di smentire ufficialmente la ricostruzione di Scarantino. La sentenza “Borsellino-Quater”, nel 2017, ha sancito che ad avere un ruolo importante in entrambi i punti del depistaggio fu Arnaldo La Barbera, allora questore di Palermo. «Il 5 novembre del 1992 – ha spiegato Repici – l’autorità giudiziaria di Caltanissetta fece un’attività formale con la quale fu repertato il contenuto della borsa di Borsellino, scomparsa dall’auto il 19 luglio ’92 e rinvenuta, non si capisce bene come, nei giorni precedenti nell’ufficio di Arnaldo La Barbera». Rivolgendosi alla Commissione, Repici ha detto: «Potreste essere voi la prima istituzione del Paese a riuscire a raccogliere in modo integrale tutta la documentazione video di quanto accadde in via D’Amelio».

Il rapporto “mafia-appalti”

L’audizione di Repici, anche e soprattutto in relazione a quanto avvenuto nelle scorse settimane in Commissione Antimafia, si è fatta esplosiva quando si è toccata l’annosa questione del rapporto “mafia-appalti”, l’informativa depositata dal Ros nel febbraio 1991 che si proponeva di fare luce sulle connessioni tra Cosa nostra e le forze politico-imprenditoriali dello Stivale. E che, ai tempi, fu oggetto di aspri veleni e incredibili fughe di notizie, nonché epicentro dello scontro tra gli uomini del Ros e la Procura di Palermo. Questa pista è considerata dall’avvocato dei figli di Borsellino come la causa scatenante della strage di Via D’Amelio. E non è un mistero che anche la Presidente della Commissione Antimafia Chiara Colosimo (Fdi), che come Trizzino ha affermato di non aver «mai creduto» alla possibile pista sulla trattativa Stato-mafia – inaugurata proprio dal Ros dei Carabinieri tra il maggio e il giugno del 1992 sfruttando come intermediario per arrivare ai vertici mafiosi Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo –, la ritenga tale. Di tutt’altro avviso è invece Fabio Repici, che la giudica una vera e propria «menzogna»: «La causale mafia-appalti possiamo chiamarla una ‘pista palestinese’ su via D’Amelio», ha detto il legale, ricordando che «si è potuto apprendere dalle dichiarazioni pubbliche» di Mario Mori e Giuseppe De Donno (allora ai vertici del Ros) «il loro convincimento che quell’attività sia stata causa principale della strage di via D’Amelio», ma niente di tutto ciò è avvenuto «in sede processuale». Questo perché, ha detto Repici, «nelle varie occasioni in cui si sono ritrovati imputati, chiamati a rendere esame davanti ai giudici, come era loro legittima facoltà, si sono sempre avvalsi della facoltà di non rispondere». Dunque, «se davvero quei due ufficiali il 20 luglio 1992 pensarono che la strage appena avvenuta in via d’Amelio fosse stata causata dall’interessamento di Paolo Borsellino alle loro attività di indagine, noi siamo davanti a una omissione in atti d’ufficio perpetuata dal 1992 almeno fino al 1997-1998», in quanto i due avrebbero «tenuta nascosta quella circostanza che solo a loro, nella loro versione, risultava, rifiutando di mettere al corrente l’autorità giudiziaria che procedeva sulla strage di via d’Amelio, cioè la procura di Caltanissetta, con la quale pure i due ufficiali, ai tempi in cui a guidarla era il Dott. Tinebra, ebbero eccellenti rapporti». Secondo Repici, insomma, «pensare che un generale e un tenente colonnello dei carabinieri si siano tenuti questo segreto fino al 1998 è una cosa inenarrabile».

Ma c’è di più. Repici ne è certo: quando Mori e De Donno «tirarono fuori il discorso delle indagini mafia-appalti» non lo fecero «spontaneamente», ma per «legittimi interessi difensivi propri». Infatti, il 13 ottobre 1997, quando ancora mai nessuno aveva parlato all’autorità giudiziaria della questione “mafia-appalti”, Mori e De Donno vennero convocati come testimoni dalla Procura di Palermo. «De Donno – ricostruisce l’avvocato – venne sentito a sommarie informazioni» dai magistrati Caselli, Prestipino e De Lucia, che gli posero domande sulle «possibilità che anche per iniziativa di personaggi a loro vicini quelle indicazioni fossero state conosciute da esponenti di Cosa Nostra». In quell’occasione, «a 5 anni e due mesi circa dopo la strage di via d’Amelio», i magistrati «a brutto muso contestano al colonnello De Donno le circostanze a loro riferite dal collaboratore di giustizia Angelo Siino», esponente di Cosa Nostra che gestiva il sistema illegale degli appalti in Sicilia, che dopo aver deciso di pentirsi aveva «cominciato a parlare dei suoi rapporti con esponenti del Ros», da un lato delle connessioni con «alcuni sottufficiali grazie all’operato dei quali Cosa Nostra aveva conosciuto il contenuto di quelle investigazioni» e dei legami che Siino aveva avuto come confidente proprio con gli ufficiali del Ros che quelle indagini avevano curato». «Non mi si dica che è un caso: solo una settimana dopo, il 20 ottobre 1997, il colonnello De Donno scrive una nota al Procuratore Tinebra – dice ancora il legale di Salvatore Borsellino -, al quale segnala che ha circostanze da mettere a conoscenza della Procura per competenza motivata in relazione a condotte asseritamente illecite di magistrati della Procura di Palermo». Repici dà quindi la stoccata: «Se fosse vero ciò che egli riferì, poiché quelle circostanze erano note al colonnello de donno nel 1992 e negli anni successivi e poiché c’è un articolo del codice penale che punisce il pubblico ufficiale che avendone avuto notizia omette o ritarda di denunciare un fatto di reato, quella condotta del colonnello De Donno è la confessione del reato di cui all’art. 361 del codice penale». Insomma, per l’avvocato «mente chi ha il coraggio di dire che non c’è una diretta correlazione tra la convocazione di De Donno alla Procura di Palermo e la sua segnalazione alla Procura di Caltanissetta». In questo modo, rispetto a quanto raccontato dai Ros e da Trizzino, il quadro si ribalta.

L’appello di Salvatore Borsellino

Oltre all’avvocato Repici, che ha parlato davanti ai commissari per circa 2 ore e mezza, all’audizione ha preso parte anche Salvatore Borsellino, che già il 18 ottobre aveva tenuto un lungo intervento. Ieri Borsellino ha voluto lanciare un appello alle istituzioni, affermando che «una vera verità e giustizia sulle stragi che hanno insanguinato la storia del nostro Paese non può prescindere dal fatto che vengano messi in luce quali apparati hanno sottratto l’agenda rossa di Paolo Borsellino, hanno cancellato il contenuto dei dischi del database di Falcone e hanno sottratto i documenti contenuti nella cassaforte di Carlo Alberto Dalla Chiesa». Secondo il fratello del giudice Paolo, infatti, da questo spaccato occorre partire «se davvero si vuole una vera verità e una vera giustizia e non una verità di comodo, confezionata per nascondere all’opinione pubblica altre terribili verità che mancano alla storia del nostro Paese o per l’esigenza di ripulire la storia del nostro Paese a vantaggio dell’una o dell’altra parte politica». Ciò che è certo è che, stando a quanto sta accadendo in queste settimane, la Commissione Antimafia resterà l’agone in cui si giocherà una delle partite più importanti – anche a livello politico – per la ricerca della verità sulla morte di uno dei più illustri simboli della battaglia contro Cosa Nostra. Su cui, a 31 anni di distanza, mancano ancora gli elementi fondamentali. [di Stefano Baudino]

Paolo Borsellino, la figlia Lucia consegna l'agenda con una rubrica telefonica: «L’abbiamo custodita per 30 anni». Storia di Lara Sirignano su Il Corriere della Sera martedì 24 ottobre 2023.

Consegnata ai familiari quattro mesi dopo l’attentato di via D’Amelio, ma mai repertata, l’agenda in cui Paolo Borsellino appuntava i numeri di familiari, amici, colleghi e conoscenti finisce oggi davanti alla commissione nazionale antimafia. A consegnarla ai parlamentari, al termine della quarta audizione sull’eccidio costato la vita al magistrato palermitano e agli agenti della scorta, è stata la figlia Lucia. Un gesto che ha un doppio fine: dimostrare l’ennesima lacuna nelle indagini sulla strage che agli atti non ha mai avuto un documento che i familiari del giudice ritengono importante e ristabilire la verità sulle amicizie del magistrato. Negli anni, in tanti, si sono detti legati a Borsellino da stretti rapporti, ma i numeri di molti di loro non comparirebbero nell’agenda marrone.

In una borsa

Il diario-rubrica era contenuto nella borsa rimasta praticamente intatta dopo l’esplosione di via D’Amelio e restituita alla famiglia a novembre del 1992 dall’ex questore di Palermo Arnaldo La Barbera, tra i responsabili, hanno scritto diverse sentenze, del clamoroso depistaggio delle indagini sull’eccidio. Dalla 24 ore mancava invece l’agenda rossa in cui il giudice, secondo amici e familiari, appuntava riflessioni e pensieri e che avrebbe potuto dare indicazioni importanti agli investigatori. L’agenda rossa non è mai stata ritrovata. Sarebbe sparita dalla borsa nella quale, ricordano i figli, Borsellino l’aveva conservata prima di uscire di casa il giorno dell’attentato. «Nella borsa di mio padre c’era non solo l’agenda rossa ma anche un’agenda marrone, che conteneva una rubrica telefonica. Un’agenda mai repertata, che ci è stata consegnata e che abbiamo custodito per trent’anni senza aver mai saputo che non avesse avuto attenzione sotto il profilo delle indagini. In questi giorni, ho chiesto a mio fratello di fornire a questa commissione copie scansionate di quell’agenda e sarà mio padre a far comprendere chi fossero le persone di cui si fidava e quelle di cui non si fidava», ha detto Lucia Borsellino intervenuta in audizione in commissione Antimafia.

«Per evitare strumentalizzazioni», ha aggiunto Lucia Borsellino,«vorrei dare la mia lettura è che in quell’agenda troverete tutti i numeri delle persone vicine a mio padre aggiornata alla mattina del 19 luglio. Si trovano per tre quarti numeri di magistrati e per il resto di familiari. Troverete un surplus di numeri di persone che mio padre aveva necessità di raggiungere in qualunque momento oppure di persone come Giammanco che per questioni lavorative doveva raggiungere. Non troverete i numeri di chi non aveva queste frequentazioni. Me ne assumo la responsabilità. Per i numeri che non troverete lascio a voi ogni valutazione».

Travaglio lasci perdere Scarpinato, solo così può continuare a lottare contro la mafia. Ha fatto troppi errori quando era magistrato in Sicilia. I suoi rapporti con Borsellino non erano quelli che ci ha fatto credere. E poi il pentito Avola....Piero Sansonetti su L'Unità il 26 Ottobre 2023

Caro Travaglio,

ci conosciamo da tanti anni e da tanti anni ci troviamo su sponde politiche lontane. Abbiamo avuto polemiche di ogni tipo, anche molto aspre. Credo che tu mi abbia anche querelato. C’è, però, una cosa sulla quale non ho dubbi: che tu – coi tuoi sistemi e tuoi punti di vista che non condivido – sei schierato anima e corpo da sempre nella lotta contro la mafia. Per questo ti do un consiglio sincero e senza sottintesi: liberati di Scarpinato. Con Scarpinato al tuo fianco la lotta alla mafia non risulta credibile.

Ieri la figlia di Borsellino ha spiegato all’antimafia chi erano gli amici e i non amici di Borsellino. Scarpinato – lo sai – non risulta tra gli amici. Anche se in tutti questi anni, con grande spargimento di retorica, si è presentato come un suo discepolo. Rileggevo ieri la lettera che scrisse a Borsellino in occasione dei vent’anni dalla sua morte. Mi sono venuti i brividi. Scarpinato racconta di come Falcone e Borsellino furono fermati e il loro lavoro sepolto. Già, sicuramente è vero. Pochi giorni dopo la morte di Borsellino, alcuni Pm di Palermo chiesero l’archiviazione del dossier mafia-appalti, che era stato avviato da Falcone e che Borsellino aveva chiesto di poter seguire.

Lo considerava importantissimo, un tassello decisivo per arrivare alla verità. In quel dossier c’erano tutte le tracce dei rapporti tra mafia e imprese del Nord. Sparì. Ha ragione Scarpinato, fu cancellato il lavoro di Falcone e Borsellino. Però, Marco, tu sai benissimo chi erano i Pm che chiesero l’archiviazione: Uno di loro era Scarpinato. Tu sai anche che Scarpinato puntò tutto sulla pista trattativa stato-mafia, e in quel modo portò le indagini fuoristrada, andando alla fine a sbattere contro la Corte di appello e la corte di Cassazione che assolsero tutti gli imputati. Tu sai che proprio nei giorni scorsi un Gip ha sconfessato Scarpinato sull’affare Avola (il pentito del quale si era interessato Michele Santoro, e che Scarpinato tentò di delegittimare).

Rileggendo quella lettera a Borsellino alla quale accennavo, ho trovato questa frase testuale di Scarpinato, rivolta proprio, retoricamente, a Borsellino: “Per questo dicesti a tua moglie Agnese: “Mi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere, la mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno”. Quelle forze hanno continuato ad agire, Paolo, anche dopo la tua morte per cancellare le tracce della loro presenza. E per tenerci nascosta la verità”.

E’ vero che hanno continuato ad agire. Ed è vero anche che la scomparsa del dossier mafia- appalti ha impedito di arrivare a molte verità. Non è vera invece la frase che Scarpinato ha attribuito a Borsellino. la frase era completamente diversa. Trascrivo testualmente la dichiarazione di Agnese Borsellino: “”Ricordo perfettamente che sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini, senza essere seguiti dalla scorta. Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere”.

Capisci, amico mio? Borsellino accusò i suoi colleghi. Scarpinato ha cambiato il senso di quella frase. Ha cancellato la parola “colleghi”. Borsellino, il giorno prima di morire era convinto che i mandanti del suo omicidio fossero da cercare nella Procura di Palermo. Perché Scarpinato ha modificato e snaturato quella frase? Dammi retta. Se vuoi continuare la tua battaglia contro la mafia, ed essere credibile, lascia perdere Scarpinato che in passato ha spesso collaborato col tuo giornale. Piero Sansonetti 26 Ottobre 2023

La rivelazione della figlia. Dopo 30 anni spunta la rubrica di Borsellino: mancano i numeri dei ‘non-amici’ tra cui Scarpinato. “Oltre a quella rossa, nella borsa di mio padre c’era una rubrica telefonica. All’interno i numeri delle persone a lui vicine”. Quello di Scarpinato non c’è... Paolo Comi su L'Unità il 25 Ottobre 2023

Il numero di Roberto Scarpinato non c’è. Nell’agenda telefonica di Paolo Borsellino, tra le decine e decine di numeri telefonici, manca proprio quello dell’ex procuratore generale di Palermo ed ora senatore pentastellato, all’epoca dei fatti pm presso la procura del capoluogo siciliano. Una mancanza quanto mai singolare in quanto Scarpinato si è sempre dichiarato in questi anni ‘amico’ del magistrato ucciso in via D’Amelio il 19 luglio del 1992.

Ad annunciare l’esistenza di questa agenda telefonica è stata ieri, durante l’audizione presso la Commissione parlamentare antimafia, la figlia Lucia. “Nella borsa di mio padre c’era, non solo l’agenda rossa ma anche un’agenda marrone che conteneva una rubrica telefonica. Un’agenda mai repertata, che ci è stata consegnata e che abbiamo custodito per trent’anni senza aver mai saputo che non avesse avuto attenzione sotto il profilo delle indagini”, ha esordito la primogenita di Borsellino.

“In questi giorni – ha aggiunto Lucia Borsellino – ho chiesto a mio fratello (Manfredi, funzionario della Polizia di Stato, ndr) di fornire a questa Commissione copie scansionate di quell’agenda e sarà mio padre a far comprendere chi fossero le persone di cui si fidava e quelle di cui non si fidava: in quell’agenda troverete tutti i numeri delle persone vicine a mio padre aggiornata alla mattina del 19 luglio”. “Si trovano per tre quarti numeri di magistrati e per il resto di familiari. Troverete un surplus di numeri di persone che mio padre aveva necessità di raggiungere in qualunque momento oppure di persone come Giammanco (Pietro, procuratore di Palermo, ndr) che per questioni lavorative doveva raggiungere. Non troverete i numeri di chi non aveva queste frequentazioni. Me ne assumo la responsabilità. Per i numeri che non troverete lascio a voi ogni valutazione”, ha quindi concluso la figlia del magistrato.

Dopo Lucia ha preso la parola il marito, l’avvocato Fabio Trizzino, legale di parte civile della famiglia Borsellino. “Vi sono elementi che da subito oggi, valorizzandoli, ci dicono che il depistaggio è iniziato immediatamente”, è stata la risposta di Trizzino a chi gli domandava del ruolo avuto dal falso pentito Vincenzo Scarantino. “Il depistaggio non nasce a giugno del 1994 con la sua testimonianza ma il giorno stesso della strage quanto non venne repertata la (sua) borsa come qualcosa che non andava attenzionato” e non fu “acquisito il traffico delle telefonate in entrata di Borsellino, che è un vulnus alle indagini”, ha puntualizzato Trizzino. E ancora: “Quello che hanno combinato i magistrati che hanno indagato su Scarantino è inenarrabile. Quando non si deposita il confronto tra Scarantino e Cangemi, con quest’ultimo che smentisce il primo, si denota come minimo mancanza di capacità: Cangemi invoca i magistrati a non farsi prendere in giro”.

“Non ho alcun timore a dire, per un atto di onestà intellettuale – ha aggiunto – che a difendere la toga di Borsellino sono stati gli avvocati. Noi ci siamo affidati alle istituzioni, che ci hanno confezionato sentenze di fronte alle quali inorridisco. Mantengo oggi intatta la fiducia nella magistratura, che poi ha restituito alla Nazione una ricostruzione più plausibile”. Non poteva mancare un accenno al dossier “mafia-appalti” del Ros dei carabinieri allora diretti dal colonnello Mario Mori e a cui stava lavorando Borsellino. “Il dossier è importante nell’ottica dell’accelerazione della strage? Non lo dico io, lo dicono le sentenze definitive”, ha sottolineato Trizzino che ha poi voluto tirare una frecciata, senza citarlo, a Scarpinato e alla sua teoria dei ‘sistemi criminali’, una continua manipolazione della storia d’Italia da parte di servizi segreti deviati, destra eversiva e mafia.

“Dire che la mafia è eterodiretta dell’eversione è una follia, è smentita dai fatti: Riina che non si fida manco dei suoi deve appaltare a chicchessia le stragi? Se riuscirete a dimostrami questa cosa sarò il primo a chiedere scusa a tutta l’Italia, ma su questo voglio essere contrastato e giudicato”. “Un enorme ‘grazie’ a Lucia Borsellino che ha voluto consegnare alla Commissione antimafia la copia di un’agenda del padre Paolo, contenente riferimenti importanti. Un atto coraggioso che dimostra il desiderio della famiglia Borsellino di una verità completa sui giorni delle stragi. Sappiano, Lucia e i suoi familiari, che quella sete di verità è anche la nostra”, ha dichiarato al termine dell’audizione Carolina Varchi, deputato e capogruppo di Fratelli d’Italia in Commissione giustizia a Montecitorio.

“L’archiviazione, seppur parziale, dell’inchiesta mafia-appalti richiede un serio approfondimento e l’acquisizione di atti soprattutto considerando che Borsellino non ne è stato messo a conoscenza né l’ha condivisa. I promotori di quella archiviazione furono gli allora magistrati Scarpinato e Lo Forte che fecero la richiesta, Giammanco che appose il visto e La Commare che accolse la richiesta: sta negli atti e la Commissione ha il dovere di approfondire ogni connessione utile al raggiungimento della verità”, ha dichiarato invece il deputato Mauro D’Attis (FI). Dopo Lucia Borsellino e Fabio Trizzino il calendario prevede l’audizione di Salvatore Borsellino, fratello del magistrato. “Sentiremo tutte le persone che, in queste audizioni, sono state citate, che sono ancora vive e possono portare luce su quanto, fino a qui, è emerso”, ha fatto sapere Chiara Colosimo, presidente della Commissione antimafia. Paolo Comi 25 Ottobre 2023

La battaglia per la verità di Salvatore Borsellino in Commissione Antimafia. Stefano Baudino su L'Indipendente giovedì 19 ottobre 2023

«Ho chiesto di essere audito da questa Commissione, insieme con il mio avvocato, difensore di parte civile, Fabio Repici, per fare sentire anche la mia voce di fratello di Paolo dopo quella dei figli di mio fratello». È iniziata con queste parole l’audizione tenuta da Salvatore Borsellino – fratello minore del giudice Paolo Borsellino e fondatore del Movimento delle Agende Rosse – davanti alla Commissione Antimafia. Un incipit con cui l’attivista ha immediatamente voluto sottolineare quanta distanza intercorre tra le tesi di cui è portatore e quelle dei figli del giudice, di cui ad inizio ottobre si era fatto portavoce il loro legale, Fabio Trizzino, sempre davanti alla Commissione. Borsellino, un vero e proprio fiume in piena, ha presentato ai commissari quelli che, a suo parere, sono i tasselli fondamentali per comprendere i retroscena della strage di via D’Amelio e di molti altri attentati attribuiti alla mafia che, almeno dagli anni Ottanta, hanno insanguinato lo Stivale: il ruolo dei servizi segreti deviati, i piani dell’eversione nera, le condotte opache e depistanti di alti esponenti delle forze di polizia e della magistratura. Nonché quella “improvvida” Trattativa Stato-mafia inaugurata dal Ros dei carabinieri che, come attestano numerose sentenze definitive, al posto di fermare le stragi ne produsse altre. Il tutto, secondo Borsellino e il suo legale, va studiato in una visione unitaria.

Prima di entrare nel merito della sua audizione, Borsellino ha manifestato il suo «sconcerto» per gli attacchi sferrati davanti alla Commissione antimafia (e in molte altre occasioni) da Fabio Trizzino nei confronti di Nino Di Matteo, attuale sostituto procuratore della DNA, noto per essere stato il pm del processo sulla mancata cattura di Provenzano e sulla “Trattativa”, e Roberto Scarpinato, per anni sostituto procuratore a Palermo e oggi senatore del M5S. A loro Borsellino ha espresso «stima e gratitudine per avere in questi lunghi anni, ricercato con tutte le loro forze quella Verità e quella Giustizia per le quali continuo a combattere, in nome di quella Agenda Rossa che ho scelto a simbolo della mia lotta». L’agenda rossa, da cui il movimento di Salvatore Borsellino prende il nome, è quel taccuino trafugato dal perimetro della strage di via D’Amelio da mani istituzionali, che conterrebbe spunti investigativi esplosivi appuntati dal giudice – che da quello strumento non si era mai separato dalla strage di Capaci in avanti – negli ultimi giorni della sua vita. Secondo Borsellino, insomma, «sono ben altri i magistrati verso i quali bisogna puntare il dito», come Giovanni Tinebra, allora procuratore capo a Caltanissetta, «che avrebbe dovuto essere chiamato a rispondere di avere avallato un evidente depistaggio nel corso di ben due processi», e Pietro Giammanco, «che ha ostacolato in ogni modo Paolo Borsellino, così come Giovanni Falcone, fino a concedergli la delega per indagare sui fatti di mafia a Palermo soltanto quando la macchina carica di esplosivo che avrebbe dovuto ucciderlo era già pronta davanti al portone di Via D’Amelio».

Il furto dell’agenda rossa e la successiva “costruzione” di falsi pentiti da parte della polizia hanno costituito, secondo i giudici del processo Borsellino-Quater, “uno dei più gravi depistaggi della storia repubblicana”. «Il Borsellino Quater – ha detto Borsellino – era stata una svolta, mi aveva fatto sperare di vedere, finalmente, almeno un barlume di Verità, un miraggio di Giustizia, ma poi sono arrivate una serie di sentenze contraddittorie, per l’ultima delle quali aspettiamo ancora la motivazione, che hanno fatto quasi del tutto svanire la mia speranza». Qui Borsellino parla delle ultime due sentenze sfociate dal processo “Trattativa” che, ribaltando il verdetto di primo grado, hanno assolto i Ros che lanciarono l’invito al dialogo ai vertici mafiosi attraverso la mediazione dell’esponente Dc ed ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. “Nella prima, quella d’appello, si assolvono gli imputati dello Stato perché “il fatto non costituisce reato”, nell’altra quella in cassazione, si assolvono tutti “per non avere commesso il fatto”. Ma “il fatto” c’è, la strage c’è stata, Paolo e i suoi ragazzi sono stati uccisi e dopo quella strage altre ne sono state compiute ed altre vittime innocenti hanno perso la vita”. Borsellino ricorda infatti che varie sentenze definitive hanno già attestato che la “Trattativa” rafforzò «l’idea che la strategia stragista pagava se era in grado di mettere in ginocchio lo Stato, di spingerlo a farsi avanti, a scendere a patti».

«Perplesso mi ha lasciato anche, nella ricostruzione dell’avvocato dei figli di Paolo, il diverso peso dato ad alcune parole di Paolo e ad altre parole e circostanze riferite da sua moglie, Agnese Piraino», ha detto Borsellino. Il riferimento è alle «pesanti, terribili» rivelazioni fatte dalla vedova di Paolo ai magistrati anni dopo la morte del marito, concernenti una circostanza collocata temporalmente pochi giorni prima della strage, in cui il giudice le avrebbe confidato di aver appreso da una fonte rimasta ignota che il capo del Ros Antonio Subranni fosse “punciuto”, ovvero affiliato alla mafia. Parole che, specialmente se lette nell’interezza del verbale, a prescindere dalla loro veridicità – che non è stata mai riscontrata – indicano inoppugnabilmente le “tinte” dei pensieri di Paolo (che lei stessa descrisse come “turbatissimo”, ma “certo” di quello che stava dicendo). Parole il cui significato, attraverso un difficile equilibrismo, è invece stato completamente sviato da Trizzino in audizione, evenienza che era infatti stata evidenziata con vigore dal senatore Scarpinato. Secondo l’avvocato dei figli di Borsellino, l’elemento acceleratore della strage fu l’interessamento del giudice, nell’ultima fase della sua vita, al dossier “mafia-appalti” del Ros. Di tutt’altro avviso è Borsellino, il quale sostiene che occorra partire «dal furto di quell’Agenda, compiuto, ne sono certo, proprio da quelle stesse mani che hanno voluto la morte di mio fratello, e non sto parlando della mafia, ma di pezzi deviati dello Stato […] È proprio da questo che si dovrebbe ripartire e non da un dossier “mafia-appalti” che, se pure può essere considerato una concausa, non è sicuramente la vera causa dell’improvvisa accelerazione di una strage che, a quel punto, non poteva più essere rimandata».

Inimicandosi evidentemente molti “negazionisti” presenti all’interno della Commissione, Borsellino ha voluto valorizzare l’entità delle risultanze cui, a più di 30 anni di distanza dagli eccidi, stanno pervenendo le indagini di varie procure: «Occorreva eliminare, e in fretta, chi rappresentava un ostacolo insormontabile per un disegno criminoso, teso, con l’ausilio anche dell’organizzazione mafiosa e dell’eversione nera, a cambiare gli equilibri di questo nostro disgraziato Paese che da queste stragi, che io ho chiamato e continuerò sempre a chiamare “stragi di Stato”, è stato sempre segnato». Borsellino ha chiuso la sua audizione con parole amare: «Quello che manca, e ormai sono quasi sicuro di non vedere nel corso di quel residuo di vita che mi resta sono una Verità e una Giustizia che forse pochi, troppo pochi, in questo paese, vogliono davvero». [di Stefano Baudino]

Ufficio come di “un nido di serpi”. Commissione Antimafia, Scarpinato contro il legale della famiglia Borsellino. Paolo Pandolfini su Il Riformista l'8 Ottobre 2023

Il dossier “Mafia e Appalti” a cui stavano lavorando i carabinieri del Ros diretti dall’allora colonnello Mario Mori era di grandissima importanza per Paolo Borsellino. Lo ha ricordato ancora una volta l’avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino e legale della famiglia del magistrato ucciso il 19 luglio 1992 a Palermo, ascoltato ieri in audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia.

“Emerge dalla storia recente degli atti processuali e dalle sentenze definitive che si attribuisce grande importanza al movente ‘mafia e appalti’ proprio perché era il fulcro di una rappresentazione alquanto degenerata di un sistema che stava cadendo”, ha detto Trizzino, concludendo così l’audizione iniziata la scorsa settimana.

“Il popolo italiano era inviperito per aver scoperto che c’era un sistema che si reggeva sull’erosione costante della spesa pubblica con alleanze anche mafiose”, ha quindi aggiunto il legale, parlando di “un enorme sistema degenerato, enorme corruzione” e sottolineando che “c’era un clima da Norimberga. Quando crolla un sistema è così: il sistema reagisce. E Falcone, Borsellino e Di Pietro volevano fare le inchieste”. Trizzino durante l’audizione ha riportato un frase di Borselli che, rivolgendosi ai colleghi Giuseppe Pignatone e Guido Lo Forte, avrebbe detto che non gli raccontavano tutta la verità sul rapporto del Ros che poco dopo venne archiviato.

Pure Roberto Scarpinato, anch’egli allora pm a Palermo, sarebbe stato a conoscenza dell’attività svolta da Borsellino con i carabinieri.

“Non farò alcuna domanda sulle parti delle dichiarazioni dell’avvocato Trizzino nelle ha fatto riferimento alla mia persona: questo per ragioni di eleganza istituzionale e anche perché, tenuto conto dell’esiguo tempo a mia disposizione, ritengo di dovermi concentrare soltanto sulle questioni rilevanti. Ho fatto questa premessa affinché il mio silenzio non venga frainteso come acquiescenza alle dichiarazioni dell’avvocato Trizzino, che ritengo in più punti inesatte”, ha replicato un quanto mai nervoso Scarpinato dopo essere stato ‘bacchettato’ da Chiara Colosimo (Fd’I), presidente della Commissione antimafia.

“Sono venti minuti che lei interviene, ma non siamo in un’aula di un tribunale e questo non e’ il contro esame di un teste”, aveva detto Colosimo interrompendo la successione di domande rivolte

da Scarpinato al Trizzino. “Qui si fanno domande – aveva aggiunto – che servono per ricostruire la

storia e non per legittimare o meno alcune posizioni. Le chiedo di stare nei tempi”.

“L’audizione è stata un atto di verità”, ha commentato la senatrice di Italia Viva Raffaella Paita, componente della Commissione antimafia. “L’avvocato Trizzino ha ribadito che Borsellino parlava di ‘nido di serpi’ all’interno del suo ufficio. Occorre fare chiarezza innanzitutto sul perché il magistrato definisse così duramente una parte della procura nella quale operava – ha aggiunto Paita – e poi sugli appunti e le memorie di Giovanni Falcone. Al momento, si conoscono circa una ventina di questi documenti, ma sembra che siano almeno il doppio. Daremo battaglia per conoscere la verità nel pieno rispetto dei due giudici uccisi”.

“Borsellino ci ha lasciato un insegnamento da gigante morale quale era di perseguire sino alla fine la giustizia qualunque persona coinvolga e qualunque cosa questo comporti. E io, col rispetto che devo a chi siede a fianco a me, intendo proseguire su questa strada”, è stato invece il commento di Colosimo.

Rivolgendosi a Trizzino, Colosimo ha poi presentato le sue scuse “perché ciò che abbiamo fatto in questa sede è stato molto doloroso e forse è sembrato di rivivere quanto successo”.

Non si esclude, a questo punto, che venga istituita una Commissione, come richiesto da Mori, per far luce proprio sul dossier Mafia e Appalti, e quindi sui rapporti fra politica, imprenditoria, e magistratura agli inizi degli anni Novanta in Sicilia e sui quali non si è mai indagato. Paolo Pandolfini

"Questo non è l’esame di un teste". Il “conflitto d’interesse” del senatore grillino Roberto Scarpinato. «L’ex procuratore confonde il ruolo di commissario dell’Antimafia con quello del magistrato in carriera». Paolo Pandolfini su Il Riformista il 10 Ottobre 2023

Non si placano le polemiche nei confronti dell’ex procuratore generale di Palermo ed ora front runner dei pentastallati in Commissione parlamentare antimafia dove la scorsa settimana sono stati auditi Lucia Borsellino, figlia del magistrato ucciso nella strage di via D’Amelio, ed il legale della famiglia, l’avvocato Fabio Trizzino. Scarpinato, infatti, era stato più volte citato da Trizzino per il ruolo che all’epoca ricopriva come sostituto alla Procura di Palermo e per essere stato a conoscenza del dossier Mafia appalti, su cui indagava Borsellino e che era poi stato archiviato.

“Non farò domande sulle parti delle dichiarazioni di Trizzino in cui ha fatto riferimento alla mia persona”, aveva replicato Scarpinato, motivando la sua scelta con una questione di “eleganza istituzionale” e precisando: “Il mio silenzio non venga frainteso come acquiescenza alle dichiarazioni di Trizzino che ritengo in alcuni punti inesatte”. Scarpinato, dopo essere allora entrato nel merito della vicenda, era stato interrotto dalla presidente Chiara Colosimo. “Senatore, sono venti minuti che lei interviene e qui non siamo in un’aula di tribunale, questo non è l’esame di un teste; quelle che vanno fatte qui sono domande per ricostruire la storia e non per legittimare o meno alcune posizioni”, aveva detto Colosimo. “Sto facendo domande precise”, ha controbattuto Scarpinato.

Tra le fila della maggioranza l’accaduto non è passato inosservato. Il primo ad aver sollevato il caso è stato il deputato Gianluca Cantalamessa (Lega). “Avevo paventato il rischio di conflitto di interesse di Scarpinato in questa audizione – ha detto – che fosse citato più volte dagli auditi essendo allo stesso tempo commissario. Il fatto che questa Commissione, facendo domande, si ponga nei confronti degli auditi come se fossero testimoni in un processo penale è inaccettabile”. “Scarpinato dimentica di essere un parlamentare come tutti gli altri e confonde il ruolo di commissario dell’antimafia con quello del magistrato in carriera”, ha commentato invece Mauro D’Attis, deputato di Forza Italia e vicepresidente della Commissione antimafia. Al termine dell’audizione, interpellata sulla polemica, Colosimo ha spiegato di non aver avuto “nessun confronto” con Scarpinato, precisando che “per me i commissari sono tutti uguali. Ovviamente si devono comportare da commissari e quando ciò non accade intervengo”.

Non si è fatta attendere, ovviamente, la replica del M5s. “Le insinuazioni rivolte a Scarpinato da componenti della maggioranza, anche in Commissione antimafia, sono gravemente offensive e prive di qualsiasi fondamento, come dimostrato già dalle condanne per diffamazione inflitte ad altre persone che le hanno sostenute”, hanno sottolineato i componenti pentastellati a Palazzo San Macuto Stefania Ascari, Federico Cafiero De Raho, Francesco Castiello, Michele Gubitosa, Luigi Nave. “Gli esponenti del centrodestra, che si permettono di muovere nei suoi confronti queste insinuazioni diffamatorie, devono vergognarsi e da ora in poi si astengano dal proferire qualsiasi parola retorica sugli eroi dell’Antimafia a cui lo Stato non ha saputo garantire il pieno sostegno”, hanno quindi sottolineato i parlamentari grillini. Paolo Pandolfini

Testimonianza in Commissione. Incontro segreto tra Borsellino e Mori, Scarpinato sapeva: “Il Pm voleva far arrestare Giammanco”. Nuova sconvolgente testimonianza dell’avvocato della famiglia in commissione parlamentare antimafia: “Organizzò l’incontro con i Ros il 25 giugno 1992 perché aveva scoperto qualcosa di tremendo sul procuratore Giammanco. Circostanze così gravi da convincerlo che il suo capo fosse un infedele”. Paolo Comi su L'Unità il 3 Ottobre 2023 

“Borsellino voleva arrestare l’allora procuratore di Palermo Pietro Giammanco (morto nel 2018, ndr) o fare arrestare Giammanco. Borsellino ha organizzato un incontro segreto con l’allora colonnello del Ros dei carabinieri Mori e il capitano De Donno, il 25 giugno del 1992, perché aveva scoperto qualcosa di tremendo sul conto del suo capo. Si parla contrasti e circostanze talmente gravi che lo hanno convinto che quel suo capo era un infedele”. E’ quanto affermato ieri dall’avvocato Fabio Trizzino, legale dei figli del magistrato ucciso a Palermo 31 anni fa, davanti alla Commissione parlamentare antimafia.

Una testimonianza sconvolgente che apre scenari inediti su quanto accadde nell’estate del 1992 nella Procura del capoluogo siciliano, da Borsellino definita “un nido di vipere”. Dell’incontro fra Borsellino ed gli ufficiali del Ros, avvenuto presso la Stazione carabinieri di Carini, era a conoscenza Roberto Scarpinato, a quel tempo magistrato della Procura di Palermo. Scarpinato, ora senatore del M5S e ieri presente a Palazzo San Macuto, era stato “destinatario di una confidenza di Borsellino ed è Scarpinato a dircelo”, ha aggiunto Trizzino, marito di Lucia Borsellino, primogenita del magistrato ucciso nella strage di via D’Amelio.

L’incontro sarebbe stato rapido e Borsellino andrò dritto al punto dicendo ai carabinieri che avrebbe voluto approfondire l’inchiesta su appalti e mafia, aggiungendo che dovevano parlare soltanto a lui. Trizzino, sul punto, ha anche citato l’audizione di Maria Falcone, davanti al Csm in cui, nel trigesimo della morte del fratello Giovanni, aveva riferito di tale circostanza. La testimonianza di Trizzino, iniziata la settimana scorsa, ieri ha vissuto momenti di grande tensione. “Ho un conflitto di interessi, ma di tipo emotivo”, ha precisato Trizzino, ricordando ai siciliani che il motivo per cui ci hanno messo 30 anni per fare l’autostrada Palermo-Messina “sta nel rapporto mafia-appalti dove è condensato il sistema di cointeressenza tra aziende della famiglia mafiosa di Passo di Rigano, e le società del gruppo Ferruzzi (all’epoca gestite da Raul Gardini, morto suicida nel 1993 durante l’inchiesta Tangentopoli, ndr)”. Un cointeressenza che sarà replicata nella speculazione di Pizzo Sella, a Palermo.

L’avvocato della famiglia Borsellino ha poi ricordato cosa disse all’epoca il suocero a Maria Falcone, che chiedeva insieme con Alfredo Morvillo i motivi per cui il fratello Giovanni avesse dovuto lasciare Palermo: “State calmi perché sto scoprendo cose tremende”.

Non poteva mancare nell’audizione un passaggio su Totò Riina, il capo dei capi, il quale decise “la strategia di attacco che costituì la super ‘cosa’ che vedeva coinvolti gli uomini che misero a punto le stragi tra cui Matteo Messina Denaro. Riina se ne assunse in proprio la responsabilità di via D’Amelio, si comportò da vero dittatore”.

Un paio di settimane prima di morire, ha proseguito Trizzino, a Casa Professa a Palermo Borsellino lasciò ai posteri il suo testamento spirituale, firmando al tempo stesso la sua condanna a morte, dicendo: “Io sono testimone e so cose che devo riferire all’autorità giudiziaria”. “Molti collaboratori di giustizia ci dicono che lì Borsellino si sovraespose”, ha ricordato Trizzino, lasciandosi quindi andare ad un duro sfogo: “Non viviamo più: in questa situazione è del tutto impossibile l’elaborazione del lutto per noi. I familiari vogliono cercare la verità per una questione di dignità e di impegno. Le nuove generazioni della famiglia anziché cercare di vivere la propria vita, sono costrette a impegnarsi nella ricerca della verità che non è semplice”.

Prima di concludere, Trizzino ha rivolto l’invito alla Commissione di chiedere “all’autorità giudiziaria le annotazioni del diario di Giovanni Falcone che non sono 14 ma 39″. Nelle annotazioni, Falcone “si lamenta del fatto che in riferimento al rapporto mafia-appalti i fedelissimi di Giammanco affermino che quel rapporto era carta straccia”. Si tratta di annotazioni “di cui il popolo italiano non ha avuto mai disponibilità”. Paolo Comi 3 Ottobre 2023

Borsellino? Non si fidava dei colleghi. Parli Scapinato. Luca Fazzo su Il Giornale il 4 Ottobre 2023

C’è un ex magistrato che oggi siede in Parlamento e che potrebbe dire cose interessanti su uno dei nodi irrisolti della storia recente del nostro paese: la stagione delle bombe del 1992 , le stragi che - nel pieno dell’inchiesta Mani Pulite eliminarono, insieme alle loro scorte, prima Giovanni Falcone e poi Paolo Borsellino. L’ex magistrato si chiama Roberto Scarpinato, eletto con i 5 Stelle, e membro della Commissione Antimafia.

C’era anche lui l’altro ieri ad ascoltare la deposizione di Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino: ed è stato direttamente chiamato in causa. È Scarpinato, dice Trizzino, ad avergli rivelato che nei terribili giorni seguiti alla morte di Falcone Borsellino chiese e ottenne di incontrare riservatamente il comandante del Ros dei carabinieri, Mario Mori, e il suo ufficiale Giuseppe De Donno. Sono i giorni, racconta Trizzino, in cui Borsellino si convince che il procuratore di Palermo, Pietro Giammanco, è un «infedele» e che andrebbe arrestato.

Giammanco è l’affossatore del dossier su Mafia e appalti, l’indagine che solo oggi, a distanza di decenni, prende forma come movente della strage di via d’Amelio e probabilmente anche dell’attentato di Capaci. Borsellino la conosceva, ne conosceva il potenziale. E quando decide di muoversi non va certo dal capo «infedele» Giammanco, ma non va neanche da un altro collega affidabile. No, va dai carabinieri.Va dal reparto di punta dell’Arma, quello che verrà attaccato e offeso dalla magistratura: prima (ed è un passaggio mai scavato a fondo) con l’indagine della procura di Brescia sul vicecomandante del Ros Paolo Ganzer, poi con quelle delle procura di Palermo su Mori e De Donno, e su altri ufficiali di pregio come Antonio Subranni e Sergio De Caprio.

Perché il Ros, il reparto da cui era partita l’indagine su Mafia e appalti, finisce nel mirino della magistratura? Che rapporti hanno quelle indagini con un altra morte tragica, il suicidio di Raul Gardini appena quattro giorni prima della strage di via Palestro? Intorno a tante domande, una certezza: Paolo Borsellino si fidava dei carabinieri, al punto di andare a confrontarsi con loro nei giorni più drammatici della sua vita. Gli stessi carabinieri che altri magistrati avrebbero poi incriminato, erano per Borsellino fedeli servitori dello Stato. Delle due l’una: o Paolo Borsellino era così inesperto, così ignaro delle cose, da sbagliare clamorosamente la sua valutazione; oppure la narrazione propinataci in questi anni, di un’Arma inquinata che trama contro le oneste Procure, era finalizzata a coprire tutt’altro.

Cosa ha da dire il senatore Scarpinato?

Luca Fazzo

"Borsellino scoprì cose tremende". Il legale di famiglia all'Antimafia: "Il procuratore Giammanco era infedele, voleva arrestarlo". Luca Fazzo il 3 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Altro che la fantomatica trattativa Stato-Mafia. Inesorabilmente, a più di trent'anni di distanza, tasselli di verità vanno al loro posto. E dicono che l'uccisione di Paolo Borsellino e della sua scorta non fu affatto il favore di Cosa Nostra a chissà quali poteri occulti dello Stato ma un'operazione militare realizzata con un obiettivo specifico: impedire le indagini sul dossier Mafia-appalti, insabbiato dai vertici della procura di Palermo. Il grande capo della procura di Palermo, Pietro Giammanco, era talmente coinvolto nell'opera di insabbiamento che avrebbe dovuto essere arrestato. Invece alle 16,58 del 16 luglio 1992, in via D'Amelio, l'autobomba di Cosa Nostra massacrò Borsellino e i suoi agenti. E Giammanco rimase al suo posto.

Sono parole tremende, quelle pronunciate ieri davanti alla commissione parlamentare Antimafia da Giovanni Trizzino, avvocato palermitano. A renderle pesanti c'è il fatto che provengono da un uomo che storia e protagonisti li ha studiati a fondo. Trizzino, marito di Lucia Borsellino, è l'avvocato di tutta la famiglia del magistrato ucciso, compresa la figlia Fiammetta, che alla leggenda della trattativa non ha mai creduto, e che ha sempre indicato la radice della morte del padre in quell'inchiesta sugli appalti mafiosi, sulle contaminazioni tra imprenditoria del nord - Ferruzzi in testa - e capitali di Cosa Nostra, che andava fermata ad ogni costo. Spiega Trizzino: «A chiedere a Riina di accelerare la morte di Borsellino sono la famiglia di Passo di Rigano che faceva capo ai Buscemi, che nell'archiviazione del dossier mafia-appalti vengono liquidati con tre parole». I Buscemi sapevano che Borsellino sapeva: «Il 25 giugno 1992 a Casa Professa Borsellino rilascia il suo testamento spirituale: firma la sua condanna a morte, dicendo: Io sono testimone e so cose che devo riferire all'autorità giudiziaria».

È in quel contesto, è studiando il dossier, che Borsellino si era convinto che c'erano responsabilità precise dei vertici della procura di Palermo: «Borsellino - dice Trizzino - voleva arrestare o fare arrestare l'allora procuratore Pietro Giammanco» perché «aveva scoperto qualcosa di tremendo». Giammanco, lo stesso che quando i carabinieri del Ros indicarono in Borsellino il bersaglio di un progetto di attentato non avvisò nemmeno il collega.

Giammanco è morto da cinque anni, portandosi dietro ombre e segreti di quella stagione. Ma le rivelazioni di Trizzino mettono al posto giusto molti passaggi. A partire dal ruolo dei vertici del Ros, gli stessi che sono stati portati sotto processo con accuse inverosimili per la presunta trattativa con la mafia, e che sono stati assolti solo dopo anni. Proprio quei vertici, a partire dal comandante Mario Mori, erano il punto di riferimento privilegiato di Borsellino. Al punto che fu a loro che il magistrato si rivolse quando scoprì il ruolo del procuratore di Palermo: «Borsellino ha organizzato un incontro segreto con l'allora colonnello del Ros dei carabinieri Mori e il capitano De Donno, il 25 giugno del 1992, perché aveva scoperto qualcosa tremendo sul conto del suo capo. Si parla di contrasti e circostanze talmente gravi che lo hanno convinto che quel suo capo era un infedele».

A decidere la strage fu poi Totò Riina, «se ne assunse in proprio la responsabilità di via D'Amelio, si comportò da vero dittatore». Ma il movente va ricercato lì, in quel dossier insabbiato. D'altronde anche Matteo Messina Denaro, prima di morire, lo ha detto ai pm di Palermo: «Ma voi pensate davvero che Falcone è morto perché ci aveva dato quindici ergastoli?».

E Borsellino disse: «Ho scoperto cose tremende...» In Antimafia parla Fabio Trizzino, legale dei familiari del magistrato ucciso nel ‘92: «Non si fidava del procuratore». Valentina Stella su Il Dubbio il 2 ottobre 2023

È proseguita ieri, nella sede della commissione parlamentare Antimafia presieduta da Chiara Colosimo, l’audizione dell’avvocato Fabio Trizzino, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino.

Il penalista è stato un fiume in piena, nell’intervento con cui ha ricostruito un puzzle complicatissimo, fatto di tradimenti, “corvi”, poteri oscuri: tutti intrecciati attorno al dossier “mafia-appalti” e tutti concausa probabile della morte di Falcone e Borsellino. Quest’ultimo, secondo Trizzino, era convinto che il procuratore di Palermo Pietro Giammanco fosse un «infedele». Borsellino, ha affermato il legale, rivolse a Maria Falcone, che con Alfredo Morvillo chiedeva perché il fratello Giovanni avesse dovuto lasciare Palermo, questa frase: «State calmi perché sto scoprendo cose tremende». Il magistrato ucciso ha via D’Amelio, ha proseguito Trizzino, aveva detto al maresciallo Canale che «voleva arrestare Giammanco» o «far arrestare Giammanco». Dopodiché incontrò segretamente, fuori dalla Procura, a fine giugno 1992 gli ufficiali del Ros Mori e De Donno, estensori del rapporto su “mafia-appalti”, per approfondire i contenuti di quel dossier. E disse loro: «In Procura parlano malissimo di lei, De Donno, ma io ho preso informazioni e ho cambiato idea». Borsellino andò dritto al punto, voleva approfondire le indagini su “mafia-appalti”: «Tutte le novità riferitele solo a me», disse a Mori e De Donno.

A quel punto il magistrato viene a sapere di «circostanze talmente gravi da rafforzarlo nel convincimento che quel capo», cioè Giammanco, «fosse un infedele», e con quest’ultimo «interrompe completamente il flusso delle comunicazioni». Roberto Scarpinato, a quel tempo magistrato della Procura di Palermo, ora deputato del Movimento 5 Stelle, sapeva dell’incontro segreto di Borsellino con gli ufficiali del Ros. Scarpinato era stato «destinatario di una confidenza di Borsellino, ed è Scarpinato a dircelo» in una testimonianza, ha detto Trizzino rivolgendosi poi all’ex pg di Palermo presente alla seduta di ieri.

La presidente Colosimo ha invitato allora l’avvocato a rivolgersi alla commissione e non al singolo parlamentare. «Il 25 giugno», ha proseguito Trizzino, «a Casa Professa Borsellino rilascia il suo testamento spirituale. Firma la propria condanna a morte, dicendo: “Io sono testimone e so cose che devo riferire all’autorità giudiziaria”. Molti collaboratori di giustizia ci dicono che lì Borsellino si sovraespose, e tra i mafiosi Salvatore Montalto riferisce al pentito Angelo Siino: “Cu ciu purtava a Borsellino di parrari di queste cose”». Montalto, ha aggiunto Trizzino, «è legato alla famiglia di Passo di Rigano (a Palermo, ndr) di Salvatore Buscemi». E «a chiedere a Riina di “accelerare” sull’esecuzione di Borsellino è proprio la famiglia di Passo di Rigano, che faceva capo ai Buscemi, i quali nell’archiviazione del dossier “mafia-appalti” vengono liquidati con appena tre parole», ha spiegato.

Trizzino ha proseguito: «I collaboratori ci dissero che Riina si prese la responsabilità dell’accelerazione della morte di Borsellino, contemplando solo l’istanza vendicativa. Riina è in pieno delirio di onnipotenza ma non era riuscito a far togliere gli ergastoli, a migliorare la vita dei carcerati. Ma si mette in mezzo Falcone. E lui ha un problema di leadership interna. Quindi decide di far uccidere Falcone a Palermo per rivendicare la propria posizione di comando. Invece l’omicidio di Borsellino non ha senso, nell’ottica di Cosa nostra. Giovanni Brusca dice: “Mi ero preparato per uccidere Mannino ma la deviazione arriva quando comincia a parlare Lipera e cambiano dunque obiettivo”. Brusca aggiunse che Buscemi godeva dell’appoggio di un certo magistrato all’interno della Procura».

L’avvocato della famiglia Borsellino ha poi fatto un appello: «Invito la commissione a chiedere all’autorità giudiziaria competente le annotazioni del diario di Giovanni Falcone, che non sono 14 ma 39». Nelle annotazioni, ha aggiunto Trizzino, Giovanni Falcone «si lamenta del fatto che, in riferimento al rapporto “mafia-appalti”, i fedelissimi di Giammanco affermino come quel rapporto fosse carta straccia». A scrivere per primo delle annotazioni riguardanti il rapporto dei Ros fu Giuseppe D'Avanzo, giornalista di Repubblica oggi scomparso. E a confermare la loro esistenza «è la Sabatino (Enza, pm a Palermo, ndr) dicendo che ne è protagonista», spiega Trizzino indicando un episodio di «umiliazione» a cui fu sottoposto Giovanni Falcone. Un giorno «Giammanco interrompe una riunione in Procura togliendo a Falcone, di fronte a tutti, il potere di assegnare fascicoli, e il fascicolo sull’omicidio del colonnello Russo e del professore Costa viene assegnato alla pm Sabatino». Giovanni Falcone decide quel giorno di andare via da Palermo: «Non poteva competere con gli appoggi politici di Giammanco, legato a Lima, e questo è un elemento che non è entrato neanche, nel processo di Capaci. Disse ai colleghi: andate via anche voi, altrimenti sarete complici di questo sistema». Si tratta di annotazioni «di cui il popolo italiano non ha avuto mai disponibilità».

E l’avvocato Fabio Trizzino ha concluso: «Non viviamo più, è del tutto impossibile l’elaborazione del lutto. Noi siamo costretti a cercare la verità. È una questione di dignità e di impegno: la nostra vita, le nuove generazioni della famiglia, anziché cercare di vivere la propria vita, sono costrette a impegnarsi nella ricerca della verità, che non è semplice. Ho un conflitto di interessi, ma di tipo emotivo. Ai siciliani dico che il motivo per cui ci hanno messo 30 anni per fare la Palermo-Messina sta nel rapporto “mafia-appalti”», in cui è condensato il sistema di «cointeressenza tra aziende della famiglia mafiosa di Passo di Rigano e le società del gruppo Ferruzzi». «Una cointeressenza che sarà replicata», dice Trizzino, «nella speculazione di Pizzo Sella, a Palermo».

L’audizione dell’avvocato Fabio Trizzino in Antimafia avrà un prosieguo durante il quale i commissari potranno rivolgere le loro domande.

"L’inchiesta mafia-appalti è la causa della strage". L’appello della famiglia Borsellino: “Diteci la verità su nostro padre, diteci cosa è successo i giorni prima della strage””. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 30 Settembre 2023 

“Vedremo se questa morte, se questo sacrificio, era evitabile”. Ha esordito così Lucia Borsellino, primogenita del magistrato ucciso nella strage di via D’Amelio, in audizione giovedì scorso davanti alla Commissione parlamentare antimafia.

Lucia è stata sentita assieme al marito e legale della famiglia Borsellino, l’avvocato Fabio Trizzino, per fare chiarezza sui tanti punti oscuri che ancora oggi impediscono di conoscere cosa effettivamente accadde in quell’estate del 1992. “Chiediamo che le componenti statuali a vario titolo e livello possano fare piena luce e senza condizionamenti su quelli che sono stati i dettagli della vita di mio padre, soprattutto negli ultimi 57 giorni tra le due stragi, anche grazie alle testimonianze dirette”, ha proseguito Lucia.

“Fin da subito ci siamo resi conto che il corso delle indagini sulla strage nella quale mio padre perse la vita avrebbe creato dei depistaggi e questo ci ha portato a impegnarci direttamente, non solo partecipando ai processi ma anche portando istanze che abbiamo inviato in sedi pubbliche e istituzionali anche e soprattutto per il tramite della voce di mia sorella Fiammetta“, ha aggiunto.

Non si può non rammentare il ruolo del falso pentito Vincenzo Scarantino, ideatore del più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana che iniziò con il ritrovamento dei resti della Fiat 126 carica di tritolo che uccise alle 16.58 della domenica 19 luglio 1992 Borsellino assieme agli agenti della sua scorta. Recentemente la Corte di Cassazione ha messo una pietra tombale sul processo Trattativa Stato Mafia, assolvendo il generale dei carabinieri Mario Mori e alcuni ufficiali del Ros che con Giovanni Falcone avviarono nel 1989 l’indagine del dossier mafia appalti, poi ripreso proprio da Borsellino in quei 57 giorni in cui il magistrato disse ad Antonio Di Pietro, in occasione del funerale del collega e amico d’infanzia, “dobbiamo sbrigarci”. Di Pietro, allora pubblico ministero a Milano, era impegnato in Tangentopoli. Fu Mori che dopo la sua assoluzione definitiva nel maggio scorso a sollecitare la politica a creare una Commissione di inchiesta sul dossier mafia appalti “per andare a fondo, perché, se come ha detto la sentenza del Borsellino Quater, l’inchiesta mafia appalti è la causa della strage, mi sembra doveroso per i morti e per i vivi che si trovi la verità”.

Del resto fu Mori colui a cui Falcone aveva conferito la delega per avviare tale indagine con l’obiettivo di accertare la sussistenza, entità e modalità di condizionamenti mafiosi nel settore degli appalti pubblici nella provincia di Palermo, mettendo per la prima volta l’attenzione sugli interessi economici di Cosa nostra. “L’interessamento al dossier mafia appalti” per Trizzino “è la pista investigativa più meritevole di attenzione, in quanto plausibile causa di accelerazione nell’esecuzione della strage di via D’Amelio”. Scrivono i giudici sempre nella sentenza del Borsellino Quater che il magistrato “aveva mostrato particolare attenzione alle inchieste riguardanti il coinvolgimento di Cosa Nostra nel settore degli appalti pubblici, avendo intuito l’interesse strategico che tale settore rivestiva per l’organizzazione criminale”.

“Borsellino io me lo immagino qui dietro di me, come era in quella foto, in cui si trova da solo nei corridoi del Palazzo di Giustizia a Palermo, che era diventato un luogo in cui non si trovava più a suo agio, al punto che lo ebbe a definire un nido di vipere”, ha aggiunto Trizzino, anticipando una ricostruzione che sarà fatta con il richiamo a dichiarazioni qualificate e sostenuta da documenti. “C’è un problema di strategia comunicativa”, ha continuato, riferendosi alla frase di Borsellino alla moglie Agnese Piraino: “Mi uccideranno ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica, forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri”. “Ebbene in questa frase è sempre stato omesso il seguito “ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno i miei colleghi ed altri””, ha puntualizzato l’avvocato della famiglia Borsellino. “Dobbiamo andare a cercare dentro la Procura di Palermo, quella che Borsellino chiamò “il nido di vipere”, per sapere se allora ci fossero in atto condotte che favorirono quel processo di isolamento, delegittimazione e indicazione come target e obiettivo di Borsellino e che sono quelle condizioni essenziali che hanno sempre preceduto gli omicidi eccellenti a Palermo”, ha quindi concluso Trizzino.

“Le parole pronunciate da Lucia Borsellino e dall’avvocato Trizzino sono state così sconvolgenti e di tale importanza da meritare un approfondimento immediato. In particolare, il riferimento alle denunce presentate dalla stessa famiglia in merito alle affermazioni del giudice sul ‘nido di vipere’ che popolava la Procura di Palermo nel 1992”, ha affermato al termine dell’audizione la senatrice di Italia viva Raffaella Paita, componente della Commissione antimafia. “Credo che dovremmo chiedere perdono se non siamo riusciti in tutti questi anni a dare una risposta alle tante

domande che fin qui ci avete posto, con sofferenza e amore. Abbiamo sentito il cuore batterci nei timpani. Vorrei che di questa Commissione non si avesse mai a dire che non si è fatto quello che si doveva fare”. Così invece la presidente della commissione Antimafia Chiara Colosimo. La audizione del legale della famiglia Fabio Trizzino continuerà lunedì prossimo. Paolo Pandolfini

L'audizione choc. Le accuse della famiglia di Borsellino sulla strage di via D’Amelio: “I mandanti cercateli in Procura”. “Ha vissuto l’inferno nel suo ufficio, un palazzo di giustizia, luogo in cui non si trovava più a suo agio, in cui venne umiliato” dice l’avv. Trizzino. Paolo Comi su L'Unità il 28 Settembre 2023

“Dobbiamo cercare di capire perché a un certo punto quell’uomo definì il Tribunale di Palermo un nido di vipere, affermazione che proviene da testi qualificati”. E’ con queste parole che l’avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino, ha iniziato ieri la sua audizione nell’aula di Palazzo San Macuto davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali. “Borsellino ha vissuto l’inferno nel suo ufficio, un palazzo di giustizia che era diventato un luogo in cui non si trovava più a suo agio, un luogo in cui venne umiliato”, ha precisato Trizzino nella sua lunga deposizione durata circa tre ore.

Per Trizzino, legale dei figli di Paolo Borsellino, la pista investigativa più meritevole di attenzione, in quanto plausibile causa di accelerazione nell’esecuzione della strage di via D’Amelio, ruota intorno al dossier mafia appalti, un’informativa di 900 pagine che fu redatta in seguito ad un’indagine dei carabinieri del Sos comandati dall’allora generale Mario Mori. Il fascicolo venne aperto nel 1989 relativamente alla illecita manipolazione dei pubblici appalti in Sicilia. Depositato in Procura a Palermo a Giovanni Falcone il 20 febbraio del 1991, dopo alcune più brevi informative, il dossier conteneva una serie di intercettazioni telefoniche che partivano dalle dichiarazioni sul tema della illecita gestione dei pubblici appalti dell’ex sindaco di Baucina.

Borsellino ne ebbe conoscenza già nel 1991 quando era procuratore di Marsala e lo fece leggere ai suoi giovani magistrati, utilizzandolo come riferimento per le indagini su alcuni appalti a Pantelleria. Nella sentenza nissena del Borsellino Quater del 20 aprile 2017 si legge che “Borsellino aveva mostrato particolare attenzione alle inchieste riguardanti il coinvolgimento di Cosa Nostra nel settore degli appalti pubblici, avendo intuito l’interesse strategico che tale settore rivestiva per l’organizzazione criminale.” A ciò si aggiungono le dichiarazioni del pentito Giuffrè sull’accelerazione dell’uccisione del magistrato da ricondursi “al timore di Cosa Nostra che quest’ultimo potesse divenire il nuovo capo della Direzione nazionale antimafia nonché al timore delle indagini che il magistrato avrebbe potuto compiere in materia di appalti”, con specifico riferimento al rapporto presentato dal Ros.

Un rapporto triangolare formato sulla condivisione di illecite cointeressenze economiche che coinvolgeva mettendo a un medesimo tavolo il mondo imprenditoriale, politico e mafioso. “Quando venne sentita la moglie di Borsellino – ha aggiunto Trizzino – ricordò le parole che le disse il marito: “Non sarà la mafia ad uccidermi ma i miei colleghi che glielo permetteranno”. “Se incrociamo la confidenza Borsellino con la dichiarazione sul “nido di vipere” – ha proseguito Trizzino – dobbiamo andare a cercare nella Procura di Palermo e lì andare a vedere se già nel ‘92 vi fossero elementi che potevano giustificare quella affermazione”.

Il legale dei figli del giudice ha poi parlato di quel “dolore immenso” che hanno sopportato quando hanno scoperto che già nel ‘92 vi fossero a disposizione delle indagini dei verbali di dichiarazioni rese da magistrati di allora, definisce “sinceri e privi di freni inibitori nel racconto delle dinamiche che resero impossibile la vita di Borsellino”. “C’è l’esigenza dei familiari di Borsellino di fornire una ricostruzione basata su dati certi, come quella dovrebbe fare uno storico ma con i canoni epistemologici del processo penale, visto che a livello processuale non è ancora stato possibile raggiungerla”, ha sottolineato Trizzino.

“Noi abbiamo la felicità – ha proseguito – di aver perso tutto, non solo il congiunto ma anche la Verità, ma è giunto il momento che attorno a Paolo Borsellino non ci siano divisioni e quello che più ci ha offeso e devastato è pensare che la sua famiglia nucleare non abbia implorato la verità”. Prima di Trizzino aveva preso la parola Lucia Borsellino, che con la sua audizione ha fin da subito ricordato di essere stata assieme a Fiammetta e Manfredi testimone diretta delle scelte del padre, inclusi i rischi che queste scelte avrebbero comportato. “Rischi che si sono verificati anche post mortem, con tentativi di delegittimazione”, ha detto Lucia, lamentato di essere stata chiamata a parlare coi magistrati solo nel 2015: prima di allora solo la madre era infatti stata sentita.

La figlia del magistrato ha quindi rivendicato il suo ruolo di familiare, che ha vissuto in prima persona l’esperienza di vita del padre e che come tale non è più disposta ad accettare i tentativi di delegittimazione da qualsiasi parte provengano, rivendicando di non aver potuto offrire un contributo alla conoscenza, né come figlia né come cittadina, pur essendo stata testimone diretta della vita di suo padre.

Ascoltando l’audizione di Lucia Borsellino, che ha richiamato spesso la madre Agnese Piraino, non si può fare a meno di rammentare che la moglie del magistrato non risparmiò parole dure nelle sue testimonianze. Dopo la giornata di ieri, l’audizione proseguirà nella prossima settimana. Paolo Comi 28 Settembre 2023 

L’audizione in commissione. Chi fu il mandante dell’omicidio Borsellino, ora qualcuno indagherà sui magistrati di Palermo del 1992? Chi e perché uccise Borsellino? È questo il più grande mistero della storia della Repubblica. Ma la magistratura non ha voglia di svelarlo. Piero Sansonetti su L'Unità il 28 Settembre 2023 

Lucia Borsellino e l’avvocato Fabio Trizzino, che è suo marito e da anni è l’avvocato della famiglia, sono stati ascoltati ieri in commissione Antimafia, in Parlamento. Lucia è la figlia del magistrato trucidato nel luglio del 1992 in un attentato nel quale persero la vita anche 5 agenti della sua scorta. La testimonianza della famiglia Borsellino fa venire i brividi.

Avanza l’ipotesi che esistano pesanti responsabilità nella Procura di Palermo – quella dell’epoca – nell’omicidio di Paolo Borsellino. Fabio Trizzino ha riferito di fatti, circostanze, ricordi, testimonianze. In particolare delle testimonianze offerte dalla moglie del magistrato, la signora Agnese Piraino. La frase più terrificante che la signora riferì, attribuendola al marito, che l’aveva pronunciata pochi giorni prima della sua morte, è questa: “Mi uccideranno ma non sarà una vendetta della mafia. La mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno i miei colleghi e altri”.

Non esistono molte possibilità di interpretazione di queste parole. Sono chiarissime. Borsellino immagina che alcuni magistrati della procura di Palermo avessero deciso di eliminarlo e avessero assegnato alla mafia l’incarico di eseguire la sentenza. Prima di morire, avverte: i mandanti sono in Procura. Dopo l’uccisione di Borsellino iniziarono i misteri. In particolare esponenti della polizia, probabilmente appoggiati da alcuni magistrati, avviarono un depistaggio – attraverso le deposizioni di un falso pentito, Vincenzo Scarantino – che portò le indagini lontane dalla verità e in questo modo ottennero che la verità non fosse mai scoperta.

Il depistaggio Scarantino – nonostante gli avvertimenti inascoltati di Ilda Boccassini – resse per diversi anni, anche perché vari giovani magistrati non si accorsero della messinscena. Così le indagini si bloccarono. O addirittura furono sviate. Tanto da finire per diventare uno dei punti di partenza di un altro clamoroso depistaggio, quello realizzato col processo “Trattativa Stato Mafia”, che indirizzò i sospetti di collusione con la mafia verso i Ros dei carabinieri e il senatore dell’Utri, il ministro Mannino, il senatore Mancino e altri. Poi tutti assolti.

Ad aiutare il depistaggio fu un fatto curioso: la testimonianza della signora Agnese ebbe una discreta diffusione. Diciamo che l’opinione pubblica ne fu informata. Ma dalla dichiarazione furono espunte le parole “i miei colleghi e“. Restò solo la parola “altri”. E questo fece spazio all’ipotesi che Borsellino si riferisse alla politica o ai servizi segreti. Invece lui era stato molto preciso a indicare la Procura di Palermo che aveva definito “un nido di vipere”.

Perché quella testimonianza fu stravolta e da chi? Sicuramente dai giornalisti, ma questo semplicemente ci conferma il livello non eccelso del giornalismo anti-mafia. Ma anche da alcuni magistrati. Ora un po’ c’è da riflettere. Spesso si parla dei “misteri della prima Repubblica”. È vero, ce ne sono molti. Forse però il più grande è questo dell’omicidio Borsellino. Sicuramente è questo il vero mistero che le forze della cosiddetta anti-mafia non hanno mai voluto scoprire. Anche perché scoprirlo avrebbe ribaltato molte idee che si sono radicate nell’opinione pubblica sulla magistratura italiana.

Vogliamo provare ora a indagare? È tardi, ma qualcosa si può ancora scoprire. Molti dei protagonisti della Procura di Palermo 1992 non ci sono più. A partire dal capo: il dottor Giammanco. Che era in pessimi rapporti con Borsellino e Falcone. Ma molti di loro sono ancora vivi, alcuni sono sulla breccia, sono anche abbastanza potenti. Vogliamo cominciare a indagare? Se la commissione anti-mafia, usando tutti i suoi poteri, facesse dei passi in questa direzione, forse, per la prima volta, si potrebbe pensare che la commissione antimafia ha una sua utili. Piero Sansonetti 28 Settembre 2023

Estratto dell’articolo di Filippo Facci per “Libero Quotidiano” il 29 settembre 2023

Per qualche ragione, una frase resa a verbale il 18 agosto 2009 da Agnese Piraino, moglie di Paolo Borsellino, è sempre stata riportata superficialmente così: «Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo». Il pensiero andava alla classe politica o ai servizi segreti o a qualche potere oscuro, ma in realtà la frase testuale che la signora attribuì al marito, pronunciata pochi giorni prima della strage di via D'Amelio, fu questa: «Mi uccideranno ma non sarà una vendetta della mafia. La mafia non si vendica. 

Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno i miei colleghi e altri». La signora Piraino, morta dieci anni fa, ripeté la stessa frase nel gennaio 2010 ai pm di Caltanissetta. Disse: i miei colleghi. Ossia dei magistrati. 

Questa elementare asserzione, sempre tenuta sottotraccia dalla magistratura siciliana e dai cronisti mafiologi che l'hanno servita, si incastra perfettamente nelle verità ormai assodate sulle vere ragioni degli assassinii di Falcone e Borsellino: ossia le loro scoperte su quel dossier “Mafia e appalti” che anticipava l'inchiesta Mani pulite ed esplicitava le dimensioni nazionali di un “tavolino” tra politica e imprenditoria e Cosa nostra. Borsellino, nei pochi giorni di vita che gli rimasero dopo la strage di via Capaci, ne parlò anche con Antonio Di Pietro (25 maggio 1992) dopo che l'aveva già fatto Falcone, e va rilevato che Di Pietro lo fece presente al processo sulla “trattativa Stato-mafia” solo per richiesta della difesa di Mario Mori, anche perché il suo esame era stato ritenuto superfluo dai giudici di primo grado.

L'attenzione di Borsellino per l'informativa “Mafia e appalti” fatta dal Ros di Mario Mori è stata confermata anche da molti suoi colleghi di Palermo: tra questi Vittorio Aliquò, Gioacchino Natoli e Leonardo Guarnotta: «Borsellino - ha detto quest'ultimo, - riteneva che l'uccisione di Falcone fosse dovuta a un intreccio perverso tra Cosa Nostra, mondo imprenditoriale, mondo economico, mondo politico... tutti avevano interesse a che Falcone fosse eliminato». 

Questo si legge (o leggerà) anche nel libro “Ho difeso la Repubblica” scritto da Basilio Milio, avvocato del fondatore dei Ros Mario Mori (nelle librerie nel novembre prossimo) che però, a proposito di magistrati, rivela anche altro: racconta che un personaggio di grande caratura mafiosa, Pino Lipari, un geometra vicino a Riina ea Provenzano e legato ad Angelo Siino, detto “il ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra”, disse che l'informativa “Mafia e appalti” gli era stata passata dall'allora procuratore capo Pietro Giammanco.

Angelo Siino precisò che Mario D'Acquisto, onorevole democristiano, era l'alter ego dell'altro onorevole democristiano Salvo Lima, compromesso con Cosa nostra e da essa trucidato nel 1992, e che col procuratore Pietro Giammanco «erano molto amici». Sempre nel libro di Basilio Milio si apprende di un'informativa della Dia (Direzione investigativa antimafia) secondo la quale il procuratore di Palermo era cugino in primo grado di Nicolò Giammanco, capo dell'ufficio tecnico di Bagheria, il quale era a sua volta padre di Vincenzo Giammanco, arrestato e condannato quale socio e prestanome del latitante corleonese: nella società Italcostruzioni di Vincenzo Giammanco, infatti, quest'ultimo aveva il 75 per cento mentre il restante 25 era di Saveria Palazzolo, moglie di Bernardo Provenzano. Il resto è storia, anche se è una storia complicata e mai ufficializzata dal giornalismo italiano, occupato a inseguire la magistratura anche in tutti i depistaggi dalla verità sulle stragi del 1992.

Si torna a Giovanni Falcone, bocciato come capo dell'ufficio istruzioni di Palermo, come membro del Csm e come procuratore capo; il nuovo giudice istruttore, Antonino Meli, lo aveva umiliato con la decisione di affidargli indagini bagatellari o slegate da cose di mafia, mentre il nuovo procuratore capo Pietro Giammanco, apertamente andreottiano, aveva spezzettato tutte le indagini che Falcone aveva fatto con Borsellino. […] l'informativa “Mafia e appalti”, che da principio era stata consegnata dai Ros a Giovanni Falcone e non al procuratore capo Pietro Giammanco, del quale l'allora colonnello Mario Mori non si fidava.

Da qui, per la prima volta, si era sviluppata un'indagine sulle turbative realizzate nelle gare degli appalti pubblici partendo dagli interessi mafiosi.

Emerse il fatto che dei tre protagonisti cointeressati (mafia, imprenditoria e politica) le ultime due, imprenditoria e politica, non erano vittime, ma partecipi dell'attività criminosa, concorrendo alla spartizione dei proventi illeciti. Ebbene: Falcone, il 20 febbraio 1991, portò l'informativa a Pietro Giammanco e da allora non se ne seppe più nulla.

Il procuratore Guido Lo Forte, braccio destro di Giammanco, ha confermato nella sede processuale che Giammanco chiude l'informativa in cassaforte. Pochi giorni dopo, il 15 marzo 1991, Falcone ne riparlò durante un convegno al castello Utveggio di Palermo: parlò di intreccio tra mafia e imprenditoria e politica e disse «La mafia è entrata in Borsa». Falcone aveva compreso che dietro la quotazione in Borsa del gruppo Ferruzzi c'era Cosa nostra. 

In seguito, chissà come, l'informativa “Mafia e appalti” lasciò la cassaforte del procuratore Giammanco e prese a circolare fuori dalla procura. Il magistrato Antonio Ingroia parlerà apertamente del legame tra Pietro Giammanco e Salvo Lima: «Paolo mi disse testualmente: “Giammanco è un uomo di Lima”. Affermazione per la quale io rimasi turbato, anche per quello che dell'onorevole Lima si era detto per anni a Palermo». Ingroia non sarà il solo magistrato a soffermarsi sui rapporti politici di Giammanco con Salvo Lima e, per esempio, con l'ex presidente della Regione Mario D'Acquisto. Dirà Alfredo Morvillo, cognato di Falcone: «Era noto a tutti che Giammanco era amico del noto onorevole D'Acquisto, uomo abbastanza al centro dell'attenzione quando si affrontano argomenti come politica e mafia».

Non risulterà superato neanche trent'anni dopo: è la ragione per cui una cannibalesca avversione tra la Procura di Palermo e il Ros dei carabinieri, incompresa dai più, sfocerà in inconsistenti e inutili processi della prima contro il secondo, a dispetto di battaglie contro la mafia vinte forse più dal secondo e un po' meno dai primi. […]

L’accusa di Borsellino tuona in antimafia: “Saranno i miei colleghi a volere la mia morte”. 

Lucia Borsellino, figlia del magistrato ucciso nel '92

Le parole choc di Fabio Trizzino, avvocato della famiglia del magistrato ucciso nel luglio del ’92 a via D’Amelio, sentito in commissione Antimafia: «Definì il suo ufficio un “nido di vipere”». Valentina Stella su Il Dubbio il 27 settembre 2023

«Chiediamo che le componenti statuali facciano piena luce su particolari dettagli della vita di mio padre in quei 57 giorni» tra la strage di Capaci e quella di via D'Amelio. Lo ha detto Lucia Borsellino nel corso di un'audizione in Commissione parlamentare Antimafia, presieduta dall’onorevole Chiara Colosimo, la quale proprio in una intervista al Dubbio disse «Ho le stesse domande che si fanno i figli di Borsellino e l’avvocato Trizzino e vorrei provare a trovare risposte, sui verbali del Csm e su quei famosi 57 giorni, perché se qualcuno in quel “nido di vipere” ha tradito si sappia».

«Siamo convinti, - ha proseguito Lucia – dopo aver assistito a piste investigative di questi anni che altre piste non hanno considerato atti, documenti e prove testimoniali che potessero fornire elementi indispensabili a capire il contesto in cui Paolo Borsellino operava negli ultimi giorni della sua vita». Dopo Lucia, è intervenuto suo marito e avvocato dei figli di Paolo Borsellino, Fabio Trizzino: «Denuncio il fatto gravissimo che il procuratore Pietro Giammanco non è mai stato sentito nell'ambito dei procedimenti per strage. E ora non possiamo sapere se lavorasse per qualcuno perché è morto». Trizzino ha ricordato una frase di Paolo Borsellino: «Mi uccideranno ma non sarà una vendetta della mafia: saranno mafiosi coloro che mi uccideranno ma quelli che hanno voluto la mia morte saranno i miei colleghi e altri», disse il magistrato morto nella strage di via D'Amelio. «Se confrontiamo questa testimonianza di Borsellino, che definisce il suo ufficio un “nido di vipere” bisogna cercare nella procura di Palermo» il luogo «di delegittimazione e di isolamento di Paolo Borsellino».

L’audizione si è concentrata in parte sul famoso dossier mafia appalti: era il 14 luglio del 1992, cinque giorni prima dell’attentato che gli costò la vita, quando Borsellino in una riunione in Procura chiese di approfondire il dossier. «Nel 1991 Falcone già disse che bisognava affinare le tecniche di indagine perché esisteva una centrale unica degli appalti dove sono tutti coinvolti. Il chiodo fisso di Falcone era mafia appalti e su questa linea si porrà Paolo Borsellino. È un falso storico che Borsellino non conoscesse il dossier Mafia-appalti». Aggiunge Trizzino: dopo tangentopoli e la crisi della partitocrazia «Riina si accorge che il sistema dei partiti sta crollando, allora decide che attraverso i grandi imprenditori deve raggiungere i sistemi di potere politico a Roma, come disse anche Giovanni Brusca. La strage di via D’Amelio non ha senso guardando ai soli interessi di Riina. Non si poteva ammazzare Borsellino sperando che lo Stato non reagisse. Ci deve essere stato qualcosa di talmente importante per cui Riina è andato oltre gli interessi dell’organizzazione».

L’avvocato ha ricordato poi cosa disse Antonio Di Pietro nel processo Borsellino ter: «Io e Paolo parlammo e ci dicemmo: "dobbiamo trovare il sistema per far parlare gli imprenditori”. E non dimentichiamo che anche Di Pietro doveva morire». Trizzino sul circolo mafia, imprenditori, politici ha sostenuto che «tutto è delineato nel rapporto del Ros del 1991» redatto da Giuseppe De Donno e Mario Mori. Poi il j’accuse: «La magistratura in tutti questi anni non ha guardato mai al suo interno, a come ha cannibalizzato i suoi figli migliori. Nel giugno 1992 il Csm decretò che Borsellino non aveva i titoli per divenire Procuratore nazionale e non riaprì i termini per le candidature». «Il 29 giugno Borsellino andò da Giammanco per chiarire una cosa importante che rappresenta l’ostracismo e delegittimazione professionale verso Borsellino: mentre Borsellino era a Giovinazzo arriva un fax dal procuratore di Firenze, dal dottor Vigna, in cui si dice che Gaspare Mutolo ha parlato con lui e aveva deciso di saltare il fosso con l’unica condizione che a parlare con lui fosse Borsellino. Borsellino era credibile, chi lo doveva seguire Giammanco? In realtà il Procuratore vuole impedire che Borsellino gestisca quel collaboratore e l’ostacolo per la titolarità del fascicolo viene individuata pretestuosamente nel fatto che il collaboratore avrebbe parlato del comparto palermitano mentre lui era coordinatore delle dinamiche di Trapani e Agrigento».

Inoltre discussero della informativa omessa di Subranni sull’arrivo del tritolo per uccidere Borsellino. «Grazie alla dottoressa Lorenza Sabatino riusciamo finalmente ad avere il racconto di come Borsellino visse quell’incontro. Così racconta quella giornata: “la mattina non era nella stanza e chiesi dove fosse e il commesso mi disse che era dal Procuratore. Mi chiamò la sera: il tono di voce era molto abbattuto e mi chiese quasi scusa per non avermi chiamata e mi disse che il giorno dopo doveva partire per Roma”. Effettivamente il 30 giugno era a Roma per interrogare Mutolo, nonostante il fascicolo era affidato ad altri tre magistrati. “Poi gli feci una battuta: ho saputo che oggi sei stato in buona compagnia! E lui con lo stesso tono: è stata una cosa brutta e mi è sembrato di essere tornato ai vecchi tempi”».

Trizzino conclude: «Qui c’è un uomo puro che ha condotto una via crucis, fino al sacrificio più grande. È giunto il momento che intorno a lui non ci siano più divisioni». Ci sarà una prossima audizione, forse già la prossima settimana per terminare la discussione di Trizzino. In tutto questo parla ai giornalisti di Radio Campus il fratello di Borsellino, Salvatore: «Io escluso dalla convocazione dell'Antimafia? Non è andata così. Io - ha spiegato - ero stato invitato dalla Colosimo in persona a partecipare a una convocazione alla commissione antimafia, ma ho problemi di salute. Ho detto che non mi potevo spostare e quindi avevo rinunciato. Poi però è arrivata da parte del mio avvocato una sollecitazione ad accettare un'eventuale convocazione e allora l'ho comunicato alla stessa Colosimo che mi ha assicurato che a breve sarò convocato anche io insieme al mio avvocato. Ho letto ieri che ci sono state un po' di maretta perchè è stato detto che non ero stato convocato. Le cose stanno come le sto dicendo».

Via D’Amelio, il dossier voluto da Falcone arriva in Commissione. Ora l’Antimafia inizia a indagare su “Mafia e appalti”. Ma i grillini (e Il Fatto) non ci stanno e protestano. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 26 settembre 2023

Lucia Borsellino e suo marito, Fabio Trizzino, avvocato dei figli del giudice assassinato in Via D'Amelio, saranno ascoltati mercoledì 27 settembre, dalla Commissione Antimafia Nazionale presieduta da Chiara Colosimo. A contrapporsi a loro è il Movimento Cinque Stelle, il quale sta generando un vero e proprio isterismo tra i parlamentari grillini. Questo atteggiamento è del tutto incomprensibile, considerando che l'obiettivo comune dovrebbe essere la ricerca della verità nei fatti. La teoria secondo cui il dossier mafia appalti potrebbe essere il movente delle stragi di Capaci e Via D'Amelio non è un capriccio dei figli di Borsellino, e in particolare dell'avvocato Trizzino. Si tratta di un movente confermato in tutte le sentenze riguardanti le stragi di Falcone e Borsellino. Movente confermato perfino dalla sentenza definitiva sulla (non) trattativa Stato Mafia, anche se non è di sua competenza. È il tribunale di Caltanissetta il luogo naturale ed è lì che in tutte le sentenze, la strage di Via D’Amelio è legata all’interessamento di Borsellino nei confronti del dossier redatto dagli allora ros Giuseppe De Donno e Mario Mori.

Sorprende l'opposizione così accesa dei parlamentari grillini, considerando che hanno avuto a disposizione per cinque anni la precedente commissione presieduta da Nicola Morra. Quest'ultima ha già esaminato le stesse teorie che ora i grillini vogliono riproporre alla Presidente Chiara Colosimo, come Gladio, P2 e il coinvolgimento delle "donne amazzoni bionde", generando una serie di suggestioni, alcune delle quali persino divertenti. Ad esempio, si può citare l'audizione del pentito Gaspare Spatuzza, che è stato interrogato sulla presunta partecipazione delle misteriose donne bionde alle esecuzioni delle stragi continentali.

L'ex consulente e magistrato Gianfranco Donadio ha chiesto al povero Spatuzza: «Lei ha mai percepito il problema dell’esistenza di una donna in questo scenario stragista?». Ebbene sì. Chiede al collaboratore della giustizia se ha avuto una “percezione” di qualche donna. Spatuzza risponde di no. Ma il magistrato non si arrende. Insiste. «In tutto lo scenario stragista ha avuto mai un sintomo?». Spatuzza risponde: «Non ho avuto mai né direttamente né indirettamente che ci fosse una donna un po' in secondo o terzo piano in quello che era il gruppo operativo». Niente da fare. Nessuna percezione, nessun sintomo. Il prossimo passo sarà lo studio delle entità asintomatiche.

Ora, con la convocazione di Lucia Borsellino e Fabio Trizzino da parte di Chiara Colosimo, si sta scatenando un inspiegabile isterismo. Forse i grillini pretendono che si ritorni ai siparietti imbarazzanti come quelli appena descritti? Forse sì. Si apprende che vogliono, con l’ex magistrato e ora onorevole grilli, Roberto Scarpinato, in prima fila, un approfondimento sulla pista nera. Evidetemente la trattativa Stato mafia, teorema completamente smantellato, non va più di moda. Si riesuma la non dimostrata presenza del nero Stefano Delle Chiaie a Capaci il giorno della strage. Si fa fede a un documento che riporta un de relato (in particolar modo l’ex compagna di Lo Cicero, completamente risultata inattendibile), quindi nullo, come se fosse una prova inconfutabile.

È incredibile che si stia cercando di rispolverare teorie del genere, mentre si cerca di minimizzare l'unica pista supportata da prove documentali solidamente ancorate. È difficile comprendere questa ostilità. Questa audizione rappresenta la prima volta che si ascolterà una voce diversa, che contribuirà a rompere la narrazione univoca. In particolare, l'intervento dell'avvocato Trizzino, fonte di conoscenza significativa, e di Lucia Borsellino, persona di grande spessore umano e intellettuale, sarà estremamente interessante.

La questione del dossier mafia appalti è complessa, e questa audizione rappresenta forse la prima occasione in cui verrà affrontata con dettaglio di fronte alla Commissione Antimafia. La sua complessità potrebbe non piacere a tutti, ma è essenziale esplorarla. Tuttavia, sembra che qualcuno preferisca puntare su teorie cospiratorie per evitare di affrontare la verità in modo obiettivo. Come disse Pier Paolo Pasolini: "Il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità”. È possibile che qualcuno stia cercando di evitare il confronto con la verità, preferendo concentrarsi su teorie senza fondamento. Chi teme l'audizione di Lucia Borsellino e Fabio Trizzino?

Da corriere.it – 5 dicembre 2013

«Un giorno c'era Umberto Bossi a Catania e io dissi a Borino Micciché: questo ce l'ha con i meridionali, vado e l'ammazzo'. Mi disse di fermarmi: questo è solo un pupo. L'uomo forte della Lega è Miglio che è in mano ad Andreotti». A raccontare questa conversazione, in aula, a Palermo, dove si sta svolgendo il processo Stato-mafia, è il pentito di mafia Leonardo Messina.  

Nella sua ampia deposizione, in risposta alle domande del pn Nino Di Matteo, Messina ha parlato anche del progetto separatista di Cosa Nostra, «si sarebbe creata una Lega del Sud e la mafia si sarebbe fatta Stato» e ha rivelato che all'inizio degli anni '90, per realizzare questo obiettivo, i malavitosi siciliani erano pronti «ad acquistare dalla 'ndrangheta una grossissima partita di armi investendo circa 2 miliardi di lire».  

Secondo il collaboratore di giustizia, le armi - bazooka, kalashnikov e pistole - dovevano servire al progetto separatista voluto dalla mafia che pensava alla creazione di una Lega del sud. La cosa poi sfumò perché Messina, che era, a suo dire, il trait d'union con la 'ndrangheta, venne arrestato e il suo referente mafioso, il capomafia di Enna Borino Miccichè, fu arrestato.

Messina ha detto anche che «In Cosa nostra si diceva che Andreotti era uomo d'onore, che era punciuto (affiliato formalmente, n.d.r) e che ci avrebbe garantito al maxiprocesso». Il collaboratore ha riferito che inizialmente tra i vertici di Cosa nostra c'era la certezza che il maxiprocesso, in Cassazione, sarebbe andato al giudice Corrado Carnevale.  

«Si riteneva che sarebbe finito in barzelletta», ha detto. Poi «quando si seppe che invece a presiedere il collegio giudicante che avrebbe celebrato il maxi sarebbe stato un altro, si capì che i politici si erano allontanati». «Allora ci si cominciò a lamentare di Salvo Lima e Giulio Andreotti - ha spiegato - e si disse che non erano più in grado di garantire nulla».

Giustizia, la sinistra sulle barricate come ai tempi di Berlusconi. Cristiana Flaminio su L'Identità il 18 Luglio 2023

Non dite a Giorgia Meloni che non s’è inventata niente. Il partito conservatore, in Italia, esisteva già ed è il Pd. Sono pochi, pochissimi, i capisaldi di una sinistra in perenne stato di confusione, che non sa dove andare né a chi affidarsi. Uno di questi è la magistratura. Tutto deve cambiare, dall’economia fino al costume, ma l’amministrazione della giustizia deve rimanere uguale a se stessa. Più conservatori di così. Anche perché, questo, è un argomento capestro. Se c’è un’eredità che ci ha lasciato il trentennio che va da Tangentopoli ai giorni nostri è che chiunque tenti di ragionare sulla giustizia, di sicuro avrebbe qualcosa di oscuro, losco, da nascondere. Alla faccia del garantismo. La Guerra dei Trent’anni non è finita, come dice Marina Berlusconi. E nemmeno va in soffitta l’armamentario dem che, da tre decadi, sibila e tuona e rimbomba, nel dibattito politico.

Walter Verini, senatore Pd e membro della commissione Antimafia, ha bollato le parole di Marina Berlusconi come “messaggio inquietante che si inserisce in una situazione inquietante”. Le parole hanno un peso. Verini, in un post chilometrico pubblicato sui social, calca la mano: “C’è un brutto clima nel Paese per quanto riguarda l’impegno contro le mafie e per la legalità. La responsabilità principale è del governo della maggioranza, che hanno indebolito e in certi casi smantellato regole, presidi, controlli”. Dopo aver passato in rassegna il codice degli appalti e tutte le novità ritenute dubbie, sotto il profilo della legalità, il senatore evoca il “manganello” e denuncia: “In questi giorni abbiamo assistito con grande preoccupazione ad attacchi diretti all’autonomia e all’indipendenza della magistratura. Da parte dello stesso Guardasigilli, da parte delle fonti di Palazzo Chigi e Via Arenula. Da parte di professionisti del manganello verbale contro magistrati e giornalisti. Si, perché sotto attacco stanno magistratura e giornalismo, in particolare quello d’inchiesta”.

Tutti sotto attacco, tutti sotto accusa. Chiaramente, se le cose stanno così, il Pd, è pronto a ritirare il pass, a Meloni, per le manifestazioni in ricordo di Paolo Borsellino: “Come si fa ad apprestarsi a ricordare l’anniversario della strage di via d’Amelio, il sacrificio di Paolo Borsellino mentre il tuo governo, certi ministri come quello della Giustizia offrono questi segnali, colpiscono strumenti di legge, norme, meccanismi che nacquero proprio su impulso di martiri e simboli come Falcone, Borsellino, La Torre, Chinnici e tanti altre vittime, magistrati, politici, servitori dello Stato?”. Giorgia, scansati. I conservatori non stanno con te. Ma dall’altra parte.

Gli odiatori di Marina: sospetti e veleni sul dolore di una figlia. Stefano Zurlo il 19 Luglio 2023 su Il Giornale.

Un pezzo di sinistra demonizza la denuncia per difendere le iniziative della procura

Poche voci e molte trame. La sinistra giudiziaria prova a elaborare la lettera infiammata che Marina Berlusconi ha scritto al Giornale. Un messaggio colmo di indignazione per l'incredibile trattamento che i pm di Firenze, sempre all'eterna ricerca dei mandanti occulti delle stragi, sta riservando a Silvio Berlusconi anche da morto. Tanto da far gridare alla figlia del Cavaliere: «Vogliono la damnatio memoriae».

C'è forse spaesamento anche nell'opposizione davanti a un'inchiesta che sembra non volersi più fermare, con Marcello Dell'Utri per l'ennesima volta nel mirino investigativo, ma ci sono anche riflessioni importanti di leader che «salvano» Marina ma scomunicano la sua invettiva e c'è anche chi legge in controluce un intervento così autorevole, interpretandolo in connessione con altre circostanze. Così Repubblica non si limita a raccogliere l'amarezza di una figlia ferita, ma cuce diversi frammenti, sposando l'ipotesi del doppio concorso esterno in Forza Italia. In sostanza, Marina detta la linea da fuori e l'esterno Carlo Nordio, il Guardasigilli voluto da Giorgia Meloni, si rivela sempre più vicino a Forza Italia che in quest'ultimo giro di valzer sulla mafia ha sposato in toto le sue parole, mentre proprio la premier ha mostrato una certa freddezza.

Repubblica sottolinea che proprio Nordio sta meditando una mossa non proprio indolore: l'invio di ispettori a Firenze per capire le ragioni di tanto accanimento, come chiesto in un'interrogazione parlamentare da Pietro Pittalis di Forza Italia. Insomma, ci sarebbe un allineamento, se non un asse, fra Marina Berlusconi, Forza Italia che ha appena incoronato Antonio Tajani come segretario, e il ministro della Giustizia che invece non avrebbe più il feeling dei primi giorni con gli altri pezzi della maggioranza.

A sinistra dunque si studiano le mosse degli avversari e anche lo sfogo drammatico di Marina, a un mese dai funerali, viene considerato parte di un possibile disegno. Poi ci sono le dichiarazioni di battaglia: «In merito alla lettera di Marina - spiega Giuseppe Conte - stiamo parlando di una figlia che parla anche della memoria del padre e questo è da rispettare. Però qui il problema vero è l'attacco che questo governo fa alla magistratura nel momento in cui le indagini della incrociano il comportamento di un esponente di governo».

Per il capo dei 5 Stelle dunque il messaggio della figlia del Cavaliere è l'occasione per puntare il dito contro la maggioranza che ogni volta proverebbe a mandare in fuorigioco la magistratura e le sue sacrosante indagini. «Questo - conclude Conte - ci riporta al passato, alla massima conflittualità con la magistratura che è tipica di questo centrodestra che si presenta sempre con le stesse modalità».

Altrettanto duro Walter Verini, senatore e capogruppo del Pd nella commissione Antimafia: «Quanto dichiarato al Giornale da Marina Berlusconi contiene una parte che merita rispetto. Ma complessivamente contiene un messaggio inquietante e che si inserisce in una situazione inquietante». Per Verini non ci sono dubbi: «C'è un brutto clima nel Paese per quanto riguarda l'impegno contro le mafie e la lotta per la legalità. La responsabilità principale è del governo e della maggioranza che hanno indebolito e in certi casi smantellato regole, presidi, controlli». Per il senatore, in questa situazione non si capisce come la premier voglia celebrare il sacrificio di Paolo Borsellino.

Ma oggi, per l'anniversario, Giorgia Meloni sarà a Palermo, anche se solo alle manifestazioni ufficiali.

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per il "Fatto quotidiano" il 18 luglio 2023.

Il Giornale: “Marina dice basta”. Perbacco, roba grossa. Stiamo parlando di Marina B., primogenita del noto pregiudicato da poco scomparso, che manda un messaggio alla Meloni (e a chi altri?) perché “riformi la giustizia” e la renda “uguale per tutti” (prospettiva peraltro agghiacciante per il Gruppo, che con una giustizia uguale per tutti sarebbe rovinato da 40 anni). 

La signora naturalmente è libera di dire le scempiaggini che vuole, anche perché, a dispetto delle apparenze, è molto spiritosa. Ci vuole un bel sense of humour per essere a capo del maggior gruppo editoriale d'Europa e insultare i rari giornalisti che scrivono la verità sulle stragi chiamandoli “complici dei pm” […]

O per definire “delirante” l’”accusa di mafiosità” a uno che si tenne in casa per due anni un mafioso travestito da stalliere (quello che accompagnava a scuola Marina e Pier Silvio perché non facessero brutti incontri) e che la Cassazione ha accertato aver “concluso” nel 1974 un “accordo di reciproco interesse” con “Cosa Nostra, rappresentata dai boss Bontate e Teresi” (altro che “non è emerso nulla di nulla”). 

O che “i conti Fininvest sono passati per anni al setaccio senza risultato” (a parte una mega-frode fiscale da 368 milioni di dollari accertata dalla condanna in Cassazione e tre falsi in bilancio certificati da giudici che hanno dovuto assolvere B. perché si era depenalizzato il reato). O che pm cattivi e “giornalisti complici” vogliono infliggere al caro estinto “la damnatio memoriae”.

[…] la pena della Roma antica cancellava ogni traccia di un personaggio […] Invece i pm cattivi e i giornalisti complici fanno di tutto per ricordare B. per quello che era: un frodatore, finanziatore della mafia e corruttore seriale. Se non lo fosse stato, la Marina non sarebbe presidente della Mondadori, scippata al legittimo proprietario De Benedetti da una sentenza comprata dagli avvocati di B. con soldi di B., che dovette poi pagare mezzo miliardo di danni. […] Forza Italia attende con ansia le letterine di Marina e Pier Silvio, che decidono persino chi deve succedere a Papi in Senato […] La Repubblica del Banana finirà solo quando tal Marina dirà “Basta” e tutti risponderanno in coro: “E chi se ne frega”.

Marina Berlusconi, gli insulti di Travaglio: "Rovinati da 40 anni". Libero Quotidiano il 18 luglio 2023

Con ogni probabilità non vedeva l'ora, Marco Travaglio, di poter cannoneggiare su Marina Berlusconi come fatto per 20 anni abbondanti contro il padre, Silvio Berlusconi. All'indomani dell'intervista della primogenita del Cav sul Giornale, il direttore del Fatto quotidiano apre il suo editoriale con uno sfottò dichiarato: "Marina dice basta. Perbacco, roba grossa". Ma è solo l'inizio della colata di fango sulla presidente di Fininvest e Mondadori, "colpevole" di aver puntato il dito contro la Procura di Firenze che sta indagando sul fondatore di Forza Italia scomparso un mese fa per le stragi di mafia del 1993. Ovviamente, Travaglio difende a spada tratta le toghe. 

"La primogenita del noto pregiudicato da poco scomparso - è la lettura del direttore - manda un messaggio alla Meloni (e a chi altri?) perché 'riformi la giustizia' e la renda 'uguale per tutti' (prospettiva peraltro agghiacciante per il Gruppo, che con una giustizia uguale per tutti sarebbe rovinato da 40 anni). La signora naturalmente è libera di dire le scempiaggini che vuole, anche perché, a dispetto delle apparenze, è molto spiritosa. Ci vuole un bel sense of humour per essere a capo del maggior gruppo editoriale d'Europa e insultare i rari giornalisti che scrivono la verità sulle stragi chiamandoli 'complici dei pm' (complice, nella lingua italiana, è chi sta coi ladri, tipo i frodatori fiscali; nella lingua arcoriana, chi sta con le guardie)". Gli strali di Travaglio profumano di coda di paglia, ma tant'è. 

Dopo la consueta raffica di sentenze a uso politico, Travaglio affronta il tema della damnatio memoriae che secondo Marina guiderebbe i magistrati contro il padre. "Qui c’è un equivoco: la pena della Roma antica cancellava ogni traccia di un personaggio, come se non fosse mai esistito. Invece i pm cattivi e i giornalisti complici fanno di tutto per ricordare B. per quello che era: un frodatore, finanziatore della mafia e corruttore seriale. Se non lo fosse stato, la Marina non sarebbe presidente della Mondadori, scippata al legittimo proprietario De Benedetti da una sentenza comprata dagli avvocati di B. con soldi di B., che dovette poi pagare mezzo miliardo di danni". 

Quindi, Travaglio chiude la sua riflessione al veleno con quello che sembra un auspicio: "Forza Italia attende con ansia le letterine di Marina e Pier Silvio, che decidono persino chi deve succedere a Papi in Senato, come se avesse comprato e lasciato in eredità pure il seggio parlamentare. La Repubblica del Banana finirà solo quando tal Marina dirà 'Basta' e tutti risponderanno in coro: 'E chi se ne frega'". Ovviamente, ma questo il direttore non lo scrive, la speranza di Travaglio è che questo avvenga il più tardi possibile: sai quanti editoriali al curaro ancora?

Dell'Utri dribbla il tritacarne dei pm e li sfida. "Non rispondo, prima depositate tutte le carte". L'ex senatore non si presenta all'interrogatorio in Procura a Firenze. Luca Fazzo il 19 Luglio 2023 su Il Giornale.

Lui, di suo, avrebbe voluto andarci. L'occasione di vedere in faccia i pm che lo accusano di essere il mandante di tre stragi per un totale di dieci morti e sessanta feriti, Marcello Dell'Utri non voleva perdersela: per curiosità, se non altro. Ma le strategie processuali vincono sull'indole umana, così Francesco Centonze, difensore dell'ex senatore di Forza Italia, ha fatto sapere per tempo alla procura di Firenze che l'interrogatorio fissato per ieri si sarebbe risolto in una perdita di tempo, essendo Dell'Utri intenzionato a avvalersi della facoltà di non rispondere. Il procuratore aggiunto Luca Turco e il suo sostituto Luca Tescaroli hanno convenuto che a quel punto tanto valeva lasciar perdere.

La Procura, ovviamente, a questo punto va avanti per la sua strada. L'accusa di concorso in strage, che colpiva anche Silvio Berlusconi, dopo la morte del Cavaliere ha Dell'Utri come unico indagato. Ora i pm si apprestano a tirarne le fila, anche sulla base dei documenti sequestrati nella casa e nell'ufficio di Dell'Utri lo scorso 12 luglio, quando la Dia ha eseguito l'ordine di perquisizione.

La scelta di non rispondere alla convocazione dei pm punta probabilmente a rimarcare che non esiste un terreno su cui è possibile un chiarimento, che non ci sono dettagli da confermare e da smentire. L'accusa di avere ordinato insieme a Berlusconi a Cosa Nostra le stragi del 1993 per spianare la strada all'ascesa di Forza Italia è, secondo Dell'Utri, talmente lunare che non si vede come possa venire smentita con fatti concreti. Gli elementi già noti a sostegno della tesi della procura sono, d'altronde, le relazioni di servizio della Dia di Firenze, piene di sillogismi, di deduzioni logiche, di ipotesi che strada facendo diventano certezze. La difesa di Dell'Utri però non esclude che vi sia dell'altro, che i pm abbiano carte o testimonianze sfuggite alla fuga di notizie. E in qualche modo la decisione di ieri è una sfida ai pm a depositare tutto, come dovranno fare al momento della chiusura delle indagini. Solo allora comincerà la battaglia punto per punto tra accusa e difesa. Sapendo che il vero obiettivo della Procura di Firenze non è solo accusare Dell'Utri ma attraverso di lui arrivare a una condanna postuma («damnatio memoriae, l'ha definita Marina Berlusconi nella sua lettera al Giornale) del Cavaliere.

A rendere tutto più surreale, insieme alla enormità dell'accusa, c'è il fatto che - almeno per quanto se ne sa finora - nel carniere dei pm fiorentini non c'è un solo testimone diretto. A parlare di contatti tra esponenti di Cosa Nostra e la coppia Berlusconi-Dell'Utri sono solo pentiti di mafia che non parlano per conoscenza propria ma riferendo ciò che avrebbero saputo da altri mafiosi: che però o sono morti o non hanno confermato le rivelazioni. Come si può replicare a verità di terza o quarta mano? Anche per questo Dell'Utri è rimasto a casa.

L’Antimafia a casa di Dell’Utri: “Stragi di mafia per favorire Forza Italia”. Stefano Baudino su L'Indipendente il 14 luglio 2023.

Sono comparse nuove carte con elementi potenzialmente esplosivi sui rapporti tra Cosa Nostra e Forza Italia. Negli scorsi giorni, la Direzione Investigativa Antimafia si è infatti presentata a casa di Marcello Dell’Utri, ex braccio destro di Silvio Berlusconi ed ex senatore del suo partito, per eseguire perquisizioni e sequestri. Il politico, già condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa, è ancora indagato come presunto mandante esterno delle stragi con cui Cosa nostra, nel 1993, colpì le città di Roma, Firenze e Milano (in concorso con Berlusconi, morto lo scorso 12 giugno). La convinzione dei pm è che tali attentati avrebbero avuto lo scopo di “indebolire il governo Ciampi” allora in carica, diffondendo “il panico e la paura tra i cittadini, in modo da favorire l’affermazione del progetto politico di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri”. Il quale, secondo i magistrati, avrebbe avuto a tale scopo un ruolo di primo piano.

Gli agenti della Dia hanno eseguito un decreto di perquisizione nella casa di Dell’Utri, disposto dai procuratori aggiunti Luca Turco e Luca Tescaroli e dal pm Lorenzo Gestri, perlustrando anche gli uffici dell’ex senatore in via Senato e procedendo ad alcuni sequestri. Dal documento, il cui contenuto è stato reso noto da Repubblica, emergono le accuse mosse nei confronti di Dell’Utri, che, se mai in futuro troveranno conferma, potrebbero contribuire a riscrivere la storia d’Italia. Dell’Utri è infatti accusato di aver istigato e sollecitato il boss Giuseppe Graviano “ad organizzare e attuare la campagna stragista e, comunque, a proseguirla, al fine di contribuire a creare le condizioni per l’affermazione di Forza Italia, fondata da Silvio Berlusconi, al quale ha fattivamente contribuito Dell’Utri”, nella cornice “di un accordo, consistito nello scambio tra l’effettuazione, prima, da parte di Cosa nostra, di stragi, e poi, a seguito del favorevole risultato elettorale ottenuto da Berlusconi, a fronte della promessa da parte di Dell’Utri, che era il tramite di Berlusconi, di indirizzare la politica legislativa del Governo verso provvedimenti favorevoli a Cosa nostra in tema di trattamento carcerario, collaboratori di giustizia e sequestro di patrimoni”. Dalla mafia palermitana, Forza Italia avrebbe ottenuto “l’appoggio elettorale in occasione delle elezioni politiche del marzo 1994”.

I magistrati fiorentini parlano insomma di un “accordo stragista” dalla precisa finalità politica. Soffermandosi sull’attentato mafioso organizzato allo Stadio Olimpico per il 23 gennaio 1994, fortunatamente fallito a causa di un guasto tecnico, i magistrati evidenziano come tale episodio si collochi temporalmente a soli tre giorni di distanza dal famoso annuncio berlusconiano della “discesa in campo”, trasmesso in pompa magna il 26 gennaio. Quella bomba, per i pm, doveva essere “funzionale a dare il colpo decisivo alla compagine governativa, in quel momento al potere (governo Ciampi), eliminando decine di carabinieri”, con la finalità di “avvantaggiare Berlusconi e Dell’Utri“.

Secondo la ricostruzione della Procura, Dell’Utri e Berlusconi avrebbero beneficiato “degli effetti dello stragismo in un contesto nel quale erano alla ricerca di una via d’uscita da una doppia congiuntura sfavorevole: la crisi economica-finanziaria del gruppo Fininvest e la dissoluzione del loro referente politico tradizionale”, ovvero i socialisti e alcune fazioni della Dc. Che poi erano gli stessi partiti che la mafia aveva rimpinguato di voti fino alla “rivoluzione” di Mani Pulite che, di fatto, li demolì. Le bombe si interruppero proprio in quel gennaio ’94: per i pm, la causa dell’interruzione del piano stragista sarebbe proprio “l’assicurazione di Dell’Utri e Berlusconi” offerta dopo il sostegno della mafia a Forza Italia, che andrebbe a comprovare “sul piano logico, l’esistenza dell’accordo con Dell’Utri”, permettendo “di escludere che l’azione dei corleonesi sia stata posta in essere autonomamente alla mera ricerca dell’instaurazione di un rapporto con Dell’Utri e il suo referente, il deceduto Silvio Berlusconi”. I magistrati ricordano che “Dell’Utri è portatore di un profilo particolarmente adatto per alimentare intese stragiste”, ricordando come l’ex senatore abbia “svolto un ruolo di trait d’union tra il Cavaliere e la criminalità mafiosa dal 1974 al 1992, che è risultato far ricorso alle sue conoscenze mafiose per alimentare la nascita di Forza Italia”. Proprio per aver svolto il ruolo di intermediario sfociato nel “patto di protezione” sottoscritto da Berlusconi e i vertici di Cosa Nostra negli anni Settanta, Dell’Utri è stato condannato definitivamente a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa nel 2014.

I magistrati fiorentini continuano ad indagare anche su un altro versante: l’enorme quantità di denaro versata negli ultimi anni da Silvio Berlusconi a Dell’Utri, che ora, oltre che per concorso in strage, risulta indagato anche per trasferimento fraudolento di valori e mancata comunicazione della variazione del patrimonio. Già lo scorso marzo vi avevamo raccontato che i consulenti dei pm hanno individuato una lunga serie di donazioni nel periodo compreso tra il 2012 e il 2021, per un ammontare di 28 milioni di euro. Tra questi flussi trova inoltre posto, dal maggio 2021, anche un vitalizio da 30mila euro al mese chiesto e ottenuto dall’ex senatore. Gli inquirenti ritengono tali erogazioni una “contropartita a beneficio di Dell’Utri per le condanne patite e il suo silenzio nei processi penali che lo hanno visto e lo vedono coinvolto”. L’ex senatore, infatti, non ha mai chiamato in causa Berlusconi – che secondo gli investigatori si sarebbe anche fatto carico delle sue spese processuali – davanti ai magistrati nella cornice dei procedimenti in cui è stato coinvolto. A questo proposito, la Dia aveva già parlato della sussistenza di “una sorta di ricatto non espresso, ma ben conosciuto da tutti, e idoneo al persistere delle dazioni”. Per alcune di queste movimentazioni di denaro, risulta peraltro indagata per trasferimento fraudolento di valori anche la moglie di Dell’Utri, Miranda Ratti. Le donazioni di Berlusconi all’ex senatore sono proseguite anche post-mortem: con l’apertura del testamento, si è scoperto che Dell’Utri beneficerà di un ulteriore lascito di 30 milioni di euro dal Cavaliere.

C’è poi un ultimo elemento che ha attirato l’attenzione dei magistrati. Si tratta del contenuto dell’intercettazione di un colloquio tra Marcello Dell’Utri e il forzista Gianfranco Micciché, presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana, datata 15 ottobre 2021. In quel periodo, Micciché si stava muovendo per raggiungere un accordo politico tra Forza Italia e Italia Viva di Matteo Renzi al fine di presentare liste comuni per le elezioni Amministrative palermitane. Nel corso della telefonata, gli interlocutori parlavano della futura elezione del Presidente della Repubblica. I magistrati scrivono che “Gianfranco Micciché, riportando quanto gli aveva confidato Matteo Renzi“, diceva a Dell’Utri: “Berlusconi mi ha detto dieci volte ‘Io ho bisogno solo di un Presidente della Repubblica che dia la grazia a Marcello‘”. Nel corso del dialogo, inoltre, sarebbe emerso “che Berlusconi, secondo Micciché, ha riferito a Matteo Renzi, nel corso di una cena effettuata a Firenze, che: ‘Marcello è in galera per colpa mia’”. Renzi, che ora potrebbe essere sentito dalla Procura di Firenze, ha attaccato i magistrati: “La Procura guidata da Turco sostiene che le stragi di mafia del 1993 fossero finalizzate a sostenere Berlusconi. Siamo oltre il ridicolo”.

Ad ogni modo, per ora, queste restano solo accuse. Dell’Utri sarà sentito dai magistrati a Firenze: il suo interrogatorio è già stato fissato per il prossimo 18 luglio. [di Stefano Baudino]

L'ossessione dei pm per Berlusconi: perquisito Dell'Utri per le stragi del '93. Blitz della Dia su ordine dei pm di Firenze in casa e ufficio dell'amico del Cav. Il solito teorema: i due dietro le bombe di mafia. Indagata anche la moglie dell'ex senatore. Luca Fazzo il 14 Luglio 2023 su Il Giornale.

Sono passati trent'anni dalle stragi di mafia del 1993, più di vent'anni dalle prime rivelazioni dei «pentiti» che accusavano Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri di essere i mandanti di quegli orrori. E secondo la Procura di Firenze l'ex senatore Dell'Utri conserverebbe chissà perché ancora in qualche cassetto le prove in grado di incastrarlo, i documenti che mancano a chiudere il cerchio di una accusa da ergastolo. Così l'altro giorno il procuratore aggiunto Luca Turco e il suo collega Luca Tescaroli mandano la Dia a Milano a perquisire la casa e lo studio di Dell'Utri. A mezzavoce, i due pm fiorentini fanno sapere che è uno degli ultimi passaggi prima di chiudere l'inchiesta che si trascina da anni. Una inchiesta che aveva due indagati, e oggi ne ha uno solo: perché il bersaglio vero, Silvio Berlusconi, è morto il 12 giugno, togliendo alla Procura l'ultima chance di processarlo per strage. Ma il contenuto del decreto di perquisizione e soprattutto l'elenco delle carte che sono state materialmente portate via dimostrano chiaramente che nel mirino c'è sempre Berlusconi, tutto ruota intorno a lui: la colpevolezza di Dell'Utri nel teorema dei pm fiorentini regge solo se è colpevole anche il Cavaliere. E viceversa.

Si presentano in sette, gli uomini del centro toscano della Direzione investigativa antimafia, nella casa milanese di Dell'Utri. Sono le otto di mercoledì mattina. Quando gli annunciano la visita della Dia, l'ex senatore chiama subito il suo difensore Francesco Centonze, il legale che lo ha assistito negli ultimi anni, e che gli è accanto nel ricorso che la Corte europea dei diritti dell'Uomo non si decide a mettere in calendario. I poliziotti consegnano il decreto e si mettono al lavoro. Svuotano armadi e scrivanie, si fanno consegnare le chiavi della cassaforte e aprono anche quella. Si capisce in fretta cosa cercano. Non si illudono di trovare le foto di Giuseppe Graviano, il boss mafioso che secondo loro era l'interfaccia di Dell'Utri. No, cercano le prove dei rapporti economici, politici, privati di Dell'Utri con Berlusconi. Trovano lettere private tra il fondatore della Fininvest e il suo braccio destro, e sequestrano anche quelle. Cercano estratti conto, bonifici, movimenti di soldi tra i due. Ma è l'intera storia di una amicizia durata mezzo secolo che i pm sembrano voler ricostruire.

Cosa trovano? «Elementi utili», fa sapere Repubblica che ieri rivela in esclusiva l'avvenuta perquisizione. Carte già acquisite in altre inchieste già finite in niente, fa sapere l'avvocato Centonze. Ma più di quello che trovano è significativo quello che gli inquirenti cercano. La Procura fiorentina (o almeno Turco e Tescaroli: non si sa cosa ne pensi il nuovo Procuratore, Filippo Spiezia) è convinta che la prova regina del ruolo di Berlusconi e Dell'Utri siano i passaggi di soldi, il «prezzo del silenzio», la ricompensa a Dell'Utri per avere passato anni in carcere senza accusare l'amico. Sono interventi avvenuti alla luce del sole, dall'acquisto della villa sul lago di Como ai trenta milioni in eredità. Ma la Procura non si accontenta, pensa che ci sia dell'altro, movimenti esteri, fiduciarie occulte. E questa caccia al «tesoro» colpisce anche Miranda Dell'Utri, la moglie dell'ex senatore, che si ritrova anche lei indagata: trasferimento fraudolento di valori, sarebbe l'accusa.

Passare al setaccio i rapporti personali e di soldi tra Dell'Utri e Berlusconi serve ai pm per mettere l'ultimo tassello all'accusa: le stragi del 1993 e il fallito attentato all'Olimpico del 23 gennaio 1994 avevano come obiettivo «indebolire il governo Ciampi» e «diffondere il panico tra i cittadini in modo da favorire l'affermazione del progetto politico di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri». Una «pista già a prima vista del tutto incredibile e fantasiosa», la definisce il difensore Centonze, sulla quale «atti e documenti coperti da segreto istruttorio continuano ad essere oggetto, in tempo reale, di illegittima rivelazione e di successiva pubblicazione su organi di stampa».

Su mafia e Cavaliere trent'anni di assalti sempre finiti in nulla. Toghe all'ultima carica a mezzo stampa. Hanno già fatto flop le inchieste siciliane nate dalle dichiarazioni dei pentiti; sono crollate le tesi della trattativa Stato-Cosa Nostra; sono già cadute tutte le accuse sulle bombe di Milano, Roma e Firenze. Luca Fazzo il 14 Luglio 2023 su Il Giornale. 

Bisogna partire da un dato di fatto: tutte le volte, nessuna esclusa, che le procure della Repubblica hanno cercato di dimostrare il triangolo Berlusconi-Mafia-Stragi ne sono uscite con le ossa rotte. L'ostinazione con cui gli inquirenti di Firenze tornano in questi giorni all'attacco, con la perquisizione della casa e dello studio di Marcello Dell'Utri e con l'invito a comparire - fissato per martedì prossimo - dell'ex senatore azzurro si può spiegare solo con la convinzione che questa sia l'ultima occasione utile. Solo così si capisce come i pm Luca Turco e Luca Tescorali abbiano deciso di andare avanti, a testa bassa, anche dopo la morte di Berlusconi. O adesso, sembrano voler dire, o mai più.

Ad andare a finire in nulla sono state le inchieste siciliane, quelle che sull'onda dei pentiti del dopo-Buscetta (il primo Salvatore Cancemi) andarono per prime a ipotizzare rapporti criminali di cui non venne trovata alcuna prova, e poi quelle successive, il Moloch della trattativa Stato-Mafia, dove Berlusconi non era mai stato formalmente indagato ma proprio per questo, visto che non poteva difendersi, si ritrovò alla mercé dei giudici: leggendarie le motivazioni della sentenza di primo grado, che condannava Dell'Utri e en passant faceva a pezzi il Cavaliere, «perché solo Berlusconi da premier avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo» come quello preteso da Cosa Nostra per dire stop alle stragi.

Invece non era vero niente, né le leggi né la trattativa, e alla fine sono stati tutti assolti, compresi i boss mafiosi. Intanto un po' di gente, compresi eroici servitori dello Stato, avevano avuto vita e carriera distrutte, ma amen. Non meglio era andata a Firenze, dove le inchieste sulle tre stragi andate a segno nel 1993 (via Georgofili, via Palestro a Milano, il Velabro a Roma) avevano già una prima volta ipotizzato, sempre sull'onda delle dichiarazioni di Spatuzza e dei suoi emuli, un ruolo di mandanti di Berlusconi e Dell'Utri, ed erano state archiviate. Ora Turco e Tescaroli ci riprovano, con una inchiesta raccontata in diretta sui media, prorogata di sei mesi in sei mesi, ora (si dice) prossima alle conclusioni. Ma di recente hanno dovuto fare i conti anche loro, per la prima volta, con un giudice. Ed è andata malissimo.

È successo quando Berlusconi era già morto da una manciata di giorni, alla fine del mese scorso. Turco e Tescaroli chiedono di arrestare Salvatore Baiardo, quello strano tipo che va in televisione a dire di sapere tutto dei rapporti tra Graviano e Berlusconi, e fa vedere presunte foto di presunti incontri che poi spariscono nel nulla. Nel mirino dei pm sembra esserci Baiardo, ma il vero obiettivo è il Cavaliere: secondo Turco e Tescaroli, tutte le manovre del figuro hanno come obiettivo permettere a Berlusconi e Dell'Utri di sfuggire alle indagini, contestano a Baiardo «l'aggravante di avere agevolato Cosa Nostra interessata a non compromettere le figure di Berlusconi e Dell'Utri, entrambi parti dell'accordo stragista». Ma il giudice che riceve la richiesta la respinge al mittente: l'accordo stragista è una teoria non dimostrata. La Procura non si è arresa e ha fatto ricorso al Riesame, l'udienza è oggi, si vedrà come andrà a finire.

Il problema vero è che ogni volta, per mettere toppe agli strappi di questa tela, tessuta tra le Procure e i loro house organ, bisogna mettere mano alle date, spostare in avanti o indietro i fatti, gli accordi, gli obiettivi che avrebbero generato la stagione delle bombe. Perché se il teorema è che servivano le stragi per aprire la strada a Forza Italia qualcosa non torna, la prima bomba in via dei Georgofili è de 27 maggio 1993, ma basta leggere il libro di un testimone insospettabile come Vittorio Dotti per sapere che di Forza Italia a quella data non c'era neanche il nome. Così nella nuova versione del teorema tutto si sposta di sei mesi, e si dice che la bomba all'Olimpico era una specie di superspot per il lancio di Forza Italia, «si colloca tre giorni prima dell'annuncio ufficiale di Berlusconi di scendere in campo». Così tutto rimane nella nebbia, nei verbali di pentiti morti che citano le confidenze di altri morti, su un patto in cui non si è mai capito quali siano le leggi che Berlusconi regalò alla mafia. Luca Fazzo 

Zero in storia. Ormai è una vicenda che non suscita tanto indignazione quanto fastidio. Augusto Minzolini il 14 Luglio 2023 su Il Giornale.

Ormai è una vicenda che non suscita tanto indignazione quanto fastidio. La Procura di Firenze - la più politicizzata del Belpaese - ha ritirato in ballo Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri per le stragi di mafia secondo un teorema ricco di congetture ma di nessuna prova. L'indagine dei magistrati che è già sfociata in un avviso di garanzia per Dell'Utri e in una perquisizione della sua casa (per sequestrare le lettere private tra lui e il Cav) ha una struttura più simile al soggetto di una fiction, si tratti della Piovra o Gomorra, che non alla più scalcagnata delle iniziative giudiziarie. La «tesi» - folle per usare un eufemismo - insinua che quelle vicende sanguinose facevano parte di un piano di Cosa Nostra per screditare il governo Ciampi e aprire la strada all'avvento di Silvio Berlusconi.

Ora, chiunque abbia vissuto o studiato quegli anni che ormai appartengono alla Storia, saprebbe che quando sono cominciate le stragi il Cav non era per nulla convinto di entrare in politica. Pregava un giorno sì e un altro pure Mario Segni e Mino Martinazzoli affinché organizzassero un'alleanza contro la sinistra. Le stragi dal punto di vista temporale non potevano avere nessuna relazione con la sua decisione - assunta malvolentieri come unica «ratio» - di gettarsi nell'agone. Anche l'attentato fallito (in realtà fu un avvertimento della mafia per dimostrare di cosa fosse capace) rientrava nella strategia delle cosche mafiose per perseguire l'unico obiettivo che in quella fase avevano in mente: attenuare il regime di 41 bis in carcere. Sono tutti elementi che le toghe di Firenze dovrebbero sapere visto che sono stati appurati in altri processi se non vogliono meritarsi un roboante «zero» in Storia.

Il resto è fuffa. Com'è fuffa la narrazione che la Procura di Firenze ha tentato di imbastire attorno alla figura di Salvatore Baiardo (personaggio che ha la stessa credibilità di un soldo bucato), alla foto inventata di Berlusconi con i Graviano e ad altre amenità da fumettone mafioso. L'unica verità in questa storiaccia giudiziaria - non potrebbe essere definita altrimenti - che si basa su un canovaccio ormai stantio, è che c'è un pezzo di magistratura che vuole sporcare la memoria di Silvio Berlusconi e con lui l'immagine di Forza Italia e del centrodestra nel presente. Un maldestro tentativo di «damnatio memoriae» che porta dieci giorni fa la Procura di Milano a ricorrere in Cassazione nel processo Ruby ter e ora alla reiterazione della solita fantasia sulle stragi di mafia da parte di quella di Firenze. Iniziative diverse dietro le quali solo un cieco non vede un'unica regia perché il movente delle inchieste, purtroppo, è solo politico, condito, ovviamente, dal protagonismo esasperato (e dal narcisismo ideologico) che anima certe Procure. Una patologia giudiziaria che fa perdere il senso del limite, che non ha rispetto neppure per i morti. E che, appunto, non suscita non solo indignazione ma pure fastidio, nausea. Per cui non deve stupire che il capo della Procura di Palermo, De Lucia, sia disponibile oggi a rivedere il reato di concorso esterno in associazione mafiosa e che il leader di Magistratura indipendente, Piraino, apra la porta al ritorno dell'immunità parlamentare per restaurare l'equilibrio tra i Poteri. I tempi cambiano e il troppo storpia anche in magistratura: solo le toghe rosse restano sempre uguali a se stesse.

 Cari figli di Silvio, non lasciate oltraggiare vostro padre pure da morto. La lettera del critico d'arte e parlamentare agli eredi del Cav. Vittorio Sgarbi il 14 Luglio 2023 su Il Giornale.

Cari Marina, Piersilvio, Eleonora, Barbara e Luigi, cari figli, e caro Paolo,

non scrivo per lamentare che non abbiate risposto al mio video messaggio sulla necessità di una Commissione parlamentare d’inchiesta per accertare la natura delle indagini giudiziarie su vostro padre, fin dalla prima: l’avviso di garanzia a Napoli, che si consumò nel nulla ma che portò alla caduta del primo governo Berlusconi. Esse sembrano aver avuto più un intendimento politico che giudiziario, a guardarle bene, tutte, fino alla più grave sui rapporti con la mafia, iniziata, archiviata, riproposta, rigenerata, con finti pentiti e finti testimoni. L’onore di vostro padre, e anche il mio, e di tutti gli esponenti di Forza Italia, è stato offeso dall’insistente riferimento alle origini mafiose di Forza Italia, ribadite in diverse affermazioni e dichiarazioni di magistrati, con il peccato originale dell’assunzione di Vittorio Mangano, e con le ricorrenti insinuazioni sulle bombe di Firenze. Potevate contare sull’oblio, con il distacco di chi pensa che, con la morte, tutto finisca: il male e il bene. Ma adesso credo che questo atteggiamento non possiate permettervelo, e con voi tutta Forza Italia.

Il processo per mafia, il più osceno, continua per interposta persona, e riguarda, anche nell’aldilà, vostro padre. La perquisizione della casa e dell’ufficio di Dell’Utri, indagato con la moglie da procuratori di cui si conosce la visione e la propensione ai teoremi, è una proroga di indagini che, senza pudore, legano l’attentato a Maurizio Costanzo, le bombe a Firenze, Milano, Roma all’obiettivo di «diffondere il panico e la paura tra cittadini in modo da favorire l’affermazione del progetto politico di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri... nel quadro di un accordo, consistito nello scambio tra l’effettuazione, prima, da parte di Cosa nostra, di stragi, e poi, a seguito del favorevole risultato elettorale ottenuto da Berlusconi, a fronte della promessa, da parte di Dell’Utri, che era il tramite di Berlusconi, di indirizzare la politica legislativa del governo verso provvedimenti favorevoli a Cosa nostra in tema di trattamento carcerario, di collaboratori di giustizia e sequestro di patrimoni, ricevendo altresì da Cosa nostra l’appoggio elettorale per le elezioni politiche del marzo ‘94».

In realtà queste posizioni, nel pieno rispetto della Costituzione, erano sostenute anche da Pannella, dai radicali, da me stesso e Tiziana Maiolo che fummo indagati per associazione mafiosa in Calabria, soltanto per le nostre posizioni politiche.

Conosco quindi bene la storia, e sono certo che una commissione parlamentare accerterebbe la vera natura di queste inchieste. Anche l’attuale provvedimento contro Dell’Utri, colpevole per definizione, investe il suo «ruolo di trait d’union tra il Cavaliere e la criminalità mafiosa dal 1974 al 1992 che è risultato far ricorso alle sue conoscenze mafiose per alimentare la nascita di Forza Italia». Un teorema che riguarda quarant’anni di rapporti tra Dell’Utri e vostro padre. Oggi, invece di archiviare inchieste fantasiose, più adatte a sceneggiature cinematografiche, si interpretano anche le indicazioni testamentarie come prove a danno di Berlusconi, loro ossessione, in quanto «le erogazioni costituiscono una contropartita a beneficio di dell’Utri per le condanne patite e il suo silenzio nei processi penali che lo hanno visto e lo vedono coinvolto». Non è accettabile. L’unico reato è la sistematica diffamazione da parte dei magistrati. Proprio per difendere l’impresa più appassionata e storicamente meritoria di vostro padre, che è stata Forza Italia, occorre reagire e resistere contro una aggressione politica, attraverso l’azione giudiziaria, con l’unica risposta politica, nella difesa dell’autonomia dei poteri in una democrazia reale, che è l’istituzione della commissione parlamentare per verificare la legittimità e il fondamento delle inchieste giudiziarie. Non c’è altro futuro per Forza Italia, e per chine ha ereditato lo spirito e i valori.

Vostro padre è stato un campione di resistenza. Cercate di essere degni di lui.

Fatelo con lui e per lui. Non lasciatelo oltraggiare anche da morto.

(ANSA il 17 luglio 2023) - "Abbiamo diritto a una giustizia che, come si legge nelle aule di tribunale, sia 'uguale per tutti'. Per tutti, senza che siano certe Procure a decidere chi sì e chi no": Marina Berlusconi, con un intervento a sua firma sulle pagine del Giornale, interviene nel dibattito sulla riforma della giustizia e porta la sua "testimonianza" e una "denuncia, innanzitutto come figlia". "La persecuzione di cui mio padre è stato vittima, e che non ha il pudore di fermarsi nemmeno davanti alla sua scomparsa - scrive -, credo contenga in sé molte delle patologie e delle aberrazioni da cui la nostra giustizia è afflitta".

Il riferimento della presidente di Fininvest e Mondadori è all'inchiesta della Procura di Firenze sulla stragi del 1993-94 che "ha aspettato giusto un mese dalla sua scomparsa, la Procura di Firenze, per riprendere imperterrita la caccia a Berlusconi, con l'accusa più delirante, quella di mafiosità. Mentre nel Paese il conflitto tra magistratura e politica è più vivo e violento che mai". 

Secondo Marina Berlusconi, "siamo incastrati in un gioco assurdo, che ci costringe a un eterno ritorno alla casella di partenza. È una sensazione sconfortante, perché sembra che ogni ipotesi di riforma diventi motivo di scontro frontale, a prescindere dai suoi contenuti. Sia ben chiaro, spetta solo a politica e istituzioni, nel rispetto del dettato costituzionale, affrontare problemi gravi come questo. Sento però la necessità di portare una testimonianza, e una denuncia, innanzitutto come figlia".

" È una storia - prosegue rivolgendosi al direttore del Giornale Augusto Minzolini - che vede una sia pur piccola parte della magistratura trasformarsi in casta intoccabile e soggetto politico, teso solo a infangare gli avversari, veri o presunti". E allora "l'avviso di garanzia serve così solo a garantire che l'indagato venga subito messo alla gogna: seguiranno le canoniche intercettazioni, anche le più lontane dal tema dell'inchiesta. 

Ma tutto serve a costruire la condanna mediatica, quella che sta loro davvero a cuore, prima ancora che il teorema dell'accusa venga vagliato da un giudice terzo. Un meccanismo diabolico, questa tenaglia pm-giornalisti complici che rovina la vita ai diretti interessati ma anche condiziona, e nel caso di mio padre si è visto quanto, la vita democratica del Paese, avvelena il clima, calpesta i più sacri principi costituzionali". E' un "fine pena mai". Nemmeno con la morte.

"Ci sono ancora pm e giornalisti che insistono nella tesi, assurda, illogica, molto più che infamante, secondo cui mio padre sarebbe il mandante delle stragi mafiose del 1993-94. È qualcosa di talmente enorme che fatico perfino a scriverlo" aggiunge, ricordando quanto fatto dal padre contro la criminalità.

"Contro Cosa Nostra nessun altro esecutivo ha mai fatto tanto. Ma tutto questo non basta. La lettera scarlatta giudiziaria che marchia l'avversario resta indelebile, gli sopravvive. E il nuovo obiettivo è chiaro: la damnatio memoriae. No, purtroppo - constata - la guerra dei trent'anni non è finita con Silvio Berlusconi. E non riguarda di certo soltanto lui. Perché un Paese in cui la giustizia non funziona è un Paese che non può funzionare. Non m'illudo che, dopo tanti guasti, una riforma basti a restituirci alla piena civiltà giuridica. Ma penso, e spero, che chi ha davvero il senso dello Stato debba fare qualche passo importante. Non dobbiamo, non possiamo rassegnarci".

La lettera di Marina Berlusconi: "Papà perseguitato anche dopo la morte. Gli assurdi teoremi di certi pm intoccabili". "Caro direttore, ma la guerra dei trent'anni non doveva finire con Silvio Berlusconi?" Marina Berlusconi il 17 Luglio 2023 su Il Giornale.

Caro direttore,

ma la guerra dei trent'anni non doveva finire con Silvio Berlusconi? Dopo di lui, il tema giustizia non doveva tornare nei binari della normalità? No, purtroppo non è così. Ha aspettato giusto un mese dalla sua scomparsa, la Procura di Firenze, per riprendere imperterrita la caccia a Berlusconi, con l'accusa più delirante, quella di mafiosità. Mentre nel Paese il conflitto tra magistratura e politica è più vivo e violento che mai.

Siamo incastrati in un gioco assurdo, che ci costringe a un eterno ritorno alla casella di partenza. È una sensazione sconfortante, perché sembra che ogni ipotesi di riforma diventi motivo di scontro frontale, a prescindere dai suoi contenuti.

Sia ben chiaro, spetta solo a politica e istituzioni, nel rispetto del dettato costituzionale, affrontare problemi gravi come questo. Sento però la necessità di portare una testimonianza, e una denuncia, innanzitutto come figlia: la persecuzione di cui mio padre è stato vittima, e che non ha il pudore di fermarsi nemmeno davanti alla sua scomparsa, credo contenga in sé molte delle patologie e delle aberrazioni da cui la nostra giustizia è afflitta. È una storia che vede una sia pur piccola parte della magistratura trasformarsi in casta intoccabile e soggetto politico, teso solo a infangare gli avversari, veri o presunti. È così che certi pubblici ministeri invertono totalmente il percorso che la ricerca della verità dovrebbe seguire. Partono da un teorema, per quanto strampalato, e a questo adattano la realtà dei fatti, anche stravolgendola, per dimostrare la fondatezza del teorema stesso. Che poi alla fine questo non trovi il minimo riscontro importa poco. Perché nel frattempo gli organi di informazione amici avranno diligentemente pubblicato le carte dell'accusa, anche quelle in teoria segrete, facendo di tutto per presentarne le ipotesi come fossero verità assolute. L'avviso di garanzia serve così solo a garantire che l'indagato venga subito messo alla gogna: seguiranno le canoniche intercettazioni, anche le più lontane dal tema dell'inchiesta. Ma tutto serve a costruire la condanna mediatica, quella che sta loro davvero a cuore, prima ancora che il teorema dell'accusa venga vagliato da un giudice terzo. Un meccanismo diabolico, questa tenaglia pm-giornalisti complici, che rovina la vita ai diretti interessati ma anche condiziona, e nel caso di mio padre si è visto quanto, la vita democratica del Paese, avvelena il clima, calpesta i più sacri principi costituzionali. Eppure, e lo dico con tutta l'amarezza di cui sono capace, è un meccanismo diabolicamente efficace. Una condanna a un «fine pena mai» anche senza una prova, anche senza una sentenza, anche dopo la vita stessa.

La scomparsa di mio padre non ha mutato nulla. Dopo oltre vent'anni di inchieste, dopo una mezza dozzina di indagini chiuse su richiesta degli stessi pubblici ministeri perché non c'era - non poteva esserci - alcun elemento di prova, e subito riaperte in modo da dilatare strumentalmente qualsiasi termine di scadenza, dopo che i conti della Fininvest sono stati passati per anni al setaccio senza risultato, ci sono ancora pm e giornalisti che insistono nella tesi, assurda, illogica, molto più che infamante, secondo cui mio padre sarebbe il mandante delle stragi mafiose del 1993-94. È qualcosa di talmente enorme che fatico perfino a scriverlo. Ma davvero qualcuno può credere che Silvio Berlusconi abbia ordinato a Cosa Nostra di scatenare morte e distruzione per agevolare la sua discesa in campo del gennaio 1994? Ed è credibile, poi, che abbia costruito una delle principali imprese del Paese utilizzando capitali mafiosi?

Io conosco molto bene l'uomo che era mio padre, il suo orrore per ogni forma di violenza, la sua profonda considerazione per ogni singola persona, nessuno sa meglio di me come la capacità di amare e il desiderio di essere amato fossero l'essenza stessa della sua vita. Ma se qualcuno non si accontenta del buon senso o di quel che sostiene una figlia, mi spieghi perché, dopo oltre un quarto di secolo in cui decine di pm hanno dedicato le loro giornate a mio padre, non è emerso nulla, nulla di nulla. Invece, non basterebbe una pagina di questo giornale, caro direttore, per elencare le leggi contro la criminalità organizzata varate dai governi Berlusconi. Contro Cosa Nostra nessun altro esecutivo ha mai fatto tanto. Ma tutto questo non basta. La lettera scarlatta giudiziaria che marchia l'avversario resta indelebile, gli sopravvive. E il nuovo obiettivo è chiaro: la damnatio memoriae.

No, purtroppo la guerra dei trent'anni non è finita con Silvio Berlusconi. E non riguarda di certo soltanto lui. Perché un Paese in cui la giustizia non funziona è un Paese che non può funzionare. Non m'illudo che, dopo tanti guasti, una riforma basti a restituirci alla piena civiltà giuridica. Ma penso, e spero, che chi ha davvero il senso dello Stato debba fare qualche passo importante. Non dobbiamo, non possiamo rassegnarci. Abbiamo diritto a una giustizia che, come si legge nelle aule di tribunale, sia «uguale per tutti». Per tutti, senza che siano certe Procure a decidere chi sì e chi no.

Ha ragione Marina: i Pm inseguono i nemici. Il leader Iv sulla lettera al «Giornale» della figlia di Berlusconi: "Difendo la memoria da avversario". Matteo Renzi il 23 Luglio 2023 su Il Giornale.

Caro Direttore,

la lettera che Marina Berlusconi ha inviato al Suo giornale per stigmatizzare il tentativo di criminalizzare anche post mortem il padre Silvio ha suscitato una vasta eco nel dibattito politico.

In particolar modo qualcuno vi ha voluto leggere una strisciante polemica all'interno della maggioranza che governa il nostro Paese viste anche le dichiarazioni tranchant che Giorgia Meloni ha dedicato all'argomento in un punto stampa.

Non sono mancati poi i retroscenisti abituati a scorgere complotti ovunque che hanno sostenuto come Italia Viva usi la giustizia come argomento sul quale tessere alleanze con una parte della maggioranza. Rispetto le opinioni di tutti e sto volutamente alla larga dalle letture più politicistiche. Mi limito a una semplice considerazione, forse persino banale.

Se facciamo uno sforzo per attenerci alla realtà, e solo a quella, cancellando ogni implicazione, retropensiero, elucubrazione ci rendiamo conto che la lettera di Marina Berlusconi è la doverosa e nobile denuncia di una figlia che difende il padre, ma anche di una cittadina che chiede una giustizia giusta e invita i PM a perseguire i reati, non a inseguire i nemici.

Caro Direttore, io non ho mai votato Silvio Berlusconi a differenza di molti lettori del Suo quotidiano. E Berlusconi ha votato la fiducia ai governi Monti, Letta, Gentiloni ma mai al mio governo. Anzi, la scelta di Berlusconi di rompere il patto del Nazareno ha causato la fine della mia esperienza alla guida del Paese. Dunque io non posso essere tacciato di complicità o di essere in debito con la memoria del Presidente Berlusconi. Ho sempre sostenuto che in politica lui non potrà avere eredi perché il Cavaliere è stata una figura più unica che rara. Tutto ciò premesso, posso dire a voce alta e senza timore di apparire di parte che contestare a Silvio Berlusconi una qualsiasi forma di partecipazione nella drammatica vicenda delle stragi del 1993 è semplicemente folle. Le stragi dei Georgofili, di Roma e Milano, il fallito attentato a Maurizio Costanzo: davvero c'è chi vede una responsabilità di Berlusconi in tutto questo?

O c'è piuttosto il desiderio di affibbiare al politico che non si ama non già - come sacrosanto - la qualifica di avversario ma quella di nemico, anzi direttamente di mafioso. È il racconto che i professionisti dell'antimafia e le toghe ideologizzate (le stesse che hanno fatto la guerra a Falcone al CSM e che hanno consentito un indecoroso depistaggio sulla strage di via D'Amelio in cui morì Borsellino) hanno sempre fatto: fuori la mafia dallo Stato. Anziché combattere tutti insieme contro la mafia si preferisce indicare gli avversari come mafiosi così da rivendicare una presunta superiorità etica. Come se i premier sgraditi, da Andreotti a Berlusconi, potessero essere messi all'indice non per le proprie idee ma per una folle accusa di mafia.

Ha fatto bene Marina Berlusconi a criticare l'assurdità di queste infamanti accuse. Perché non è di una indagine che si sta parlando ma di un tentativo - quello di una minoritaria parte della magistratura - di alimentare la narrazione che i vertici delle istituzioni più lontani dalla sinistra avessero rapporti con la mafia.

Perquisire la casa di Dell'Utri trent'anni dopo - e dopo che comunque Dell'Utri ha trascorso anni in carcere - appare come il tentativo di alimentare la visibilità mediatica di una indagine che non ha sostanza e che non ha credibilità. In queste ultimi mesi i procuratori Turco e Tescaroli hanno interrogato quattro volte Massimo Giletti su questa storia ma non hanno trovato mezz'ora di tempo per firmare le ordinanza di sgombero di un edificio occupato abusivamente nel cuore di Firenze nonostante avessero esplicita richiesta in tal senso di Digos e Comune. Una bambina di cinque anni è sparita e la responsabilità morale della vicenda della piccola Kata sta in capo a chi poteva (e doveva! In Italia vige o no il principio di obbligo di esercizio dell'azione penale?) intervenire subito e non lo ha fatto. Reputo squallido che la procura di Firenze si preoccupi di infangare la memoria di Berlusconi ma non si occupi di garantire la legalità nella città che dai tempi dell'Istituto degli Innocenti accoglie i bambini, non li fa sparire per colpa del racket dell'abusivismo. E chi ricorda la vicenda del piccolo Patriarchi sa che non è la prima volta che la Procura di Firenze ignora gli allarmi di chi la legalità la difende davvero: in quel caso furono i Carabinieri a chiedere ai Pm fiorentini di intervenire ricevendo un rifiuto e la conseguenza fu la tragica morte di un bambino di sette anni.

Qualcuno dirà: tu dici questo perché attacchi i Pm fiorentini. No, non è vero. Ho un conto aperto con i Pm fiorentini, certo, perché nelle indagini su di me loro hanno violato la legge, come ha spiegato cinque volte la Corte di cassazione, e forse anche la Costituzione: lo vedremo quando la Consulta comunicherà le proprie decisioni, mi auguro il prima possibile. Ma proprio per questo le mie vicende con il procuratore Turco le affronto nelle aule giudiziarie dove spero che egli venga penalmente condannato per falso.

Se scrivo questo non è perché attacco i Pm fiorentini, ma perché conosco quel Pm. E so che l'ideologia per lui viene prima della realtà.

Non ho paura di dire la mia allora per difendere chi non può più parlare come Silvio Berlusconi. Ne difendo la memoria - da avversario - perché così facendo rendo un servizio non solo alla sua storia personale ma direi ancora prima elle Istituzioni di questo Paese. Bisogna smetterla di considerare gli avversari come mafiosi e combattere tutti insieme contro la mafia ora e sempre. Le dinamiche tra Forza Italia e la Premier non mi interessano. Ma spendere la mia parola per Silvio Berlusconi nasce dal desiderio di riportare tutti alla realtà e al rispetto.

Senza il quale ogni gioco democratico diventa lotta nel fango. 

Marina Berlusconi-Meloni, indiscrezioni: la telefonata, sinistra stroncata. Pietro De Leo su Libero Quotidiano il 23 luglio 2023

Sarà per la prossima volta. Mentre l’opposizione non trova il bandolo di un progetto unitario, a certa stampa collaterale non resta che tifare nella disgregazione delle forze di maggioranza. E magari soffiare su qualche differenziazione confidando che ne nasca un incendio talmente forte da far venir giù l’intera casa del centrodestra. Il tema preso a pretesto è il confronto che si è generato dalla lettera, accorata e profonda, che Marina Berlusconi ha pubblicato lunedì sul giornale. L’argomento è l’esercizio postumo di accanimento giudiziario che vede suo papà Silvio, fondatore di Forza Italia, tirato dentro, a un mese dalla morte, nelle indagini sulle bombe di mafia del ‘93.

La tesi è quella più volte emersa negli ultimi 30 anni, per poi spegnersi puntualmente in quanto supportata da nulla, ossia che quegli attentati abbiano costituito un vento alle vele per la nascente Forza Italia. Tesi lunare, appunto. E la primogenita del quattro volte presidente del Consiglio ha denunciato l’opera di damnatio memoriae, sottolineando che i governi Berlusconi furono molto efficaci nella lotta alla mafia (ricordare, per dirne solo una, sotto quale esecutivo fu assicurato alle patrie galere Bernardo Provenzano).

E finiva, quella lettera, con una constatazione e un auspicio: «Un Paese in cui la giustizia non funziona è un Paese che non può funzionare. Non m’illudo che, dopo tanti guasti, una riforma basti a restituirci alla piena civiltà giuridica. Ma penso, e spero, che chi ha davvero il senso dello Stato debba fare qualche passo importante. Non dobbiamo, non possiamo rassegnarci. Abbiamo diritto a una giustizia che, come si legge nelle aule di tribunale, sia ‘uguale per tutti’».

RIFORMA NECESSARIA

Argomento che nasce da un duplice slancio: quello di una figlia che ha visto per tre decenni (e vede tutt’ora) la lapidazione giudiziaria di un padre che con le sue imprese ha segnato la società e la politica italiana; e quello di cittadina, senz’altro. Perché la necessità di una riforma della giustizia è assai sentita. Di tutto questo i giornalisti hanno chiesto conto a Giorgia Meloni, che replica: «Marina Berlusconi non è un soggetto politico». Certo frase lapidaria, evidentemente gravata da un eccesso di sintesi.

Perché quanto rivendicato da Marina Berlusconi è il fondamento della storia politica del centrodestra, e rappresenta il senso pieno di certe iniziative giudiziarie dalla sfumatura politica che dalla nascita della Seconda Repubblica hanno visto come bersaglio quasi esclusivo il fondatore di Forza Italia. E anche perché, come confermato sia dal sentimento degli elettori, è impossibile scindere Fi dalla figura di Berlusconi nel senso più ampio, figli compresi e non solo perché sono garanti del debito finanziario del movimento.

POLEMICA FANTASMA

Tuttavia, nella dicotomia lettera-commento non v’è nulla di catastrofico. Ma tanto è bastato per far scattare la ridda di retroscena. Il Fatto Quotidiano dà conto di una Forza Italia in procinto di “far ballare” la premier. Dagospia racconta che Marina avrebbe preso «male, anzi malissimo!» la «rispostaccia» di Giorgia Meloni. Repubblica, ieri, riprendeva Dago addirittura prefigurando dubbi, da parte della figlia maggiore di Berlusconi, di continuare a sostenere Forza Italia. La Stampa pubblicava un pezzo di Lucia Annunziata, titolo eloquente: “Giorgia&Marina, le incompatibili”. Che sia in corso un effetto domino? Nient’affatto, ovviamente. 

Ed è la stessa Marina Berlusconi a sottolinearlo, con una nota diffusa ieri (qualcuno parla anche di una telefonata tra le due) che strappa via il romanzo di presunte ostilità: «Alcuni media hanno voluto vedere dietro questa lettera intenzioni che non ho mai avuto, così come mi hanno incomprensibilmente attribuito reazioni che non ho mai provato di fronte a commenti del presidente Giorgia Meloni, per la quale nutro il massimo rispetto e la massima stima. Così stanno le cose. Tutto il resto sono strumentalizzazioni fuori dalla realtà». Poco più tardi, la stessa premier, a domanda di Affaritaliani.it se il caso sia chiuso, replica: «Non c’è mai stato un caso». Seppellito con una risata. Con grande sofferenza dei soffiatori di discordia.

"Marina ha ragione. I pm non si fermano neppure al cimitero". Il senatore Fdi: "La lettera della figlia del Cav richiama la politica alle sue responsabilità". Francesco Curridori il 18 Luglio 2023 su Il Giornale.

«Trovo la dichiarazione di Marina Berlusconi un atto di umana pietà di fronte al quale tutti si devono inchinare». A dirlo è l'ex presidente del Senato, Marcello Pera, oggi senatore di Fratelli d'Italia, che considera la lettera del presidente di Fininvest «un fatto che richiama la politica alle sue responsabilità».

Perché?

«Marina Berlusconi parla di patologie e aberrazioni della giustizia, di attentato alla civiltà giuridica. Il fenomeno, quindi, è di carattere politico-istituzionale. Bisogna chiedersi: quanto dura e quando si ferma un'indagine? Non si ferma neppure di fronte al cancello di un cimitero? Se dopo quasi 30 anni non si trova nessun atto di accusa provato davanti a un giudice, è lecito chiedersi se l'indagine persegue la giustizia oppure alimenta soltanto i giornali?».

Tutto questo è frutto di una serie di storture del sistema giudiziario?

«Certo, ci sono varie e palesi storture. La prima riguarda l'avviso di garanzia che, come sostiene Marina Berlusconi, garantisce solo i giornali e non l'imputato. La seconda riguarda l'uso di indiscrezioni o di dichiarazioni di personaggi fatte fuori dall'Aula e mai davanti a un giudice. Una stortura, questa, che serve solo a far proseguire le indagini. Un'altra stortura riguarda le accuse mosse a un imputato che hanno tutto l'aspetto di una narrazione storica. Quando si dice che gli attentati preparavano il campo a Forza Italia si racconta un fatto storico privo di qualunque supporto e palesemente falso per milioni di italiani. Ora, su queste storture, deve intervenire la politica. Con tutto l'equilibro e il confronto che occorre, ma l'intervento è necessario».

Ma, sul tema giustizia, il governo pare abbastanza deciso a intervenire...

«Sì, l'agenda Nordio ha proprio questo scopo e, pertanto, dobbiamo portarla avanti e sostenerla. Deve arrivare in Aula e va esaminata come si fa con ogni importante riforma, però, penso che questa non sia sufficiente. Una vera riforma della giustizia, infatti, non si attua per via ordinaria, ma tramite modifiche di tipo costituzionale».

A quali riforme si riferisce?

«Anzitutto, il Consiglio Superiore della Magistratura deve cambiare la composizione, la natura e i suoi scopi e, per farlo, è necessario toccare la Costituzione. Stessa cosa bisogna fare anche per i giudizi sulle attività deviate dei magistrati che non possono essere affidati a una sezione del Csm. È necessario creare un'Alta Corte di giustizia che valuti i comportamenti dei magistrati».

Anche la separazione delle carriere necessita di una riforma costituzionale?

«Certo, non può attuarsi veramente senza una riforma costituzionale così come prevede l'articolo 111 in cui si stabilisce che l'accusa e la difesa sono parti e che solo il giudice è terzo e imparziale. Anche qui bisogna precisare in Costituzione in quale modo si attua questa separazione. Lo status del pubblico ministero, poi, non può essere esattamente uguale a quello del giudice che emette la sentenza».

È percorribile la strada dell'inappellabilità delle sentenze?

«Se lo Stato, tramite un suo giudice autonomo, indipendente, terzo e imparziale, ha assolto qualcuno che ha portato a processo, non si capisce perché il pm, organo dello Stato, non si debba fermare e debba sempre poter ricorrere in appello».

Ma cosa impedisce ai giudici di essere imparziali?

«Per arrivare a una vera terzietà bisogna fare in modo che il giudice, che è imparziale, sia inibito dall'orientare le indagini fatte dal pm perché, se questo avviene, si torna al giudice istruttore e non al giudice terzo del giusto processo che prevede la Costituzione».

Una riforma come il lodo Alfano potrebbe servire utile a cambiare il clima alquanto arroventato tra magistratura e politica?

«Il clima è rovente perché certi pm hanno un canale privilegiato con i giornalisti che alimentano questa tensione. Trovo irresponsabile che il Pd, per bocca del senatore Verini, definisca inquietante il messaggio di Marina Berlusconi. Qui, di inquietante c'è solo la deviazione dalla funzione propria di una parte della magistratura. Anche l'opposizione dovrebbe collaborare per correggerla». 

La politica fa quadrato intorno alla Berlusconi: "Lettera sacrosanta, questo sistema è malato". Coro di sì, Paita (Iv): "Fa bene a denunciare la damnatio memoriae". Fabrizio De Feo il 18 Luglio 2023 su Il Giornale.

«Caro direttore, ma la guerra dei trent'anni non doveva finire con Silvio Berlusconi? Dopo di lui, il tema giustizia non doveva tornare nei binari della normalità?».

La domanda che Marina Berlusconi fa risuonare nel dibattito pubblico con la lettera a il Giornale, non è soltanto, per dirla con le sue parole, «una testimonianza, e una denuncia» contro «la persecuzione di cui mio padre è stato vittima, e che non ha il pudore di fermarsi nemmeno davanti alla sua scomparsa», ma un invito a perseguire davvero la riforma della giustizia perché «un Paese in cui la giustizia non funziona è un Paese che non può funzionare».

Di fronte alle parole della primogenita di Silvio Berlusconi, Forza Italia si stringe attorno a lei e rilancia la richiesta di cambiare davvero la giustizia italiana. «Marina Berlusconi fa bene a difendere la memoria di suo padre» dice Antonio Tajani «perché mi pare che da parte di alcuni ci sia una sorta di accanimento anche dopo la sua morte. Ricordo le parole di Grasso che elogiò Berlusconi per il suo atteggiamento di fermezza nei confronti di mafia, camorra, 'ndrangheta, sacra corona unita. Adesso costruire teoremi secondo i quali Forza Italia sarebbe nata perché la mafia... lasciamo perdere, sono barzellette alle quali nessuna persona di buon senso può credere». La presidente dei senatori azzurri Licia Ronzulli giudica la lettera «un monito a fare in modo che la giustizia non sia più, mai più, un'arma da usare contro l'avversario politico. Che ci sia una giustizia con la G maiuscola, al servizio dei cittadini. E per farlo, serve solo una grande, profonda riforma, che possa cambiare tutto questo e invertire la rotta. Solo così potremo uscire da questo girone dantesco che paralizza l'Italia, solo così onoreremmo la memoria del presidente Berlusconi, che per ottenere questa riforma ha dedicato 30 anni della sua vita. Fino all'ultimo giorno».

Paolo Barelli, capogruppo alla Camera, riannoda il nastro della storia, sottolineando che «Forza Italia è sempre stata dalla parte giusta, il rispetto della legalità e la lotta - a più livelli - al crimine organizzato sono nel suo Dna». Giorgio Mulè, nella maniera decisa che lo contraddistingue, fotografa così l'origine di Forza Italia: «Di sicuro noi non siamo eredi di un partito nato da uno scambio con la feccia dell'umanità. Noi siamo gli eredi di un partito fondato da Silvio Berlusconi che ha avversato e combattuto quella feccia dell'umanità su tutti i fronti». Solidarietà anche dalla senatrice Michaela Biancofiore, presidente del gruppo parlamentare Civici d'Italia: «Mi sono molto commossa per la lettera accorata di Marina Berlusconi in difesa della memoria e della vita di suo padre, che combacia drammaticamente con un'analisi chirurgica dello stato della giustizia in Italia. Marina ha ragione soprattutto quando denuncia la volontà della damnatio memoriae nei confronti di suo padre». Maurizio Gasparri, invece, parla come «testimone diretto» dell'impegno antimafia di Berlusconi. «Ho avuto l'onore di essere Ministro accanto a lui quando abbiamo reso permanente il carcere duro, il 41 bis, nell'ordinamento penitenziario italiano». «Siamo di fronte ad un sistema della giustizia malato dove c'è parte della magistratura e certa stampa che, con una delle accuse più infamanti ovvero quella di mafiosità, persevera in un accanimento addirittura post mortem'! Inaccettabile», chiosa il deputato azzurro Roberto Pella. E la senatrice di Iv, Raffaella Paita: «Ha ragione Marina, quando dice che la guerra dei 30 anni non è ancora finita. Ha ancora ragione quando parla di damnatio memoriae da parte della procura di Firenze».

Quel teorema giudiziario sul Cav stragista non ha alcuna logica politica…Il progetto della procura? Berlusconi sarebbe stato accusato di essere un mandante di attentati. Ma l’ipotesi processale non sta in piedi neanche dal punto di vista della vicenda politica e dell’andamento delle stesse operazioni criminali della mafia. Fabrizio Cicchitto su Il Dubbio il 17 luglio 2023

L’originario progetto della Procura antimafia di Firenze era probabilmente quello di prendere due piccioni con una fava e di fare dei fuochi d’artificio ad alta visibilità: due avvisi di garanzia, uno a Berlusconi, l’altro a Dell’Utri come mandanti delle stragi mafiose del 1993.

A parte l’effetto mediatico, ci sarebbe stato anche un effetto politico notevole: lo storico leader del centrodestra e comunque il capo di uno dei tre partiti fondamentali del governo, sarebbe stato accusato di essere un mandante di attentati: un botto politico non da poco, altro che la Santanchè.

Sennonché, per un estremo e anche tragico paradosso, Berlusconi ha fatto un dispetto a questi magistrati che lo hanno braccato dal ’94 ad oggi e ha vanificato l’obiettivo finale della Procura di Firenze. Rimane evidentemente aperta tutta un’altra questione che riguarda la politica e specialmente la memoria. Essendo venuto meno l’obiettivo principale, ora si punta a Marcello Dell’Utri. Però siccome uno degli obiettivi fondamentali di tutta questa storia è quello mediatico, già oggi è evidente che i primi effetti sono molto ridotti. Repubblica è rimasta appesa al suo annuncio ma non ha né sconvolto l’opinione pubblica, oramai assuefatta a questi fuochi d’artificio, né ha trascinato per ovvie ragioni giornali concorrenti su questo terreno.

Ma, a parte queste osservazioni in un certo senso preliminari, veniamo al merito. In primo luogo si tratta di una minestra riscaldata perché nel passato ben altre quattro volte ipotesi di reato di questo tipo sono state avanzate e respinte dalla stessa magistratura. Innanzitutto l’ipotesi processale non sta in piedi neanche dal punto di vista della vicenda politica e dell’andamento delle stesse operazioni criminali della mafia. Il primo attentato, quello di via dei Georgofili, è del 27 maggio 1993. Allora neanche lontanamente Berlusconi pensava di entrare in politica, tant’è che anche nei mesi immediatamente successivi egli interpellò Mario Segni e Mino Martinazzoli affinché scendessero loro in campo. Ciò è confermato anche dal libro di memorie di Dotti che poi con Berlusconi arrivò ad uno scontro frontale.

Colta questa sfasatura temporale, che non è cosa da poco, c’è poi la questione di fondo: come si può pensare che alcuni attentati e più di 200 morti (bisogna conteggiare gli effetti degli attentati falliti: quello contro Maurizio Costanzo e quello all’Olimpico che avrebbe dovuto colpire circa 200 carabinieri) avrebbero avuto l’effetto ipotizzato nell’avviso di garanzia a Dell’Utri, cioè la destabilizzazione del governo Ciampi e poi la vittoria elettorale e politica di Berlusconi?

Nessuno poteva ipotizzare in anticipo quali sarebbero stati gli effetti di attentati che avrebbero dovuto provocare la morte di centinaia di persone, fra cui un numero molto rilevante di carabinieri. Sarebbe potuto avvenire esattamente l’inverso di quello ipotizzato. L’opinione pubblica, terrorizzata dal massacro di un numero rilevante di carabinieri, avrebbe potuto stringersi proprio intorno al governo in carica presieduto da un personaggio della statura di Carlo Azeglio Ciampi che anzi sarebbe stato una sorta di usato sicuro mentre nessuno considerava Berlusconi come una personalità particolarmente attrezzata ad affrontare una situazione di emergenza sul terreno dell’ordine pubblico.

Poi vanno esaminate le conseguenze successive. Qualora Berlusconi fosse arrivato al governo anche grazie a chi aveva provocato la morte di un numero rilevante di persone, sarebbe stato totalmente nelle mani della mafia. Ovviamente la mafia avrebbe chiesto l’immediato cambiamento delle leggi da essa aborrite e in primo luogo il 41 bis. Invece è avvenuto esattamente il contrario. Berlusconi e i suoi ministri dell’Interno e di Grazia e Giustizia hanno ulteriormente accentuato la gravità delle leggi antimafia. A questo proposito prendiamo in considerazione la testimonianza di un personaggio al di sopra di ogni sospetto per quanto riguarda i suoi rapporti con Berlusconi: Pietro Grasso, da presidente del Senato, pur di favorire l’estromissione di Berlusconi, ha consentito forzature inaudite. Contro Berlusconi fu fatta valere la legge Severino con applicazione retroattiva (la legge era del 2012, il reato fiscale per cui Berlusconi fu condannato risaliva al 2002).

Tuttavia le cose non si fermano qui. Allora, in sede di dibattito, i grillini chiesero che venisse eliminata la clausola del voto segreto e Pietro Grasso li seguì totalmente. Ebbene Grasso, da presidente dell’Antimafia, il 13 maggio del 2012 così si espresse: “Darei un premio speciale a Silvio Berlusconi e al suo governo per la lotta alla mafia. Ha introdotto delle leggi che ci hanno consentito di sequestrare in tre anni moltissimi beni di mafiosi. Siamo arrivati a quasi 40 miliardi di euro”.

A questo punto, qualche persona di buon senso può pensare che qualora Berlusconi avesse usufruito di quel “contributo stragista” da parte della mafia poi avrebbe potuto fare il furbo in questo modo sul terreno legislativo? Non oggi, a ricasco delle spericolate iniziative di Giletti, ma anni fa, con Berlusconi ancora al governo, non uno ma dieci Baiardo avrebbero latrato nei suoi confronti esprimendo ricatti di tutti i tipi. Se tutto ciò non è avvenuto, ciò vuol dire che le cose sono andate in senso opposto a quello ipotizzato in questo avviso di garanzia. D’altra parte, siccome viviamo in Italia e non in Colombia, nessuna persona normale può pensare di riuscire a farsi strada sul terreno del consenso politico ed elettorale a colpi di attentati e di carabinieri uccisi. Solo i mafiosi nella versione corleonese hanno pensato di poter fare nei confronti dello Stato la stessa operazione che con successo avevano realizzato all’interno della mafia uccidendo migliaia di appartenenti alle cosche rivali e quando, prima ancora del ’93, hanno adottato questa linea estremista nei confronti dello Stato andando incontro a una serie di terribili disfatte testimoniate dal fatto che centinaia di essi sono ancora all’ergastolo e al 41 bis. Ciò è avvenuto malgrado che qualcuno ha cercato di intorbidire le acque con quella trattativa Stato-mafia azzerata non solo dalla Cassazione ma dalla realtà di ciò che ai capimafia è successo dagli anni Ottanta ad oggi.

Purtroppo un ristretto nucleo di magistrati pensa di trasferire sulla politica le tecniche stragiste dei mafiosi malgrado essi siano andati incontro ad una evidente disfatta. Purtroppo c’è un estremismo giustizialista che è la malattia infantile di uno spicchio di magistratura inquirente, di alcuni appartenenti alla polizia giudiziaria e di alcuni cronisti giudiziari.

Sono passati tanti anni con vittorie e sconfitte del Berlusconi politico. Possibile che costoro ancora non abbiano capito che le vere bombe di Berlusconi stavano nella novità costituita dal suo personale carisma, dai messaggi nazional-popolari espressi dalle sue tv, dalla sua capacità nell’uso politico di una grande squadra di calcio? Altro che tritolo. A volerci mettere un po’ di fantasia potremmo dire che si è trattato perfino della traduzione nazional-popolare del pezzo più imprevedibile e più fuori dagli schemi del ’68. I magistrati, invece dei papielli di Totò Riina e di Ciancimino junior, leggano il libro di Mario Perniola dal titolo “Berlusconi o il ’68 realizzato”.

 Le parole della primogenita di Silvio Berlusconi. La lettera di Marina Berlusconi, un grido di sdegno contro i Pm di Firenze. Scrive Marina Berlusconi: “La persecuzione di cui mio padre è stato vittima e che non ha il pudore di fermarsi nemmeno davanti alla sua scomparsa, credo contenga in sé molte delle patologie e delle aver reazioni da cui la nostra giustizia è afflitta”. Nelle sue parole un grido di dolore. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 18 Luglio 2023 

Marina Berlusconi ha lanciato un grido di dolore e di sdegno. A un mese dalla scomparsa di suo padre Silvio la magistratura ha ricominciato a perseguirlo – per interposto imputato – per un reato tremendo e assurdo e cioè essere stato l’artefice o il complice di attentati incredibili perché non hanno precedenti né ragioni comprensibili, operati sul continente dalla mafia che dopo secoli di esistenza come organizzazione criminale si sarebbe trasformata in organizzazione politico militare. La Suprema Corte di Cassazione ha già sentenziato in maniera definitiva che non è mai esistita alcuna trattativa tra la Repubblica italiana e una entità detta Cosa Nostra, trasformatasi in una via di mezzo tra l’Olp palestinese, le Brigate Rosse eterodirette e l’IRA irlandese, terrorizzando il Paese con uccisioni indiscriminate e insensate come la mafia non ha mai fatto.

Una parte della Magistratura, sostiene Marina Berlusconi, non intende recedere e agisce contro un uomo che, con ogni evidenza, ha lasciato questo mondo. Quel che dice Marina Berlusconi nella lettera pubblicata ieri dal Giornale, è straziante perché ha a che vedere con questioni che non possono o non dovrebbero investire lei, Marina Berlusconi e ciascuno degli altri figli, familiari e amici, colpiti nella memoria di un padre o una persona cara scomparsa.

Marina ipotizza una causa ispiratrice, e cioè che, alcuni magistrati che non rappresentano affatto l’intero corpo della magistratura, sentano come un dovere quello di distruggere, specialmente dopo la morte, un uomo che hanno costantemente avversato e perseguito. Ma contro cui non hanno cessato di cercare prove o indizi per istruire processi.

Scrive Marina: “La persecuzione di cui mio padre è stato vittima e che non ha il pudore di fermarsi nemmeno davanti alla sua scomparsa, credo contenga in sé molte delle patologie e delle aver reazioni da cui la nostra giustizia è afflitta. È una storia che vede una sia pur piccola parte, della magistratura trasformarsi in casta intoccabile e soggetto politico, teso solo a infangare gli avversari veri o presunti”.

E Marina ricorda che lo stile delle campagne contro suo padre e non soltanto contro suo padre, è diventato il modus operandi della politica, condotta attraverso alcuni magistrati e alcuni loro galoppini destinati a tanta carriera quanti etti di scoop si ritrovavano sul computer. Il primo passo è lanciare l’accusa non provata, come è avvenuto a molte vittime di mani pulite totalmente innocenti (per non dire di quelli che si sono suicidati e che sono stati suicidati come Raul Gardini che si fa una sauna e distrattamente si spara alla tempia, dopo aver recapitato una valigia a Botteghe Oscure). Avvisi di garanzia e campagna mediatica fanno il giudizio di piazza con le tricoteuses sotto la lama che cade. Le eventuali assoluzioni, se anche arriveranno come accadde col primo avviso di garanzia del primo governo Berlusconi, passano direttamente al dimenticatoio. Le altre, a volte, ritornano.

Come il caso del senatore Dell’Utri che a Berlusconi morto si trova di nuovo sul groppone bombardamenti da Stato sovrano mai accaduto in Italia come le bombe di via Palestro a Milano, la bomba allo Stadio Olimpico di Roma, o anche quella nei pressi del Velabro, al Maurizio Costanzo show. Aggiungo da vecchio cronista competente nonché per quattro anni magistrato del Parlamento come presidente di una commissione d’inchiesta: perché non c’è qualcuno che mostri la volontà tecnica e politica di trovare le radici e le ragioni di quella stagione di attentati senza senso come fu senza senso l’immane apparato militare che uccise Falcone a capaci o quello altrettanto mostruoso per Borsellino? Chi, perché, come, per quali interessi, secondo quale logica ha commesso una tale sequenza di orrendi crimini, tutti in cerca di ragione prima ancora che di mandante, perché chi pur avendo il dovere e il potere di farlo, non lo fa? Possibile che nessuno ha letto tutto ciò che è stato scritto e documentato sulla più gigantesca fuga di capitali della storia che fu quella dell’unione sovietica da cui traggono sostentamento migliaia di oligarchi ricchi sfondati e assassini? Qualcuno potrà chiedere che relazione c’è? Ecco, già sarebbe un inizio.

Paolo Guzzanti

Giustizia, “Marina Berlusconi dà voce ai perseguitati dalle Procure”: le reazioni del mondo politico alla lettera della primogenita di Silvio. La presidente di Fininvest e primogenita di Berlusconi invia una lettera aperta a il Giornale, nella quale ricorda la persecuzione giudiziaria cui è stato sottoposto il padre, anche dopo la sua scomparsa. Immediate le reazioni di solidarità, da parte del mondo politico. Redazione su Il Riformista il 17 Luglio 2023

Ma la guerra dei trent’anni non doveva finire con Silvio Berlusconi? Dopo di lui, il tema giustizia non doveva tornare nei binari della normalità? No, purtroppo non è così. Ha aspettato giusto un mese dalla sua scomparsa, la Procura di Firenze, per riprendere imperterrita la caccia a Berlusconi, con l’accusa più delirante, quella di mafiosità. Mentre nel Paese il conflitto tra magistratura e politica è più vivo e violento che mai“. Queste le parole di Marina Berlusconi in una lettera aperta inviata al Giornale.

Alle parole della presidente di Fininvest e primogenita di Berlusconi segue, naturalmente, un coro di solidarietà da parte del mondo politico.

Siamo intolleranti alla mafia, la mafia ci fa schifo” e “ricordo che nei gruppi parlamentari di Fi ci sono due donne che sono figlie di vittime della mafia, Rita Dalla Chiesa e Caterina Chinnici”, dice il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, a Sky Tg24. “Marina Berlusconi fa bene a difendere la memoria di suo padre, mi pare veramente un accanimento quello di dover tornare a dire sempre le stesse cose“, ha aggiunto Tajani, ribadendo che “sono sciocchezze campate in aria” le teorie secondo cui Fi “sarebbe nata perché faceva comodo alla lotta della mafia”.

Le parole chiarissime e lucidissime di Marina Berlusconi affidate al ‘Giornale’ mi spingono a diffondere un passaggio del mio intervento previsto per il Consiglio nazionale di Forza Italia di sabato scorso. L’impegno antimafia di Silvio Berlusconi e dei governi da lui presieduti con Forza Italia sono una pietra angolare nella lotta alle cosche“, afferma il vicepresidente della Camera e deputato di Forza Italia, Giorgio Mulé.

La lettera di Marina Berlusconi al Giornale non è solo il grido di una figlia addolorata contro un accanimento e una persecuzione giudiziaria senza precedenti, che prosegue anche dopo la morte. Non è solo un atto d’accusa contro quel mondo giudiziario, che per trent’anni ha colpito senza tregua Berlusconi, cercando di distruggerne immagine e onore, fallendo ma non cessando di accanirsi anche oggi che il presidente di Forza Italia non è più tra noi. La lettera di Marina Berlusconi è un monito a tutti noi, alla politica, alla maggioranza, al governo, a fare in modo che la giustizia non sia più, mai più, un’arma da usare contro l’avversario politico. Che ci sia una giustizia con la G maiuscola, al servizio dei cittadini. E per farlo, serve solo una grande, profonda riforma, che possa cambiare tutto questo”, dichiara la presidente dei senatori di Forza Italia, Licia Ronzulli.

Una lettera, una testimonianza autentica, che dà voce a tutti i figli di innocenti perseguitati dalla giustizia. Ha ragione Marina, per alcune Procure la persecuzione contro Silvio Berlusconi” è un’ossessione”, dice Matilde Siracusano, sottosegretario ai Rapporti con il Parlamento e deputata di Forza Italia.

Credo ci sia voluto tanto coraggio a scrivere una lettera cosi’ forte e al tempo stesso intima. La ringrazio – afferma la senatrice Raffaella Paita, coordinatrice di Italia Viva e presidente del Gruppo Azione-Italia Viva al Senato – perché è una testimonianza che vale più di tante nostre parole. Ha ragione Marina, quando dice che la guerra dei 30 anni non è ancora finita. Ha ancora ragione quando parla di damnatio memoriae da parte della procura di Firenze”. “Questo è il momento di riformare davvero la giustizia. Senza timidezze. Italia viva andrà avanti, ci assumeremo la piena responsabilità e ci metteremo il coraggio che ad altri sembra mancare. Non accetteremo mai riformicchie”, conclude Raffaella Paita.

La lettera di Marina Berlusconi, sulle persecuzioni che Silvio Berlusconi continua a subire anche dopo la sua scomparsa, andrebbe letta nelle scuole dove si formano i nuovi magistrati. Perché così imparerebbero il valore della verità e il dovere di non alimentare quelle che giustamente anche Marina Berlusconi considera manovre politiche che deviano il corso della giustizia. Ci battiamo da anni contro accuse farneticanti”, sottolinea il senatore Fi Maurizio Gasparri.

Estratto dell’articolo di G. SAL. per “La Stampa” il 17 luglio 2023.

Nell'autunno 2022 fu Nino Di Matteo […] a convincere […] Massimo Giletti a rivolgersi alla Procura di Firenze per raccontare che Salvatore Baiardo gli aveva mostrato una vecchia foto a suo dire di Silvio Berlusconi con il boss mafioso Giuseppe Graviano. 

Giletti si era recato al Csm e Di Matteo […] lo aveva avvertito […] della necessità di portarla a conoscenza della Procura che indaga sulle stragi del 1993.  Lo stesso Di Matteo mise immediatamente a conoscenza il procuratore di Firenze dell'accaduto.

È stato lo stesso Giletti a ricostruire la vicenda negli interrogatori resi a Firenze. In quello del 21 aprile, appena successivo alla chiusura della trasmissione «Non è l'arena» su La7 mentre preparava una puntata su Dell'Utri, Giletti non riesce a trattenere l'emozione π…]. 

La Procura di Firenze ha perquisito invano la casa di Baiardo […] alla ricerca della foto. Poi ne chiesto l'arresto con due accuse: favoreggiamento in favore di Berlusconi e Dell'Utri, indagati per aver istigato le stragi, e calunnia ai danni di Giletti. Il gip ha negato l'arresto. La Procura ha fatto ricorso. Il tribunale del riesame ha rinviato a settembre la decisione.

Documenti «declassificati»: dopo il «Lodo Moro» spunta il «Lodo Scalfaro» (con armeni e Olp). Silvio Leoni su Panorama il 20 Maggio 2023.

Così, nell’83, i servizi segreti italiani conclusero un accordo con i terroristi marxisti-leninisti dell’Asala, avviato nell’aprile 1980 per evitare loro nuovi attentati in Italia. Lo dicono le carte desecretate dal Governo e nelle mani di Panorama.it

Non c’è stato solo il cosiddetto «Lodo Moro», quell’accordo, segreto, che prende il nome dall’allora ministro degli Esteri Aldo Moro, concepito all’inizio degli anni Settanta per cercare di proteggere gli interessi italiani dalla minaccia dalle organizzazioni palestinesi. Che, a più riprese, soprattutto a ridosso delle stragi di Ustica e Bologna, continuavano a ideare attacchi ad aerei, ambasciate ed altri siti dell’Italia tenendo sotto ricatto il nostro Paese. L’intesa, emersa oramai da svariati documenti, concedeva alla galassia terroristica araba di far transitare uomini, armi ed esplosivi attraverso l’Italia. E, in cambio, garantiva che i mujaheddin si sarebbero trattenuti da nuove azioni eversive ai nostri danni. Dalla “declassificazione”, decisa, finalmente, dal governo Meloni, di 163 documenti, coperti fino a pochi giorni fa dal segreto di Stato e protetti, per anni, dalla classifica «Segretissimo», emergono nuove verità. E spunta, dopo il “Lodo Moro”, un accordo “gemello”, sconosciuto fino ad oggi, il “Lodo Scalfaro”, dal nome dell’allora ministro dell’Interno che fu informato, passo passo, dai Servizi segreti italiani dell’intesa che si andava strutturando.  Il dossier, recuperato pochi giorni fa dalla ricercatrice Giordana Terracina all’Archivio di Stato, a Roma, e ora in possesso di Panorama.it è un faldone di 429 pagine contenenti cablogrammi, minute e scambi di messaggi tra il colonnello Stefano Giovannone, a capo del centro Sismi di Beirut (soprannominato «Bermude»), e il governo italiano. Documenti che si arrestano cronologicamente davanti all’abisso del 27 giugno 1980, il giorno della strage di Ustica, per riprendere, poi, a settembre dello stesso anno, ma «saltando» anche la strage di Bologna. Il materiale desecretata porta, come detto, alla luce la circostanza inedita di un altro accordo segreto finora sconosciuto, un gemello del «Lodo Moro», concordato e firmato, anche questo, dai Servizi segreti italiani, autorizzati ad agire in tal senso dal governo di Roma, ma con l’Asala, l’Armenian secret army for the liberation of Armenia, attraverso la mediazione dell’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina di Yasser Arafat, che garantiva la tenuta dell’intesa.

Fondata nel 1975 a Beirut, nel corso della guerra civile libanese, da Hagop Hagopian, il cui nome vero è Haroutyun Takoushian, e l’Asala era un’organizzazione terroristica marxista-leninista responsabile, in 11 anni di intensa attività eversiva, di decine di attentati mortali, soprattutto contro i diplomatici turchi in tutto il mondo. Di quell’accordo con l’Asala fu informato certamente l’allora ministro dell’Interno italiano, Oscar Luigi Scalfaro. Tant’è che in uno delle centinaia di documenti declassificati, quello datato 19 agosto 1983 e che ha come oggetto «Problemi di interesse per la sicurezza dell’Italia», il direttore del Servizio per le informazioni e la sicurezza militare dell’epoca, il generale di corpo d’armata Ninetto Lugaresi, scrive all’allora titolare del Viminale («In riferimento al colloquio che ho avuto stamane con la Signoria Vostra Onorevole…») sollecitando un suo intervento in relazione a tre argomenti: uno è, per l’appunto, l’accordo da raggiungere e firmare per far interrompere la catena di attentati compiuti anche sul suolo italiano dall’Asala. Nella nota indirizzata a Scalfaro, ecco quel che scrive Lugaresi: «Nell’aprile del 1980 (quattro mesi dopo sarebbe esplosa la bomba alla stazione di Bologna, ndr), allo scopo di bloccare le azioni terroristiche armene contro l’Italia, sono stati presi contatti tramite l’Olp con l’Asala, conclusi nel dicembre dello stesso anno con una bozza di accordo (all. 1) dal quale si rileva che all’Italia si chiede di non consentire il transito sul proprio territorio degli emigranti armeni (diretti verso gli Stati Uniti)». L’Asala, che con i suoi attentati puntava a costringere la Turchia ad addossarsi la responsabilità dell’uccisione di 1 milione e mezzo di armeni, a risarcire il popolo armeno e a concedere una porzione di territorio per la creazione di uno Stato armeno, non voleva, ovviamente, che il suo popolo fuggisse all’estero perché questo avrebbe indebolito proprio le battaglie contro la Turchia. Così cercava di ostacolare, in tutti i modi, i cittadini armeni dal lasciare il Paese, anche pretendendo con la forza dagli altri Paesi, Italia compresa, limitazioni o divieti verso gli emigranti. E questo era uno dei punti qualificanti di quello che oggi potremmo chiamare il «Lodo Scalfaro».

«All’epoca», ricorda Lugaresi a Scalfaro, «era stato ottenuto dagli Usa di chiudere gli uffici romani noti che svolgevano nella Capitale le pratiche di immigrazione e di concedere il visto di transito per l’Italia soltanto agli armeni che si presentavano presso l’ambasciata di Mosca». L’ufficiale ricordava anche che «recentemente il console generale Usa ha chiesto al Mae (la Farnesina, ndr) la concessione del visto anche presso l’ambasciata d’Italia a Beirut». E, quindi, Lugaresi metteva in guardia il ministro: «Ritengo che l’attuazione del provvedimento proposto dal console Usa potrebbe avere riflessi negativi ai fini della sicurezza perché potrebbe essere assunto quale pretesto da parte dell’Asala per rinnovare azioni violente contro interessi italiani, compresi quelli, rilevanti, presenti oggi in Libano». La questione ricorda la vicenda dei missili di Ortona.Quattro anni prima, il 7 novembre 1979, tre aderenti ad Autonomia operaia e il giordano Abu Anzeh Saleh, esponente del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) erano stati arrestati nel piccolo centro vicino a Chieti per il trasporto in Italia di due missili terra-aria Sam Strela 7. E, poi, erano stati processati e condannati. Per quella vicenda, il Fplp aveva fatto di tutto per evitare il procedimento e la condanna del suo rappresentante, Saleh: in un’udienza del processo, a Chieti, era stato letto un proclama del Fplp che rivendicava i missili come suoi. E accennava a non meglio identificate «intese» che avrebbero dovuto garantirne la restituzione. I nuovi documenti di cui stiamo parlando sembrano riproporre, in fotocopia, un caso assai simile.Solo che stavolta non è l’Fplp ad agitare minacce contro l’Italia per far liberare Saleh, ma l’Asala.Lugaresi, infatti, suggerisce: «Considerato che, a suo tempo, era stata mostrata tolleranza per il semplice transito degli emigranti attraverso l’area internazionale dell’aeroporto di Fiumicino, il ministero dell’Interno potrebbe riesaminare la possibilità di realizzare apposite strutture logistiche in tale area. Ciò eliminerebbe, fra l’altro, la necessità del visto presso le Rappresentanze italiane all’estero e contribuirebbe ad attenuare il rischio di rappresaglia». In allegato, nella nota inviata da Lugaresi a Scalfaro e controfirmata per ricevuta, c’è la bozza di accordo, tradotta, fra il governo italiano e l’Asala esplicato in tre punti:Primo punto: «Il governo italiano si impegna a chiudere tutti i centri emigrazione sul suolo italiano che trattano l’emigrazione organizzata del popolo armeno dai Paesi arabi e socialisti».Secondo punto: «L’Asala si impegna a non proseguire nelle sue operazioni militari dirette contro persone ed interessi italiani in Italia all’estero».Terzo e ultimo punto: «L’Olp garantisce questo accordo e la sua attuazione pratica». Le cinque pagine del documento desecretato, che svela l’esistenza di un «Lodo Scalfaro» tra lo Stato italiano e l’Armenian secret army for the liberation of Armenia, per evitare attentati in Italia, sono accompagnate da una lettera scritta a mano su carta intestata del Servizio per le informazioni e la sicurezza militare - Ufficio del direttore - il capo della segreteria - nella quale si legge: «Caro Violante, ti restituisco come concordato per le vie brevi la minuta dell’Appunto del sig. Direttore del Servizio per Ministro Scalfaro». Il tema era già stato trattato da Lugaresi. In precedenza, infatti, il 28 febbraio 1982, il direttore del Sismi aveva posto all’attenzione del Cesis (il Comitato esecutivo per i servizi di informazione e sicurezza) il problema delle «minacce dell’Asala contro obiettivi in Italia» oltre alla vicenda del palestinese Yousef Nasry el Tamimy arrestato a Fiumicino, due mesi prima, con 14 detonatori. Nel documento ora declassificato, Lugaresi giudicava «necessario che venga resa nota al ministero dell’Interno la serietà delle minacce dell’Asala ai fini della protezione degli obiettivi turchi in Italia e dei centri di assistenza per l’emigrazione degli armeni», e sottolineava che «è confermata la determinazione degli armeni nel porre in atto la minaccia di cui all’intervista di Hagop Hagopian riportata sull’Espresso n. 6 del 14 febbraio scorso». Lugaresi aggiungeva che «l’Olp ha assicurato il proprio intervento, inteso a ottenere un ulteriore congelamento, in attesa di una risposta alle note richieste, delle operazioni in Italia, ma ha anche ipotizzato che i libici forniscano sostegno finanziario agli estremisti armeni, da cui deriva la possibilità di una utilizzazione dell’Asala ai loro fini». Un mese prima, il 29 gennaio 1982, sempre Lugaresi scriveva al Cesis e ai ministri degli Esteri e dell’Interno, ricordando i prodromi dell’accordo con l’Asala. Che si era concretizzato nel dicembre 1980 in una bozza, per il tramite dell’Olp, e «sul quale doveva essere espresso il parere delle autorità italiane». Successivamente, segnalava Lugaresi, «si richiedeva di favorire sui massmedia italiani la diffusione dell’idea armena e i problemi connessi». Un mese dopo ci sarà, effettivamente, l’intervista su L’Espresso ad Hagop Hagopian, fondatore dell’Asala. Andrà diversamente al settimanale Panorama, «punito» da Hagopian - per un’intervista che il fondatore dell’Asala evidentemente non doveva aver apprezzato - con un attentato al deposito della Mondadori a Porta Ticinese. Non solo. Le minacce di morte dell’Asala che arrivarono a Panorama costrinsero la direzione del settimanale a proteggere il giornalista autore dell’intervista che non era piaciuta ad Hagopian, trasferendolo come corrispondente a New York. Mentre al direttore dell’epoca, Carlo Rognoni, fu assegnata una vettura blindata.

Così furono fatte sparire le carte del «Lodo Moro» dal centro Sismi «Bermude» di Beirut. Silvio Leoni su Panorama il 21 Maggio 2023.

Nei documenti del Sismi, appena declassificati dal governo Meloni, si legge che, nel gennaio 1980, il colonnello Stefano Giovannone, capo dei nostri Servizi segreti a Beirut, fece sparire le carte per evitare fosse scoperto l’accordo segreto con i terroristi palestinesi 

A Beirut, nel gennaio 1980, nel cosiddetto Centro “Bermude”, l’ufficio dei Servizi segreti italiani in Libano ospitato all’interno dell’Ambasciata, ci fu disperata, affannosa corsa per far sparire i documenti segreti e compromettenti dei rapporti spericolati che il nostro Paese teneva con i palestinesi e continuare così a nascondere l’esistenza del «Lodo Moro». È una delle nuove, clamorose, rivelazioni che emergono dalla “declassificazione” disposta dal governo Meloni di centinaia di documenti dei Servizi segreti italiani, finora coperti dal segreto di Stato e relativi al «dossier Giovannone», dal nome del colonnello dei carabinieri Stefano Giovannone, nome in codice «Maestro», che fu capocentro del Sismi in Libano e negli anni Ottanta - gli anni delle più gravi stragi italiane, da quella di Ustica a quella della stazione di Bologna – impegnato dal governo italiano a gestire, dal Medioriente, i difficili rapporti tra l’Italia e le organizzazioni palestinesi.

La situazione già molto complessa, divenne incandescente dopo l’arresto, avvenuto a Ortona nel novembre 1979, di tre rappresentanti romani dell’organizzazione dell’estrema sinistra Autonomia operaia, Daniele Pifano, Giorgio Baumgartner, Luciano Nieri, e del giordano Abu Anzeh Saleh, rappresentante in Italia del Fronte per la liberazione della Palestina (Fplp). L’arresto fu determinato dalla scoperta di due missili terra-aria Sam Strela 7, sequestrati ai tre autonomi nel piccolo centro di Ortona, vicino a Chieti: i tre vennero fermati dai carabinieri per un controllo e portati in carcere nella notte tra il 7 e l’8 novembre 1979. Il 13 novembre fu arrestato a Bologna, dove viveva, anche Saleh, accusato di essere loro complice, e tutti e quattro furono rinviati a giudizio per direttissima.

Subito, però, il Fplp cominciò a minacciare attentati contro gli interessi italiani, proprio per vendicarsi di quella che ritenevano una gravissima violazione unilaterale da parte dell’Italia del cosiddetto Lodo Moro. La documentazione ora in possesso di Panorama.it , recuperata dalla ricercatrice Giordana Terracina all’Archivio Centrale dello Stato dov’era depositata, consiste di 429 pagine, che ricostruiscono minuziosamente - attraverso gli scambi di messaggi fra Giovannone e i vertici dell’intelligence italiana e fra questi ultimi e il governo dell’epoca - quel periodo buio della Repubblica: un momento dominato dagli allarmi per la crescente minaccia palestinese di attentati ad aerei, ambasciate e altri beni dell’Italia, nel quale appare evidente lo sbandamento delle istituzioni italiane, poste sotto ricatto dalle organizzazioni arabe. Nel caso dei missili di Ortona, il Fplp tenta in tutte le maniere di riavere le micidiali armi sovietiche terra-aria, oppure di ottenere, in cambio, 60.000 dollari. Un vero e proprio ricatto. L’obiettivo principale del Fronte, peraltro, è far liberare Abu Anzeh Saleh, ufficialmente in Italia per motivi di studio (e incredibilmente protetto dall’allora Pci, che si prodigò, raccontano le carte mai smentite, per impedirne l’espulsione, richiesta ripetutamente dagli 007 italiani), e i tre autonomi. Un copione che si ripeterà varie volte anni dopo quando le organizzazioni arabe torneranno alla carica, con lo stesso, identico, approccio: minacciando attentati ritorsivi, per far liberare dall’Italia altri esponenti dell’Fplp, come Yousef Hasry El Tamimy, arrestato a Fiumicino il 5 gennaio 1982 assieme alla compagna, la tedesca Brigitte Pangedam, perché trovati in possesso di 14 detonatori. Le carte ora declassificate confermano la consuetudine delle organizzazioni terroristiche arabe a utilizzare l’Italia, negli anni Settanta e Ottanta, per trasportare, da una parte all’altra della penisola, carichi di esplosivi, detonatori e armi su treni, aerei, o in auto, incuranti del terribile rischio che questo rappresentava. E confermano anche come le stesse organizzazioni, una volta che i terroristi fossero stati intercettati e scoperti, pretendevano che venissero liberati come se nulla fosse, reclamando persino il diritto di vedersi restituito - o pagato - il materiale sequestrato.

Va ricordato, al proposito, quanto Francesco Cossiga scrisse a proposito della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 nel libro considerato il suo testamento politico-istituzionale, “La versione K” (Ed Eri-Rizzoli, 2009): «Su Bologna, la mia l’ho detta e la ripeto. Per me fu un incidente, un drammatico incidente di percorso: fu, con molta probabilità, una bomba trasportata da terroristi palestinesi che non doveva essere innescata in quell’occasione e che, invece, chissà perché, per un sobbalzo, una minaccia, un imprevisto, scoppiò proprio in quel momento». E non è un caso che la vicenda dell’affannosa distruzione dei documenti segreti e compromettenti custoditi nel Centro Sismi di Beirut (soprannominato «Bermude») ruoti proprio intorno alla figura di Cossiga, presidente del Consiglio dal 5 agosto 1979 al 18 ottobre 1980, tenuto evidentemente all’oscuro degli accordi stipulati fra il Sismi e i palestinesi. Per comprendere bene il significato di quanto emerge dai documenti desecretati, bisogna sempre ricordare che il sequestro dei missili a Ortona avviene il 7 novembre 1979, e che la strage di Bologna è del 2 agosto 1980. Nel corso di quei mesi delicatissimi le minacce dell’Fplp sono un crescendo inquietante, giorno dopo giorno. In quel periodo così complicato, a Beirut il Sismi fa capo all’uomo di fiducia di Aldo Moro, il colonnello Stefano Giovannone (Moro ne invocherà la sua presenza a Roma durante il suo sequestro da parte delle Brigate rosse). Giovannone ha rapporti diretti con tutti i capi delle organizzazioni palestinesi. E il suo obiettivo è tenere l’Italia immune (“neutralizzata” è scritto nelle carte) dal rischio di attentati terroristici che, all’epoca, insanguinavano l’Europa. Così il 15 gennaio 1980 Giovannone scrive ai suoi capi dei Servizi a Roma un messaggio concitato: «Sto provvedendo vuotare praticamente Bermude carteggio e documentazione non distruggibile in tempi brevi in caso emergenza, analogamente quanto da ambasciata per proprio archivio alt fine». Che cosa sta accadendo? Perché Giovannone è così preoccupato? Cos’è che lo spinge a smobilitare di corsa la documentazione dei suoi rapporti intessuti con le organizzazioni palestinesi?

Cinque giorni prima, il 10 gennaio 1980, mentre a Chieti è in corso il processo per direttissima per il sequestro dei missili di Ortona, il colonnello Giovannone informa il generale Santovito, a capo dell’intelligence, che sta cercando di impedire un passaggio che reputa pericoloso: si tratta della consegna a Mauro Mellini, avvocato difensore dei quattro imputati nonché parlamentare radicale, di una «lettera aperta» che il Fplp vorrebbe fosse letta in aula davanti ai giudici di Chieti. Nella missiva, il Fronte popolare di liberazione della Palestina intende chiedere la testimonianza nel processo del presidente Cossiga e dell’exdirettore del Sid, il Servizio informazione difesa, generale Miceli. Lo scopo? Dimostrare l’esistenza del Lodo Moro. Sarebbe una catastrofe per Giovannone, che ha agito sì per conto di Moro, ma ne ha sempre tenuto all’oscuro Cossiga. E sarebbe anche un problema gigantesco da gestire, non solo verso gli alleati della Nato e nei confronti dell’opinione pubblica – ovviamente ignara che lo Stato italiano si è accordato con i terroristi - ma anche verso l’ambasciatore italiano a Beirut, Stefano D’Andrea, con cui i rapporti sono roventi e la convivenza in ambasciata difficilissima perché la presenza nella sede consolare del capocentro Sismi e il suo iperattivismo nelle relazioni con le varie organizzazioni arabe ha finito per creare una sorta di doppio binario diplomatico, per molti versi imbarazzante e fonte di pericolosi malintesi. La lettera aperta che i palestinesi, spinti dalla Libia, vorrebbero fosse letta in aula riferisce anche che, subito dopo gli arresti di Pifano, Baumgartner, Nieri, e di Abu Anzeh Saleh, il Fplp riteneva di aver chiarito la questione all’ambasciata italiana di Beirut che poi aveva risposto di aver riferito tutto al governo: i missili erano danneggiati e inutilizzabili, erano semplicemente in transito sul territorio italiano e i rappresentanti di Autonomia operaia ignoravano il contenuto delle casse, così come Saleh. Il problema è che Giovannone e il Centro “Bermude” non sono l’Ambasciata italiana. E che Giovannone si è ben guardato dal riferire al governo. Gli sforzi del capocentro del Sismi a Beirut sono inutili. E il 10 gennaio 1980 l’avvocato Mellini legge, in udienza, la lettera dell’Fplp. Ovviamente, scoppia un pandemonio. Anche perché, poco dopo, lo stesso Mellini e altri parlamentari radicali presentano un’interpellanza parlamentare al governo per chiedere lumi. A quel punto, il caso politico è inevitabile. Cossiga, infuriato, convoca il generale Santovito. Che è costretto a raccontare tutta la verità al presidente del Consiglio. Tre giorni dopo, il 13 gennaio 1980, il Sismi invia un appunto a Cossiga tentando di ridimensionare i fatti: Mellini viene accusato di aver messo in atto una strumentalizzazione politica con i radicali, mentre il Fplp nega di aver chiesto l’audizione testimoniale di Cossiga. Il governo può, a quel punto, rispondere all’interpellanza negando agevolmente l’esistenza del Lodo. Ma l’ambasciatore italiano in Libano, D’Andrea, è furibondo perché, in effetti, non ha mai avuto alcun rapporto con l’Fplp. E dirama un comunicato stampa. Che nessuna agenzia italiana pubblicherà mai. Il 15 gennaio 1980 Giovannone chiede al Sismi, con un fonogramma urgente, d’intervenire per placare D’Andrea. E, nello stesso documento, dopo aver ricordato che, nei suoi rapporti con palestinesi e altri gruppi armati (eritrei, somali, sciiti), non ha mai dichiarato di rappresentare l’ambasciata e di non aver mai fatto entrare esponenti del Fplp nei locali della sede diplomatica, scrive il messaggio che abbiamo visto: «Sto provvedendo vuotare praticamente Bermude carteggio e documentazione non distruggibile in tempi brevi in caso emergenza, analogamente quanto fatto da ambasciata per proprio archivio alt fine». La segretezza del «Lodo Moro» è salva. O, almeno, così pare. Ma i documenti ora declassificati dal governo Meloni ne confermano, invece l’esistenza. E senza più alcun dubbio.

Quel contatto don Vito-Ros che diede il “la” all’invenzione della trattativa. Dopo le stragi di Capaci e via d'Amelio, l'allora generale Mario Mori provò a seguire nuove strada per arrivare alla cattura di Totò Riina, cercò nuove fonti qualificate, il tutto mentre Cosa Nostra colpiva ancora. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 23 maggio 2023

Ma come sono andati i fatti, e cosa ci racconta la storia di quegli anni terribili che hanno avuto l’apice massimo tra il 91 e il 93? La trattativa tra gli ex Ros e l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino in che termini si è svolta? Bisogna sempre contestualizzare. A Palermo vigeva da anni un clima di terrore mafioso, acuitosi tra il '91 e il '92. I corleonesi potevano uccidere senza esitare chiunque li contrastasse. Il delirio di onnipotenza di Totò Riina, il suo sentirsi a capo di un'organizzazione che potesse contrastare lo Stato, si aggravò in corrispondenza col periodo di massima repressione giudiziaria (il maxiprocesso imbastito dal pool antimafia, dove spiccavano Falcone e Borsellino) e di rottura dei vecchi equilibri che l’organizzazione mafiosa aveva mantenuto con parte del potere politico.

La mafia, prima di Riina, non era meno feroce, più “moderata”, o addirittura rispettosa di valori. Semplicemente manteneva un rapporto paritario con le altre forze politiche ed economiche. Con l’avvento dei corleonesi (definizione coniata per la prima volta dall’allora generale Antonio Subranni), Cosa nostra ha avuto l’ambizione di sottomettere lo Stato. Due sono state le strategie volute da Riina. Da un lato il versante economico politico attraverso non solo il condizionamento degli appalti pubblici, ma – tramite prestanomi appartenenti a Cosa nostra stessa come i fratelli Buscemi – entrando direttamente in società con grosse imprese nazionali. Non solo. Risulta dagli atti che Riina aveva creato una impresa tutta sua, la Reale, che sarebbe dovuta diventare lo strumento per creare una cerniera tra il mondo mafioso, quello politico e soprattutto l’ imprenditoria di livello nazionale. Sempre Riina aveva avuto l’ambizione, poi fallita, di favorire la secessione della Sicilia tramite un movimento politico, una sorta di Lega del sud, per creare un vero e proprio Stato mafioso.

Non è un caso che soprattutto Giovanni Falcone ha accuratamente spiegato che non esisteva un Terzo livello che eterodirigesse Cosa nostra. La realtà era ancora più complessa e drammatica. Riina voleva stare al di sopra di tutti. Questa era la peculiarità dei corleonesi. E nel contempo ha deciso di trucidare chiunque fosse di intralcio nel suo progetto. Basta riprendere una sua affermazione che fece sia durante le sue chiacchierate intercettate al 41 bis, sia quando fu sentito dall’allora capo procuratore nisseno Sergio Lari: “Se me la facessi con i servizi segreti, non mi chiamerei Totò Riina”. La sua strategia economica, era però accompagnata dal braccio armato. Gli omicidi eccellenti partono dalla sua volontà di neutralizzare chiunque potesse diventare un ostacolo per la sua ambizione “imprenditoriale”.

Non va dimenticato che a Palermo operava la commissione presieduta da Riina, vertice gerarchico di una associazione criminale violentissima e gerarchicamente organizzata su tutto il territorio, che godeva di consenso popolare, con migliaia di adepti e una rete di professionisti e funzionari pubblici collusi. Riina fu uno dei principali responsabili della feroce guerra di mafia protrattasi degli anni '80. Ricordiamo che nella sola Palermo disponeva di squadre di killer permanentemente dedicate ai suoi ordini omicidiari. Ciò era contrastato da un numero di appartenenti alle forze di polizia e di magistrati assolutamente non dimensionato alla gravità che il fenomeno aveva assunto, nel contesto di uno Stato debole. Dopo la strage di Capaci e subito dopo quella di Via D’Amelio ci fu un momento di gravissima crisi dello Stato. Tutto era fermo, la procura di Palermo di allora era gravemente lacerata dai problemi interni, alcune opacità mai del tutto chiarite ancora oggi. Un “nido di vipere”, come definì Paolo Borsellino. Tutti hanno in mente le parole del magistrato Caponnetto: «È finito tutto» disse a un giornalista, uscendo dall'obitorio dopo l'ultimo saluto a Borsellino. In quel frangente, tra le due stragi inaudite ordite dai corleonesi, l’allora generale Mario Mori decise di fare un salto di qualità nelle indagini antimafia.

Per quanto attiene alla ricerca di nuove e più qualificate fonti, l’allora capitano Giuseppe De Donno disse a Mori di aver già indagato su Vito Ciancimino. Si trovava, dunque, in una situazione in cui i Ros pensavano che potesse diventare una buona fonte, anche per i suoi chiari rapporti con Cosa nostra. Così De Donno fu autorizzato da Mori nel tentare di contattarlo. All'epoca di questo fatto, verificatosi nella seconda metà del '92, Ciancimino era già stato condannato dal Tribunale di Palermo alla pena di 10 anni di reclusione per il reato di associazione di stampo mafioso e per corruzione aggravata, e che, in stato di libertà, risiedeva a Roma, in un appartamento di via San Sebastianello, attendendo il verdetto della Corte d'appello e continuando a coltivare i suoi interessi, sempre col supporto dell'assistenza del figlio Massimo. Gli ex Ros Mori e De Donno conoscevano a fondo per ragioni professionali la biografia criminale e le vicende giudiziarie di Ciancimino. Oltretutto il 'caso di don Vito” era di dominio pubblico, anche per essere stato al centro dell'inchiesta della Commissione parlamentare sul fenomeno della mafia in Sicilia, che nel '72 aveva consegnato i primi risultati del suo lavoro al Parlamento, e sotto i riflettori della stampa, soprattutto negli anni delle indagini di Giovanni Falcone. E fu proprio De Donno, in particolare, che aveva partecipato attivamente a quelle indagini su appalti del comune di Palermo gestiti da don Vito.

Ma in che consistevano questi contatti? La procura di Palermo ne ebbe a conoscenza attraverso la dichiarazione di Ciancimino, resa su sua istanza il 17 marzo del '93 quando si trovava presso il carcere di Rebibbia. Innanzi al procuratore capo Giancarlo Caselli e al sostituto Antonio Ingroia spiegò che, nel corso dell'interlocuzione con Mori e De Donno, dai primi contatti avuti con l'intermediatore 'ambasciatore' dei boss, Antonio Cinà, aveva preso atto della diffidenza e dell'arroganza di questi ultimi e inoltre aveva anche preso atto della chiusura del colonnello Mori verso ogni ipotesi di trattativa finalizzata a delle concessioni ai corleonesi, e pertanto, dopo una pausa di riflessione, aveva deciso di aiutare gli stessi carabinieri alla cattura di Riina, passare il Rubicone e riscattare la sua vita (così si espresse). Ma il suo arresto, il 19 dicembre '92, aveva fatto morire sul nascere la sua collaborazione. Vito Ciancimino dichiarava ai Pm, tra le altre cose, di avere accettato di incontrare allora i carabinieri poiché turbato, sconvolto e sgomento dalle uccisioni di Salvo Lima, dalle stragi in cui avevano perso la vita Falcone e Borsellino e preoccupato delle conseguenze, solo negative, che ciò avrebbero portato alla Sicilia e in ultima analisi a tutta l'Italia.

Già emerse che quella “trattativa” fu un bluff da parte di Mori come raccontò lui stesso quando fu sentito come teste al processo di Firenze sulle stragi continentali. Ma anche Ciancimino nel contempo bluffava. In quel momento pensava, a torto, di poter ottenere qualche beneficio per sé visto che era sotto processo per associazione mafiosa. D’altronde, per comprendere la personalità di Ciancimino basterebbe leggere la nota di Giovanni Falcone del 17 dicembre del 1985 dove sintetizza con semplicità e precisione gli intrighi di cui questi era capace, per incrementare le sue rendite illecite e nascondere la titolarità e la provenienza del suo patrimonio.

L’operazione condotta da Mori e De Donno non era nulla di indicibile. Fu fatta in un momento drammatico. D’altronde i pentiti nascono così. Lo spiegò molto bene l’allora magistrato Guido Lo Forte al Csm nel 1992, quando si riferì alla gestione di Mutolo: “Un collaboratore non viene fuori dal nulla, ma c’è tutta una fase preliminare di contatti, di trattative, che normalmente non sono dei magistrati ma di altri organi”. L’unica pecca è che Ciancimino aveva una personalità per nulla affidabile. E infatti mai divenne collaboratore di giustizia. Ritornando a Totò Riina, alla fine la pagò cara a causa della sua megalomania. Ha voluto fare la guerra allo Stato. E l’ha persa. Dopo di lui, la mafia ritornò a essere quella di prima. Significativa l’intercettazione del 2000 tra Pino Lipari, l’uomo degli appalti, con un suo sodale. Parlano di un summit con Bernardo Provenzano. La discussione fu proprio sul cambio di strategia. Quella della “sommersione”, in maniera tale di agire indisturbati senza destare allarme.

Lipari, infatti, spiega al suo interlocutore: «Gli dissi: 'figlio mio, né tutto si può proteggere, né tutto si può avallare, né tutto si può condividere di quello che è stato fatto! Perché del passato ci sono cose giuste fatte … e cose sbagliate …!'». Ci vengono in aiuto le dichiarazioni di Antonino Giuffrè, corroborate appunto da questa intercettazione. Escusso dai magistrati, spiega che durante il famoso summit, si parlò della gestione degli appalti. «Il discorso appalti era stato affrontato – ha spiegato Giuffrè - e in tutta onestà diciamo che era abbastanza un discorso sempre di attualità e che noi per quanto riguarda il discorso della tangente riuscivamo sempre a controllare abbastanza bene. Ed anche in questo sempre su consiglio di Pino (Lipari, ndr), cercare di non fare rumore cioè alle imprese quando magari c’era qualche impresa di questa che era un pochino tosta, diciamo che non si metteva a posto, di non fare nemmeno rumore, cioè facendo fuoco, danneggiamenti… cioè di muoversi con le scarpe felpate, cercare di non fare, muoversi senza fare rumore». La mafia “rumorosa”, ovvero quella stragista, ha perso trent’anni fa. Il declino è iniziato con la cattura di Riina grazie ai Ros, poi saliti ingiustamente sul banco degli imputati.

Estratto dell'articolo di Giuseppe Salvaggiulo per lastampa.it il 21 maggio 2023.

«Rifarei tutto. Anche la trattativa con Vito Ciancimino». Il generale Mario Mori, già comandante del Ros dei carabinieri e del Sisde, il servizio segreto civile, è intervenuto al festival della giustizia penale di Modena, ripercorrendo il lungo processo che l’ha visto imputato per oltre un decennio, fino alla recente assoluzione in Cassazione. 

Mori ha contestualizzato l’iniziativa che lo portò, nel 1992, a cercare un’interlocuzione con Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo: « Lo Stato era in ginocchio, c’era la resa totale. Io agivo senza una direttiva da parte delle gerarchie superiori, né ricevetti un uomo in più. C’era il silenzio, la stasi. Erano tutti sotto la scrivania, politici compresi, in attesa di capire chi avrebbe vinto. Noi non ci tirammo indietro».

[…]

Così Mori ha ripercorso quanto accadde. «Dopo la strage di Capaci, l’allora tenente De Donno, che aveva arrestato due volte Ciancimino per appalti truccati, mi disse: “Perché non proviamo a contattarlo? Io l’ho trattato bene, conosco anche il figlio”». Mori aderì alla richiesta «per alzare il livello dei nostri contatti con la controparte. Ero disilluso, ma partivo da una posizione di forza. Di lì a qualche mese Ciancimino sarebbe tornato in carcere. L’uomo era di valore, era un politico-mafioso, un mezzo criminale, intelligente e furbo. 

Pensò di sfruttare l’ancora di salvezza. Ma quando si fa una trattativa, non si può pensare di chiedere tutto senza dare nulla. Io gli chiesi: “Signor Ciancimino, che possiamo fare? Siamo al muro contro muro tra Stato e mafia”. Lui rispose: “Io provvederò, perché conosco”. Ma ero convinto che non avrebbe fatto nulla. E fui veramente sorpreso quando al terzo incontro mi disse: “Ho parlato con la controparte. Ma voi che cosa offrite?”. Ancora dubitavo, lo misi alla prova: “Noi offriamo tanto, se loro si consegnano alla giustizia tratteremo bene le loro famiglie”. 

Ciancimino, pur settantenne, schizzò in piedi dalla poltrona come una palla e disse: “Lei mi vuol far morire e vuol morire pure lei. Io queste cose non le posso dire”. Ci accompagnò alla porta e andammo via. Sulle scale De Donno mi disse che avevamo sbagliato, io gli risposi: “No. La cosa è seria, questo era veramente terrorizzato, quindi ha davvero parlato con la mafia. Vedrai che prima o poi ci richiamerà. Poi noi abbiamo catturato Riina grazie all’indagine del capitano Ultimo, ma sono convinto che Ciancimino ci avrebbe consegnato Riina perché aveva paura di lui. Provenzano no, perché erano troppo amici».

In attesa delle motivazioni, Mori sostiene che le vicende degli Anni 92-93 dovrebbero a questo punto essere sottratte alle indagini giudiziarie e affidate a una commissione parlamentare d’inchiesta.

Per cercare la verità, spesso, non bisogna fare molta strada. Stato-Mafia, c’è ancora chi giura di averla vista: l’Antimafia Duemila non molla. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 18 Maggio 2023 

La “trattativa Stato-Mafia” è dura a morire. Anche se la Corte di Cassazione all’inizio del mese ha definitivamente assolto tutti gli imputati, ad iniziare dagli ufficiali dei carabinieri del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno accusati di essere venuti a patti con i boss di Cosa nostra per far cessare le stragi di mafia che nei primi anni Novanta insanguinarono l’Italia, i teorici della “trattativa” non demordono e, anzi, hanno deciso di rilanciare.

Fra gli aficionados, oltre al Fatto Quotidiano, merita di essere segnalata Antimafia Duemila, una rivista online che da oltre vent’anni si occupa di “riportare le informazioni che riguardano le maggiori mafie che infestano il nostro Paese e soprattutto di spiegare come queste agiscano e proliferino in stretta connessione con il potere politico, economico, istituzionale deviato e occulto”.

“Siamo convinti – si legge in home page – che tra coloro che ci governano oggi si nascondano i mandanti esterni di quelle stragi, coloro che hanno pianificato la Seconda Repubblica con lo specifico scopo di mantenere e di peggiorare lo stato di disequilibrio sociale in Italia e nel mondo a vantaggio di quei pochissimi che, secondo i loro piani, avranno diritto di usufruire delle limitate risorse che il nostro Pianeta, sfruttato a dismisura, ancora può offrire”.

Gli articoli di Antimafia Duemila, nonostante le tesi complottiste, finiscono, sicuramente a insaputa del vice presidente Fabio Pinelli, persona seria e poco avvezza a simili elucubrazioni mentali, nella rassegna stampa del Consiglio superiore della magistratura. Il direttore della rivista, Giorgio Bongiovanni, questa settimana ha scritto un durissimo articolo contro Mori dal titolo “le menzogne del generale”, lanciandosi in una difesa pancia a terra dei magistrati che negli anni hanno condotto l’inchiesta sulla trattativa.

Per descrivere meglio il contesto, però, è necessario tornare all’incontro del 24 maggio dello scorso anno al Teatro Golden di Palermo, organizzato da Antimafia Duemila, dove si diedero appuntamento i più osannati magistrati teorici del rapporto “Stato-Mafia” che avevano così voluto effettuare una commemorazione alternativa della strage di Capaci in contrapposizione a quella ufficiale che si svolgeva in contemporanea al Palazzo di giustizia.

A questa commemorazione alternativa avallata da Bongiovanni, che dichiara di avere le stigmate, di essere in contatto con gli ufo e di avere più volte parlato con la Madonna, parteciparono i magistrati Roberto Scarpinato, Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita in rappresentanza della Sicilia, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo in rappresentanza della Calabria, e il procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli in rappresentanza della Toscana.

Queste toghe sono tutte legate fra loro per aver condotto indagini che proverebbero come lo Stato sia sceso a patti con la mafia, concedendo ai mafiosi vari benefici premiali e ottenendo in cambio una moratoria degli attentati degli anni 1992/1993, fino all’ascesa in politica di Silvio Berlusconi del 1994 auspicata, voluta e organizzata dalle cosche stesse che quindi non avrebbero avuto più alcun interesse a far esplodere le bombe nelle piazze italiane.

Ed infatti oltre al Leading case del processo trattativa palermitano, Lombardo ha impiantato a Reggio Calabria il processo gemello denominato “ndrangheta stragista” e Tescaroli, da circa trent’anni, prima a Caltanissetta e ora a Firenze si è impegnato a dimostrare la provenienza mafiosa del patrimonio di Silvio Berlusconi e il suo ruolo nelle stragi senza tuttavia mai essere riuscito a portarlo a giudizio ed anzi senza neanche averci provato. Inutile dire che questi magistrati hanno fatto carriere sfolgoranti.

Scarpinato, primo inventore della fattispecie con l’indagine denominata “Sistemi criminali” che ha alimentato gran parte della carta stampata per circa un decennio per poi essere archiviata da egli stesso, è andato in pensione dalla magistratura come Procuratore generale di Palermo per essere immediatamente arruolato dal Movimento 5 Stelle quale senatore della Repubblica; Di Matteo è stato destinato prima all’ambitissimo posto di sostituto procuratore nazionale antimafia per poi essere eletto al Csm nella corrente fondata da Piercamillo Davigo; Ardita è stato nominato in giovane età prima procuratore aggiunto di Messina, poi procuratore aggiunto di Catania, quindi eletto al Csm dopo essere stato anche vice capo del Dap; Lombardo è stato nominato procuratore aggiunto di Reggio Calabria a preferenza di altri magistrati di molto più anziani dei quali era stato uditore; Tescaroli è pure stato nominato procuratore aggiunto di Firenze per ragioni disvelate dalle chat intrattenute con l’ex ras del Csm Luca Palamara e con l’intermediario Pm romano Francesco Minisci, già segretario dell’Associazione nazionale magistrati. Invece di andare a caccia di improbabili teoremi, ipotizzando trattative inesistenti dietro le stragi, sarebbe quanto mai opportuna una lettura delle dichiarazioni dei magistrati Massimo Russo e Alessandra Camassa, che lavorarono con Paolo Borsellino, rilasciate nel 2017 davanti alla Commissione parlamentare antimafia.

Russo: «Io e Alessandra, quando Paolo Borsellino, che andammo a trovare ma non sappiamo fissare la data e le indagini non sono state in grado di identificare proprio la giornata esatta, che è rilevante per tante cose, andammo a incontrare Borsellino dopo la strage di Falcone (siamo a giugno, escludiamo che sia il giorno 12 giugno…)»

Camassa: «Io lo escludo».

Russo: «Anch’io».

Camassa: «Il 12 giugno è il giorno in cui abbiamo sentito il dottor Signorino, non è possibile…»

Russo: «O prima o dopo il 12 giugno Paolo Borsellino, che era stato il nostro procuratore, che era molto legato ad Alessandra perché Alessandra c’era stata più tempo, a un certo punto si abbatte proprio fisicamente sul divano, si mette a piangere e dice: un amico mi ha tradito. In quella stessa occasione, quando gli chiediamo come stia, aggiunge: a Palermo questa procura è un nido di vipere».

Per cercare la verità, spesso, non bisogna fare molta strada. Paolo Pandolfini

"Siamo soli e allora combattiamo come sappiamo fare”. Trattativa Stato-Mafia, Mori: “Dopo morti Falcone e Borsellino politica e forze dell’ordine sparirono”. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 24 Maggio 2023 

“Non mi fermo, voglio sostenere e testimoniare quello che è l’essenza della trattativa Stato-Mafia che ritengo ancora attuale, come era attuale al tempo di Falcone e Borsellino. Voglio proseguire perché ritengo che non sia più un problema giudiziario ma è ancora e molto evidentemente un problema politico”.

A dirlo è l’ex generale dei carabinieri Mario Mori, già comandante del Ros, intervenendo lo scorso fine settimana al Festival della giustizia penale di Modena. “Ciancimino (Vito, ex sindaco mafioso di Palermo, ndr) non era uomo d’onore ma sapeva benissimo come muoversi. Dopo la morte di Falcone l’ho conosciuto, l’ho trattato bene per avere un confidente e feci due iniziative innovative: provare ad alzare il livello dei nostri contatti e mandare quello che ritenevo il mio ufficiale più efficiente (il capitato Ultimo, ndr) con 15 uomini a Palermo, dove gli dissi di non frequentare le caserme, ma di trovare e catturare Riina. Come diceva Dalla Chiesa quando si trovano persone di queste organizzazioni non si arrestano, ma si seguono: se non si capisce questo non si può fare alta polizia” ha aggiunto Mori, assolto dalla Cassazione all’inizio del mese dall’accusa di essere venuto a patti con la mafia per far cessare le stragi.

Mori ha raccontato della sua collaborazione con Falcone e Borsellino per l’avvio dell’indagine “Mafia-Appalti”. Dopo le loro morti “non solo la politica scomparve, ma anche le gerarchie delle forze di polizia non dissero una parola. La nostra reazione fu: vabbè siamo soli e allora combattiamo come sappiamo fare”. “Quando mi sono sentito solo, Borsellino e Falcone mi hanno dato la forza di andare avanti” ha quindi ricordato il generale. Paolo Pandolfini

 I pizzini erano di Messina Denaro, non della “entità”. Chi ha infangato quell’operazione di Mario Mori?

C'è un errore nella perizia disposta dalla procura di allora. Gli avvocati: «Ora bisogna scoprire chi ha bruciato l'operazione del Sisde per catturare il boss». Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 9 maggio 2023.

Non c’era alcuna “indicibile entità” a scrivere i “pizzini” ricevuti dall’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, che, nei primi anni del 2000, d’accordo col Sisde diretto dal generale Mario Mori, aveva agganciato – tramite contatti epistolari Matteo Messina Denaro per permetterne la cattura. A scriverli era stato chiaramente l’allora super latitante. Lo si apprende da un esposto della moglie dell’ex sindaco e curato dagli avvocati Baldassare Lauria e Giovanna Angelo. La conferma arriva da una perizia calligrafica di 237 pagine disposta dalla criminalista Katia Sartori. E ciò va in contrasto con la consulenza tecnica, richiesta dalla procura di Palermo di allora, la quale aveva escluso che fosse Matteo Messina Denaro a scrivere le missive.

E grazie a quella perizia di allora, c’è stato chi ha costruito una narrazione mediatica (anche ben costruita attraverso interviste di anonimi) che hanno infangato – ancora una volta - le attività coordinate da Mario Mori e Giuseppe De Donno rivolte alla cattura del super latitante. Operazione che, però, di fatto, venne bruciata e ancora non è chiaro cosa sia accaduto. Anche se gli avvocati Baldassare Lauria e Giovanna Angelo, nel loro comunicato nel quale annunciano l’esposto, denunciano che l’operazione fu bruciata a causa di una fuga di notizie. Una circostanza che mise a repentaglio la vita stessa di Vaccarino, visto che Matteo Messina Denaro avendo appreso dai mass media che l’ex sindaco collaborava con i servizi per catturarlo, gli inviò una ultima lettera piena zeppa di odio e di minacce.

Chi è il responsabile? Mai si è indagato questo aspetto decisamente controverso. Aspetto che il giornalista Gian Morici ha affrontato, da anni, attraverso articoli su “La Valle dei Templi”. L’operazione purtroppo è stata bruciata, ma nonostante ciò – come si può leggere nella sentenza del 2011 a firma del Gip Lorenzo Matassa – “il contatto tra il Vaccarino e il Messina Denaro era stato reale e importante e il tradimento non solo aveva posto in pericolo la latitanza del Numero Uno di Cosa nostra, ma gli stessi vitali interessi dell’organizzazione”.

Tante le cose che non tornano. A partire da una singolare apparizione di un anonimo nella trasmissione di Rai3 Report, il quale indicava l’entità che avrebbe scritto i pizzini al posto di Matteo Messina Denaro: un carabiniere impiegato in banca con copertura dei servizi.

Ovviamente è una gigantesca bufala, visto che la perizia disposta dai famigliari di Vaccarino (ricordiamo che lui non c’è più, morto due anni fa tragicamente in carcerazione preventiva – l’ennesima azione giudiziaria nei suoi confronti – per aver contratto il Covid, mentre era in vana attesa di una misura alternativa perché malato), dimostra chiaramente che la scrittura è del super latinante.

Perché un uomo, mantenendo l’anonimato, si è prestato a dichiarare una falsità usando una trasmissione del servizio pubblico in prima serata? Il pensiero non può non andare a qualcosa che ha a che fare con una forma di depistaggio vero e proprio. Chi è questo anonimo e perché ha testimoniato un evento falso, creando l’ennesima versione complottista che – di fatto – infanga indirettamente Mario Mori e anche Antonio Vaccarino perché partecipe di questa inesistente macchinazione?

Ma andiamo al comunicato dell’esposto presentato dalla moglie dell’ex sindaco di Castelvetrano Vaccarino. Sulla corrispondenza intercorsa tra Matteo Messina Denaro e Antonio Vaccarino (con lo pseudonimo di Alessio il primo e Svetonio il secondo) che collaborava con il Sisde di Mario Mori per la cattura del boss di Cosa nostra, nel corso degli anni sono stati avanzati molti dubbi, dando adito a illazioni e congetture, ipotizzando oscuri intrighi dei servizi segreti italiani. Ricordiamo ancora una volta che una consulenza tecnica, richiesta dalla magistratura, aveva anche escluso la riferibilità a Matteo Messina Denaro delle missive inviate ad Antonio Vaccarino.

«Dopo la cattura di Matteo Messina Denaro e la pubblicazione delle foto dei “pizzini” ritrovati a casa della sorella del noto latitante, ho notato una notevole somiglianza con la grafia della lettera di minacce ricevuta da mio marito – afferma la moglie dell’ex sindaco di Castelvetrano -. Non essendo un’esperta ho dato incarico alla criminalista Katia Sartori, esperta in scienze forensi, perché effettuasse una comparazione grafica tra i diversi scritti, per fugare ogni dubbio in merito a chi scrivesse a mio marito». Prosegue: «Dalle 237 pagine di perizia redatta dalla dottoressa Sartori, possiamo escludere che a scrivere a mio marito fosse una persona diversa da quella che scriveva a esponenti di primo piano di “Cosa nostra” e ai familiari del boss. Lo stesso generale Mori in passato aveva chiarito la posizione di mio marito, ma ciò non ha impedito i tentativi di screditare la sua partecipazione alle attività del servizio segreto volte alla cattura del latitante, nonostante il suo impegno fosse stato reale ed importante, tanto da mettere a rischio la latitanza del boss come documentato da sentenza che ho allegato». E conclude amaramente la signora Vaccarino: «Da quando fu svelata tutta l’attività svolta da mio marito con il Sisde è iniziato il nostro calvario, e oggi mi chiedo se non si sia trattato di attività di depistaggio».

La collaborazione tra Vaccarino e il Sisde fu infatti oggetto di una fuga di notizie in merito alla quale, ricordiamo, nessun fascicolo venne mai aperto dalla magistratura. «Ad oggi – affermano gli avvocati Baldassare Lauria e Giovanna Angelo - non sappiamo di chi fu la responsabilità di quella fuga di notizie che mise di fatto in pericolo Vaccarino e tutta la sua famiglia, portando Matteo Messina Denaro a scrivergli una lettera di minacce estese anche ai suoi famigliari. Una lettera che – come per le altre oggetto di una perizia voluta dalla procura – vedeva esclusa la riferibilità al noto latitante». Proseguono i legali: «Oggi grazie alla perizia redatta dalla criminalista Katia Sartori, possiamo affermare che è assolutamente inverosimile che Matteo Messina Denaro avesse bisogno di qualcuno che scrivesse al suo posto e che, invece, tutti i documenti analizzati sono riconducibili a un solo soggetto. Questo ci permette di poter scardinare le teorie complottiste e le fantasie di presunti testimoni».

Secondo gli avvocati, quindi, è necessario che a seguito dell’esposto presentato venga aperta una indagine che restituisca dignità e decoro all’ex sindaco di Castelvetrano e alla sua famiglia, «impedendo ulteriori attività tendenziose e depistatorie quali quelle che per anni hanno infangato l’allora nostro assistito Antonio Vaccarino e adombrato le attività svolte dal Sisde del generale Mori, “colpevole” forse di aver braccato i più pericolosi latitanti di “Cosa nostra” e di avere ostacolato le mire economiche dell’organizzazione, come nel caso delle indagini confluite nel dossier mafia- appalti». Perché vennero “stoppate” le attività dei servizi segreti e bruciata la copertura di Vaccarino rendendo nota anche alla stampa la sua collaborazione? «Spetterà alla magistratura – concludono gli avvocati Baldassare Lauria e Giovanna Angelo - disporre gli opportuni accertamenti in ordine ai fatti, e anche sulle ragioni che hanno portato presunti testimoni che con le loro dichiarazioni hanno screditato l’immagine di Vaccarino e le attività condotte all’epoca dal Sisde».

La caccia ai mandanti esterni per le stragi di mafia. Scomparsa Kata e le priorità della procura di Firenze: indagare il defunto Berlusconi ‘grazie’ al gelataio Baiardo. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 27 Giugno 2023 

La Procura del capoluogo toscano, dopo ben cinque procedimenti chiusi già nella fase delle indagini preliminari, pare sia ad una “svolta” nella ormai pluridecennale caccia ai mandanti esterni per le stragi di mafia del 1993, ad iniziare proprio da quella fiorentina di via dei Georgofili. I procuratori aggiunti Luca Turco e Luca Tescaroli, per puntellare il quadro accusatorio che vede indagati Silvio Berlusconi, scomparso l’altra settimana, e Marcello Dell’Utri, hanno tirato fuori dal cilindro Salvatore Baiardo, il folcloristico gelataio di Omegna che in passato era stato condannato per aver favorito la latitanza dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, ex boss del quartiere Brancaccio di Palermo.

Baiardo sembra destinato a prendere il posto di Massimo Ciancimino, il finto pentito le cui dichiarazioni diedero il via al processo Trattativa Stato-mafia, poi conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati. Il gelataio di Omegna, infatti, è quello che mancava nel quanto mai variegato panorama delle piste investigative seguite fino ad oggi, senza grandi risultati, dagli inquirenti fiorentini. Personaggio a dir poco “esuberante” e per i quali i Pm fiorentini avevano chiesto al gip, senza ottenerlo, l’arresto (l’udienza per il ricorso è prevista il prossimo 14 luglio, ndr) aveva fatto la sua comparsa nei mesi scorsi nei programmi di punta del giornalismo d’inchiesta: Report e Non è L’Arena.

Fra le “primizie” per i fedelissimi di Sigfrido Ranucci e Massimo Giletti, vi fu certamene quella di aver detto di aver visto le fotocopie della famosa agenda rossa su cui il magistrato Paolo Borsellino annotava i suoi appunti riservati in mano a diversi boss, da Graviano fino a Matteo Messina Denaro. Attraverso TikTok, il social cinese utilizzato per comunicare ai suoi numerosi follower, Baiardo aveva poi smentito quelle affermazioni dicendo chiaramente di aver voluto prendere in giro i segugi di Report.

Il meglio di sé, però, il gelataio di Omegna lo aveva dato con Giletti, mostrandogli da lontano, e per pochi secondi, una foto dove a suo dire ci sarebbe stati ritratti Silvio Berlusconi, Giuseppe Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino. I tre sarebbero stati immortalati sulle sponde del lago d’Orta, in Piemonte, prima del 1994, anno in cui Graviano è finito in carcere senza più uscire in quanto al sottoposto al regime del 41 bis con tutti i divieti possibili. Ed è proprio grazie a questa presunta foto, mai trovata con le perquisizioni disposte dalla Procura, che i magistrati fiorentini hanno potuto riaprire per la quinta volta l’inchiesta per dimostrare il contatto fra Graviano, il mafioso stragista, e Berlusconi, il mandante delle stragi. Il tutto sotto la supervisione del generale della Benemerita Delfino.

Dei tre in foto l’unico ancora in vita è Graviano. Berlusconi, prima di morire, ha sempre smentito tramite i suoi legali tale incontro lacustre. Delfino è morto già da diversi anni in una casa di riposo a Santa Marinella, paese sul litorale laziale. Degrado a soldato semplice al termine di procedimento disciplinare a seguito del coinvolgimento nel procedimento per il sequestro dell’imprenditore bresciano Giuseppe Soffiantini, ai suoi funerali non aveva partecipato nessun rappresentante dell’Arma.

Il procedimento sulle stragi del 1993 della Procura di Firenze ha raccolto alcuni dei teoremi della vecchia inchiesta “Sistemi criminali” condotta dagli ex Pm palermitani Antonio Ingroia e Roberto Scarpinato e archiviata nel 2000. In particolare, torna l’ipotesi di personaggi esterni alla mafia che avrebbero partecipato agli attentati, un “terzo livello” composto da potenti massoni, imprenditori, piduisti, e mafiosi assortiti che avrebbero dato l’avvio alle stragi per destabilizzare la vita democratica nel Paese.

Il teorema della Procura di Firenze stride, però, con le risultanze del processo Trattativa Stato-mafia, ormai conclusosi con sentenza definitiva. Secondo quest’ultimo procedimento, Dell’Utri sarebbe stato colui che ha veicolato la minaccia mafiosa al primo governo Berlusconi. Secondo la tesi dei Pm fiorentini che vogliono arrestare Baiardo per favoreggiamento, invece, l’ex presidente del Consiglio sarebbe arrivato al governo grazie alle stragi e all’appoggio di Cosa nostra. La domanda che bisognerebbe porsi è per quale motivo, allora, era necessario “minacciare” lo Stato se nel contempo venivano poste in essere le stragi.

La ricostruzione fiorentina ha, poi, un “paletto” temporale: durante le stragi del 1992-93, infatti, Berlusconi non aveva ancora fondato Forza Italia ed appoggiava i Pm di Mani pulite. Il sostegno al governo Berlusconi uno è emerso durante il processo Borsellino Ter. Sia Giovanni Brusca che Angelo Siino e Tullio Cannella, hanno parlato di un consistente sostegno di voti fornito da Cosa nostra a Forza Italia in occasione delle elezioni politiche del 1994. Sostegno offerto nella prospettiva di ottenere consistenti modifiche anche legislative nel senso auspicato dall’organizzazione mafiosa (cosa mai realizzata, tra l’altro). Nessuno dei tre mafiosi ha mai fatto comunque riferimento a contatti tra Cosa nostra e Berlusconi già nel 1992, nell’ambito della ricerca di nuovi referenti politici. Il teorema che vede Berlusconi e Dell’Utri come mandanti delle stragi ha tutta l’aria di essere un tarocco. Forse in procura a Firenze anziché di Berlusconi avrebbero fatto meglio ad occuparsi dello sgombero dell’ ex Astor e della piccola Kata… Paolo Pandolfini

Perché Salvatore Baiardo non è stato arrestato: c’è un giudice a Firenze. Respinta la richiesta dei pm fiorentini. Volevano le manette per favoreggiamento nei confronti di Dell’Utri e Berlusconi. La gip avrà sbarrato gli occhi...Tiziana Maiolo su L'Unità il 27 Giugno 2023 

Doveva capitare, prima o poi, che arrivasse un giudice a Firenze a vagliare l’eterna attività di indagine dei “Due Luca”, gli aggiunti Turco e Tescaroli, e le loro fatiche sui “mandanti” delle stragi del 1993, trent’anni fa esatti. Forse, nel chiedere l’arresto del giocoliere un po’ mafioso un po’ contaballe Salvatore Baiardo, i “Due Luca” hanno fatto un passo falso. O forse erano troppo sicuri di sé.

Fatto sta che per la prima volta hanno perso: richiesta respinta. Parevano intoccabili. Quello che invece pare sempre “toccabile” è Silvio Berlusconi, che continua a essere oggetto dell’attenzione di questi magistrati e dei loro portaborse di redazione, pur se formalmente non dovrebbe essere così, da quando se ne è andato. In ogni caso un giudice a Firenze c’è. Si chiama Antonella Zatini, è stata sommersa da mille e cinquecento pagine con cui i “Due Luca” le chiedevano di arrestare Baiardo con due imputazioni. La calunnia nei confronti di Massimo Giletti, il quale aveva messo a verbale di aver visto nelle mani del gelataio la famosa foto in cui aveva riconosciuto un Berlusconi giovane, ma non le altre due persone, che avrebbero dovuto essere il generale Francesco Delfino (un altro che non potrà testimoniare, perché non c’è più) e il boss Giuseppe Graviano.

Poiché Giletti è attendibile, ed è stato anche intercettato mentre parlava della foto con Baiardo, la successiva smentita di questi è una calunnia nei confronti del presentatore. Perché? Perché è come se lo accusasse di aver reso false dichiarazioni al pm, dicono i “Due Luca”. Ma va là, replica la gip. Poi il gelataio avrebbe anche calunniato il “pentito” aureo Gaspare Spatuzza, il più intoccabile di tutti perché ha ristabilito qualche verità sull’omicidio Borsellino, facendo anche scarcerare quindici innocenti per la cui ingiusta detenzione non ha pagato nessuno. Il gelataio ha cercato di screditarlo, dicono i pm. Ma ancora non basta. Il colpo grosso, quello su cui, immaginiamo, la gip e con lei qualunque persona dotata di buon senso abbia sbarrato occhi e orecchi, è l’accusa di favoreggiamento nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.

Ebbene si, secondo il ragionamento dei procuratori aggiunti di Firenze (a proposito che cosa aspetta il Csm a nominare un capo dell’ufficio che venga a mettere un po’ di ordine in questo guazzabuglio?) questo gelataio avrebbe messo in piedi tutta questa storia della foto per fare un favore a Berlusconi e Dell’Utri. Ma non basta. Lo avrebbe fatto “con l’aggravante di aver agevolato l’associazione denominata cosa nostra, interessata a non compromettere le figure di Silvio Berlusconi, quale referente istituzionale, e Marcello Dell’Utri, legato all’organizzazione, ed entrambi parti, secondo l’ipotesi d’accusa, dell’accordo stragista, funzionale allo scambio tra il compimento dei delitti citati e interventi sulla legislazione afferente, fra l’altro, al regime detentivo applicato ai detenuti per mafia”.

Non c’è da stupirsi del fatto che una giudice non abbia accolto una simile richiesta. Basterebbe aver letto qualche giornale per sapere che i governi Berlusconi sono stati, anche contro la parte più liberale di Forza Italia, i più repressivi e intransigenti nell’applicazione degli articoli 4-bis e 4-bis dell’ordinamento penitenziario nei confronti di mafiosi e terroristi. In che cosa sarebbe consistito dunque lo scambio mafioso? I due leader di Forza Italia avrebbero chiesto, non si sa perché, ai boss mafiosi di fare per conto loro un po’ di stragi, e in cambio Cosa Nostra che cosa avrebbe ricavato? Niente. Non è un caso se questa ipotesi è stata già archiviata quattro volte.

Per fortuna è arrivata una giudice. Di cui non vogliamo sapere se e a quale corrente della magistratura appartenga. Ci basta che sia una che ragiona e che legge le carte, anche se i pm l’hanno sepolta sotto quindicimila fogli. Per ora ha rigettato l’ipotesi dell’accusa perché non ritiene ci sia nessuna prova di rapporti tra Berlusconi e Graviano e perché nutre “seri dubbi” che la famosa foto esista davvero. Anche per quel che riguarda la calunnia, la gip non pensa sia tale. Insomma Baiardo è solo un piccolo imbroglione.

Per quale motivo dovrebbe dunque mettergli le manette ai polsi? Il non detto è che, dopo un po’ di carcere, un po’ di torchiatura, le risposte possono ammorbidirsi, adeguarsi e voila, magari adattarsi perfettamente all’ipotesi dell’accusa. I “Due Luca” non demordono, hanno fatto ricorso al tribunale del riesame contro la decisione della gip. Ci riaggiorniamo quindi al 14 luglio, giorno dell’udienza in camera di consiglio. Udienza non pubblica, ma tanto si saprà tutto, come sempre.

Tiziana Maiolo 27 Giugno 2023

Dagospia il 18 aprile 2023. Da “Un Giorno da Pecora” – Rai Radio1

Il caso Giletti? “Mi dispiace per la chiusura di ‘Non è l’Arena’, quando si chiude una voce è sempre un grandissimo dispiacere ed una perdita per la democrazia”. A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, il giornalista e conduttore di Report Sigfrido Ranucci, intervistato da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro. 

 La fantomatica foto che ritrarrebbe Berlusconi, Graviano ed il generale Delfino e che Baiardo avrebbe proposto a Giletti è stata proposta anche a Report? “Baiardo lo avevamo intervistato circa un anno e mezzo prima, aveva detto tantissime cose anche a noi, è vero che aveva parlato di questa fotografia, lo ha fatto più volte. Detto questo però non posso dire altro perché su questa vicenda c’è un’indagine in corso”. 

Non può dirci se lei ha visto la foto oppure no? “Non lo posso dire perché coperto da segreto istruttorio”. Cosa può dire di Baiardo? “Baiardo con noi ha parlato più volte tantissimo - ha detto a Un Giorno da Pecora Ranucci - è uno loquace, bisogna capire per conto di chi parla e con quali finalità”.

 Estratto dell'articolo di Marco Lillo per il Fatto Quotidiano il 25 giugno 2023.

Sarà un’udienza davvero interessante quella che si svolgerà, purtroppo in camera di consiglio quindi senza il pubblico, davanti al Tribunale del Riesame di Firenze il 14 luglio prossimo.

Il collegio dovrà decidere sull’opposizione alla richiesta di arresto dell’ex favoreggiatore dei boss Graviano Salvatore Baiardo, presentata dai pm di Firenze il 28 aprile e rigettata dal Gip Antonella Zatini il 26 maggio scorso. 

Le carte depositate, circa 1.500 pagine, non riguardano evidentemente solo il destino dell’ex gelataio di Omegna, difeso dall’avvocato Elisa Bergamo e dall’avvocato Carlo Fabbri, ma incidentalmente investono un pezzo della storia d’Italia recente. Le accuse rivolte dai procuratori aggiunti Luca Turco e Luca Tescaroli e dal sostituto Lorenzo Gestri a Baiardo sono quelle di favoreggiamento a Berlusconi e Dell’Utri con l’aggravante dell’agevolazione dell’organizzazione mafiosa e di calunnia ai danni di Massimo Giletti.

Baiardo è stato già arrestato nel 1995 e condannato nel 1997 in appello a 2 anni e due mesi per favoreggiamento semplice ai due boss della mafia, Filippo e Giuseppe Graviano, poi condannati definitivamente per le stragi e gli attentati di mafia del 1992 in Sicilia e del 1993 in “Continente”.

La novità è che i pm fiorentini, competenti sulle stragi di Firenze e Milano (10 morti) e sugli attentati di Roma del 1993 e 1994 ora indagano di nuovo Baiardo per favoreggiamento ma non dei boss bensì dei presunti e ipotetici mandanti esterni. La tesi dei pm è che, (dopo le stragi e gli attentati del biennio 1993-1994 per i quali sono stati condannati anche i suddetti boss Graviano e sono stati indagati Dell’Utri e Berlusconi) Baiardo avrebbe aiutato proprio Berlusconi e Dell’Utri a eludere le investigazioni con i suoi comportamenti recenti.

La parte “politicamente” più sensibile’ dell’accusa è la contestazione dell’agevolazione mafiosa ex articolo 416 bis n.1. Baiardo avrebbe favorito gli indagati celebri “con l’aggravante di aver agevolato l’associazione denominata cosa nostra, interessata a non compromettere le figure di Silvio Berlusconi, quale referente istituzionale, e Marcello Dell’Utri, legato all’organizzazione, ed entrambi parti, secondo l’ipotesi d’accusa, dell’accordo stragista, funzionale allo scambio tra il compimento dei delitti citati e interventi sulla legislazione afferente, fra l’altro, al regime detentivo applicato ai detenuti per mafia”. Sono accuse pesantissime tutte da riscontrare che il Gip, nella sua ordinanza di rigetto, non ha recepito.

Non deve stupire che la richiesta di custodia cautelare citi Berlusconi come ipotetico “favoreggiato” da Baiardo perché i pm fiorentini l’hanno presentata a maggio, prima della morte del Cavaliere. Premesso che l’accusa di strage in relazione ai fatti del 1993-94 contro Berlusconi e Dell’Utri è già stata archiviata più volte su richiesta degli stessi pm di Firenze e premesso che il Gip nella sua ordinanza non ritiene provato il favoreggiamento di Baiardo, l’esistenza dei rapporti tra Berlusconi e Dell’Utri con i fratelli Graviano e l’esistenza di una foto ritraente Berlusconi e Giuseppe Graviano, analizziamo le ragioni dei pm fiorentini.

La Procura voleva arrestare Baiardo e dopo il rigetto ha reiterato la richiesta nell’appello presentato al Riesame il 5 giugno scorso perché Baiardo avrebbe fornito indicazioni mendaci e, comunque, reticenti sulle reali ragioni dell'incontro intercorso il 14 febbraio 2011 con Paolo Berlusconi, realmente avvenuto, dopo aver cercato infruttuosamente il contatto con il fratello Silvio, all'epoca Presidente del Consiglio dei Ministri, il 3 febbraio precedente dello stesso anno. Per i pm avrebbe mentito “per non far emergere i rapporti tra costoro e i fratelli Graviano”. Non solo. Baiardo avrebbe negato l’esistenza della fotografia ritraente Berlusconi e Giuseppe Graviano di cui aveva asseverato l’esistenza a Giletti.

Infine avrebbe mentito nelle sue dirette e parlando a un giornalista de Domani (che correttamente riportava le sue dichiarazioni) intossicando l’informazione. Per i pm, Baiardo avrebbe compiuto il reato di favoreggiamento perché avrebbe fatto dichiarazioni mirate a “ricostruire i rapporti esistenti tra i citati Giuseppe e Filippo Graviano e gli indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri in modo difforme rispetto a quanto realmente accaduto, dosandole abilmente con narrati veridici”. 

Come è noto Massimo Giletti ha raccontato che Baiardo gli mostrò fugacemente una foto che, a dire del gelataio, ritrarrebbe Berlusconi con Giuseppe Graviano e il generale Francesco Delfino, scattata probabilmente nel 1992 sul lago d’Orta. Anche a Paolo Mondani di Report Baiardo ha accreditato l’esistenza della foto (sarebbero addirittura tre) di Graviano con Berlusconi. Poi però subito dopo su Tik Tok Baiardo ha smentito l’esistenza delle foto dando la colpa ai giornalisti.

Per il Gip Baiardo è in mala fede ma la sua condotta non arriva a configurare la calunnia.

I pm fiorentini non ci stanno e hanno depositato un appello di 50 pagine per contestare il rigetto dell’arresto. Uno dei puntelli alla tesi dei pm Turco, Tescaroli e Gestri risiede proprio nelle dichiarazioni a verbale davanti ai pm stessi di Baiardo sull’incontro con Paolo Berlusconi nella sede de Il Giornale a Milano il 14 febbraio 2011.

(...)

Baiardo raccontò ai pm “Già conoscevo Paolo Berlusconi, lo avevo incontrato all’Hotel Quark di Milano dove avevo accompagnato una o due volte nel corso del 1992 Giuseppe Graviano; compresi dal primo incontro, cui ho assistito, che i due Berlusconi e Giuseppe Graviano, già si conoscevano; Graviano si è presentato con il proprio nome”. 

Tutte affermazioni negate dai diretti interessati e considerate non riscontrate dal Gip.

Estratto dell’articolo di Enrico Deaglio per “La Stampa” il 23 aprile 2023.

Non c'è nulla che dia più fastidio alla mafia che la televisione. Non le piace: la tv comunica un senso della realtà difficile da dimenticare e poi raggiunge troppe persone, che poi magari prendono coraggio; la tv mostra i mafiosi per quello che sono, spesso dietro le sbarre, deboli, tutt'altro che invincibili; e loro invece sono abituati ad essere rispettati. Neanche la parola scritta, gli piace; ma quella la leggono in pochi. La televisione è peggio. 

[…] 

Il binomio mafia-televisione è tornato di attualità in questi mesi e sta al centro di una notevole conversazione pubblica: è il "caso Giletti", con le sue clamorose rivelazioni in diretta, culminate con la chiusura improvvisa del programma e un retrogusto di mistero.

Chi è veramente questo Baiardo, un gelataio capace di profetizzare, con due mesi di anticipo, il giorno della cattura di Matteo Messina Denaro? Esiste davvero la fotografia del boss mafioso insieme all'imprenditore e al generale dei carabinieri in piacevole colloquio sul lago d'Orta? Davvero tutto l'arresto di Salvatore Riina fu una colossale messa in scena? E chi sono veramente questi tenebrosi fratelli Graviano, ancora oggi in grado di ricattare lo Stato? 

[…] 

I fratelli boss

Partiamo dai misteriosi fratelli Graviano. Sono due, Filippo (nato nel 1961) e Giuseppe (nato nel 1963), boss del quartiere Brancaccio di Palermo. Passati sotto i radar negli anni Ottanta (sono condannati al maxiprocesso, ma a pochi anni), diventano potentissimi e ricchissimi "urban developers" di Palermo: la loro opera più grandiosa è un grande albergo di lusso, il San Paolo Palace Hotel, al centro del loro malfamato quartiere, che diventa il luogo di incontro dell'élite della città, dai politici ai magistrati, agli investigatori e ai sindacalisti, che entrano nella hall sfiorando i locali della "camera della morte" in cui la mafia del quartiere ha eliminato qualche centinaio di nemici. Nell'attico abita la madre dei due, cui il clan è devoto, come al vero Capo (Invece che Godfather, la chiamano Godmother). 

All'inizio degli anni Novanta il clan dichiara di voler trasferire la propria residenza e la propria attività economica nel Nord Italia e in Svizzera. Non figurano tra i sospetti, né tra gli esecutori delle stragi del '92-'93, ma vengono considerati i mandanti dell'omicidio di don Puglisi avvenuto nel settembre 1993, nel loro quartiere. Vengono arrestati a Milano il 27 gennaio 1994, in un ristorante alla moda con le loro fidanzate. Sono al 41 bis da allora.

E un signore di Omegna, provincia di Verbania; tra il '91 e il gennaio 1994 ha organizzato nella cittadina la residenza dei Graviano, facendo loro da autista, organizzando le loro vacanze e introducendoli nell'ambiente cittadino. Per questo motivo subì un arresto nel 1995 e fu condannato in appello a Palermo nel 1999 per "favoreggiamento" (essendo cadute le accuse di associazione per delinquere di stampo mafioso e di riciclaggio di denaro).

È il personaggio televisivo del momento; ha predetto l'arresto di Messina Denaro, ha promesso altre grandi rivelazioni e ha mostrato (mano sua) a Giletti una fotografia (tipo Polaroid) in cui si vedono – a suo dire – Berlusconi, Giuseppe Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino seduti a un tavolino di un bar in quella che sembra la piazza principale di Orta-San Giulio, luogo incantevole e turistico. Vestiti primaverili, probabile anno 1992. 

Giletti ha riferito questa circostanza ai pm di Palermo che indagano sulla vicenda; gli stessi hanno intercettato Baiardo che parla con Giletti della fotografia; Baiardo non risulta incriminato per alcunché. In seguito a questi fatti, Urbano Cairo, editore de La7, ha chiuso la trasmissione. 

Francesco Delfino (generale dei carabinieri e superagente del Sismi, morto in disgrazia nel 2014) viene indicato come il terzo uomo della fotografia, insieme a Berlusconi e Graviano. Possibile? Un tempo si sarebbe detto: impossibile e assurdo; ora però non più. Da qualche tempo si parla parecchio del suo vero ruolo nella cattura di Riina.

Secondo Graviano stesso, e Baiardo di rimando, il famoso pentito Balduccio Di Maggio, che guidò i carabinieri alla cattura del capo dei capi, sarebbe stato convinto a farsi arrestare, a Borgomanero, pochi chilometri da Omegna, in cambio di molto denaro dal Graviano medesimo, in accordo con il generale (non nuovo a queste operazioni spregiudicate). 

Delfino, in compenso dell'aiuto ricevuto da Graviano, gli avrebbe fatto avere una "favolosa protezione" per le sue malefatte e i suoi affari. Che Delfino potesse conoscere Berlusconi non deve stupire; i due erano in contatto fin dai tempi dei sequestri di persona a Milano. Il primo come investigatore, il secondo come potenziale vittima. Berlusconi, peraltro, quando costruì Milano Tre, ci volle una stazione dei carabinieri, che regalò ai carabinieri stessi, che dall'epoca sono grati (Ed è tornato alla mente che Giuseppe Graviano ha fatto sapere di aver avuto un appartamento a disposizione a Milano 3 e l'ha collocato «nei pressi della stazione dei carabinieri»).

La gloria di Delfino per l'arresto di Di Maggio e quindi di Riina durò poco: nel 1998 fu lui stesso arrestato per aver estorto un miliardo alla famiglia di un notissimo industriale bresciano, suo amico, Giuseppe Soffiantini, in cambio della sua liberazione da un lunghissimo rapimento. Si scoprì all'epoca che non era la prima volta che il generale si comportava così; amava molto il lusso e perdeva al gioco.

[…] Killer del quartiere Brancaccio, Spatuzza venne arrestato per l'omicidio di don Puglisi e per la partecipazione alla strage di via dei Georgofili, ma rimase una figura di secondo piano fino al 2009, quando – al termine di «un percorso di pentimento religioso» certificato addirittura dal vescovo dell'Aquila – venne presentato all'opinione pubblica con una bomba: Spatuzza disse di essere stato lui a preparare l'attentato Borsellino, distruggendo dalle fondamenta tutto il lavoro – quindici anni – degli investigatori e dei giudici di Caltanissetta che avevano presentato un altro colpevole – un ragazzo di borgata di nome Vincenzo Scarantino – come l'organizzatore dell'eccidio. 

Scarantino aveva chiamato correi un'altra dozzina di persone che erano al 41 bis: erano completamente innocenti. Si trattò della peggior débacle in tutta la storia della lotta alla mafia, cui la magistratura reagì con imbarazzato silenzio.

Ma Spatuzza era un fiume in piena: rivelò di essere stato lui ad aver compiuto gli attentati di Roma, Firenze, Milano; di essere agli ordini dei fratelli Graviano, disse che questi avevano protezioni molto importanti e che erano soci in affari di Dell'Utri e Berlusconi, essendo stati tra i primi finanziatori dell'impero Fininvest. I Graviano, poi, avevano aiutato Forza Italia a vincere le elezioni del 1994. Tutte queste accuse, però, non vennero riconosciute come credibili dalla magistratura. 

Ma, a confermarle, con sempre maggiori dettagli ci hanno pensato proprio i Graviano, che negano – naturalmente – di essere gli autori delle stragi, ma non negano, anzi rivendicano i loro rapporti con Berlusconi. Secondo Giuseppe Graviano, autore di una recente (e pregevole per chiarezza) memoria difensiva, la sua famiglia ha contribuito con il venti per cento del capitale iniziale Fininvest e Berlusconi gli aveva promesso di rendere questo contributo palese, invece che occulto. Quando? In un incontro a Milano nel gennaio 1994, alla presenza di avvocati, dopo essersi assicurato l'appoggio dei Graviano per la campagna elettorale. E invece? E invece, sostiene Graviano, «mi ha fatto arrestare!».

Sono le fantasie di chi sta da troppo tempo in carcere? Naturalmente sì – la Fininvest nega qualsiasi cosa – ma… E qui comincia la storia che rende così appassionante la vicenda televisiva attuale. 

Partiamo dalla "sera delle beffe". 27 gennaio 1994, in tarda mattinata Salvatore Baiardo da Omegna accompagna Filippo e Giuseppe Graviano a Milano, con la sua Mercedes 190: vanno a fare shopping (Giuseppe è un patito dello shopping). Li lascia in centro e poi torna al paese. La sera apprende che sono stati arrestati, ma lui non lo vengono a cercare. Eppure i Graviano hanno tutta la loro roba lì: vestiti, documenti. O no? O forse avevano un'altra casa a Milano? Non si saprà mai, perché dopo l'arresto, compiuto in circostanze fantozziane, non seguono gli atti che normalmente si accompagnano, perquisizioni, ricerca dei telefonini, indagini sui documenti falsi. Niente. 

[…]

Baiardo, comunque, sta tranquillo, anche se a Omegna vedono le foto dei boss arrestati che assomigliano tanto a quei distinti industriali siciliani (si erano presentati così) «in viaggio di affari», e qualcuno si preoccupa un po' perché hanno avuto business con loro; dopo un anno (senza clamore) Baiardo viene arrestato dalla Dia di Firenze. Accuse pesantissime: hanno rintracciato il suo telefono e lo hanno collegato a una villa di Forte dei Marmi in cui, dicono, è stato preparato l'attentato di via dei Georgofili; lo accusano di aver riciclato miliardi e miliardi dei Graviano al Nord, fanno i nomi di Dell'Utri e Flavio Carboni (il riciclatore del caso Calvi). 

Baiardo parla? Lui dice di no, ma c'è una cosa strana: alla fine, per lui, in un processo stralcio presso la Corte d'Appello di Palermo, la condanna è solo per favoreggiamento. Caselli, all'epoca procuratore capo di Palermo avrebbe voluto l'associazione con 416 bis, ma si è imposto Vigna, allora procuratore capo a Firenze. No, solo favoreggiamento. Così invece di andare al 41 bis, Baiardo torna a casa, anche se lo metteranno di nuovo in carcere per alcuni mesi nel 1998. Non sarà per caso che Baiardo ha vuotato il sacco? Lui nega. 

Anzi, proprio in virtù di essere solo un favoreggiatore, nel 2011 fornisce un alibi (falso) per Giuseppe Graviano, che a questo punto è accusato da due pentiti di aver partecipato materialmente all'eccidio di via D'Amelio. «No, era con me a Omegna quel 19 luglio 1992». Non lo prendono neppure in considerazione. Non lo denunciano nemmeno, però. 

[…]

Il fatto è che tutta questa storia dei Graviano, all'epoca non sembra interessare proprio nessuno. La magistratura ha imboccato un'altra strada e assiste felice ai suoi successi: Riina è stato catturato e Di Maggio ha rivelato il "bacio" con Andreotti; il ragazzo Scarantino è stato il factotum del delitto Borsellino. Sì, ci sono state delle bombe in continente, ma sono dovute a un ricatto della belva Riina contro lo Stato: la famosa "trattativa", rivelata da uno dei tanti falsi pentiti; parte un'inchiesta che impegnerà i migliori eroi dell'antimafia, coinvolgendo ministri, governo e addirittura il presidente Napolitano, in cui tutti hanno un ruolo e solo i Graviano sono dimenticati.

Solo dopo trent'anni si è stabilito, in un' aula giudiziaria, che il "caso Scarantino" è stato «il più grande depistaggio della storia italiana», ma si è evitato di dire che a questa impostura ha partecipato, volenterosamente, tutta la magistratura italiana, spalleggiata dal miglior giornalismo. È passato praticamente inosservato che l'ormai famoso Spatuzza, dodici anni prima di pentirsi di fronte al vescovo, aveva già spifferato tutto, alla Dia e alla procura nazionale antimafia. Tutto, ma proprio tutto: addirittura nel 1998, nel carcere speciale di Tolmezzo, dove aveva chiesto e ottenuto di essere messo vicino a Filippo Graviano, davanti alle orecchie attente dei procuratori nazionali Vigna e Grasso. 

Racconta Spatuzza: sono stato io, per ordine dei Graviano, il loro rapporto con Berlusconi è la chiave di tutto. E poi, un sacco di particolari: Omegna, il riciclaggio, Baiardo, le vacanze del 1993, uno strano viaggio estivo in Sardegna. Naturalmente, ha poi aggiunto che quella di Scarantino era un'impostura ordita dalla polizia. Certo, stupisce un po' che i vertici della magistratura non abbiano fatto tesoro di queste informazioni, per dodici anni; e che non si siano adoperati nemmeno per togliere dalla galera una dozzina di ingiustamente accusati. Dispiace, ma le cose andarono così. Nello stesso anno, abbiamo uno Spatuzza che spiffera tutto e un Baiardo graziato come semplice favoreggiatore. Forse il procuratore Vigna aveva anche lui un piano.

E per quanto riguarda i fratelli Graviano, furono trattati con tutto il rispetto: un 41 bis che sembra un grande albergo, dove i due fratelli si sposano, figliano, ricevono i loro avvocati, trasferiscono i loro capitali, depistano, inquinano, e ogni tanto ricordano che sono loro a essere in dcredito, con la Fininvest in particolare. Per il resto, sembrano abbiano fatto pace con tutti; Filippo si è dissociato ufficialmente, Giuseppe da tempo collabora con i pm di Firenze, non sono irritati con Spatuzza che ha rivelato i loro affari, quanto con Berlusconi che lo ha fatto arrestare e poi non ha rispettato i patti.

Da anni hanno rivelato i misteri della cattura di Riina e il ruolo del generale Delfino, ma stranamente non hanno trovato orecchie disposte a sentirli; la loro versione della faccenda, infatti, mina alle basi tutta la retorica della lotta alla mafia. Dice infatti Giuseppe Graviano: Riina ve lo abbiamo consegnato noi, sappiatelo. Anzi, ringraziateci due volte, perché avremmo potuto farlo fuggire. Il fido Baiardo, recentemente da Giletti, ha confermato. Non solo, ma poi ha fatto sapere che la stessa cosa è successa con Messina Denaro: sono stati i Graviano a consigliargli di farsi prendere. Già: e se fosse andata proprio così? Sta a vedere che lo sapevano tutti.

Grande potenza della televisione: ora tutti si appassionano alla vicenda. Grande errore di Giletti: è andato a toccare dei fili scoperti, da cui l'Italia ormai pacificata da trent'anni, ha cercato di stare lontana. Per fortuna di tutti – della storia d'Italia, soprattutto – Giletti è stato fermato in tempo. Dispiace per il licenziamento della sua squadra, ma si troverà senz'altro una soluzione.

Estratto da open.online il 24 aprile 2023.

«La Procura l’altro giorno mi sente proprio sulla base di queste dichiarazioni su Berlusconi : sono saltate fuori cose inimmaginabili, che addirittura avrei delle foto che lo ritraggono con i Graviano e il generale Delfino. Tutte cose da fantascienza». 

A parlare è Salvatore Baiardo, che nega categoricamente l’esistenza di una foto che ritrae insieme il boss di Cosa Nostra Giuseppe Graviano e Silvio Berlusconi. Ma a rivelare l’esistenza di quella foto sarebbe stato Baiardo stesso a Massimo Giletti […]. 

[…] Il Fatto Quotidiano ha pubblicato il verbale dell’interrogatorio del conduttore di Non è l’Arena, in cui Giletti dice che lo scatto fu “rubato”, cioè fatto di nascosto. Il conduttore avrebbe anche aggiunto di aver chiesto di vedere la foto perché metteva «in dubbio le sue dichiarazioni. Credo, quindi, che per dimostrare che i rapporti li teneva mi ha mostrato la foto».

L’ex gelataio, molto vicino ai fratelli Graviano, ora però smentisce quella ricostruzione […]: «Non so chi abbia potuto dire una cosa del genere, io ho altre cose da dire ma sono veritiere, non come le fantasie delle Procure. Sulla famiglia Berlusconi sono state dette cose non vere, per cui quelle vere ve le dirò io. Anche sull’incontro con Paolo Berlusconi nella sede del giornale, è stato raccontato come una fantasia, che sono andato lì a intimidire e minacciare Paolo Berlusconi. Tutte fesserie».

Estratto dell’articolo di Roberto Pavanello per “La Stampa” il 3 giugno 2023.  

Vita, carriera, opere, ma anche qualche omissione. Urbano Cairo si è sottoposto ieri, al Festival della tv di Dogliani, alla centrifuga di domande "belvesche" di Francesca Fagnani. Piatti forti, il futuro prossimo di La7, il passato remoto con Berlusconi e il futuro da «mai dire mai» in politica. 

[…] La conduttrice Rai gli chiede di confermare le voci, quasi urla ormai, dell'approdo di Massimo Gramellini su La7. Il patròn le offre in risposta una mezza conferma: «Appena tutto quanto sarà formalizzato, lo comunicheremo. Sarebbe bellissimo, ma non è ancora fatto».

Insomma, […]  manca solo la firma, giacché il numero di maglia gli sarebbe già stato assegnato: dovrebbe essere quello della domenica sera, nella collocazione oraria di Massimo Giletti. […] Resterà invece un'occasione mancata il passaggio di Fabio Fazio alla corte di Cairo. Fagnani lo stuzzica, ed ecco il retroscena: «Questa volta non l'ho cercato, ma ci provai 6 anni fa. Andai a pranzo a casa sua con il suo agente Beppe Caschetto, ma alla fine non se ne fece nulla». 

Stavolta invece nessun tentativo di sottrarlo a Discovery, sua prossima destinazione. «Non se lo poteva permettere?», incalza Fagnani. Notevole la risposta: «Se mi sono potuto permettere Giletti, mi sarei potuto permettere anche Fazio». 

Doveroso parlare della chiusura di Non è l'Arena […] Cairo ribadisce che nulla c'entrano le puntate sulla mafia con Salvatore Baiardo: «Non ho ricevuto lamentele». Nega anche di essere stato a conoscenza della foto, mostrata da Baiardo a Giletti, che ritrarrebbe Silvio Berlusconi, con il generale dei carabinieri Delfino e il boss Giuseppe Graviano nel 1992: «Non me ne ha mai parlato».

La fine del rapporto sarebbe giunta per ragioni editoriali ed economiche: «Gli ho dato piena libertà per 194 puntate in 6 anni», ribadisce per poi entrare nel dettaglio: «I primi due anni il programma è andato alla grande, nel secondo biennio per colpa del Covid c'è stato il calo pubblicitario. Ma nel terzo biennio ha voluto cambiare giorno e andare in onda al mercoledì nonostante noi lo sconsigliassimo». 

[…]  «Ha perso due punti - ricostruisce Cairo - e poi, quando è tornato alla domenica, non ha più recuperato». […]  «Ho deciso di chiudere prima, parlandone con l'amministratore delegato e il direttore di rete, senza l'ingerenza di nessuno. La motivazione è solo editoriale».

Il tycoon si infervora: «Ho chiamato Mentana e gli ho detto "chiude Giletti, non La7. Se ci sono cose così importanti di cui parlare, ci sei tu, ci sono Floris, Purgatori, Formigli...». Il canale tv di sua proprietà è adesso visto come l'unica opposizione alla destra pigliatutto. Una linea politica che piace al suo editore? «Io non sono di destra né di sinistra. La7 viene considerata un po' più di sinistra, ma io l'ho trovata così, anzi lo era anche di più». Nella filosofia cairesca, «il dna di una tv o di un giornale non lo puoi cambiare, Berlusconi portò a destra Panorama e perse un sacco di lettori». […] C'è solo una cosa in più che vorrebbe se dovesse rinascere: «5 cm». Come Berlusconi.

 Estratto dell’articolo di Paola Pica per il “Corriere della Sera” il 3 giugno 2023.  

L’affondo della Belva Francesca Fagnani sul caso Giletti arriva dopo più di mezzora di domande personali e a bruciapelo […] al presidente «di quasi tutto» come lo chiama la giornalista, l’editore Urbano Cairo che qui a Dogliani, sotto il tendone del Festival della Tv, parla prima di tutto come patron de La7. 

[…] «Ha mai ricevuto telefonate o lamentele per la presenza di Salvatore Baiardo (storico collaboratore del mafioso Giuseppe Graviano, ndr) a “Non è l’Arena” la trasmissione condotta da Massimo Giletti che è stata improvvisamente sospesa?». «No», è la risposta di Cairo. «Ma allora perché ha chiuso una trasmissione che aveva ancora nove puntate davanti a sè?».

«Prima di tutto tengo a precisare che Giletti ha fatto sei anni e 194 puntate su La7, potendo lavorare in piena autonomia — premette Cairo — . Poi va detto che nell’ultimo biennio i costi della trasmissione erano diventati insostenibili — racconta l’editore —. Lui si era impuntato di passare dalla domenica al mercoledì, un’operazione che gli ha fatto perdere quasi due punti di share mai recuperati nonostante poi sia tornato alla domenica». «Ma perché tutta questa fretta di chiudere non è l’Arena», insiste Fagnani.

«Per i costi, ne avevo parlato del resto con lo stesso Giletti e Mazzi, il suo agente o amico non ho ben capito, già nel mese di gennaio». «Lei era a conoscenza» dell’ipotesi o del fatto che Baiardo avrebbe mostrato a Giletti «una foto che ritrae Silvio Berlusconi, Giuseppe Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino»? «No, Giletti non me ne ha mai parlato. Come detto, aveva autonomia e io mi sono fidato».  Fagnani: «I magistrati l’hanno chiamata?». «No, non mi ha cercato nessuno». 

Tante le domande su Silvio Berlusconi e gli inizi della carriera di Cairo nel mondo del Biscione: «È stato un grande maestro per me, mi ha insegnato a non mollare mai, a motivare le persone. Perché gli sono piaciuto? Per l’intraprendenza. Non piacevo a Marcello dell’Utri? A quanto pare. Perché sono stato licenziato dalla Mondadori?

L’allora amministratore delegato Franco Tatò, un altro grande maestro, mi comunicò che avevano deciso di spostarmi a Pagine Utili. Io dissi va bene, ma voglio il 50% di quella società. Dopo un mese sono stato licenziato. Ricca liquidazione? Stendiamo un velo pietoso. Mi rimboccai le maniche e fondai la Cairo pubblicità, per i primi contratti con Rcs facevo tutto io. Una cordata per comprare Mediaset? Non c’è nulla di vero». 

E ancora: «Quanto mi piaccio? Non tanto, mi do un 7+. Io uno squalo? No, penso sempre a salvare i posti di lavoro. Destra e sinistra? Sono superate. Ma penso si debba investire nell’accoglienza dei migranti e nei giovani. I salotti buoni? Mi invitano, ma non li frequento. Tra indiani e cow boy mi collocano tra i primi? Come direbbe Meloni sono stato un underdog. Cosa mi piace del potere? Avere la possibilità di realizzare le idee. Chi riporterei in vita almeno per qualche minuto? Mia madre».

NON È L'ARENA E LA FOTO DEI MISTERI. Baiardo conferma l’incontro tra Graviano e Berlusconi. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 27 aprile 2023

I magistrati antimafia di Firenze hanno svolto accertamenti e «attività tecniche», intercettazioni, su Salvatore Baiardo, l'ex gelataio diventato famoso per aver predetto l'arresto dell'ultimo latitante stragista, Matteo Messina Denaro, approfondimenti che precedono la sua profezia.

Baiardo, inoltre, è stato utilizzato già nel 2011 «per far giungere un messaggio all'esterno del carcere a Silvio Berlusconi», a nome di altri due stragisti, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano.

Emerge dagli atti dell'inchiesta, che Domani può rivelare, coordinata dalla procura di Firenze, sui mandanti esterni alle stragi del 1993 che vede tra gli indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri.

La foto dei misteri sui rapporti tra i mafiosi stragisti Graviano e Berlusconi, la chiusura di Non è l’Arena e l’ipotesi che circola in procura antimafia a Firenze di sentire come testimone Urbano Cairo, l’editore di La7 e del Corriere della Sera, in quanto persona informata sui fatti, dopo che i pubblici ministeri hanno già ascoltato Massimo Giletti.

Il conduttore ha raccontato ai magistrati Luca Tescaroli e Luca Turco di aver visto uno scatto che ritrae l’ex presidente del consiglio, uno dei fratelli Graviano e il generale Francesco Delfino, il militare al centro di svariati misteri italiani. A mostrargli il documento prezioso a tal punto da poter riscrivere la storia della seconda Repubblica è stato, secondo Giletti, Salvatore Baiardo: il personaggio reso celebre da un’intervista rilasciata a Non è l’Arena in cui ha predetto l’arresto di Matteo Messina Denaro. Per quelle apparizioni televisive Baiardo è stato pagato regolarmente dalla produzione esterna a La7.

Baiardo da mago che prevede il futuro si è trasformato presto in una pedina centrale nell’indagine sui mandanti occulti delle stragi del 1993 in corso a Firenze. È il collante che tiene insieme diversi piani: è stato condannato in passato per favoreggiamento ai fratelli Graviano, ritenuto un loro portavoce, è a conoscenza, come dimostrano alcuni documenti ottenuti da Domani, degli incontri tra uno dei fratelli stragisti e Berlusconi, in procinto di “scendere in campo”.

Baiardo dunque è il ponte che unisce passato e presente: dai rapporti (ammessi dallo stesso Graviano durante gli interrogatori) con l’ex presidente del consiglio alla foto di cui ha parlato Giletti con i magistrati. Baiardo è netto nel sostenere che la foto non esiste, tuttavia intercettazioni dimostrerebbero il contrario.

Sullo sfondo di questo intreccio c’è uno scenario investigativo che punta a svelare l’identità dei mandanti occulti degli attentati eseguiti dalla mafia di Totò Riina nel 1993, le bombe sul continente, successive al tritolo che aveva trasformato le strade di Palermo in Beirut con la mattanza delle scorte e dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. I due indagati eccellenti sono Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, in passato già coinvolti in inchieste sui mandanti e prosciolti da ogni accusa. Il filo seguito dai detective lega la nascita di Forza Italia, le stragi del 1993, le presunte relazioni pericolose tra i mafiosi stragisti e Silvio Berlusconi, mediati dal fedelissimo Marcello Dell'Utri, che ha scontato una condanna per complicità con le cosche siciliane.

IL BOSS E BERLUSCONI

Per riannodare i fili di questa storia iniziata 30 anni fa è necessario partire dalla figura di Baiardo. I magistrati antimafia di Firenze hanno intercettato Baiardo almeno fino al 2021: a partire dal primo interrogatorio cui è stato sottoposto l’uomo dei Graviano. Inoltre un fatto è certo, Baiardo, è stato utilizzato già nel 2011 «per far giungere un messaggio all'esterno del carcere a Silvio Berlusconi», a nome di altri due stragisti, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano. Questi elementi emergono dagli atti dell'inchiesta di Firenze, in via di conclusione prima della deflagrazione del caso Giletti, e che ora invece si è arricchita di ulteriori indizi con consequenziale dilatazione dei tempi.

Arriviamo così alla foto Berlusconi-Graviano-Delfino, la cui esistenza è stata svelata da Domani, e che secondo alcuni potrebbe essere una delle cause della fine anticipata del programma condotto da Giletti. Sulle reali motivazioni della decisione non c’è nulla di ufficiale: fonti interne alla rete hanno imputato ai costi eccessivi del programma, altri sostengono che sia stata invece l’operazione Baiardo a portare a una scelta così drastica. Di certo, al momento, non c’è una versione ufficiale esaustiva.

Giletti sostiene di aver visto la foto, individuando solo un giovane Berlusconi. Convocato dai pm racconta del documento in possesso di Baiardo. I pm fiorentini peraltro hanno riscontrato la possibile esistenza ascoltando le conversazioni degli incontri tra l'ex volto di La7 e il pregiudicato. Non sarebbe così assurdo che Baiardo custodisse uno scatto tra Graviano e Berlusconi. Il motivo è da ricondurre al suo ruolo originario avuto per i padrini palermitani. C’è traccia di questo nelle carte dell’inchiesta.

A far ripartire l'indagine sui mandanti esterni ci sono i colloqui intercettati in carcere tra Giuseppe Graviano e il compagno di cella, Umberto Adinolfi, nei quali lo stragista parla di accordi economici con Berlusconi e di quegli anni di bombe e sangue innocente. In queste registrazioni c’è un riferimento a Baiardo presente agli incontri con Berlusconi: «Quando si preparavano gli incontri” e a me mi accompagnava (…) Baiardo...mi accompagna lui, io incontravo a lui», dice Graviano e specifica la ragione degli incontri «per mantenere i patti». In pratica Graviano parla della propria latitanza e della disponibilità di una casa a Milano 3, la cui proprietà apparteneva a un soggetto che lo stragista non nomina, lo definisce come ‘lui’.

«Graviano riferiva di aver utilizzato un soggetto prestanome per creare una copertura su tale immobile mentre, quando si recava agli incontri, necessari per mantenere i patti, si faceva accompagnare da Salvatore Baiardo», scrive la direzione investigativa antimafia. La novità è che, ora sappiamo, Baiardo avrebbe confermato a verbale di aver accompagnato il boss agli incontri, presunti, con Berlusconi. Per l’entourage del Cavaliere si tratta solo di falsità, messe in giro per colpirlo.

MESSAGGI AL CAVALIERE

Tra i colloqui intercettati in carcere c’è una conversazione che, nella parte finale, diventa cruciale: «Rileva l’intenzione di poter far giungere un messaggio all’esterno del carcere a Silvio Berlusconi, nella circostanza definito “B”, e così era accaduto nel 2011 quando, a tale scopo, aveva utilizzato Salvatore Baiardo», scrive Francesco Nannucci, capo centro della Direzione investigativa antimafia.

Tra il 2011 e il 2012 gli avvocati dei Graviano scrivevano alle procure competenti invitandole ad ascoltare Baiardo e lui, in quel periodo, faceva una cosa che ricorda la strategia adottata negli ultimi tempi: parlare ai giornali. Accusava, ritrattava, smentiva nominando Berlusconi per la solita storia dei presunti rapporti con i Graviano, e, anche allora, riferiva di incontri, prove e foto.

Si scopre che, in quel periodo, ha incontrato anche Paolo Berlusconi, il fratello dell’allora primo ministro, come dirà in un interrogatorio del 2011. L’incontro, aveva spiegato Baiardo, serviva a chiedere un posto di lavoro, mai ottenuto. Certamente è curioso che a distanza di tanti anni, dopo la rottura con Giletti, Baiardo annunci sui social un fantomatico ingaggio con Mediaset della famiglia Berlusconi. All’azienda non risulta, secondo molti è l’ennesimo messaggio dell’uomo dei Graviano.

I magistrati di Firenze hanno ascoltato Baiardo quattro volte e alcuni suoi racconti risulterebbero fondati e riscontrati, «il Baiardo televisivo è diverso da quello che si reca in procura», confida un investigatore.

L’INCROCIO CALABRESE

L’indagine di Firenze sui mandanti incrocia un processo calabrese sulla strategia stragista della ‘ndrangheta, la mafia calabrese, in combutta con i siciliani. Imputato e condannato Giuseppe Graviano. E in quel mare di atti spuntano diversi rapporti investigativi sia su Baiardo sia sul generale Delfino. I protagonisti della foto con Berlusconi. Nomi che ricorrono nelle carte e che si incrociano, in quegli anni, pericolosamente.

Uno degli audio che Giletti avrebbe mandato in onda se la trasmissione non fosse stata chiusa, riguarda le dichiarazioni del pentito Nino Fiume: è lui a rivelare l’impegno preso dal capo dei capi della ‘ndrangheta al nord, Antonio Papalia, per evitare il rapimento di Piersilvio Berlusconi, il figlio del Cavaliere. Papalia, c’è scritto nelle note degli investigatori reggini, era in contatto con il generale Delfino.

Molto del materiale del processo sulla ‘ndrangheta stragista è conosciuto anched dai magistrati di Firenze. Per esempio la parte in cui i detective ricostruiscono il collegamento tra i Graviano e Dell'Utri: favorito dall'imprenditore, sodale dell'ex senatore, Filippo Alberto Rapisarda, pregiudicato e socio del sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino. «Il nome di Filippo Alberto Rapisarda... è indicato da Salvatore Baiardo quale trait d’union tra Dell'Utri e i Graviano per la gestione di interessi economici e, in particolar modo immobiliari, in Lombardia e Sardegna», si legge in un'informativa depositata.

Ma dalle carte, a proposito degli incroci tra Baiardo e Graviano, è spuntato anche un documento investigativo, definito di «portata eccezionale», relativo all'analisi dei movimenti dei due fratelli stragisti, eccezionale «alla luce delle nuove risultanze sulle mancate attenzioni istituzionali sulla figura di Baiardo», si legge.

I Graviano, nell'estate del 1993, erano in vacanza in Sardegna. «Il dato che qui preme evidenziare è la presenza dei due ricercati, nell’agosto del 1993, a un tiro di schioppo dalla residenza estiva del leader della istituenda Forza Italia, rendez vous dei collaboratori di Berlusconi e, si presume, anche di Dell'Utri», si legge.

Erano gli anni della decisione di Berlusconi di “scendere” in politica, la prima discussione avveniva in Sardegna nell’estate 1993, come ha confermato Gianni Letta, ascoltato nel processo Dell'Utri.

L’allora cavaliere accetta i consigli di quest’ultimo piuttosto che quelli di Confalonieri e Letta, entrambi contrari alla discesa in campo. Perché Silvio si è fatto convincere da Dell’Utri snobbando i consigli persino di Letta? I motivi non li ha rivelati né Berlusconi, né Dell'Utri.

Nell’aprile 2021, gli inquirenti hanno chiesto conto a Graviano di un'intervista in cui Baiardo riferiva che lo stragista avrebbe portato, negli anni novanta, molti soldi al Cavaliere in Sardegna. «Non ho mai incontrato Berlusconi in Sardegna», ribatteva Graviano.

CAIRO IN PROCURA

Le puntate di Giletti sulla mafia e le stragi infastidiscono Dell’Utri. In un’intercettazione, anticipata da La Repubblica, l’ex senatore manifestava irritazione contro gli approfondimenti di Giletti sui suoi rapporti con la mafia, per i quali è stato anche condannato a sette anni di carcere.

Gli investigatori della Dia scrivono: «Altra situazione che preoccupa Dell'Utri è la diffusione della puntata della trasmissione “Non è l'Arena” di Massimo Giletti, andata in onda il 10 giugno (2021, ndr), di cui si è parlato nella richiesta di cessazione a naturale scadenza delle attività tecniche a carico di Salvatore Baiardo», si legge nelle carte dell'indagine. Un altro riferimento a Baiardo, da cui è chiaro che esisteva all’epoca un intesa operazione di intercettazione sull’uomo dei Graviano. Ancora una volta inserito in una informativa sull’ex manager e senatore berlusconiano.

Siamo a giugno 2021, dunque. Dell’Utri a un pranzo parlava con l’avvocata di Mediaset, Enrica Maria Mascherpa, e con il tesoriere di Forza Italia, Alfredo Messina. Dell'Utri esprimeva la necessita di riabilitare, mediaticamente, la sua figura e costruire una strategia per difendere Berlusconi e le aziende, anche perché di lì a breve ci sarebbe stata la sentenza di secondo grado sulla trattativa stato-mafia, processo in cui Dell'Utri è stato assolto.

Tre mesi più tardi Dell’Utri ha rilasciato un’intervista affatto tenera nei confronti di Cairo pubblicata da Il Foglio: «Era un ragazzo sveglio, gli feci fare l’assistente personale di Berlusconi (…) Lui era, ed è ancora, un tipo assai rampante. E se posso, anche un pizzico irriconoscente. So bene che un editore bravo non interviene. Ci mancherebbe. Però, diamine, lui mi conosce. Come può pensare di me le cose che dicono in alcune sue trasmissioni? L’informazione è una cosa. L’accanimento è tutto un altro paio di maniche», diceva Dell'Utri.

L'ex senatore Messina ricorda il disappunto di Dell'Utri per le puntate di Giletti, tuttavia dice: «Io non ho chiamato Cairo, non saprei se lo ha fatto Dell'Utri. Di certo è stato nostro collaboratore, dipendente e assistente del presidente Berlusconi». Ora questi rapporti conditi dai riferimenti diretti espressi da Dell’Utri tornano di attualità con la decisione di chiudere “Non è L’Arena”.

Così dopo la testimonianza fornita da Giletti ai pm, un’ipotesi sembra farsi certezza: la possibile convocazione di Cairo per sentirlo come persona informata sui fatti in relazione al caso Giletti.

Contattati da Domani, l’ufficio stampa di La7 smentisce al momento una convocazione ufficiale. Dalla procura nessuna conferma e neppure nessuna smentita.

GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA

È inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.

Estratto dell'articolo di Giovanni Tizian e Nello Trocchia per editorialedomani.it il 29 aprile 2023.

Essere amico di Marcello Dell’Utri costa caro a Silvio Berlusconi. Questa è la prima certezza che emerge da alcuni documenti inediti e da decine di relazioni dell’antiriciclaggio lette da Domani. Materiale che permette di ricostruire i rapporti economici tra i due fondatori di Forza Italia, entrambi indagati a Firenze nell’indagine sulle stragi di mafia del 1993 tra il capoluogo toscano, Roma e Milano. 

Una tassa, quella Dell’Utri, che per Berlusconi era diventata insostenibile a tal punto da dover trovare un accordo che riequilibrasse questo flusso a senso unico, da Silvio a Marcello. Delle riunioni riservate c’è traccia nelle informative della Direzione investigativa antimafia fiorentina.

Incontri in cui è stato deciso il vitalizio mensile, elemento già emerso nei mesi scorsi. Ora con le nuove carte ottenute è possibile svelare come si è arrivati alla decisione di regolarizzare le donazioni a Dell’Utri, stabilendo la cifra di 30mila euro mensili, e chi sono i protagonisti di questa trattativa segreta, che coinvolge oltre a Berlusconi anche alcuni manager di Fininvest e il tesoriere di Forza Italia, Alfredo Messina. 

(...) 

Gli investigatori antimafia hanno documentato «una trattativa e una mediazione per raggiungere un accordo volto a definire, una volta per tutte, e sistematicamente, le somme di denaro che Berlusconi dovrà versare a Dell’Utri, situazione più volte sollecitata anche da Miranda Ratti (moglie dell’ex senatore, ndr)... Se in precedenza vi erano bonifici saltuari, di importo variabile, ora l’accordo ha stabilito definitivamente una somma mensile, alla quale si andranno ad aggiungere altre somme indirette, quali pagamenti per acquisto e ristrutturazione di immobili, per notule degli avvocati di Dell’Utri e situazioni simili».

A condurre questa «mediazione» e «trattativa» per conto di Berlusconi c’è Alfredo Messina, ex potente manager Fininvest, vicepresidente di Mediolanum e tesoriere di Forza Italia, con Maria Enrica Mascherpa, attuale direttore dell’Ufficio Legale di Fininvest e in un’occasione anche Nicolò Ghedini, lo storico avvocato del Cavaliere scomparso l’anno scorso. 

«Alfredo (Messina, ndr) mi ha chiamato che andava ad Arcore ... dove c’era Ghedini...che facevano la riunione e decretavano questa cosa mia ... perché dice che ci vuole il consenso», dice Dell’Utri intercettato, in attesa di ottenere una risposta sulla definizione del sostentamento di Berlusconi. Le riunioni più importanti in cui definiscono i contorni dell’accordo sono tre, tutte a inizio 2021: il 23 febbraio ad Arcore, il 28 febbraio e il 2 marzo negli uffici Fininvest. Nel mezzo e nelle settimane successive sono stati organizzati pranzi e cene alla presenza anche di Dell’Utri.

All’esito di di una di queste riunioni, negli uffici di Fininvest, le intercettazioni rivelano un ulteriore novità: «Trattandosi di cifre elevate, all’esito dell’incontro è stato richiesto a Dell’Utri di scrivere una lettera da recapitare a Silvio Berlusconi al fine di far autorizzare tutte le spese sopra evidenziate», è scritto nell’informativa della Dia. 

«Adesso gli faccio la lettera e gli mando anche un messaggio a parte», è il desiderio dell’ex senatore, che i detective spiegano così: «È intenzione di Dell’Utri accompagnare la lettera da un messaggio scritto separato. Inoltre, in occasione del prossimo incontro con Messina, nel corso del quale consegnerà la lettera e il biglietto manoscritto, Dell’Utri chiederà al predetto di chiamare al cellulare Berlusconi per poterci parlare». 

Arriviamo così all’11 maggio. È il giorno in cui il ragioniere Giuseppe Spinelli, contabile dei segreti finanziari di Berlusconi, ha ricevuto una mail da due manager di Fininvest, con il via libera all’operazione vitalizio per Dell’Utri. L’oggetto del messaggio di posta elettronica: «Lettera all’amico - risposta».

Il testo: «Gentile Dottor Dell’Utri, il Dottor Berlusconi mi ha dato disposizione di accreditare a Suo favore la somma di euro 30.000 mensili. Provvederemo quanto prima all’accredito della somma corrispondente al primo semestre 2021 e successivamente con cadenza semestrale anticipata. Voglia cortesemente farmi avere gli estremi del Suo Iban. Con i migliori saluti». Accordo raggiunto, quindi, e seguito passo passo dai vertici dell’ufficio legale del colosso aziendale della famiglia Berlusconi. 

«Berlusconi non abbandona mai gli amici», replica Messina, che sulle riunioni sostiene di non ricordare, ma di avere eseguito solo disposizioni. «I versamenti sono stati fatti sempre dai conti personali del presidente mai dall’azienda», specifica Messina, «30 mila euro, troppi? Chi riceve ha avuto un ruolo centrale nella crescita delle aziende con incarico di vertice in Publitalia». Nessun ricatto, perciò, solo enorme riconoscenza. 

Che sia andato tutto per il verso giusto per Dell’Utri emerge anche dai documenti dell’antiriciclaggio finora inediti. 

Una segnalazione di operazione sospetta con cui l’autorità di Banca d’Italia evidenzia anomalie finanziarie rivela la buona riuscita della trattativa: «Da analisi del rapporto sono emersi due bonifici, ciascuno di 90.000 euro, disposti a maggio e giugno 2021 da Silvio Berlusconi, entrambi recanti causale “Donazione di modico valore”. Il cliente ha chiesto l’emissione di una carta di credito che la filiale ha però negato e, a fine giugno, ha quindi richiesto di effettuare un bonifico di 10.000 euro direzionato su una carta prepagata a sé intestata, emessa da una società lituana, chiedendo contestualmente le credenziali per l’accesso all’home banking, onde poter gestire in autonomia il rapporto di conto corrente».

Entrambe le richieste, tuttavia, sono state negate dalla banca. Il segno dei tempi e dei processi, il cliente Dell’Utri non è più affidabile come un tempo.

DA PUBLITALIA A OGGI. Le indagini dell’antiriciclaggio sui milioni di Berlusconi versati a Dell’Utri. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 30 aprile 2023

Oltre a un vitalizio da 30mila euro al mese, Berlusconi ha elargito milioni di euro alla famiglia dell’ex senatore. La storia dei soldi dati dal pregiudicato alla banca di Verdini poi fallita. Il faro sui bonifici dei tempi delle stragi

Prima dell’accordo grazie al quale Marcello Dell’Utri ha beneficiato di un vitalizio mensile da 30mila euro al mese, Silvio Berlusconi ha elargito milioni di euro alla famiglia dell’ex senatore, condannato per collusione con la mafia. Domani ha svelato le riunioni e le trattative condotte per fare fronte alle continue richieste dell’ex senatore, cofondatore di Forza Italia ed ex manager del colosso televisivo.

Negoziati portati avanti da manager di Fininvest, da avvocati e dal tesoriere di Forza Italia, Alfredo Messina. Il patto economico è stato raggiunto nei primi mesi del 2021. Figlio di una vera e propria «trattativa», così la definiscono gli investigatori dell’antimafia nelle informative depositate nell’inchiesta di Firenze sulle stragi del 1993 condotta dai magistrati Luca Tescaroli e Luca Turco, nella quale sono indagati sia Berlusconi sia Dell’Utri per concorso in strage.

I documenti finora inediti dell’antiriciclaggio permettono di ricostruire nei dettagli questi flussi precedenti all’accordo, ritenuti sospetti anche perché disposti negli anni dei processi per collusione con la mafia di Dell’Utri. Decine di segnalazioni sul denaro che da Berlusconi sono approdati sui conti Dell’Utri e famiglia. Una montagna di denaro, che a partire dal 2011 arrivano al 2021. 

DEBITI E VERDINI

La segnalazione più rilevante è sugli 8 milioni di euro versati dal Cavaliere, Dell’Utri li utilizza in gran parte per effettuare bonifici e soprattutto per ripianare debiti con le banche. È il 2011. Tra i creditori c’era il Credito Fiorentino. Dei soldi ricevuti da Berlusconi, Dell’Utri usa 1,6 milioni per ridurre il debito con l’istituto allora presieduto da Dennis Verdini, altro fedelissimo finito in disgrazia. La banca è fallita l’anno successivo, nel 2012. Per il crack Verdini è stato condannato in via definitiva a sei anni.

Il 2012 è un altro periodo di grande generosità berlusconiana in un momento difficile per Dell’Utri, all’epoca ancora sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa. La segnalazione 2012 rileva «fondi di importo considerevole trasferiti da Berlusconi a Dell’Utri o a soggetti allo stesso riconducibili, presumibilmente nell’ambito della compravendita di un complesso immobiliare sito in Comune di Torno (CO) denominato “Villa Comalcione” ceduto da Dell’Utri a Berlusconi». In particolare, a marzo 2012, Berlusconi aveva disposto un bonifico di quasi 3 milioni in favore di Dell’Utri, titolare del conto nella banca di Verdini. Altri 15,7 milioni il Cavaliere li versa alla moglie dell’ex senatore. La donna con quella provvista effettuerà un giroconto su un suo conto nella Repubblica domenicana di 11 milioni, causale «per acquisto immobile».

IL CARCERE E LA YACHT

Nel 2016, Dell’Utri era in carcere per scontare la pena a sette anni per concorso esterno alla mafia, l’ex primo ministro versa a uno dei figli un milione di euro, usati da Dell’Utri junior per «pagare i legali del padre e somme ingenti per il noleggio di uno yacht di lusso». Lo stesso anno, segnala l’antiriciclaggio, sui conti della moglie dell’ex senatore Berlusconi invia 2 milioni di euro come «prestito infruttifero».

Nel 2017 sul conto della moglie di Dell’Utri i detective antiriciclaggio, oltre a segnalare operazioni su conti esteri, sottolineano un bonifico dell’ex presidente del consiglio di mezzo milione di euro. 

Il 2018 è l’anno della condanna in primo grado nel processo trattativa stato-mafia, Dell’Utri è poi stato assolto nei giorni scorsi in Cassazione. Quell’anno la moglie incassa da Berlusconi tre bonifici per un totale di 1,9 milioni, causale è sempre la solita: «Prestito infruttifero». Oltre 200mila servono per pagare uno degli avvocati di Dell’Utri.

Due mesi prima della sentenza di primo grado sulla trattativa stato-mafia, Berlusconi fa un altro regalo da 1,2 milioni alla moglie dell’amico imputato. A venti giorni dal verdetto palermitano un nuovo versamento sui conti della donna pari a 800mila euro: 300 li gira al figlio, il quale userà parte della provvista per un «finanziamento soci infruttifero» alla società di cui è azionista, la Finanziaria Cinema srl. Soltanto nel 2018, quindi, il capo di Forza Italia ha versato quasi 4 milioni ai Dell’Utri. 

LA CASA 

L’anno successivo, il 2019, l’antiriciclaggio segnala un altro movimento sospetto: un  bonifico da mezzo milione destinato alla consorte di Dell’Utri, proveniente dal solito Berlusconi. Tuttavia i detective di Banca d’Italia individuano anche una compravendita di una villa liberty in un quartiere di Milano da poco riqualificato, “il villaggio del sarto”. In pratica ad attirare l’attenzione è un atto preliminare di vendita tra i Dell’Utri e la società “Quartiere del sarto” il cui rappresentante legale è Simon Pietro Salini, dell’omonima famiglia di costruttori coinvolti nella progettazione del Ponte sullo Stretto, pallino di Berlusconi e riportato in auge da Matteo Salvini.

Il prezzo pattuito per la casa di pregio in centro a Milano è di 1,2 milioni di euro. Dai documenti letti risulta però che alla fine di dicembre 2019 l’atto è stato annullato e alla signora Dell’Utri ha ottenuto la restituzione di 200 mila euro versati come caparra. Poco dopo però Salini ha avuto una nuova offerta della stessa cifra. Il nuovo acquirente è l’immobiliare Dueville srl, tra gli azionisti diverse società, molte delle quali «riconducibili a Silvio Berlusconi», si legge nelle carte dell’antiriciclaggio.

Negli anni successivi, fino al 2021, il canovaccio si ripete fino al vitalizio concordato per l’ex senatore di 30mila euro al mese. Alla pensione d’oro offerta all’ex senatore vanno aggiunti altri benefit, come la ristrutturazione della casa della figlia.

ANNI NOVANTA

Nel fascicolo dell’inchiesta sulle stragi del 1993 c’è molto altro sulle origini dei rapporti economici tra Dell’Utri e Berlusconi. Sono stati allegati gli atti del processo di Torino scaturito dall’inchiesta su Publitalia e le fatture false con Fininvest. Dell’Utri era il principale imputato. Da quelle carte emergono dazioni di denaro extra ricevute dall’allora manager berlusconiano, principale artefice della nascita di Forza Italia. Berlusconi sentito come testimone in quel processo contro l’amico aveva confermato le elargizioni, dal canto suo Dell’Utri aveva dichiarato di aver ricevuto una somma intorno ai 5 miliardi di lire tra contante e valori mobiliari. 

Per l’antimafia sono regali importanti se contestualizzati al periodo in cui si concretizzano, «storicamente individuabile in quello delle stragi continentali, ma anche della nascita del partito di Forza Italia, dell’impegno politico di Silvio Berlusconi, del concorso di Dell’Utri nella nascita del partito e del suo ruolo nei rapporti tra Berlusconi e persone appartenenti alla mafia siciliana, e, non ultimo, tra il 18 e il 21 gennaio 1994, l’incontro al bar Doney, per arrivare all’arresto dei fratelli Graviano il 27 gennaio 1994». 

I Graviano sono i mafiosi stragisti attorno ai quali ruota l’inchiesta di Firenze e ai loro rapporti con Berlusconi e Dell’Utri. Secondo il pentito Gaspare Spatuzza, al bar Doney, Giuseppe Graviano gli disse che «avevano il paese nelle mani» grazie all’interlocuzione con Berlusconi e il loro compaesano Dell’Utri. 

LA CARTA DIMENTICATA

Per tutti questi motivi, secondo gli investigatori antimafia è rilevante anche un altro documento del processo Publitalia: si tratta della causa di lavoro che Dell’Utri ha mosso contro Fininvest nell’ottobre 1994 per demansionamento. Era l’anno d’oro della discesa in politica e della vittoria elettorale, Berlusconi e Dell’Utri erano una cosa sola. Ancora più strano quel che è accaduto il giorno stesso della presentazione della causa con una conciliazione tra i legali delle due parti  che riconosce a Dell’Utri un ammontare di tre miliardi e mezzo di lire «quale risarcimento del danno e incentivo all’esodo», somma più alta di quella chiesta dal fido sodale.

La causa di lavoro serviva a giustificare un’elargizione personale di Berlusconi a Dell’Utri «in modo legale», emerge dalla sentenza di Torino.

La conclusione degli inquirenti in una delle informative dell’inchiesta sulle stragi lega quelle dazioni del 1994 al mutato contesto di relazioni con la mafia: «L’appunto sequestrato (sui 3 miliardi e mezzo, ndr) è relativo al giugno 1994, la causa del lavoro è del fine ottobre dello stesso anno. Ancora una volta il 1994. Dopo l’arresto dei fratelli Graviano, il quadro dell’anno offre un dinamismo finanziario “intenso”, volto quasi a impostare nuovi andamenti, scevri dalla necessità di confrontarsi economicamente con una vecchia compagine mafiosa siciliana, verso la quale si era debitori al fine di instaurare affari economici legati al mondo dell’edilizia, ma per proporsi, anche per il tramite di nuovi contatti con la mafia, individuati da Dell’Utri, a cui va riconoscenza, non per consolidare gli affari immobiliari o televisivi, ma per acquistare, questa volta, potere politico». Ipotesi per chi indaga. Solo teoremi e fango come sostengono i fedelissimi del capo di Forza Italia. Per capire chi avrà ragione bisognerà attendere la fine dell’indagine di Firenze. 

GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA

Giovanni Tizian. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.

Nello Trocchia è inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.

Mario Mori ha confessato la “trattativa Stato-mafia”? Ecco perché è una bufala. L'ex Ros nel 1998 ha detto nella sua deposizione al processo di Firenze quello che già aveva riferito nel 1993 alla procura di Palermo. Ma non ha nulla a che fare con la tesi della "trattativa". Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 4 maggio 2023

Pur di non ammettere che la tesi giudiziaria è polverizzata, si cerca di confondere l’opinione pubblica sovrapponendo la “trattativa” (o meglio un bluff), quella intercorsa tra gli ex Ros e Vito Ciancimino (e riferita alla procura di Palermo già nel 1993, senza che giustamente i pubblici ministeri ravvisassero elementi “indicibili”) e la “Trattativa Stato- mafia” che racconta una storia totalmente diversa e smantellata con le assoluzioni definitive.

Prima di entrare nel merito della “confessione” dell’ex Ros Mario Mori, bisogna ripartire dai capi d’accusa che dettero l’avvio al processo Trattativa. È qui che si costruisce la storia – in seguito completamente sbugiardata dai fatti - raccontata dai pubblici ministeri palermitani di allora. Il capo A della richiesta di rinvio a giudizio indica l’esistenza, a partire dal 1992, di un articolato piano di attentati ordito dai vertici di Cosa nostra per “ricattare lo Stato” e costringerlo a ridimensionare l’azione di repressione e contrasto alle organizzazioni mafiose, la cui realizzazione avrebbe avuto inizio con l’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima per poi proseguire con la progettazione di omicidi e l’esecuzione di stragi. 

Secondo l’accusa, il proposito criminoso dei vertici mafiosi si sarebbe rafforzato in ragione della condotta tenuta da alcuni esponenti delle istituzioni preposte alla difesa della sicurezza interna e all’applicazione di misure repressive delle azioni criminali. Più precisamente, sulla base della tesi esplicitata dal pubblico ministero, in alternativa a una fisiologica repressione del crimine mafioso senza mediazione alcuna da parte degli organi pubblici competenti (forze dell’ordine, polizia giudiziaria, magistratura), alcuni pubblici ufficiali e alcuni esponenti politici di primo piano avrebbero attivato “canali di dialogo” con esponenti mafiosi, manifestatisi trasversalmente e in forme diverse nel circuito istituzionale a partire dall’estate del 1992. Il “dialogo” avrebbe avuto a oggetto la disponibilità a trattare sulla concessione di benefici penitenziari e sull’intervento penale in cambio della cessazione degli attentati. In altri termini gli atti di minaccia indicati dai Pm di Palermo, suscettibili di integrare l’ipotesi di reato cui all’art. 338 del codice penale (violenza o minaccia a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario), e materialmente attribuiti ai capi della organizzazione mafiosa, vengono connessi alle condotte degli ex Ros ed esponenti politici (più precisamente Calogero Mannino in qualità di ministro) che, agendo con abuso di potere e in violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione, hanno finito per rafforzare il proposito criminoso dei primi sempre pronti a rinnovare le minacce per ottenere quanto preteso, così integrando una ipotesi di concorso morale.

In sostanza, così come d’altronde si legge nella richiesta di rinvio a giudizio, la storia “Trattativa Stato-mafia” si svolge in questo modo: le ripetute minacce all’indirizzo dell’onorevole Mannino, a partire dal febbraio del 1992, sarebbero finalizzate a creare un “rapporto di interlocuzione nuovo” con il mondo politico, per la cura degli interessi finanziari e per contenere l’azione repressiva dello Stato, una volta che Cosa nostra ha deciso di eliminare alcuni referenti del passato quali l’onorevole Lima. Quindi cosa accade secondo questa narrazione meta- giudiziaria? Mannino, tramite l’allora capo dei Ros Antonio Subranni, ordinò l’avvio di questa trattativa per salvare la sua pelle. Gli ex ros Mori e De Donno si misero al servizio della politica instaurando il dialogo con Vito Ciancimino, che sfociò nella redazione di un documento proveniente da Riina, il cosiddetto “papello”, con una serie di richieste scritte sui benefici per la organizzazione mafiosa, relativi principalmente alla legislazione penale, in cambio della cessazione delle stragi. Documento fatto pervenire per il tramite di Antonino Cinà, uomo vicino a Riina.

Tutta questa narrazione è stata smantellata da varie sentenze definitive che hanno dovuto affrontare anche la storia della “trattativa Stato-mafia”: a partire da quella su Mannino il quale scelse il rito abbreviato, quella sulla cosiddetta mancata perquisizione del “covo” di Riina e la “Mori-Obinu” sulla presunta mancata cattura di Provenzano, fino all’esito giudiziario attuale sancito dalla Cassazione. Non è vero che Mannino dette l’input all’avvio della trattativa, non è vero che gli ex Ros hanno veicolato la minaccia al governo e non è vero che quest’ultimo si è piegato di fronte alle minacce. Nessun patto indicibile con la mafia.

Ma quindi Mori ha confessato tale “trattativa Stato- mafia”? Non ha confermato una sola virgola di questa narrazione. In questi giorni si ripesca la sua deposizione del 24 gennaio 1998 durante il processo di Firenze sulle stragi continentali del 1993. Si riporta in sostanza questo suo passo in merito ai contatti che ha avuto con don Vito: “Ma signor Ciancimino, ma cos’è questa storia qua? Ormai c’è muro, contro muro. Da una parte c’è Cosa nostra, dall’altra parte c’è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente?”. Ha confessato cosa? Sostanzialmente ciò che era già a conoscenza dalla procura di Palermo nel 1993, quando Ciancimino stesso fu sentito e messo al verbale tutto. Nulla che ha fatto sobbalzare i pubblici ministeri di allora. Nulla a che fare con la storia della “Trattativa Stato- mafia” narrata in seguito dalla pubblica accusa. E in che cosa è consistita? Mori stesso lo ribadisce in quella famosa deposizione che ora va di moda ripescarla. Fu un bluff. Ciancimino abboccò all’amo. Nel quarto incontro, infatti don Vito disse a Mori: “Quelli accettano la trattativa, le precondizioni sono che l’intermediario sono io e che la trattativa si svolga all’estero. Voi che offrite in cambio?”.

Ebbene, sempre Mori racconta che a quel punto non poteva più allargare il brodo, perché sapeva benissimo che quella manovra della trattativa fosse un escamotage per uscire dai domiciliari e rifugiarsi in sicurezza all’estero. E allora gli disse: “Beh, noi offriamo questo: i vari Rina, Provenzano e soci si costituiscano e lo Stato tratterà bene loro e le loro famiglie”. A quel punto Ciancimino si inalberò, comprese il bluff, e rispose: “Ma voi mi volete morto!?”. Un bluff che poi servì perché si aprì un varco: Ciancimino li ricontattatò per accettare di aiutarli ad arrivare a Riina e Provenzano, si propose di fare una specie di agente provocatore per inserirsi nel mondo degli appalti, voleva in cambio un aiuto per aggiustare la sua posizione giudiziaria, e propose di voler essere ascoltato in commissione antimafia. Non male. Ma tutto sfumò nel momento in cui Ciancimino fu – su segnalazione dell’allora guardasigilli Martelli – riportato in carcere di Rebibbia. Dopodiché decise in quale modo di continuare a collaborare. A quel punto Mori avvisò il neocapo procuratore di Palermo Giancarlo Caselli. Quest’ultimo e l’allora pm Ingroia, decisero di ascoltare Ciancimino. Ed è proprio quest’ultimo – precisamente parliamo del verbale datato 17 marzo 1993 - a raccontare di trattative, contatti con gli intermediari mafiosi a seguito del dialogo instaurato con i Ros. Parlò pure della proposta da lui considerata oscena che gli fece Mori: quella della resa, la consegna di Riina e Provenzano. Tutto. Ma non è la “trattativa Stato-mafia”, quella che poi verrà narrata in seguito al livello processuale. Altrimenti, Caselli stesso, persona indiscutibilmente seria ed integerrima, avrebbe subito inquisito Mori. Nessuna confessione. E ci vuole tanta disonestà intellettuale nel riproporre questa bufala ben sapendo che l’opinione pubblica non è a conoscenza di questi fondamentali dettagli. 

(ANSA il 4 maggio 2023) - L'avvocato di Silvio Berlusconi Giorgio Perroni ha annunciato che domani presenterà una denuncia contro la "ignobile e illegale fuga di notizie" riguardo le indagini della Procura di Firenze sulle stragi del 1993. 

"Ancora oggi - ha spiegato il legale - appaiono sul Fatto Quotidiano due articoli che riportano il contenuto di atti di indagine, coperti da segreto istruttorio, compiuti nel procedimento penale pendente dinanzi alla Procura della Repubblica di Firenze, PP.MM.

Tescaroli e Turco, nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. Addirittura, il giornalista afferma che è sua intenzione celebrare il trentennale dalle stragi del 1993 parlando dell'inchiesta fiorentina sui mandanti esterni con la pubblicazione di documenti inediti". 

Ma, ha sottolineato Perroni, "da almeno un quarto di secolo tutte le più insensate accuse di presunta mafiosità contro Silvio Berlusconi si sono sempre dimostrate false e strumentali, tant'è vero che ogni volta gli stessi inquirenti sono stati costretti a chiederne la archiviazione". Ed è "doveroso" ricordarlo".

"Di fronte a questa continua, incessante e calunniosa macchina del fango - ha concluso -, confermo che, come già anticipato, domani presenterò una denuncia alla Procura della Repubblica, chiedendo che i Magistrati si adoperino per individuare quanto prima i responsabili e far cessare questa ignobile ed illegale fuga di notizie".

Estratto dell’articolo di M.L. per "il Fatto quotidiano” il 4 maggio 2023.

Sono passati 30 anni dalle stragi del 1993. Il 14 maggio sarà il trentennale dell’autobomba esplosa in via Fauro vicino al Teatro Parioli, a Roma, al passaggio della Mercedes che portava a casa il conduttore tv Maurizio Costanzo insieme alla futura moglie, l’allora semisconosciuta Maria De Filippi. Seguirà nella notte tra 26 e 27 maggio la strage di via dei Georgofili, dietro agli Uffizi. […] 

Quindi, il 27 luglio, il doppio botto intorno alla mezzanotte: un’autobomba davanti al Pac di via Palestro a Milano uccide 5 persone, mentre altri due ordigni sfigurano (senza vittime) le basiliche di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano a Roma. Quella notte i centralini di Palazzo Chigi saltano e il premier Ciampi pensa al colpo di Stato.

[…] Tutto finisce con l’attentato fallito dell’Olimpico di Roma. Il 23 gennaio 1994, dopo Roma-Udinese, dovevano morire 100 carabinieri ma la Lancia Thema imbottita di tritolo non esplode per un guasto al telecomando. Il 27 gennaio 1994 vengono arrestati i boss Giuseppe e Filippo Graviano. Il giorno prima era sceso in campo Silvio Berlusconi che due mesi dopo vincerà le elezioni. La mafia non farà esplodere più nulla. Nemmeno un cassonetto. 

Nel disinteresse generale i pm di Firenze Luca Turco e Luca Tescaroli stanno cercando di capire perché le stragi sono iniziate e perché sono finite. Berlusconi e il fido Dell’Utri sono indagati per l’ipotesi di strage in concorso con i Graviano, ipotesi che gli interessati respingono ovviamente con sdegno.

La Procura di Firenze indaga da 27 anni a intermittenza sui fondatori di Forza Italia. L’inchiesta sui “mandanti esterni” (le uniche condanne per ora sono state inflitte solo a boss mafiosi) è stata aperta e chiusa già 4 volte su richiesta dei pm stessi. […] 

La commemorazione con la censura incorporata sulle indagini in corso non fa onore a nessuno. […] Una trasmissione televisiva ha osato avvicinarsi a questa inchiesta. Non è l’Arena si sarebbe occupata delle indagini sui rapporti triangolari tra Berlusconi, Dell’Utri e Cosa Nostra.

Massimo Giletti aveva chiesto a chi scrive di partecipare a una o più trasmissioni sull’inchiesta fiorentina, portando in tv il bagaglio di conoscenze mostrate sulle pagine del Fatto. Eravamo perplessi sul fatto che l’editore Cairo fosse d’accordo su una trasmissione certamente non gradita a Berlusconi e compagni. 

Giletti ci aveva rassicurato entrando persino nel dettaglio dei contenuti: le conversazioni intercettate e i milioni di euro da Berlusconi a Dell’Utri, gli antichi rapporti con la mafia di quest’ultimo. Il 12 aprile Giletti ci aveva scritto questo messaggio: “Poi ci dobbiamo vedere per pianificare...!”. Il giorno dopo Non è l’Arena è stata cancellata con una email di La7.

[…]

Estratto dell’articolo di Marco Lillo per "il Fatto quotidiano” il 4 maggio 2023.  

Secondo la Dia, Giuseppe Graviano nel 2016 avrebbe confidato al compagno di detenzione, Umberto Adinolfi, un segreto: la strage dello Stadio Olimpico, tentata e fallita dagli uomini dello stesso Graviano, il 23 gennaio 1994, gli sarebbe stata chiesta da Silvio Berlusconi. È solo un’ipotesi investigativa. Lo stesso Graviano, interrogato sul punto, non ha confermato la lettura data dalla Dia delle sue parole.

Però le ultime righe dell’informativa del 16 marzo 2022 di 72 pagine, firmata dal capo centro della Dia di Firenze, Francesco Nannucci, sono nette: “Si può affermare che la conversazione ambientale del 10 aprile 2016, oggetto di rivalutazione nel corso dell’odierna delega di indagine è riconducibile al contesto criminale relativo alla strage dell’Olimpico del 23 gennaio 1994, con il coinvolgimento di Silvio Berlusconi, per il tramite di Marcello Dell’Utri, quale diretto interessato alla sua realizzazione”.

Vediamo come la Dia arriva a queste conclusioni. Si parte dal video registrato il 10 aprile 2016 in cella ad Ascoli Piceno. Graviano parla con Adinolfi e le telecamere nascoste riprendono. “Graviano – scrive la Dia – fa alcuni riferimenti all’investimento di 20 miliardi di lire che il nonno e altre persone hanno effettuato nelle attività delle imprese riconducibili a Silvio Berlusconi”. Va detto subito che Berlusconi e Dell’Utri negano tutto e i legali parlano di accuse infondate e fantasiose. 

Graviano torna sul punto con i pm di Firenze il 20 novembre 2020: “Mio nonno portò me e Salvatore (cugino di Graviano, ndr) a Milano a incontrare Silvio Berlusconi. L’incontro avvenne all’Hotel Quark (…) con Berlusconi ho avuto un incontro anche nel 1985/1986, allorquando ero già latitante (...) sapeva che io ero latitante”.

Nell’informativa c’è spazio per la sentenza Dell’Utri: “I legami di Silvio Berlusconi con la mafia palermitana erano già noti sin dagli anni 70, come peraltro emerso nel processo palermitano a carico di Marcello Dell’Utri”, nel quale “venivano confermati i rapporti con Cosa Nostra almeno fino all’anno 1992”. Poi si torna al colloquio Graviano-Adinolfi. La Dia prosegue così: “Altro aspetto importante è il riferimento che Graviano fa al tentativo da parte di alcuni esponenti della politica siciliana del tempo, convenzionalmente definiti ‘i vecchi’, di far cessare le stragi”.

Per la Dia, Graviano si riferisce ad alcuni esponenti della vecchia Democrazia Cristiana “tra i quali il senatore Vincenzo Inzerillo, strettamente legato a Giuseppe Graviano”, poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo l’interpretazione data alle parole di Graviano dalla Dia, Inzerillo voleva far cessare le stragi a fine 1993 mentre, sempre per la Dia, Graviano sostiene che Berlusconi voleva farle proseguire. Tesi accusatorie tutte da provare che la Dia argomenta partendo dal video del 10 aprile 2016. 

Il boss di Brancaccio quando parla della “bella cosa” fa un gesto con la mano che per la Dia è una “mimica riconducibile a un evento esplosivo”. Lo fa quando corregge l’errore di comprensione del compagno di detenzione. “Adinolfi sembra convinto – scrive la Dia – che Silvio Berlusconi avesse anch’egli interagito con Giuseppe Graviano al fine far terminare il periodo stragista (“per bloccare l’azione”), ma al contrario, quest’ultimo prima risponde negativamente: “Noo!” e poi aggiunge: “Anzi meglio, anzi... lui mi disse, dice: ‘Ci volesse una bella cosa’”.

Secondo l’interpretazione della Dia, quindi, la “bella cosa” sarebbe l’attentato di cui Graviano parlò ai tavolini del bar Doney a Gaspare Spatuzza nel gennaio 1994 per chiedergli di dare ‘il colpo di grazia’ allo stadio Olimpico. 

[…] Per puntellare il ragionamento la Dia ricorda le dichiarazioni di due collaboratori di giustizia (Pietro Romeo e Giovanni Ciaramitaro) che nel 1995/96, parlarono, de relato, della confidenza riferita loro da Francesco Giuliano, un altro mafioso non pentito, sulla richiesta di Berlusconi di fare le stragi. Romeo già il 14 dicembre 1995 riferisce la confidenza di Giuliano sul fatto che c’era “un politico di Milano che aveva detto a Giuseppe Graviano di continuare a mettere bombe”.

Poi il 29 giugno 1996 Romeo precisa che il nome lo aveva appreso in un colloquio a tre con Spatuzza e Giuliano. Quando chiesero a Spatuzza, “se era Berlusconi la persona che c’era dietro gli attentati. Spatuzza aveva risposto di sì”. Giuseppe Graviano, però, sentito nel 2020 e nel 2021 dai pm di Firenze, ammette che si riferiva a Berlusconi solo quando parlava degli investimenti del nonno e della sua delusione per le leggi sul 41 bis. Ma a domanda specifica “Ci dica se Berlusconi è stato il mandante delle stragi?” il boss glissa: “Non lo so se è stato lui”. 

La Dia vede il bicchiere mezzo pieno: “Graviano non nega che Berlusconi sia stato il mandante, ma neanche lo ammette, prendendo una posizione interlocutoria”. E sottolinea che nel colloquio intercettato in cella del 14 marzo 2017 “è lo stesso Graviano che imputa a Silvio Berlusconi di essere il mandante delle stragi (...) ‘Tu mi stai facendo morire in galera... che sei tu l’autore... io ho aspettato senza tradirti...’” .

L’autore, inteso come autore delle stragi, è dunque l’interpretazione della Dia che non crede ai verbali più vaghi sul punto di Graviano. “In sede di contestazione da parte dei magistrati, Graviano, cercando di fornire un improbabile giustificazione, riconducendo il tutto alla mera questione relativa agli investimenti economici del nonno materno, di fatto forniva indirettamente la conferma che il mandante delle stragi era appunto Silvio Berlusconi. Infatti – prosegue la Dia – opportunamente incalzato sul punto, alla domanda del pm: ‘E che sei tu l’autore, l’autore di cosa?’, Graviano ribadiva con un laconico: ‘Non posso rispondere’, volendo, evidentemente, coprire, o non escludere, il possibile coinvolgimento di Berlusconi”.

Secondo la Dia “è chiaro, qualora ve ne fosse ancora bisogno, che Graviano ha inteso ‘coprire’ Berlusconi, non lo ha voluto tradire raccontando tutto quello che sa, sia nei rapporti con suo nonno e suo cugino, sia in rapporti ulteriori e diversi di cui Berlusconi era attore, ma che non ha voluto specificare. Il termine ‘tradire’, infatti, trova più giustificazione verso la rivelazione di un segreto che avrebbe certamente procurato un forte nocumento a Berlusconi, per qualcosa di cui quest’ultimo era ‘autore’, più che in un mancato rispetto di un patto economico che lo stesso avrebbe consolidato con il nonno di Giuseppe Graviano”. 

Per la Dia “sono stati raccolti sufficienti indizi per ritenere che i riferimenti di Graviano nel colloquio con Adinolfi, siano per il coinvolgimento di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri nella strage dell’Olimpico di Roma del 23.1.1994 e non per altri episodi, mai riscontrati. […] Accuse pesantissime che gli indagati smentiscono e che allo stato non sono dimostrate.

Narrazioni fantasiose dei Pm. Berlusconi, stop a ignobile macchina del fango. Il legale: “Presenterò denuncia contro il Fatto Quotidiano”. Giulio Pinco Caracciolo su Il Riformista il 4 Maggio 2023 

Il legale di Silvio Berlusconi, l’avvocato Giorgio Perroni spiega in una nota la volontà del suo assistito a presentare una denuncia alla Procura della Repubblica per la “continua, incessante e calunniosa macchina del fango contro il Cavaliere”.

Perroni sollecita i Magistrati affinché si adoperino “per individuare quanto prima i responsabili e far cessare questa ignobile ed illegale fuga di notizie”. Ancora oggi – prosegue il legale – “appaiono sul Fatto Quotidiano due articoli che riportano il contenuto di atti di indagine, coperti da segreto istruttorio, compiuti nel procedimento penale pendente dinanzi alla Procura della Repubblica di Firenze, PP.MM. Tescaroli e Turco, nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.”

L’avvocato di Berlusconi sottolinea che “addirittura, il giornalista afferma che è sua intenzione celebrare il trentennale dalle stragi del 1993 parlando dell’inchiesta fiorentina sui mandanti esterni con la pubblicazione di documenti inediti”. Secondo Perroni, tuttavia, “è, anzitutto, doveroso ricordare, ancora una volta, che da almeno un quarto di secolo tutte le più insensate accuse di presunta mafiosità contro Silvio Berlusconi si sono sempre dimostrate false e strumentali, tant’è vero che ogni volta gli stessi inquirenti sono stati costretti a chiederne la archiviazione”.

Solidale con Berlusconi anche il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri: “La clamorosa sentenza sulla presunta trattativa Stato-mafia evidentemente irrita gli inventori di teoremi. Da quel processo, dopo decenni, sono usciti a testa alta il generale Mori, il generale Subranni, il colonnello de Donno e lo stesso Marcello dell’Utri. Erano state inventate ricostruzioni incredibili. E ancora ne circolano in alcune procure. Io mi chiedo se il Ministro della Giustizia non debba disporre delle ispezioni anche in queste procure, che alimentano ricostruzioni che definire fantasiose vuol dire usare un termine fin troppo riduttivo.”

La mafia – conclude il senatore –  “è stata stroncata soprattutto dai governi di centrodestra. Che hanno reso permanente e poi irrobustito il 41 bis. Che hanno dato forza e fiducia ai reparti speciali delle Forze dell’Ordine, che hanno registrato risultati eclatanti. Questa è la verità della storia. Invece toghe rosse e toghe creative alimentano narrazioni smentite del resto dagli stessi tribunali o dalla Cassazione, che hanno avuto il coraggio di certificare la verità. Alcuni articoli poi rappresentano un penoso modo di alimentare campagne basate su teoremi inesistenti e irrispettosi della verità. Che squalificherebbero chi le sigla, se non fosse già sommerso da una montagna di fanfaluche che ha prodotto nel corso dei decenni”.  Giulio Pinco Caracciolo

Non è l'Arena, “intercettazioni su mafia, politica e imprese”. Retroscena sull'addio a Giletti. Il Tempo il 05 maggio 2023

Perché Non è l’Arena è stata chiusa? A quasi un mese dallo stop inaspettato della trasmissione domenicale di La7 condotta da Massimo Giletti arriva un nuovo articolo di retroscena sui motivi che hanno spinto Urbano Cairo a prendere tale decisione. “Seconda una fonte molto qualificata al centro dell’appuntamento (mai trasmesso) del 13 aprile scorso ci sarebbero state le intercettazioni su mafia, politica e imprese” la spiegazione che arriva dal sito Affari Italiani.

Che poi continua tracciando un quadro della situazione sul programma televisivo: “Sui rapporti, ad altissimi livelli, tra Cosa Nostra, politici di peso e sulle aziende che erano coinvolte da questa triangolazione malata. I nomi che circolano sono, d’altronde, di primissimo rilievo ed è perfino comprensibile che il rischio di toccare gangli imprescindibili della nostra vita pubblica fosse altissimo”. Nei giorni scorsi è circolata anche l’ipotesi che dietro al cartellino rosso sventolato in faccia a Giletti ci sia la vicenda che coinvolge Carlo Bertini, ex funzionario di Bankitalia che aveva denunciato lo scandalo dei diamanti: secondo il sito non è questo il motivo della chiusura di Non è l’Arena. 

Così i clan volevano sequestrare il figlio di Berlusconi: ecco l’audio del caso Giletti. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 19 aprile 2023

Massimo Giletti aveva in programma di mandare in onda alcuni audio su Silvio Berlusconi, i fratelli Graviano (i boss della mafia stragista) e le dichiarazioni di un gruppo di collaboratori si giustizia agli atti del processo ‘ndrangheta stragista istruito dalla procura antimafia di Reggio Calabria.

In particolare l’attenzione si era concentrata su due tracce che Domani può rivelare.

Tracce che riportano di attualità il filone sul quale la trasmissione stava provando a fare luce, quello che incrocia l’ex primo ministro, i fratelli Graviano e il generale, Francesco Delfino.

Massimo Giletti aveva in programma di mandare in onda alcuni audio di deposizioni del mafioso, Giuseppe Graviano, e di pentiti che parlavano di Silvio Berlusconi, materiale agli atti del processo ‘ndrangheta stragista istruito dalla procura antimafia di Reggio Calabria. Registrazioni di cui hai parlato sul Quotidiano del Sud il giornalista Paolo Orofino. 

In particolare l’attenzione si era concentrata su due tracce che Domani può rivelare. Tracce che riportano di attualità il filone sul quale la trasmissione stava provando a fare luce, quello che incrocia l’ex primo ministro, i fratelli Graviano e il generale, Francesco Delfino.

Nomi che sono i protagonisti della foto dei misteri, quella che ha provocato la rottura dei rapporti tra Salvatore Baiardo, pregiudicato per favoreggiamento degli stragisti Graviano, e Giletti.

L’esistenza di questa foto resta ancora un giallo, come ha raccontato Domani nella serie di articoli pubblicati nei giorni scorsi. Baiardo avrebbe mostrato lo scatto, che potrebbe essere la prova di un patto sporco, al conduttore senza rilasciargli copia.

Così Giletti ha raccontato tutto ai magistrati di Firenze che indagano sui mandanti esterni alle stragi sul continente del 1993, inchiesta che vede indagati Berlusconi e il fido, Marcello Dell’Utri, per concorso in strage (indagini analoghe sono già state aperte e chiuse). I protagonisti si difendono e parlano di una ricostruzione infamante.  

Dagli atti emerge che Baiardo ha più volte fatto riferimento all’esistenza di questa fotografia nei colloqui con Giletti, colloqui che gli investigatori hanno registrato per verificare la veridicità delle dichiarazioni del conduttore. 

GLI AUDIO DEL PENTITO

Gli audio, vista la cancellazione del programma, non saranno mai trasmessi su una televisione nazionale, sono stati mandati in onda da Lacnews24 nello speciale sul processo realizzato dal giornalista Pietro Comito. Queste registrazioni incrociano i protagonisti della foto che, nel caso esistesse, riscriverebbe la storia delle stragi e un pezzo di storia repubblicana. 

Partiamo dal primo audio, che vede protagonista Antonino Fiume, un collaboratore di giustizia di primo livello della ‘ndrangheta. Interrogato dal pubblico ministero, Giuseppe Lombardo, risponde a questa domanda: «Mi spiega meglio, questo fatto di non rapire il figlio di Berlusconi?». «I palermitani erano andati ad Africo, Peppe Morabito (boss di ‘ndrangheta, ndr) si era assunto la responsabilità perché i palermitani dicevano che gli fa dei regali e di non sequestrarlo, era un periodo che i sequestri c’era chi voleva farli e chi no, e Antonio Papalia l’aveva passata per novità questo discorso che il figlio di Berlusconi non si doveva toccare». Lo aveva mandato a dire Antonio Papalia che «il figlio di Berlusconi non si tocca». 

Papalia non è il nome qualunque non solo per il peso che ha avuto nella ‘ndrangheta, ma anche perché diversi collaboratori di giustizia indicano in rapporti con il generale Francesco Delfino. Il generale Delfino (o ex generale, poiché ha ingloriosamente concluso la sua carriera subendo l’onta della degradazione a soldato semplice), calabrese e originario di Platì, sarebbe uno dei protagonisti della foto dei misteri. Anche Delfino, ma dal punto di vista investigativo, si occupava di sequestri, nel suo caso per evitarli. 

«È emersa, in modo fin troppo evidente, la collocazione verticistica dei Papalia (e in primis di Domenico Papalia) e dei fratelli del generale Francesco Delfino nel panorama 'ndranghetistico e massonico», scrivono gli investigatori autori del rapporto ‘ndrangheta stragista.

«In quel quadro di analisi era stata, anche, evidenziata la posizione di Francesco Delfino, generale dell'Arma dei carabinieri, in un periodo in fuori ruolo presso il Sismi (i servizi segreti interni, ndr), originario di Platì (cuore della ‘ndrangheta) e attore, in più ricorrenze, di accadimenti criminali della massima importanza in questo procedimento», proseguono gli inquirenti.

Un capitolo dell’informativa è dedicato al potere dei Papalia e di uno dei parenti di Delfino su Buccinasco, provincia di Milano, feudo nordico della cosca, dove ancora oggi hanno una fortissima influenza.  

Nell’informativa agli atti del processo ‘ndrangheta stragista in cui i pubblici ministeri calabresi hanno dimostrato il ruolo delle cosche reggine nella strategia eversiva degli anni Novanta guidata da cosa nostra e Totò Riina, emerge più volte il nome di Delfino.

IL GENERALE E I PADRINI

Soprattutto per i suoi rapporti con il gotha della ‘ndrangheta, cioè i Papalia, che erano sovrani non solo in Calabria. Anzi, i fratelli Papalia erano considerati ai tempi i capi dei capi della mafia al nord, in particolare in Lombardia, dove all’epoca, come raccontato al pm Lombardo da diversi pentiti esisteva una sorta di “consorzio” unico delle tre mafie più potenti (camorra, ‘ndrangheta e cosa nostra) con Papalia a farla da padrone.

Proprio lì dove organizzava sequestri degli industriali e contemporaneamente interloquiva con la politica locale. 

Su Delfino oltre ai rapporti con i boss Papalia erano emersi i legami con un altro potente padrino di ‘ndrangheta, intimo dei Papalia: «Altro tema di interesse a queste indagini è la collocazione, nello scenario criminale che stiamo esplorando, di Giuseppe Nirta, soggetto legato - dalle risultanze giudiziarie note - al generale Francesco Delfino». Anche la famiglia Nirta, di San Luca (altro santuario della ‘ndrangheta) all’epoca coinvolta nei sequestri di persona. 

Delfino ha avuto un ruolo anche nella collaborazione di Balduccio Di Maggio, colui il quale porterà gli investigatori nel covo di Totò Riina. Come ha raccontato il nostro giornale abitavano tutti lì, fra il 1992 e il 1993. I fratelli Giuseppe e Filippo Graviano latitanti, il loro amico gelataio Salvatore Baiardo che li ospitava ad Omegna “con altre persone”, abitava lì anche il generale Francesco Delfino che aveva una villa a Meina, e a Borgomanero era stato catturato Balduccio Di Maggio. Un altro audio che sarebbe stato trasmesso durante la trasmissione è quello nel quale Giuseppe Graviano riferiva di aver investito, in particolare il nonno, nelle attività finanziarie di Silvio Berlusconi. Audio che resteranno sconosciuti al grande pubblico. 

GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA

Giovanni Tizian. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.

Nello Trocchia è inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.

Estratto dell'articolo di Marco Lillo per "il Fatto quotidiano” il 5 maggio 2023. 

Nell'informativa del 16 marzo 2022 della Dia di Firenze confluita nel fascicolo recentemente riaperto nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri con l'ipotesi tutta da riscontrare di avere avuto un ruolo di 'mandanti esterni' nelle stragi di Milano e Firenze e negli attentati di Roma del 1993-94, c'è una pagina dedicata alla 'compresenza' di Marcello dell'Utri e dei boss della mafia Giuseppe e Filippo Graviano nelle stesse zone nel 1993-94. 

A pagina 40 dell'informativa di 72 pagine […] la Dia scrive, riferendosi alle vecchie indagini svolte già nel 2010: “La disamina permise di poter accertare la compresenza nei medesimi luoghi di Graviano, Dell'Utri e Tranchina (Fabio Tranchina, faceva l'autista di Graviano e poi è divenuto collaboratore di giustizia, Ndr), nonché i seguenti e ulteriori elementi”.

Segue un elenco con incroci telefonici, date e luoghi sparsi per l'Italia. Un elenco si badi bene non di incontri provati (tra Graviano e Dell'Utri) ma di spunti investigativi derivanti dall'analisi delle celle telefoniche dei ripetitori agganciati dai cellulari nonché dalle agende e dalle testimonianze raccolte. 

Berlusconi e Dell’Utri hanno sempre negato qualsiasi rapporto con i Graviano. Precisiamo subito quindi che stiamo parlando di spunti investigativi. Vale come sempre la presunzione di innocenza sopratutto in questo caso visto che si tratta di indagini per fatti gravissimi di 30 anni fa e che già in passato inchieste sulle medesime accuse sono state chiuse con archiviazioni. L'analisi delle celle telefoniche di Dell'Utri e dei favoreggiatori di Graviano non fu considerata decisiva già 12 anni fa. Tanto che Berlusconi e Dell'Utri furono archiviati su richiesta degli stessi pm fiorentini.

Ora quelle analisi però sono state rispolverate e messe in relazione con i nuovi elementi emersi nell'informativa del 16 marzo 2022 che conclude così: “Vi è infatti il fondato motivo di credere che Silvio Berlusconi, tramite la mediazione di Marcello Dell'Utri e di altre persone allo stato ignote, abbia intrattenuto nel tempo rapporti con esponenti di spicco della mafia siciliana, per ultimo Giuseppe Graviano, per garantirsi inizialmente fondi volti ad effettuare gli investimenti, che poi gli hanno consentito di creare il suo impero economico, e poi, per quanto strettamente d'interesse, la sua ascesa in politica del 1994, facendo veicolare i voti dell'allora costituendo movimento politico Sicilia Libera nel neonato partito Forza: Italia di cui Berlusconi era il leader”.

L'informativa del 16 marzo 2022 è un atto che non è stato depositato nel procedimento principale su Berlusconi e Dell'Utri […] ma in quello incidentale sulle perquisizioni ai fratelli di Giuseppe Graviano, non indagati. […] 

Ma qual è il senso del lavoro della DIA? Gli investigatori sanno che Fabio Tranchina e Salvatore Baiardo, condannato per favoreggiamento nel 1997, accompagnavano Giuseppe Graviano e talvolta anche il fratello Filippo nei primi anni novanta. Sanno anche che, quando i boss sono stati arrestati a Milano il 27 gennaio 1994, i Carabinieri sequestrarono un cellulare intestato a un tal Costantino Taormina, incensurato.

Incrociando i tabulati telefonici con le celle agganciate dai cellulari di Baiardo, Tranchina e Taormina con quelli dei telefonini di Marcello Dell'Utri e dei suoi accompagnatori gli investigatori hanno trovato elementi per ipotizzare dei luoghi e delle date di quelle che la Dia chiama 'compresenze', cioé volgarizzando possibili e ipotetici (ripetiamolo solo ipotetici) incontri tra il boss e il manager di Publitalia nonché futuro senatore, proprio nel periodo in cui Giuseppe Graviano ordiva il suo piano stragista e Silvio Berlusconi preparava la sua discesa in campo. 

Il periodo chiave è quello del 1993-1994. Scrive il capocentro della Dia di Firenze Francesco Nannucci a marzo 2022 ricordando l'evoluzione delle vecchie indagini “sulla base degli elementi segnalati nella nota prot. 6246 del 15/10/2010, allegata all'informativa del 2018, nella quale era stato rendicontato l'esito dei riscontri sugli spostamenti dei fratelli Graviano nel periodo delle stragi, e la compresenza dei due loro favoreggiatori, ovvero Fabio Tranchina e Salvatore Baiardo, nei medesimi luoghi frequentati dai fratelli Graviano.

Per completezza di indagine, venne altresì effettuata un'analisi del materiale in possesso agli investigatori, rendicontata nella nota n.7762 del 17.12.2010 , concernente pregresse attività di polizia giudiziaria espletate a carico di (…) e Marcello Dell'Utri. La disamina permise di poter accertare la compresenza nei medesimi luoghi di Graviano, Dell'Utri e Tranchina, nonché i seguenti e ulteriori elementi”. 

Seguono una serie di punti. Qui ne riportiamo alcuni: “(…) Compresenza Dell'Utri-Graviano a Venezia in occasione del carnevale 1993;Possibile spostamento in Toscana di Dell'Utri il 27.04.1993 compatibile con la presenza a Firenze dei Graviano ivi prelevati da Tranchina, il giorno 29.04.1993;(...)Compresenza su Roma il giorno 08.08. 1993 di Dell'Utri Marcello - Ratti Miranda (la moglie ovviamente estranea all’indagine, Ndr) e Graviano Giuseppe ivi accompagnato da Tranchina; […] Presenza di Dell'Utri Marcello, il giorno 18.01.1994, presso l'Hotel "Majestic'' di Roma insieme a funzionari e collaboratori di Publitalia 80 Spa, in periodo coincidente con l'incontro tra Graviano e Spatuzza al Bar Doney a Roma e con la strage dell'Olimpico, che doveva compiersi il 23.01.1994 in danno dei Carabinieri”. 

A difesa di Dell'Utri va detto che a tutti può capitare di trovarsi con il telefonino acceso nella stessa zona in cui si trova un boss sconosciuto e che un tempo le celle telefoniche erano molto più ampie di adesso. 

[…] Cerchiamo di spiegare perché la Dia segnala queste 'compresenze', sparse per l'Italia in un periodo delicato sul fronte politico e stragista. La prima 'compresenza' segnalata è quella del Carnevale di Venezia del 1993. I fratelli Graviano insieme al loro braccio destro Cesare Lupo e alle rispettive consorti alloggiavano in un palazzetto affittato dal loro favoreggiatore Salvatore Baiardo. 

Quell'anno il Carnevale era organizzato dalla società del gruppo Fininvest 'Grandi Eventi Publitalia 80'. Il cellulare di Baiardo il 21 febbraio alle 13 e 42 fa una telefonata di un minuto e mezzo al centralino del comitato organizzatore che faceva capo alla società suddetta.

[…] La Dia però ritiene che anche Marcello Dell’Utri fosse a Venezia nei giorni in cui c'erano i Graviano perché sull'agenda dell'ex senatore in quei giorni c'è scritto ‘Venezia’ e un testimone ricorda di averlo visto. Ciò non prova comunque che, anche ove fossero stati nello stesso luogo, Marcello Dell'Utri e i Graviano si siano incontrati. 

[…].Andiamo ora a Roma. La Dia nelle sue precedenti informative segnalava la presenza a Roma di un telefonino di Marcello Dell'Utri che agganciava la cella 06 in data 8 agosto mentre il giorno prima e quello seguente si trovava in Sardegna. La Dia annota che anche il cellulare di Fabio Tranchina, allora autista di Giuseppe Graviano, l'8 agosto intorno alle 12 e 30 aggancia la cella telefonica 06. Di qui probabilmente nell’informativa dello scorso anno si legge della possibile “Compresenza su Roma il giorno 08.08.1993 di Dell'Utri Marcello - Ratti Miranda e Graviano Giuseppe ivi accompagnato da Tranchina”. Dal 31 agosto 1993 invece il cellulare di Fabio Tranchina, fino al 5 settembre 1993, aggancia la cella 070 corrispondente alla Sardegna.

La Dia nei tabulati telefonici dei telefonini in uso a Dell'Utri trova chiamate sulla cella telefonica sarda a fine agosto e anche il 2 settembre.Sono quelli momenti decisivi perché, come ha raccontato Gianni Letta al processo Dell’Utri, a fine agosto del 1993 in Sardegna, a Villa Certosa, per la prima volta Berlusconi gli parlò della sua intenzione di scendere in politica.

Letta e Confalonieri erano contrari mentre, ha raccontato l’ex sottosegretario, Dell’Utri era favorevole.Un cellulare di Publitalia che secondo la Dia era in uso a Marcello Dell'Utri inoltre aggancia la cella di Padova-Venezia il primo ottobre e per questa ragione la Dia segnala una possibile compresenza con i Graviano. Secondo le inchieste sul loro favoreggiatore Antonino Vallone, infatti, i Graviano in quei primi giorni di ottobre erano latitanti ad Abano Terme.

Ovviamente potrebbero essere tutte coincidenze fortuite. Come anche la presenza a Roma di Marcello Dell'Utri all'hotel Majestic di via Veneto il 18 gennaio 1994. Una data vicina a quella in cui si è svolto l'incontro tra Giuseppe Graviano e Gaspare Spatuzza a poche centinaia di metri di distanza, al Bar Doney. In quell’incontro, secondo Spatuzza, Graviano avrebbe parlato dei suoi rapporti con Berlusconi e Dell'Utri. Giuseppe Graviano è già stato condannato per le stragi in 'Continente' con gli altri boss non collabora con la giustizia e si professa innocente. Ha fatto dichiarazioni imbarazzanti per Silvio Berlusconi, mai per Dell'Utri.

L'ex senatore è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa ma solo per i suoi rapporti con i mafiosi fino al 1992. Secondo l’informativa Dia del 16 marzo 2022 “tale attività investigativa permise di cristallizzare la presenza di Dell'Utri in Roma nei giorni tra il 17 e il 21 gennaio 1994, ovvero negli stessi giorni in cui vi èra la presenza di Giuseppe Graviano e Gaspare Spatuzza per la preparazione della strage all'Olimpico con il loro incontro al Bar "Doney" di Via Veneto, in cui Graviano disse a Spatuzza·la frase 'abbiamo il paese nelle mani'”, introducendo poi i nomi di Berlusconi e Dell'Utri”. Quando però i pm di Firenze il primo aprile 2021 vanno a interrogare Giuseppe Graviano lui rimane fermo sul punto: “vi posso assicurare che io il signor Dell'Utri non lo conosco”.

Crolla la Trattativa Stato-mafia, ma la procura di Firenze riesuma un altro teorema. Per la quinta volta si tenta di far decollare l’inchiesta sulle stragi continentali con Berlusconi e Dell’Utri mandanti. Forse i pm hanno trovato il loro “Ciancimino”: Salvatore Baiardo. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 28 aprile 2023

Crollato miseramente il teorema della (non) Trattativa Stato-mafia, rimane in piedi ancora l’asso nella manica, quella che permette di perdere altri anni di risorse. Una carta che vede come mandanti delle stragi Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, la quale ha sempre viaggiato parallelamente alla tesi trattativa. Anche se va in antitesi con essa.

Tale tesi della procura di Firenze non ha mai dato sbocco a un rinvio a giudizio. Puntualmente archiviata per mancanza di prove. Anche l’inchiesta trattativa fu inizialmente archiviata. Nel 2004, infatti, i pm di Palermo chiesero l’archiviazione a causa della non poca confusione dei risultati probatori raggiunti. Ma poi entrò in scena Massimo Ciancimino, colui che – ricordiamo ancora una volta – poi sarà condannato per calunnia, il “papello” da lui consegnato e dichiarato falso. L’inchiesta a quel punto venne riaperta nel 2008. Sarà grazie a Ciancimino jr. che le indagini furono estese nei confronti degli ex Ros e anche di Calogero Mannino. Grazie a Ciancimino - in quel frangente elevato a icona antimafia -, questa volta il terzo tentativo andò a buon segno: fu così possibile imbastire il processo trattativa.

Ebbene, dopo ben cinque tentativi, ora la procura di Firenze, per quanto riguarda la tesi di Berlusconi e Dell’Utri come mandanti esterni, potrebbe avere il suo “Ciancimino”. Parliamo di Salvatore Baiardo, riesumato per la prima volta dalla trasmissione Report. Tra sorrisini e ammiccamenti, ha affermato di aver visto le fotocopie della famosa agenda rossa di Borsellino in mano a diversi boss, da Graviano fino a Matteo Messina Denaro. Qualche settimana fa, attraverso Tik Tok (sic!), ha smentito quelle affermazioni dicendo chiaramente di aver trollato i giornalisti di Report. Ma pare che abbia trollato anche l’ignaro Massimo Giletti, conduttore di Non è L’arena, facendogli mostrare da lontano, e per pochi secondi, una foto dove a detta ci sarebbe ritratto Berlusconi, Graviano e il generale Francesco Delfino. Tutti e tre appassionatamente in un bar, a bella vista di tutti, sulle sponde del Lago d'Orta, in Piemonte. E proprio grazie a questa presunta foto, mai trovata con le perquisizioni disposte dalla procura, che i pm fiorentini hanno potuto riaprire per la quinta volta l’inchiesta.

Questo procedimento giudiziario, che indaga sulle stragi continentali del 1993, è un mix tra la vecchia inchiesta “sistemi criminali” condotta dagli ex pm palermitani Ingroia e Scarpinato archiviata nel 2000, e quella dove si riesuma l’ipotesi di personaggi esterni alla mafia che avrebbero partecipato agli attentati. Primeggia la vicenda della presenza delle “donne bionde”. In sostanza, si tratta di una specie di terzo livello composto da massoni, imprenditori, P2 e mafie di vario genere che avrebbero dato l’avvio alle stragi per destabilizzare la vita democratica nel nostro Paese. Un teorema che in realtà affiorava già ai tempi di Giovanni Falcone, visto che lui stesso – anche dopo aver vagliato la questione Gladio - l’ha stigmatizzato in tutte le occasioni.

Il teorema della procura di Firenze, come detto, confligge con quello della trattativa. Basterebbe un po’ di logica, che poi è quella che ritroviamo nella sentenza d’appello sulla trattativa che ha assolto con formula piena Marcello Dell’Utri. Secondo il teorema, l’ex senatore sarebbe stato colui che ha veicolato la minaccia mafiosa al governo Berlusconi. Cosa non torna? Secondo l’altra tesi giudiziaria, invece l’ex presidente del Consiglio sarebbe arrivato al governo grazie alle stragi e all’appoggio di Cosa nostra. E allora che bisogno c’era di minacciare?

Così come è difficilissimo trovare una logica nella tesi di Berlusconi e Dell’Utri come mandanti. Pensare che i boss corleonesi prendessero ordini da persone completamente estranee, vuol dire che Falcone non ci ha capito nulla di mafia. Ovviamente, non può essere. Parliamo di un giudice che aveva una mente talmente geniale, che lo stesso Riina l’ha annichilito per farlo soprattutto smettere di pensare. Per capire che si tratta di un’ipotesi che rasenta il fallimento logico, basterebbe attenersi ai fatti. Nel biennio delle stragi del ’92 e ’93, ancora non era nata Forza Italia. Berlusconi non poteva, come ha detto anche Riina nelle intercettazioni, essere avvicinato visto che non aveva nessun potere politico. «Era solo una palazzinaro!», ha detto Riina in 41bis. L’unico contatto era il pagamento del cosiddetto “pizzo”. Lo stesso Riina parla della minaccia di attentati alla ex Standa e ai ripetitori televisivi in Sicilia.

Non solo. Durante il processo Borsellino Ter, sia Giovanni Brusca che Angelo Siino e Tullio Cannella, hanno parlato di un consistente sostegno di voti fornito da Cosa nostra al partito di Forza Italia creato da Berlusconi in occasione delle elezioni politiche del 1994. Sostegno offerto nella prospettiva di ottenere consistenti modifiche anche legislative nel senso auspicato dall’organizzazione mafiosa (cosa mai realizzata, tra l’altro), ma nessuno di loro ha fatto riferimento a contatti tra quell’organizzazione e Berlusconi già nel 1992 nell’ambito della ricerca di nuovi referenti politici. Anzi, le dichiarazioni rese dai predetti pentiti sono state assai puntuali nel far riferimento al tentativo di Cosa nostra nel corso del 1993 di promuovere la nascita in Sicilia di un movimento politico indipendentista, una sorta di Lega del Sud, che si affiancasse a quella del Nord nel richiedere la creazione di una federazione di Stati che sostituissero quello unitario. Solo agli inizi del 1994, invece, tale progetto sarebbe stato accantonato per sostenere la nuova formazione politica promossa da Berlusconi. Ma sappiamo pure come è andata. La stessa Forza Italia si è poi separata dalla coalizione con la Lega Nord, da quel movimento, cioè, il cui collante - stando alle emergenze sulle leghe meridionali - avrebbe dovuto essere proprio il collegamento con Cosa nostra. Sappiamo che il governo presieduto da Berlusconi, cadrà dopo pochi mesi. Il fallimento logico del teorema che vede Berlusconi e Dell’Utri come mandanti delle stragi è evidente.

Pronta ennesima inchiesta per lee stragi del '93. Foto fantasma di Baiardo mostrata a Giletti, scatta nuova caccia a Dell’Utri. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 25 Aprile 2023

L’attesa messianica è per il 27, cioè tra due giorni. Quando la Corte di cassazione dirà forse la parola definitiva sul processo “Trattativa”. E su Marcello Dell’Utri, per il quale il pg ha chiesto la conferma dell’assoluzione, già definita nella sentenza di appello. La richiesta è del 14 aprile. L’ex presidente di Publitalia avrà appena fatto in tempo quel giorno a tirare un piccolo sospiro di sollievo e aprirsi alla speranza. Ma ancora non conosceva la sorpresa del giorno dopo.

Perché, va da sé, se non hai commesso un attentato contro corpi dello Stato, almeno avrai messo delle bombe mafiose. Che importa se ti hanno già archiviato tre-quattro volte? Ecco quindi quel giorno la pubblicazione di un verbale di perquisizione fatta nella casa di Salvatore Baiardo, uno scaltro giocatore di poker mezzo mafioso, con la ricerca di una foto misteriosa e forse inesistente. E la notizia di una nuova inchiesta che ti vede ancora, e ancora e ancora, indagato per strage insieme al tuo amico Silvio Berlusconi. Dell’Utri nella presunta foto non dovrebbe neanche esserci, ma che importa? Lo iscrivono ugualmente nel registro degli indagati.

I pubblici ministeri di Firenze Luca Turco e Luca Tescaroli, ecco la notizia del 15 aprile, hanno chiuso il 31 dicembre 2022, a termini scaduti, la quarta inchiesta contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell’ Utri come mandanti delle bombe del 1993. Con una richiesta di archiviazione, si suppone, come le tre precedenti, dopo esser andati a caccia di fantasmi. Ma pronti ad aprire la quinta, secondo quanto riportato dall’house organ delle procure. Quella che porta le impronte digitali del conduttore tv Massimo Giletti e del suo ospite fisso Baiardo e di una fotografia di cui non si sa se esista, né dove sia né da chi sia stata scattata né quando né che vi sia ritratto, perché è piccola e buia. Il pataccaro amico dei boss di Cosa Nostra Filippo e Giuseppe Graviano dice che uno dei protagonisti, ripreso insieme a uno dei due fratelli, sarebbe Berlusconi, e l’altro il generale dei carabinieri Francesco Delfino, deceduto nel 2014, quindi inservibile come testimone.

Ecco la “notitia criminis”, quella che avrebbe fatto aprire la quinta inchiesta sulle stragi. Bravo Giletti, hai fatto il tuo dovere di cittadino. E cattivi (complici?) quelli che ti hanno tolto la trasmissione. Perché tutto sarebbe partito da lì, dalle deposizioni, ormai tre, dell’ex conduttore di “Non è l’Arena” ai pm di Firenze, i due Luca, di cui non si riesce più a capire dove finisca l’ingenuità e dove cominci l’ossessione. Perché di Salvatore Baiardo è appurata anche in diverse sedi giudiziarie la totale inattendibilità. Bravo giocatore di poker, indubbiamente, capace di alludere e sfottere. E anche di illudere il giornalista vanesio di aver pronto, nelle mani tenute dietro la schiena come per fare la sorpresa al bambino, lo scoop del secolo. Del resto, non era stato questo mezzo mafioso a “prevedere” l’imminente arresto di Matteo Messina Denaro?

Anche in quel caso alludendo sapientemente a una possibile “trattativa” tra Stato (procura di Palermo?) e mafia? E non è sempre lui a gettare ombre sugli arresti di Riina e Provenzano, e sui pentiti Spatuzza e Balduccio Di Maggio? Nell’attesa di capire se anche i due Luca di Firenze, come già tanti loro colleghi, in particolare di Sicilia, ma ultimamente anche di Calabria con il processo “ ’Ndrangheta stragista”, intendano farsi storiografi, al centro della scena è ormai Massimo Giletti. Che ha rubato i riflettori al gelataio di Omegna. E’ stato lui a coprirsi le spalle (con i mafiosi non si scherza), andando dai magistrati di Firenze, proprio nei giorni in cui si stava chiudendo con un nulla di fatto la quarta indagine sui mandanti delle stragi del 1993. La scadenza dell’inchiesta era fissata in modo inderogabile per la fine dell’anno.

Giletti si è presentato in procura il 19 dicembre 2022, e poi il 23 febbraio 2023. Ha raccontato la storia della foto, una foto che “ove esistente”, riporta Marco Lillo sul Fatto riferendo le parole dei magistrati, potrebbe essere “la prova dei rapporti tra il boss Graviano e Berlusconi prima dell’arresto di quest’ultimo”. L’arresto di Berlusconi? La gaffe esprime il sogno dei pm o del giornalista? Ma non c’è solo quella vecchia polaroid, nel racconto di Giletti. Si parla anche del processo “Trattativa”. Si, sempre quello, l’incubo di tutti i professionisti dell’antimafia. Perché Baiardo avrebbe detto al conduttore di La7 di avere un documento fondamentale. Che, come accade nei film gialli, si sarebbe poi dovuto distruggere. Naturalmente anche questo foglio, così come la foto, non c’è. Ma i due Luca ritengono Giletti sincero, e sicuramente lo è.

Lo sentono due volte, poi decidono di far perquisire la casa di Baiardo, ma solo dopo aver video-ripreso e intercettato il conduttore tv mentre parla della foto con Baiardo. E’ la prova della sua attendibilità. Quindi emettono il famoso decreto di perquisizione, firmato da un gip il 23 marzo, pubblicato dal Fatto il 15 aprile, due giorni dopo la sospensione della trasmissione di Giletti e il giorno successivo le richieste del pg della cassazione al processo “Trattativa”, in cui viene richiesta di nuovo l’assoluzione di Dell’Utri “perché il fatto non sussiste”. Ovviamente la foto non c’è, e neanche il documento fondamentale sulla “trattativa”. Forse sarà stato già bruciato, magari insieme alla polaroid. Si arriva così al terzo interrogatorio di Giletti. I magistrati vogliono sapere perché l’editore Cairo gli abbia sospeso la trasmissione, forse gli suggeriscono di non partecipare alla maratona di Mentana, che infatti viene sospesa.

E lui, all’uscita dalla procura, con sapiente regia lancia una frase così ambigua che pare scritta da Salvatore Baiardo: “Ci sono vicende che non si possono risolvere all’interno di uno studio televisivo, vanno affrontate nei luoghi deputati, cioè gli uffici di un’azienda, altrimenti si rischia di finire in un’aula di tribunale”. Probabile che parli semplicemente del proprio contratto aziendale, che scade alla fine di giugno, e che il “tribunale” sia un’aula di processo civile, non penale. Ma ha imparato anche a lui a dire e non dire, alludere e lasciar intendere, proprio come il suo ospite fisso Baiardo. Così tutti ritengono stia parlando di mafia e non di “piccioli”, o del proprio vincolo di riservatezza rispetto all’azienda. Prodigi della comunicazione! In attesa del 27 e della sentenza sulla “trattativa”.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

«Incontrai Berlusconi a Milano 3». I pm trovano la casa del boss. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 05 maggio 2023

I magistrati antimafia di Firenze hanno setacciato le palazzine del complesso realizzato dall’ex premier.

Milano 3 è stato l’ultimo sogno edilizio realizzato da Silvio Berlusconi con la sua società immobiliare Edilnord.

Un appartamento sospetto corrisponde alla descrizione fatta da Graviano: al tempo era in uso a un mafioso.

Milano 3 è stato l’ultimo sogno edilizio realizzato da Silvio Berlusconi con la sua società immobiliare Edilnord. Ed è tra queste palazzine, immerse nel verde, realizzate tra il 1980 e il 1991, che è ambientato l’ultimo grande mistero delle stragi di mafia del 1993: l’incontro presunto tra il boss stragista Giuseppe Graviano e Silvio Berlusconi, raccontato per la prima volta dal mafioso durante un’udienza del processo sulla presunta ‘ndrangheta stragista a Reggio Calabria, in cui era imputato proprio Graviano.

Le stragi di 30 anni fa sono iniziate il 14 maggio con l’attentato a Maurizio Costanzo e sono proseguite fino al gennaio successivo con la bomba inesplosa allo stadio Olimpico: nel mezzo i morti di Firenze di via Georgofili e le bombe a Milano e Roma. Sugli esecutori ci sono ormai pochi dubbi, i mafiosi di cosa nostra, tra loro Giuseppe Graviano. La procura di Firenze, però, oggi punta a individuare i mandanti occulti del tritolo piazzato per colpire il patrimonio artistico italiano.

I pm Luca Tescaroli e Luca Turco indagano da alcuni anni sul livello politico del terrorismo mafioso e hanno iscritto nel registro degli indagati Berlusconi e Marcello Dell’Utri. La direzione investigativa antimafia di Firenze ha prodotto diverse informative ricche di informazioni e riscontri alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e soprattutto del boss mai pentito Graviano, il quale gioca su più tavoli e, pur mostrando chiusura a qualunque tipo di collaborazione, ha parlato in alcune occasioni del suo rapporto privilegiato con Berlusconi tra gli anni Ottanta e Novanta, a cavallo delle stragi del ‘93.

È stato lui a riferire dell’incontro con il Cavaliere in un appartamento di Milano 3. Se il randez vous fosse provato, confermerebbe i sospetti di un patto tra il fondatore di Forza Italia e la mafia palermitana. I legali di Berlusconi hanno bollato queste ricostruzioni come fantasiose e infamanti, e si dicono pronti a difendere l’onore del loro assistito nelle sedi opportune.

L’APPARTAMENTO SEGRETO

Per riscontrare le parole di Graviano il primo passo compiuto dai detective – scopre ora Domani – è stato quello di setacciare il complesso residenziale di Milano 3, un elemento che emerge dagli atti depositati. Seguendo la descrizione molto generica del padrino di mafia.

L’appartamento era «ubicato a Milano 3»; «era un appartamento piccolo, forse un paio di stanze, sito al primo o secondo piano di una palazzina servita da ascensore»; «dalla finestra sul retro si vedeva una caserma dei carabinieri»; «la strada di fronte a tale palazzina si attraversava tramite un ponticello (ve ne era più d'uno su tale strada) che conduceva a uno spazio antistante una piscina e più avanti vi era un albergo e un centro commerciale».

Sulla base di queste indicazioni gli investigatori scrivono: «Gli elementi fattuali e documentali che hanno condotto, fra i numerosi edifici analoghi costituenti il Comprensorio Milano 3 di Basiglio, ad individuare nella residenza Alberata lo stabile, verosimilmente l’appartamento 223, quello indicato da Giuseppe Graviano». Nell’informativa, si legge: «Partendo dall'imprescindibile elemento fornito dal dichiarante (Graviano, ndr) che dall'appartamento fosse visibile la locale ed unica stazione dei carabinieri lo stabile di interesse è stato agevolmente individuato nell'edificio A della residenza Alberata».

La sorpresa per procura e investigatori arriva dall’analisi dei proprietari e dei locatari a partire dagli anni in cui Graviano sostiene di aver incontrato Berlusconi nell’appartamento di Milano 3. L’interno 223, scala 2 e piano secondo, era di proprietà di tale Corrado Cappellani di cui non c’è traccia sul web. Ma soprattutto scoprono che all’epoca era stato affittato a Emanuele Fiore, deceduto nel 2012. Fiore è lo zio paterno di un mammasantissima di Cosa nostra.

O meglio è lo zio di Antonino Mangano, ritenuto il successore dei Graviano dopo il loro arresto. Una coincidenza degna di nota. La domanda cui ora stanno cercando di dare una risposta in procura a Firenze è se poteva essere Mangano la persona cui si riferiva Gravano senza mai nominarlo, definendolo “Lui”, durante un dialogo in carcere, intercettato.

CASA E FOTO

Nelle stesse intercettazioni il boss riferiva, inoltre, di aver utilizzato un prestanome per creare una copertura sull’immobile milanese, usato per gli incontri «necessari per mantenere i patti». Quali patti con Berlusconi? Graviano non lo dice: per i pm si tratta delle stragi ma anche dei miliardi, questo sì confermato dal boss, che il nonno aveva affidato al Cavaliere. Ad accompagnare Graviano anche a questi incontri c’era Salvatore Baiardo, l’uomo diventato celebre per avere predetto l’arresto di Matteo Messina Denaro durante un’intervista a Non è l’Arena di Massimo Giletti.

GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA

Giovanni Tizian. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.

Nello Trocchia è inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.

Correggiamo la storia distorta dalle indagini di mafia e di Tangentopoli. La sentenza della Cassazione sulla Trattativa segna la fine della pretesa della magistratura di essere protagonista nelle vicende sociali e politiche. Giuseppe Gargani su Il Dubbio il 7 maggio 2023

La recente sentenza sulla trattativa tra lo Stato e la mafia non ha avuto un adeguato commento dalla grande stampa eppure si tratta di una decisione della Cassazione eclatante e fondamentale per la storia civile, politica e umana del nostro Paese.

È una sentenza che non può soltanto essere pubblicata nel Massimario e dare lustro a magistrati che hanno dimostrato la loro serena indipendenza come prevista dall’art. 104 della Costituzione, ma deve avere conseguenze nella valutazione attenta da parte della cultura giuridica e del mondo giudiziario. Come è noto la Cassazione ha stabilito che il fatto “trattativa” non è stato commesso e non costituisce reato; e quando un “fatto” non è reato e non è stato compiuto il processo penale non ha consistenza.

Viene da dar ragione a chi si pone la domanda perché è stato intentato un processo lungo venti anni che ha costruito una storia che non esiste. La magistratura non può inquinare le vicende della storia con cronache non vere che incidono fortemente sul tessuto sociale e sulla convivenza dei cittadini.

Perché è iniziato questo processo e tanti altri che hanno avuto meno clamore e che hanno interessato leader politici come Nicola Mancino e Calogero Mannino, campioni assoluti più di tanti altri della legalità repubblicana, come tanti esponenti dell’amministrazione dello Stato, delle forze di polizia, della struttura intima dello Stato?! È una domanda che ogni cittadino si pone.

Al di là di sospetti particolari e specifici la risposta ingenua che possiamo dare è che una certa magistratura voleva essere protagonista nello scrivere la storia del nostro Paese, nel far diventare protagonista fuori misura l’antimafia nella sua dissennata esasperazione di ritenere che tutto il mondo è mafia e che la politica è inquietante deviando dai fondamentali canoni della ricerca della prova e della razionalità delle decisioni.

La sentenza dunque segna la fine della pretesa della magistratura essere protagonista nelle vicende sociali e politiche, capace di far trionfare il bene sul male e di esprimere un modello etico di riferimento completo e complessivo di tutta la società, come tutore della moralità. Questa fase è iniziata negli anni 90 con le indagini giudiziarie di Tangentopoli e con le indagini giudiziarie nei confronti di Andreotti, Mannino del giudice Carnevale che non dobbiamo dimenticare, che hanno portato a sentenze clamorose di assoluzione perché il fatto non è stato riscontrato, con valutazioni severe, contenute nelle sentenze che bisognerebbe ogni tanto rileggere, nei confronti dei pubblici ministeri.

In una di queste sentenze della Cassazione è stato scritto che le modalità di indagine giudiziaria utilizzate per quel processo debbono essere di monito per “come non si deve fare un processo”! Ho scritto varie volte che tutte le formule di condanna o di assoluzione restano coerenti nell’ambito del processo penale escluso quella del “fatto che non esiste” o del fatto che non è stato compiuto, che dà una responsabilità in più a chi ha iniziato l’azione penale e non si è reso conto che non c’era il “fatto” o che il fatto non era reato e non è stato compiuto.

Come non rendersi conto di questo?! Se si vuole riformare il ruolo del magistrato e adeguarlo ai tempi si deve ancor più esaltare la sua indipendenza che non si può non collegare a una responsabilità.

La indipendenza non determina irresponsabilità e una esasperata “autonomia” porta alla chiusura e alla “casta” incontrollata. L’autonomia, bisogna ormai riconoscerlo, è un istituto dell’aciern regime che i costituenti mutuarono perché dovevano prevedere una vera e propria separatezza della magistratura rispetto al governo e alle altre istituzioni segnare una forte discontinuità rispetto al regime fascista! Il costituzionalismo moderno non può non porsi questo problema, che riconosco è molto arduo e complesso, ma è un problema che ha bisogno di essere risolto.

La riforma della magistratura è soprattutto di natura costituzionale ed è la premessa per le altre riforme che sono state indicate dal ministro Nordio che portano alla distinzione istituzionale tra pm e giudice, a una composizione diversa del Csm, per evitare che vi sia la prevalenza del giudiziario sul Parlamento, sul governo e quindi sulla politica.

Si deve sviluppare un grande dibattito su queste questioni, perché la magistratura vuol conservare inopinatamente il suo anomalo potere, la sua funzione di supplenza e questo non è coerente con la nostra Costituzione.

Nell’ultimo numero della rivista Questione giustizia, organo ufficiale della corrente magistratura democratica, il direttore scrive: “In moltissimi casi della vita sociale ed economica – scrive Nello Rossi – è il giudiziario ad intervenire in esclusiva, o almeno in prima battuta, nella ricerca di soluzioni di problemi inediti talora incancreniti dalla paralisi e dall'inerzia della politica… e quindi c’è bisogno di una magistratura che assolva un incisivo ruolo di garanzia dei diritti individuali e della dignità delle persone… all'affermazione di diritti dolorosi come quelli relativi al fine vita; alle soluzioni offerte sul terreno dell'eguaglianza di genere; alla protezione di diritti umani fondamentali come nel caso dei migranti; alle azioni a tutela dei risparmiatori e delle finanze pubbliche in contesti finanziari sempre più complicati e vorticosi; agli interventi sulla condizione dei lavoratori marginali, come i rider o i lavoratori della logistica… il magistrato non può pensare di essere un semplice passacarte, un freddo tutore dell'ordinamento giudiziario, ma deve rivendicare il suo ruolo speciale nella società, anche a costo di allargare il perimetro delle proprie prerogative… La Costituzione non indica più una direttrice di marcia univoca nel cui solco il giudiziario possa identificare una sua funzione unitaria, storica…!” Questo scritto è in coerenza con quanto scritto nel lontano 1983 sulla stessa rivista che io ho ricordato molte volte in questi anni, dal pubblico ministero Gherardo Colombo.

La mancanza di una profonda, incisiva e penetrante opposizione politica da parte degli apparati cui lo svolgimento di questa funzione spetta istituzionalmente e costituzionalmente, ha indotto come conseguenza un fenomeno che riguarda direttamente la magistratura. Il controllo giurisdizionale, tradizionalmente e istituzionalmente diretto alla composizione dei conflitti e all'accertamento di comportamenti devianti di singoli, si è via via trasformato per una molteplice serie di motivi, che hanno complessivamente portato al risultato di modificarne la natura...”

È stata devoluta alla magistratura una serie di compiti che non sono suoi propri e che investono più la funzione politica che non quella giurisdizionale. In tema di terrorismo, ad esempio, tutto il complesso fenomeno, di chiarissima natura politica, è stato affrontato a livello giudiziario e risolto - per quanto si è potuto attraverso strumenti utilizzati dalla magistratura.

Quello del terrorismo è uno dei tanti settori nei quali si è verificata l'imposizione alla magistratura di un'attività di supplenza da parte di altri apparati dello Stato… non mancano altri campi, più o meno estesi e più o meno evidenti, in cui sono state scaricate sulla magistratura responsabilità che spetterebbero, in linea di principio, ad altri organi o settori dello Stato. Ciò ha portato necessariamente l'ordine giudiziario ad invadere, perché richiesto, sfere di intervento istituzionalmente riservate ad altri. È successo, inoltre, che gli spazi lasciati liberi dalla mancanza o dalla più o meno grave insufficienza della opposizione politica siano stati essi pure, ed essi pure necessariamente, occupati dall'intervento giudiziario”.

È molto significativo come vi sia una costante in parti della magistratura di costruire un protagonismo istituzionale fuori dal dettato della Costituzione, ed è incomprensibile questa ostinazione di costruire una magistratura – politica. So bene che la colpa è della politica ma è la classe dirigente non solo la politica che deve avere consapevolezza e allarmarsi. L’evoluzione del ruolo della funzione della magistratura non può avvenire in queste forme perché costituirebbe un vulnus per la democrazia.

La distinzione dei poteri non è superata perché dall’epoca di Montesquieu sono passati tanti anni, ma è l’anima dello stato di diritto, dell’equilibrio tra i poteri perché nessuno deve prevalere sull’altro e ogni potere deve essere fedele alle sue rigorose competenze.

La sentenza della Cassazione vogliamo sperare chiude questo lungo periodo di “supplenza”, ristabilisce la consistenza dei fatti e cancella una distorta e mendace cronaca di tutti questi anni per la quale abbiamo patito tutti e hanno patito i personaggi che hanno avuto un ruolo importante nel nostro Paese opposto a quello che le sciagurate iniziative giudiziarie hanno voluto indicare. È arrivato davvero il momento di correggere la storia distorta che le indagini di Tangentopoli e quelle contro la mafia hanno fittiziamente costruito, e ristabilire un rapporto virtuoso tra la società e le istituzioni, tra la società e la politica.

La sconfitta non esiste...Fatto Quotidiano come i soldati giapponesi, Travaglio pubblica accuse ‘non dimostrate’ sulla Trattativa mai esistita. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 6 Maggio 2023 

Come i soldati giapponesi che, finita la seconda guerra mondiale, rimasero nascosti sulle isole delle Filippine in attesa di ricevere ordini per sferrare l’offensiva contro l’esercito americano, al Fatto Quotidiano, nonostante la Cassazione abbia detto che la trattativa Stato-mafia non è mai esista, sono sempre pronti a raccogliere le testimonianze di qualcuno che affermi il contrario, e che Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri abbiano avuto un ruolo di ‘mandanti’ delle stragi di mafia del 1993-94.

Per proseguire tale narrazione, ovviamente, si ricorre come nelle migliori tradizioni alla classica fuga di notizie. Ieri, infatti, il quotidiano di Marco Travaglio ha tirato fuori dal cassetto una inedita informativa della Direzione nazionale antimafia (Dia) del 16 marzo del 2022. Nell’informativa, mai depositata alle difese di Berlusconi, si descrivono le attività d’indagine svolte sui telefoni dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, i boss di Brancaccio, arrestati nel 1994 e da allora in carcere al regime del 41 bis. I cellulari dei Graviano, in particolare, nel 1993 avrebbero agganciato diverse volte le stesse celle telefoniche di quelli in uso a Dell’Utri e Berlusconi. Tale coincidenza sarebbero la prova, dunque, dell’avvenuto incontro fra loro anche se Dell’Utri e Berlusconi hanno sempre smentito rapporti con i due boss.

Nell’informativa, poi, si evidenzia la circostanza che quando i Graviano ordivano il loro piano stragista, Berlusconi si preparava a scendere in campo. La nota, firmata dal primo dirigente della Polizia di Stato Francesco Nannucci, era stata trasmessa al procuratore facente funzione di Firenze Luca Turco e all’aggiunto Luca Tescaroli. Quest’ultimo è noto perché da giovane magistrato in servizio alla Procura di Caltanissetta negli anni ‘90 indagava sulle medesime vicende per poi giungere invariabilmente all’archiviazione.

Un canovaccio che si ripete dunque con gli stessi protagonisti e con le stesse vittime, cui non viene concesso neppure il diritto di essere imputate in un regolare processo per potere poi, seppur a distanza di qualche decennio, sostenere di essere innocenti. Di ciò sembrano essere in qualche misura consapevoli anche al Fatto Quotidiano in quanto, senza timore evidentemente di scadere nel ridicolo, alla fine del pezzo scrivono: “Accuse pesantissime che gli indagati smentiscono e che allo stato non sono dimostrate”.

Sicché ci si chiede come possa Nannucci, dal 2019 capo centro della Dia dopo essere stato per oltre 15 anni capo della Squadra mobile di Prato, mettere nero su bianco accuse simili sebbene “non dimostrate”, e quale interesse ad una corretta e veritiera informazione possano avere un giornalista e un quotidiano a pubblicare accuse da loro stessi ritenute “non dimostrate”, se non orientare politicamente il lettore contro l’avversario di turno. Sarebbe quindi il caso che la Procura di Firenze, in attesa che il Csm decida finalmente di nominare il nuovo procuratore, si dedicasse con lo stesso impegno e zelo a perseguire reati conclamati quale quello segnalato dalla giudice Sara Farini, anziché ingolfare la macchina della giustizia con indagini che tutti sanno che porteranno a nulla, se non all’ennesima archiviazione, come ci ha abituato Tescaroli da quasi un trentennio.

Si dà il caso, infatti, che in una recente audizione davanti alla Commissione giustizia del Senato, per la precisione il 2 febbraio scorso, Turco nulla aveva risposto alla senatrice Erika Stefani (Lega) che gli chiedeva conto dell’indagine sulla ormai famosa fuga di notizie del 29 maggio 2019 quando il Corriere, Repubblica e il Messaggero con articoli fotocopia avevano pubblicato le intercettazioni allora in corso a Perugia sull’indagine a carico dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara, determinando le dimissioni di ben cinque consiglieri del Consiglio superiore della magistratura.

La giudice del tribunale di Firenze Farini, con un provvedimento del 27 gennaio 2021, quindi di oltre due anni fa, a proposito della divulgazione degli atti dell’indagine perugina del 29 maggio 2019, aveva testualmente affermato che “sussiste senza dubbio il fumus commissi delicti del reato in iscrizione, considerata la circostanza – non controversa alla luce della documentazione prodotta dal denunciante (Palamara, ndr) e dalla scansione temporale dei fatti riferita in querela – della pubblicazione su varie testate giornalistiche di notizie ancora coperte da segreto investigativo”.

Appare dunque configurabile – aveva aggiunto la giudice – la fattispecie di cui all’art. 326 c.p. (rivelazione del segreto d’ufficio, ndr): vi è stata una condotta di illecita rivelazione di dette notizie da parte di un pubblico ufficiale, allo stato non identificato, che, avvalendosi illegittimamente di notizie non comunicabili in quanto coperte dal segreto investigativo, riferibili ad atti depositati presso la Procura della Repubblica di Perugia, le ha indebitamente propalate all’esterno”. E a proposito della condotta tenuta dalla Procura di Firenze nella per- sona di Turco, la medesima dottoressa Farini non aveva mancato di precisare che “ad oggi non risulta- no infatti compiuti atti di indagine volti quantomeno a circoscrivere la platea di soggetti che possono esse- re venuti in contatto con le notizie segrete indebitamente propalate all’esterno della Procura della Repubblica di Perugia”.

Tornando comunque alla fuga di notizie da parte del Fatto Quotidiano, l’avvocato romano Giorgio Perroni, difensore di Berlusconi a Firenze, ha depositato ieri una denuncia alla Procura di Firenze.

Paolo Pandolfini

Estratto dell’articolo di Marco Lillo per “il Fatto quotidiano” il 9 maggio 2023.

La Procura di Firenze ha interrogato Giuseppe Graviano in cella in due occasioni il 20 novembre 2020 e il 1º aprile del 2021 nell’ambito dell’indagine poi chiusa e riaperta a fine 2022 su Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi per le stragi del 1993. 

In entrambi i casi il pm Luca Tescaroli ha chiesto al boss dei suoi rapporti con Dell’utri partendo da due conversazioni in cella del 1998 e 1999 con la sorella Nunzia in cui, per la Dia, parlerebbe proprio dell'ex senatore cercando di portare, tramite l'avvocato Fragalà, messaggi all’esterno verso vari soggetti tra cui, appunto, un ‘Marcello’ che sarebbe Dell’utri .

Ovviamente l’intento, anche se fosse stato nella mente di Graviano, non è detto si sia realizzato e non è riscontrato. Peraltro negli interrogatori ha negato questa interpretazione e ha negato soprattutto di conoscere Dell’utri. La Dia e i pm di Firenze però non mollano e nell’informativa del 16 marzo 2022 elencano una serie di elementi che sembrano andare in senso inverso. 

ALLORA, fatte le solite premesse (Dell’utri, come Berlusconi, è stato indagato già in passato per le stragi del 1993 a Milano e Firenze e per gli attentati di Roma – per i quali è stato condannato Gravian – e più volte il procedimento sui “mandanti esterni” è stato archiviato; parliamo di spunti investigativi che per ora non hanno portato nemmeno a un avviso chiusura indagine ma che sono di interesse pubblico perché rivitalizzati dalla Dia e messi in relazione con atti e fatti più recenti) passiamo a riportare quel che scrive il capocentro Dia di Firenze Francesco Nannucci: “Altri elementi di connessione tra Giuseppe Graviano e Marcello Dell’utri vennero desunti anche dall’esito delle indagini condotte dal centro operativo Dia di Palermo nell’ambito dell’operazione ‘Lince’ (procedimento¸penale n. 1519/08-21 DDA) in particolare; vennero intercettati, rispettivamente in data 24 giugno 1998 e 24 marzo 1999, due colloqui presso il carcere di Spoleto tra il detenuto Giuseppe Graviano e i suoi familiari ai quali il predetto esprimeva la necessità di riportare all’esterno della struttura carceraria suoi messaggi da recapitare a terzi tramite l’avvocato Fragalà. 

Tra i destinatari dei messaggi, nel primo colloquio, – prosegue la Dia – faceva riferimento più volte a tale ‘Marcello’, mentre nel secondo colloquio cita il cognome ‘Dell’utri’ e la necessità di reperire l’indirizzo del citato avvocato”. 

La Dia evidentemente fa riferimento a Enzo Fragalà, parlamentare di An dal 1994 al 2006, professore e avvocato di aggredito da un manipolo di mafiosi di Palermo il 23 febbraio del 2010, a bastonate all'uscita dal suo studio. Dopo tre giorni di coma, morto. 

I mafiosi, secondo i collaboratori di giustizia, volevano punirlo perché negli ultimi tempi sarebbe diventato troppo ‘sbirro’, cioé troppo incline a far parlare i suoi assistiti con i magistrati. Quindi Fragalà è una vittima di mafia.

La Dia sostanzialmente scrive che nel 1998, quando Fragalà era parlamentare An e Dell'utri senatore Fi, Graviano parla alla sorella Nunzia dell’avvocato pensando di far portare un messaggio a Marcello. La Dia richiama indagini del 2013 e scrive: “In considerazione degli accertamenti (...) gli investigatori identificarono il citato ‘Marcello’ proprio in Marcello Dell'utri”. 

[…] La Dia riporta un estratto dell’intercettazione che effettivamente è di per sé poco comprensibile. Secondo la Dia oltre a Fragalà Graviano cita anche un secondo avvocato, Zito. La Dia evidenzia i punti salienti della conversazione, in particolare le parole Sismi e “barba”, accompagnata da gesti che farebbero riferimento al rischio che ci siano microspie in giro in grado di intercettare il discorso che lui vuol portare fuori dalla cella. 

[…] Difficile davvero dare un senso al discorso di Graviano tra barbe, SISMI, avvocati e messaggi. Infatti la Dia prosegue spiegando che i pm andavano “a sentire Graviano rispettivamente in data 20.11.2020 e 1.4.2021”. Graviano nella prima audizione chiede di sentire l’audio. Nella seconda, quando gli dicono che non c’è più, dice che “la trascrizione non è esatta”. Alle domande del pm Tescaroli su chi fosse “barba” risponde: “ho conosciuto l'avvocato Zito e l’avvocato Fragalà come avvocati di processi, mentre non ho mai utilizzato il nomignolo barba per indicare una qualche persona, o per lo meno non ricordo”. 

P.M. Tescaroli: “Se ha menzionato Marcello, no? Come risulta, a chi si riferiva? Chi è questo Marcello”? 

Graviano: “Può essere anche Marcello Tutino. Vi assicuro che se ...” 

P.M. Tescaroli: “Marcello”? Graviano: “Tutino o qualche altro Marcello che conoscevamo ... però vi posso assicurare che io il signor Dell’utri non lo conosco. Ve lo ripeto ancora”.

La Dia non crede molto a queste parole. Graviano dice che quel Marcello poteva essere un suo uomo di secondo livello come Marcello Tutino ma effettivamente quel soggetto poco c'entrerebbe nel discorso fatto dal boss alla sorella Nunzia su “SISMI”, avvocati e sul misterioso “barba”. 

Nell’informativa la Dia, dopo aver riportato le risposte di Graviano su Dell’utri, chiosa richiamando un collaboratore che dice cose ben diverse:“al fine di dirimere ogni dubbio, si riportano di seguito gli esiti degli interrogatori del collaboratore Gaspare Spatuzza i quali forniscono una chiave di lettura oggettiva e lineare in merito al possibile coinvolgimento di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’utri in ordine al fallito attentato all'olimpico di Roma il 23 gennaio 1994”. Seguono le dichiarazioni di Spatuzza e le parole dette da Graviano in cella nel 2016 sulla “bella cosa” che a suo dire gli sarebbe stata chiesta da un “lui” che negli interrogatori sostiene essere Berlusconi.

POI LA DIA riporta la versione di Graviano sulla “bella cosa” (nulla a che fare con bombe ma solo un riferimento a investimenti immobiliari) e dopo aver spiegato perché non crede a questa versione minimal scrive: “In conclusione, si può quindi affermare che la conversazione ambientale del 10.4.2016, oggetto di rivalutazione nel corso dell’odierna delega di indagine, è riconducibile al contesto criminale relativo alla strage dell’olimpico del 23.1.1994, con il coinvolgimento di Silvio Berlusconi, per il tramite di Marcello Dell’utri, quale diretto interessato alla sua realizzazione”. Una linea interpretativa tutta da dimostrare che al momento non ha trovato riscontri e non è escluso che l’indagine contro Berlusconi e Dell'utri sia archiviata come già in passato su richiesta dei pm.

 Marcello Dell’Utri è un numero uno della politica e della cultura italiana (e se ne fotte di Massimo Giletti). L’ex ad di Publitalia ed ex parlamentare di Forza Italia ha ben altro da fare che pensare alle accuse del trombato Massimo Giletti e del noiosissimo Peter Gomez. Legge, viaggia, si gode i figli e la “sua” Milano2. Stefano Bini su Notizie.it  il 9 Maggio 2023

Marcello Dell’Utri è definitivamente un uomo libero, criticabile come chiunque persona al mondo ma a questo punto esonerato per sempre da ogni accusa giuridica e morale. Anche perché di moralità Marcello Dell’Utri ne ha da vendere: la vecchia guardia di Publitalia lo ricorda con sincero affetto per quanto ha insegnato “ai fu giovani pionieri” della concessionaria, quando tutto era da costruire e nessuno sapeva come sarebbe andata a finire. Da Silvio Berlusconi ai figli, da Publitalia a Mediaset, da Fininvest al Milan, fino a Forza Italia, tanti devono dire grazie a Marcello Dell’Utri, non solo per l’esperienza, l’umiltà, la cultura e la diligenza che è riuscito a trasmettere a centinaia di persone ma per l’approccio umano, che riusciva e riesce a conquistare tutti. Dell’Utri è un uomo di una cultura immensa, che ama alla follia moglie e figli, non ha mai smesso di leggere libri di letteratura e saggi, di guardarsi intorno alla ricerca di giovani da sostenere e promuovere nelle sue attuali attività culturali. Sorriso bonario, spirito giovane ed entusiasmo fanno il resto.

Dopo decenni, sarebbe il momento di mettere la parola “fine” alle accuse ingiuriose e infamanti nei confronti di un uomo che, a questo punto ingiustamente, ha fatto anni di carcere tra Parma e Rebibbia a Roma, passato momenti di depressione, lontano dalla famiglia e con un tumore; ora è un uomo libero e può fare ciò che vuole, come ogni essere umano cosciente. Il peso di queste situazioni è stato fortissimo eppure non si è lasciato mai scalfire, né dagli attacchi televisive finanche quelli mediatici, provenienti soprattutto da Repubblica e dal Fatto Quotidiano, i quali ormai hanno la credibilità dei pupazzi Uan e Four.

Massimo Giletti accusa e Peter Gomez attacca, una storia ripetuta migliaia di volte che ormai non ha più appeal. Attaccare Marcello Dell’Utri, come Silvio Berlusconi, è diventato di una noia e banalità pazzesche. Secondo i suddetti giornalisti, Dell’Utri sarebbe intervenuto per far cacciare Massimo Giletti da La7; addirittura si sono spinti a dire che in televisione l’ex senatore è un tabù e i programmi che ne parlano spariscono. Situazioni incomprensibili, che talvolta fanno ben capire il livello intellettuale e professionale di certe persone.

Marcello Dell’Utri, che si parli o meno di lui, rimane un esperto di politica, management e cultura, punto di riferimento di milioni d’italiani che da una parte lo hanno conosciuto e dall’altra ammirato nelle varie attività svolte in cinquant’anni di carriera. Chi ha avuto modo di starne a contatto sa bene che non si sporcherebbe mai le mani per avvenimenti o persone che non meritano la minima attenzione.

In questi giorni, giornali e giornalisti, blog e blogger, giornalai e amanti del ciarpame mediatico hanno straparlato; di contro, Marcello Dell’Utri non ha rilasciato alcuna dichiarazione. Questione d’intelligenza, stile e superiorità morale.

Gli occhiuti storiografi giudiziari. La foto del mafioso con Berlusconi che non c’è e la nuova storia sull’arresto di Totò Riina: gli ‘scoop’ di Domani e Fatto. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 19 Aprile 2023 

La foto “prova regina” del legame tra Silvio Berlusconi e la mafia non si trova. Ovviamente. Ma potrebbe sbucar fuori una casa. Vuoi che un ricco imprenditore brianzolo non abbia nemmeno uno straccio di villa sul Lago Maggiore? Magari a due passi da quella a Meina del generale Francesco Delfino, colui che nella fantasia dei mafiologi professionisti sta prendendo il posto di Mario Mori.

E, se non proprio a due passi, magari a trenta-quaranta chilometri, da quei luoghi del lago d’Orta e vicinanze, Omegna e Borgomanero, dove nei primi anni novanta trovarono rifugio i latitanti fratelli Graviano e quel Balduccio Di Maggio, l’autista che ha fatto arrestare il suo capo, Totò Riina. Tutti in fuga dal nemico Giovanni Brusca. Ogni notizia, ormai lo sappiamo, è quella che “riscrive la storia”. Non quella del Risorgimento o della grande guerra o della seconda e del fascismo e la resistenza e l’arrivo degli americani. E neanche quella della ritrovata democrazia e la nostra bella Costituzione e poi la ricostruzione.

Niente di tutto ciò. La storia da riscrivere, in cui sono impegnati sempre i soliti, che poi sono un pugno di penne e di toghe, è una e una sola, quella delle stragi di mafia. Un mondo e una storia che ormai esistono non solo in sentenze che credevamo definitive, ma soprattutto in qualche atto giudiziario di passaggio e negli occhi stanchi di chi passa troppo tempo a spulciarli dopo il consueto dono delle mani amiche.  Così i primi anni Novanta, fino al 1994 quando è entrato in scena Silvio Berlusconi, vengono letti e riletti, e aggiustati e maneggiati e rivoltati, per arrivare sempre alla medesima conclusione. Chi ha messo le bombe nelle mani di quel contadino analfabeta di Totò Riina? E perché? E ogni volta, a ogni nuova “notizia”, che in genere notizia non è, come l’ultima sulla foto con il generale Delfino e il mafioso Graviano, si squarcia un velo. Ma gli articoli sono tutti uguali.

Anche se c’è una novità nel panorama della comunicazione. La Repubblica, il quotidiano che fu capostipite nella campagna politico-giudiziaria contro Silvio Berlusconi, contro il suo ingresso in politica, con l’occhio attento delle dieci domande sulla sua vita personale, è ormai tagliata fuori. I nuovi esecutori dell’ O di Giotto con cui l’allievo superò il maestro Cimabue, sono gli storiografi giudiziari di Domani e del Fatto. Che si accapigliano e si scopiazzano senza pudore. Dopo lo scoop della foto su Berlusconi che non c’è, e che ha creato quel parapiglia nella redazione di La 7 su cui ci illuminerà Enrico Mentana domenica sera, è ora la volta di squarciare anche l’oscurità dell’arresto di Totò Riina, avvenuto il 15 gennaio del 1993, due ore prima dell’arrivo a Palermo del nuovo procuratore Giancarlo Caselli.

La spiata era arrivata dal “traditore” Balduccio Di Maggio, che del boss dei corleonesi era stato l’autista. Quello che noi boccaloni credevamo fosse stato fermato pochi giorni prima, l’8 gennaio. Pare invece che il “traditore” e “pentito” fosse nelle mani della giustizia già da qualche giorno, da prima del capodanno 1992. Nelle mani di chi? Domanda ingenua. Del generale Delfino.

Delfino chi? Ma quello della foto con Berlusconi e Graviano no? E dove? Ma sul lago D’Orta, ovvio. E qui il cerchio si chiude, perché Di Maggio viene arrestato a Borgomanero, luogo a quindici chilometri da Omegna dove il gelataio Baiardo, quello che ha fatto fuori Giletti da La 7, ospitava i fratelli mafiosi Graviano, uno dei quali, Giuseppe, sarebbe il protagonista della famosa foto. Inoltre, guarda caso, il generale Delfino aveva una villa a Meina, cittadina che non c’entra niente con gli altri due luoghi, perché è sulla punta sud del lago Maggiore.

Però agli occhiuti storiografi giudiziari non può sfuggire il fatto che tutto sommato stiamo parlando di soli trenta chilometri di distanza. Poi, se vogliamo proprio dirla tutta, quanti laghi ci sono tra Lombardia e Piemonte? Lasciamo stare il Garda che è più sopra, ma non vogliamo vedere se non c’è stato qualche mafioso nascosto in quegli anni per esempio sul lago di Varese? L’onore dello scoop andrebbe al Fatto del 17 aprile, se il giorno dopo, il 18, Domani non avesse schierato la corazzata Attilio Bolzoni, che come il suo collega Giuseppe Pipitone conosce a spanne la geografia del nord d’Italia, ma viene dalla scuola di Repubblica, quindi ci mette il carico di chi conosce la storia dall’inizio.

Sentite: “In un angolo d’Italia lontano da Palermo è accaduto qualcosa che può ribaltare la scena intorno alla cattura di Totò Riina, che poi è il principio di ogni mistero. Perché è da quel momento che si incastra tutto: mafia, stato, stragi, depistaggi, patti. Oggi possiamo avere una visione meno incompleta sulle uccisioni di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, sulle bombe di Firenze”. Manca solo una villa di Silvio Berlusconi sul Lago Maggiore, possibilmente con dépendance affittata all’amico Marcello Dell’Utri.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

I cantori e le false leggende. Tutte le bufale sulla (inesistente) trattativa Stato-Mafia. Cataldo Intrieri su L'Inkiesta il 2 Maggio 2023

Al contrario di quanto scrivono alcuni giornali, la Cassazione ha chiarito che non fu mai imbastita una contrattazione né un accordo, andando addirittura oltre il pensiero di Giovanni Fiandaca (allora sbeffeggiato dai soliti noti). Ma il delirio complottista e il tragico caso Loris D’Ambrosio non vanno dimenticati

È finita come doveva finire, è finita quando non avrebbe dovuto neanche iniziare, eppure anche nel momento del definitivo smascheramento non mancano le mistificazioni sul processo definito “trattativa Stato-Mafia“, farlocco già da titolo. Se n’è scritto tanto, ma non tutto. Dunque sia consentito tornarci sopra, perché nel diritto la verità si trova nei dettagli.

Per cominciare: non è vero che Il 27 Aprile la Corte di Cassazione «ha confermato la sentenza di appello» come hanno scritto sulla Stampa Francesco La Licata e su Repubblica «l’attento Lirio Abbate» (secondo la definizione di Stefano Folli), quest’ultimo uno dei cantori più fervidi della leggenda giudiziaria dei Nino Di Matteo e Antonio Ingroia. Con uno dei suoi collegi più autorevoli, la Suprema Corte ha invece «annullato senza rinvio» la sentenza di appello. Cioè modificato (e non di poco) la sentenza di secondo grado pur mantenendo l’assoluzione del generale Mario Mori e degli altri ufficiali ma per motivi radicalmente diversi da quelli adottati dalla Corte di Appello di Palermo.

La nuova pronuncia, infatti, è stata emessa a seguito di ricorso non solo della procura generale palermitana (comprensibilmente scontenta della precedente assoluzione) ma dei difensori dei due principali imputati,il generale dei Ros Mori (difeso da Basilio Milio e Vittorio Manes) e il capitano Giuseppe De Donno (difeso da Francesco Romito) che pure erano stati riconosciuti innocenti.

Il punto è che la sentenza di secondo grado li aveva assolti con una formula (il fatto non costituisce reato) e delle motivazioni che nella sostanza confermavano l’esistenza di una informale interlocuzione (e non di una trattativa) con la mafia spaccata tra ala trattativista e stragista di cui sarebbe stato informato il ministro di Giustizia dell’epoca, un integerrimo galantuomo, il professor Giovanni Conso, a opera di Mori, non si sa se direttamente o per il tramite dell’allora vice dirigente del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), il magistrato Francesco Di Maggio.

Contrariamente alla romanzesca sentenza della Corte di Assise di Palermo che aveva condannato Mori e gli altri ipotizzando a loro carico un «dolo eventuale», ovvero una teoria giuridica che si applica ai casi totalmente diversi di disastri ambientali o sinistri di vario genere come la strage ferroviaria di Viareggio per configurare la responsabilità degli amministratori). Con notevole e apprezzabile sforzo di fantasia giuridica, i giudici di appello avevano ritenuto che i Ros avessero parlato o informato il ministro Conso influendo almeno indirettamente così sulla sua determinazione di revocare il 41 bis ad alcuni mafiosi. Bisogna ricordare che il ministro negò sempre la circostanza, così come di aver mai parlato con Mori e Di Maggio della cosa, beccandosi un avviso di garanzia per falsa testimonianza. Accusa poi caduta.

La Cassazione ha annullato la sentenza come spiega in un comunicato esplicativo post verdetto (segno dei tempi) proprio su questo profilo. Preoccupati del possibile can can che la loro sentenza avrebbe potuto scatenare gli ermellini si sono affrettati a spiegare la loro decisione: di provato c’è che la Mafia minacciò i governi Amato e Ciampi con il ricorso alle stragi ma nessuna trattativa ci fu mai. i carabinieri fecero il loro dovere, così come lo fecero i rappresentanti dello Stato che non si piegarono ai mafiosi. Dunque ci furono le minacce ma i Ros non vi concorsero in alcun modo (da qui la nuova formula di assoluzione «per non aver commesso il fatto». 

Il resto sono tutte fantasticherie, a partire dai famosi colloqui col Guardasigilli e il DAP, mai provati come hanno sostenuto nei motivi di ricorso i difensori e financo il procuratore generale della Cassazione che aveva chiesto un nuovo processo proprio per accertare se vi fossero mai stato. La Cassazione ha deciso che sia inutile inseguire le leggende. Contrariamente a ciò che accadeva nel film del Far West diretti da John Ford, dove in un’aula di giustizia tra mito e realtà vince la storia.

Il netto convincimento dei giudici è dimostrato dalla particolare rarità con cui la Cassazione accoglie ricorsi di imputati già assolti che chiedano una diversa formulazione o motivazione del loro proscioglimento. Nel caso di Mori era tanto evidente l’ingiustizia inferta che la Suprema Corte ha accolto il ricorso e motiverà in modo radicalmente diverso.

Molti ricordano in queste ore il pregevole saggio del professor Giovanni Fiandaca che dieci anni fa, all’avvio dello “storico” processo su Il Foglio, denunciava le falle e le fallacie argomentative dell’accusa guadagnandosi il dileggio di Marco Travaglio e della solita compagnia di giro complottista. Ebbene, se indiscutibile fu il pregio dello scritto e limpido il coraggio dell’autore, sia consentito osservare che proprio la tesi di Fiandaca sull’esercizio del loro dovere da parte di Mori e collaboratori nel parlare coi mafiosi abbia finito per concedere una non necessaria via d’uscita ai fantasiosi ideatori della trattativa (che mai vi fu) e un’inutile coda processuale: quella di immaginare una interlocuzione Stato-Mafia a fin di bene. La Cassazione non ha creduto neanche a questo.

Cosa resta? Un danno grave e molto dolore. A coloro che vivono le assoluzioni come un torto alle vittime andrebbe ricordato chi per questa vicenda ha pagato un prezzo altissimo. Si chiamava Loris D’Ambrosio, magistrato e consigliere giuridico dell’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Fu investito al pari del presidente di sospetti e maldicenze per avere parlato con uno degli imputati, l’ex ministro Nicola Mancino, poi assolto, nel delirio complottista che portò addirittura ad ascoltare per la prima volta la massima carica dello Stato come teste in un processo dopo un accesso conflitto costituzionale sulla pretesa dei procuratori palermitani di tenere custodite intercettazioni di Napolitano e Mancino. Per fortuna non vennero collegati via video Totò Riina e Bernardo Provenzano con le stanze del Quirinale per godersi lo spettacolo.

D’Ambrosio fu stroncato dall’angoscia di sentirsi sospettato dentro un meccanismo inquisitorio che distruggeva vite e temeva travolgesse anche lui come denunciò lo stesso presidente ai suoi funerali. Ovviamente non ci sarà nessuna commissione d’inchiesta o uno straccio di procuratore che avrà voglia di indagare sul gravissimo danno arrecato alle istituzioni e alle persone. Molto meglio parlare di casi di cronaca nera di 40 anni fa.

Forse è anche inutile lamentarsi del solito circolo di «cazzengers» dell’informazione (secondo una felice espressione di Maurizio Crozza) che continuerà imperterrito a spargere altre fole complottiste, spacciandole per giornalismo d’inchiesta e non per ciò’ che rappresenta oggi l’informazione farlocca: un grave problema della democrazia attuale. Specie in Italia, dove purtroppo non ci sono gli equivalenti del Financial Times o del Washington Post, ma un’informazione in agonia.

Sulla trattativa Stato-Mafia abbiamo preso una cantonata...“Mi scusi, presidente”: il discorso di Scarpinato a Napolitano che non ascolterete mai. Andrea Ruggieri su Il Riformista il 3 Maggio 2023

Immagine generata con intelligenza artificiale dall’artista Andrea Bempensante

Mi scusi, presidente”, ecco il discorso di Scarpinato a Napolitano che non ascolterete mai:

Signor Presidente, membri del Governo, onorevoli senatori.

Intervengo a titolo personale.

Nell’esercitare, oggi, queste funzioni così a lungo screditate da me, e dalla mia compagnia di giro, composta di brillanti giornalisti, conduttori tv, opinionisti, e vari ex colleghi magistrati, io rappresento la Nazione.

È giusto quindi che io mi scusi con essa.

Me lo impone il tante volte da me decantato principio di legalità: sulla trattativa Stato-Mafia abbiamo preso una cantonata, decretata tale da più e più magistrati.

Lo riconosco, e me ne scuso con i tanti italiani che abbiamo stordito, di cui abbiamo viziato convinzioni e consenso, piegando entrambi alle nostre autodecretate opinioni preconcette e ostili a qualunque cosa fosse da noi diversa, e proposte come dati di fatto.

Dopo aver, per anni, animato talk show da milioni di spettatori, prime pagine di quotidiani, financo spettacoli teatrali, e adombrato connivenze opache e deteriori, addebitandole qui e li a persone di cui oggi è invece certificata la rispettabilità che nemmeno andava messa in discussione, abbiamo sbagliato.

E, forse, mal rappresentato l’ordine cui mi fregio di essere appartenuto: la magistratura, che dovrebbe fare giustizia, non giustiziare, né scadere in un genere letterario-mediatico che allude e mai dimostra.

Tantomeno sacrificando vite, carriere, reputazioni, e lavoro sull’altare di suggestioni affrescate dalla stampa e mai provate in un’aula di tribunale (applausi scroscianti dai banchi del centrodestra, brusio su quelli del Pd, mentre Paola Taverna dalla tribuna rievoca il labiale di Roberto Baggio verso Sacchi che lo sostituisce in Italia-Norvegia a Usa ‘94).

A dimostrazione della mia onestà intellettuale, dico di più, onorevoli colleghi: il dubbio che alcuni di noi abbiano usato parte della stampa per sostenere inchieste deboli, acquisire notorietà, e capitalizzarla con un seggio comodo e ben pagato, è comprensibile.

Quante volte abbiamo sentito dire colleghi, forse persino me compreso: “Ma si figuri, a me la politica non interessa” se si domandava loro: “Ma non è che lei si candida in politica?”.

E però oggi sono qui, e le funzioni che ricopro mi impongono infine di sommare a questo tardivo ma sentito atto di contrito dolore, un pensiero di scuse a una persona, oltre che a Istituzione: il mio collega Senatore Giorgio Napolitano.

Il Presidente Emerito ha pagato sulla sua pelle i nostri errori.

Mi scusi, Presidente… (applausi scroscianti di tutto l’emiciclo, eccezion fatta per il M5S, che indossa una maglietta griffata: “E’ Stato -comunque- la mafia”).

Andrea Ruggieri 

Stato-Mafia, tutti assolti. Trattativa inesistente, la conclusione scontata di una gigantesca montatura di giornali e procure. Giovanni M. Jacobazzi su Il Riformista il 3 Maggio 2023 

La tesi, alquanto mediatica e suggestiva, secondo cui lo Stato è venuto a patti con Cosa nostra per far cessare le stragi di mafia dei primi anni Novanta del secolo scorso ha origini lontane. Prima dell’inchiesta “Trattativa Stato-mafia”, costata milioni di euro e rivelatasi un flop, la Procura di Palermo nel 1998 aveva avviato “Sistemi criminali”, ipotizzando l’esistenza di un disegno per destabilizzare il Paese dietro tutte le stragi, dalla stazione di Bologna a Capaci e quindi a via D’Amelio.

Sistemi criminali” si chiuse, però, con un nulla di fatto. Passò qualche anno e nel 2000 i Pm tornarono alla carica, indagando Totò Riina, il “capo dei capi”, Vito Ciancimino, l’ex sindaco mafioso di Palermo, e il medico Antonio Cinà. Anche in quel caso la tesi era suggestiva: Riina, con la mediazione Ciancimino e l’aiuto di Cinà, nel 1992 avrebbe deciso di ricattare lo Stato se quest’ultimo non avesse esaudito le richieste dei boss. Non essendo stati identificati i politici destinatari delle minacce mafiose, nel 2004 i pm furono costretti a nuova archiviazione. La svolta era dietro l’angolo, grazie a Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, che nel 2008 consegnò ai pm il “papello” con l’indicazione delle richieste dei mafiosi per porre fine alla mattanza, e al super pentito, spesso poco lucido nel racconto, Giovanni Brusca. Ciancimino, va ricordato, verrà poi condannato per calunnia e gli accertamenti tecnici dimostreranno che il papello era un tarocco.

Le sue rivelazioni, comunque, avevano nel frattempo permesso ai magistrati di riaprire in pompa magna le indagini e di mettere nel mirino, oltre ai boss mafiosi, gli ex ufficiali del Ros, Antonio Subranni, Mario Mori, Giuseppe De Donno, e l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, colui che di fatto avrebbe ‘trattato’ la resa dello Stato, tramite i carabinieri, con Cosa nostra.

Ciancimino diventò subito l’icona dell’antimafia, passando da un salotto televisivo all’altro. Grazie ai suoi racconti, come detto delle calunnie, verranno scritti decine di libri che faranno il successo di molti giornalisti. Successo, inteso come carriera, che riguarderà nel tempo i Pm titolari del fascicolo. Solo per fare qualche nome, Nino Di Matteo andrà al Consiglio superiore della magistratura, Roberto Scarpinato diventerà senatore in quota M5s, Antonio Ingroia fonderà un partito, Roberto Tartaglia verrà promosso vice capo dipartimento a Palazzo Chigi, collaborando con Mario Draghi prima e adesso con Giorgia Meloni.

Il processo di primo grado, con l’accusa di “minaccia ad un corpo politico dello Stato”, nel caso specifico i governi che si erano succeduti dal ‘92 fino al ’94, inizierà nel 2013. La ‘pistola fumante’ venne trovata nella mancata proroga, a novembre del 1993, uno dei punti del “papello”, da parte dell’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso del 41 bis a circa 300 detenuti. Di questi, però, solo 18 appartenevano ad associazioni mafiose e, come si appurerà, anche di modesto spessore criminale e di cui la stessa Procura aveva chiesto la revoca del carcere duro. Ma tant’è.

Mannino decise di essere processato da solo, scegliendo il rito abbreviato. Venne assolto in via definita nel 2020 “per non aver commesso il fatto”: nessuna prova che avesse condizionato Conso nelle sue scelte, il quale aveva agito solo seguendo la legge. L’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, altro imputato eccellente, sarà invece scagionato dall’accusa di falsa testimonianza dopo che i pm erano arrivati ad intercettare una sua telefonata con il capo dello Stato Giorgio Napolitano.

L’unico politico rimasto con i carabinieri sul banco degli imputati sarà quindi il senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, accusato di aver proseguito al posto dei Ros la ‘trattativa’ con il governo Berlusconi.

La scorsa settimana, dopo un quarto di secolo, la pietra tombale su questa vicenda, con l’assoluzione di tutti gli imputati. I tanti delusi dall’esito del processo, invece di farsene una ragione, hanno subito cercato il rilancio, rispolverando una testimonianza di Mori al processo di Firenze sulla strage di via dei Gergofili dove l’ex generale aveva parlato di ‘trattativa’.

I carabinieri, sul punto, non avevamo mai nascosto di aver iniziato in quegli anni dei colloqui investigativi, come se ne sono sempre fatti fin dai tempi delle Brigate Rosse, con Vito Ciancimino. Colloqui fatti alla luce del sole e dei quali erano informati gli stessi vertici della Procura di Palermo. In sostanza, un tentativo da parte dei Ros per arrivare alla cattura dei boss: se Ciancimino li avesse aiutati a risalire ai latitanti, in cambio avrebbero protetto la sua famiglia da eventuali ritorsioni. Ma nulla di più. A quella proposta Ciancimino si adirò perché avrebbe voluto la garanzia, ovviamente impossibile, dell’assoluzione da tutte le accuse.

Che il teorema dei Pm di Palermo facesse acqua da tutte le parti, lo si poteva capire leggendo la sentenza d’appello del “Borsellino Quater” del 2019. Senza entrare nel merito della trattativa, escluse categoricamente che potesse essere quello il movente della strage di via D’Amelio. Per i giudici di Caltanissetta, i mafiosi avevano voluto eliminare Borsellino in quanto intenzionato ad indagare sui rapporti fra Cosa nostra e settori della grande impresa. I Ros, sotto la supervisione di Giovanni Falcone, prima quindi di essere accusati di aver ‘trattato’ con i mafiosi, gli avevano preparato il dossier “mafia appalti”, prontamente archiviato qualche giorno dopo la sua morte, in cui si ipotizzava anche il coinvolgimento di soggetti vicini ai magistrati in servizio al Palazzo di giustizia di Palermo. Giovanni M. Jacobazzi

Antimafia, la serie. Qualche episodica assoluzione non cancellerà la cultura (anti)mafiosa della giurisdizione. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 2 Maggio 2023

La Cassazione ha stabilito che non ci fu alcuna trattativa con la mafia, ma permarrà a lungo l’assurda idea di alcuni pm secondo cui l’azione giudiziaria debba rimettere in riga la società, imponendo una disciplina svincolata dallo Stato di diritto

Un’altra sentenza che chiude l’ennesima stagione dell’eterna serie antimafia reca purtroppo due tipi di assoluzione: quella che tardivamente libera gli imputati da un decennio di persecuzione, e quella di cui è destinataria la cultura che simili processi continua a produrre. È chiaro che non in quel provvedimento di giustizia, né in qualsiasi altro della stessa natura, può trovare spazio la necessaria requisitoria contro l’idea e la pratica della giurisdizione ormai archeologicamente impiantate nella nostra struttura civile, e cioè l’idea che l’azione giudiziaria sia rivolta a rimettere in riga la società e la pratica che ne fa attuazione con le indagini, con gli arresti, con i processi, con le sentenze “antimafia”.

Il procuratore della Repubblica che si proclama «dalla parte della gente» quando il giudice respinge le richieste di pena formulate dall’accusa, mentre nessuno gli ricorda che sta ripetendo il canone del linciaggio opposto alle incertezze della giustizia perdonista; il campione della magistratura televisiva che rinfaccia «alla politica» di non fare la pulizia che ci vuole e rivendica di «far rispettare la legge», mentre nessuno gli fa osservare che al rispetto della legge è comandato il poliziotto, il carabiniere, il vigile urbano, non il magistrato che vi è solo subordinato e deve solo applicarla; l’inquisitore che tiene comizio in aula di tribunale reclamando l’emissione di una sentenza che «bonifichi» una regione d’Italia, mentre nessuno fa mostra neppure di avvertire a quale grado di sproposito si ponga una giustizia che procede per “bonifiche”; e l’altro, il più celebre, che in faccia alle telecamere e ai microfoni dei giornalisti adunati per la promotion del rastrellamento, e tra due ali di carabinieri, spiega che quello è il compimento della rivoluzione che egli sogna da quando si è insediato, smontare e rimontare come un giocattolo il pezzo di Paese renitente all’ordine antimafia. 

Tutto questo persevera in purezza negli intendimenti della giustizia che non tratta con la mafia solo nel senso che a essa si giustappone riproducendone il comportamento fondamentale, e cioè la pretesa di riconduzione della società a un altro tipo di “ordine”, una disciplina del tutto svincolata dallo Stato di diritto e che non è migliore, più civile, più nobile e meno pericolosa solo perché pecca di qualche brutalità e ostenta l’uniforme di Stato.

Trent’anni e più di letteratura, la poca e osteggiata che pure c’è stata, sulle “storture” dell’antimafia, sugli “errori” commessi, come si dice, “in nome” dell’antimafia, hanno trascurato che la stortura è nella stessa antimafia quando essa pretende di farsi giurisdizione: e che quelli di cui essa si rende responsabile non sono errori, ma fisiologiche proprietà di una giurisdizione in tal modo corrotta.

Non avremo nemmeno il sospetto di un sistema di diritto se non quando sarà sconfitta la cultura antimafia della giurisdizione, se non quando sarà chiaro che è nel proprio essere “anti” alcunché il carattere inaccettabile della giurisdizione. Fino ad allora, potremo solo augurarci qualche episodica assoluzione dopo anni di massacro dei colpevoli che la fanno franca.

Nessuno si faccia illusioni...Perché lo show sulla trattativa Stato-Mafia andrà avanti: la lezione di Sciascia e le carriere grazie all’Antimafia. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 30 Aprile 2023 

Nessuno si faccia illusioni. Nemmeno la Corte di Cassazione, in una delle sue composizioni notoriamente più autorevoli ed indiscusse, basterà a scrivere la parola fine in coda a questo b-movie giudiziario detto della “trattativa Stato-Mafia”. Un filmaccio di quart’ordine, costruito intorno ad un reato esistente solo nella mente dei suoi approssimativi sceneggiatori, rispetto al quale ci potremmo limitare a scrollare le spalle uscendo infastiditi ed annoiati dalla sala, se non fosse che con esso si sono letteralmente tritate le carni -dignità, onorabilità, salute psicofisica- di protagonisti della lotta (quella vera) alla mafia, linciati come traditori e dati in pasto all’orda famelica delle milizie antimafiose più fanatiche.

Perché questo è il punto, tenetelo a mente. Questa antimafia, cioè quella che preconizzò da subito Leonardo Sciascia, quella che con la lotta alla mafia non ha nulla a che fare, ma che è straordinariamente utile a costruire carriere, fortune editoriali, successi politici, fortune economiche, e ancor più a distruggere carriere, fortune politiche, patrimoni altrui, non può certo arrendersi. C’è tutto un mondo, articolato, complesso e potentissimo, che vive e prospera grazie a questa narrazione, la quale nasce da una idea forte ed inconfutabile, e cioè che la mafia ha sempre goduto e gode anche di sponde, collusioni e complicità istituzionali.

Ma questa indiscutibile verità viene poi sviluppata in termini iperbolici, ossessivi, quasi maniacali, nella convinzione che nessuna lotta alla mafia sarà degna di questo nome se non sarà lotta innanzitutto e soprattutto alle collusioni ed alle infiltrazioni istituzionali, sempre e comunque, anche quando l’inchiesta giudiziaria non ne coglie traccia. E se non ne coglie traccia, è una inchiesta marginale se non inutile, e magari -perché no- essa stessa espressione e frutto di collusioni più o meno oscure. I protagonisti di questa narrazione – giornalisti, associazioni, forze politiche, e naturalmente magistrati- si sono presto resi conto della sua straordinaria forza comunicativa, della fascinazione esercitata sulla pubblica opinione, e soprattutto della formidabile sua idoneità a stigmatizzare chi osi metterla in dubbio.

Ecco allora che nessuna inchiesta giudiziaria su fatti di criminalità mafiosa meriterà considerazione se non contemplerà almeno il coinvolgimento di qualche deputato o consigliere comunale, di qualche ufficiale di polizia giudiziaria, e naturalmente di qualche avvocato, oltre che dell’imprenditore di turno dedito a riciclare patrimoni criminali. Più eclatante sarà il preteso disvelamento di collusioni istituzionali o coperture insospettabili, più forte sarà la ricaduta mediatica e la fortuna professionale dell’inchiesta.

L’inchiesta sulla “Trattativa” ha rappresentato l’acme, la sintesi estrema e parossistica di questo fenomeno, perché giunta di fatto ad “inventare” -attraverso una forzatura giuridica da subito evidentissima- un reato inesistente di “trattativa”, per poter affermare che proprio coloro ai quali erano affidati ruoli di vertice nella lotta alla Mafia erano in realtà collusi con essa nel ricattare lo Stato. Attorno a questa sconclusionata indagine si sono costruite fortune editoriali e carriere professionali di eccellenza, e si è grandemente irrobustita la vera forza dell’antimafia militante, cioè la sua capacità di dividere il mondo in buoni e cattivi, virtuosi e corrotti, mafiosi ed antimafiosi, con una laconica iscrizione nel registro degli indagati, o con una semplice intervista del PM buono, o articolo del giornalista buono, o interrogazione parlamentare del politico buono, o manifestazione della associazione buona.

Questa antimafia è ormai un potere enorme, invincibile, perché il consenso della opinione pubblica è ovviamente scontato, e facilmente alimentabile.

Anche ora, dopo una sentenza che dovrebbe solo comportare scuse e contrizione nei confronti delle vite spezzate, infangate ed umiliate di quegli imputati innocenti, leggiamo titoli sarcastici, sulla mafia che “tratta da sola”, ed altre imbecillità criminali del genere. Assisteremo ad interviste contrite ed addolorate, ma più probabilmente aggressive ed avvelenate, dei responsabili di questa bufala giudiziaria senza precedenti, che invece di essere chiamati a rispondere del male che hanno seminato a piene mani, saranno gli eroi dolenti ma indomiti delle prossime settimane. E la ragione sta proprio nel potere immenso che quella narrazione dell’antimafia, della quale la Trattativa è solo il più fulgido tra i molti capitoli, garantisce a questa vera e propria casta invincibile di giornalisti, politici, magistrati, nonché -non dimentichiamolo mai- amministratori giudiziari di immensi patrimoni, di centinaia di aziende sequestrate, spolpate e poi restituite come stracci bagnati ai suoi incolpevoli proprietari, solo perché sospettati di inesistenti collusioni mafiose.

Nemmeno questa sentenza di Cassazione, pronunciata da giudici valorosi ed unanimemente stimati ed apprezzati, varrà a ristabilire la verità. Quella storia, come tutta la narrativa dell’antimafia militante preconizzata da Sciascia, quella che poi ruba perfino l’origano alle mense scolastiche o spartisce tra amici e parenti le immense fortune dei patrimoni sequestrati ed amministrati in nome della lotta alla mafia, non mollerà certo quell’immenso suo potere, il più grande che un uomo possa esercitare: dividere il mondo in buoni e cattivi a proprio piacimento, impunemente, traendone infine, già che ci siamo, insperate ed imperdibili fortune.

Gian Domenico Caiazza, Presidente Unione CamerePenali Italiane

(ANSA il 27 aprile 2023) - Confermata dai giudici di Cassazione l'assoluzione, per i tre ex investigatori del Ros, Mori, Subranni e De Donno. I giudici hanno annullato la sentenza di appello senza rinvio con la formula per non avere commesso il fatto nel procedimento sulla presunta iva stato-mafia. Assoluzione definitiva anche per l'ex parlamentare Dell'Utri.

(ANSA il 27 aprile 2023) - I giudici della sesta sezione della Cassazione hanno dichiarato la prescrizione per il boss di Cosa Nostra, Leoluca Bagarella, condannato dai giudici di Appello di Palermo a 27 anni e per il medico Antonino Cinà, ritenuto vicino a Totò Riina, a cui in secondo grado furono inflitti 12 anni di reclusione nell'ambito del procedimento sulla presunta trattativa stato-mafia. I giudici hanno infatti riqualificato i reati di violenza e minaccia ad un corpo politico dello Stato nella forma del tentativo. Con la riqualificazione la fattispecie è andata in prescrizione.

Estratto dell’articolo di Ermes Antonucci per “il Foglio” il 28 aprile 2023.  

E’ crollato definitivamente il processo sulla cosiddetta “trattativa stato-mafia”. Ieri, intorno alle 17.30, i giudici della sesta sezione penale della Corte di Cassazione hanno assolto gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno con la formula piena “per non aver commesso il fatto”. Confermata l’assoluzione anche per l’ex senatore Marcello Dell’Utri. Prescritte le posizioni dei mafiosi, Leoluca Bagarella e Antonino Cinà.

“E’ una grande soddisfazione – dichiara Mori al Foglio – anche se per vent’anni sono stato sotto processo. Spero che con questa sentenza finiscano anche le ‘trombonate’ di una certa stampa e di certi altri ambienti che hanno lucrato su questa vicenda”. 

[…] Il generale Mori si dice contento soprattutto per l’assoluzione dei suoi ex colleghi Subranni e De Donno: “Io ero il responsabile operativo, loro c’entravano poco”. Il pensiero, infine, non può che andare all’immagine del Ros, il Raggruppamento operativo speciale dei Carabinieri, al quale è stato restituito l’onore infangato in questi anni: “Il Ros è una struttura brillantissima, il miglior reparto dell’Arma e dello stato italiano, però questo esito conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, che il Ros ha sempre lavorato bene. E per me che l’ho fondato questa è una grandissima soddisfazione”.

[…] “La Trattativa ci fu, ma non è reato”, hanno continuato a sostenere per mesi gli oracoli dell’antimafia mediatica. Fino a ieri, quando i giudici di legittimità hanno demolito senza scampo il teorema accusatorio. Gli ex ufficiali del Ros sono infatti stati assolti con la formula più ampia “per non aver commesso il fatto”. 

Le posizioni dei mafiosi Bagarella e Cinà sono invece state dichiarate prescritte in virtù della riqualificazione del reato di violenza e minaccia a un corpo politico dello stato nella forma del tentativo.

[…] La verità, insomma, è che arrivati a questo punto, il castello accusatorio costruito dai pm di Palermo (tutti in seguito promossi a incarichi di prestigio) non stava in piedi neanche a voler usare ancor più fantasia.

Processo sulla “Trattativa Stato-Mafia”: la Cassazione conferma assoluzioni per Mori e Dell’Utri. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 27 Aprile 2023.

Assoluzioni definitive anche per De Donno e Subranni . Il primo a parlare di “trattativa” tra Stato e mafia fu l'ex boss di San Giuseppe Jato, il boia di Capaci, Giovanni Brusca

Diventano definitive le assoluzioni per il generale Mario Mori, il generale Antonio Subranni ed il colonnello Giuseppe De Donno, tutti ex ufficiali del Ros dei Carabinieri, e per l’ex senatore Marcello Dell’Utri nel processo sulla presunta “trattativa” tra Stato e mafia. I giudici di legittimità della Sesta Sezione Penale della Cassazione intorno alle 17:30 nell’aula Giallombardo ha letto il dispositivo della sentenza con la formula “per non aver commesso il fatto” annullando senza rinvio la sentenza pronunciata dalla Corte d’Appello di Palermo il 23 settembre 2021, e confermato le assoluzioni per Mori, De Donno e Subranni . 

Il primo a parlare di “trattativa” tra Stato e mafia fu l’ex boss di San Giuseppe Jato, Giovanni Brusca il “boia” di Capaci. Era il 1996. Quella volta, il pentito di mafia, che oggi è un uomo libero, disse di averne sentito parlare Totò Riina, fra le stragi Falcone e Borsellino. Nel frattempo arrivarono le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, morto nel 2002.

Ciancimino junior dichiarò di aver fatto da tramite tra il padre e il Ros dei Carabinieri per giungere ad un “accordo con lo Stato” per fare cessare la strategia stragista di Cosa nostra e arrivare alla consegna dei latitanti. Parlò di una copertura politica degli allora ministri Nicola Mancino (Interno) e Virginio Rognoni (Giustizia) . Non solo, Massimo Ciancimino sostenne inoltre di avere ricevuto il “papello” con le richieste di Riina dal mafioso Antonino Cinà con l’incarico di consegnarlo al padre, che però scrisse un altro papello che doveva essere sempre indirizzato a Mancino e Rognoni (il cosiddetto “contro-papello“) poiché a suo dire le richieste di Riina erano improponibili.

I giudici hanno dichiarato la prescrizione per il boss corleonese Leoluca Bagarella e per il medico Antonino Cinà. I giudici hanno riqualificato il reato di violenza e minaccia a un corpo politico dello Stato nella forma del tentativo. Con la riqualificazione la fattispecie del reato è andata in prescrizione

I pm di Palermo e Caltanissetta nel 2009, si basarono seppure con diversi punti di vista proprio sulle dichiarazioni di Brusca e di Ciancimino. Una inchiesta che portò a vere e proprie fratture e lacerazioni all’interno della magistratura siciliana. La prima udienza si svolse nell’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo il 29 ottobre 2012, grazie al lavoro dei Pm Antonio Ingroia, che successivamente ha lasciato la magistratura e fa l’avvocato, e dei pm Antonino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene.

In seguito nel pool di magistrati entrerà a farne parte anche un giovane magistrato, Roberto Tartaglia, che rappresenterà l’accusa. Sul banco degli imputati finirono cinque membri di Cosa Nostra, cioè Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà, e cinque rappresentanti delle istituzioni, cioè il generale Antonio Subranni, il generale Mario Mori, il colonnello Giuseppe De Donno e l’ex senatore Marcello dell’Utri, per il reato di violenza a Corpo politico, amministrativo o giudiziario.

Nell’inchiesta finirono anche 4 intercettazioni di telefonate tra il ministro dell’Interno Nicola Mancino e il Capo dello Stato Giorgio Napolitano, successivamente finite distrutte per decisione della Corte Costituzionale. Vennero intercettate varie telefonate tra Loris D’Ambrosio, l’allora consigliere giuridico del presidente Napolitano, e l’ex ministro Mancino, telefonate che hanno alimentato il conflitto istituzionale tra il Quirinale e la Procura di Palermo.

“Sono parzialmente soddisfatto considerando che per 20 anni mi hanno tenuto sotto processo. Ero convinto di non avere fatto nulla, il mio mestiere lo conosco, so che se avessi sbagliato me ne sarei accorto”, ha detto il generale Mario Mori, uscendo dal “Palazzaccio” dopo la sentenza.

“Abbiamo dovuto aspettare 20 anni per la verità”, dice all’Adnkronos il colonnello De Donno. “Ho sempre servito lo Stato e combattuto la mafia. Il nome del Ros e l’Arma sono stati infangati. Finalmente ci è stata restituita la dignità“.

“Sono contento perché finalmente ha vinto la giustizia giusta e ha perso, è stata sconfitta la giustizia malata. La giustizia malata produce malattia, ecco cosa sono questi 20 anni, sono 20 anni di malattia prodotti dalla giustizia malata. Sono felice”. questo il commento di “Capitano Ultimo“, alias il colonnello Sergio De Caprio, l’ufficiale dei Carabinieri al comando del gruppo Criminor del Ros che catturò Totò Riina, imputato con l’ex generale del Ros Mario Mori nel processo sulla mancata perquisizione del covo del Padrino mafioso, conclusosi con l’assoluzione di Ultimo non impugnata dalla procura.

“Questo processo non doveva neanche cominciare, alla luce di come è finito. Marcello Dell’Utri era estraneo a tutte le accuse e ora gli viene riconosciuto anche dalla Corte di Cassazione”. commenta l’ avvocato Francesco Centonze, legale dell’ex senatore di Forza Italia Dell’Utri. “La trattativa era insussistente – dice il legale – E in ogni caso Dell’utri era estraneo. Oggi viene riconosciuto un lavoro di questi anni ma non abbiamo mai dubitato che finisse così”.

E parlando degli ultimi anni tra indagini, processo di primo e secondo grado, Centonze ha aggiunto: “E’ chiaro che è stato un periodo durissimo – spiega – 30 anni di processo che avrebbero fiaccato chiunque. La verità che Dell’Utri ci trasmetteva andava in questa direzione, non abbiamo mai dubitato che dovesse finire in questo modo”. 

Non nasconde la propria “soddisfazione” il Comandante generale dell’Arma dei Carabinieri Teo Luzi, nel commentare la sentenza che oggi ha assolto definitivamente i carabinieri Mori, De Donno e Subranni. “Le sentenze vanno rispettate, sono contento per l’esito e perché si è finalmente arrivati al termine di una lunga vicenda giudiziaria”, ha aggiunto il Comandante generale dell’Arma. Redazione CdG 1947

«L’inchiesta trattativa, con Falcone e Borsellino, non l’avremmo avuta». Parla Mario Mori, l’ex generale dei Carabinieri assolto dopo un quarto di secolo da imputato. Errico Novi su Il Dubbio il 29 aprile 2023

«In tutti i campi, in ogni settore, sono le singole persone, che contano, più della sovrastruttura di cui fanno parte. Vale per l’Arma dei carabinieri come per la magistratura. Tengo a dire altre due cose. In questi anni, la tensione per un’accusa e un processo iniziati nel 1997 mi hanno tenuto sempre vivo: forse devo dire grazie a tutto questo; e poi, soprattutto, se ci fossero stati ancora Giovani Falcone e Paolo Borsellino, nulla di quanto è avvenuto nelle attività giudiziarie relative alla mafia sarebbe accaduto, in questi ultimi venticinque anni».

Mario Mori sa, non lo nasconde, di aver servito lo Stato anche con il proprio sacrificio di imputato. Insieme con Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, ha sopportato con tenacia, rigore, straordinaria tenuta morale, più di quanto avrebbe potuto sopportarlo chiunque, il peso del lunghissimo processo sulla presunta trattativa Stato- mafia, dal quale giovedì scorso è uscito definitivamente assolto in Cassazione, insieme con gli altri imputati, compreso l’ex senatore e cofondatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri. Mori non perde la serenità, la forza, persino l’ottimismo che l’hanno evidentemente sorretto finora. Ma neanche risparmia critiche a chi ha ritenuto che una complicità, negli anni bui della mafia stragista, potesse annidarsi nel Ros dei carabinieri.

Generale Mori, dopo un quarto di secolo da imputato, che idea ha della giustizia italiana?

Io resto fermo sui principi che mi hanno consentito di andare avanti, e nei quali ho sempre creduto. È molto semplice: l’Arma dei carabinieri, la giustizia, lo Stato, sono sovrastrutture. Poi c’è chi ne fa parte. E certo, possono capitare gli incidenti di percorso: il mio è stato effettivamente un po’ prolungato Come ha resistito?

Si sorprenderà di quanto dico, ma io ho bisogno di un avversario. Nel senso che nella mia vita il confronto con una posizione anche radicalmente avversa alla mia mi ha sempre dato forza. Ho sempre avuto una controparte, in questi venticinque anni. Non sono stati pochi. Ma mi verrebbe da dire che potrei ricominciare tutto daccapo. È la mia vita, è stata la mia vita.

Stare in tensione, oppresso da un’accusa tremenda come quella di aver minacciato lo Stato per conto della mafia stragista, lo ha tenuto vivo, dice?

E sì: sono sempre stato in tensione, forte dei miei convincimenti, della consapevolezza di essere nel giusto. Soprattutto, di aver avuto comportamenti consoni al mio incarico, alle mie funzioni, e di non essere mai andato fuori dal perimetro. Sì, avevo bisogno di un avversario, tanto che subito dopo la sentenza della Cassazione mi sono detto: e ora che faccio?

Ritiene che una parte della magistratura abbia pensato di poter ricostruire la storia del Paese, oltre che perseguire specifiche condotte individuali?

Io ho presente la Costituzione: e secondo la Costituzione, il magistrato deve applicare la legge, non estenderne il significato. In ogni caso, l’idea di dover fare luce su una fase della storia italiana avrebbe dovuto riguardare le competenze non della magistratura, ma di una commissione parlamentare d’inchiesta. Ecco, quella sarebbe stata una strada corretta per provare a comprendere il senso di quanto avvenuto nella storia del nostro Paese in quegli anni. Non capisco invece, un’attività giudiziaria che si proponga un obiettivo del genere.

Le indagini sulla cosiddetta trattativa hanno suscitato, per lungo tempo, grandi consensi e aspettative diffuse: un fenomeno del genere si spiega con quello stesso sentimento di diffidenza nei confronti delle istituzioni che ha accompagnato prima le inchieste di Mani pulite e poi le indagini sulla politica degli anni successivi?

Di sicuro non credo che un clima del genere possa aver condizionato le scelte della magistratura. Altrimenti ci saremmo trovati di fronte a un pericolo molto grave. La magistratura è un’altra cosa e ha ben altri compiti.

I magistrati che hanno condotto indagini sulla mafia sono stati esposti a rischi tremendi. La consapevolezza di essere un bersaglio può incidere sulle scelte di un magistrato?

Ritengo che nessuno possa farsi condizionare nell’attività che svolge. Nella mia vita professionale ho corso dei rischi non trascurabili. Se me ne fossi sentito schiacciato, non avrei potuto fare quel lavoro. D’altra parte, ho dovuto fare i conti con la sofferenza di questi anni, che non è stata lieve.

Cosa direbbero Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, con i quali lei ha lavorato, di questa sentenza?

Le rispondo indirettamente: se ci fossero stati loro non sarebbe avvenuto nulla di quanto è avvenuto in questi ultimi venticinque anni nell’ambito dei processi relativi alla mafia. Sarebbe stata tutta un’altra storia.

Crede che Falcone e Borsellino abbiano lasciato tracce, per le indagini su Cosa nostra, che non sono state seguite abbastanza?

Sicuramente il filone “Mafia e appalti” poteva essere valorizzato meglio.

Ormai è tardi?

Sono scomparsi quasi tutti, quasi tutti coloro che avrebbero potuto essere un riferimento per esplorare quelle ipotesi. Io all’epoca dell’indagine “Mafia e appalti”, sulla quale lavorai, ero un giovincello, ora ho 83 anni. Vengono a mancare le testimonianze. La famiglia Borsellino svolge un’opera meritoria e nobilissima, ma le possibilità di arrivare a dei risultati si sono ridotte terribilmente.

I giudici del processo “trattativa” sono stati un esempio di autonomia e indipendenza, non crede?

Hanno dovuto fare i conti con una pressione ambientale notevole, si sono trovati davanti una Procura importantissima come quella di Palermo. Hanno esaminato le carte, ascoltato i testimoni e redatto in tutta onestà la loro sentenza. Dai giudici palermitani ho ottenuto tre assoluzioni.

Su “Mafia e appalti” lei dice che c’è ormai poco da sperare: e per la possibilità di fare luce su via D’Amelio?

Mi auguro vi sia qualcuno in grado di trovare il bandolo, ma anche qui non vedo molte possibilità.

Un’ultima parola sugli avvocati che l’hanno difesa fino all’assoluzione definitiva: alcuni giovani, come Basilio Milio.

In Cassazione sono stato difeso da un grande luminare come il professor Vittorio Manes. Ho iniziato ad affrontare le mie vicende penali assistito dall’onorevole Pietro Milio, padre di Basilio. Dal padre, la mia difesa è passata al figlio, che ho visto crescere da che era un giovanissimo avvocato fino a diventare un grande professionista, animato da una fiducia e da una forza straordinarie.

Non voleva che il lavoro del padre restasse incompiuto.

Esatto.

"Un martellante racconto mediatico". “Processo su trattativa non sarebbe mai dovuto iniziare, giustizia usata per altri obiettivi”, parla l’avvocato Manes. Paolo Comi su Il Riformista il 29 Aprile 2023 

La storia non si lascia giudicare in un aula di giustizia, perché il processo penale ha ad oggetto fatti ricostruiti secondo prove, ed accertati al di là di ogni ragionevole dubbio”, afferma l’avvocato Vittorio

Manes che ha assistito in Cassazione il generale Mario Mori insieme a Basilio Milio ed il colonnello Giuseppe De Donno insieme a Francesco Romito.

Avvocato Manes, pensa che sia stata una forzatura far entrare quanto accaduto in quegli anni nel codice penale?

Si è inteso portare in giudizio la storia, sostituendosi agli storici, secondo una molto opinabile ipotesi ricostruttiva che poi è diventata una martellante narrazione mediatica, frutto di congetture, suggestioni, supposizioni, dietrologie complottistiche, teoremi. I fatti, con la loro esasperante ostinatezza, sono sempre gli argomenti più testardi, ed alla fine hanno prevalso – anche grazie al notevole lavoro dei colleghi sia dalla fase di merito – smentendo la grande narrazione della trattativa tra le istituzioni dello Stato e Cosa nostra.

In questa vicenda il processo penale ha allora avuto altri fini?

Nel processo Trattativa, ciò che sorprende, o inquieta, e l’utilizzo della giustizia penale come strumento di scopo, per arrivare ad un certo risultato, assumendo che un determinato accadimento sia – per qualche convincimento personale – meritevole di censura per poi ricercare una qualche fattispecie penale che sia utile allo scopo, utilizzandola come una specie di ‘guache’ dilatata ed adattata per aggiungere il risultato che si intende perseguire. E mi riferisco proprio alla contestazione dell’articolo 338 del codice penale. Ma l’interpretazione e l’applicazione delle norme penali non è il letto di Procuste, altrimenti diventa un esperimento di anarchia giuridica. In altri termini, Questo modo di procedere rispecchia un rovesciamento metodologico ed epistemologico rispetto alle logica consueta e corretta del processo penale, che dovrebbe sempre partire da un fatto precisamente riconducibile ad una fattispecie punitiva per verificarne, scrupolosamente, la consistenza probatoria.

Un tema questo già affrontato dal professor Giovanni Fiandaca.

Si. Fiandaca, grande maestro del diritto penale, lo aveva avvertito con la consueta lucidità e rigore, e alla fine credo che la Cassazione gli abbia dato ascolto. Se si ribalta questa logica il giudice – e prima di lui il pubblico ministero – si sostituisce alla legge, piegandola ai propri fi ni. Ed è l’eclissi della separazione dei poteri e dello stato di diritto.

Comunque non si può non essere soddisfatti per l’esito del processo.

Sembrerebbe un lieto fine, ma c’è ben poco di lieto e, temo, non sarà la fine di questa storia, che proseguirà in altre forme visto che si sono già levate le prime voci critiche che – paradossalmente – rivendicano solo adesso la diversità dei criteri di giudizio tra diritto penale e ricostruzione storica. Proprio per questa ragione un processo come questo non sarebbe mai dovuto iniziare, in uno stato di diritto rispettoso delle regole e ai principi.

Paolo Comi

Trattativa Stato-mafia. Filippo Facci, la vera e banale storia che smonta i teoremi

Autore: liberoquotidiano il 30 aprile 2023.

Trattativa Stato-mafia, Filippo Facci: la vera e banale storia che smonta i teoremi (Di domenica 30 aprile 2023) In effetti fu una Trattativa. Un tentativo, almeno. Tra il 1992 e il 1993 lo Stato era allo stremo: l'economia a rotoli, i politici insultati per strada, le inchieste, gli attentati e quello stragismo che peraltro era solo all'inizio. «Vorrei fare un punto, sennò non si capiscono le cose», dirà il generale Mario Mori qualche anno dopo, durante un'udienza a Firenze: «Non eravamo nel 1998, come oggi; l'Italia era quasi in ginocchio, perché erano morti i due migliori magistrati nella lotta alla criminalità mafiosa, non riuscivamo a fare nulla, dal punto di vista investigativo eravamo allo sbando... Cinque anni sembrano pochi... solo cinque anni son passati. Eppure oggi è cambiato completamente tutto». All'inizio dell'estate, il capitano dei Ros Giuseppe De Donno aveva incontrato in aereo il giovane Massimo Ciancimino, figlio di Vito, il sindaco del ...

FILIPPO FACCI sul Post.it il 14 marzo 2012

Una trattativa non si sa tra chi, non si sa con chi, non si sa su che cosa.

I magistrati nisseni, la loro indagine sulla «trattativa», a ben vedere se la demoliscono da soli. Hanno fatto un lavoro immane: 1670 pagine, 300 testimoni, 30 pentiti, 260 mila intercettazioni, 3 anni di lavoro, per quanto la sostanza – emblematica – resta ancorata alla rielaborazione dei 350 faldoni accumulati nei dieci processi fallimentari su via D’Amelio: un mosaico bizantino che poteva essere ricomposto in infiniti altri modi, come pure hanno cercato di fare le procure di Palermo e di Firenze. Ma le incongruenze valgono per tutte. 

Il patto doveva essere questo, secondo i magistrati: voi mafiosi la piantate con le stragi e noi Stato alleggeriamo il carcere duro. E la tesi è nota: Paolo Borsellino fu ucciso perché Totò Riina lo ritenne un ostacolo in questa trattativa in corso con «lo Stato». Ma di quale Stato parliamo? Scrivono i giudici: «Non sono emersi elementi per dire che ci sono responsabilità a carico di uomini politici… È sbagliato parlare di mandanti esterni, casomai si può parlare di concorso di soggetti esterni». Tutto estremamente generico: «È possibile che la decisione di anticipare l’uccisione di Borsellino avesse lo scopo di punire chi si opponeva alla trattativa». È possibile, scrivono. Il gip è più assertivo: «La tempistica della strage è stata certamente influenzata dall’evoluzione della cosiddetta trattativa».

Dunque le novità dell’inchiesta – quasi tutte note – sarebbero che Borsellino si sentì tradito quando il 28 giugno 1992 apprese dalla collega Liliana Ferraro che tre papaveri dei Ros (i carabinieri Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni) avevano cercato di agganciare il mafioso Vito Ciancimino: questo per «trattare» qualcosa, presumono i magistrati. Un’altra novità, poi, sarebbe che Agnese Borsellino, moglie di Paolo, dopo vent’anni ha improvvisamente ricordato che il marito le riferì che il citato generale Subranni era «punciutu», cioè mafioso. Va detto che in passato Agnese Borsellino aveva messo a verbale che il marito non le parlò mai di alcuna trattativa, e va detto, pure, che la tempistica della rivelazione su Subranni è resa problematica dalle condizioni di salute della vedova, afflitta da un morbo senile. Un altro dettaglio, poi, sarebbe la sparizione dell’agenda rossa di Borsellino dopo la strage: ma, a parte che non si sa neanche se il magistrato l’avesse con sé, i magistrati si limitano a rilevare che «probabilmente» – lo riferisce il Corriere della Sera – il giudice vi avesse annotato «non sappiamo con precisione cosa». Questi i termini, la vaghezza. 

Il corpo del baratto con Cosa Nostra, comunque, sarebbe stato l’abolizione del carcere duro (41bis) che i mafiosi temevano come la morte, ed è qui che parte la fiera dell’illogica. La «trattativa» dei Ros risalirebbe al giugno 1992, ma il 41bis, nello stesso periodo, neppure esisteva; il governo, dopo la morte di Falcone del 23 maggio precedente, ne aveva predisposto l’introduzione l’8 giugno: ma dapprima il decreto rimase inapplicato, anche perché molti in Parlamento si opponevano. Quando fu varato? Lo fu, attenzione, subito dopo la strage di via D’Amelio, e a causa di essa: il Guardasigilli emise 369 decreti applicativi del 41bis per 369 mafiosi, 156 dei quali, peraltro, furono trasferiti nottetempo a Pianosa e all’Asinara. Quando vi fu la strage di via D’Amelio, a esser precisi, mancavano pochi giorni alla scadenza del termine di approvazione del decreto sul 41 bis, bastava solo aspettare e sarebbe decaduto: e invece la morte di Paolo Borsellino, presunto ostacolo a una trattativa per abrogare un provvedimento mai varato, in pratica ne causò l’introduzione. Una dinamica che chiunque poteva prevedere, persino Riina. 

Ebbene, i magistrati nisseni l’hanno raddrizzata così: «Se si riflette sulle caratteristiche umane e criminali del cosiddetto capo dei capi, è del tutto plausibile che Salvatore Riina, noto per la sua feroce determinazione criminale, abbia potuto confidare che con il compimento di un ulteriore attentato di quella gravità si potesse rivitalizzare una trattativa che sembrava essere arrivata su un binario morto, non curandosi delle conseguenze negative che sarebbero potute conseguire». I magistrati ritengono, in altre parole, che Totò Riina fosse un mezzo deficiente. Ma la tesi del Borsellino presunto «ostacolo», proseguendo, poggia anche su questo verbale di Brusca che in realtà non conferma niente, anzi: «Non ho mai parlato con Riina del fatto che il Dr. Borsellino sia stato ucciso in quanto ostacolo alla trattativa, si tratta di una mia interpretazione… Mi venne detto da Riina che vi era un muro da superare, ma non mi venne fatto il nome di Borsellino». Traduzione: dopo vent’anni siamo nelle mani delle interpretazioni di Brusca, personaggio che uccise il piccolo Giuseppe Di Matteo e che ammise di aver «strangolato parecchie persone, sciolto i cadaveri nell’acido muriatico, carbonizzato altri cadaveri su graticole costruite apposta»; personaggio che soprattutto, a proposito di quanti cercano d’infilare anche la morte di Falcone nel canaio della trattativa, nel 1999 aveva già messo nero su bianco: «Prendemmo la decisione iniziale di uccidere Falcone alla fine del 1982… non tramontò mai il progetto di ucciderlo». L’ex magistrato Giuseppe Ayala, non propriamente il primo che passa, ha poi ricordato che «la corte d’assise d’appello di Catania, sulla base dei dati processuali a disposizione, ha stabilito che la decisione di uccidere sia Falcone che Borsellino fu presa da Cosa nostra alla fine del 1991». 

Ma tornando a Riina: è notevole che sarebbe stato, nel caso, un mezzo deficiente per ben due volte: infatti la fase successiva della trattativa da lui condotta, secondo i pm, comprese anche il suo arresto nel gennaio 1993. Il passaggio non è chiarissimo, sta di fatto che le bombe del 1993, par di capire, divennero appannaggio di Bernardo Provenzano e corollario di una perdurante trattativa sul 41bis. E qui l’illogica dilaga. I magistrati infatti tirano in ballo Oscar Luigi Scalfaro e l’ex ministro Nicola Mancino e l’ex guardasigilli Giovanni Conso, tutti presuntissimi attori della trattativa: ma senza una conferma che sia una, anzi. Il procuratore nisseno Nico Gozzo, intervistato nei giorni scorsi, ha detto che «nel novembre 1993 lo Stato decise di liberare circa 400 uomini della criminalità organizzata». Ma non è vero, non è esatto: il ministro della Giustizia, Giovanni Conso, in una prima fase prorogò tranquillamente 325 decreti applicativi del 41bis, e poi, quando altri decreti andavano in scadenza, il primo novembre 1993 decise di non prorogarne solo 140. Scalfaro, per quel che vale, ha parlato di «decisione umanitaria», mentre Conso, sentito dalla Commissione antimafia, ha messo a verbale: «Nel momento in cui si poteva replicare o no questo potere discrezionale, è stato deciso di non farlo, e me ne assumo piena responsabilità in un ottica non di pacificazione, ma con lo scopo di frenare la minaccia di altre stragi». Una decisione autonoma, la sua. La storia e la levatura di Conso portano a escludere che possa esser stato reticente a proposito di trattative che a suo dire gli furono sconosciute; gli unici a non credergli, infatti, sono proprio i magistrati: «C’è da chiedersi se il suo non sia stato il prezzo della trattativa pagato dallo Stato… e può rispondersi positivamente». Può rispondersi. Ecco dunque la trattativa in un guscio di noce: Cosa nostra ammazza Falcone, poi Borsellino, poi lascia catturare Riina da Mario Mori, poi – per la prima volta nella sua storia – decide di far strage fuori dalla Sicilia e di piazzare bombe a Milano e a Firenze e a Roma, una strategia terrificante per ottenere che cosa? Il mancato rinnovo di 140 decreti applicativi del 41bis. Anzi, neanche: perché il 23 gennaio 1994 ci fu un’altra bomba che per fortuna non esplose, e parliamo della Lancia Thema imbottita di esplosivo che venne parcheggiata vicino allo stadio Olimpico in una zona di passaggio della folla di tifosi, ciò che sarebbe stata una delle più agghiaccianti carneficine della storia repubblicana. Dopodiché le stragi finirono: senza un perché, senza che i magistrati nisseni o palermitani o fiorentini abbiano una spiegazione seria di nessun genere. 

In mezzo a tutto questo, a Palermo, continua l’incredibile processo al colonnello Mario Mori, accusato di favoreggiamento alla mafia anche se il tema sottotraccia, al solito, è quello della trattativa. Lui e Giuseppe De Donno sono coloro che secondo varie procure la intavolarono dal «livello statuale» più basso: e per conto di chi, ovviamente, non è chiaro. I due non negano d’aver contattato, nell’estate 1992, il mafioso Vito Ciancimino all’insaputa di Borsellino: ma inquadrano la loro mossa nell’ordinario e personale tentativo di identificare i responsabili delle stragi per fermarne il proliferare, questo non senza esplorare quella famigerata zona grigia che in Sicilia, come altrove, divide il lecito dall’illecito. Il processo, condotto dai pm Antonio Ingroia e Nino Di Matteo, resta tutto sommato il più surreale tra tutti quelli siciliani: sia perché Mario Mori è l’uomo che arrestò Totò Riina, sia perché il dibattimento è contraddistinto da una sfilata memorabile di testimoni e sia perché resta incardinato sui complicati racconti di Massimo Ciancimino, un teste che la procura di Caltanissetta ha completamente demolito benché sia portato in palmo di mano dai vice-Ingroia del Fatto quotidiano: «I suoi comportamenti appaiono inspiegabili alla luce dei più elementari principi della logica», hanno chiosato i magistrati nisseni. Come tutto il resto. Non si può tuttavia escludere, hanno pure scritto, che dietro le cazzate di Ciancimino «non si nasconda una occulta cabina di regia». E si ricomincia. 

Stato-Mafia, Filippo Facci smonta le teorie di Nino Di Matteo e delle toghe di Palermo: "Tutte le loro cantonate". Filippo Facci su Libero Quotidiano il 25 settembre 2021

La trattativa che non ci fu, o che non si dovrebbe chiamare trattativa, o che, se anche ci fu, fu benemerita: dizionario ultra-minimo per capirci qualcosa o, doverosamente, per continuare a non capirci niente. Cicerchia Luciana. Giudice della corte d'Assise d'appello di Firenze a cui, da anni, si appendono le argomentazioni di chi sostiene che la trattativa vi fu. Ecco il cristallino passaggio della sua sentenza: «Molto più complessa e non definitiva è la conclusione alla quale si può pervenire nei limiti del presente processo in ordine all'esatta individuazione dei termini e dello stato raggiunto dalla cosiddetta Trattativa, la cui esistenza, comprovata dall'avvio poi interrotto di iniziali contatti emersi tra rappresentanti politici locali e delle istituzioni e vertici mafiosi, è però logicamente postulata dalla stessa prosecuzione della strategia stragista». Conso Giovanni. Defunto giurista ed ex Guardasigilli che testimoniò che prese in solitudine la decisione di non rinnovare il 41bis (carcere duro) nel 1993, legge ai tempi incostituzionale, come confermarono altri testi come Violante, Martelli, Amato, Rognoni, Andò, Pomodoro, Contri, Ferraro, Gratteri, Savina e Principato. Al giudice di primo grado (del processo ribaltato l'altro ieri) non importò.

Cronisti 1. Ce ne sono tre che non solo hanno professato la loro faziosità, ma sono stati testi d'accusa nel processo: Antonio Padellaro e Sandra Amurri (Fatto Quotidiano) e Saverio Lodato (ex Unità, ora Antimafia Duemila). I primi due ci avevano già provato nel processo a Calogero Mannino. Cronisti 2. Tra i colpevolisti più sfacciati: i complottardi carpiati con avvitamento Lo Bianco Giuseppe & Rizza Sandra (Fatto Quotidiano), autori di infiniti libri sul tema; Bianconi Giovanni, grigio colpevolista del Corriere travestito (male) da equidistante; Palazzolo Salvo di Repubblica; La Licata Francesco della Stampa; Lodato Saverio di Antimafia Duemila», movimento il cui presidente, Giorgio Bongiovanni, ha sostenuto pubblicamente di avere le stimmate e di essere la reincarnazione di uno dei bambini veggenti di Fatima. De Caprio Sergio, detto Ultimo. Eroe. Ex capo dei Ros dei carabinieri noto per aver arrestato Totò Riina il 15 gennaio 1993 in coordinamento col generale Mori, grazie a quello che il tribunale di Palermo ha definito «l'intuito investigativo del cap. De Caprio». Fu accusato di favoreggiamento nei confronti di Cosa Nostra per la ritardata perquisizione del covo di Riina, che pure aveva catturato lui. 

Dell'Utri Marcello. Ora assolto, in primo grado fu ritenuto una sorta di ambasciatore dell'ulteriore ricatto che dal 1994 avrebbe condizionato il primo governo Berlusconi. Nel dispositivo si diceva che per fermare le stragi del 1992-93 ben tre governi della Repubblica accettarono di venire a patti con Cosa nostra. Di Matteo Antonino (detto Nino). Continuatore dell'inchiesta sulla «trattativa» iniziata da Ingroia e, in precedenza, co-protagonista del fallimentare processo sulla strage di Via D'Amelio che uccise Paolo Borsellino e che fece finire in galera degli innocenti per ben 18 anni. Fontana Mario. Giudice del processo Mori-Obinu (mancata cattura di Bernardo Provenzano) la cui sentenza spiegò che non ci fu nessuna «trattativa» tra Stato e mafia. La sentenza costituiva un fantasma che tutti avvertivano ma che nessuno voleva vedere per come distrusse ogni tesi a riguardo. Diffamati da Marco Travaglio, Fontana e altri due giudici a latere ricavarono 150mila euro di risarcimento dal diffamatore. Ingroia Antonio. Primo propulsore del delirio trattativa, da pm, prima che lasciasse la magistratura per buttarsi in politica con esiti catastrofici. Nel 2018 gli hanno finalmente tolto l'inutile scorta. 

Mannino Calogero. Ex parlamentare democristiano siciliano assolto con rito abbreviato dall'accusa di violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario (art. 338 c.p.) con la formula «per non aver commesso il fatto», L'accusa aveva chiesto nove anni. Nelle motivazioni della sentenza definitiva già si apprendeva che la «trattativa» dei Ros era solo «ordinaria attività investigativa» con l'obiettivo di catturare Totò Riina. 

Nell'annullare una precedente il procuratore generale della Cassazione scrisse che «Nella sentenza di condanna di Mannino non c'è nulla, torna ossessivamente sugli stessi concetti ma non c'è nulla che si lasci apprezzare in termini rigorosi e tecnici, nulla che possa valere a sostanziare l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Questa sentenza costituisce un esempio negativo, da mostrare agli uditori giudiziari di come una sentenza non dovrebbe essere mai scritta». Montaldo Alfredo. È il giudice della condanna in primo grado, sul quale ledifese riponevano poche speranze non solo per il comportamento in istruttoria, ma per via del curriculum. È lo stesso il giudice, tra l'altro, che nel 1995 tenne Calogero Mannino in carcere per una vita, e che, dopo che Mannino aveva perso 40 chili tra le sbarre, disse che era stata una sua scelta dietetica perché si nutriva solo di verdure. La sua sentenza di primo grado portò a 12 anni di condanna per gli ex generali Mario Mori e Antonio Subranni, altri 12 per Marcello Dell'Utri, otto per l'ex colonnello Giuseppe De Donno. La sentenza assolse l'ex ministro Dc Nicola Mancino che gongolò stucchevolmente come se al centro del processo ci fosse stato solo lui. Molti giornalisti non mancarono di collegare scioccamente la sentenza al «mutato clima politico», cioè alla presenza grillina al governo. 

Mori Mario. Eroe. Uomo che di fatto ha condotto Riina a 25 anni di 41bis. Già processato e assolto lamancata cattura di Provenzano e la mancata perquisizione del covo di Riina. Ora per la «trattativa». Morosini Piergiorgio. Gip che subentrò a Michele Alaimo a margine del processo di primo grado (quello rivoltato l'altro giorno) e che fu colto come un pessimo segnale dalle difese: nel precedente 2011 Morosini aveva scritto un libro (Attentato alla giustizia) in cui si citavano ampiamente «i recenti sviluppi sulla "trattativa" tra Stato e mafia che sarebbe sullo sfondo delle stragi del 1992 e 1993». Durante il processo di primo grado non furono accolti una montagna di documenti della difesa e furono respinti testi anche del calibro di Ilda Boccassini, Giuseppe Ayala e Antonio Di Pietro. Travaglio Marco. Scarabeo stercorario (specie sacer) nell'antichità collegato a Khepri, il dio del sole nascente (specie Conte) che si supponeva creasse il Sole ogni giorno in modo analogo a quello con cui lo scarabeo crea la pallottola di sterco. 

E' la prima volta che lascio un giornale senza essere cacciato...Lascio il Riformista a Renzi, resta il garantismo contro le bufale-giudiziarie dei giornaloni che coprono la mafia. Piero Sansonetti su Il Riformista il 29 Aprile 2023 

Giornali italiani, quasi tutti, hanno messo la sordina a quella che ieri era la notizia del giorno: la sentenza della Cassazione che dichiara solennemente che la trattativa Stato-mafia non c’è mai stata. Perché mettono la sordina? Perché quasi tutti i giornali italiani, e molte tv, soprattutto la tv di Stato, hanno per decenni sostenuto la tesi che la trattativa c’era stata. Lo hanno sostenuto con due obiettivi: colpire i Ros del generale Mori e cercare di coinvolgere Berlusconi in uno scandalo che potesse travolgerlo.

Chiunque conoscesse un minimo i fatti capiva in un attimo che Berlusconi non c’entrava nulla di nulla, con quella storia di mafia, e che il generale Mori era ed è l’unico tra i viventi ad aver combattuto e ferito la mafia con tutte le sue forze. Per anni giornalisti e magistrati, tanti, di tutti i colori, hanno costruito le proprie carriere, anche formidabili carriere, sullo stravolgimento della realtà. E in questo modo hanno favorito la mafia, sviando le indagini, o insabbiandole o inquinandole. E stordendo l’opinione pubblica. Le loro carriere non saranno scalfi te da questa sentenza. Oggi io lascio Il Riformista, che era tornato in edicola 4 anni fa dopo 7 anni di assenza. Lo lascio a Matteo Renzi. Con questo grande orgoglio: Il Riformista è stato uno dei pochi giornali a battersi contro la bufala della trattativa, e contro la cosiddetta antimafia che faceva il gioco della mafia eri ho dato un’occhiata ai giornali. Grandi e medi. Di vari orientamenti politici. Per capire con quale taglio avessero dato la notizia del giorno. Cioè la solenne dichiarazione della Corte di Cassazione, la quale ha certificato che una trentina d’anni di politica e cultura antimafia sono stati costruiti tutti su svariate balle, utili solo a impedire la lotta alla mafia. Diciamo, con indulgenza: eterogenesi dei fi ni. (Dando per scontata la buonafede).

Mi ha sorpreso un po’ (perché dopo 48 anni di professione sono ancora un fesso ingenuo) il modo in cui la gran parte dei quotidiani, o forse la totalità (escluso solo Il Giornale). hanno messo la sordina alla notizia. Piccoli titoli, niente paginate, e persino, da parte di qualcuno, la faccia tosta di scrivere che è stato accertato che la trattativa stato-mafia non c’è stata ma invece c’è stata. “Il Fatto di Travaglio” – che in questi anni ha impartito molte lezioni – fa anche dello spirito. Dice: siccome i mafiosi sono stati prescritti dal reato di trattativa, vuol dire che sono colpevoli e quindi la trattativa c’è stata. Esempio lampante di come si prende una cosa chiara e la si ribalta in modo che abbia un significato contrario. Gli inglesi dicono “fake”. Il problema è che, all’insaputa di Travaglio, i mafiosi – Bagarella, Brusca e altri – erano accusati di “minacce a corpo politico”, non di “trattativa”. La trattativa, secondo le accuse della stampa, delle tv e dei Pm aggregati a stampa e tv, sarebbe avvenuta tra i mafiosi e i carabinieri e Dell’Utri, ma invece i magistrati di appello e poi quelli della Cassazione hanno accertato che era solo una bufala. In linea teorica (teorica, perché la prescrizione non è una condanna) i mafiosi possono aver minacciato senza trattare con nessuno.

Non ci vuole un genio per raccontare come sono andate le cose. Riassumo in poche righe. I Ros dei carabinieri, guidati da Falcone, stavano scoprendo il velo sui rapporti della mafia con ampi settori di imprenditoria del Nord, e avevano preparato il famoso dossier-Mori. La mafia, per reazione, prima attaccò Falcone, uccidendolo, e poi (siccome Borsellino chiedeva che fosse assegnata a lui l’inchiesta sul dossier-Mori) uccisero anche Borsellino. A quel punto la Procura di Palermo, con un documento firmato dal senatore Scarpinato e dal dott. Lo Forte, pochi giorni dopo l’uccisione di Borsellino chiese l’archiviazione del dossier-Mori. E l’ottenne in qualche settimana appena. Le indagini sui rapporti tra mafia e imprenditoria si persero. Contemporaneamente un altro pezzo dello Stato (polizia e forse anche magistratura) si incaricò di deviare le indagini sull’omicidio Borsellino, e ci riuscì bene ammaestrando un pentito di nome Vincenzo Scarantino che raccontò un sacco di balle ai magistrati – tra i quali anche Nino Di Matteo – che gli credettero e nessuno più indagò sulle ragioni vere dell’uccisione di Borsellino.

A quel punto la lotta antimafia era impacchettata, finita. Ma restava un pericolo in azione: i Ros di Mori. Che nel frattempo avevano catturato il capo di Cosa Nostra, cioè Totò Riina, cosa vista non troppo bene in vari ambienti. Fu allora che la Procura dichiarò guerra a Mori per neutralizzarlo. E lo trascinò in diversi processi (quattro mi pare) che lo immobilizzarono per un quarto di secolo. Sempre assolto, sì, perché le accuse erano davvero scombiccherate, ma al prezzo di inaudite sofferenze morali per lui, per i suoi carabinieri e anche per Marcello Dell’Utri. Fino all’altro giorno, quando la Cassazione ha definitivamente mandato a quel paese gli inetti – si, dai: diciamo inetti, siamo generosi…- della Procura di Palermo, e ha definitivamente riabilitato gli imputati.

La persecuzione contro Mori è stata sostenuta, in tutti questi anni, da un formidabile schieramento di stampa e tv, soprattutto tv di stato. Testimonianze false, filmati, fiction, ore di improperi nel talk. Vogliamo riassumere il tutto con una frase breve: un ingente schieramento ha difeso a spada tratta la mafia, immobilizzandone i nemici, e si è autodefinito schieramento antimafia. Non aveva nulla di antimafia: era il contrario. E Mori, in modo del tutto evidente, è tra gli italiani viventi l’unico (assieme ai suoi collaboratori) ad avere combattuto davvero Cosa Nostra. Questo giornale, Il Riformista, che è tornato in edicola dopo sette anni di silenzio il 29 ottobre del 2019, in questi quasi quattro anni si è occupato molte volte della trattativa. E quasi sempre – a parte gli eccellenti articoli di Damiano Aliprandi sul Dubbio – se ne è occupato in spaventosa solitudine. Cercare di raccontare la verità, di smontare le fandonie costruite nella fabbrica comune di Procure&giornali&Tv, di andare ai fatti, di mettersi contro i magistrati più famosi, non è un mestiere facile. Loro sono potenti: ti rendono la vita impossibile. Escludendoti dalle fonti e perseguitandoti con le querele. Personalmente ne ho collezionate decine dai magistrati più famosi di Italia. Perché lo fanno? Per intimidirti: è il loro metodo, sono convinti che funzioni, a loro ha sempre funzionato.

In questi quattro anni la missione principale di questo giornale è stata sempre la stessa: informare e far valere il principio fondamentale del garantismo per tutti e contro tutti. Che noi consideriamo la colonna portante della modernità. Siamo stati in prima linea, quasi sempre soli, per difendere i Rom lapidati all’unanimità, per difendere Dell’Utri e Cuffaro e Berlusconi – il perseguitato numero uno dalla giustizia – e per difendere Cospito, e la preside siciliana, e tanti assessori di sinistra, e i vecchi esuli in Francia che il governo italiano rivorrebbe indietro, contro ogni legge e diritto, e chiunque venga messo sul banco degli imputati dalla macchina infernale della stampa forcaiola e poi delle Procure. L’altro giorno, per dirne una, Marco Travaglio – che ieri non ha voluto commentare con la sua penna la sentenza sulla trattativa – si è indignato perché i giornali parlavano poco di uno scandalo clamoroso: una assessora al Comune di Roma indagata per corruzione per avere ricevuto in regalo quattro bottiglie di vino. Non ci credete? È così. E se si ha la coscienza a posto ci si vergogna un po’, oggigiorno, per il fatto di appartenere alla categoria dei giornalisti. In questa categoria c’è un sacco di brava gente, colta, professionalmente dotata. È così: ma conta pochissimo questa gente. Contano i vertici del giornalismo, e sui vertici è meglio tacere.

Vi saluto cari lettori. Questo è l’ultimo giorno nel quale firmo da direttore Il Riformista. Dalla settimana prossima il direttore editoriale sarà Matteo Renzi e il direttore responsabile Andrea Ruggieri. Faccio a loro tanti auguri. E son convinto che terranno ferma la linea garantista. Io tra un paio di settimane assumerò la direzione dell’Unità. Che tornerà in edicola dopo sei anni di assenza. E che è un giornale gloriosissimo e grandioso, nel quale, da giovane, ho lavorato per trent’anni. E che sarà un giornale radicalmente di sinistra (come in questi ultimi mesi, del resto, è stato Il Riformista). Sono molto contento del mio nuovo incarico, perché penso che la sinistra italiana abbia un bisogno assoluto dell’Unità. La speranza è che l’Unità e Il Riformista insieme – pur distanti su moltissime idee e su tanti giudizi politici – possano in qualche modo iniziare una controffensiva contro la palude giornalistica che sta uccidendo, in Italia, l’informazione.

I ringraziamenti? Naturalmente alla redazione, magnifica, con la quale abbiamo fatto Il Riformista, dando tutti noi stessi. E poi – forse soprattutto – al mio amico Alfredo Romeo, cioè all’editore, che ha creduto in questa sfida e che da questo mese di maggio sarà alla testa di due quotidiani di centro e di sinistra. Senza gli sforzi di Alfredo non avremmo mai potuto neppure immaginare questa avventura. Non lo conoscevo, prima del 2019. Mi ha fatto ricredere sull’imprenditoria meridionale. Mi ha dimostrato che esiste gente capace, orgogliosa, coraggiosa, onesta, che sa sfidare il capitalismo becero, e che sa usare la forza di imprenditore per combattere grandi battaglie civili. Come la battaglia per il garantismo. Che lui sente fortissima, anche perché è uno di quelli che, da innocente, ha dovuto subire anni di persecuzioni. Sono molto contento di continuare a lavorare con lui, e provare, con lui, a resuscitare il giornale di Gramsci.

P.S. Mentre scrivo mi rendo conto che questa è la prima volta che lascio un giornale senza essere cacciato…

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Le super carriere dei pm sui teoremi Stato-mafia. Felice Manti il 29 Aprile 2023 su Il Giornale. La figlia di Borsellino: processi più in tv che in aula. "Il Domani": Cairo sarà sentito sulla foto di Baiardo 

Passata la sentenza, affiorano i veleni. E colpiscono al cuore la magistratura siciliana. «Un Titanic», lo definisce sul Foglio il giudice milanese Guido Salvini. Dopo l'assoluzione annunciata decisa dalla Cassazione per tutti gli imputati nella presunta Trattativa Stato-Mafia, da Mario Mori a Giuseppe De Donno fino a Marcello Dell'Utri, nell'Isola si scatena la guerra. «Qualcuno ha costruito la sua carriera su questo processo, immeritatamente», dice a caldo Fiammetta Borsellino all'AdnKronos commentando il tramonto definitivo sulla suggestione di un famigerato accordo tra boss e Palazzo legato alle stragi in cui morirono suo padre Paolo e Giovanni Falcone.

Da anni la figlia minore del giudice combatte perché qualcuno faccia luce sui tanti misteri che ancora avvolgono le indagini sulle stragi e se la prende, senza mai citarli, con i magistrati dell'accusa che sono stati ospiti in numerose trasmissioni televisive. «Ho trovato deontologicamente scorretto pubblicizzare mediaticamente un procedimento, con giornalisti complici di queste operazioni - aggiunge Fiammetta Borsellino - prima ancora che finisse l'iter giudiziario, che poi si è dimostrato un fallimento». Su Twitter il vicesegretario di Azione Enrico Costa passa ai raggi X i curriculum dei magistrati bocciati dalla sentenza: «Un Pm ha fondato un partito (Antonio Ingroia, ndr), un altro è stato eletto al Csm (Nino Di Matteo, ndr), così come il Gip (Piergiorgio Morosini, ndr) un altro è andato ai vertici del Dap (Roberto Tartaglia, ndr) e ora collabora con il governo. Un altro fa il senatore (Roberto Scarpinato, ndr)». A fare gli altri nomi ci pensa Maurizio Gasparri di Forza Italia: «Chissà cosa hanno da dire dopo la sentenza ulteriore della Cassazione Vittorio Teresi, Francesco Del Bene, Tartaglia, Scarpinato, Ingroia, Di Matteo ed altri, alcuni dei quali hanno creduto a personaggi come Vincenzo Scarantino. Noi cercheremo la verità che in alcune procure invece veniva sostituita da teoremi privi di fondamento. La storia non finisce. Comincia ora». Non a caso c'è anche chi tra i giornalisti ribalta completamente la narrazione, come fa Sigfrido Ranucci di Report: «Chi dice che la narrazione sulla Trattativa è stata inventata, citando la sentenza della Cassazione, dice una cazz...». Segno che alcune sentenze della Suprema Corte si possono criticare. Altre no, ma tant'è... Ma sul banco degli imputati non c'è più la politica ma la stessa magistratura. Quella che ha indagato oggi e quella di allora. «È arrivato il momento di concentrarsi sul nido di vipere di cui parlava Borsellino», dice all'Adnkronos l'avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia del giudice e marito di Lucia Borsellino. Che ricorda il delicatissimo fascicolo «mafia-appalti» forse frettolosamente archiviato il 13 luglio 1992 che fu al centro di un incontrò segreto proprio con Mori e De Donno prima che saltasse in aria, i possibili «recenti depistaggi sul tema del difficile periodo di Borsellino in quella procura retta da Pietro Giammanco». Bisogna ricordare anche che cinque giorni prima della strage di Via D'Amelio, Borsellino partecipò a un incontro alla Procura di Palermo proprio di quel dossier. «In quell'incontro il pm Guido Lo Forte nascose al giudice di avere firmato, appena il giorno prima, l'archiviazione dell'inchiesta». Cosa c'era davvero in quelle carte? La caduta del teorema riporta alla mente anche l'epitaffio pronunciato dalla Cassandra Luca Palamara, che nel suo libro Lobby&Logge aveva stigmatizzato definendolo «un intreccio di teoremi, complotti, depistaggi e veleni che una procura di Palermo fuori controllo stava usando come una clava, che ha travolto una classe politica e bruciato più di un magistrato». Ma chi pensa che la lotta ai fantasmi si fermarsi qui, si sbaglia. Ieri il Domani ha scosso il mondo dell'informazione scrivendo che l'editore del Corriere della Sera e di La7 Urbano Cairo potrebbe essere sentito dai pm di Firenze che indagano sulla famigerata foto che ritrarrebbe Silvio Berlusconi con il boss Giuseppe Graviano e con il generale dei carabinieri Francesco Delfino. Un'immagine di cui nessuno ammette l'esistenza ma di cui Massimo Giletti avrebbe parlato con il suo editore, sufficiente però per riaccendere i riflettori sulla presunta Trattativa smentita dalla Cassazione.

Stato-mafia, processi e polemiche politiche dall’Arma fino al Quirinale: la parola fine dopo oltre 10 anni. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 27 Aprile 2023. 

Dal patto con Cosa Nostra alle ultime ipotesi: tutte le accuse cadute

Sul filo del traguardo finale, il processo alla cosiddetta trattativa Stato-mafia perde anche l’ultimo pezzo, quello che teneva in piedi il ricatto di Cosa nostra veicolato attraverso rappresentanti delle istituzioni: bombe, e minacce di altre bombe, per convincere il governo alla retromarcia sulle più pesanti misure antimafia. A cominciare dal «carcere duro» per i boss.

Gli ex generali dei carabinieri Antonio Subranni e Mario Mori, come l’ex colonnello Giuseppe De Donno, erano stati assolti già in appello, ma «perché il fatto non costituisce reato»; avevano fatto la trattativa ma con l’obiettivo di fermare le stragi che il 1992 e il 1993 avevano già insanguinato l’Italia, e avrebbero continuato a farlo. Nessun «dolo» (nemmeno eventuale) di rafforzare la minaccia mafiosa. Ora invece la Cassazione dice che i tre carabinieri «non hanno commesso il fatto», e la minaccia dei mafiosi (condannati anche in appello) è stata solo «tentata». Dunque non si sa neanche se sia arrivata al governo. 

Indagini e dibattimenti

Un’assoluzione più radicale che non mette in discussione solo l’impianto dei pubblici ministeri di primo e secondo grado ma pure — sembra di capire, in attesa delle motivazioni — le valutazioni dei giudici d’appello sul comportamento dei carabinieri in favore dell’ala meno violenta di Cosa nostra, guidata da Bernardo Provenzano, contrapposta a quella di Totò Riina.

Era la parte che restava all’accusa: un pezzo di Stato che favorisce un pezzo di mafia, al di là delle valutazioni tecnico-giuridiche sull’esistenza o meno del reato. Ora la Cassazione pare aver cancellato anche questo segmento, e chiude un processo durato dieci anni. L’indagine invece molto di più, sempre accompagnata da polemiche e contestazioni non solo in ambito giudiziario, ma anche — soprattutto — politico. E per certi versi si può considerare ancora in corso, visti gli incroci con l’inchiesta tuttora aperta a Firenze su ipotetici mandanti esterni delle stragi del ’93 (in cui è indagato l’ex senatore forzista Marcello Dell’Utri, anche lui assolto definitivamente ieri per la trattativa, come in precedenza l’altro politico coinvolto, il democristiano Calogero Mannino) e con il processo-cugino di Reggio Calabria sulla ‘ndrangheta stragista, dove il boss mafioso Giuseppe Graviano è stato condannato in primo e secondo grado per due omicidi commessi al di là dello stretto a gennaio del ‘94; sempre con lo scopo di ricattare lo Stato.

Il processo che s’è chiuso ieri ha preso le mosse dalle traballanti, e in gran parte sconfessate, dichiarazioni di Massimo Ciancimino, una sorta di «maggiordomo della trattativa» che accoglieva in casa i carabinieri del Ros e li vedeva dialogare col padre Vito, subito dopo la strage di Capaci che aveva ucciso Giovanni Falcone, sua moglie e tre agenti di scorta.

Le parole di Mori

Di «trattativa» con l’ex sindaco mafioso di Palermo agli arresti domiciliari aveva parlato, del resto, lo stesso generale Mori testimoniando al primo processo di Firenze; senza immaginare che quella parola si sarebbe poi tramutata, qualche lustro più tardi, in un capo d’imputazione contro di lui; aggiuntosi a quelli formulati per la mancata perquisizione al covo di Totò Riina, dopo il suo arresto nel gennaio 1993, e per la mancata cattura di Bernardo Provenzano nell’autunno del 1995: altri processi e altre assoluzioni, che però non hanno mai scacciato le ombre. Riproposte come elementi d’accusa prima nell’indagine e poi nei dibattimenti sulla trattativa. Conclusi da verdetti inizialmente favorevoli alla Procura di Palermo, che nel frattempo cambiava vertici e volti. 

L’udienza da Napolitano

In primo grado — in aula c’erano il procuratore aggiunto Vittorio Teresi e i sostituti Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, dopo che Antonio Ingroia aveva abbandonato la toga per la politica — la raccolta delle prove durò cinque anni e arrivò fino al Quirinale, con la testimonianza dell’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Nel corso dell’indagine era stata intercettata la sua voce, mentre parlava con l’ex presidente del Senato Nicola Mancino; ne scaturì un conflitto approdato alla Corte costituzionale, insieme a incomprensioni e polemiche mai sopite. Nel 2018 giunse la condanna per tutti gli imputati (tranne Mancino, assolto dall’accusa di falsa testimonianza). Tre anni dopo, in appello, verdetto ribaltato a metà: condanna per i mafiosi e assoluzione per i carabinieri e Del’Utri. Con motivazioni molto pesanti per gli ex ufficiali dell’Arma, protagonisti di «un’iniziativa quanto mai improvvida oltre che in totale spregio ai doveri del loro ufficio e ai loro compiti istituzionali», dalla quale derivò «una sorta di ibrida alleanza» con la fazione mafiosa di Provenzano, siglata per «indicibili ragioni di “interesse nazionale”»: meglio la «strategia della invisibilità e della sommersione» che le bombe.

Accusa senza voce

Contro quell’assoluzione, giudicata contraddittoria, la Procura generale di Palermo aveva fatto ricorso in Cassazione, ma nell’aula della sesta sezione l’accusa è rimasta senza voce: i pm della Corte suprema, infatti, hanno chiesto un nuovo processo per i carabinieri non per ottenere una condanna, ma perché non ritenevano sufficientemente provati i fatti alla base del verdetto. La Cassazione è andata oltre, arrivando da sé all’assoluzione più ampia. Chiudendo definitivamente un processo, ma — c’è da scommettere — non le diatribe per come è stato aperto e condotto fino all’ultimo grado di giudizio.

Trattativa Stato mafia, il peccato originale che le sentenze non cancellano. Lirio Abbate su L'Espresso il 28 Aprile 2023. 

I fatti del 1992 non si possono dimenticare con una sentenza di assoluzione definitiva per i carabinieri e gli altri imputati. Perché si tratta di una storia, riportata anche nelle motivazioni della decisione della Corte d'appello di Palermo che la Cassazione ha confermato, che non può essere processata nelle aule di giustizia: perché sono fatti che non rientrano nel Codice penale, ma appartengono alla dignità di una società che vuole essere contro la mafia

Trentuno anni fa lo Stato era stato piegato da Cosa nostra che aveva piazzato l'esplosivo sotto l'autostrada di Capaci, facendo saltare in aria l'auto di Giovanni Falcone e dei suoi agenti di scorta. E 57 giorni dopo un'altra esplosione uccideva Paolo Borsellino e i poliziotti che avevano provato a proteggerlo. In quel frangente storico era lo Stato, e non Cosa Nostra, ad essere in ginocchio.

Altro che stato-mafia i giudici assolvono Mori e Dell’Utri. Redazione l'Identità il 28 Aprile 2023

di CLAUDIA MARI

Assolti per “non aver commesso il fatto”. Questa la motivazione con cui la sesta sezione penale della Corte di Cassazione ha deciso l’assoluzione per gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno.

I giudici di legittimità hanno annullato senza rinvio la sentenza pronunciata dalla Corte d’Appello di Palermo il 23 settembre 2021. Assoluzione definitiva anche per l’ex parlamentare Dell’Utri. Inoltre, i giudici hanno dichiarato la prescrizione per il boss di Cosa Nostra, Leoluca Bagarella – condannato dai giudici di Appello di Palermo a 27 anni – e per il medico Antonino Cinà, ritenuto vicino a Totò Riina, a cui in secondo grado furono inflitti 12 anni di reclusione nell’ambito del procedimento sulla presunta trattativa stato-mafia.

I giudici hanno infatti riqualificato i reati di violenza e minaccia ad un corpo politico dello Stato nella forma del tentativo, riqualificazione per cui la fattispecie è andata in prescrizione.

I giudici della sesta sezione penale della Corte di Cassazione si sono espressi sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra. L’accusa rivolta agli ex ufficiali dei Ros era quella di aver trasmesso alle Istituzioni la minaccia della mafia che, in cambio di un alleggerimento delle condizioni carcerarie, avrebbe fermato le stragi che nel 1992 e 1993 insanguinarono l’Italia.

A commentare la decisione della Cassazione il generale ex Ros Mario Mori: “Sono parzialmente soddisfatto considerando che per 20 anni mi hanno tenuto sotto processo. Ero convinto di non avere fatto nulla, il mio mestiere lo conosco, so che se avessi sbagliato me ne sarei accorto”.

Soddisfazione anche per l’assoluzione di Dell’Utri, per cui i primi commenti arrivano dalla politica, con la senatrice di Forza Italia Licia Ronzulli che parla di una “duplice reazione”.

Da un lato, dice “grande gioia e soddisfazione, perché è stata riconosciuta l’innocenza del senatore Dell’Utri, degli ex generali del Ros dei carabinieri, Mori e Subranni, e dell’ex ufficiale De Donno” di cui “non abbiamo mai dubitato l’integrità e la correttezza”. Una sentenza che sì “restituisce l’onore, agli uomini e all’Arma dei carabinieri che un’inchiesta dissennata aveva cercato di deturpare” ma “dall’altra non può mai ripagare anni e anni di gogna giudiziaria, un tormento che ha coinvolto non solo gli imputati ma anche le loro famiglie”.

Di rimando, anche il vicepresidente della Camera e deputato di Forza Italia Giorgio Mulè che con una nota dichiara: “La pietra tombale che arriva dalla Corte di Cassazione con le assoluzioni del generale Mori, del generale Subranni, del colonnello De Donno e di Marcello Dell’Utri per il processo sulla cosiddetta ‘Trattativa’ costituiscono la fine di un calvario che oltre ad aver sconquassato la vita degli imputati, ha minato la credibilità delle Istituzioni”. Lo afferma il vicepresidente della Camera e deputato di Forza Italia, Giorgio Mulè in una nota.

Il parlamentare ‘azzurro’ sottolinea anche che: “Ai tre ufficiali dell’Arma e all’ex senatore, nessun risarcimento potrà restituire ciò che è stato tolto da un’iniziativa giudiziaria basata su un astruso e mai provato teorema che si reggeva su inesistenti pilastri d’accusa. L’onestà, il rigore e la credibilità di Mori, Subranni, De Donno e Dell’Utri viene sancita dopo decenni di indagini e processi costati un patrimonio dal punto di vista finanziario che hanno visto intaccare il patrimonio inestimabile dell’onore degli imputati”. 

No, la “Trattativa Stato-mafia” non può essere smentita dalla Cassazione. Stefano Baudino su L'Indipendente

il 28 aprile 2023.

La Corte di Cassazione ha messo la parola fine a uno dei processi più importanti della storia recente del nostro Paese: quello sulla “Trattativa Stato-mafia“. Gli ermellini hanno assolto in via definitiva dal reato di “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato” l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri – che ha da poco finito di scontare una pena a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, comminatagli in un processo parallelo – e gli ex vertici del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno per “non aver commesso il fatto”. Prescritti, invece, i mafiosi Leoluca Bagarella e Antonino Cinà a causa della riqualificazione del reato nella forma “tentata”. La sentenza è stata accolta con giubilo da molti dei giornali mainstream e da grossi personaggi della politica italiana, che in queste ore continuano a ripetere in coro che la trattativa Stato-mafia non sarebbe mai esistita. Cioè una gigantesca menzogna.

Ma andiamo con ordine. Tecnicamente, la Cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza pronunciata dalla Corte d’Appello di Palermo il 23 settembre 2021, in cui i mafiosi erano stati condannati e gli uomini dello Stato assolti (gli ex Ros perché “il fatto non costituisce reato”; Dell’Utri per “non aver commesso il fatto”). In primo grado, nel 2018, sia gli uomini dello Stato che i membri di Cosa Nostra erano invece stati raggiunti da condanne pesantissime. La Corte Suprema ha diramato un comunicato in cui ha sinteticamente spiegato le ragioni del verdetto. “La sentenza – si legge – ha confermato la decisione della Corte di assise di appello di Palermo nella parte in cui ha riconosciuto che negli anni 1992-1994 i vertici di Cosa Nostra cercarono di condizionare con minacce i Governi della Repubblica italiana (Governi Amato, Ciampi e Berlusconi), prospettando la prosecuzione dell’attività stragista se non fossero intervenute modifiche nel trattamento penitenziario per i condannati per reati di mafia ed altre misure in favore dell’associazione criminosa”. I giudici proseguono scrivendo che, nei confronti di Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, in relazione alle minacce ai danni dei Governi Ciampi e Amato, la prescrizione è intervenuta “essendo decorsi oltre 22 anni dalla consumazione del reato tentato”. Inoltre, la Corte “ha escluso ogni responsabilità degli ufficiali del Ros, Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno – peraltro già assolti in appello sotto il profilo della mancanza di dolo – negando ogni ipotesi di concorso nel reato tentato di minaccia a corpo politico”, mentre in merito alla minaccia nei confronti del Governo Berlusconi, di cui erano accusati Marcello Dell’Utri e Bagarella, “la sentenza ha confermato quanto deciso dalla Corte d’Assise di appello di Palermo, che ha riconosciuto l’estraneità del primo e che ha dichiarato la prescrizione del reato nei confronti di Bagarella”.

Come era ampiamente prevedibile, l’importantissimo verdetto è stato ripreso dalle principali testate e tg nazionali a suon di fake news. La più evidente è l’asserzione secondo cui la trattativa Stato-mafia sia un’invenzione dei pm e che, in realtà, non sia mai esistita. Lo hanno scritto con titoloni a caratteri cubitali, tra i tantissimi organi di informazione, Libero, Il Messaggero, Il Riformista, Il Giornale, Il Dubbio, l’Huffington Post e Tempi. «Secondo la sentenza della Cassazione, la trattativa a questo punto proprio non c’è stata», ha detto testualmente Enrico Mentana su La7 nel corso del suo telegiornale della sera. In realtà, è tutto falso, poiché l’esistenza della “trattativa” è stata pienamente confermata da diverse sentenze passate in giudicato. Già nel lontano 1998, i giudici della Corte d’Assise di Firenze, che si esprimevano sulla strage di via dei Georgofili del 1993, avevano sostenuto che “l’iniziativa dei Ros (perché di questo organismo si parla, posto che vide coinvolto un capitano, il vicecomandante e lo stesso comandante del Reparto) aveva tutte le caratteristiche per apparire come una ‘trattativa‘”, che peraltro partorì conseguenze incredibilmente nefaste, poiché “l’effetto che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione”.

Più recentemente, la sentenza pronunciata dalla Corte d’Assise d’Appello di Firenze il 24 febbraio 2016 – che per tale attentato ha punito con l’ergastolo il mafioso Francesco Tagliavia ed è divenuta irrevocabile nel 2017 – considera “provato che dopo la prima fase della cd. trattativa avviata dopo la strage di Capaci, peraltro su iniziativa esplorativa di provenienza istituzionale (cap. De Donno e successivamente Mori e Ciancimino), arenatasi dopo l’attentato di via D’Amelio, la strategia stragista proseguì alimentata dalla convinzione che lo Stato avrebbe compreso la natura e l’obiettivo del ricatto proprio perché vi era stata quell’interruzione”. Già nel 2012, in primo grado, i giudici avevano sancito che “una trattativa indubbiamente vi fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un ‘do ut des‘. L’iniziativa fu assunta dai rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia”. Al processo “Trattativa Stato-mafia”, infatti, i giudici erano chiamati a stabilire se gli imputati avessero effettivamente trasmesso la minaccia di Cosa Nostra al cuore delle istituzioni e se tale condotta potesse eventualmente avere rilievo penale, e non se la trattativa fosse o meno esistita (dato, appunto, già “storicizzato”).

«Arrivi vigore a tutti da questa sentenza che dà la convinzione e anche la speranza che la giustizia, se sbaglia, può tornare indietro. Io non ho il dono della dimenticanza e per me chi sbaglia deve pagare. Magistrati onorevoli hanno finalmente restituito la dignità non a mio padre, non ai ‘combattenti’ che mai l’hanno perduta, ma alla giustizia stessa di cui predicano il verbo», ha commentato trionfante Danila Subranni, figlia di uno degli imputati più importanti coinvolti nel processo (Antonio Subranni, il capo del Ros all’epoca dei fatti in esame) e, accidentalmente, anche portavoce del gruppo di Forza Italia. Un altro imputato, Mario Mori, presente in aula durante la lettura della sentenza, ha dichiarato di essere «sempre stato convinto» della propria innocenza. Contemporaneamente, a esultare è stato anche il leader di Italia Viva Matteo Renzi, che ha voluto mandare «un abbraccio di solidarietà ai servitori dello stato oggi assolti in via definitiva dopo tanti anni di gogna mediatica e alle loro famiglie». Su Twitter, ha scritto che «i giustizialisti di certe procure e di certe redazioni dovrebbero scusarsi o al massimo tacere per qualche anno».

Dall’altra parte della barricata, si è invece espresso Antonio Ingroia, l’ex magistrato che sostenne l’accusa in primo grado: «Il fatto c’è, c’è stata anche la minaccia che costituisce la premessa della trattativa, una minaccia che però ora i giudici di Cassazione dicono che non è una minaccia compiuta, ma una minaccia tentata. Così rimane senza conseguenze penali per nessuno. Anche i mafiosi, per i quali il reato viene dichiarato prescritto». Ingroia ha definito la sentenza «contraddittoria», mentre «la sentenza di appello aveva una sua logica, seppure discutibile». Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo, ha invece così commentato la decisione: «Siamo stati degli illusi credere che lo Stato potesse processare se stesso perché “il fatto” c’è stato, ci sono state le stragi, c’è stato il furto dell’Agenda Rossa, ci sono stati i depistaggi ma non ci sono i colpevoli». O meglio, «i colpevoli ci sono, ma sono dentro alle stesse strutture di questo Stato assassino e depistatore e quindi sono intoccabili».

Per comprendere appieno il verdetto, non resta ora che attendere le motivazioni. Con un’unica certezza: i fatti avvenuti nella cornice della “Trattativa Stato-mafia” – tassello verificato della storia del nostro Paese – per la giustizia italiana non costituiscono reato. [di Stefano Baudino]

Processo Stato-mafia. Arriva l'assoluzione per l'azzurro Dell'Utri e gli ufficiali del Ros. Dieci anni di calvario. La Corte suprema cancella in via definitiva le condanne per l'ex senatore di Forza Italia e gli ex investigatori Mori, De Donno e Subranni. La figlia di quest'ultimo: "Onore ai combattenti, ma chiederemo il risarcimento ai magistrati". Luca Fazzo il 28 Aprile 2023 su Il Giornale.

Se la cavano persino i boss mafiosi Leoluca Bagarella e Gaetano Cinà, prosciolti per prescrizione: ed è, a leggere il dispositivo della sentenza di ieri della Cassazione per il famoso processo Stato-Mafia, il dettaglio più illuminante. Perché la Cassazione non si limita a assolvere con formula piena e definitivamente l'ex senatore Marcello Dell'Utri, e con lui i carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, cui dopo dieci anni di processi viene restituito l'onore di servitori dello Stato; il guaio, per gli inventori e i fan del teorema sul patto occulto tra governo e Cosa Nostra, è che Bagarella e Cinà si vedono ridurre l'accusa di «minaccia a un corpo politico dello Stato» a semplice «tentativo». Tradotto: all'inizio degli anni Novanta la mafia provò a intimidire lo Stato, a costringere tre governi uno dopo l'altro a scendere a patti. Ma non ci riuscì. Lo Stato disse di no, e vinse la sua battaglia, catturando e seppellendo di ergastoli i Riina, i Provenzano e una intera generazione di gerarchi criminali.

Bastano due ore, ai giudici della sesta sezione, per prendere la decisione che segna una tappa cruciale nella storia giudiziaria italiana. Viene respinto il ricorso della Procura generale di Palermo contro la sentenza che il 23 settembre 2021 segnò la prima sconfitta degli inquirenti - da Antonino Ingroia a Nino Di Matteo - che sul teorema della trattativa avevano costruito le loro carriere: le pesanti condanne inflitte in primo grado - dodici anni a Dell'Utri, Mori e Subranni, dieci a De Donno - erano state cancellate. Già le motivazioni di quella sentenza mettevano in luce le innumerevoli incongruenze di una condanna basata solo sulle parole di due pentiti, Salvatore Cucuzza e Giovanni Brusca, e su una lunga serie di ipotesi, di presunte verosimiglianze, di collegamenti arditi di fatti slegati tra loro. Secondo i giudici d'appello, i tre alti ufficiali dell'Arma si erano mossi non per trattare la resa a Cosa Nostra ma unicamente «avendo effettivamente come obbiettivo quello di porre un argine all'escalation in atto della violenza mafiosa che rendeva più che concreto e attuale il pericolo di nuove stragi e attentati». La Procura generale di Palermo non si era arresa, e aveva presentato ricorso contro le assoluzioni di Dell'Utri e dei carabinieri, accusando i giudici d'appello di avere «contraddittoriamente ed illogicamente assolto gli imputati». Assoluzioni né illogiche né contraddittorie, dice invece ieri la Cassazione. Che l'intero castello fosse destinato a schiantarsi lo si era d'altronde capito già il 14 aprile, quando nell'udienza davanti alla Cassazione lo stesso rappresentante dell'accusa, il pg della Cassazione, aveva smentito il lavoro dei colleghi siciliani, e aveva chiesto l'assoluzione definitiva di Dell'Utri. Per Mori e gli altri carabinieri, era stato chiesto un nuovo processo d'appello: ma solo per smontare ancora più estesamente i sospetti a loro carico.

Nessun nuovo processo, dice ieri la Cassazione, la storia finisce qui. Si chiude con il colonnello De Donno che dice che la sentenza «ripaga di tante sofferenze e ingiuste umiliazioni»; e col generale Mori che invece si sente ripagato «solo in parte», perché «il mio mestiere lo conosco, so che se avessi sbagliato me ne sarei accorto»; e col suo collega Subranni, malato da tempo, con la figlia Danila che va giù pesante, «onore ai combattenti ma non ho il dono della dimenticanza, chi sbaglia deve pagare». E la soddisfazione più significativa viene dalla famiglia del magistrato che del patto scellerato tra Stato e mafia sarebbe stato la vittima più illustre, Paolo Borsellino. «Non abbiamo mai creduto che la strage di via D'Amelio sia stata fatta per accelerare la trattativa», dicono i familiari del giudice.

Nessuna reazione dal fronte giudiziario, politico e giornalistico che aveva cavalcato per anni il teorema, mentre soddisfazione arriva da Forza Italia e da Italia Viva: «i giustizialisti - scrive Matteo Renzi - dovrebbero scusarsi o tacere per qualche anno». LF

Quell’assurda guerra che ha distrutto le vite di tanti servitori del Paese. Oltre agli assolti di ieri, un lungo elenco di uomini delle istituzioni è finito nel tritacarne di magistrati che hanno costruito le proprie carriere sulla pelle altrui. Luca Fazzo il 28 Aprile 2023 su Il Giornale.

Francesco Messineo, Roberto Tartaglia, Vittorio Teresi, Antonino Ingroia, Antonino Di Matteo, Roberto Scarpinato, Alfredo Montalto, Giuseppe Fici, Sergio Barbiera. È lungo l'elenco dei magistrati che in questi anni hanno cavalcato la tesi che raccontava al mondo la storia di uno Stato un po' fellone e un po' colluso, attraversato e dominato da poteri oscuri, pronto a scendere a patti con il contropotere criminale di Cosa Nostra. Ancora più lungo, purtroppo, è l'elenco di quelli che in questo tritasassi sono stati inghiottiti. Ci sono i quattro assolti di ieri: l'ex senatore Dell'Utri, i carabinieri Mori, Subranni, De Donno. Ma insieme a loro sono stati tritati in tanti: altri uomini dell'Arma come Mauro Obinu e Sergio De Caprio, uomini delle istituzioni come Nicola Mancino e Calogero Mannino. Per non parlare di quelli che nemmeno si poterono difendere perchè già morti o morti nel frattempo, come il capo della polizia Vincenzo Parisi, il ministro Giovanni Conso, i magistrati Francesco Di Maggio e Adalberto Capriotti, Loris D'Ambrosio. Tutti tirati in ballo, tutti in un modo o nell'altro protagonisti e comprimari di una trama che avrebbe legato in un patto scellerato le istituzioni repubblicane e il crimine organizzato, immolando i propri doveri e funzioni in cambio di non si sa bene quali vantaggi. E tutti sepolti in un fango grigio dove tutti in qualche modo sono colpevoli, non si sa bene di cosa.

Adesso che tutto è finito (o quasi: perchè c'è sempre la procura di Firenze alla caccia dei mandanti occulti delle stragi del 1993) sarebbe interessante capire come sia stato possibile che un simile castello sia stato architettato, e tenuto in piedi per un decennio; analizzare i rapporti occulti ma non troppo tra la procura di Palermo e il mondo dell'informazione che hanno portato in continuazione cemento al cantiere. Missione difficile, forse impossibile. Di certo rimane la genesi di tutto: che ha le sue radici in un'altra inchiesta della procura palermitana, chiamata «Sistemi criminali», condotta da Ingroia e dal suo collega Roberto Scarpinato, che già navigava tra servizi deviati, colletti bianchi, politici collusi e quant'altro. Inchiesta partita con le migliori intenzioni, che finisce però in nulla: al punto che la stessa Procura deve archiviare il fascicolo.

Ma Ingroia non si arrende, e poco dopo riparte, stavolta insieme al collega Di Matteo. Il loro capo, Messineo, arrivato a Palermo nel 2006, lascia ai due pm briglia sciolta. Il tema è quello dell'inchiesta precedente, riveduto e arricchito. Nel pool entrano altri pm: Francesco Del Bene, Lia Sava, Paolo Guido. Al momento di tirare le fila, Guido rifiuterà le conclusioni dei colleghi e non firmerà l'atto finale: oggi è il magistrato che ha condotto la caccia vittoriosa a Matteo Messina Denaro.

L'inchiesta, come tutti i teoremi, germina strada facendo una serie di corollari, sempre alla caccia dei favori che Cosa Nostra avrebbe ricevuto in cambio dello stop alle bombe. Mori e De Caprio vengono indagati per non avere perquisito il covo di Riina, Mori per non avere arrestato Provenzano a Mezzojuso, Mancino per avere mentito, e via così in una sfilza di processi satellite tutti conclusi in niente. Gli insuccessi non frenano i pm palermitani. E non li frena neanche la caccia infruttuosa alle contropartite ottenute da Cosa Nostra. Gli atti dei tre governi succedutisi negli anni in cui la trattativa sarebbe avvenuta (Amato, Ciampi, Berlusconi) vengono passati al setaccio per individuare provvedimenti graditi ai clan. A venire frugato più di tutti è il governo Berlusconi, cui le richieste dei clan sarebbero arrivate attraverso Dell'Utri: ma non salta fuori niente. E alla fine l'unico atto che rimane sul tavolo è quello firmato dal ministro della Giustizia di Ciampi, quel galantuomo di Giovanni Conso, che sposta dal 41 bis trecento mafiosi. Conso non viene incriminato, testimonia, si difende spiegando di avere agito in ossequio alla Corte Costituzionale, di cui era stato presidente e che dubitava della legittimità del 41 bis.

Ma per autori e propagandisti del teorema non cambia nulla. Il fantasma delle «menti raffinatissime» è un brand di troppo successo per essere abbandonato. E anche ora che tutto si sgretola c'è chi non si arrende, e evoca - chiamandola proprio così - la «Supercosa»: che esiste od esisteva aldisopra di Totò Riina, nel magma tra Stato e Antistato. Magari non esiste, ma fa audience.

Tutti assolti”. La trattativa Stato-mafia non c’è mai stata. La Cassazione annulla senza rinvio la sentenza d’appello: assolti definitivamente gli ex Ros Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni e l’ex senatore Marcello dell’Utri. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 27 aprile 2023.

La trattativa Stato-mafia non solo non è più presunta, ma non c’è mai stata. La Corte di Cassazione ha annullato – senza rinvio - la sentenza d’appello, riformulando l’assoluzione nei confronti degli ex Ros Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni. Da “Il fatto non costituisce reato”, gli ermellini li hanno definitivamente assolti con “non hanno commesso il fatto”. Quindi non solo sono innocenti, ma non hanno veicolato alcuna minaccia mafiosa nei confronti dei governi Amato e Ciampi. Ricordiamo che il capo d’accusa è infatti “minaccia al corpo politico dello Stato”.

Un teorema che ha fatto acqua da tutte le parti fin dall’inizio. E infatti ha perso i pezzi durante questo decennio di travaglio giudiziario pompato mediaticamente. I politici della Prima Repubblica, quelli che secondo la tesi giudiziaria avrebbero dato l’avvio alla trattativa per garantirsi l’incolumità dalla mafia corleonese, sono stati assolti già dal primo grado. L’ex ministro democristiano Calogero Mannino, che ha scelto il rito abbreviato, è stato assolto fino in Cassazione per non aver commesso il fatto. Mentre l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino è stato scagionato in primo grado per non aver commesso falsa testimonianza. L’unico politico imputato rimasto è quello della Seconda Repubblica. Parliamo dell’ex senatore Marcello Dell’Utri, colui che avrebbe proseguito, al posto dei Ros, la trattativa: in quel caso, la vittima sarebbe stato il governo Berlusconi. Assolto con formula piena in secondo grado e confermata dalla Cassazione.

Poi ci sono gli imputati mafiosi: Totò Riina e Bernardo Provenzano che nel frattempo sono morti, e Leoluca Bagarella. Mentre è già uscito di scena, perché assolto in primo grado, il mafioso pentito Giovanni Brusca. La corte d’Appello ha fin da subito dichiarato prescritto il reato di Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. Sia Brusca che Ciancimino, usciti incolumi dal processo, sono stati i testimoni chiave che hanno permesso di avviare il processo trattativa. Senza di loro, il processo non si sarebbe mai potuto imbastire. E di fatto, le loro tesi sono stati già smontate da vari giudici: Ciancimino è risultato contraddittorio, calunnioso e anche fabbricatore di una prova rivelatasi una patacca: il fantomatico “papello di Riina”. Poi c’è Brusca che – come hanno evidenziato i giudici di primo e secondo grado che assolsero Mannino - si è fatto chiaramente suggestionare dalle notizie, dai processi in corso e non per ultimo da chi lo interrogava.

Il giornalismo non è cinema, bisogna raccontare i fatti scremati dalle suggestioni e tesi giudiziarie inconcludenti che hanno causato un danno enorme all’opinione pubblica. Ma non solo. Hanno infettato il dibattito politico su argomenti importanti, seppur divisivi, sul funzionamento dello Stato di Diritto. Sono nati addirittura movimenti politici, pensiamo al Movimento Cinque Stelle, che ne hanno tratto linfa vitale per la propaganda populista giudiziaria. Ma pensiamo anche a destra che usa la storia totalmente infondata del non esistente “papello di Riina” per affermare la necessità o addirittura l’indurimento del 41 bis.

La lotta alla mafia, soprattutto negli anni terribili delle stragi, necessitava non solo del coraggio, ma anche della competenza. Dopo la strage di Capaci e subito dopo quella di Via D’Amelio ci fu un momento di gravissima crisi dello Stato. Tutto era fermo, la procura di Palermo di allora era gravemente lacerata dai problemi interni, veleni, alcune opacità mai del tutto chiarite ancora oggi. Tutti hanno in mente le parole del magistrato Antonino Caponnetto: «È finito tutto» disse a un giornalista, uscendo dall'obitorio dopo l'ultimo saluto a Paolo Borsellino. In quel frangente, tra le due stragi inaudite ordite dai corleonesi, l’allora generale Mario Mori decise di fare un salto di qualità nelle indagini antimafia. Di fatto lui era il responsabile a livello nazionale del reparto criminalità organizzata dei Ros. Decise, quindi, una strategia in due tempi: sensibilizzare i suoi ufficiali per avere fonti confidenziali di maggiore qualità e creare una struttura per la cattura dei latitanti, tra cui in particolare Totò Riina.

Quest’ultimo non solo perché era il capo di Cosa nostra, ma anche perché l’allora maresciallo Antonino Lombardo gestiva una fonte che aveva riferito una buona strada per arrivare a Riina, dicendo che "tutte le strade per catturarlo passavano per la Noce, i Ganci e i fratelli Sansone, clan dell’Uditore". Mori dette l'incarico all'allora capitano Ultimo, alias Sergio De Caprio, per il primo gruppo. Cosa che poi, grazie anche al coordinamento di altri elementi sopravvenuti come la cattura in Piemonte dell’ex autista Di Maggio (utile solo per il riconoscimento del capo dei capi) da parte dell’allora generale Delpino, si arrivò alla cattura di Riina. Ogni tassello è stato fondamentale per concludere l’operazione dei Ros.

Per quanto attiene alla ricerca di nuove e più qualificate fonti, l’allora capitano Giuseppe De Donno disse a Mori di aver già indagato su Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo, per due indagini che portarono all'arresto dello stesso, e alla condanna in via definitiva per associazione semplice. Sempre all'inizio del 1992 Ciancimino fu condannato per associazione mafiosa. Si trovava, dunque, in una situazione in cui i Ros pensavano che potesse diventare una buona fonte, anche per i suoi rapporti sia con la politica che con Cosa nostra. Così De Donno fu autorizzato da Mori nel tentare di contattare Vito Ciancimino. Ribadiamo un concetto: gli ex Ros non hanno mai negato che ci sia stato un contatto preliminare tra loro e Ciancimino. La procura di Palermo è stata avvisata - compreso del contenuto dell'interlocuzione - subito dopo che è andato via Giammanco e si è insediato Caselli come nuovo capo procuratore. Nulla di scandaloso o inedito.

D’altronde, per capire bene di che cosa si sta parlando, bisogna premettere che i pentiti non nascono dal nulla. Lo ha spiegato molto bene l’allora magistrato Guido Lo Forte al Csm nel 1992, quando si riferì alla gestione di Mutolo: “Un collaboratore non viene fuori dal nulla, ma c’è tutta una fase preliminare di contatti, di trattative, che normalmente non sono dei magistrati ma di altri organi”. Ed è esattamente quello che hanno tentato di fare Mori e De Donno con Ciancimino, con l’aggiunta di volerlo in qualche modo “reclutare” per entrare nel sistema degli appalti. Operazione fallita, perché subito dopo – per ordine dell’allora ministro della giustizia Claudio Martelli (lo testimonia lui stesso) – Ciancimino è stato sbattuto al carcere romano di Rebibbia. Punto. Dopodiché tutto è stato stravolto, tra pentiti come Brusca che ritrattano la loro memoria a seconda di quello che apprende nei notiziari e nei processi, e il figlio di don Vito che collaborava con la procura calunniando e fornendo prove farlocche, mentre nel contempo riciclava il “tesoro” di suo padre. Non solo. Come oramai è collaudato ai tempi del caso Tortora, si aggiungono altri pentiti (e presunti testimoni) di serie b che improvvisamente si accodano nell’accusare Mario Mori di aver fatto cose “indicibili”.

Ora c’è il sigillo definitivo in questo travaglio che dura da vent’anni. Processati i Ros di allora per ben tre volte. Dalla mancata cattura di Provenzano, la cosiddetta mancata perquisizione del covo (che però covo non era) di Riina fino alla (non) trattativa Stato-mafia. Assolti su tutto. E ci mancherebbe visto che sono tesi pieni di congetture, utili magari per le prossime serie su Netflix. Speriamo non più per un’aula giudiziaria.

Trattativa Stato Mafia, i Pg: “Tremila pagine di sentenza, ma manca la prova della minaccia”. Per i procuratori generali della Cassazione: “Non hanno individuato chi ha detto cosa a chi e, soprattutto, in quale modo”. La Corte suprema dovrà decidere giovedì se rimandare o confermare con una assoluzione piena, dove però “il fatto non sussiste?” Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 25 aprile 2023

Fiumi di inchiostro nella stragrande maggioranza dei giornali, centinaia di trasmissioni televisive, libri, docufilm e non per ultimo le migliaia di pagine delle motivazioni dei giudici sulla sentenza del processo della cosiddetta “Trattativa Stato-mafia”, ma non si è mai riusciti a dimostrare come, dove e in che modo gli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno avrebbero veicolato la presunta minaccia mafiosa al governo. Ed è quello, in estrema sintesi, che si sono chiesti i sostituti procuratori generali della Cassazione. Tante parole, suggestioni, ipotesi, ma finora la prova non è stata affatto dimostrata.

Il fatto non costituisce reato”, è la sentenza di assoluzione nei confronti dei carabinieri che erano il fiore all’occhiello del giudice Giovanni Falcone. Ma il problema che si sono posto i pg della Corte Suprema, è che di questo fatto non ve ne è traccia. E se questo fatto c’è stato, ma in questi 15 anni di processo tra il primo e secondo grado non è stato provato, allora rimane assurdo che non vi è dolo. Per questo, i procuratori generali chiedono l’annullamento della sentenza nei soli confronti degli ex ros. Se la minaccia è stata veicolata, allora il dolo c’è. Ma se non c’è stata, meritano l’assoluzione con la formula più ampia. Ovvero che il fatto non sussiste.

La tesi trattativa, nel corso degli anni, è già stata decostruita pezzo per pezzo. Colui che venne considerato il mandante politico della trattativa, ovvero l’allora ministro Calogero Mannino, è stato definitivamente assolto. Sono rimasti quindi gli ex Ros che, dialogando con Don Vito Ciancimino, avrebbero preso da soli l’iniziativa di “trattare” per fermare le stragi, veicolando la minaccia nei confronti dei governi Amato e Ciampi. Tale “minaccia” potrebbe essere stata per via orale o per via del cosiddetto papello di Riina. Entrambi appunto delle ipotesi non dimostrate. Il papello consegnato dal Massimo Ciancimino, il figlio di Don Vito, si è rivelato una grossolana manipolazione. Rimane l’ipotesi che la minaccia sia stata veicolata oralmente dai carabinieri. Ma come, dove e a chi? I giudici non sono riusciti a dimostrarlo.

Nella requisitoria, i procuratori generali della Cassazione, hanno, di fatto, bacchettato le motivazioni della sentenza di secondo grado. Ovvero che i giudici avrebbero “dovuto selezionare i fatti rilevanti ai fini dell’integrazione della minaccia qualificata al Governo, verificandone l’accadimento facendo applicazione della regola BARD”. Ma che cos’è questa regola, fondamentale per una sentenza? BARD sta per “beyond any reasonable doubt”, ovvero “Colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio”. Non si può emettere una sentenza per “approssimazione”. E i pg della Cassazione sottolineato che le motivazioni avrebbero “dovuto portare a individuare chiaramente chi ha detto cosa a chi e, soprattutto, il quale modo”.  E nelle 3000 pagine si parla di tutto di più, ma “manca di concentrarsi adeguatamente sulla sussunzione specifica dei fatti ritenuti accertati nella fattispecie di reato, posta dall’imputazione”. Ed è mancata altresì “una precisa ricostruzione del contenuto della minaccia, di come sia stata rivolta e della sua ricezione (o direzione) al Governo come organo collegiale”.

Come è sempre stato scritto su Il Dubbio, l’unica “prova”, ma del tutto debole, e che è ovviamente citata nella sentenza, riguarda la mancata proroga del 41 bis. Sappiamo che nel 1993, l’allora ministro della giustizia Giovanni Conso non rinnovò il carcere speciale per circa 300 soggetti. Nella realtà, si tratta di una mancata proroga a seguito della sentenza della Corte Costituzione (i giudici supremi hanno stigmatizzato la proroga automatica collettiva e indicato una valutazione caso per caso) e solo una piccolissima parte erano mafiosi, tra l’altro di basso profilo. Tuttavia, per i procuratori generali della Cassazione, il riferimento a tale mancata proroga “risulta del tutto inidoneo a supportare la conclusione circa l’integrazione del reato ex art. 338 c.p. (minaccia al corpo politico di Stato, ndr), per almeno tre ordini di ragioni”.

La prima ragione è degna di nota perché viene sottolineata una finissima incongruenza logica. Se la minaccia è stata ideata a partire dall’omicidio Lima, tanto da fondare la competenza alla procura di Palermo (altrimenti il luogo naturale sarebbe dovuto essere Caltanissetta) non si vede “come il male ingiusto potesse essere prospettato al fine di ottenere la mancata proroga di provvedimenti che, all’epoca di quell’omicidio, non erano previsti dalla legge (posto che l’art. 41-bis è stato introdotto solo dopo) e non erano dunque neppure stati adottati”. Non è poco. Come sappiamo, il 41 bis fu introdotto dopo la strage di Via D’Amelio dove perse la vita Borsellino e la scorta. “Manca, nella sentenza impugnata, qualsiasi valutazione di merito, su una diversa riconfigurazione dei fatti, che possa renderli compatibili con la minaccia così come focalizzata”, sottolineano i procuratori generali.

L’altra ragione, è che le decisioni sul 41 bis sono di competenza esclusiva del Ministro (all’epoca di Grazia e Giustizia) e, quindi, le presunte minacce non possono ritenersi dirette al Governo come organo collegiale. Quindi, secondo i pg, non si intravvede il “corpo politico dello Stato”. La terza ragione è quella che pretende la regola BARD. Non è stato dimostrato chi, come e in che modo l’ex ministro Conso abbia ricevuto la minaccia. In altre parole, risulta decisivo stabilire cosa sia stato detto precisamente al Ministro e in che modo gli sia stato rappresentato. Nel punto, l’unico che conta, “la sentenza ricostruisce solo congetturalmente la veicolazione della minaccia, ma addirittura manca di indicare il preciso contenuto delle richieste, essenziale invece per poter scriminare la violenza o minaccia diretta al Governo come organo collegiale (punita dall’art. 338 c.p.) rispetto a violenze dirette a ostacolarne l’attività di contrasto (punite dall’art. 289 c.p.)”. I procuratori generali, sottolineano che “anche qui si tratta di valutazioni di merito essenziali per sostenere logicamente le conclusioni sull’integrazione del delitto, che non risultano effettuate nella sentenza impugnata”.

In soldoni, i giudici – così come d’altronde la pubblica accusa – non sono riusciti a dimostrare nulla. Una impresa ardua visto che è entrato di tutto di più, tranne le prove. Non solo non si trovano, ma tutta la tesi si scontra con la logica. D’altronde, com’è detto, la tesi ha già perso, strada facendo, dei pezzi. I procuratori generali della corte suprema, chiedendo anche la conferma dell’assoluzione piena per l’ex senatore Marcello D’’Utri, smontano gran parte della narrazione. Ma si può chiedere di rifare il processo per gli ex ros, quando è già chiaro che – come dicono i pg stessi – il fatto non è dimostrato? Domani, giovedì 27 aprile, la Corte Suprema dovrà prendere una importante decisione. Sono passati troppi anni, tanta sofferenza e tante risorse sprecate. Mori e De Donno meriterebbero una assoluzione con la formula più ampia possibile. Ma dovrebbe essere sancita già da ora, non tra qualche anno ancora. Alla cassazione l’ardua sentenza.

La “verità storica”? La Trattativa non c’è mai stata. La Cassazione ha accolto il ricorso degli ex Ros, assolti con la formula “per non aver commesso il fatto”. Ma c’è chi ancora equivoca sulla decisione dei giudici...Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 28 aprile 2023

Onore al Fatto Quotidiano che ha riportato la verità nuda e cruda sulla decisione – seppur legittimamente criticandola - della Cassazione, poco onore a un articolo apparso su Repubblica dove si dice che i giudici supremi avrebbero confermato la sentenza d’appello sulla (non) trattativa Stato-mafia.

Sfugge che gli ermellini hanno in sostanza accolto il ricorso che hanno fatto gli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno tramite gli avvocati difensori Basilio Milio e Francesco Romito. Da “il fatto non costituisce reato” a non “aver commesso il fatto”. Ed è la formula richiesta dal ricorso di chi è stato accusato di aver veicolato la minaccia mafiosa ai due governi del 1992-93.

Rimane però la verità storica, ovvero che la trattativa c’è stata? Assolutamente no. Basterebbe rileggere il ricorso ben argomentato dagli avvocati difensori, tra l’altro quasi sovrapponibile alla requisitoria della procura generale della Cassazione. Ecco i passaggi cruciali della sentenza d’appello evidenziati: “altamente probabile - ma non più di tanto”, “se tutto questo è vero”, “ipotesi qui lumeggiata”, “né vi sarebbe”, “appare”, “si volesse accedere a questa ipotesi ricostruttiva”, “si sarebbe trattato”, “in ipotesi”, “è davvero arduo credere che…”.

Proprio nei punti fondamentali per stabilire se i fatti ricostruiti dal teorema siano validi, emerge la mancanza di qualsivoglia certezza. Tutto al condizionale. La verità giudiziaria è stata stabilita dalla Cassazione. La verità storica non si fa in formula dubitativa e piena di congetture. Quando si afferma ogni volta che i fatti - al di là dell’esito giudiziario - sono comunque quelli teorizzati dall’accusa, c’è uno Storico che muore.

 "Il fatto non sussiste": tutti assolti dalla Cassazione. Trattativa Stato-Mafia, fine della bufala di pm e Travaglio: “Signori giudici, io sono innocente. Spero che lo siate anche voi”. Piero Sansonetti su Il Riformista il 28 Aprile 2023 

Assolti, assolti. Ora è proprio finita. L’accusa contro tre ufficiali dei carabinieri e contro Marcello Dell’Utri, sostenuta per anni da stampa, televisioni, Cinque Stelle e da alcuni Pm di Palermo, e cioè l’accusa di aver trattato con la mafia, all’indomani dell’uccisione di Paolo Borsellino, accusa sulla quale molti giornalisti e magistrati hanno costruito successo e carriere, si è sgonfiata ed è caduta a terra con fragore. Carriere e successi restano intatti: ma l’accusa è morta.

I giudici della Cassazione hanno stabilito, senza l’ombra di un dubbio, che questa trattativa non c’è mai stata e gli imputati sono stati assolti perché il fatto non sussiste. Non sussiste: capite?

E quei chilometri di carta di giornale, e quelle ore e ore di trasmissioni televisive, e quelle testimonianze farlocche, e quelle fiction, e quelle trasmissioni della Tv di Stato tutte colpevoliste, tutte certe del reato, tutte saccenti fino all’inverosimile, beh tutto questo era solo carta straccia, invenzione, robaccia. Mori e Subranni e De Donno (carabinieri valorosi perseguitati dalla magistratura) e Dell’Utri (ex senatore perseguitato dalla magistratura) erano stati già assolti in secondo grado, nonostante la potenza della Procura generale di Palermo, diretta dal senatore Scarpinato, che aveva scongiurato la Corte di condannarli.

La Corte d’Appello aveva allargato le braccia: non c’è niente – aveva detto – che possa provare che gli imputati abbiano commesso un reato. E proprio su questa formulazione dell’assoluzione, Travaglio e i suoi avevano tentato di costruire una controffensiva: “Sì, non era reato – dicevano – sono stati assolti ma la trattativa c’è stata”. Bene, anche questa controffensiva è fallita. La Cassazione solennemente ha dichiarato che la trattativa non c’è mai stata, e che anni di indagini contro i carabinieri e Dell’Utri sono stati anni sprecati e sconclusionati. Io dico qualcosa di più: sono stati anni usati per sviare le indagini. La bufala della trattativa Stato-mafia non solo ha irrimediabilmente sporcato il prestigio della magistratura palermitana di quegli anni foschi, ma è stata un vero e proprio e clamoroso depistaggio. Come e insieme al depistaggio-Scarantino, il pentito di mafia che – su pressione di uomini dello Stato – bloccò le indagini sull’uccisione di Paolo Borsellino consegnando ai magistrati che gli credettero i nomi di falsi colpevoli e la descrizione di falsi moventi.

Ormai è abbastanza evidente quale fu il movente per il quale fu ucciso Borsellino: lui voleva indagare sul dossier Mafia-Appalti, preparato proprio dall’allora colonnello Mori, e che metteva allo scoperto i rapporti di Cosa Nostra con settori prestigiosi dell’imprenditoria del Nord Italia. Quel dossier non fu mai consegnato a Borsellino e i Pm che lo avevano in mano, pochi giorni dopo la morte di Borsellino, ne chiesero e ottennero l’archiviazione. Così, le indagini furono bloccate e ormai sono impossibili. E per seppellirle definitivamente è nato il ballon d’essai della trattativa stato mafia, che è stata sostenuta da amplissimi settori della stampa, e cioè quelli tradizionalmente subalterni alle Procure. E che ha messo sotto accusa gli uomini che avevano davvero combattuto la mafia, che avevano catturato Riina, e che avevano costruito il più importante dossier antimafia degli ultimi 40 anni.

Il processo Stato Mafia è il processo all’uomo che osò catturare Riina. E mentre si svolgeva quel processo nessuno mosse un dito, nella magistratura palermitana, per catturare Messina Denaro. Enzo Tortora chiese la parola a conclusione del processo d’appello contro di lui. E pronunciò una frase fantastica. Disse: “Signori giudici, io sono innocente. Spero che lo siate anche voi”. Quei giudici erano innocenti e lo assolsero. Oggi torna in mente quella frase. Mori, Subranni, De Donno e Dell’Utri sono innocenti. Non so se lo sono anche i Pm che li hanno perseguitati.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Le trattativa Stato-Mafia non è mai esistita. Il generale Mori: “Favoleggiamento durato 27 anni, i detrattori ora cosa s’inventeranno per vendere libri e giornali?” Aldo Torchiaro su Il Riformista il 28 Aprile 2023 

Raggiungiamo il Generale Mario Mori, 83 anni – a lungo comandante del Ros e poi direttore del Sisde – mentre sta uscendo dalla Cassazione. Commenta con soddisfazione, ancora a caldo, la sentenza con cui la Suprema corte ha messo la parola fine a un quarto di secolo di favole e invenzioni. La Trattativa Stato-mafia non è mai esistita.

Le voglio strappare un sorriso. Come vedrebbe l’introduzione del reato di Favoleggiamento mafioso?

(Ride). La battuta è bella, ma l’ha detta lei. Il favoleggiamento però c’è stato, eccome. È durato 27 anni, per quello che mi riguarda. Una storia che aveva visto già nel primo processo, quello sul favoreggiamento per Totò Riina, la comparsa di questo teorema della Trattativa Stato-mafia. Quello che poi è diventato a forza di ripeterlo un mantra, un titolo ricorrente, un continuo richiamo a complotti nascosti. Che la Cassazione ha stabilito, come noi dicevamo dall’inizio, non essere mai esistiti.

Oggi è soddisfatto, ma le hanno reso a lungo la vita impossibile.

Guardi, devo sfatare questa idea. Io sono sempre stato un agonista, da quando giocavo a pallone a quando facevo il mio mestiere nell’Arma. Un agonista che accetta le sfide e sa stare in campo. Mi sono trovato bene a combattere. E non ho mai avuto un cedimento. Adesso il problema è cosa farò da domani.

E si è fatto un’idea? Scriverà un libro, lavorerà, lei, stavolta, alla trama di un film?

Ci devo pensare, le energie non mi mancano. Certamente potrei mettermi a scrivere un libro che racconta la mia storia e non solo questa vicenda.

Come ha affrontato l’aula?

Sono sempre stato sereno: conosco il mio mestiere, sapevo di non aver mai fatto nulla che uscisse da quelli che sono i canoni di comportamento dei Carabinieri, quindi – forse non ci crederà – ma ho affrontato il processo con l’animo tranquillo e sicuro di chi sta dalla parte della ragione e della legge, da sempre.

Tanta solidarietà, subito dopo la notizia della sua assoluzione, da parte di tutti. Chi l’ha colpita di più?

Mi stanno arrivando adesso, mentre parliamo, molte decine di messaggi. Voglio ringraziare chi si è schierato dalla mia parte quando le cose erano meno definite. Il Riformista e il suo direttore Sansonetti, ad esempio. Voi ci siete sempre stati. E voglio ringraziare le persone semplici che mi hanno creduto dall’inizio e tutti i Carabinieri: l’Arma c’è sempre stata. Oggi in aula era pieno di miei ex collaboratori e dipendenti che sono venuti spontaneamente a farmi sentire che c’erano. Ed è la migliore soddisfazione che ho avuto: chi ha lavorato con me non ha mai potuto credere un minuto alle accuse.

Cosa direbbe ai suoi detrattori, invece?

Mi chiedo adesso cosa si inventeranno? Spero che la piantino. E che trovino argomenti migliori per vendere le copie dei loro giornali e dei loro libri.

Un insegnamento, un monito che trae da questa vicenda?

L’importante è fare sempre il proprio dovere al meglio. Molte volte si può farlo bene, altre si può sbagliare: quel che più conta è fare le cose in coscienza. Agendo così, non si può avere paura di nessuno.

Soddisfatto anche per i suoi coimputati?

Certo, per tutti. Per il generale Antonio Subranni la soddisfazione è doppia perché noi abbiamo svolto delle indagini e arrestato delle persone, lui dalla sua posizione non ha fatto neanche quello. Non abbiamo mai capito perché hanno voluto inserire anche lui nel procedimento.

La vicenda che riguarda Dell’Utri, non ce lo nascondiamo, si ammanta di una coloritura politica.

Quando c’è di mezzo la politica, il discorso scantona sempre nella coloritura. Sono molto soddisfatto anche per lui e naturalmente gli mando un abbraccio.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

La Cassazione assolve tutti. Chi sono i registi dell’operazione-trattativa: 10 anni di balle su Mori e i Ros, carriere di magistrati e giornalisti costruite sul fango. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 28 Aprile 2023 

Dedichiamo questa sentenza della Cassazione, che assolve tutti gli imputati del “processo trattativa”, a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. “Non nel loro nome” qualcuno ha costruito questo processo lungo trent’anni. Ora è finita. Per sempre. Non hanno proprio commesso il fatto, neppure per ragioni umanitarie, come aveva ipotizzato la Corte d’assise d’appello. Ecco la parola fine del “processo trattativa”. Non solo Marcello Dell’Utri, ma anche i tre ufficiali dei carabinieri Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni non hanno mai stretto un patto con la mafia. I soli colpevoli, oltre ogni ragionevole dubbio, sono coloro che il processo-farsa, il processo-bufala, il processo-calunnia, hanno voluto e costruito.

Escono distrutti dalla sentenza della sesta sezione della Cassazione un gran numero di giudici, e gli ex pubblici ministeri Antonio Ingroia, Nino De Matteo, l’ex pg Roberto Scarpinato con i suoi colleghi della procura generale che hanno voluto anche il processo di legittimità. E insieme a loro tutti i giornalisti, scrittori, registi e compagnia cantando che in tutti questi anni, ne sono passati trenta da quel famigerato 1993, hanno lucrato e fatto carriere sulla “trattativa” che non c’era. Insieme agli imputati e ai loro difensori, escono a testa alta i giudici della sesta sezione penale della Cassazione, presieduta da Giorgio Fidelbo, lo stesso magistrato che nell’ottobre del 2019 aveva salvato la città di Roma dall’ignominia di esser conosciuta nel mondo come capitale della mafia, cancellando il reato di 416 bis agli imputati del processo “Mondo di mezzo” Salvatore Buzzi e Massimo Carminati.

Un punto fermo è l’uscita di scena di Silvio Berlusconi. Se ne facciano una ragione i due Luca pm di Firenze che ancora inseguono personaggi improbabili e imbroglioni come Giuseppe Graviano e Salvatore Baiardo. Il leader di Forza Italia non solo, ce lo dicono le sentenze, non è stato avvicinato da Marcello Dell’Utri perché subisse il ricatto della mafia, ma non ha messo neppure il proprio governo a disposizione di Totò Riina con un ammorbidimento del regime di carcere duro. Anzi, lo diciamo con rammarico, perché il 41-bis è una forma di tortura, fu proprio il primo governo presieduto da Silvio Berlusconi a prolungare all’infinito quel provvedimento che avrebbe dovuto essere provvisorio. Ma ci sono due interi governi, e due ex presidenti della Repubblica, a uscire riabilitati. Non risarciti, questo mai, purtroppo. Ma per una volta la storia non la scriveranno Travaglio e i suoi amici pm.

La memoria è importante. In principio fu il 1992, con i partiti di governo presi di mira dai “capitani coraggiosi” del pool della procura di Milano, e a Roma la sentenza del maxiprocesso voluto da Giovanni Falcone che seppe colpire la mafia come nessun governo aveva potuto fare. E i boss dei corleonesi, tutti liberi e latitanti, che diedero l’assalto allo Stato a suon di bombe come mai era capitato. Prima il segnale alla politica, con l’assassinio di Salvo Lima, il 12 marzo di quell’anno, e poi il colpo al cuore della magistratura, quella che di più aveva osato, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La strage di Capaci il 23 maggio e quella di via D’Amelio il 19 luglio. A terra due magistrati che non hanno avuto successori. Se potessero parlare, da dove sono, punterebbero il dito contro molti di coloro, soprattutto toghe, che tengono la loro foto sulla scrivania, quelli che dicono sempre “Paolo e Giovanni”, e direbbero ”non nel mio nome”.

“Non nel loro nome”, sarebbe mai iniziata questa inchiesta che ha portato fino alla sentenza di ieri. E che ha le impronte digitali di ex pm famosi come Nino Di Matteo, Antonio Ingroia e il senatore Roberto Scarpinato. Tutti convinti, purtroppo in perfetta buona fede, che un banale provvedimento del ministro della giustizia Giovanni Conso, uno stimato giurista che fu guardasigilli in due governi di centrosinistra, fosse il frutto di un ignobile patto tra lo Stato e la mafia. Un atto burocratico che aveva semplicemente messo ordine negli istituti di pena italiani, dopo che, nell’estate del 1993, una retata violenta e maldestra aveva rimpinzato le carceri speciali di Pianosa e Asinara di detenuti di ogni tipo, trattati come mafiosi anche quando non lo erano, e torturati in una sorta di “pentitificio di Stato”. Lì, nell’isola di Pianosa, era stato costruito il “pentito” farlocco Enzino Scarantino, con il “più grande depistaggio di Stato”, come ormai scritto in sentenza.

Il ministro Conso, nel novembre del 1993, aveva semplicemente messo ordine, cercato di rimediare. Il suo non era stato un semplice gesto spontaneo, è vero. Diversi giudici di sorveglianza e la gran parte dei cappellani delle carceri lo avevano sollecitato a esaminare meglio ogni singolo caso. Perché, nella furia repressiva di quell’estate appena trascorsa, avevano applicato l’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario anche a persone che con la mafia non avevano nulla a che fare e che quindi non andavano tenuti isolati. C’era stata anche una importante sentenza della Corte costituzionale che andava applicata. Fu ligio alla legge il ministro Conso, quindi. È nato così, cari magistrati, e giornalisti e scrittori e registi che sul “processo trattativa” avete sviluppato carriere e successi e campato in tutti questi anni, il famoso provvedimento con il cui guardasigilli, unico competente a farlo, non aveva rinnovato trecento provvedimenti di 41-bis.

Mafiosi? Pochi e di piccolo calibro. Ma i seguaci di un altro farlocco come Stefano Ciancimino interpretarono, vollero interpretare, il gesto burocratico come un “segnale” mafioso, l’incontro tra le cosche che sparavano e mettevano bombe, e quelle di Stato. Così nasce il “processo trattativa”, con il pensiero che personaggi politici (della Prima repubblica) come Nicola Mancino e Giuliano Amato e Calogero Mannino e soprattutto Giovanni Conso, con la regia anche di presidenti della Repubblica come Oscar Maria Scalfaro e Giorgio Napolitano, cercassero di salvarsi la vita trattando con la mafia. Gli strumenti operativi, gli “utili idioti” dell’operazione sarebbero stati quelli che indossavano la divisa della benemerita, i carabinieri. Il generale Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, con una serie di iniziative scorrette tra cui mancati arresti e mancate perquisizioni di abitazioni di capimafia, avrebbero trescato con i vertici di Cosa Nostra. Tutti assolti. Non così i veri colpevoli, i registi dell’operazione “trattativa”.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Estratto dell’articolo di Marco Menduni per “Specchio – La Stampa” il 16 aprile 2023.

Difficile strappare qualche minuto nell’agenda fittissima di impegni di Sergio De Caprio, il Capitano Ultimo che trent’anni fa ha ammanettato il capomafia Totò Riina: «Gestiamo una casa famiglia per dieci persone che non possono vivere nelle loro abitazioni per i problemi dei familiari. Poi ci sono la mensa per i poveri e le docce. Ancora, ospitiamo otto senza fissa dimora, gratis». Ti guardi intorno e non è finita: «C’è l’orto sociale, altre persone preparano il pane nel forno a legna, facciamo da mangiare».

[…] Sulla figura del Capitano Ultimo, […] è uscito il libro di Pino Corrias Hanno fermato il Capitano Ultimo (Chiarelettere). Un volume utile per riconnettere logicamente le fasi della lotta alla mafia. Dopo l’arresto di Riina, per De Caprio c’è la gratitudine del Paese intero. Poi arriva una serie di accuse, di processi. Una carriera distrutta. Nulla potrà mai risarcirlo, nemmeno l’assoluzione nel processo per la mancata perquisizione del covo di Riina, con l’accusa di favoreggiamento a Cosa Nostra, finito con l’assoluzione. 

Per molti, Ultimo è una leggenda. Per altri un soldato fuori controllo. Così gli viene pure revocata la scorta, nel 2019. Gli verrà restituita dal Consiglio di Stato. Ma intanto 120 carabinieri si erano già messi a disposizione: «Gliela garantiamo noi, nel nostro tempo libero».

Poi ha fatto l’assessore all’ambiente della Regione Calabria. Nel 2021 è andato in pensione. Ma De Caprio continua a essere un vulcano di attività. «Questo libro l’ho fatto con Corrias, che stimo. Ma dal giorno dopo sono tornato a guardare alle mille attività del mio presente e del mio futuro», racconta oggi. Non vuole guardare alla sua esistenza con nostalgia né reducismo.

[…] Allora la domanda torna a riproporsi. Chi ha fermato il Capitano Ultimo? Quali sono le forze e le lobby che, denuncia De Caprio, gli hanno dichiarato guerra? «Leggendo il libro si capisce benissimo, le responsabilità sono evidenti», suggerisce. 

Eppure lui si sente sempre dalla parte della ragione. Condannato a morte da Provenzano e Bagarella, processato e avvilito, insiste: «Non ho mai avuto paura. Di nessuno. Neanche quando, ai tempi della Duomo Connection, denunciavo le infiltrazioni del malaffare a Milano e Craxi diceva che mi dovevo vergognare». Le polemiche con i politici hanno segnato la carriera di Ultimo fino agli anni più recenti, come racconta nel libro.

Oggi accanto a lui nelle iniziative di solidarietà sono rimasti molti dei suoi carabinieri: «Mi piace – sorride - essere il Capitano Ultimo che aiuta gli ultimi». E ancora una volta ricorda il perché della scelta di quel nome di battaglia: «Mi chiamo Ultimo perché sono cresciuto in un mondo dove tutti volevano essere primi. Ho un solo talento: organizzare la lotta e scegliere gli uomini. I miei sono stati il miglior gruppo investigativo».

La trattativa non è dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio”. Il pg della Cassazione ha chiesto per dell’Utri la conferma dell’assoluzione e un appello bis per gli ex Ros limitatamente alla minaccia al corpo dello Stato. Damiano Aliprandi Il Dubbio il 15 aprile 2023

Giovedì 27 Aprile la Corte di Cassazione emetterà la sua decisione sulla lunga e travagliata odissea giudiziaria che vede coinvolti in primis gli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno per la vicenda della cosiddetta Trattativa Stato-mafia.

All’esame del collegio c’è la sentenza di 2.791 pagine emessa dalla Corte d’Assise d’Appello di Palermo, che il 23 settembre 2021 ha ribaltato la decisione di primo grado assolvendo “per non aver commesso il fatto” l’ex senatore Marcello Dell’Utri e “perché il fatto non costituisce reato” gli ex generali del Ros dei Carabinieri Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni. Confermate solo le condanne al boss corleonese Leoluca Bagarella (ridotta da 28 a 27 anni) e quella al medico Antonino Cinà (12 anni).

La procura generale di Palermo ha impugnato la sentenza e ha chiesto l’annullamento, proseguendo in sostanza la linea intrapresa dalla procura palermitana fin dal 2008, quando con l’arrivo del super teste Massimo Ciancimino, hanno potuto imbastire il processo trattativa. Un super teste che si rivelerà inattendibile su più fronti. Soprattutto era emersa la palese strumentalità del suo atteggiamento processuale, la gravità degli artifici adoperati per rendere credibili le sue sensazionali rivelazioni e giustificare le molteplici contraddizioni e per tenere "sulla corda" i pubblici ministeri, col protrarre la promessa di consegnar loro il “papello” (una volta consegnato, si rivelerà una patacca), carpirne così la considerazione e mantenere sempre alta su di sé l'attenzione generale, accompagnato nel suo luminoso cammino dalla stampa e dal potente mezzo televisivo in trasmissioni in prima serata.

Resta il fatto che secondo l’accusa, gli ex Ros prima e il senatore Marcello Dell’Utri poi, sarebbero stati i veicolatori della minaccia mafiosa al governo. I primi, su incarico dei politici (l’allora ex ministro Calogero Mannino), avrebbero contattato Vito Ciancimino per poter recepire tale messaggio e veicolarlo. Ecco il reato di minaccia al corpo politico dello Stato.

Il problema di fondo è che non c’è alcuna prova, solo congetture e testimonianze de relato, tra l’alto arricchite con gli anni. Sappiamo che Mannino, secondo la tesi il mandante, è stato assolto con il rito abbreviato fino al sigillo della Cassazione. Quindi il teorema già viene decapitato: fuori i politici come mandanti. Dell’Utri, in appello, assolto perché non ha commesso il reato. Gli ex Ros assolti, ma perché “il fatto non costituisce reato”. Non c’era dolo per i giudici della corte d’Appello.

Ebbene, cosa è accaduto in Cassazione? La procura generale della Corte Suprema ha chiesto la conferma dell’assoluzione di Dell’Utri, e nel contempo ha chiesto un nuovo processo per gli ex Ros per un motivo ben preciso: la ricostruzione che vede Mori e De Donno veicolare comunque la minaccia è piena zeppa di congetture. I procuratori generali della Corte Suprema hanno chiesto l’annullamento per rivalutare quella parte. Secondo loro i fatti storici non sono dimostrati “oltre ogni ragionevole dubbio“. Una esigenza processuale importante, perché la sentenza fornisce una risposta non conforme al diritto. E viene da sé, che l’assoluzione “il fatto non costituisce reato” non restituisce una piena dignità. Il fatto non è stato dimostrato. Ora toccherà alla Cassazione decidere.

Caro Ranucci, il cosiddetto papello di Riina non è mai esistito...Sigfrido Ranucci, direttore di Report

Il conduttore di Report, per rispondere ai penalisti, ricorda il papello in cui si chiede l’abolizione del 41 bis.

Ranucci, il conduttore di Report, per rispondere agli avvocati delle camere penali, tra le varie argomentazioni ricorda il papello in cui si chiede l’abolizione del 41 bis. Che Totò Riina non abbia sopportato questo istituto carcerario è scontato. Nessuno può sopportare questo tipo di carcerazione differenziata che, almeno sulla carta, non dovrebbe essere dura. Che le stragi continentali siano state volte anche a piegare lo Stato, affinché ritirasse questo regime, è altrettanto pacifico. Ma affermare con certezza l’esistenza del cosiddetto “papello” di Riina, è errato. La tesi che sarebbe stato consegnato da Vito Ciancimino agli ex ros Mori e De Donno, i quali, in concorso con l’allora ministro Mannino ed altri, si sarebbero adoperati per esercitare una pressione sul governo, mirante all'approvazione di provvedimenti validi a soddisfare le pretese di Riina, tra le quali appunto l’abolizione del 41 bis, approvato dopo l’attentato di Via D’Amelio, non torna. Quindi Riina si sarebbe sabotato da solo?

Andiamo con ordine. La prima inchiesta giudiziaria sulla Trattativa Stato-mafia nasce nel 2000. La procura di Palermo avanza l’ipotesi che nel '92 Riina, con la mediazione di Vito Ciancimino e l'apporto di veicolatore del medico mafioso Antonio Cinà, avesse esercitato un ricatto allo Stato, spedendo un suo "papello" di richieste di benefìci per Cosa nostra, dettate da lui stesso come contropartita della cessazione dell'attacco stragista allo Stato e a una controparte composta da appartenenti alle istituzioni pubbliche e o politiche. L'identità di tale controparte istituzionale non risultava però accertata e uno degli obiettivi che quell'indagine si prefiggeva era proprio di identificarla. Nemmeno risultava accertato se, ed eventualmente quali risultati utili all’organizzazione mafiosa tale ricatto avesse conseguito a livello istituzionale. Quindi nel 2004, viene archiviata l’inchiesta.

Poi arriva la svolta. Spunta nel 2008 Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. Con le sue dichiarazioni l’accusa si estende nei confronti di Mori e De Donno, Subranni, Dell'Utri, Mannino, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e così via, fino ad approdare al processo trattativa. In sostanza si attribuisce ai coimputati della parte politico-istituzionale di avere trattato con la parte mafiosa, sulle pretese riassunte nel "papello", in particolare sulle applicazioni del trattamento carcerario del 41 bis, e quindi di avere concorso con la parte mafiosa in quel ricatto allo Stato, che sarebbe stato effettivamente veicolato alla compagine governativa, col conseguimento di alcuni risultati.

Ciancimino, per corroborare ciò, tira fuori dal cilindro il “papello”: la madre di tutte le produzioni, propagandata su tutti gli organi di stampa. Ed è la “prova regina” che dette impulso al processo. Senza di quella, ci sarebbe stata l’ennesima archiviazione. Cosa è risultato dopo anni? Il “papello” consegnato ai Pm da Ciancimino è chiaramente frutto di una sua grossolana manipolazione: lo ha fornito ai Pm solo in fotocopia senza dare di ciò alcuna motivazione plausibile, posto che la circostanza che si trovasse in cassaforte all'estero non avrebbe impedito la consegna dell'originale. Risulta evidente che le fotocopie, con l'uso di carte e inchiostri datati, impediscano l'accertamento delle epoche degli originali, oggetto della copiatura. Lo stesso Massimo Ciancimino ha invece fornito l'originale, e non la fotocopia, del post-it manoscritto a matita dal padre che recita '"consegnato spontaneamente al colonnello dei carabinieri Mario Mori dei Ros”, attaccato alla fotocopia del “papello”. Si scoprì che quel post-it riguardava la consegna del libro di don Vito ai Ros. Un libro dal titolo “Le mafie”, ritenuto privo di valore. Ma attaccandolo alla fotocopia di quel “papello”, ha creato una manipolazione. Molto grossolana.

Non solo. Si è accertato che il “papello” non è scritto da Riina, da Ciancimino o alcuno dei soggetti presi in considerazione per le comparazioni grafiche. A questo si aggiungono altri racconti e documenti forniti da Ciancimino senza alcun dato autentico e utile ad identificarlo. In quel periodo, a differenza di Palermo, c’era la procura di Caltanissetta guidata da Sergio Lari che aveva ben inquadrato Massimo Ciancimino: una persona che mentiva. Quindi, in soldoni, parlare ancora del “papello” di Riina, significa continuare a propagandare ciò che è stato smentito con i fatti. Non esiste e nessuno ha dimostrato il contrario. Il giornalismo è separare i fatti dalle opinioni. Ecco il fatto: l’unico “papello” che è stato tirato fuori, è risultata una patacca.

Presunta trattativa “Stato-mafia”, il pg della Cassazione invoca un nuovo processo per Mori, Subranni e De Donno. Il generale Mario Mori tra gli imputati del processo sulla presunta trattativa "Stato-mafia". La procura generale ha chiesto invece la conferma dell’assoluzione per l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri. Il Dubbio il 14 aprile 2023

Celebrare un nuovo processo di Appello per gli ex ufficiali del Ros, il generale Mario Mori, il generale Antonio Subranni e l'ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno, e confermare l'assoluzione per l'ex senatore Marcello Dell'Utri. È la richiesta della Procura generale della Cassazione all'udienza del processo sulla trattativa tra Stato e mafia.

COSA AVEVA DETTO MORI PRIMA DELL’INIZIO DELL’UDIENZA

«Non mi aspetto nulla. Il mio stato d'animo? Molto buono». Lo ha detto il generale dei carabinieri Mario Mori entrando in Cassazione dove oggi si tiene l'udienza per il processo sulla trattativa tra Stato e mafia. A decidere sul ricorso presentato dalla Procura generale di Palermo contro la sentenza emessa il 23 settembre 2021, che aveva assolto gran parte degli imputati condannati in primo grado, saranno i supremi giudici della sesta sezione penale. 

Con la sentenza di secondo grado, la Corte d'assise d'appello di Palermo aveva assolto "perché il fatto non costituisce reato", l'ex senatore Marcello Dell'Utri, il generale Mario Mori, il generale Antonio Subranni e l'ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno, tutti e tre ex ufficiali del Ros, riducendo la pena a 27 anni per il boss corleonese Leoluca Bagarella e confermando la pena a 12 anni per il medico Antonino Cinà.

In primo grado erano stati condannati a 28 anni di carcere il boss Leoluca Bagarella, a 12 anni Dell'Utri, Mori, Subranni e Cinà e a 8 anni per De Donno. In concomitanza con l'udienza in Cassazione davanti al Palazzaccio si svolge un sit-in da parte delle associazioni Attivamente e Our Voice che hanno esposto uno striscione con scritto “Trattativa Stato Mafia: si condannino le responsabilità istituzionali”.

Le richieste del pg di Cassazione. Trattativa Stato-mafia, pg di Cassazione chiede il processo bis per Mori e gli ex Ros: “Dell’Utri va assolto”. Redazione su il Riformista il 14 Aprile 2023

Da una parte conferma che la teoria elaborata dalla Procura di Palermo contro l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri fu un teorema senza prove, dall’altra usa il pugno duro contro gli altri imputati finiti a loro volta assolti in Appello il 23 settembre 2021, chiedendo per gli alti ufficiali dei carabinieri un nuovo processo.

È il doppi volto della Procura generale della Cassazione nei confronti degli imputati del processo “Stato mafia” sulla presunta trattativa tra apparati dello Stato e i clan siciliani.

Partiamo da Dell’Utri, l’ex braccio destro del leader di Forza Italia Silvio Berlusconi. Condannato in primo grado a 12 anni di carcere perché ritenuto anello di congiunzione tra Cosa Nostra e politica per porre fine alla stagione delle stragi, l’ex senatore venne poi assolto nel processo d’Appello. Per Dell’Utri l’incubo pare ormai finito: il Procuratore generale della Cassazione Lia Sava questa mattina ha chiesto di confermare l’assoluzione incassata un anno e mezzo fa, smontando così ancora una volta il lavoro dei colleghi siciliani della Procura e chiedendo di rigettare il loro ricorso, rendendo definitiva l’assoluzione di Dell’Utri.

Di segno opposto invece la decisione nei confronti degli alti ufficiali del Ros dei Carabinieri, Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, incriminati in blocco dalla Procura di Palermo e come Dell’Utri condannati in primo grado e assolti in Appello.

Con la sentenza di secondo grado, la Corte d’assise d’appello di Palermo aveva assolto “perché il fatto non costituisce reato” l’ex senatore Marcello Dell’Utri e i tre ex ufficiali del Ros Mori, Subranni e De Donno, riducendo la pena a 27 anni per il boss corleonese Leoluca Bagarella e confermando la pena a 12 anni per il medico Antonino Cinà.

Per i due generali Moro e Subranni, e l’ufficiale De Donno, la Procura generale della Cassazione ha chiesto un nuovo processo d’appello. Per il rappresentante dell’accusa la sentenza di secondo grado descrive “la trattativa negli anni ma non fa una precisa ricostruzione della minaccia e di come sia stata rivolta al governo” e lo fa solo in modo “congetturale“.

Nel corso della requisitoria il procuratore generale Lia Sava ha aggiunto che è “necessario annullare la sentenza con rinvio” perché “almeno una parte delle prove a supporto della sentenza è desunta indiziariamente” e le accuse non sono dimostrare “oltre ogni ragionevole dubbio”.

Non mi aspetto nulla. Il mio stato d’animo? Molto buono“, si era limitato a dire, entrando in Cassazione, il generale Mori parlando ai cronisti che lo aspettavano.

"Giusto assolvere Dell'Utri". Demoliti i teoremi dei pm sulla trattativa Stato-mafia. Luca Fazzo il 15 aprile 2023 su Il Giornale.

Il pg della Cassazione sposa la tesi dell'Appello: "Niente prove di accordi con Cosa Nostra". La sentenza il 27 aprile, ma è un colpo durissimo alla Procura.

Tutto può ancora accadere, nel processo sulla presunta trattativa tra Stato e mafia. Persino che il prossimo 27 aprile, quando emetteranno la sentenza, i giudici della Cassazione scavalchino la Procura generale, l'ufficio che per legge rappresenta l'accusa. Quel che per ora c'è di certo è che un teorema giudiziario - e insieme ad esso un gigantesco circo mediatico e giudiziario - durato quindici anni viene smontato in poche ore. La procura di Palermo, che chiedeva un nuovo processo contro l'ex senatore Marcello Dell'Utri e contro gli ufficiali dei carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, assolti in appello con formula piena, viene smentita dalla procura generale della Cassazione. Per Dell'Utri si chiede la conferma della assoluzione. Per i tre carabinieri, un nuovo processo: ma di segno esattamente opposto a quello invocato dai pm siciliani.

Il nocciolo della richiesta è semplice: non c'è prova che la trattativa che ancora oggi agita i talk show ci sia mai stata; non c'è prova che lo Stato abbia ceduto alle richieste di Cosa Nostra, come sostenuto dai pentiti che la procura di Palermo ha circonfuso di autorevolezza. La rilettura giudiziaria di una stagione drammatica della vita del paese, segnata dalle stragi di mafia del 1992 e 1993, aveva portato i pm siciliani - Antonio Ingroia e Nino Di Matteo in testa - a incriminare eroi della lotta alla mafia come Mori, ministri come Calogero Mannino e Nicola Mancino, e di lì a lambire perfino il Quirinale. Già per due volte i corollari del teorema erano crollati: prima con l'assoluzione di Mannino, poi con quella di Mori e del suo braccio operativo Sergio «Ultimo» De Caprio per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina dopo l'arresto del boss. Così l'udienza di ieri in Cassazione diventa l'ultima spiaggia per gli ideatori del teorema e per i loro fans che infatti presidiano il palazzaccio di piazza Cavour.

In primo grado erano piovute condanne pesanti: dodici anni per Dell'Utri, Mori e Subranni, otto per De Donno. In appello il ribaltone, tutti assolti tranne i due mafiosi accusati di avere ideato il ricatto allo Stato, Leoluca Bagarella e Gaetano Cinà. La procura generale di Palermo non si era arresa e si era appellata in Cassazione accusando la Corte d'appello di avere «contraddittoriamente ed illogicamente assolto gli imputati».

Ieri, però, arriva la sorpresa. Presente in aula con ben tre magistrati, la procura generale della Cassazione chiede che sia confermata l'assoluzione di Dell'Utri. Per i tre uomini dell'Arma chiede invece un nuovo processo. Ma quella che di primo acchito era parsa una linea dura verso i carabinieri, quando trapela meglio il contenuto della richiesta si presenta come una sconfessione piena della linea d'accusa. In appello Mori e gli altri erano stati assolti perchè «nulla osta a riconoscere che i carabinieri abbiano agito avendo effettivamente come obbiettivo quello di porre un argine all'escalation in atto della violenza mafiosa che rendeva piu' che concreto e attuale il pericolo di nuove stragi e attentati». Le richieste della mafia c'erano state, insomma, ma i Cc le avrebbero trasmesse solo a fin di bene. Ieri invece la Procura va più in là, e spiega che manca addirittura la prova che i diktat mafiosi - in sostanza: stop alle bombe in cambio della attenuazione del carcere duro - siano mai partiti: e infatti viene chiesto anche l'annullamento delle condanne di Bagarella e Cinà.

Non è provato, dice la pubblica accusa, che Mori abbia trasmesso le richieste di Cosa Nostra a Francesco Di Maggio, allora vicecapo delle carceri, e non è provato che Di Maggio le abbia riportate all'allora ministro della Giustizia, Giovanni Conso. E d'altronde l'unico vantaggio concreto ottenuto da Cosa Nostra in quella fase, la rimozione di trecento detenuti dal 41-bis, è stata sempre spiegata da Conso come una iniziativa autonoma, dettata da ragioni giuridiche dopo le critiche della Corte Costituzionale al regime di massima sicurezza. Il capo del governo si chiamava Ciampi

Quella catena di ipotesi che nessuno ha confermato. Tutto il procedimento si basa sulle parole di due pentiti rimaste senza verifica. Luca Fazzo il 15 aprile 2023 su Il Giornale.

«Dichiarazioni de relato da fonte non verificabile». «Fortissimi dubbi sulla credibilità e attendibilità delle dichiarazioni rese sia da Brusca che da Cucuzza», i due pentiti su cui si regge l'intero processo. Va giù pesante Francesco Centonze, uno dei due difensori di Marcello Dell'Utri (l'altro è il professor Tullio Padovani), per demolire il teorema che ha portato l'ex senatore di Forza Italia in un tunnel giudiziario di cui solo ora si intravede la fine. Ieri davanti alla Cassazione i legali di Dell'Utri si trovano un alleato inatteso, il procuratore generale che sposa le loro tesi e chiede la conferma dell'assoluzione del creatore di Publitalia. Ma la difesa sa che la partita è ancora aperta, e che la Corte può prendere altre strade. Così Centonze parte all'attacco dell'intero impianto accusatorio: non solo di quello che portò in primo grado alla condanna di Dell'Utri a dodici anni, ma anche di quanto viene dato per provato anche dalla sentenza d'appello di assoluzione. E cioè che Dell'Utri abbia ricevuto da Cosa Nostra, attraverso l'ex stalliere Vittorio Mangano, richieste e messaggi da recapitare all'allora capo del governo, Silvio Berlusconi. In appello, Dell'Utri venne assolto solo perchè non avrebbe poi riferito il messaggio al Cavaliere.

Ma è proprio la prima parte della ricostruzione, dice Centonze ai giudici della sesta sezione, a fare acqua da tutte le parti. A parlare degli incontri tra Dell'Utri e Mangano sono solo i due pentiti-chiave, Salvatore Cucuzza e Giovanni Brusca: l'assassino di Giovanni Falcone e del piccolo Santino Di Matteo, da poco tornato libero. Ma sulla base delle loro parole, dice l'avvocato, la sentenza ha costruito «una catena di presunzioni condite da abbondanti alterazioni delle risultanze probatorie». «Si presume - continua Centonze - che Brusca e Cucuzza abbiano detto il vero nel processo», cioè quando dissero di avere ricevuto le confidenze di Mangano. «Si presume poi che Mangano abbia detto il vero a Brusca e Cucuzza circa gli incontri e che abbia riferito in maniera accurata il contenuto». E altrettanto inconsistenti sono le ricostruzioni successive, quelle sugli incontri in cui Dell'Utri avrebbe riferito a Berlusconi le richieste prevenutegli. «Insomma, una serie di presunzioni costruite una sull'altra, debolezza su debolezza». Debolezze rese ancora più vistose perchè siamo davanti a un morto, Cucuzza, che riferisce le parole di un altro morto, Mangano: rendendo impossibile interrogarli e incrociarne le versioni.

La ricostruzione compiuta dall'accusa, conclude Centonze, non è affatto l'unica possibile: «Una ricostruzione alternativa, molto solida e plausibile, è che Mangano abbia riferito a Brusca e a Cucuzza qualcosa che non è accaduto, che abbia raccontato di incontri che nel 1994 non sono mai avvenuti con Dell'Utri o che abbia alterato il contenuto di quei colloqui. Per compiacere i sodali che gli chiedevano informazioni in merito ai suoi eventuali contatti con Dell'Utri, Mangano potrebbe avere fornito informazioni mendaci. Non può dunque essere escluso - anzi è l'ipotesi più accreditata - che Mangano abbia potuto inventare gli incontri per riacquisire un ruolo agli occhi del vertice del sodalizio criminale o più semplicemente per salvarsi la pelle».

Trasferito il poliziotto che indagava sui rapporti tra Berlusconi, Dell’Utri e mafia. Stefano Baudino su L'Indipendente martedì 12 settembre 2023 

Stava indagando sugli opachi rapporti economici tra l’ex premier Silvio Berlusconi e l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, nell’ambito della delicatissima inchiesta guidata dalla Procura di Firenze sui mandanti occulti delle stragi di mafia, ma non avrà più la possibilità di farlo. Il superpoliziotto Francesco Nannucci, fino a pochi giorni fa capo centro della Direzione investigativa antimafia (DIA) del capoluogo toscano e tra i più capaci investigatori che hanno preso parte all’indagine sulle bombe del ’93-’94, è stato trasferito a Lucca, dove ricoprirà il ruolo di vicario del questore. Al suo posto, si è insediato il colonnello dei carabinieri Alfonso Pannone.

Il ricambio è avvenuto dopo che il Dipartimento di pubblica sicurezza – articolazione del Ministero dell’interno della Repubblica Italiana -, ha deciso di non prorogare il suo mandato, che scadeva proprio in questi giorni. A storcere il naso per quanto avvenuto è stato il Procuratore di Firenze, Luca Tescaroli, che si è lasciato andare a dichiarazioni molto eloquenti: «Posso solo esprimere la gratitudine del nostro ufficio per il contributo che ha dato in questi anni, certo sarebbe stato preferibile che l’avvicendamento avvenisse in una fa se successiva, e non mentre le indagini sono ancora in corso – ha detto il titolare dell’inchiesta -. Ci auguriamo che chi verrà dopo di lui possa fornire lo stesso tipo collaborazione, anche se ci rendiamo conto che non sia semplice per chi viene da fuori entrare in una indagine così complessa. Non spetta a noi decidere su questi temi, possiamo solo prendere atto della decisione».

Nannucci, originario di Pisa e laureatosi a Firenze, è stato protagonista di numerose indagini antimafia, tra cui la celebre China Truck, incentrata sul riciclaggio della mafia cinese in Toscana. Da capo centro della Dia, negli ultimi anni ha messo le mani sul tema dei legami tra white collars e Cosa Nostra, occupandosi in particolare dei rapporti economici tra Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, che nel 2014 fu condannato per concorso esterno in associazione mafiosa come tramite tra il Berlusconi imprenditore e gli uomini della mafia palermitana.

Negli scorsi mesi, il superpoliziotto aveva firmato un documento in cui si accertava come indecifrabile l’origine di 70 miliardi di lire – versati per la maggior parte in contanti – che tra il febbraio 1977 e il dicembre 1980 hanno rimpinguato le casse delle società in mano a Berlusconi. Spingendosi oltre, la relazione ha individuato una lunga serie di donazioni nel periodo compreso tra il 2012 e il 2021, per 28 milioni di euro, elargite da Silvio Berlusconi al fidato Marcello, anche attraverso la moglie e il figlio dell’ex senatore. Tra questi flussi di denaro trovava posto, dal maggio 2021, anche un vitalizio da 30mila euro al mese che Dell’Utri chiese e ottenne dal Cavaliere.

La consulenza di Nannucci e i suoi uomini ha attestato come sia “sicuramente connessa a un riconoscimento anche morale, l’assolvimento di un debito non scritto, la riconoscenza, per quanto riguarda l’ultimo periodo”, dovuta dal Cavaliere all’ex senatore “per aver pagato un prezzo connesso alla carcerazione, senza lasciarsi andare a coinvolgimenti di terzi”. Dell’Utri, infatti, non chiamò mai in causa Berlusconi nei processi a suo carico per le sue connessioni con Cosa Nostra. La Dia ha parlato espressamente della sussistenza di “una sorta di ricatto non espresso, ma ben conosciuto da tutti, e idoneo al persistere delle dazioni”, poiché vi sarebbe stata in Dell’Utri “la consapevolezza che tutte le loro richieste, assecondate da Berlusconi, trovano fondamento in una sorta di risarcimento di quanto hanno patito nel tempo per colpa sua, per averlo, probabilmente, coperto”.

[di Stefano Baudino]

La trattativa bis. Ndrangheta stragista, il processo che apre la caccia a Berlusconi tra date chirurgiche e pentiti premiati. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 28 Marzo 2023

Dici Filippone ma intendi Berlusconi, nomini Graviano ma pensi a Dell’Utri. È così che sabato scorso a Reggio Calabria i giudici della Corte d’assise d’appello hanno confermato la condanna all’ergastolo a un esponente della ‘ndrangheta calabrese e uno della mafia siciliana, come mandanti-complici dell’omicidio di due carabinieri nel 1994. Una “strage di Stato”, o “strage continentale”, inquadrate come prolungamento delle bombe del 1993 a Roma, Milano e Firenze.

Il processo, di cui nessun quotidiano nazionale tranne Il Fatto si occupa, si chiama “ndrangheta stragista” ed è una bella costruzione a tavolino di una sorta di Trattativa-due, utile a servire su un piatto d’argento alla procura di Firenze che indaga sulle bombe del 1993, il nome di un terzo livello politico come mandante delle stragi. Se non di quelle di via Capaci e via D’Amelio, almeno di quelle, di natura ben diversa, che presero di mira luoghi d’arte e persone presenti per caso proprio dove esplodevano le bombe. Il succo di questa storia è nelle parole del rappresentante dell’accusa, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, e in quelle fotocopia delle motivazioni alla sentenza di primo grado. Il rappresentante dell’accusa non ha certo peli sulla lingua quando lancia il suo progetto per il futuro e dice esplicitamente che i due condannati come mandanti, il mafioso Giuseppe Graviano e l’uomo della ‘ndrangheta Rocco Santo Filippone “costituiscono soltanto un primo approdo”, in attesa di poter mandare a processo qualcuno di ben più elevato, nella gerarchia delle responsabilità, cioè “dei mandanti politici che attraverso la ‘strategia della tensione’ volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre” .

Queste parole sono state pronunciate nell’aula della corte d’assise d’appello da un soggetto in toga, parte di grande rilevanza nella dialettica processuale, quella dell’accusa. E nessuno pare stupirsi -del resto lo hanno fatto anche i giudici nelle motivazioni della sentenza di primo grado- di questo passaggio dalle toghe alla storiografia politica. Lasciamo parlare l’alto magistrato. Si parte dal 1993, il suo autunno con le elezioni amministrative, vinte in gran parte da rappresentanti della sinistra. L’anno “in cui -dice Lombardo- in Italia dopo moltissimo tempo si corre il rischio di un governo a guida comunista. Perché nell’autunno del 1993 Achille Occhetto vince le elezioni amministrative e inizia a parlare da Presidente del consiglio. È un momento storico decisivo per le sorti di una Nazione che sta vivendo una stagione difficilissima, iniziata in epoca ben antecedente rispetto alla caduta dei blocchi contrapposti nell’autunno del 1989. Quello è un momento storico anche per effetto della forza distruttiva generata dalla vicenda Mani Pulite, gestita dalla Procura di Milano, che deflagra su quello che rimane della Democrazia cristiana e del Partito socialista. L’unico interlocutore di sinistra che ha una capacità aggregante è il Pds di Achille Occhetto che ovviamente in quel momento parla come se non avesse avversari. E non ha avversari in realtà. L’avversario verrà formalizzato dopo qualche mese. L’avversario diventerà Forza Italia…”.

Così “Occhetto non si è più ripreso da quella mazzata tant’è vero che ha smesso di fare politica. Erano le elezioni della primavera del 1994 e, visto che sono fatti storici, siamo al primo governo Berlusconi”. Ora sarà bene ricordare che queste parole non sono state pronunciate in un processo in cui l’imputato fosse il leader di Forza Italia e la parte civile Achille Occhetto. Un processo politico sulla storia degli anni novanta in Italia. Qui siamo in piena Calabria dove, il 18 gennaio 1994, furono uccisi i carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. I due esecutori di quel delitto di trent’anni fa, due malavitosi locali, sono stati da tempo processati e condannati. Ma sarà la Dda di Reggio Calabria presieduta da Federico Cafiero de Raho, oggi deputato del Movimento cinque stelle dopo esser stato il capo dell’Antimafia nazionale, a rimescolare le carte su quel delitto. E su quella data, soprattutto. Diciotto febbraio 1994, un mese prima di quel 28 marzo che segnerà la vittoria di Silvio Berlusconi, la sconfitta della sinistra di Occhetto e la fine della prima repubblica.

Dopo la relazione della Dda partono intercettazioni a raffica e gare di collaborazioni di “pentiti” più o meno improvvisati. Quel delitto, e insieme altri due attentati ai carabinieri senza vittime, fanno improvvisamente parte della “strategia stragista”, quella di Cosa Nostra e della Trattativa-uno, che passa dalle bombe del 1993 e arriva, deve arrivare, fino alla nascita di Forza Italia e la vittoria elettorale di Berlusconi. Per questo è importante quella data. Perché attribuisce un connotato e finalità politiche a quanto accaduto dal delitto Falcone fino alla vittoria di Berlusconi. Con una specie di Trattativa infinita. Ecco dunque perché occorre spiegare l’inserimento della ‘ndrangheta nella strategia dei corleonesi. Per arrivare al 1994. Nasce la formula “strage continentale”, detta anche dai “pentiti” “strage di Stato”.

È così che un fatto, sicuramente tragico, ma di piccolo cabotaggio locale, assume una grande rilevanza nazionale, politica e storica, tanto che siamo ancora qui a parlarne e scriverne trent’anni dopo. Pentiti incoraggiati e premiati un tanto al pezzo raccontano di quando, subito dopo il rapimento di Aldo Moro, anno 1978, sono stati visti in un agrumeto calabrese Silvio Berlusconi e Bettino Craxi a colloquio con gli uomini di Piromalli, o forse con lui stesso. E poi, il famoso incontro nel resort Saionara di Nicotera in cui la mafia siciliana e la ‘ndrangheta calabrese avrebbero messo a punto la comune strategia stragista “continentale”. Quell’accordo in verità non è mai esistito, e lo dice anche la sentenza “Tirreno” del 2004. Del resto il pilastro della tesi su cui si è costruito il processo “’ndrangheta stragista” è la testimonianza di uno dei “pentiti” calabresi più screditati, Franco Pino.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

La sentenza "Tirreno" del 2004. Processo flop sulle stragi, nessuna trattativa tra ‘ndrangheta e mafia ma dopo quasi 20 anni spunta aiutino al pm. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Marzo 2023

Questo processo non avrebbe mai dovuto esistere. Perché fin dalla sentenza “Tirreno”, divenuta definitiva nel 2004, era emerso che, se pure i corleonesi avevano avvicinato gli uomini della ‘ndrangheta per una comune strategia stragista, la “trattativa” non ci fu, perché gli uomini di Piromalli respinsero la richiesta al mittente. Pure il processo “trattativa-bis” va avanti, e siamo alla fine del secondo grado. Si presume la camera di consiglio sarà il prossimo 20 marzo.

Era attesa per il dieci marzo la sentenza del processo “’Ndrangheta stragista”, fotocopia del fallimentare fratello gemello di Palermo, e che si sta celebrando in appello a Reggio Calabria. Era attesa, ma un piccolo aiutino pare essere arrivato all’accusa del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo proprio il giorno precedente, quando i carabinieri hanno arrestato 49 persone, con un’operazione definita, alla faccia della legge Cartabia che vieta i nomignoli alle inchieste, “Hybris”. E da un’ordinanza di quelle misure di custodia cautelare spunta un’intercettazione che pare dare appunto l’aiutino di cui l’impianto traballante del processo aveva un gran bisogno. Si tratta della conversazione tra una persona di nome Francesco Adornato, non indagata ma ritenuta vicina al boss Piromalli solo per una comune condanna del 1980, ha parlato del summit al resort Saionara di Nicotera in cui la ‘ndrangheta secondo lui avrebbe accettato di associarsi a Cosa Nostra nella strategia delle “stragi di Stato” degli anni novanta.

L’intercettazione, che risale al gennaio 2021, in realtà non dice nulla di nuovo, e non coinvolge direttamente il vero capo della ‘ndrangheta del tempo, cioè Momo Piromalli, che non risulta presente al summit. “..lo avrebbe rappresentato Nino Testuni…è stato a suo tempo Nino Testuni che avrebbe risposto anche per lui…ha sostenuto che bisogna attuare le stragi di Stato”. Stragi di Stato? Così i mafiosi definiscono la propria attività criminale? E poi, che cosa c’è di sorprendente se ci si riferisce a un episodio già citato da un “pentito” ma tre anni prima? Era stato infatti il collaboratore di giustizia Franco Pino a citare il summit nel 2018, quando la Direzione antimafia di Reggio Calabria presieduta da Federico Cafiero de Raho aveva dato impulso alla nascita del teorema “’Ndrangheta stragista”. L’incontro tra i boss calabresi e quelli di Cosa Nostra al resort Saionara avrebbe dato l’imprimatur alla stagione calabrese delle “stragi di Stato” nel quadro della trattativa per far modificare il regime carcerario del 41-bis ai mafiosi. State attenti, avrebbero detto gli uomini di Riina ai “colleghi” della ndrangheta, perché prima o poi lo applicheranno anche a voi. Strano vertice, però.

Perché il capo dei capi Piromalli non c’è, e “parrebbe” aver dato una delega in bianco a un certo Nino Testuni, che sarebbe in realtà il boss Nino Pesce di Rosarno. E un altro capo mafia calabrese, Luigi Mancuso detto “il Supremo” si dichiara in disaccordo , perché, dice “non dobbiamo andare a sparare”. E così sarebbe andata, visto che lo dice anche una sentenza definitiva. Anche questa “trattativa” è una bufala. Questa intercettazione, che spunta oggi proprio il giorno precedente a quello previsto per la fine del processo, sarebbe la prova mancante, una sorta di pistola fumante, rispetto alle rivelazioni del “pentito” Franco Pino. Che dice e non dice, e pare sempre rendersi gradito al pm. (Piccola nota autobiografica: Franco Pino è il “pentito” che nel 1996 accusò Vittorio Sgarbi e me di voto di scambio, in seguito a una nostra visita in un carcere della Calabria in cui erano detenuti sia lui che il boss Piromalli. Il tema dello “scambio” era proprio la riforma dell’articolo 41 bis. Dopo otto mesi noi siamo stati prosciolti su richiesta della Dda, e questo dimostra l’attendibilità del collaboratore).

Quello che non va dimenticato è come nasce questo processo “’Ndrangheta stragista”. È la filiazione di “normali” inchieste di attentati a carabinieri, già giudicati come fatti di criminalità locale. Uno in particolare, quello in cui persero la vita Vincenzo Garofalo e Antonino Fava, il 18 gennaio del 1994. Nessun dubbio sugli esecutori materiali, due malavitosi locali, già condannati da tempo. Ma è l’impulso della Dda di Reggio Calabria a riaprire le indagini nel 2017 e a rimescolare le carte, con partenza a raffica di intercettazioni e gare di “pentitismo”. Cambia velocemente prima di tutto il movente, che non può più essere ordinaria lotta tra guardie e ladri. E occorrono anche i mandanti, che devono assumere almeno un livello regionale. È a questo punto che la “trattativa” siciliana viene travasata d’impeto in terra calabrese. I mandanti del duplice omicidio vengono individuati nel boss mafioso di Brancaccio di Palermo Giuseppe Graviano e in quello di ‘ndrangheta Rocco Santo Filippone in rappresentanza della cosca Piromalli di Gioia Tauro.

Una volta che si è alzato il tiro, immediatamente anche i due malavitosi responsabili dell’omicidio, rispetto ai quali questa sono faccende ben più alte, si sono immediatamente adeguati, cambiando versione dei fatti e soprattutto del movente. Non si sarebbe trattato di un fatto locale, ma di una sorta di regalo della ‘ndrangheta calabrese ai cugini siciliani perseguitati dall’Antimafia. E si sarebbero programmate insieme, a quel punto le stragi del 1993 e 1994, e anche “l’omicidio di un ministro”. Ma è la chiusura del cerchio, perché mettendo nel pacchetto “trattativa” anche l’attentato ai carabinieri del 18 gennaio 1994, si prolunga la stagione delle stragi fino alla nascita di Forza Italia e all’entrata in politica di Silvio Berlusconi. Dopo di che non ci sarebbe più bisogno di stragi.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Un’intercettazione svela il ruolo della ‘ndrangheta nelle stragi di mafia. Stefano Baudino su L'Indipendente il 14 Marzo 2023

Si riapre, improvvisamente, uno dei processi più importanti sullo spaccato delle stragi di mafia degli anni Novanta e della “zona grigia” tra criminalità organizzata e settori deviati dello Stato nella stagione delle bombe. Si tratta del processo “‘Ndrangheta stragista“, in cui sono imputati il boss di Cosa Nostra Giuseppe Graviano e il boss di ‘ndrangheta Rocco Santo Filippone, che si sta svolgendo di fronte alla Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria e che, negli scorsi giorni, avrebbe dovuto partorire una sentenza di secondo grado. Eppure, in extremis, il Procuratore Giuseppe Lombardo ha chiesto di acquisire un’intercettazione confluita nel fascicolo dell’inchiesta “Hybris” che, giovedì scorso, ha portato all’arresto di 49 persone ritenute affiliate alla cosca Piromalli di Reggio Calabria. Un’intercettazione che, secondo l’accusa, proverebbe il ruolo di partecipazione attiva della mafia calabrese nelle stragi.

In quella conversazione, a parlare è Francesco Adornato, storico ‘ndranghetista legatissimo ai Piromalli, che dice: «Pino e compagnia bella li hanno messi all’epoca nella commissione per le stragi di stato insieme a Testuni». “Pino” è Giuseppe Piromalli, capo dell’omonima ‘ndrina di Gioia Tauro, principale referente dei mafiosi siciliani negli anni Novanta; quando parla di “Testuni”, Adornato si riferisce invece a Nino Pesce, capomafia di Rosarno. Adornato dice che «nella Commissione che doveva… che hanno deciso di avallare la strage di Stato con i siciliani, Pino Piromalli non c’era…», perché a rappresentarlo ci sarebbe stato «Testuni», che «avrebbe risposto anche per lui». Secondo Adornato, dunque, la ‘Ndrangheta confermò la sua partecipazione alle stragi al fianco dei siciliani nella cornice di un summit tenutosi al resort Saionara di Nicotera: «Pino ha sempre un’attenuante perché nella Commissione che hanno deciso di mettersi a fianco dei siciliani… e compagnia bella non c’era… C’era Luigi Mancuso… ma là Luigi…ha pestato i piedi… Luigi… in questa commissione al Saionara gli dice che lui non è d’accordo… perché gli dice Luigi… noi dobbiamo trattare con questi personaggi, gli ha detto, non dobbiamo andare a sparare… per quale motivo». Eppure, la titubanza di Mancuso, potente boss della famiglia che controllava Limbadi e Nicotera, sarebbe stata superata dalla linea di Piromalli e Pesce. «Questo signor Pesce che lo chiamano “Testuni” – continua Adornato – questo si è messo avanti gli ha detto… e ha sostenuto che bisogna attuare le stragi di Stato». E ancora: «No, ma quelli dicono ma noi… ma noi perché ci dobbiamo imbrattare dici Luigi dice va bene… dice noi dobbiamo dare ascolto ai siciliani… loro hanno voluto l’Antimafia… perché l’Antimafia… poi addirittura siccome che i privilegi loro non li possono avere e ce l’hanno messa in culo anche a noi con il 41 bis ora ci dicono loro di ammazzare… un Ministro… prima di fare il colpo di Stato…».

Secondo la Procura generale, che ha chiesto la riapertura dell’istruttoria, l’intercettazione «non è un’ulteriore coincidenza; non è un elemento trascurabile e non è assolutamente una prova sovrabbondante», ma costituisce «la prima acquisizione diretta riferita alla viva voce di chi dal di dentro vive le dinamiche di ‘ndrangheta, che ricostruisce quanto è avvenuto in quegli anni, in Provincia di Reggio Calabria, proprio in relazione alle stragi». Una prova che «non è contaminata dalla sentenza di primo grado, le cui motivazioni sono state depositate il 19 gennaio 2021».

E proprio con quello storico verdetto di primo grado i giudici comminarono la pena dell’ergastolo a Giuseppe Graviano e Rocco Filippone, ritenuti responsabili come mandanti di una serie di attentati ed omicidi avvenuti tra il dicembre 1993 e il febbraio 1994, in cui persero la vita anche gli appuntati Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, ammazzati sulla Salerno-Reggio Calabria. Le motivazioni della sentenza hanno collegato in un unico filo rosso le azioni militari delle mafie coinvolte nell’attacco frontale allo Stato alla partecipazione a tale strategia di settori deviati delle istituzioni. Sullo sfondo, uno specifico disegno di carattere politico. “Di tale strategia, i tre attentati ai carabinieri (fortunatamente non tutti andati a buon fine) hanno costituito uno dei momenti più significativi di un cinico piano di controllo del potere politico (fortunatamente fallito) nel quale sono confluite tendenze eversive anche di segno diverso (servizi segreti deviati) per effetto anche della ‘contaminazione’ o ‘evoluzione’ originata dall’inserimento della mafia siciliana e calabrese all’interno della massoneria”, si legge nero su bianco nella sentenza. “Il culmine di tale attacco allo Stato – scrive sempre la Corte d’Assise – si sarebbe dovuto raggiungere il 23 gennaio 1994 con l’attentato allo Stadio Olimpico di Roma che, se portato a termine, avrebbe certamente determinato l’uccisione di decine e decine di carabinieri, piegando in maniera definitiva lo Stato, già colpito dalle stragi avvenute negli anni precedenti”. Secondo i giudici di primo grado, infatti, l’attentato ai carabinieri in Calabria e la tentata strage dell’Olimpico sarebbero avvenuti “in un momento in cui le organizzazioni erano alla ricerca di nuovi e più affidabili referenti politici, disposti a scendere a patti con la mafia, che furono individuati nel neopartito Forza Italia di Silvio Berlusconi in cui erano confluiti i movimenti separatisti nati in quegli anni come risposta alle spinte autonomistiche in Sicilia e Calabria’”. Per la Corte d’Assise, “non può affatto escludersi, anzi appare piuttosto assai probabile, che dietro tali avvenimenti vi fossero dei mandanti politici che attraverso la ‘strategia della tensione’ volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre, temuto anche dalle organizzazioni criminali, che erano riuscite con i precedenti referenti politici a godere di benefici e agevolazioni. Si può, quindi, affermare che in tale circostanza si era venuta a creare una sorta di convergenza di interessi tra vari settori che hanno sostenuto ideologicamente la strategia stragista di Cosa Nostra”. [di Stefano Baudino]

Le dichiarazioni del procuratore aggiunto di Reggio Calabria. Pm e pentiti riscrivono la storia d’Italia: a Reggio va in scena la trattativa-bis. Tiziana Maiolo su Il Riformista l’1 Marzo 2023

“’Ndrangheta stragista”, il processo fantasma di cui nessuno parla. È il racconto dei “pentiti” a nutrire il fiume in piena del procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo, che parla per ore in diverse udienze. Siamo nella corte d’assise d’appello che deve giudicare, in apparenza, due imputati già condannati all’ergastolo nel processo di primo grado per aver fatto assassinare due carabinieri.

Questa è l’apparenza, perché in realtà anche qui si sta celebrando il processo del secolo, la storia d’Italia riscritta dal pubblico ministero e dai “pentiti”. Se qualcuno pensava che il processo “Trattativa” fosse terminato a Palermo con le assoluzioni e il disvelamento di una bufala cui avevano creduto i pm Ingroia, Di Matteo e Scarpinato ma non i giudici, quel qualcuno era un illuso. Il processo “Trattativa” ha un gemello fotocopia a Reggio Calabria e si chiama “’Ndrangheta stragista”. Il teorema serve a prolungare fino al 1994 la stagione delle stragi attraverso una sorta di fusione tra Cosa Nostra e la ‘ndrangheta, che si sarebbero messe insieme con le figure di Giuseppe Graviano, boss del Brancaccio di Palermo e Rocco Santo Filippone, in rappresentanza della cosca Piromalli di Gioia Tauro.

I due sarebbero stati i mandanti di un attentato in cui persero la vita due carabinieri, Vincenzo Garofalo e Antonino Fava, il 18 gennaio del 1994. Nessun dubbio sugli esecutori materiali, malavitosi locali già giudicati e condannati da tempo. Ma nel 2017, su impulso della Direzione antimafia di Reggio Calabria diretta da Federico Cafiero De Raho, nasce il teorema che ribalta il movente del delitto e svela l’esistenza dei mandanti. Partono intercettazioni a raffica e spuntano i “pentiti”, alle cui fila si aggregheranno con lesta furbizia anche gli autori degli omicidi che cambieranno d’improvviso la propria versione dei fatti.

In pratica la ‘ndrangheta avrebbe fatto un favore a Cosa Nostra dei corleonesi e al papello di Riina, consentendo così di allungare fino all’inizio del 1994 e alla nascita ufficiale di Forza Italia la stagione delle stragi. Che si sarebbero fermate una volta raggiunto l’obiettivo, cioè un ricambio di classe politica come gradito alla mafia. Gli omicidi dei carabinieri non sarebbero stati quindi obiettivi di malavita locale, ma un passaggio di una strategia più ampia che mirava al cuore dello Stato attraverso un suo simbolo. Il ricatto della “trattativa”. “Non soltanto una vicenda processuale, ma molto di più” ha detto il pm Lombardo nella requisitoria. Perché si tratterebbe di “fatti per i quali il tempo non passa e che rappresentano un eterno presente in cui riscontriamo accadimenti che non possiamo non considerare attuali”.

Pare credere davvero, il procuratore Lombardo, a una serie di fantasticherie di qualche “pentito”, costretto come è a ragionamenti che avrebbero fatto invidia ai Sofisti greci. L’esempio più lampante è quello del collaboratore Girolamo Bruzzese, quello che avrebbe assistito quando era bambino a un summit sulla Piana di Gioia Tauro tra il boss di ‘ndrangheta Piromalli, Bettino Craxi e Silvio Berlusconi. Il piccino avrebbe riconosciuto subito il segretario del Psi e l’imprenditore brianzolo perché li aveva visti in tv. Poi, diventato più grandicello, avrebbe raccolto le confidenze del padre che aveva ospitato l’incontro nell’agrumeto, che gli aveva spiegato che Craxi aveva raccomandato Berlusconi a Piromalli per una sua entrata in politica. Perfetto. Sapete che anno era? Il 1978, subito dopo il rapimento Moro.

Senza il timore del ridicolo il procuratore Lombardo ha depositato al processo d’appello il verbale del “pentito” Bruzzese anche nella parte in cui si fa storico ed esibisce le proprie opinioni sui rapporti tra la mafia e la politica. E spiega che i corleonesi “non accettavano più la politica di Craxi e Andreotti di contrapposizione agli Stati Uniti; questa politica era avversata anche dagli americani, ma soprattutto non andava bene a Licio Gelli, molto amico di Peppe Piromalli” . Ma questo processo è stato confezionato così. E sarà interessante verificare, visto che già la cassazione aveva annullato l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Graviano, se la Corte d’assise d’appello si allineerà a quella del primo grado che aveva condannato i due presunti mandanti parlando di “comune progetto criminale” di ‘ndranghetisti e corleonesi. O se invece darà la spallata al teorema “trattativa” come accaduto a Palermo. La sentenza è attesa per il 10 marzo.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Cari magistrati, lasciate stare la storiografia. Manca solo Soros, e poi la requisitoria della procura di Reggio Calabria, nel processo d'appello contro il boss Giuseppe Graviano, potrebbe essere ospitata su qualche sito complottista no vax o su quelli un tempo dedicati alle scie chimiche. Marco Gervasoni il 25 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Manca solo Soros, e poi la requisitoria della procura di Reggio Calabria, nel processo d'appello contro il boss Giuseppe Graviano, potrebbe essere ospitata su qualche sito complottista no vax o su quelli un tempo dedicati alle scie chimiche. Secondo il resoconto che ne fornisce Alessia Candito su Repubblica di ieri, la procura avrebbe riscritto la storia italiana dagli anni '70 in poi. Forza Italia sarebbe stata fondata dalla 'ndrangheta, che comunque già tirava le file dei politici della prima Repubblica, Bettino Craxi in primis: senza dimenticare l'immancabile Licio Gelli, i servizi deviati... e meno male che i Savi di Sion avevano judo. Ci sarebbe da chiudere qui, con il sorriso, ricordando come la storia del Craxi mafioso, che sceglie come sue erede Berlusconi, con contorno dell'immancabile stalliere di Arcore, fosse un cavallo di battaglia del giro Santoro-Travaglio che, prima di diventare fan di Putin, ci fecero parecchi soldi nel propinarlo a menti semplici: molte delle quali finirono parlamentari e addirittura ministri con i 5 stelle. Quindi, Forza Italia fondata dalla mafia e dalla 'ndrangheta assieme? E la camorra, era distratta? Ovviamente queste elucubrazioni si sono sempre scontrate con l'assenza di qualsiasi prova, come pare non ve ne siano neanche ora: tutto infatti nasce dalle dichiarazioni di pentiti ma, per fortuna, almeno oggi, non bastano le loro parole per far condannare qualcuno. Però qui vorremmo lanciare un altro monito. Noi, che di mestiere facciamo gli storici e la storia la insegniamo, ve lo chiediamo con reverenza, cari magistrati: non portateci via il lavoro. Non occupatevi di ricostruire la storia, perseguite i reati di individui e di organizzazioni ma non ricavate, dalle vostre indagini, giudizi storici. Anche perché, se dovessimo osservare, da un punto di vista metodologico, la vostra interpretazione storiografica, essa lascerebbe molto a desiderare. Prima di tutto, si fonda su una fonte sola: i pentiti. Che è come se si volesse ricostruire la storia del Terzo Reich solo con le testimonianze dei nazisti. Poi, non esercitate mai la disciplina del contesto, seguite i vostri fili, di intrighi, congiure e complotti, e non vedete il mondo che sta fuori. Nel caso specifico, prendere per buona la versione di un pentito, che accredita Craxi e Berlusconi a complottare con mafiosi durante il rapimento Moro, è risibile. Allora Craxi era a capo di un Psi piccolo e con poco potere, Berlusconi faceva ancora l'immobiliarista, e non è credibile che la Ndrangheta volesse la liberazione di Moro. E questo è solo un esempio. Bastava leggere un manuale di storia dei partiti, per considerarla una panzana colossale. Mettete in galera i colpevoli, se possibile, e liberate gli innocenti: al massimo, alla storia dedicatevi quando sarete in pensione.

Baiardo tira in ballo Berlusconi (Paolo), il ‘portavoce’ dei Graviano: “A colloquio con lui per mezz’ora”. Redazione su Il Riformista il 6 Febbraio 2023

Il presunto ‘profeta’ Salvatore Baiardo, il controverso personaggio già condannato per favoreggiamento della mafia, in particolare dei fratelli Graviano, e sedicente depositario di segreti sul boss Matteo Messina Denaro, la ‘Primula rossa’ di Cosa Nostra di cui annunciò settimane prima la cattura dagli studi tv di “Non è l’Arena” su La7, torna a parlare sul piccolo schermo e tira in ballo la famiglia Berlusconi.

Sempre nel corso della trasmissione condotta da Massimo Giletti Baiardo ha infatti raccontato di un incontro con Paolo Berlusconi, fratello del leader di Forza Italia Silvio, avvenuto a Milano nel 2011. “Siamo stati in ufficio da soli e siamo stati a colloquio con Paolo Berlusconi una buona mezz’ora”, ha raccontato l’ex tuttofare dei Graviano.

Baiardo ha raccontato che quella mattina “Paolo Berlusconi era nella sua sede de Il Giornale. Era andato a pranzare ed io ho detto non disturbatelo. Ho consegnato i documenti e mi hanno detto: ‘il signor Paolo Berlusconi appena finisce la farà chiamare’“. Baiardo ha sostenuto di essere andato da Paolo Berlusconi per chiedere un lavoro.

Parole di Baiardo che erano state anticipate domenica mattina da un articolo a firma Lirio Abbate su Repubblica. Una ricostruzione dei fatti che l’ex gelataio ha riferito anche ai pm della Direzione distrettuale antimafia di Firenze che tutt’oggi indagano sui presunti mandanti esterni delle stragi del 1993, inchiesta che vede tra gli indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.

Nel 2020, scrive ancora il quotidiano, i magistrati fiorentini avevano tentato di sentire Paolo Berlusconi nell’ambito degli accertamenti svolti su quel presunto incontro, ma il fratello dell’ex premier si era avvalso della facoltà di non rispondere in quanto familiare di un indagato.

A verbale invece ci sono le dichiarazioni di due agenti di polizia che erano nel dispositivo di tutela di Paolo Berlusconi a Milano nel 2011. In particolare, riferisce Repubblica, i procuratori aggiunti Luca Tescaroli e Luca Turco, sentono il 24 luglio 2020 l’agente Domenico Giancame, il quale avrebbe ricordato che nel 2011 il fratello dell’allora premier avrebbe incontrato Baiardo.

Il poliziotto lo avrebbe riconosciuto attraverso una foto come l’uomo che aveva parlato con Paolo Berlusconi il quale, alla fine della conversazione, che sarebbe avvenuta in via Negri, avrebbe detto all’agente, riferisce il quotidiano: “Tu sei testimone: questa persona — indicando Baiardo — è venuta a dire cose che riguardano mio fratello per screditarlo“.

L’altro poliziotto, Salvatore Tassone, sentito il 29 luglio 2021, avrebbe ricordato di aver visto Baiardo, in via Santa Maria Segreta e in via Negri a Milano, e che avrebbe chiesto di parlare con Paolo Berlusconi, riferisce ancora Repubblica, “per questioni inerenti il fratello Silvio“.

Baiardo: "Sono rimasto a colloquio con Paolo Berlusconi mezz'ora". La Repubblica il 05 Febbraio 2023.

Lo ha dichiarato durante la trasmissione 'Non è l'Arena' su La7

"Siamo stati in ufficio da soli e siamo stati a colloquio con Paolo Berlusconi una buona mezz'ora". Ad affermarlo è stato Salvatore Baiardo, condannato per favoreggiamento dei capimafia Graviano, durante la trasmissione 'Non è l'Arena' su La7, che nella stessa trasmissione aveva annunciato settimane prima la cattura del padrino Matteo Messina Denaro.

Baiardo ha raccontato che quella mattina "Paolo Berluconi era nella sua sede de Il Giornale. Era andato a pranzare ed io ho detto non disturbatelo. Ho consegnato i documenti e mi hanno detto: 'il signor Paolo Berlusconi appena finisce la farà chiamare'".

Baiardo ha sostenuto di essere andato da Paolo Berlusconi per chiedere un lavoro. I partecipanti alla trasmissione, i giornalisti e l'ex Pm Antonio Ingroia, lo hanno incalzato sottolineando, più volte, la versione opposta di Paolo Berlusconi (il quale ha riferito di essersi sentito minacciato da quel colloquio) ed esortandolo a rilevare la verità su questa ed altre cose di cui parla.

Estratto da repubblica.it il 05 Febbraio 2023.

"Siamo stati in ufficio da soli e siamo stati a colloquio con Paolo Berlusconi una buona mezz'ora". Ad affermarlo è stato Salvatore Baiardo, condannato per favoreggiamento dei capimafia Graviano, durante la trasmissione 'Non è l'Arena' su La7, che nella stessa trasmissione aveva annunciato settimane prima la cattura del padrino Matteo Messina Denaro.

Baiardo ha raccontato che quella mattina "Paolo Berluconi era nella sua sede de Il Giornale. Era andato a pranzare ed io ho detto non disturbatelo. Ho consegnato i documenti e mi hanno detto: 'il signor Paolo Berlusconi appena finisce la farà chiamare'". Baiardo ha sostenuto di essere andato da Paolo Berlusconi per chiedere un lavoro. […]

Estratto da ilmattino.it il 05 Febbraio 2023.

Salvatore Baiardo avrebbe avuto un incontro a Milano con Paolo Berlusconi nel 2011. A chiederlo, e a riferirlo anni dopo ai magistrati, sarebbe stato lo stesso gelataio originario di Palermo, ex favoreggiatore dei fratelli Graviano, al centro dell'attenzione negli ultimi tempi anche per aver annunciato, settimane prima, la cattura di Matteo Messina Denaro a Non è l'Arena […].

Era alla ricerca di un lavoro, avrebbe detto ai pm della Dda di Firenze titolari dell'inchiesta sulle stragi mafiose di Firenze, Roma e Milano del 1993, secondo quanto riferisce il quotidiano La Repubblica, spiegando che i magistrati fiorentini due anni fa hanno disposto accertamenti per quell'incontro riferito da Baiardo.

Baiardo-Berlusconi, le verifiche

In particolare la procura del capoluogo toscano avrebbe cercato di sentire Paolo Berlusconi, il quale si sarebbe avvalso della facoltà di non rispondere in quanto familiare di un indagato, ovvero il fratello ex premier: la procura fiorentina, nel 2017, ha riaperto le indagini su Silvio Berlusconi, e su Marcello Dell'Utri, nell'ambito dell'inchiesta sulle autobombe mafiose in continente (già archiviate due volte per entrambi, nel 1998 e nel 2013) in seguito a intercettazioni nel carcere di Ascoli Piceno a Giuseppe Graviano trasmesse dalla procura di Parlermo.

Sono stati invece sentiti a verbale due poliziotti all'epoca in servizio alla questura di Milano, che facevano parte nel dispositivo di tutela di Paolo Berlusconi. Uno, Domenico Giacame, sarebbe stato ascoltato dai procuratori aggiunti di Firenze Luca Tescaroli e Luca Turco il 24 luglio 2020. [...]

Estratto dell'articolo di Lirio Abbate per la Repubblica il 5 febbraio 2023.

Undici anni fa, mentre Silvio Berlusconi guidava il suo quarto governo e il boss Giuseppe Graviano si affacciava nelle aule dei processi per le stragi, e lanciava messaggi ad alcuni politici con i quali avrebbe avuto contatti facendo mezze dichiarazioni davanti ai giudici, c’era un suo favoreggiatore, il gelataio Salvatore Baiardo, che provava a bussare alla porta del premier in carica. Il presidente del Consiglio non avrebbe risposto, ma a dare udienza a Baiardo è stato un altro Berlusconi, Paolo, il fratello minore dell’allora capo del governo.

 È una storia su cui indaga, da due anni, la procura antimafia di Firenze. Perché Baiardo voleva parlare con Silvio Berlusconi? Si può sospettare che l’uomo di fiducia dei Graviano volesse ricattare il premier?

Di questi fatti, Salvatore Baiardo non ha mai fatto cenno pubblicamente durante le sue lunghe interviste, in cui tuttavia non si è privato dell’opportunità di lanciare messaggi, forse per sollecitare il pagamento di vecchie cambiali riposte nel cassetto dei segreti dei mafiosi siciliani, in particolare dei fratelli Graviano.

 Ai pm di questo incontro Baiardo fornisce una spiegazione che contrasta con quello che gli inquirenti hanno trovato indagando su questa storia. Il gelataio afferma che era andato a chiedere un posto di lavoro, ma le cose — ricostruite attraverso testimoni — sarebbero andate diversamente. E non sono bastati i quattro interrogatori cui Baiardo è stato sottoposto dai pm di Firenze, l’ultimo alcuni mesi fa. Su questo punto però tace anche Paolo Berlusconi, il quale — chiamato dai magistrati di Firenze — si è avvalso della facoltà di non rispondere perché familiare di un indagato.

Baiardo, che ha sulle spalle condanne per il favoreggiamento dei boss stragisti e anche per falso e calunnia, vuole riannodare i fili che i mafiosi di Brancaccio avevano intrecciato tra gli anni Ottanta e Novanta fra Palermo e Milano. Affari e scambi di favori. L’uomo sembra essere a conoscenza di fatti importanti, vissuti in prima persona, ma non avvia alcuna seria collaborazione con la giustizia. Appare, invece, come un avvelenatore di pozzi. È una partita che si gioca fra chi sta in carcere al 41 bis e chi sta fuori dal carcere, e il mediatore è sempre lui, Baiardo. Ma per riannodare i fili di questa storia nuova e inedita, che mette davanti Berlusconi e la mafia, è bene andare con ordine.

 I procuratori aggiunti della Direzione distrettuale antimafia di Firenze, Luca Tescaroli e Luca Turco, sentono a verbale il 24 luglio 2020 un poliziotto, Domenico Giancame, che undici anni fa era in servizio alla Questura di Milano, nel reparto scorte. L’agente faceva parte del dispositivo di tutela assegnato a Paolo Berlusconi, e rispondendo alle domande dei magistrati, ricorda che nel 2011 il fratello del premier incontrò, a Milano, Salvatore Baiardo. Al poliziotto viene mostrata anche una foto del favoreggiatore di Graviano e senza alcun dubbio lo riconosce come l’uomo che aveva parlato con Paolo Berlusconi. Alla fine della conversazione, che avviene in via Negri, il fratello del premier chiama Giancame e gli dice: «Mimmo (Domenico Giancame, ndr ), tu sei testimone: questa persona — indicando Baiardo — è venuta a dire cose che riguardano mio fratello per screditarlo».

(...)

 Sarà una coincidenza, ma nel frattempo nelle aule di giustizia, in quei primi mesi del 2011, Graviano “gioca” a dire e non dire sulla politica. E ai pm che gli chiedono dei suoi contatti con Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi risponde: «Sulla politica mi avvalgo della facoltà di non rispondere». Dopo alcuni anni, però, la sua strategia cambia. Inizia a fare il nome del Cavaliere, e accusa i politici.

E nello stesso periodo vengono rilanciate in aula le rivelazioni del mafioso Gaspare Spatuzza, in particolare l’incontro del 1994 al bar Doney di Via Veneto, a Roma con Giuseppe Graviano il quale «aveva un atteggiamento gioioso, come chi ha vinto all’enalotto o ha avuto un figlio». Spatuzza ricorda: «Ci siamo seduti e disse che avevamo chiuso tutto e ottenuto quello che cercavamo e questo grazie alla serietà di quelle persone che avevano portato avanti questa storia, che non erano come quei quattro “crasti” socialisti che avevano preso i voti alla fine degli anni Ottanta e poi ci avevano fatto la guerra. Mi vengono fatti i nomi di due soggetti: di Berlusconi... Graviano mi disse che era quello di Canale 5, aggiungendo che di mezzo c’era un nostro compaesano, Dell’Utri. Grazie alla serietà di queste persone — riporta le parole di Graviano — ci avevano messo praticamente il Paese nelle mani».

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Le ricostruzioni da Giletti. Le menzogne di Baiardo che tanto piacciono a Travaglio e co. Tiziana Maiolo su Il Riformista l’ 8 Febbraio 2023

Avrebbero dovuto chiudere il 31 dicembre 2022 le indagini su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri come mandanti delle stragi del 1993. E sono passati solo trent’anni. Quindi non c’è fretta, per i pubblici ministeri di Firenze. In fondo questi magistrati arrivano solo quarti, dopo un’ inchiesta in cui gli stessi indagati venivano affettuosamente chiamati “alfa” e “beta”, poi una seconda con “Autore 1” e “Autore 2” e un’altra con soggetti di nome “M” e “MM”.

Tutte archiviate a partire dagli anni novanta e fino al 2020 a Palermo, Caltanissetta e Firenze. I pm Luca Turco e Luca Tescaroli, orbati del loro ex capo Giuseppe Creazzo, che ha preferito navigare in altri lidi dopo esser stato denunciato per molestie da una collega, si esercitano sul tema dal 2017 e, invece di chiudere il fascicolo a fine 2022, stanno ancora cincischiando con un signore di nome Salvatore Baiardo. Un personaggetto che non è un collaboratore di giustizia né un semplice testimone e che ha alle spalle una condanna non solo per favoreggiamento nei confronti di due condannati per strage come i fratelli Graviano, ma anche per calunnia e falso. Il che non è secondario, in questa storia, perché il precedente, insieme al suo dire e non dire e ammiccare, sfottendo magistrati e giornalisti di riferimento (che se lo meritano), pongono pesanti dubbi sulla sua attendibilità.

Lui intanto si diverte. È stato interrogato quattro volte dai pm di Firenze. Che cosa abbia detto pare lo sappiano, oltre ai magistrati, alcuni giornalisti di riferimento delle procure, come alcuni del Fatto, di Repubblica e di Domani. Ma ultimamente il personaggetto è diventato la preda preferita di Massimo Giletti, che lo ha eletto a ospite fisso dopo aver portato a casa lo scoop sulla “previsione” dell’arresto di Matteo Messina Denaro. E lo esibisce con orgoglio ogni domenica sera a Non è l’arena. Lo mette addirittura a confronto con l’ex pm del gruppo “Trattativa” Antonio Ingroia, che cerca di interrogarlo in diretta come se avesse di fronte il portatore di tutti i (presunti, molto presunti) segreti sule stragi di mafia che hanno insanguinato l’Italia negli anni novanta. Solo che in tv il personaggetto non vuole vuotare il sacco e raccontare quel che ha riferito ai pm di Firenze in quattro interrogatori.

Così il direttore del Fatto.it Peter Gomez si arrabbia di brutto e l’altro gli rinfaccia di averlo ospitato a pranzo a casa propria fin dal 2012. Sembrano tutti amici, vecchi compagni di scuola che si danno del tu, usano gli stessi codici quasi sfogliando vecchi album di famiglia e a volte anche litigano, come domenica scorsa. Fa impressione riflettere sul fatto che tutto questo circo Barnum fa da contorno al piatto forte che sono indagini non per marachelle, ma per il reato di strage, aggravato da finalità mafiose, su cui la procura di Firenze deve decidere – avrebbe già dovuto decidere – se chiedere il rinvio a giudizio o la quarta archiviazione nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. L’ultima strofa della canzonetta riguarda un tentativo di undici anni fa del personaggetto di contattare colui che allora era il presidente del consiglio. I giornalisti informati dicono che dal vecchio telefonino di Baiardo risulta una telefonata al centralino di Palazzo Chigi. Senza risultato. Mentre pare che miglior fortuna abbia avuto il tentativo di incontro con Paolo Berlusconi, editore del Giornale, che avrebbe ricevuto il questuante proprio nella redazione di via Negri, a Milano. Volevo chiedere un lavoro, dice l’ospite di Giletti in trasmissione, ma non gli crede nessuno.

Vogliono che dica di essere andato a ricattare il premier tramite un messaggio mafioso al fratello. Lasciano intendere che qualcosa di simile il testimone avrebbe fatto mettere a verbale negli interrogatori. Ma ricattare su che cosa? Sulla strage? Se il personaggetto non ha detto nulla di concreto e soprattutto di nuovo rispetto alle tre inchieste già archiviate, il destino della quarta è già segnato. Che importanza ha questo incontro, che Paolo Berlusconi ha escluso sia mai avvenuto, o di cui comunque non ha ricordo? Pare dispongano di memoria ferrea, probabilmente per mestiere, due ex agenti della sua scorta di allora i quali, pur undici anni dopo, hanno testimoniato di ricordare benissimo l’incontro. Leggiamo direttamente dalle veline dei quotidiani di riferimento della procura. Cui in realtà aveva già risposto due anni fa l’avvocato Nicolò Ghedini, dicendo che Paolo Berlusconi escludeva categoricamente di aver mai conosciuto quel signore.

E aveva anche fatto notare qualche particolare incongruente, come per esempio che il 14 febbraio del 2010, la data in cui ci sarebbe stato l’ incontro al Giornale, era domenica, giorno in cui lui non era mai presente in redazione. Incongruenza? Ma basta cambiare la data, un piccolo aggiustamento, ed ecco che il 2010 diventa magicamente 2011. Il personaggetto si era sbagliato. Chissà come mai però i due ex poliziotti della scorta questo particolare non l’hanno notato. Forse perché quell’incontro non era così importante, se non per qualche giornalista “d’inchiesta” e un titolo scandalistico sui “ricatti”.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Estratto dell'articolo di Filippo Facci per “Libero quotidiano” l’8 febbraio 2023.

Non meriterebbe neanche un lungo articolo, Salvatore Baiardo, favoreggiatore dei boss stragisti Filippo e Giuseppe Graviano, condannato per falso e calunnia, uno che da una vita chiede soldi in cambio di rivelazioni sempre smentite, uno che da settimane è ospitato come un oracolo da Massimo Giletti su La7 – che spiace dirlo, impiegherà anni a nettarsi le scarpe dall’escremento che ha pestato – e insomma lui, Baiardo, incarcerato dal 1995 al 1999 e giudicato inattendibile da molteplici fonti giudiziarie e giornalistiche: tanto che gli unici che gli hanno dato retta, nonostante l’inaffidabilità gli fosse incisa sulla fronte oltrechè sulle carte, sono stati Report su Raitre all’inizio del 2021 e appunto Giletti da qualche settimana, contribuendo così a riavvelenare e raffrescare pozzi da tempo prosciugati.

A scanso di equivoci: Baiardo ha detto talmente tante sciocchezze che non è riuscito neppure a ottenere lo status di collaboratore di giustizia, e il fango che in questi giorni sta rigettando sui fratelli Berlusconi (tra altri) si è seccato più volte per via giudiziaria, come detto: ma gli insuccessi delle procure ormai vengano riproposti per via mediatica e questa cosa viene chiamata giornalismo. 

 Il primo a smentire e a dichiarare inattendibile Baiardo fu il procuratore Giuseppe Nicolosi (oggi a Prato) che negli anni Novanta fece parte del pool di magistrati fiorentini che indagò sulle stragi mafiose: il 18 gennaio scorso, a Skytg24, ha precisato oltretutto che sulle stragi «abbiamo fatto cinque inchieste, senza ottenere risultati che potessero essere spesi in un processo».

Baiardo, con un memoriale di quattro pagine, cercò di smentire ciò che risulta in giudicato dalle sentenze, ossia che Giuseppe Graviano premette il bottone del telecomando che ammazzò Paolo Borsellino e la scorta in via D’Amelio. Questo tentativo di depistaggio ha cercato di ricordarlo anche il collega Enrico Deaglio, in collegamento con Giletti su La7, ma è stato letteralmente zittito da un intervallo pubblicitario.

Anche l’ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli in più occasioni ha notato come Baiardo abbia cercato di minimizzare i delitti dei fratelli Graviano.

[…]

Sulla sua inaffidabilità si è espresso anche il colonnello dei Carabinieri Andrea Brancadoro: il 6 marzo 2020, durante il processo «Ndrangheta stragista» [...]

 Durante il processo «Ndrangheta stragista» anche il dirigente di Polizia Francesco Messina parlò dei tentativi di Baiardo di tirare in ballo Berlusconi, ma le sue dichiarazioni non finirono in nessun’inchiesta perché Baiardo non le confermò

[…]

Ma passiamo ai giornalisti. Il primo che amplificò le parole di Baiardo fu Vincenzo Amato, giornalista locale della Stampa che tempo dopo lo liquiderà così: «La mia personale impressione è che lui venda un po’ di fumo per cercare di ritagliarsi un qualche spazio […]».

 Nel 2012 ci caddero anche Peter Gomez e Marco Lillo del Fatto Quotidiano […] Gomez ha capito l’inaffidabilità del personaggio, tanto che domenica sera, sempre sa Giletti, ha inveito e alzato i toni contro Baiardo dandogli dell’avvelenatore di pozzi con un innegabile «atteggiamento mafioso». 

 Il 4 gennaio 2021 ci cadde anche Report di Raitre (volontariamente, a questo punto) che già intervistò Baiardo anche a proposito della fattualmente inesistente agenda rossa del giudice Borsellino, mai ritrovata. Sempre a «Report», Baiardo anticipò cose poi «rivelate» anni dopo a Giletti sui rapporti fra Silvio Berlusconi e la mafia, riparlando della vacanza dei Graviano in Sardegna vicino alla villa di Berlusconi.

Insomma niente di nuovo e tutto di vecchio: più una patente di inaffidabilità che passa da Baiardo direttamente ai giornalisti che fingono di riscoprirlo. «Perché Berlusconi non lo querela, se è inattendibile?» si è chiesta una squalificata collega durante la trasmissione di Giletti, domenica sera; «così capiamo qualcosa di più», ha fatto eco un altro. Così si ricomincerebbe: cause, carte, processi, verbali da pubblicare e ripubblicare per anni.

Estratto dell’articolo di Alessandro Fulloni per il “Corriere della sera” il 9 febbraio 2023.

[…] «Quando i siciliani ti augurano “Cent’anni”... significa ”lunga vita”... E un siciliano non dimentica mai».

queste sono anche le parole con cui Enrico Deaglio — 75 anni, giornalista, un passato di direttore dei quotidiani Lotta Continua e Reporter , del settimanale Diario e oggi scrittore che non riesce a stare lontano dalla cronaca — chiude il suo «Qualcuno visse più a lungo» (da qualche mese in libreria con Feltrinelli ), poderosa ricostruzione (si legge come un romanzo, ma è un’inchiesta zeppa di dettagli) della vita dei boss Giuseppe Graviano, detto «Madre Natura» e di suo fratello Filippo.

L’affresco tratteggia gran parte della Sicilia degli anni Ottanta, quelli della grande mattanza: Pio La Torre, Piersanti Mattarella, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giuliano, Cassarà, Basile, Chinnici, Costa, Terranova.

Quando si arriva a Falcone e Borsellino, Deaglio (che in Sicilia seguiva «storie di piccola mafia nell’Agrigentino, poi ammazzarono il mio amico Mauro Rostagno a Trapani...») ricorda che fu proprio «Madre Natura» a schiacciare il telecomando di via D’Amelio.

[…] I Graviano furono arrestati a Milano il 29 gennaio 1994 —«lo stesso giorno della discesa in campo di Berlusconi» — e il libro racconta pure di come i due fratelli in carcere a Spoleto vengano trattati con ogni riguardo. E pur sottoposti ai rigori del 41 bis, «concepiranno anche i figli».

C’è un capitolo intero, «Il mito», che squaderna le varie ipotesi del «miracoloso» evento: banche del seme, l’aiuto di qualche ginecologo o semplice atto d’amore in carcere — a detta poi dello stesso Giuseppe, laureato in Matematica —, con le due mogli entrate di nascosto nella cesta della biancheria. Le nascite degli eredi del boss arrivano nel disinteresse generale ma è Deaglio a ricostruire, grazie alle carte giudiziarie, il ricevimento a Nizza per il battesimo dei due bimbi, entrambi chiamati con il nome di «Michele». Un evento che pare «una replica della celebre festa da ballo del Gattopardo » al termine della quale una delle due neomamme — la moglie di Giuseppe si chiama Nunzia, oggi vive tra Roma e la Costa Azzurra gestendo il patrimonio della famiglia — «si alzò e disse: “Peccato che qui manchino i migliori”». Appunto in prigione […]

Cene con i boss, cinque cellulari e finte fidanzate: «Noi, infiltrati tra i criminali». Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 7 Gennaio 2023.

Vita (e rischi) degli agenti sotto copertura: i ruoli imparati a memoria, le mosse per avere la fiducia dei malviventi. «Ti mettono alla prova, vietato fallire»

«Ero a pranzo con questi sudamericani trafficanti di droga. Commentavano la notizia di un poliziotto colombiano infiltrato che era stato scoperto e “lasciato nella selva”, come dicono loro. L’avevano sezionato in qualche boscaglia e piantato lì, appunto. Era vero? Era un avvertimento per i presenti? A me il video non l’hanno fatto vedere... Lì non puoi sbagliare. Per dire: non è che puoi diventare rosso! Niente domande, niente reazioni che potrebbero insospettirli. Devi avere sangue freddo, devi perfino far finta di non capire cosa stanno dicendo. Sai che ti stanno studiando, ti stanno mettendo alla prova. E tu la prova la devi superare, per forza».

La vita degli agenti sotto copertura è così. Sono sempre sotto esame. Sempre costretti a muoversi come se camminassero sull’orlo del burrone. Sempre con un copione da recitare alla perfezione. Vietato sbagliare o dimenticare anche la più piccola battuta. Sono esseri simili ai replicanti di Blade Runner, gli undercover. Contano su una identità che qualcuno ha costruito per loro e che imparano a memoria, e quando sono in missione dimenticano chi sono davvero. Conta soltanto chi devono essere.

Niky, per esempio: chiameremo così l’uomo di quel pranzo con i narcotrafficanti che parlavano del poliziotto fatto a pezzi. Lui è un agente della guardia di finanza di una città del sud e da più di dieci anni studia, conosce, agisce come undercover contro il traffico nazionale e internazionale di droga. È il reato sul quale gli infiltrati di tutte le forze di polizia lavorano di più. Ma c’è anche il traffico di armi, il terrorismo internazionale, la tratta di esseri umani, la pedopornografia... Devi avere una grande dedizione per lo Stato e per il tuo lavoro, se metti a disposizione la tua vita per diventare un infiltrato fra gente che, se ti scopre, nella migliore delle ipotesi ti uccide senza farti soffrire troppo. Devi essere preparato, equilibrato, capace di non andare nel panico in situazioni di rischio estremo e paziente davanti a risultati che arrivano dopo mesi, più spesso anni.

«La parte più complicata e difficile è quella iniziale», ci dice Niky, «cioè agganciarli, conquistarsi la loro fiducia, superare la loro diffidenza. Io lavoro sul fronte dei sudamericani che vogliono aprire una porta d’ingresso della cocaina in Italia per poi smistarla in Europa. Quasi sempre cercano soggetti “puliti” che possano aiutarli. Persone che lavorano nei porti, negli aeroporti, per esempio. E allora è lì che tu ti inserisci nel lavoro di indagine classica fatta fino a quel momento e prepari il terreno, li agganci, ma ripeto: la loro diffidenza è pazzesca, maniacale».

Preparare il terreno e agganciarli, come dice il nostro amico, non è cosa di poco conto. Perché vuol dire preparare e inscenare ruoli, connessioni, attività di lavoro, modi di comportarsi, e tutto questo richiede una preparazione lunghissima e meticolosa. Significa prima di tutto avere una identità di copertura: non hai più il tuo nome ma ti chiami come l’uomo inventato. Sei lui e devi recitare lui: hai in tasca un documento vero che viene creato assieme a una storia che deve essere assolutamente verosimile. Hai un profilo facebook che risulterà aperto anni prima, hai magari una società tal dei tali che alla Camera di commercio risulta avviata tanto tempo fa, hai una email che ovviamente non può sembrare aperta ieri, hai una storia personale che potrebbe richiede la presenza di una fidanzata/amante (si chiede alle colleghe, in questo caso). E a volte ti tocca recitare anche gli stereotipi del caso: la bella ragazza che ti aspetta sulla macchina lussuosa mentre tu tratti un «affare» di droga, per dirne una. Devi sapere tutto dell’argomento che riguarda il tuo ruolo. Se sei un imprenditore del settore del legno devi avere una cultura sul legno, se ti spacci per istruttore di qualcosa devi esserlo davvero o quantomeno devi studiare moltissimo per sembrarlo veramente.

Naturalmente hai una casa che può diventare rifugio per quelli che stai cercando di incastrare. E, manco a dirlo: mentre sei sotto copertura metti in secondo piano — e a volte dimentichi per lunghi periodi — la famiglia, gli amici, la vita privata e gli interessi di sempre. Contatti limitatissimi o nulli con chiunque, colleghi compresi. A parte il cosiddetto handler, che è la tua ombra anche se non sta lavorando accanto a te da infiltrato, è il tuo anello di connessione con il mondo (quello reale) e il team investigativo che ti segue sempre, ti copre, ti monitora a distanza e, se è il caso, interviene.

«Un undercover non è mai solo», è il mantra di Sergio, nome in codice di un servitore dello Stato che lavora da tantissimi anni per il Ros dei carabinieri come coordinatore degli agenti sotto copertura. «Un undercover può contare sempre sull’handler, e poi sulla squadra che non deve mai perderlo d’occhio e, dove è possibile, lo tiene sotto controllo con le intercettazioni ambientali o con gli strumenti addosso all’agente. Ricordo una volta un trafficante colombiano che si è piazzato a casa del nostro agente per 15 giorni. Lì che fai? Non puoi certo chiamare tua moglie e dirle che non torni a casa. I contatti con la famiglia in quel caso li ha tenuti l’handler che incontrava l’undercover quand’era possibile mentre il nostro infiltrato raccontava al suo ospite di una relazione finita con una ex convivente e si presentava a cena con l’amante, cioè una marescialla».

E a proposito di chiamate: niente telefonini o numeri reali. Solo cellulari di servizio con la rubrica costruita a tavolino come tutto il resto. Sergio racconta di quella volta che i suoi uomini si finsero imprenditori di una società di import/export: hanno studiato ogni cavillo delle regole commerciali per essere esperti credibili e si sono presentati al mondo con le marescialle a fingersi segretarie dell’ufficio.

Situazioni di rischio non previsto? «Una volta decidemmo di far sequestrare in Spagna 200 chili di coca destinati in Italia. Volevamo allontanare i sospetti sugli italiani e avevamo in quel momento un nostro infiltrato con due dei cattivi, a Milano. Erano due argentini, un uomo e una donna. All’improvviso i finanziatori dell’importazione finita male, un napoletano e un foggiano, convocarono gli argentini e il garante del trasferimento della droga in Italia, cioè il nostro agente. L’hanno praticamente sequestrato. Per fortuna avevamo ambientali in casa e abbiamo capito quello che stava succedendo. Li abbiamo agganciati e seguiti da Milano a Roma con l’ansia di perderli... Sono andati in un ristorante a incontrare gli italiani. Li vedevamo gesticolare, stava succedendo qualcosa ma non sapevamo cosa: troppo rischioso, siamo intervenuti e li abbiamo arrestati durante il pranzo».

Insomma: una faticaccia. Stressante e pericolosa. Ma che quasi sempre porta a buoni risultati. Migliaia di chili di droga tolta dalle mani della criminalità organizzata, fiumi i denaro sottratti a operazioni di riciclaggio, carichi di armi bloccate e reti di terroristi e di pedofili scoperte grazie a chi si insinua nelle loro comunicazioni telematiche.

Luca, agente sotto copertura per lo Sco della Polizia di Stato, ha più di 30 anni di servizio e parla spesso con giovani che vogliono seguire la sua stessa strada: «Gli dico sempre che noi siamo attori. Ci dicono “ciak, si gira” e dev’esser buona la prima per forza. Non puoi rifare la scena».

Lui è il primo undercover riuscito a documentare (con telecamere e microspie) la complicità fra alcune Ong e i trafficanti libici di esseri umani (è ancora in corso il processo per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina). Si è fatto assumere da una di quelle Ong come addetto alla sicurezza e al soccorso migranti ed è rimasto per più di due mesi sulla nave. Ha il brevetto da istruttore soccorritore ma anche lì: hanno voluto metterlo alla prova. «Mi hanno fatto lanciare in mare per simulare un soccorso a 30 miglia dalla costa libica, acqua nera profonda. Ho visto come tirava la corrente, ho fatto i calcoli... Mi sono lanciato, li ho visti allontanarsi e pensavo: avranno capito? Mi lasciano qui? La corrente mi ha portato via ma sono venuti a riprendermi dopo mezz’ora. Prova superata!».

Se sei nei panni di criminali devi entrare nella loro mente, devi ragionare come loro, anche se il tuo cuore è da poliziotto. Devi esser freddo e, se serve, devi saper improvvisare. Luca racconta di quella volta che non l’hanno scoperto per un soffio. Improvvisazione, appunto. Un colpo da maestro. «Avevo uno zaino pieno di attrezzatura investigativa» racconta, «che non doveva vedere nessuno e che stavo spostando. Ricoprivo il ruolo di un ufficiale della marina ed ero, anche in quel caso, su una nave. Nessuno di noi sapeva che a un certo punto la procedura prevedeva il controllo dei passeggeri. Davanti ai due che volevano farmi aprire lo zaino pensavo: e adesso che faccio? Ho realizzato in un secondo che dovevo distogliere l’attenzione dallo zaino. Così ho fatto lo sbruffone. Ho detto: sì, sì, apro, non c’è problema, ma forse è il caso che lasciamo perdere; sapete che devo andare dal comandante, vero? Facciamo che faccio finta di non aver sentito. Quei due si sono guardati come per dire: mo’ che facciamo con questo? Ho messo lo zaino in spalla, arrogante. E sono andato».

Maestria, appunto. Luca appoggia sul tavolo cinque telefonini: cinque! E scherza: «Chi sono io oggi? Ah, già… Mario», e ne prende uno. «È stressante, sì», torna serio. «È una cosa che ti consuma, è destabilizzante. Ma alla fine di ogni operazione è anche una soddisfazione bellissima. E non lo cambierei con nessun altro lavoro al mondo».

MORTE NEL MISTERO DI PIERSANTI MATTARELLA

24 maggio 1935 - 6 gennaio 1980

Gaia Vetrano il 25 Marzo 2023 su nxwss.com

Uccidere un’altra persona non è mai un gesto naturale o atteso. Neanche quando la vittima è una persona importante, come Piersanti Mattarella.

Quando si parla di mafia, è difficile definire quando questo fenomeno sia nato. Tantomeno cosa abbia scoperchiato il vaso di Pandora che ne teneva nascoste le storie più spaventose. Molte vittime di questo macabro sistema rimangono impunite. Di troppe non si riesce ancora a individuare nemmeno il mandante.

Sarà il caso, la curiosità, o a volte la circostanza, ma la maggioranza delle stragi di mafia vengono individuate dalla località geografica in cui si è verificata. Vedi la strage di Via d’Amelio, o di Capaci. Ma nella storia di cui vi parliamo, nulla ha la melodrammaticità da ricordare l’attentato, ma la prontezza di un’esecuzione in piena regola.

Vi raccontiamo di una Palermo che, come la descrive Johnny Stecchino, è molto trafficata. Non di macchine, ma di droga, che arriva a Cinisi, e viene spedita da Punta Raisi. Ma anche traffico di armi, a volte di sostanze pericolose. Di cocaina ed eroina. Giri di prostitute.

E se la lotta contro la criminalità organizzata è difficile ma necessaria, quella contro la mafia è ancor più complessa. Perché, se molti hanno combattuto contro di essa, qualcuno ha tentato di legalizzarla. Lo vogliono i mafiosi, perché gli Stati non sempre sono capaci (o, chissà, vogliono) di opporsi. 

Tra quelli che vivevano tra i sobborghi palermitani, molti ignoravano la dimensione politica del problema mafioso. Nessuno faceva campagna per seguire i fatti non in maniera episodica, per evitare che assumessero tono folkloristico. Quasi come se fossero un racconto tramandato di generazione, e non un problema concreto di quegli anni.

E ciò poteva solo far comodo, soprattutto a coloro che amavano nascondersi nella polvere residua dell’industrializzazione del paese che aveva, purtroppo, lasciato in condizioni arretrate il restante Sud. L’Italia diventa moderna anche con l’aiuto della mafia, che su questa trasformazione muove i suoi affari.

A chi chiede ai cittadini e alle persone comuni se conoscono i boss mafiosi, in risposta gli viene detto che di politica non si parla. Che non è un argomento di interesse comune, e che qualcuno addirittura non crede alla loro esistenza. La mafia non esiste e, nonostante venga presa di petto, è difficile affrontare una struttura tanto pervasiva da sparire tra le masse cittadine.

Che allo stesso tempo è in grado di lasciare così tante tracce alle sue spalle: ville saltate in aria a cui lo Stato risponde con azioni di Polizia. D’altra parte allora una strage, come rappresaglia. La risposta: un boss arrestato. Un continuo braccio di ferro dove, a pagarci le penne, sono le figure che in prima linea si occupavano di cercare di contrastare lo stra-potere che portava addirittura alla negazione del fenomeno.

Un antico proverbio indiano afferma che, colui che è come un rampicante sulla nuda roccia, tanto più il vento lo scalfisce, tanto più si rafforza. È forse questo che motiva coloro che lottano contro la minaccia mafiosa? La consapevolezza di diventare a ogni attacco più forti e preparati? O la speranza che qualcuno si possa unire a loro?

Quando rimangono chini sulle proprie scrivanie, con le fronti corrucciate piene di rughe, circondati da ritagli di giornale, sentenze, scartoffie. Con l’animo a pezzi ma comunque pieni di motivazione. Davanti a ciò da cui gli altri sono spaventati, sono gli unici a mostrare più forza.

Quando si sente parlare di Don Tano, in parecchi fanno finta di non sentire. Solo in pochi possono pronunciarne il nome: Gaetano Badalamenti. E come questo tanti altri uomini di prim’ordine della schiera mafiosa.

E mentre i loro atti di coraggio segnano la storia e muovono in avanti il motore della giustizia, nell’entroterra, uomini (che di umano hanno ben poco) come Don Tano, ascoltano nascosti le loro gesta alla radio. Siedono attorno a un tavolo di legno insieme, con sguardi torvi.

Molti di quelli che provano a mettersi contro di loro sono solamente “picciotti”. Giovani di poco conto, facilmente eliminabili. Quando il boss Gaetano Badalamenti si mette a discutere di come liberarsene, la risposta arriva facilmente. Come Pandora, la loro insolente curiosità merita di essere punita. In certi affari solo in pochi possono metterci il naso.

E non denotano la minaccia neanche quando si scontrano contro figure di spessore, ormai note e amate dal popolo. Stare dalla loro parte era difficile, e li muoveva il desiderio di uguaglianza sociale.

Così, quando tutti gli italiani, vedono o sentono di Capaci, ne hanno sicuramente già sentito parlare. È un banale tratto di autostrada, che però dietro di sé racconta di coraggio e voglia di cambiamento. In quegli anni Novanta, tra estate e inverno, tra Tangentopoli e gli attentati stragisti. Nascosti da chili di esplosivo e cocaina. 

In una Sicilia dove, chi lottava contro la mafia, sapeva di essere un morto che cammina. Non aveva idea di quando sarebbe successo, ma era consapevole di star facendo da sonnambulo e di non avere nulla che lo avrebbe protetto dalla caduta. Sul baratro vi stavano già camminando, mancava solo che qualcuno li spingesse.

Eppure, il concetto di coraggio si scinde magistralmente dalla necessità personale e collettiva. Per chi sente forte il richiamo e il desiderio di aiutare la propria comunità, poco importa se lo spettro della Morte li guarda da lontano. Se sono già consapevoli che prima o poi un sicario qualsiasi lo attenderà davanti casa sua, pronto a parargli un proiettile in testa.

D’altro canto, con cosa il concetto di coraggio viene maggiormente associato, se non con le molteplici definizioni di “sopravvivere”? Al significato di questo verbo si collega la capacità di andare avanti dopo l’aver subito un importante lutto, o di scampare eventi catastrofici. Ma anche l’idea di un qualcosa capace di perpetrarsi nel tempo.

E cosa c’è di più coraggioso se non continuare a vivere mentre i propri amici e colleghi vengono uccisi, consapevole che prima o poi toccherà anche a te? Portare avanti una lotta per cui si è già condannati e abbandonati in partenza. Al contempo, nulla di ciò rimanda all’immagine con la quale si intende il verbo “sopravvivere”, ciò quella di mantenersi in vita con difficoltà, a stento. Perché se mossi da un ideale, anche le imprese più complesse risultano essere più facili.

Così, quelle domeniche mattine passate a pranzo con la famiglia, in chiesa, o banalmente sdraiati nel proprio giardino con un libro in mano, assumono quasi una sacralità maggiore. Eventi fuori dall’ordinario caos che li rendono ancora più importanti.

A Palermo, durante il mese di gennaio, fa discretamente freddo. Spesso le giornate sono nuvolose, così il cielo è colorato di grigio. Il Sole trapassa attraverso le nuvole, ma la luce che arriva è quasi un bagliore sottile. Come se tutto fosse coperto da un alone di opacità. 

Quando Piersanti Mattarella esce di casa per andare a messa, indossa uno dei suoi completi più belli, perché rimane un’occasione importante. Tra le sue mani stringe quelle di Irma Chiazzese, sua moglie. Una donna dai capelli mori, gli occhi scuri e un bel sorriso.

Il giovane Mattarella insiste che vuole guidare lui, così la coppia, insieme alla suocera Franca Chiazzese Ballerini e alla figlia Maria, si dirigono verso la loro Fiat 132, parcheggiata in via della Libertà. Irma è contrariata: sa quanto suo marito ci tenga a provare a condurre momenti di vita normale, ma ha anche molta paura. Durante i giorni festivi, infatti, Piersanti voleva che la scorta restasse a casa con la famiglia. Quella mattina il sesto senso di Irma aveva ragione. 

Piersanti inserisce le chiavi nel quadro, poi si volta per togliersi il cappotto. Mentre si sbottona la giacca, la Chiazzese si rende conto dell’arrivo di un uomo dalla camminata ballonzolante. Va di fretta verso di loro, ha un’espressione rilassata, come se stesse venendo incontro a un vecchio amico, ma gli occhi freddi come il ghiaccio dicono il contrario.

Tra le dita stringe il manico di una calibro 38. Il sangue nelle vene di Irma si congela in un istante, mentre tira un grido. Il sicario solleva il braccio e lo punta dritto verso il capo di Piersanti. 

Dopo il primo proiettile ne spara un secondo, poi tre, quattro, cinque, forse addirittura sei. Al rumore della pistola quello dei vetri che si frantumano e delle grida delle tre donne nella vettura. Per le strade rimbomba il caos, ma niente che non sia già noto ai palermitani.

Il killer dagli occhi di ghiaccio si allontana con tranquillità, come un passante qualsiasi, verso una Fiat 127 parcheggiata lì vicino. Nel frattempo, dentro un bar, il figlio Bernardo chiama il 113. Poi lo zio Sergio, che abita anche lui in via della Libertà.

In preda allo shock dirà:

Zio, corri giù, c’è stato un incidente a papà

Il corpo di Mattarella si accascia sulle gambe di Irma, e ne macchia di sangue i vestiti, oltre che i sedili dell’auto. Ci sono tracce di materia grigia e la donna non sa che fare se non piangere di fronte a quel volto martoriato che un tempo le ricordava quello dell’uomo che ama, ma ora sembra solo l’incarnazione dei suoi incubi più grandi.

Quando solleva nuovamente il volto, il sicario sta tornando in dietro. Stringe in mano un’altra pistola, che sta nuovamente puntando contro la loro macchina. In un gesto di speranza, Irma prova a proteggere la testa di suo marito con le mani. Forse, si può ancora salvare. Così viene colpita al palmo da alcuni proiettili, ma il dolore fisico non può essere superato da ciò che prova alla vista del cranio massacrato di Piersanti.

Quando arrivano i soccorsi, per Mattarella non c’è niente da fare. I secondi collimano tra loro mentre attorno a lei arrivano ambulanze, sirene di polizia, giornalisti e cittadini incuriositi. La sua gonna è sporca di sangue rinsecchito, il trucco le è colato dal viso e i capelli un tempo ordinati sono adesso arruffati. Il cuore però le batte ancora come se stesse per esplodere nel suo petto.

Attorno a lei lo spettro di uno stato che l’ha abbandonata. Piersanti Mattarella è morto.

Quando uomini come Don Tano ascoltano la radio, seduti ai loro tavoli, non gli importa nulla del come. Ma solo del nome dell’ennesima “seccatura” che si sono tolti dai piedi. Attorno a loro, è già mattina, e la vita va avanti. Palermo, brulicante di energia e di morte.

Piersanti Mattarella: la vita di colui che sfidò la mafia

Per molti, il 6 gennaio è per antonomasia l’Epifania. Una festa ancora diffusa, soprattutto tra i più piccini. Un giorno da vivere che nel 1980 diventa un incubo per una famiglia e dà il via a una lunga stagione di sangue. Ampia traccia nelle cronache nere italiane, che ancora oggi trova con difficoltà spazio nei libri scolastici.

Piersanti Mattarella era per tutti un uomo giusto e onesto. 

Cresciuto in ambiente democristiano, nasce a Castellammare dl Golfo. Il padre, Bernardo, è un politico di lungo corso, e come lui anche il figlio dedica alla politica la sua intera vita nelle schiere della Democrazia Cristiana, dopo alcuni anni di attività in Azione Cattolica.  

In confronto ai suoi compagni di partito, prende una svolta decisa contro il sottobosco mafioso, che stringeva come una piovra la comunità siciliana.

Nel novembre del 1964 si candida nella lista DC alle elezioni comunali di Palermo ottenendo più di undicimila preferenze. Diventa così consigliere comunale di Palermo nel pieno dello scandalo del Sacco di Palermo (periodo di boom edilizio verificato tra gli anni Cinquanta e Sessanta del XX secolo).

Alle elezioni regionali del 1967 viene eletto deputato all’Assemblea regionale siciliana nella sua VI legislatura, nel collegio di Palermo, con più di trentaquattromila voti.

Poi entra nella Commissione Legislativa regionale, nella Giunta per il Regolamento e nella Giunta per il Bilancio. Fu inoltre membro della Commissione speciale incaricata di riformare la burocrazia regionale, divenendo relatore della legge di riforma.

Sulle pagine del giornale Sicilia Domani, nel giugno 1970, Piersanti denuncia diverse criticità dell’Assemblea regionale. Il primo punto riguardava le pratiche clientelari dei consiglieri regionali, con una prassi che denominò “provincializzazione“. I deputati erano infatti spesso ritenuti incapaci di adempiere ai loro obblighi, perché tendevano a interessarsi solo delle problematiche del territorio che li aveva eletti.

Risultava così impossibile provare a perseguire una linea politica chiara e uniforme. Proprio per questo Mattarella allarga i collegi. Inoltre diminuisce a otto il numero degli assessori. Così come le commissioni legislative: da sette a cinque. Sempre per garantire la trasparenza dell’organo introduce anche dei limiti temporali.

In quegli stessi anni Piersanti Mattarella si fa largo nella DC provinciale e regionale, grazie al sostegno di Aldo Moro, e dichiara lotta contro la mafia. 

Verrà eletto tre volte di fila ottenendo pian piano una maggioranza sempre più grande.

Nel 1978, dopo otto anni di discussione con Aldo Moro, Piersanti decide di entrare nel Consiglio nazionale della DC e, poi, nella Direzione nazionale, facendogli raggiungere una caratura politica da leader della sinistra democristiana siciliana.

Ciò lo spronerà ancor di più a continuare il suo percorso nella politica. Sarà eletto dall’Ars presidente della Regione Siciliana il 9 febbraio 1978 con 77 voti su 100, il risultato più alto della storia dell’Assemblea. Con lui una coalizione di centro-sinistra con l’appoggio esterno di Moro e del Partito Comunista Italiano, guidato da Achille Occhetto. 

Crea riforme sul fronte degli appalti e dell’urbanistica, con lo scopo di diminuire la speculazione edilizia e gli interessi di mafiosi e palazzinari. Da tempo si era reso conto fosse necessario recidere i legami tra il suo partito e Cosa nostra. Proprio per quanto riguarda gli appalti, Mattarella riteneva fosse fondamentale distogliere l’interesse mafioso da quest’ambito.

Emblematiche le parole dette a Enzo Mignosi. Questo indgava riguardo alcune irregolrità circa gli appalti sulla manutenzione di alcune scuole. A Piersanti lui disse: «Presidente, se continuo, finisco in un pilone di cemento». Mattarella gli rispose: «Lei vada avanti, nel caso nel pilone ci finiamo tutti e due».

Moro e Mattarella sono legati non solo dalla stima reciproca, ma pure da una grande amicizia. Non stupisce quindi quanto la notizia dell’assassinio del primo, alla vigilia del governo Andreotti, abbia turbato Mattarella.

Una mano sollevò una punta della coperta e vidi il volto di Aldo Moro e, durante tutte le complicate e forzatamente lente operazioni degli artificieri, la commozione fu solo superata con la preghiera e con la consapevolezza che il colpo dato alle nostre istituzioni è talmente grave che è indispensabile iniziare subito con razionalità a operare per difenderle

Piersanti Mattarella, Giornale di Sicilia, 11 maggio 1978

Mattarella non si ferma: la sua è una politica incentrata sul fare. Si occupa di un piano d’emergenza per la mobilitazione delle risorse per incentivare l’occupazione, e lotta contro la disoccupazione, a favore del rifinanziamento degli asili nido e della legge sul settore agricolo e sui consultori familiari.

Ma la morte di Moro non sarà l’unica a stravolgere la vita di Mattarella. In contemporanea al ritrovamento del cadavere del primo, per le campagne di Cinisi, più precisamente in prossimità della linea ferroviaria, vengono ritrovati i resti di un’altra figura: Peppino Impastato.

Un giovane coraggioso. Un giornalista che, con le sue trasmissioni radiofoniche, criticava apertamente l’operato mafioso, che con la sua famiglia aveva legami molto importanti. Suo padre era infatti uno dei capibanda, Luigi Impastato. Peppino diventa uno dei simboli della lotta al malcostume e alla criminalità. 

Per Piersanti è l’occasione per recarsi a Cinisi, dove tiene un discorso infuocato contro Cosa nostra, dove condanna le logiche perverse che uccidono i giovani siciliani e distruggono la regione. Gli stessi amici di Impastato si stupirono delle parole di Mattarella, non aspettandosi un’arringadi condanna da parte sua.

Inizia così il suo impegno contro la mafia. Quando il deputato Pio La Torre, responsabile nazionale dell’ufficio agrario del Partito Comunista Italiano, denuncia gli stretti legami e le collusioni al cui centro c’era l’Assessore dell’Agricoltura, Mattarella non lo difende.

Non una scelta comune, quella di non restare in silenzio. Evita quell’assenza di rumore che suggerisce assenso. Mattarella non chiude i suoi occhi o la sua bocca. Per questo, ne pagherà la vita.

Il Procuratore Gian Carlo Caselli, in un’intervista a Repubblica del 12 agosto 1997, affermerà: “Piersanti Mattarella un democristiano onesto e coraggioso ucciso proprio perché onesto e coraggioso“.

Perchè Piersanti Mattarella doveva morire?

Le teorie su chi l’avrebbe ucciso e il possibile coinvolgimento dei NAR

Quando una persona viene uccisa in maniera così brutale, ciò che ci si chiede spesso è il motivo che abbia spinto l’assassino.

Ma nella vicenda Mattarella, è importante anche il chi.

Ciò che fa specie, durante un esame autoptico, è il tipo di proiettile usato. Si tratta di una pallottola wadcutter usata nei poligoni di tiro sportivi. Chi avrebbe potuto dare in prestito un’arma con suddette munizioni? In particolare le indagini della Procura individuarono due diverse revolver: un Colt Cobra e un Rohm oppure un Charter Arms. 

La caratteristiche principale della wadcutter è che la punta cilindrica della palla, la rende particolarmente precisa nel momento in cui viene sparata. Inoltre, quando colpisce il bersaglio, produce il caratteristico foro rotondo senza slabbrature ben visibili.

Arrivata la polizia nel posto, la prima cosa di cui si resero conto era che le targhe montate sulla FIAT 127 – l’auto con cui ricordiamo fosse fuggito il killer, ritrovata parcheggiata in seconda fila a 500 metri dal luogo del delitto – erano contraffatte. Quella anteriore era infatti composta da due pezzi, rispettivamente “54” e “6623 PA“; quella posteriore da tre, ossia “PA”, “54” e “6623“.

Ciò che si suppone e che sia stata rubata mentre si trovava parcheggiata in via De Cosmi, a circa 500 metri dal luogo del delitto, intorno alle ore 19:30 del 5 gennaio.

Le targhe originali dell’auto (PA 536623) erano state alterate con quelle di una Fiat 124 posteggiata in via delle Croci, a circa un chilometro di distanza dal luogo del delitto. 

Ciò che emerge dalle prime indagini è una profonda saldatura tra i Nuclei Armati Rivoluzionari, NAR, e la mafia. Ma quale convenienza avrebbero avuto entrambi? Perché i primi avrebbero accettato di diventare manovalanza dei boss siciliani e per quale motivo questi ultimi, disponendo di moltissimi sicari addestrati, avrebbero accettato di collaborare?

Il tipo di arma usata costituì per molti anni una pista. Vi sarebbe infatti un’analogia con il delitto del giudice antiterrorismo Mario Amato. Quest’ultimo venne ucciso da Gilberto Cavallini, membro dei NAR, il 23 giugno del 1980 a causa delle sue indagini riguardo il terrorismo nero. Ma nessun’altra prova riuscì a collegare le due vicende. Si tratta, allo stato, di un’ipotesi ritenuta “suggestiva“, ma sulla quale non ci sarebbero ancora i necessari riscontri tecnici. 

Fu invece la stessa Irma Chiazzese individuare come killer il neofascista, fondatore dei NAR, Giusva, ossia Giuseppe Valerio, Fioravanti.

Dopo il suo arresto saranno determinanti le parole di Cristiano Fioravanti, fratello di Giuseppe Valerio, e membro dei NAR. Questo diventa collaboratore di giustizia, e parla dei suoi compagni di armi, rivendicando diversi omicidi, tra cui quello di Ciccio Mangiameli, tesoriere di Terza Posizione, un movimento politico.

Questo sarebbe stato ucciso qualche mese dopo Mattarella perché, secondo le dichiarazioni di Fioravanti, avrebbe rubato dei proventi e dei fondi messi da parte che dovevano servire per finanziare la rocambolesca fuga dal carcere di Ucciardone del leader ordinovista Pierluigi Concutelli, comandante e, per i neofascisti, boia del giudice Occorsio.

Mangiameli meritava di morire perché aveva rubato i soldi, e con lui anche la moglie e la figlia. Ma in questo cosa c’entrano la mafia e Mattarella?

Ebbene, Cosa nostra avrebbe proposto loro uno scambio: i Fioravanti avrebbero dovuto dare loro una mano per eliminare Piersanti, in cambio loro si sarebbero occupati della fuga di Concutelli. Nonostante possa sembrare un’ipotesi fantascientifica, in realtà si arrivò addirittura a un processo, dove la testimonianza di Cristiano è per molti risultata poco attendibile.

Di seguito vi riportiamo le parole di Cristiano Floravanti davanti al giudice Falcone del 29 marzo 1986:

«Io ho sempre espresso la convinzione che gli autori materiali di quell’omicidio fossero mio fratello e Luigi [rectius: Gilberto] CAVALLINI, coinvolti in ciò dai rapporti equivoci che stringeva Mangiameli in Sicilia. La storia dell’eliminazione di Mangiameli da parte di mio fratello richiama quei collegamenti.

Peraltro, mi risultava che in quei giorni mio fratello e anche Cavallini e Francesca Mambro erano in Sicilia per loro contatti con Mangiameli. Quando furono pubblicati gli identikit degli autori materiali dell’omicidio Mattarella sui giornali, ricordo che mio padre esclamò, per la somiglianza degli identikit con mio fratello e Cavallini, somiglianza che io stesso avevo rilevato immediatamente, ”hanno fatto anche questo!“»

Giovanni Falcone stesso il 3 novembre 1988 in una audizione in Antimafia definì l’indagine «estremamente complessa», dal momento che «si tratta di capire se e in quale misura la pista nera sia alternativa rispetto a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa, nell’ambito di un presunto scambio di favori tra mafia e terrorismo di estrema destra».

I Fioravanti avrebbero avuto a Palermo anche il supporto di Gabriele De Francisci, militante del FUAN, ossia il Fronte universitario d’azione nazionale, la cui zia sarebbe proprietaria di alcuni appartamenti vicini via della Libertà, che avrebbero potuto costituire da “base di appoggio”.

Nel 1990 Cristiano Fioravanti smise di accusare il fratello, affermando di non poter più riuscire a sostenere il peso morale e i sensi di colpa che da ciò stavano scaturendo.

Molti esponenti della destra parlarono successivamente riguardo l’agguato a Piersanti. Lo stesso Angelo Izzo, uno dei mostri del Circeo, svelò agli inquirenti dettagli inediti. Infatti, interrogato dal giudice istruttore di Bologna riguardo la strage del 2 agosto 1980 e successivamente da Falcone stesso, parlò dell’abbigliamento del killer e delle armi adoperate.

Ciò si rivelò comunque falso, perché, per quanto riguarda gli abiti, le informazioni date erano in contrasto con le testimonianze oculari rese, mentre relativamente alle armi impiegate, vennero smentite dagli esiti delle perizie balistiche.

Eppure, secondo quanto suggerito da Izzo, il l’omicidio sarebbe stato messo in atto da Massimo Carminati, il capo di Mafia capitale, oggi in carcere a Parma in regime di 41 bis. Questo avrebbe messo in contatto i neofascisti romani e la Banda della Magliana, oltre a essere l’armiere dei NAR.

Riguardo al suo coinvolgimento ne parlò anche Fioravanti. Secondo quanto da lui affermato, Carminati si trovava anch’esso a Palermo per occuparsi dell’evasione di Concutelli.

Angelo Izzo sull’omicidio Mattarella ha firmato questa testimonianza:

«Giusva e Concutelli mi dissero che dietro l’assassinio c’erano la mafia e gli ambienti imprenditoriali legati alla massoneria nonché esponenti romani della corrente DC avversa». Su Massimo Carminati: «La Banda della Magliana è collegata alla mafia siciliana e ha rapporti con Fioravanti e in maniera più accentuata con Carminati».

Secondo la versione di Izzo, inoltre, l’autista della famosa Fiat 127 parcheggiata era proprio Cristiano Fioravanti stesso, che però negò sempre il suo coinvolgimento.

Cosa dobbiamo chiederci? Perché e con quale logica venne ucciso? Cosa c’era dietro all’accordo Mafia – NAR?

Altre piste riguarderebbero addirittura il KGB. L’agente segreto francese Pierre de Villemarest, ricollegandosi a quanto Sciascia avrebbe scritto sul Corriere della Sera, dove individuava la mafia come unico colpevole, avrebbe suggerito un eventuale collegamento anche con la P2. Quest’ultima avrebbe agito l’eversione di destra per conto del KGB, in quanto il politico siciliano sosteneva il compromesso storico per snaturare il PCI e sottrarlo all’influenza sovietica. 

In ogni caso, proprio sulla vicenda, il “Maestro Venerabile” Licio Gelli, capo della loggia P2, ebbe da dichiarare, in una sorprendente intervista rilasciata alla giornalista Marcella Andreoli per il settimanale Panorama del 13 agosto 1989, riguardo alle indagini dei magistrati di Palermo sul delitto Mattarella e, specificatamente, sul ruolo del terrorista nero Valerio Fioravanti:

«Gli inquirenti non possono scoprire ogni responsabilità: alcuni delitti sono perfetti. Ma è ridicolo accusare i servizi segreti deviati o la P2».

Le ultime deposizioni di Falcone riguardano proprio il delitto Mattarella. Questo puntava sulla colpevolezza dei terroristi di estrema destra Giuseppe Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, leader dei Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR), quali esecutori materiali del delitto.

Chiamati a collaborare con la mafia la P2 di Licio Gelli e la banda della Magliana. Ciò fu possibile proprio grazie alle dichiarazioni di Cristiano Fioravanti, Paolo Bianchi, Angelo Izzo, Sergio Calore, Stefano Soderini, Paolo Aleandri e Walter Sordi.

Nel giugno 1991 il giudice istruttore Gioacchino Natoli rinviò a giudizio per il delitto Mattarella i membri della “Commissione” o “Cupola” di Cosa nostra. Questo perché, sulla base del “teorema Buscetta”, nessun omicidio di certo rilievo poteva avvenire senza l’approvazione del vertice mafioso, composto da: Michele Greco, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Bernardo Brusca, Francesco Madonia, Antonino Geraci. Insieme a loro anche Giuseppe Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, quali esecutori materiali del delitto.

Dopo la morte di Falcone, Buscetta rilasciò delle nuove dichiarazioni.

Sentito dalla Commissione Parlamentare antimafia presieduta dall’on. Luciano Violante il 12 novembre 1992, affermò:

«Le garantisco che i fascisti in questo omicidio non c’entrano. Quei due sono innocenti. Glielo garantisco. E chi vivrà, vedrà. Credo che Mattarella in special modo volesse fare della pulizia in questi appalti. Se andate a vedere a chi sono andati gli appalti in tutti questi anni, con facilità voi andrete a scoprire cose inaudite. Non avevano bisogno di due fascisti. La Cosa nostra non fa agire due fascisti per ammazzare un presidente della Regione. È un controsenso»

Non per ultimo, Francesco Marino Mannoia – a quel tempo testimone di giustizia sotto la protezione dell’F.B.I. – interrogato il 3 aprile 1993, affermerà

«La ragione di questo delitto risiede nel fatto che Mattarella Piersanti – dopo avere intrattenuto rapporti amichevoli con i cugini Salvo e con Bontate Stefano – successivamente aveva mutato la propria linea di condotta. Egli voleva rompere con la mafia, dare “uno schiaffo” a tutte le amicizie mafiose e intendeva intraprendere un’azione di rinnovamento del partito della Democrazia Cristiana in Sicilia. […] La decisione fu presa da tutti i componenti della commissione provinciale di Palermo, e su ciò erano perfettamente concordi il Riina, il Calò, l’Inzerillo ed il Bontate. Erano perfettamente d’accordo, anche se formalmente estranei alla decisione, i cugini Salvo Antonino e Salvo Ignazio»

Sempre per Mannoia, all’omicidio parteciparono Federico Salvatore (il quale era a bordo di un’autovettura), Davì Francesco – uomo d’onore di una famiglia, di mestiere pasticcere -, Rotolo Antonino, Inzerillo Santino ed altri. Buscetta e Marino Mannoia fecero il nome di Calogero Ganci, Brusca quello di Giuseppe Leggio.

Il 12 aprile 1995 vennero condannati all’ergastolo i boss mafiosi Salvatore Riina, Michele Greco, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Francesco Madonia e Nenè Geraci come mandanti dell’omicidio Mattarella. Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini furono assolti dall’accusa. 

Vennero considerate insufficienti le parole della moglie Irma Chiazzese riguardo l’identità del killer. Da Bernardo Mattarella questa celta venne definita come l’ennesima prova della morte del diritto.

Ad oggi rimangono ignoti gli esecutori materiali del delitto di Piersanti Mattarella, un uomo giusto e onesto il cui unico interesse fu quello di renderela Sicilia una Regione delle “carte in regola”.

Scritto da Gaia Vetrano

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GAIA VETRANO. 19 anni. Studia Ingegneria Civile e Gestionale a Catania. Quando non è alle prese di derivate e integrali le piace scrivere e parlare delle sue passioni e degli argomenti più svariati. Un giorno spera di lavorare nell’industria della moda.

Certe storie si raccontano solo di SaturDie, la rubrica crime di Nxwss.

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Benigni e l’omaggio a Bernardo Mattarella a Sanremo: chi era il padre del capo dello Stato. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 7 Febbraio 2023.

Politico, più volte ministro, antifascista, fu tra i pionieri della Dc e si batté per l’unità d’Italia, contro il separatismo siciliano

Inedito omaggio di Roberto Benigni ai padri costituenti sul palco dell’Ariston: «Tra questi - ha detto -c’era Bernardo Mattarella, il padre del presidente, al quale va il nostro applauso. Lei e la Costituzione avete avuto lo stesso padre - dice il premio Oscar rivolto al capo dello Stato - possiamo dire che è sua sorella». Il Presidente della Repubblica, che ha chiamato uno dei suoi figli Bernardo, si è messo una mano sul cuore e ha sorriso, emozionato.

La scaletta e il racconto della prima serata di Sanremo in diretta

Ma chi era Bernardo Mattarella? Il padre del capo dello Stato, anch’egli politico e più volte ministro, era nato a Castellammare del Golfo nel 1905 ed è morto a Roma il 1° marzo del 1971, a 66 anni. Oltre al presidente della Repubblica, ha avuto altri tre figli dalla moglie Maria Buccellato— Antonino, Caterina, e Piersanti, il presidente della Regione siciliana assassinato da Cosa Nostra il 6 gennaio 1980.

Proveniente da una famiglia storicamente di marinai e navigatori, Bernardo Mattarella scelse la strada del diritto e della politica: si laureò in giurisprudenza nell’agosto del 1929 all’Università degli Studi di Palermo e intanto aderì al Partito popolare di Luigi Sturzo, svolgendo le mansioni di segretario della sezione di Castellammare. Antifascista, contrario al separatismo siciliano, partecipò negli anni tra il 1942 e il 1943 alle riunioni clandestine guidate da Alcide De Gasperi per porre le basi della Democrazia cristiana, e poi fondò la Dc siciliana.

Prima assessore comunale a Palermo, poi sottosegretario alla Pubblica istruzione nei primi due governi del Comitato di Liberazione nazionale, divenne vice segretario della Dc nel luglio del 1945, affiancando proprio De Gasperi. Il 18 aprile 1948, alle elezioni del primo parlamento repubblicano, Mattarella fu eletto alla Camera nella circoscrizione della Sicilia occidentale, nella quale sarebbe stato poi sempre rieletto. Negli anni ha ricoperto diversi incarichi: da ministro della Marina mercantile a ministro dei Trasporti, dal dicastero degli Esteri a quello delle Poste e Telecomunicazioni, dall’Agricoltura al Commercio con l’Estero. Nel terzo governo Moro Mattarella non fu ministro per motivi di equilibrio tra le correnti democristiane, come disse Moro in una lettera con cui ringraziava Mattarella per il lavoro svolto al governo. Mattarella rientrò nella direzione nazionale della DC.

Alle politiche del 1968, a meno di tre anni dalla morte, fu eletto per l’ultima volta alla Camera dei deputati e in quella legislatura divenne presidente della commissione Difesa della Camera dei deputati. Morì in seguito ad un malore alla Camera, l’esito tragico di una malattia di cui soffriva da alcuni mesi.

Quel filo sottile che lega i Mattarella alla mafia. Redazione su ilformat.info il 6 Settembre 2017.

Quando il 3 febbraio 2015, Sergio Mattarella è stato eletto Presidente della Repubblica, associazioni familiari vittime di mafia e giornalisti che di mafia dovrebbero intendersene, credevano in un suo intervento incisivo sia per la lotta alla mafia e sulla ricerca della verità di molti omicidi e misteri ancora irrisolti. Non è andata così. A parte le solite parole di circostanza in occasioni di commemorazioni o di giornate della legalità, Mattarella non si è mai esposto concretamente a fianco dei familiari delle vittime.

Un esempio su tutti il caso Agostino: Vincenzo Agostino, padre di Nino ucciso da Cosa Nostra nel 1989, vista l’imminente archiviazione del caso, ha chiesto al Presidente della Repubblica Mattarella un incontro. Come risposta, l’inquilino del Quirinale, ha risposto che per impegni precedentemente assunti non poteva riceverlo. In parole povere, si è rifiutato di incontrare la famiglia Agostino in cerca di giustizia da 28 anni. Un certo diniego da chi ha perso il fratello, Piersanti, per mano di Cosa Nostra il 6 gennaio 1980, ha stupito molti ma non chi conosce la storia della famiglia Mattarella. Le virtù di onestà dei Mattarella, sono macchiate da un alone, non tanto velato, di contiguità con Cosa Nostra.

Bernardo, padre di Sergio e Piersanti, deputato dell’assemblea costituente, ministro in vari governi tra il 1953 e il 1963 è il capostipite della Famiglia Mattarella, colui che ha aperto la strada politica ai figli. Mattarella è stato accusato per la strage di Portello della Ginestra insieme al ministro dell’interno Mario Scelba, dal pentito Gaspare Pisciotta, vice di Salvatore Giuliano. I due, sono stati assolti in fase istruttoria e, Pisciotta nel 1954, è morto assumendo, a sua insaputa, una dose di strictina, veleno per topi.

Nel febbraio 2016, il pentito Francesco di Carlo, in un verbale ha dichiarato che Bernardo Mattarella gli era stato presentato come uomo d’onore della famiglia di Castellammare del Golfo, da Calogero La Volpe tra il 1953 e il 1954. Dichiarando inoltre che, ha avuto modo di frequentare la casa di Mattarella e che sarebbe entrato in Cosa Nostra grazie alla famiglia della moglie Bucellato. La famiglia Bucellato vanta esponenti di spicco in Cosa Nostra tanto quanto nelle istituzioni.

Bernardo Mattarella era ritenuto vicino al Boss di Alcamo Vincenzo Crimi.

La dichiarazione di Di Carlo, dal punto di vista delle regole di mafia non fa una piega: un uomo d’onore non può presentarsi da solo ad un altro uomo d’onore ma, deve essere un terzo uomo d’onore che conosce entrambi (in questo caso Calogero La Volpe) a presentarli. In precedenza, nel 1992, l’ex ministro Martelli, riprende dei documenti della commissione antimafia datati 1976 a firma di Pio La Torre, nei quali La Torre afferma che Mattarella ha traghettato la mafia dal fascismo verso la DC. Quell’incontro mafia, politica, massoneria ha dato origine al potere dei Mattarella in Sicilia che continuerà con il figlio Piersanti.

PIERSANTI MATTARELLA.

Il presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, viene ucciso il 6 gennaio 1980, da Cosa Nostra. Per il suo omicidio sono stati condannati, come mandanti, i boss della  cupola dell’epoca. Piersanti Mattarella era considerato il delfino di Aldo Moro ed aveva rotto con la DC di Vito Ciancimino e Salvo Lima, per aprire un dialogo con il PCI siciliano. Il pentito Francesco Marino Mannoia, detto u dutturi o il chimico perché aveva il compito all’interno di Cosa Nostra di raffinare la droga, dichiarerà quanto segue sull’omicidio Mattarella: ” la ragione di questo omicidio risiede nel fatto che Mattarella Piersanti dopo aver intrattenuto rapporti amichevoli con i cugini Salvo e Stefano Bontate, ai quali non lesinava favori,  aveva mutato la linea di condotta. Dare uno schiaffo a tutte le amicizie mafiose. Voleva rompere con la mafia ed entrò in contrasto con il deputato Rosario Nicoletti”. Prosegue Marino Mannoia dicendo che, la nuova linea di Mattarella preoccupava Nicoletti che aveva avvisato Bontate. Attraverso Salvo Lima, anche Giulio Andreotti è stato informato delle intenzioni di Mattarella e si reca in Sicilia per incontrare Bontate, i cugini Salvo, Nicoletti e Lima.

Marino Mannoia è stato informato di tutto ciò direttamente da Bontate.

In sostanza, Piersanti Mattarella che in tratteneva rapporti con i mafiosi, aveva deciso di voltare pagina non rispettando più i patti stipulati con gli uomini d’onore. Persino il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, non certo uno qualunque, il 10 agosto 1982, in una intervista, aveva collegato l’omicidio di Piersanti Mattarella alle vicende paterne, non proprio trasparenti, e che voleva iniziare una politica onesta distante dalla mafia.

Eliminato perché traditore?

La trasparenza della famiglia Mattarella passa dalla Sicilia, sul filo sottile che lega mafia, politica ed antimafia. Come diceva Leonardo Sciascia ne “Il giorno della Civetta”, l’Italia è incredibile e bisogna andare in Sicilia per constatare quanto incredibile è l’Italia. Forse tutta l’Italia è Sicilia dipendente.

40 anni fa a Palermo veniva ucciso Piersanti Mattarella. Il fratello dell'attuale Presidente della Repubblica fu ucciso il 6 gennaio 1980. Ad oggi non è ancora noto l'esecutore in un intreccio tra mafia, politica e terrorismo nero. Nel 2019 il caso è stato riaperto. Edoardo Frittoli il 3 gennaio 2020 su Panorama. In via della Libertà a Palermo era il giorno dell'Epifania del 1980. Piersanti Mattarella, Presidente democristiano della Regione Sicilia, stava andando a Messa in compagnia della moglie, dei due figli e della suocera. Il politico e giurista fratello maggiore dell'attuale Presidente della Repubblica entrò con la famiglia nella sua Fiat 132 non blindata e senza scorta, perché lo stesso Piersanti aveva deciso di rinunciare alla protezione armata almeno alla domenica. Pochi istanti ed un uomo si avvicinò rapidamente alla macchina a viso scoperto, esplodendo il caricatore della sua Colt 38 Special addosso al presidente, sotto gli occhi dei familiari. Piersanti Mattarella moriva sul colpo straziato dalle pallottole al torace, alla tempia e alla spalla esplose da meno di un metro di distanza. Non erano neppure passati due anni dall'assassinio di Aldo Moro, suo principale riferimento politico all'interno della Democrazia Cristiana. Pochi minuti più tardi saranno proprio le braccia di suo fratello Sergio ad estrarlo dall'abitacolo della 132 inondato dal sangue e a correre, purtroppo senza speranza, all'ospedale Santa Sofia. Contemporaneamente nelle redazioni dei quotidiani arrivavano le rivendicazioni dei "Nar" (i Nuclei Armati Rivoluzionari, organizzazione terroristica neofascista) ma anche quelle di Prima Linea e delle Brigate Rosse. Palermo e l'Italia ripiombavano di colpo nel clima dei 55 giorni di Moro, impietriti dalla rapidità e freddezza dell'esecuzione di un "cadavere eccellente". Piersanti Mattarella, figlio di Bernardo, esponente della Dc siciliana vicina a Giorgio La Pira, era nel mirino della mafia da quando fu eletto alla guida della Regione Sicilia con un voto pressoché plebiscitario (77 voti su 100) nel 1978. La sua onestà intellettuale ed il coraggio nel portare avanti una profonda azione riformatrice delle istituzioni dell'isola ed i decisi attacchi alla criminalità organizzata furono alla base della volontà di cosa nostra di mettere a tacere per sempre la voce del nuovo presidente. Piersanti Mattarella si era contrapposto in maniera netta anche ai compagni di partito Salvo Lima e Vito Ciancimino, esponenti della corrente andreottiana e considerati gli uomini di contatto tra interessi mafiosi e politica in Sicilia. La sua giunta di centro-sinistra, infine, si era formata con l'appoggio esterno del Pci, in evidente continuità con la politica del compromesso storico inaugurata da Aldo Moro. Le indagini furono da subito caratterizzate dalla lentezza e dall'incertezza dovuta alla presenza di due piste, quella mafiosa e quella nera. Quest'ultima aveva preso corpo per le dichiarazioni successive di alcuni pentiti riguardo al ruolo degli esponenti dei Nar Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini quali esecutori materiali dell'omicidio, accuse supportate anche dalla testimonianza della moglie della vittima Irma Chiazzese Mattarella che avrebbe riconosciuto Fioravanti mentre scaricava la pistola contro il marito. La sua dichiarazione fu in seguito dichiarata "inattendibile". Giovanni Falcone, in qualità di Procuratore aggiunto, espresse durante l'iter giudiziario l'oggettiva difficoltà nell'individuare e distinguere le responsabilità e i ruoli nei cosiddetti "delitti politici" che insanguinarono l'isola (oltre a Mattarella quelli di Pio La Torre e Michele Reina). Il giudice palermitano durante il maxiprocesso sembrò nel caso dell'omicidio del Presidente siciliano propendere per la "mano nera". Fu dopo la morte dello stesso Falcone che le dichiarazioni dei pentiti Tommaso Buscetta e Gaspare Mutolo portarono i magistrati a propendere decisamente per la pista mafiosa che portava ai Corleonesi. Nel 1995 saranno condannati all'ergastolo quali mandanti dell'omicidio di Piersanti Mattarella i boss Michele Greco, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Nené Geraci e Francesco Madonia. L'assassinio del Presidente democristiano sarà una questione nodale nel corso dei processi a carico di Giulio Andreotti, specie dal 2004 quando furono accertati i contatti tra l'ex presidente del Consiglio e gli uomini di cosa nostra in due incontri avvenuti a Palermo ed aventi come argomento principale proprio il comportamento del nuovo presidente della Regione Sicilia, quella che Piersanti Mattarella avrebbe voluto una volta per tutte con le "carte in regola". All'inizio del 2018 la pista nera è emersa nuovamente, evocata dal  ritrovamento di due spezzoni di targa automobilistica che, uniti, sarebbero stati utilizzati sulla Fiat 127 utilizzata dai sicari quella mattina di gennaio del 1980. Le targhe contraffatte erano state rinvenute in due covi a Palermo e Torino utilizzati all'epoca dall'organizzazione di estrema destra Terza Posizione (poi sparite nel passaggio tra i vari uffici), fatto reso noto dal magistrato Loris D'Ambrosio, esperto di casi legati all'eversione nera. Un altro elemento che ha indotto la Procura di Palermo a decidere la riapertura del caso è stato il confronto tra l'arma utilizzata per il delitto Mattarella e quella dell'omicidio (avvenuto pochi mesi dopo) del giudice Mario Amato. In entrambi i casi a sparare fu una Colt 38 Special e nel caso di Amato è stato condannato proprio il terrorista nero Gilberto Cavallini. A quasi un trentennio di distanza dalla stesura del memoriale di Giovanni Falcone che pose l'accento sull'ipotesi di una collaborazione e di una convergenza di interessi tra la mafia e il terrorismo nero (come nel caso della strage del rapido 904) all'apice degli anni di piombo. Il giudice palermitano aveva dichiarato nel caso dell'omicidio di Piersanti Mattarella: "È un’indagine estremamente complessa perché si tratta di capire se, e in quale misura, la pista nera sia alternativa a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa".

Piersanti Mattarella, a 40 anni dall’omicidio  il dolore della famiglia  e l’omaggio di Palermo. Pubblicato domenica, 05 gennaio 2020 su Corriere.it da Felice Cavallaro. Il capo dello Stato ha visitato con figli e nipoti la tomba del fratello. Una seduta solenne dell’Assemblea regionale siciliana, tenuta alla presenza del capo dello Stato, suggellerà lunedì alle 11.30 le commemorazioni per i 40 anni trascorsi dal delitto di Piersanti Mattarella. Un crudele omicidio consumato in un giorno di festa, il 6 gennaio 1980, per uccidere il governatore dell’isola. L’uomo che voleva mettere «la Sicilia con le carte in regola». Un omicidio consumato sotto gli occhi della moglie, Irma Chiazzese, e dei figli, tutti in auto per andare a Messa. Con il fratello della vittima, oggi presidente della Repubblica, immediatamente accorso dal suo appartamento di fronte al luogo del massacro per tirar fuori dall’abitacolo questo martire innocente allora definito l’erede di Aldo Moro. Sono i flash inevitabilmente tornati alla memoria di Sergio Mattarella che domenica ha reso omaggio alla tomba di famiglia, a Castellammare del Golfo, la città sul mare fra Palermo e Trapani, insieme con i tre figli, Bernardo Giorgio, Laura e Francesco, oltre ai due figli di Piersanti Mattarella, Bernardo e Maria. Quest’ultima segretario generale della Regione siciliana voluta dal governatore Nello Musumeci che oggi parlerà a Palazzo dei Normanni subito dopo il ricordo di Gianfranco Micciché, per la seconda volta presidente dell’Assemblea regionale. Benché in prima fila fra i banchi dei deputati siciliani, Sergio Mattarella ha fatto saper che non interverrà. Ed è come se per le polemiche di sottofondo al quarantesimo anniversario lasciasse la parola a parenti, amici stretti di Piersanti, allo scrittore Giovanni Grasso che al Quirinale coordina la Comunicazione, autore di un libro da lunedì in diffusione con il Corriere. Chi ha conosciuto da vicino e chi ha amato Piersanti Mattarella denuncia ogni anno l’immutata amarezza per un processo in cui i pentiti, demolita l’accusa, hanno «assolto» i presunti esecutori. Come è accaduto con gli storici collaboratori Tommaso Buscetta e Marino Mannoia che, solo dopo la strage di Capaci, hanno sostanzialmente scagionato due neofascisti, Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini, inquisiti da Giovanni Falcone facendo leva anche sulla testimonianza oculare di Irma Chiazzese, pittrice e ritrattista di fama. (Leggi qui le parole di Falcone sull’omicidio Mattarella: «Si potrebbe riscrivere la storia del Paese»). Polemiche che riecheggeranno sin dal 9 del mattino quando diverse corone di fiori saranno deposte sul marciapiede di via Libertà, di fronte a via Pipitone Federico, a pochi metri da dove sarebbe stato ucciso con una autobomba il giudice Rocco Chinnici. È la memoria di quell’inferno che il sindaco Leoluca Orlando ha deciso di rievocare, poco dopo la cerimonia di via Libertà, nel vicino Giardino Inglese intitolandolo da oggi «Parco Piersanti Mattarella - Giardino all’Inglese». Con una lapide collocata di fronte al giardino Garibaldi, da tempo intitolato alla memoria dei giudici Falcone e Francesca Morvillo.

Repubblica Tv il 5 gennaio 2020. Piersanti Mattarella, 40 anni fa il delitto. Parla il testimone: "Vidi il killer e lo inseguii con la Vespa. Non scorderò il suo ghigno". Dopo 40 anni, ha ancora quel volto stampato nella mente. "Ci guardò, fece un ghigno e poi fuggì su una 127 guidata da un complice". Francesco aveva 14 anni, con due suoi amici scout tornava in Vespa dalla messa dell’Epifania. "Non sapevo ancora che quel giovane aveva appena ucciso il presidente della Regione Piersanti Mattarella – sussurra - Non sapevo ancora che quella mattina di gennaio avrebbe cambiato per sempre la mia vita". Parla per la prima volta il testimone del delitto di Piersanti Mattarella. Salvo Palazzolo e Giorgio Ruta

Piersanti Mattarella, dopo 40 anni, la morte è ancora un mistero. Il Dubbio il 7 gennaio. «Mafia e corruzione, in Italia, restano due piaghe che occorre debellare ed estirpare in ogni loro forma e articolazione, attraverso l’impegno di tutti: istituzioni, politica e cittadini», ha affermato la presidente del Senato, Elisabetta Casellati. Mattarella quaranta anni dopo. Le corone di fiori sul luogo dell’omicidio. Poi l’intitolazione del Giardino Inglese. Infine, la seduta solenne dell’Assemblea regionale siciliana, davanti al Capo dello Stato, Sergio Mattarella, tra i primi a soccorrere e a prendere tra le sue braccia il fratello subito dopo l’agguato. La mafia e la spirale terroristica avevano abbattuto la speranza politica più autorevole dell’Isola, l’allievo di Aldo Moro, siciliano tenace e capace, lucido e ostinato propugnatore di una politica rigorosa e di rinnovamento. «Mafia e corruzione, in Italia, restano due piaghe che occorre debellare ed estirpare in ogni loro forma e articolazione, attraverso l’impegno di tutti: istituzioni, politica e cittadini», ha affermato la presidente del Senato, Elisabetta Casellati, che ha avvertito: «A tutt’oggi sull’omicidio Mattarella conosciamo solo una parte della verità: per le istituzioni è compito prioritario portare fino in fondo la ricerca delle responsabilità, per onorare la sua memoria e restituire giustizia ai familiari». Piersanti un «politico onesto e rigoroso, servitore dello Stato, esempio di riscatto per le giovani generazioni e per tutti coloro che hanno contribuito e continuano a contribuire con determinazione alla lotta alla mafia», ha scritto su Twitter il presidente della Camera, Roberto Fico. A Palermo anche il ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano: «Se siamo qui è perchè la mafia la guerra non l’ha vinta, le istituzioni hanno reagito».

Omicidio Mattarella, finché non verrà fuori la verità in Sicilia regnerà l’oscurità. Calogero Mannino il 7 Gennaio 2020 su Il Riformista. Il tragico attentato che quarant’anni fa ha stroncato la vita di Piersanti Mattarella ha aperto una ferita non cicatrizzabile. Non soltanto per i familiari più intimi. Ma anche per una cerchia, che il tempo restringe, di compagni della sua vicenda politica (di questa cerchia faccio parte anch’io). Tutti fortemente interessati alla ricostruzione della verità su questo assassinio, le cui conseguenze non si sono ancora esaurite, e del contesto d’insieme in cui fu compiuto. Quando un avvenimento di questa portata (come anche il delitto Moro), non trova la ricostruzione oggettiva e quindi ragionevolmente veritiera, il vulnus aperto non viene sanato dal tempo e dallo sbiadimento della memoria. Anzi, a volte, e certamente sin dal primo momento, vengono addensati e cristallizzati elementi di confusione e di vero e proprio sviamento dalla verità storica. Intanto la figura stessa di Piersanti Mattarella non può essere imbalsamata nel santino agiografico che ne viene fatto, a volte con marcati segni di forzatura arbitraria da parte di coloro che ancora oggi ne usano la memoria per scopi di parte. Soprattutto se si ha riguardo per la sua figura, ricca e complessa. Lo stesso crimine che lo ha colpito nasce dalla barbara reazione ai tratti forti della sua personalità. Un uomo dal carattere fermo e spigoloso, figlio, sposo, padre, politico, che si presenta sempre con i caratteri straordinari per la ricchezza della sua umanità matura e profonda, sempre illuminata da una fede religiosa autenticamente sentita. È probabile che nella determinazione dei suoi assassini ci sia stata la delusione di chi sperava di poterlo piegare. Egli fu, con un’espressione letteraria, un “uomo verticale”. Il suo impegno politico da democristiano nella Democrazia Cristiana, della cui storia – luci e ombre – andava consapevole e coerente interprete, fu un impegno totale. Le stesse linee del disegno politico che portò avanti si muovevano entro queste caratteristiche. Eletto deputato all’Ars nel 1967, si era collegato, indipendentemente dalla caratterizzazione di corrente che aveva in quel tempo, a un gruppo che faceva capo all’onorevole Nino Lombardo, il quale portava avanti in quella legislatura una politica di rinnovamento del costume, con l’abolizione del voto segreto, che nella cronaca della vita politica regionale aveva determinato non pochi passaggi complicati, anche quello del milazzismo. Mattarella era antagonista irriducibile di questo modo di far politica. Le elezioni del 1971 segnarono per la Dc un momento negativo. Accanto alla riforma della burocrazia regionale era stata portata avanti una riforma della legge urbanistica che aveva determinato una reazione di destra molto forte: una autentica onda nera, in parallelo alla contemporanea rivolta di Reggio Calabria. La Dc siciliana – tutta – ma soprattutto con il gruppo dirigente che aveva avviato il rinnovamento – D’Angelo, Lombardo, Nicoletti, Parisi e Mannino – fu ferma nell’opposizione e resistenza a un’opinione che tendeva invece verso l’avvicinamento al Movimento Sociale. Era anche una stagione politica difficile sul piano nazionale. Il centro-sinistra non godeva più dell’appoggio del Psi, si era esaurita la fase del secondo centro-sinistra. In quelle circostanze l’onorevole Moro aprì nella Dc la fase della strategia dell’attenzione verso il Pci. Con la segreteria regionale Nicoletti, che successe all’onorevole D’Angelo, la linea di riflessione proposta da Moro diventò la linea della Dc siciliana. L’onorevole Piersanti Mattarella con il padre onorevole Bernardo (scomparso nel 1971) seguivano le idee di Aldo Moro. E In Sicilia, con la segreteria Nicoletti, furono realizzate, prima di ogni esperienza nazionale, forme avanzate di collaborazione con il Pci. Il segretario del Pci, allora, era Achille Occhetto. E quando maturò il tempo, Piersanti divenne presidente della Regione sulla base di una maggioranza che ricomprendeva il Pci. Fu eletto appena cinque settimane prima del sequestro Moro e della formazione del governo Andreotti e cioè del governo di solidarietà nazionale con il Pci di Berlinguer in maggioranza. Intanto nella linea politica della Dc siciliana, proprio in quel tempo, maturò una più attenta considerazione del problema mafia. Il ritardo dello sviluppo del Mezzogiorno, con l’aggravante di una insidiosa emergenza mafiosa, determinarono l’impegno della Dc siciliana che rappresentò la base politica della presidenza Mattarella. Per fedele ricostruzione ai fatti: nel Comitato Regionale della Dc siciliana si determinò una divaricazione tra maggioranza e minoranza sulla proposta di Nicoletti di collaborazione con il Pci e la proposta per la presidenza della Regione dell’onorevole Mattarella. Gli andreottiani, cioè l’onorevole Lima, si schierarono a favore. Anche per la sincronia con il Governo Andreotti. Costituito il Governo con una maggioranza che comprendeva il PCI, che assumeva la Presidenza dell’ARS con l’on.Pancrazio De Pasquale, il presidente Mattarella fu artefice di una concreta politica di cambiamento e di forte impegno per lo sviluppo della Sicilia. Il contrasto alla criminalità mafiosa fu caratterizzato da un impegno civile e culturale del quale fanno fede gli atti pubblici del tempo. Il 9 maggio del 1978, quando fu consegnato in via delle Botteghe Oscure il cadavere dell’on. Moro, la politica di solidarietà nazionale subì una vera e propria interruzione. Anche in Sicilia il Pci interruppe l’appoggio al governo Mattarella, che andò in crisi anche perché il Psi siciliano in quel tempo era ancora sulla linea “degli equilibri più avanzati” di De Martino, cioè seguiva la linea del partito comunista. Il 6 gennaio del 1980 l‘assassinio di cui fu vittima vedeva Piersanti Presidente della Regione in crisi. Ancora oggi – condannata la cupola di Cosa nostra – non si conosce l’identità dei killer. Questo dato ha condotto le indagini sulla pista del terrorismo nero. Niente esclude la confluenza degli interessi o delle responsabilità tra Cosa nostra e terrorismo. Però la mancata ricostruzione di una verità certa non può autorizzare anche chi ha avuto responsabilità giudiziarie in quel tempo a sostenere delle pure divagazioni. Il delitto Mattarella venne in successione temporale all’assassinio di Michele Rejna, segretario provinciale della Dc palermitana, andreottiano e limiano. Ci sono molti indizi politici che dicono che tra i due delitti vi è un collegamento. Una parte politica – alla quale si sono prestati anche altri che avrebbero interesse alla verità – ha sostenuto che le cause-obiettivo dei due delitti erano l’interesse a impedire l’alleanza politica della Dc con il Pci. Ma il Pci era uscito già dalla maggioranza del governo Mattarella e ne aveva provocato la messa in crisi. Allora semmai questo dato di fatto sottolinea che la mafia, sempre attenta alle cose della politica, colpisce quando un uomo politico, la vittima, è stato reso più debole dalle circostanze della politica. Questa avvertenza non fu sufficiente per determinare un diverso orientamento politico del Pci. Allora una corretta ricostruzione politica è il contributo migliore – possibile e doveroso- per riconoscere la dimensione storica della figura di Piersanti Mattarella. Non come artefice di politiche mai pensate da lui. Orgoglioso della storia della Democrazia Cristiana come era orgoglioso di suo padre, pensava invece a rendere la Dc forte per guidare il Paese in una fase storica in cui il terrorismo aveva colpito Moro, il suo leader, ma contemporaneamente Cosa nostra muoveva all’attacco con efferata criminalità. Contro le linee del rinnovamento proposte dalla Dc e nella Dc. Il ricordo di oggi forte del sentimento che lo ispira non può rinunciare alla verità. Si farebbe torto alla storia, ma anche a quella grande e generosa di Piersanti.

Intervista ad Antonio Todaro: “Piersanti Mattarella era sereno, non temeva per la sua vita”. Redazione de Il Riformista il 5 Gennaio 2020. A quarant’anni dall’omicidio per mano mafiosa di Piersanti Mattarella, la giornalista dell’AdnKronos Elvira Terranova ha intervistato l’avvocato Antonio Todaro, che fu tra i più fidati amici del compianto politico Dc. «Incontrai Piersanti Mattarella – dice Antonio Todaro a Elvira Terranova – pochi giorni prima che venisse ucciso. Andammo insieme a una mostra. Lui venne con la moglie Irma, senza la scorta. Lo accompagnai io con la mia 124. Era sereno. Aveva la consapevolezza di potere camminare senza alcun timore, appunto sereno. Eppure mancavano pochissimi giorni alla sua uccisione». Antonio Todaro, 80 anni appena compiuti, è un avvocato in pensione. È stato uno degli amici di famiglia più cari dell’ex Presidente della Regione siciliana, il Governatore dalle “carte in regola”, ucciso il 6 gennaio 1980, mentre andava alla messa per l’Epifania. Ancora oggi, nonostante siano trascorsi 40 anni da quel tragico giorno, Antonio Todaro, che negli anni Settanta a capo del ‘Gruppo Politica’, l’iniziativa di formazione all’impegno socio-politico, proposta nel 1977, da Piersanti Mattarella e da altri suoi giovani amici e collaboratori, si commuove quando fa un salto indietro nel tempo e ricorda l’amico Piersanti.  L’avvocato Todaro ha gli occhi lucidi quando ricorda l’ultima volta in cui vide Piersanti Mattarella, quattro giorni prima dell’omicidio. «Non avrei mai pensato che non lo avrei mai più rivisto…», dice. Poi si illumina quando ricorda “quel pomeriggio”. «Era l’inizio dell’anno del 1980, quando andai a prendere Piersanti con la mia auto per andare a vedere insieme una mostra d’arte, di cui lui era un grande appassionato- racconta – Passò da casa mia e andammo insieme in macchina. E ricordo la sua sobrietà, al limite della cautela di quest’uomo che pur rivestendo un ruolo pubblico così importante come quello di Presidente della Regione. Lui, con grande serenità, salì sulla mia macchina con la moglie, senza la scorta. Questo mi fece pensare che aveva il cuor sereno». Era sereno, dunque, Piersanti Mattarella. «Solo una volta – racconta ancora l’amico Antonio Todaro – ebbe un sussulto. Ricordo che stavamo tornando da Castellammare del Golfo (città di origine di Mattarella, ndr), quando arrivando a Terrasini vedemmo una fila di costruzioni abusive. Lui ebbe un momento di riflessione sulle conseguenze che un’azione proibitiva di interruzione avrebbe potuto procurargli. Vedendo quelle schifezze lungo la costa si mise le mani nei capelli, ebbe una sorta di sussulto a pensare alle difficoltà e all’impegno, alle reazioni che si sarebbero determinate per questo intervento. Ma a me, personalmente, sensazioni di preoccupazione per la sua vita non ne esternò mai, eppure io ero molto vicino a lui. A differenza di quanto detto dalla dottoressa Trizzino». Maria Grazia Trizzino era il capo di gabinetto di Piersanti Mattarella. E in passato aveva raccontato che, di ritorno da un viaggio a Roma, alla fine del 1979, per denunciare al Governo la grave situazione siciliana e la necessità di fare pulizia nella Dc Piersanti Mattarella le avrebbe confidato di avere incontrato l’allora ministro Virginio Rognoni: «Se dovesse capitarmi qualcosa, si ricordi di quello che le sto dicendo…». Antonio Todaro ricorda ancora che Sergio Mattarella «era il confidente più fidato» di Piersanti. «Molti pensieri li ha condiviso soprattutto con suo fratello, se posso dare una mia impressione, il suo consigliere più fidato, più intimo. L’attuale Capo dello Stato non faceva ancora politica attiva, teneva il suo spazio discreto e riservato. Ma la contiguità totale più frequente era quella con suo fratello. Gli altri sì hanno avuto delle confidenze dal Governatore ma mai quanto Sergio». Poi, l’amico avvocato di Piersanti Mattarella sottolinea con commozione che «oggi manca moltissimo una persona, un politico, come Piersanti Mattarella», un «uomo la cui grande umiltà non toglieva niente alla sua autorevolezza. Manca una persona dotata della sua fantasia, della sua gioiosità della vita. Aveva il gusto della vita. La gioia della vita, senza essere bacchettone, amava anche gli aspetti più ludici, più sereni, più immediati. Amava la musica leggera, l’arte, il tutto vissuto con molta disinvoltura, senza particolari impacchettamenti, con una grande sensazione del senso dell’amicizia». E ricorda che il «giorno in cui fu nominato presidente della Regione, lui mi chiamò alle otto del mattino per chiedermi come stava mia nonna, perché sapeva che stava male». «Ricordo la sua faccia quando un commesso lo chiamò, il giorno in cui un giorno andai a trovarlo, lo chiamò “eccellenza”, lui non era pronto. Non fece cenno al commosso ma ebbe un sussulto perché riteneva quel tributo, che peraltro gli spettava, lo considerava estraneo alla sua dimensione umana e sociale». Antonio Todaro è l’autore della fotografia-icona che ritrae Piersanti Mattarella mentre è al telefono nel suo ufficio. «Ho sempre avuto la passione della fotografia – racconta oggi – e quel giorno, andai a trovare il Presidente del suo ufficio. Era una riunione direi familiare, c’era pure sua nipote Lea, la critica d’arte. Io avevo con me la Nikon che avevo comprato da poco. Era assorto e malinconico in quell’istante in cui l’ho fotografato. C’era stato qualche giorno prima un incidente aereo. E lui esprimeva con quello sguardo la sua partecipazione emotiva, stava assorto e silenzioso. Non ha parlato per alcuni minuti. Quel momento mi parve una sintesi complessiva della sua sensibilità, della sua attenzione e partecipazione umana a ciò che accadeva».

Chi ha ucciso Mattarella? Attilio Bolzoni Francesca Trotta su La Repubblica il 6 gennaio 2020. Sono passati quarant'anni e ancora non sappiamo chi l'ha ucciso. Non conosciamo il nome del sicario ma dietro l'omicidio dell'Epifania palermitana non c'è solo mafia, c'è mafia ma anche tanto altro. C'è la Sicilia dei “delitti eccellenti” e c'è l'Italia della “strategia della tensione”, ci sono boss e neofascisti che si confondono, Cupole invisibili, poteri sporchi che si mischiano per fermare uomini giusti e il cambiamento di un Paese. Il 6 gennaio del 1980, Palermo, l'uccisione di Piersanti Mattarella. Non era solo il Presidente della Regione, era l'uomo politico che più di ogni altro voleva una Sicilia “con le carte in regola” e che più di ogni altro stava raccogliendo l'eredità di Aldo Moro. Uccisi a distanza di un anno e mezzo, a Roma e in Sicilia, apparentemente due vicende lontane ma in realtà una sola vicenda italiana. Sulla sua morte ha indagato a lungo il giudice Giovanni Falcone nel filone dei cosiddetti “delitti politici”, l'assassino del segretario provinciale della Democrazia Cristiana Michele Reina - 9 marzo 1979 - e l'assassinio dell'onorevole Pio La Torre - 30 aprile 1982 -, arrivando al convincimento di una convergenza di interessi fra eversione nera e Cosa Nostra, una connessione che avrebbe portato «alla necessità di rifare la storia di certe vicende del nostro Paese, anche da tempi assai lontani». Parole pronunciate dal giudice in un'audizione della Commissione Parlamentare Antimafia il 3 novembre del 1988 e diventate pubbliche qualche settimana fa grazie alla desecretazione (curata dal pm Roberto Tartaglia, consulente a Palazzo San Macuto) voluta dal presidente Nicola Morra. Giovanni Falcone per l'omicidio di Piersanti Mattarella aveva rinviato a giudizio il capo dei Nuclei Armati Rivoluzionari Valerio “Giusva” Fioravanti e come suo complice Gilberto Cavallini, successivamente assolti tutti e due, come richiesto dalla pubblica accusa di allora, fino in Cassazione. Eppure la “pista nera” è rimasta sempre lì, sospesa. Un paio di anni fa il procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi ha riaperto un fascicolo "atti relativi'' sul caso Mattarella, affidato all'aggiunto Salvatore De Luca e al sostituto procuratore Roberto Tartaglia, che hanno ricominciato a indagare da dove Falcone aveva finito. Dopo tanto tempo l'attenzione si è concentrata sulle informazioni che il giudice avrebbe ricevuto - e proprio sul delitto Mattarella - nei giorni precedenti al fallito attentato dell'Addaura avvenuto il 20 giugno 1989. Falcone in quel periodo aveva ascoltato un testimone che gli avrebbe fornito nuovi elementi sui sicari dell'Epifania palermitana. Ed è appena di un paio di settimane fa la notizia di una perizia su una Colt modello Cobra calibro 38 che collegherebbe l'omicidio di Piersanti Mattarella a quello del magistrato Mario Amato, ucciso il 23 giugno 1980 dai Nar. La stessa pistola per i due delitti. La nostra Rubrica nel quarantesimo anniversario vi ripropone gli atti dell'inchiesta del giudice Falcone “Greco Michele + 18”, nella parte riguardante il delitto Mattarella. L'indagine fu seguita al principio da Pietro Grasso, l'ex Presidente del Senato che il 6 gennaio era sostituto procuratore della Repubblica a Palermo. Il deposito della sentenza ordinanza è datata 9 giugno del 1991 ed è firmata invece da Gioacchino Natoli, uno dei giudici del pool antimafia dell'Ufficio Istruzione di Palermo. Falcone due anni prima era stato nominato procuratore aggiunto e sei mesi prima era volato a Roma, alla direzione degli Affari Penali del Ministero della Giustizia. Il suo ultimo anno di vita, prima di Capaci. A conclusione della serie, dopo l'inchiesta sui “delitti eccellenti”, pubblicheremo anche un estratto dell'ultimo libro del giudice Giuliano Turone, “Italia occulta” (Chiarelettere editore), dedicato all'assassinio del Presidente della Regione. E' il capitolo sul mistero della targa dell'auto utilizzata dai sicari di Mattarella. Una traccia robusta che porta sempre alla "pista nera”. Dopo quarant'anni la domanda è sempre la stessa: chi ha ucciso Piersanti Mattarella? (Hanno collaborato Marta Bigolin, Elisa Boni, Silvia Bortoletto, Sara Carbonin, Ludovica Mazza, Alessia Pacini, Asia Rubbo)

Palermo, 6 gennaio 1980. La Repubblica il 6 gennaio 2020. Alle ore 12.50 del 6 gennaio 1980, l'On. Piersanti MATTARELLA, Presidente della Regione, veniva ucciso con alcuni colpi di arma da fuoco corta mentre - in compagnia della moglie, della madre e dei due figli - stava per uscire da un garage vicino alla sua abitazione, in questa via Libertà, alla guida della sua autovettura, per recarsi ad assistere alla celebrazione della Messa nella chiesa di S. Francesco di Paola. Sul posto interveniva subito il P.M., mentre la Squadra Mobile e il Reparto Operativo CC eseguivano immediatamente numerose perquisizioni ed effettuavano posti di blocco, peraltro senza esito. L'Ufficio di Procura iniziava quindi, fin dai giorni immediatamente successivi al delitto, indagini a vasto raggio, assumendo in esame i familiari ed i più stretti collaboratori dell'uomo politico assassinato. Altre indagini venivano, nel frattempo, espletate dalla Squadra Mobile, dai Carabinieri e dal Nucleo Regionale di Polizia Tributaria; veniva acquisita documentazione relativa ad alcune delle pratiche più importanti trattate dall'On. MATTARELLA e venivano, altresì, disposte perizie balistiche comparative tra i proiettili rinvenuti in occasione del delitto ed altri, sequestrati - in precedenza - in relazione ad taluni omicidi commessi in questa città ed in provincia. Le risultanze di queste investigazioni venivano riferite dalla P.G. con rapporti dell'8 e 10 febbraio, del 14 e del 26 marzo e - da ultimo - del 23 dicembre 1980, con i quali, pur esprimendo il convincimento che l'On. MATTARELLA fosse stato ucciso per bloccare la sua azione di rinnovamento e moralizzazione della vita pubblica, si formulava la conclusione che non era stato possibile identificare né gli autori materiali né i mandanti del gravissimo delitto. In data 24 dicembre 1980, gli atti venivano quindi trasmessi al Giudice Istruttore per la formale istruzione contro ignoti. Durante tale fase venivano, dapprima, continuate ed ampliate le indagini già iniziate dalla Procura della Repubblica, senza che peraltro emergessero elementi utili per la identificazione dei colpevoli. Migliori risultati non sortivano neanche dalle investigazioni compiute dall'Alto Commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa e dal SISDE, secondo quanto riferito con nota del 7.12.1982 (Vol. VII, Fot. 616679). In data 13 dicembre 1982, il Giudice Istruttore del Tribunale di Roma trasmetteva copia delle dichiarazioni rese, il 28 ottobre di quell'anno, da FIORAVANTI Cristiano, il quale, escusso in qualità di testimone da quell'Autorità Giudiziaria, aveva riferito che lui e suo padre, nell'osservare gli identikit degli autori dell'omicidio dell'On. MATTARELLA, pubblicati dagli organi di stampa, avevano notato una notevolissima somiglianza con le fisionomie del di lui fratello VALERIO (già condannato all'ergastolo quale autore di gravissimi delitti e leader riconosciuto del movimento terrorista di estrema destra, Nuclei Armati Rivoluzionari) e di Gilberto CAVALLINI, esponente dello stesso movimento eversivo. A seguito di queste e di altre dichiarazioni di FIORAVANTI Cristiano, l'istruttoria veniva quindi indirizzata, oltre che nei confronti di numerosi esponenti delle cosche mafiose della Sicilia Occidentale, anche nei confronti di alcuni appartenenti ai movimenti eversivi di estrema destra. In tale quadro ed al fine del compimento degli atti istruttori (interrogatori, confronti, perizie balistiche), venivano considerati indiziati di reato: FICI Giovanni, RACCUGLIA Cosimo, MARCHESE Antonio, SINAGRA Vincenzo, SINAGRA Antonino, ROTOLO Salvatore, DI MAIO Vincenzo, GIAMBRONE Vito, FIORAVANTI Valerio, FIORAVANTI Cristiano, MAMBRO Francesca, BELSITO Pasquale, TRINCANATO Fiorenzo, MANFRIN Angelo, SODERINI Stefano, CAVALLINI Gilberto, AMICO Rosaria e DE FRANCISCI Gabriele.

Intanto, a seguito delle dichiarazioni rese al Giudice Istruttore nel corso di altro procedimento penale (maxi-uno) - al quale il presente veniva poi riunito - dai noti BUSCETTA Tommaso e CONTORNO Salvatore, in data 24.10.1984 veniva promossa azione penale, anche in relazione all'omicidio in pregiudizio dell'On. MATTARELLA, contro: CALO' Giuseppe, GRECO Michele, RIINA Salvatore, PROVENZANO Bernardo, SCAGLIONE Salvatore, MADONIA Francesco, GERACI Antonino (n. 1917), GRECO Leonardo, MOTISI Ignazio, DI CARLO Andrea, GRECO Giuseppe fu Nicola, SCADUTO Giovanni e BRUSCA Bernardo.

Nei confronti di tutti costoro veniva emesso mandato di cattura. Il RIINA, il PROVENZANO, lo SCAGLIONE, il GRECO Giuseppe e DI CARLO Andrea restavano latitanti, mentre tutti gli altri imputati respingevano ogni accusa, protestandosi innocenti dei reati loro contestati come esponenti di primo piano nell'ambito di "Cosa Nostra" e, più particolarmente, quali componenti "pro tempore" della "Commissione provinciale" di tale associazione.

Nel corso della ulteriore attività istruttoria, le indagini si svolgevano quindi in una duplice direzione:

- da un lato, veniva sempre meglio precisato, mediante l'escussione di numerosi testimoni e l'acquisizione di altra documentazione, il quadro complessivo in cui si era svolta l'attività politica ed amministrativa del Presidente MATTARELLA;

- da un altro, venivano approfondite, mediante intercettazioni telefoniche, indagini bancarie e patrimoniali, perizie tecniche - e in particolare - balistiche, e, soprattutto, mediante le dichiarazioni di altri imputati che avevano deciso di collaborare con l'Autorità Giudiziaria (CALDERONE Antonino, MARSALA Vincenzo, MARINO MANNOIA Francesco), il  ruolo della "Commissione" e dei singoli imputati nell'ambito di "Cosa Nostra".

- sotto un ultimo profilo, infine, venivano svolte approfondite indagini su FIORAVANTI Valerio e CAVALLINI Gilberto, soprattutto dopo che FIORAVANTI Cristiano aveva dichiarato che il fratello gli aveva confidato di essere stato, insieme al CAVALLINI, l'autore materiale dell'omicidio del Presidente della Regione Siciliana.

In tale contesto, venivano interrogati numerosi esponenti dei movimenti eversivi di destra e venivano acquisiti - ex art. 165 bis c.p.p. abrogato - numerosi atti dai procedimenti penali instaurati contro di loro in varie parti d'Italia. In relazione a tali ulteriori acquisizioni, dopo che il FIORAVANTI Valerio e il CAVALLINI erano stati sottoposti a ricognizione personale da parte della Signora Irma CHIAZZESE, vedova del Presidente MATTARELLA, nonché di altri testimoni oculari del delitto, e ricevuta anche una relazione dell'Alto Commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa (basata su atti istruttori di questo e di altri processi pendenti o definiti presso altre A.G.), nei confronti del FIORAVANTI e del CAVALLINI veniva emesso, in data 19.10.1989, il mandato di cattura n. 393/89. Qualche settimana, inoltre, veniva iniziata azione penale per calunnia continuata nei confronti di PELLEGRITI Giuseppe ed IZZO Angelo, cui il reato veniva contestato con mandato di cattura, in relazione alle dichiarazioni di cui si dirà più diffusamente in appresso. Questi ultimi si protestavano innocenti del reato loro contestato; ugualmente, respingeva ogni accusa NISTRI Roberto, imputato - con mandato di comparizione - del reato di falsa testimonianza, in relazione alle dichiarazioni rese al G.I. il 14 maggio 1986. Quindi, con l'entrata in vigore del vigente c.p.p. (24.10.1989), gli atti dell'omicidio MATTARELLA venivano separati dall'istruttoria comprendente anche altri delitti di "Cosa Nostra" (proc. pen. n. 1817/85 R.G.U.I.) ed assegnati esclusivamente a questo G.I. Infine, dopo l'escussione di numerosi altri testi, anche in ordine ai rapporti tra alcuni degli imputati ed indiziati e i Servizi segreti, gli atti, previa nuova riunione Con quelli relativi agli omicidi REINA e LA'TORRE-DI SALVO, venivano trasmessi al P.M. per le richieste definitive, in relazione: al termine imposto per la definizione dei processi istruiti con il rito formale dall'art. 258, Dec. Legisl. 28 luglio 1989 n. 271. Durante la fase del deposito ex art. 372 c.p.p. abrogato, si costituiva frattanto Andrea DI CARLO (latitante per altra causa), che non veniva interrogato in quanto da prosciogliere per non avere commesso il fatto in ordine a tutte le imputazioni.

La dinamica e le prime indagini. La Repubblica il 7 gennaio 2020. Sulla base delle indagini della Squadra Mobile e del Nucleo Operativo CC di Palermo (v., in particolare, il rapporto in data 9 febbraio 1980) e delle numerose testimonianze acquisite agli atti, la dinamica del delitto può essere così sinteticamente ricostruita.

Il 6 gennaio 1980, come ogni domenica, il Presidente della Regione si accingeva, in compagnia dei suoi familiari, a recarsi alla chiesa di S. Francesco di Paola per assistere alla celebrazione della S. Messa. In tale occasione, come ogni volta che usciva per motivi privati, aveva manifestato la precisa intenzione di non utilizzare la scorta di sicurezza predisposta a cura dell'Ispettorato Generale di P.S. presso la Presidenza della Regione Siciliana.

Alle ore 12,45 circa, l'On. MATTARELLA ed il figlio Bernardo, di venti anni, erano scesi nel garage, sito in fondo ad uno scivolo prospiciente via Libertà e distante dall'abitazione circa 15 metri, per prelevare l'autovettura. Il Presidente effettuava, quindi, la manovra di retromarcia e fermava l'auto sul passo carrabile per consentire alla moglie di prendere posto sul sedile anteriore ed alla suocera di sistemarsi sul sedile posteriore. Frattanto, il figlio si era attardato per chiudere la porta del garage ed il cancello che, dallo scivolo, immette nella strada. Improvvisamente, dal lato sinistro dell'autovettura, che era rimasta con la parte anteriore rivolta verso lo scivolo, si avvicinava un individuo dell'apparente età di 20 - 25 anni, altezza media, corporatura robusta, capelli castano-chiari sul biondo, carnagione rosea, indossante una giacca a vento leggera ("piumino" o "K-way") di colore celeste, il quale, dopo avere inutilmente cercato di aprire lo sportello anteriore sinistro, esplodeva alcuni colpi d'arma da fuoco all'indirizzo dell'On. MATTARELLA, che sedeva al posto di guida. La vittima cadeva riversa sul lato destro e veniva parzialmente coperta dal corpo della moglie, che si era piegata su di lui, appoggiandogli le mani sul capo, nel tentativo di fargli da scudo. Dopo avere esploso alcuni colpi, il giovane killer si avvicinava ad una Fiat 127 bianca sulla quale si trovava un complice armato, col quale parlava qualche attimo in modo concitato e da cui riceveva un'altra arma con la quale tornava a sparare contro il Presidente MATTARELLA, peraltro già accasciatosi sul sedile dell'auto, dal finestrino posteriore destro della FIAT 132. In tale ultima occasione feriva anche la signora Irma CHIAZZESE, china sul corpo del marito. I due assassini si allontanavano poi a bordo della FIAT 127 bianca, che veniva ritrovata, verso le ore 14.00, poco distante dal luogo del delitto, abbandonata lungo lo scivolo di un garage di via Maggiore De Cristoforis, angolo via degli Orti.

Nella parte interna dello sportello sinistro dell'auto, sottostante al vetro, veniva evidenziato un frammento di impronta debitamente repertata ma risultata non utile per confronti.

Al momento del rinvenimento, sulla FIAT 127 erano montate targhe contraffatte: la targa anteriore era composta da due pezzi, rispettivamente "54" e "6623 PA"; quella posteriore da tre pezzi, rispettivamente "PA", "54" e "6623". Questi ultimi due segmenti presentavano, superiormente, del nastro adesivo di colore nero, posto per meglio trattenerli alla Carrozzeria. La FIAT 127 risultava sottratta, verso le ore 19,30 del precedente giorno 5 gennaio, a FULVO Isidoro, che l'aveva momentaneamente parcheggiata, in seconda fila e con le chiavi inserite nel quadro, in via questa De Cosmi. Le targhe originali dell'auto (PA 536623) erano state alterate, come si è detto, mediante l'applicazione degli spezzoni delle targhe PA 549016, asportate (dopo le 23.00 dello stesso giorno 5 gennaio) dalla FIAT 124 di VERGA Melchiorre, posteggiata in via delle Croci. Non venivano ritrovate le altre parti delle targhe delle due auto (PA - 53 - 0916), non utilizzate per le alterazioni di cui si è detto. Risultava quindi, e veniva evidenziato nel rapporto di P.G., che i luoghi dell'agguato, dei furti (della FIAT 127 e delle targhe della FIAT 124) e del rinvenimento della FIAT 127 distavano poche centinaia di metri l'uno dall'altro. Non emergevano elementi sicuri sulle modalità di abbandono della FIAT 127, anche se un teste (TESTAIUTI Costanzo) riferiva che l'auto avrebbe preso - lungo lo scivolo di via delle Croci - il posto di una vettura più piccola di colore verde, vista lì poco prima delle 12,00.

Un altro teste (MODICA Pietro) riferiva che, sempre poco dopo mezzogiorno, nei pressi dello scivolo erano transitati due giovani a bordo di una moto di grossa cilindrata.

Altri testimoni riferivano, ancor più genericamente, che nei pressi del luogo dell'agguato erano state notate, la mattina del 6 gennaio o nei giorni precedenti, una JAGUAR rosso amaranto targata ROMA ed una LAND ROVER verde targata CT.

Nell'arco dello stesso giorno, 6 gennaio, l'omicidio veniva rivendicato con quattro contraddittorie telefonate.

La prima giungeva all'ANSA alle 14.45: "Qui Nuclei Fascisti Rivoluzionari. Rivendichiamo l'attentato dell'On. MATTARELLA in onore dei caduti di via Acca Larentia".

La seconda giungeva al Corriere della Sera alle 18.48: "Qui Prima Linea. Rivendichiamo esecuzione MATTARELLA che si è arricchito alle spalle dei terremotati del Belice".

La terza telefonata perveniva alla Gazzetta del Sud di Messina alle 19.10: "Qui Brigate Rosse. Abbiamo giustiziato MATTARELLA. Segue comunicato".

La quarta ed ultima giungeva al Giornale di Sicilia alle 21.40: "Qui Brigate Rosse. Abbiamo giustiziato l'On. MATTARELLA. Mandate subito tutta la gente nelle cabine telefoniche di Mondello. Troverete il ciclostilato delle B.R.".

Ma, in realtà, il ciclostilato non veniva rinvenuto. Subito dopo il delitto e nei giorni successivi, gli organi di P.G. controllavano i movimenti e gli alibi di giovani appartenenti a movimenti estremisti di destra e di sinistra, di pregiudicati e di persone segnalate come somiglianti all'identikit dell'assassino, del quale i presenti avevano notato "un accenno di sogghigno che aveva sulle labbra nonché il contrasto tra i lineamenti del volto, che erano gentili, e lo sguardo che era spietato, così come il comportamento era stato di calma glaciale anche al momento di esplodere il colpo di grazia. Venivano inoltre eseguite, senza esito positivo, intercettazioni telefoniche e molte decine di perquisizioni domiciliari.

Così riassunte le risultanze delle indagini per quanto concerne la ricostruzione della dinamica del delitto, è opportuno ricordare a questo punto anche le conclusioni delle numerose perizie balistiche che sono state espletate nel corso dell'istruzione, al fine di verificare se le armi usate dagli assassini del Presidente MATTARELLA siano state utilizzate in occasione di altri delitti. Prima, però, giova riportare le conclusioni della perizia autoptica eseguita sul cadavere di Piersanti MATTARELLA.

I periti (prof. Paolo GIACCONE e dott. Alfonso VERDE) hanno così sintetizzato l'esito dei loro accertamenti: "Santi MATTARELLA venne a morte per lesioni dei visceri toraco-addominali da proiettili per armi da fuoco a canna corta. Nel cadavere si sono rinvenuti tramiti attribuibili ad almeno sei diversi proiettili (di cui cinque sono rinvenuti in corso di autopsia ed uno è stato rinvenuto al pronto soccorso nello spogliare la vittima); una lesione in sottomandibolare sinistra, apparentemente da striscio, è attribuibile sia a un settimo proiettile sia allo stesso proiettile che poi è penetrato in emitorace anteriore destro. Tre dei proiettili (tutti di piombo nudo a punta piatta) sono stati esplosi dalla sinistra verso destra della vittima e quasi orizzontalmente, mentre il MATTARELLA era seduto alla guida della propria autovettura. Gli altri tre proiettili hanno avuto direzione compatibili con una particolare posizione della vittima (rannicchiato in decubito laterale destro). La negatività della ricerca delle polveri sugli indumenti in corrispondenza degli orifici in emitorace anteriore destro e alla manica sinistra è compatibile con l'ipotesi che i relativi colpi furono esplosi quando i finestrini laterali dell'autovettura erano ancora chiusi e non frantumati; sugli altri tre orifici, esistenti sugli indumenti ed attribuibili ad entrata di proiettile, la positività della ricerca delle polveri indica che i rispettivi colpi furono esplosi entro il limite di cm. 40-45 fra bocca dell'arma e superficie del bersaglio".

Quanto invece agli accertamenti balistici veri e propri, è opportuno riportare le conclusioni della perizia eseguita nell'ambito del procedimento penale contro ABDEL AZIZI Afifi ed altri, (c.d. maxi-bis) e che ha preso in esame pressoché tutti i reperti balistici relativi a delitti di stampo mafioso disponibili fino alla data di conferimento dell'incarico (18.2.1986). I periti di Ufficio (MORIN, ARNETI, SCHIAVI LOMBARDI e STRAMONDO) hanno così concluso: "Per l'omicidio ai danni di Piersanti MATTARELLA sono stati usati due revolvers, probabilmente un Colt Cobra e una Rohm oppure un Charter Arms, utilizzando munizioni calibro 38 special con palla Wadcutter e palla Super Police da 200 grammi. Dalle comparazioni effettuate non sembra che le armi in questione siano state utilizzate in altri episodi delittuosi. In particolare sono state negative anche le comparazioni con i reperti relativi all'omicidio ai danni di SERIO Giovanni".

Per questi, invece, una precedente perizia aveva ritenuto che fossero state usate le stesse armi adoperate dai killers del Presidente MATTARELLA (cfr. Vol. LXX, anche per un elenco dettagliato dei delitti cui si riferiscono i reperti balistici sottoposti ad esame comparativo). Gli accertamenti balistici, originariamente limitati ai reati commessi nel palermitano e comunque riconducibili all'attività di "Cosa Nostra", sono stati poi estesi a tutto il territorio nazionale (Fot. 908234-236 e 917573 e segg.) con particolare attenzione, naturalmente, alla posizione di FIORAVANTI Valerio. A proposito di quest'ultimo, si deve qui ricordare che le armi sequestrate al FIORAVANTI al momento del suo arresto non erano state certamente, usate per l'omicidio del Presidente MATTARELLA (cfr. perizia depositata il 15.3.1985, Fot. 618122). Infine, poiché l'identikit dell'autore dell'omicidio di Valerio VERBANO (commesso in Roma il 20.2.1980 e riconducibile a fatti di terrorismo politico, come poi si vedrà) presentava marcate analogie con la descrizione dell'assassino del Presidente MATTARELLA, è stata altresì disposta, nel 1990, una perizia per accertare: "le modalità di silenziamento della pistola Beretta 7,65 con silenziatore rinvenuta in occasione dell'omicidio VERBANO" e per verificare "se dette modalità siano riconducibili o meno a quelle descritte nei loro interrogatori di FIORAVANTI Valerio e FIORAVANTI Cristiano".

L'accertamento ha però avuto esito negativo per le marcate discordanze esistenti tra le due modalità di silenziamento, cosicché si deve piuttosto ritenere che il silenziatore usato per l'omicidio VERBANO "non sia stato fabbricato da Valerio FIORAVANTI" (cfr. perizia FARNETI, Fot. 918220 Vol. LXIV). Per quanto riguarda, infine, le indagini per la identificazione degli autori materiali del delitto, è necessario fare rinvio a quel che si dirà in seguito, nel corso della presente sentenza-ordinanza, circa la posizione degli imputati FIORAVANTI Giuseppe Valerio e CAVALLINI Gilberto (v. infra) nonché in ordine alle dichiarazioni autoaccusatorie di GALATI Benedetto.

Si deve, invece, qui accennare al fatto che il dr. NICOLICCHIA, che nel 1980 ricopriva l'incarico di Questore di Palermo, ritenne di ravvisare una certa somiglianza tra l'identikit dell'autore dell'omicidio del Presidente MATTARELLA e le sembianze di INZERILLO Salvatore (n. a Palermo il 28.3.1957), già sospettato di essere l'autore dell’assassinio del dr. Gaetano COSTA, Procuratore della Repubblica di questa città, ucciso la sera del 6 agosto 1980 (ma recentemente assolto dalla Corte di Assise di Catania con formula ampia, dopo essere stato catturato all'estero ed estradato dagli U.S.A.). Sulla base di questa sensazione, il dr. NICOLICCHIA incaricò il Dirigente della Criminalpol, dr. Bruno CONTRADA, di mostrare le foto dell'INZERILLO alla signora Irma CHIAZZESE, vedova MATTARELLA. A tal fine, il dr. CONTRADA si recò a Londra, dove la signora CHIAZZESE si trovava nell'estate 1980, ma la donna non ravvisò alcuna somiglianza tra le foto dell'INZERILLO e l'uomo che – a pochi metri da lei – aveva sparato al Presidente della Regione. Esito negativo ebbe, peraltro, anche un successivo atto (informale) di riconoscimento fotografico che la signora CHIAZZESE venne invitata a fare, qualche tempo dopo, a Palermo, dallo stesso Questore NICOLICCHIA (cfr., sul punto le dichiarazioni della Signora CHIAZZESE, del dr. CONTRADA e dell’on. Sergio MATTARELLA, nonché il rapporto della Squadra Mobile in data 8.10.1980). Va inoltre aggiunto che la Signora CHIAZZESE non ha mai ravvisato somiglianze con l’autore dell’assassinio del marito nelle foto dei numerosissimi appartenenti a “Cosa Nostra” che le sono state mostrate in più occasioni sia dal Giudice Istruttore sia dagli organi di p.g. (v., in proposito, riassuntivamente le dichiarazioni rese al G.I. l’8.8.1986, Fot. 646412-646416 Vol. XXIII).

La ricerca del movente. La Repubblica l'8 gennaio 2020. Fin dai primissimi giorni il P.M. e gli Uffici di P.G., così come successivamente anche il Giudice Istruttore, hanno compiuto ogni tentativo per accertare nel modo più ampio e completo quali fossero le principali questioni di cui si fosse occupato il Presidente MATTARELLA, pur nella consapevolezza che la decisione di compiere un delitto così grave difficilmente può trovare origine in un singolo atto amministrativo o politico, ma piuttosto in una valutazione (di natura criminale) più articolata e complessa. A tal fine, sono stati assunti in esame i familiari ed i collaboratori del Presidente MATTARELLA, gli assessori e i principali funzionari regionali in carica nel gennaio 1980 e numerosi altri esponenti politici siciliani appartenenti sia alla Democrazia Cristiana sia ad altri partiti. Appare, quindi, opportuno esporre qui queste risultanze con riferimento ad alcune delle principali questioni affrontate dal Presidente MATTARELLA e - subito dopo - riassumere sinteticamente il quadro della situazione politica in cui si inserì l'azione dell'ucciso. Infatti, solo in relazione a questa si possono meglio comprendere la reale portata ed il valore, anche solo emblematico, di certe decisioni ed atti che, singolarmente valutati, potrebbero sembrare quasi irrilevanti.

IL C.D. "VERDE TERRASI". In data 12 gennaio 1980, l'avv. Antonino MATTARELLA, dopo aver premesso di aver avuto sempre contatti piuttosto rari con il fratello Piersanti, perché il suo lavoro di professionista e di docente universitario si svolgeva fuori dalla Sicilia, riferiva di avere avuto occasione una sola volta, in tempi recenti, di interessare il congiunto, richiedendone un qualche intervento presso uffici della Pubblica Amministrazione. Riferiva, in particolare, che un importante operatore immobiliare romano, il rag. Angelo PIPERNO, da lui conosciuto per motivi professionali, gli aveva detto che - nonostante ripetute sentenze a lui favorevoli rese dai giudici amministrativi - non riusciva ad ottenere che il. Comune di Palermo rilasciasse le concessioni edilizie relative ad un'area sita all'incrocio tra via Lazio e via Campania, che egli aveva acquistato dagli eredi TERRASI. Il PIPERNO gli aveva riferito anche di avere inutilmente interessato a tal fine il dr. Carmelo MANTIONE (Assessore Comunale) e il dr. Michele REINA (segretario provinciale della D.C.) e che nei suoi rapporti con il TERRASI e con il Comune si erano verificati episodi poco chiari, a volte di tenore minaccioso, a volte nel senso che sembrava gli venisse richiesto il pagamento di "tangenti", nonostante che il rilascio delle concessioni fosse, per il Comune, un atto dovuto. L'Avv. Antonino MATTARELLA aggiungeva, infine, che aveva fatto avere al fratello un promemoria predisposto dal PIPERNO, ma che non era in grado di dire quale esito avesse avuto tale iniziativa; probabilmente aveva avuto- solo una risposta interlocutoria o l'assicurazione che sarebbe stato interessato l'Assessore competente (Fot. 614773, Vol. I).

Veniva, quindi, assunto in esame il PIPERNO, il quale, in data 19.1.20, riferiva testualmente: "Fin dai primi mesi del 1978 ho avuto delle trattative, previo un incontro con il Prof. Aldo TERRASI, per l'acquisto del terreno di sua proprietà sito tra via Brigata Verona – via Sciuti e viale Lazio. Nel maggio 1978 stipulammo un contratto soggetto alla condizione sospensiva che il Comune rilasciasse la concessione edilizia entro gg. 180 con facoltà di rinnovo per un eguale periodo. Successivamente, diedi incarico di intraprendere tutte le possibili azioni legali in via amministrativa al Prof. Guido CORSO, genero del Prof. Aldo TERRASI, che aveva già difeso la società ESIONE nei precedenti giudizi. Contemporaneamente, intrapresi una linea che può definirsi politica, nel senso di contattare taluni uomini politici per agevolare l'iter della pratica, considerato anche che la concessione della licenza edilizia dopo il giudicato amministrativo era un atto dovuto per il Comune. Presi contatti quindi con il Dr. MANTIONE, che io conoscevo perché mio inquilino dell'immobile di via Emerico Amari e che allora era, se non ricordo male, assessore comunale all'urbanistica. In maniera generica, il MANTIONE mi diceva che avrebbe studiato la pratica e che in seguito avrebbe riferito. Dopo che quest'ultimo divenne sindaco, gli ho telefonato talvolta, ma avendo capito che avrei perso il mio tempo, ho rallentato le pressioni, cercando di rivolgermi ad altre persone. Per ottemperare alla stessa esigenza, approfittando del fatto che il partito della D.C. occupa al 6° piano dell'immobile di via E. Amari locali di mia proprietà e che c'era una controversia giudiziale in atto in materia di sfratto, presi contatto, il 5.2.1979, se non ricordo male, con il Segretario Prov.le del citato partito, Dr. REINA Michele. Esposi le mie ragioni e mi resi conto che il REINA conosceva perfettamente la questione ed era anche preparato sul piano urbanistico; egli mi disse inoltre che avevo ragione e che però la situazione politico-ambientale non consentiva una facile decisione in materia, ma che egli avrebbe contattato i diversi gruppi. Non ricordo se REINA o MANTIONE disse che problemi come questo potevano fare cadere la giunta. Il REINA mi promise che successivamente mi avrebbe riferito sulle possibilità di risolvere il problema. Il colloquio con quest'ultimo si svolse a quattr'occhi. Fui introdotto nella stanza della Direzione Prov.le della D.C. ed ivi trovai soltanto il Dr. REINA. Il Dr. MANTIONE era a conoscenza che avrei parlato con REINA e probabilmente è stato proprio lui ad indirizzarmi al REINA, prendendomi addirittura l'appuntamento. Mi sembra di ricordare che ho parlato telefonicamente con il Dr. MANTIONE, chiedendogli notizie. Egli sicuramente mi avrà dato delle informazioni di poco conto o interlocutorie, dato che non ne ho un preciso ricordo. Dopo la morte di REINA, avendo prima conosciuto per una controversia l'Avv. Antonino MATTARELLA, avendo appreso dallo stesso che era fratello del Presidente della Regione, lo pregai di presentarmi al fratello e nel contempo gli inviai un promemoria da fare avere al Presidente. Frattanto l'Avv. CORSO, seguendo la linea legale, aveva più volte diffidato il Comune ad adempiere e, trascorso il termine di gg. 60, aveva notificato alla Regione, credo all'Assessorato all'ambiente e al territorio, una istanza tendente a provocare la nomina di un Commissario "ad acta", che avvalendosi dei poteri sostitutivi dell'assessore rilasciasse la concessione edilizia. Tale notifica dovrebbe essere avvenuta nell'aprile del 1979. Il 12.5.1979 riuscii ad ottenere un colloquio con il Presidente MATTARELLA, che era venuto a Roma per far da padrino alla cresima di un figlio del fratello. Tale incontro avvenne alle ore 20 presso lo studio romano del fratello Antonino. Il Presidente MATTARELLA, al quale feci le mie rimostranze per le omissioni del Comune, mi disse che avevo ragione, ma che comunque non si trattava di questioni di sua diretta competenza, ma piuttosto dell'assessore agli Enti Locali che avrebbe curato di interessare alla questione. Credo di ricordare che successivamente a detto colloquio, che durò pochi minuti, inviai al fratello Antonino alcuni documenti e memorie in copia perché li inoltrasse al Presidente. Tramite l'Avv. Antonino MATTARELLA, riuscii ad ottenere un appuntamento con l'assessore al territorio On. FASINO per il giorno 3.7.1979 alle ore 11,00. A detto incontro erano presenti uno o due funzionari, che mi sono stati presentati come tecnici, ma di cui non ricordo i nomi. Rappresentai all'assessore le mie lagnanze per le palesi omissioni di atti dovuti da parte del Comune lasciandogli, se non ricordo male, un promemoria e le copie dell'esposto già presentato. Egli mi disse che si sarebbe interessato alla questione, ma successivamente non ho avuto più alcuna notizia" (cfr. Fot. 614889 Vol. I). Il PIPERNO esponeva poi, dettagliatamente, l'ulteriore evolversi dei suoi rapporti con il TERRASI ed altri imprenditori, da una parte, e con gli uffici comunali, dall'altra. Tali rapporti, che - come si è già accennato – presentavano aspetti poco chiari, hanno formato oggetto di indagini, con l'acquisizione anche di tutta la documentazione amministrativa, in esito alle quali la Squadra Mobile ed il Nucleo Operativo C.C. segnalarono alla Procura della Repubblica, con nota del 10.2.1980, la possibilità che nella condotta di alcuni funzionari del Comune di Palermo potessero ravvisarsi i reati di omissione di atti di ufficio e di peculato per distrazione. Tali ipotesi di reato hanno, peraltro, formato oggetto di altro procedimento penale, a seguito di separazione degli atti disposta da questo Ufficio con decreto del 13.2.1980 (Fot. 615066, Vol. II). Quel che occorre invece rilevare in questa sede è che l'intervento dell'On. MATTARELLA fu limitato a procurare al PIPERNO un appuntamento con l'Assessore Regionale al Territorio, on. FASINO, ed i suoi funzionari, al fine di illustrare le sue doglianze. Peraltro a tale incontro non fece seguito alcuna iniziativa concreta, come già detto dal PIPERNO e come risulta pure dalle dichiarazioni dello stesso On. Mario FASINO: "Alcuni mesi fa, sicuramente prima dell'estate, il Presidente MATTARELLA mi chiese di ricevere un avvocato romano che curava gli interessi della società che aveva rilevato il terreno "ex TERRASI", sito tra viale Campania - viale Lazio e via Brigata Verona, perché sentissi quali erano le sue richieste. Io ebbi tali colloqui ed invitai il predetto legale a mandarmi la documentazione concernente la questione comprensiva delle sentenze amministrative che l'avevano caratterizzato. Io riferii l'esito del colloquio al Presidente ma successivamente egli non mi richiese più alcuna notizia. In atto la situazione è immutata, nel senso che io non mi sono adoperato in alcun modo nei confronti del Comune o degli interessati" (cfr. Fot. 614787 Vol. I).

Appare quindi da escludere, come è del resto opinione sia dei familiari del Presidente assassinato sia degli Uffici di P.G. (v. rapporto del 23.12.1980, Vol. IV), che l'interessamento dell'On. MATTARELLA alla "vicenda TERRASI" abbia potuto in alcun modo costituire valida causale del gravissimo delitto.

L'inchiesta sui Lavori Pubblici. La Repubblica il 9 gennaio 2020. Fin dalle prime dichiarazioni, rese nell'immediatezza del delitto, i collaboratori del Presidente MATTARELLA hanno evidenziato che alcune delle questioni che più lo avevano impegnato e preoccupato nelle ultime settimane di vita erano ricollegate alle vicende dell'Assessorato Regionale dei Lavori Pubblici, il cui titolare, On. Rosario CARDILLO (PRI), si era dimesso, dopo essere rimasto. coinvolto in una indagine giudiziaria a Firenze per il ritrovamento di una sua valigetta contenente molto denaro. Così, per esempio, il Dr. Felice CROSTA, vice-capo di gabinetto ed amico personale dell'On. MATTARELLA, ha dichiarato il 10.1.1980 (Fot. 614603, Vol. I): "Per quanto concerne l'attività del Presidente MATTARELLA devo dire che, a parte le iniziative legislative, egli ha effettuato delle rilevanti inchieste nel campo della pubblica amministrazione. In particolare, allorché dall'Assessore CARDILLO furono presentate le dimissioni, egli immediatamente assunse ad interim l'Assessorato ai Lavori Pubblici e quindi portò alla valutazione dell'Assemblea le predette dimissioni. Ricordo che in sede assembleare il CARDILLO sostenne la tesi che si era dimesso dall'incarico affidatogli ai LL.PP. ma non da Assessore, per cui avrebbe dovuto partecipare come tale alle riunioni di Giunta. Il Presidente e l'Assemblea vennero messi in difficoltà da questo atteggiamento e solamente dopo la sospensione di alcune ore, l'On. CARDILLO si decise a rassegnare in maniera completa le dimissioni. In quella stessa seduta, poiché il Partito Repubblicano non era pronto alla designazione di un nuovo assessore, si rinviò tale nomina ad altra data. Allorché l'On. MATTARELLA assunse l'Assessorato ai LL.PP. lasciò immutato il precedente Gabinetto, provvedendo soltanto a nominare il direttore regionale Dr. GIAMBRONE, capo Gabinetto, e provvedendo, inoltre, a disporre un'ispezione in ordine ad una lamentata differenza che si era verificata nella realizzazione di una opera pubblica in un Comune, forse S. Giovanni Gemini, rispetto al programma deliberato dalla Giunta Regionale. Successivamente, un esponente del Gabinetto, tale Cafiero RENDA, se non ricordo male, non fece più parte del Gabinetto dei LL.PP. In seguito il Presidente nominò una Commissione ispettiva per indagare sull'attività dell'Assessore CARDILLO. A seguito di precisa richiesta da parte del predetto, nominò a tale veste funzionari esperti e capaci che garantissero un normale sviluppo dell'inchiesta. La relazione che ne seguì venne poi trasmessa all'assessore per i LL.PP. ed unitamente all'esito di altre ispezioni al Presidente dell'Assemblea Regionale, che ne aveva fatto esplicita richiesta per la Commissione d'inchiesta nominata dall'Assemblea Regionale". La esatta portata dell'iniziativa disposta dal Presidente MATTARELLA emergeva ancor meglio dalle dichiarazioni del Dr. Alessandro MIGLIACCIO, direttore Regionale agli Enti Locali e incaricato, insieme ad altri funzionari, di procedere all’ispezione straordinaria presso l'Assessorato ai Lavori Pubblici. Il Dr. MIGLIACCIO, dopo aver riferito che il Presidente MATTARELLA dispose che l'ispezione amministrativa avesse corso nonostante l'Assemblea Regionale avesse già nominato una commissione d'inchiesta sull'operato dell'Assessore CARDILLO (Fot. 614878, Vol. I), ha poi riferito: "Nella nostra relazione noi prendemmo in esame tutte le opere realizzate con i finanziamenti dell'Assessorato ai Lavori Pubblici. La relazione si occupa, in modo particolare, delle cosiddette opere dirette, cioè di quelle opere in cui l'assessorato interveniva, non soltanto con la provvista di fondi, ma anche con gli appalti.

A D.R. La relazione dell'inchiesta da noi redatta, che supera le 460 pagine, metteva in particolare evidenza l'ampiezza dei poteri decisionali che l'Assessore CARDILLO si era attribuito nella scelta delle ditte da invitare fra quante avessero richiesto di essere invitate. In particolare, fu rilevato che nell'elenco delle ditte figurava l'annotazione di pugno di un impiegato, Cafiero RENDA, delle ditte da invitare. Apparentemente la scelta era regolare. Senonché, ad una valutazione più approfondita, emerse un "riaccorpamento" di imprese tra di loro collegate e addirittura della stessa impresa che era inscritta all'albo sotto diversa denominazione. Noi pervenimmo a questa conclusione per il motivo che le lettere delle ditte che chiedevano di essere invitate erano scritte dalla stessa macchina da scrivere e presentavano gli stessi errori di dattilografia erano presentate da ditte che avevano differenti ragioni sociali ma identico recapito. Risultavano, pure, dagli esami degli elenchi, tutti allegati in fotocopia alla relazione, casi di partecipazione massiccia di ditte aventi tutte la sede nel Comune di San Giuseppe Jato". L'importanza che lo stesso On. MATTARELLA attribuiva a queste vicende risulta chiaramente da varie dichiarazioni. Così il fratello, On. Sergio MATTARELLA, ha riferito in proposito (cfr. Fot. 614749 Vol. I): "Allorché l'Assessore ai LL.PP. CARDILLO presentò una lettera, peraltro diretta personalmente a mio fratello e non al Presidente dell'Assemblea, come dovuto, con la quale rassegnava le dimissioni dall'incarico conferitogli ai LL.PP., dimissioni non espressamente dichiarate irrevocabili, mio fratello immediatamente, previa rapida consultazione con la Corte dei Conti, considerò operanti ed efficaci tali dimissioni ed assunse "ad interim" l'Assessorato ai LL.PP. In tale sua veste allontanò dal Gabinetto del suddetto assessorato un funzionario nel quale non riponeva alcuna fiducia e nominò come capo del Gabinetto il direttore regionale GIAMBRONE. Successivamente, allorché si discussero in assemblea le dimissioni di CARDILLO, questi sostenne che non si era dimesso come assessore ma soltanto come incaricato del ramo dei LL.PP. che pertanto tutte le sedute di Giunta alle quali non era stato invitato dovessero considerarsi invalide. Per superare tale ostacolo mio fratello minacciò le dimissioni dell'intera Giunta nel caso in cui il CARDILLO non avesse confermato in maniera inequivocabile le proprie dimissioni. Dopo una sospensione dell'Assemblea riuscì ad ottenere dette dimissioni. Sempre nell'ambito dei LL.PP. mio fratello richiese un elenco dei funzionari che normalmente venivano nominati per i collaudi di nomine pubbliche, incarichi che notoriamente costituivano fonte di notevoli introiti che a quanto pare erano affidati sempre alle medesime persone. Pertanto, non so in quale modo, egli cercò di modificare "l'andazzo"".

Anche la dott.ssa Maria Grazia TRIZZINO, capo di gabinetto del Presidente assassinato ha detto: "Il Presidente MATTARELLA non ha autonomamente preso iniziative inerenti alla sua funzione in relazione all'inchiesta amministrativa sull'operato dell'Assessore ai LL.PP. CARDILLO. Infatti, fu questo ultimo ad inviare una lettera con la quale sollecitava tale richiesta. Tale fatto venne portato in Giunta, la quale deliberò di incaricare il Presidente, per la nomina di una commissione. La scelta dei funzionari venne fatta dall'On. MATTARELLA con molta oculatezza, in quanto scelse dei funzionari che avevano competenze in materia ispettiva ed in materia di appalti di opere pubbliche, ponendo a capo della stessa un direttore regionale tra i più giovani che desse il massimo affidamento. Tale commissione ha ultimato i suoi lavori di recente depositando una relazione che è stata trasmessa in copia all'Assemblea Parlamentare Regionale per l'inoltro alla commissione nominata in relazione al "caso CARDILLO"". Ancora più significativa è poi la dichiarazione dell'On. Michelangelo RUSSO, esponente di primo piano del P.C.I. in Sicilia e, a quell'epoca, Presidente dell'Assemblea Siciliana.

L'On. RUSSO ha infatti riferito: "Il Presidente non mi parlò mai di minacce, però, qualche volta, parlando con me, dopo aver compiuto degli atti amministrativi di un certo rilievo, con tono preoccupato ebbe a dirmi: «forse me la faranno pagare». Queste espressioni uscirono dalla sua bocca quando, di ritorno da Catania dopo la visita del Presidente della Repubblica, ebbe ad accennare ai suoi interventi presso il Comune di Palermo per la questione degli appalti per la costruzione degli edifici scolastici e presso l'Amministrazione Regionale per la questione relativa ai funzionari collaudatori.

A D.R. Con riferimento ai due episodi testé riferiti, non fece mai dei nomi. Altra volta che io notai il Presidente preoccupato fu quando si discusse il caso CARDILLO" (Fot. 617131 Vol. IX). In proposito si deve aggiungere che, oltre ad acquisire tutte le relazioni cui si è fatto riferimento, sono state anche disposte indagini sul tema dei collaudi assegnati a funzionari regionali e sulle iniziative assunte in proposito dall'On. MATTARELLA. Le risultanze di tali indagini sono state esposte dalla Squadra Mobile e dal Nucleo Operativo dei Carabinieri nel rapporto in data 23.12.1980 (Fot. 616002 e segg. Vol. IV), le cui conclusioni possono essere testualmente riportate: "Il Presidente aveva avuto modo di recepire malcontenti e lamentele da parte di quei funzionari regionali, la stragrande maggioranza di essi, ai quali non erano stati mai affidati collaudi di opere pubbliche. L'assegnazione dei collaudi comporta infatti per gli assegnatari grossi guadagni, essendo il compenso ragguagliato percentualmente alla entità dell'opera eseguita. Il Presidente si proponeva di inserire in un disegno di legge di riforma dell'Amministrazione Regionale una normativa che sancisse l'assegnazione dei collaudi soltanto a tecnici qualificati, quali i funzionari del Genio Civile e del Provveditorato alle Opere Pubbliche. Si sarebbe evitato così la grossa disparità di trattamento economico nella categoria dei funzionari regionali, cioè tra quelli assegnatari di collaudi, una minima parte, e tutti gli esclusi. Tale inchiesta, come le altre che hanno formato oggetto dei precedenti rapporti, evidenzia la serietà e qualità degli intenti con i quali l'On. MATTARELLA aveva improntato la sua azione di Governo" (Fot. 616005 Vol. IV). Gli organi di P.G. hanno poi escluso, sul piano logico, la possibilità che questi atti amministrativi possano essere stati, di per sé soli, la causa del gravissimo delitto, ma hanno pure esattamente sottolineato che «gli accertamenti disposti dall'On. MATTARELLA per conoscere i nominativi dei funzionari regionali preposti ai collaudi di opere pubbliche sono da considerare parte integrante di un corretto esercizio di controllo politico-amministrativo dei vari componenti la Giunta Regionale … L'indagine conoscitiva tradiva chiaramente un intento innovatore e moralizzatore nella prassi che si era consolidata… ».

La mafia e l'incontro con il ministro Rognoni. La Repubblica il 10 gennaio 2020. Un altro dei temi emersi come essenziali, perché ritenuto dallo stesso Presidente MATTARELLA di tale importanza da poter provocare contro di lui le reazioni più gravi, è stato quello dell'incontro da lui avuto, nell'ottobre 1979, con l'On. Virginio ROGNONI, a quel tempo titolare del Ministero dell'Interno. Anche a questo proposito è opportuno riportare testualmente quanto emerge dagli atti processuali. La prima sommaria indicazione emerge dalle dichiarazioni rese, il giorno 11 gennaio 1980, dall'On. Sergio MATTARELLA (Fot. 614745, Vol. I):

"A fine settembre del 1979, mio fratello mi partecipò che intendeva parlare con il Ministro ROGNONI perché rivolgesse la sua attenzione sul Comune di Palermo. Penso che su tale punto potrebbe fornire utili indicazioni l'attuale Ministro degli Interni nel caso in cui mio fratello sia riuscito ad avere un colloquio".

L'importanza dell'incontro, quale occasione per richiedere «un intervento ben preciso dello Stato per risolvere i problemi della Sicilia in relazione alla criminalità dilagante» veniva confermata anche nelle testimonianze degli On.li D'ACQUISTO e NICOLETTI, il quale ultimo sottolineava peraltro che «il Presidente MATTARELLA non aveva rivelato nemmeno in Assemblea il contenuto dettagliato delle discussioni avute con il Ministro ROGNONI». L'On. Sergio MATTARELLA ritornava sul tema, in occasione della testimonianza resa al Giudice Istruttore il 16 gennaio 1981 (Fot. 617059, Vol. IX): "Dopo l'uccisione dell'On. Cesare TERRANOVA, mio fratello, parlando con me, mi disse che aveva intenzione di chiedere un colloquio al Ministro ROGNONI per parlargli della situazione di Palermo, che era insostenibile quanto alle infiltrazione ed alle influenze mafiose, per chiedergli un'azione più decisa e più attenta del Ministro degli Interni. Dell'argomento non mi parlò più. Però, dopo la sua morte, avendo esaminato la sua agenda, ho potuto rilevare che egli ebbe delle conversazioni telefoniche con il Ministro dell'Interno e che verosimilmente a Roma, in occasione di uno dei suoi viaggi, si sia incontrato con il Ministro. Con il Ministro ROGNONI, comunque, si era incontrato a Palermo quando fu organizzato in Prefettura, ad iniziativa di mio fratello, un incontro del Ministro ROGNONI, con mio fratello e i responsabili locali dell'ordine pubblico".

Va chiarito che, in occasione di questa riunione, tenuta in Prefettura sull'ordine pubblico il 10 ottobre 1979, il Presidente MATTARELLA fece un intervento particolarmente significativo per la lucidità dell'analisi e per la precisione delle proposte formulate (cfr. verbale in Vol. V), così da far condividere in pieno quanto affermato dal Presidente dell'Assemblea Regionale, On. Michelangelo RUSSO, secondo cui: «rileggendo tutti i discorsi fatti dall'On. MATTARELLA a partire dal suo incarico presidenziale, si denota un crescendo nella condanna della violenza della mafia in particolare».

Solo in data 10 aprile 1981, la Dr.ssa Maria Grazia TRIZZINO, principale collaboratore del Presidente MATTARELLA perché suo capo di Gabinetto, si presentava al Giudice Istruttore e dichiarava al riguardo (Fot. 617153 Vol. IX): "Verso la fine di ottobre del 1979, il Presidente MATTARELLA, di rientro da Roma con l’aereo del primo pomeriggio, venne direttamente alla Presidenza; contrariamente alle sue abitudini, non era passato da casa sua. Appena in ufficio, mi chiamò personalmente senza ricorrere all'usciere e, con aria molto grave, mi disse testualmente: «le sto dicendo una cosa che non dirò né a mia moglie né a mio fratello. Questa mattina sono stato con il Ministro ROGNONI ed ho avuto con lui un colloquio riservato su problemi siciliani. Se dovesse succedermi qualche cosa di molto grave per la mia persona, si ricordi questo incontro con il Ministro ROGNONI, perché a questo incontro è da collegare quanto di grave mi potrà accadere». Io non azzardai alcuna domanda perché conoscevo bene la riservatezza del Presidente, tuttavia rimasi alquanto perplessa e quasi incredula perché mai il Presidente si era lasciato andare ad affermazioni tanto gravi e preoccupanti. Il Presidente notò la mia espressione e mi disse testualmente: «Signora, io le parlo molto seriamente». Subito dopo si parlò del lavoro corrente. Conoscevo molto bene il Presidente e sapevo che non avrebbe azzardato alcun giudizio se non avesse avuto elementi fondati e concreti. E pertanto, quanto mi disse il Presidente non poteva che essere il frutto di una sua maturata riflessione su quanto aveva detto al Ministro ROGNONI.

Il Presidente MATTARELLA mi diceva sempre che «bisognava fare pulizia nel partito e bisognava eliminare alcuni uomini che non facevano onore al partito stesso». Quanto ho riferito nel corso di queste mie dichiarazioni non fu più oggetto, da parte mia e del Presidente di discussioni o commenti".

La testimonianza della Signora TRIZZINO veniva ripresa e precisata dal fratello del Presidente assassinato, On. Sergio MATTARELLA, che, in data 28.5.1981, dichiarava al G.I. (Vol. IX, Fot. 617156): "Qualche giorno dopo i funerali di mio fratello Piersanti, venne in casa di mia cognata la Signora TRIZZINO Maria, che era stata Capo di Gabinetto di mio fratello. La signora mi chiamò in disparte, mi portò in un'altra stanza e mi disse: «un giorno di fine ottobre, suo fratello, rientrato da Roma, mi ha chiamato nel suo ufficio e mi disse di avere avuto nella mattinata, su sua richiesta, un colloquio con il Ministro dell'Interno On. ROGNONI, nel corso del quale gli aveva parlato esclusivamente delle condizioni di Palermo, dicendomi che questo colloquio lo aveva chiesto dopo averci pensato a lungo e che, pur rendendosi conto della gravità del passo che aveva compiuto, non aveva potuto, per dovere di coscienza, farne a meno anche se il colloquio riguardava anche il suo partito». Aggiunse la Signora TRIZZINO, che l'espressione di mio fratello le sembrò molto grave e che egli le disse di non parlarne né con me né con mia cognata. Aggiunse ancora, la Signora TRIZZINO, che mio fratello ebbe a dirle: «se dovesse capitarmi qualcosa, si ricordi di quello che le sto dicendo».

A D.R. Non ritenni, né ritengo di informare di questo episodio mia cognata, dato il suo stato di salute fortemente scosso in conseguenza del trauma subito".

L'On. MATTARELLA aggiungeva di non aver mai fatto cenno dell'episodio narratogli dalla Dr.ssa TRIZZINO né ai Questori IMMORDINO e NICOLICCHIA né agli altri funzionari di polizia (con i quali pure aveva avuto numerosi colloqui, anche di carattere informale). Veniva quindi assunto in esame l'On. Virginio ROGNONI, Ministro degli Interni, che - in data 11.6.81 - dichiarava al G.I. (Fot. 617319, Vol. IX): "Nell'ottobre del 1979, non ricordo quale giorno, previo appuntamento preso, non ricordo se direttamente o per tramite delle rispettive segreterie, venne a trovarmi qui al Viminale il compianto Presidente MATTARELLA. Nel corso del colloquio si parlò della situazione dell'ordine pubblico e della sicurezza della città di Palermo e anche della Sicilia, in relazione al problema della mafia anche in dipendenza degli ultimi atti criminosi come quello del Commissario GIULIANO Boris e del Giudice TERRANOVA, avvenuti rispettivamente nel luglio e nel settembre 1979. Ricordo che il Presidente MATTARELLA mi parlò delle nuove forme criminose della mafia e di un aspetto molto importante del fenomeno relativo ai legami tra mafia e politica. Mi ricordò che la sua politica era rivolta a combattere il fenomeno mafioso e a rendere via via credibile la classe politica adottando comportamenti, che rendessero, giusto nei fatti, credibile l'azione di governo e l'azione politica in genere. Come esempio di questa politica, il Presidente MATTARELLA mi ricordò il suo intervento volto a fermare la procedura di alcuni appalti concorsi e di altri interventi nell'ambito dell'Amministrazione Regionale. Non mi nascose che questa politica poteva creare forti ostilità negli interessi colpiti. Nel corso della discussione il Presidente MATTARELLA, quasi per esemplificare il clima di paura e di intimidazione esistente e sul quale egli operava, mi ebbe espressamente a rappresentare la situazione, in quel momento veramente depressa, del segretario regionale della D.C. Rosario NICOLETTI; mi accennò finanche alla intenzione, qualche volta espressa giusto in quel periodo da NICOLETTI di troncare l'attività politica. A questo punto, ricordo anche che il Presidente MATTARELLA mi espresse serenamente la sua determinazione e volontà di continuare nella intrapresa azione di governo, portando avanti una prospettiva di riscatto della vita civile, politica e sociale della Regione. Ricordo che il Presidente MATTARELLA, in relazione ad alcune notizie secondo le quali l'ex sindaco di Palermo Vito CIANCIMINO avrebbe premuto per ottenere un reinserimento ad un livello di piena utilizzazione politica all'interno del partito della Democrazia Cristiana, ebbe a manifestarmi grande preoccupazione per un evento del genere ed il suo vivo dissenso al riguardo. A giustificazione di questo dissenso, il Presidente MATTARELLA mi disse quanto fosse discussa, ambigua e dubbia la personalità del CIANCIMINO". In sostanza, dalle dichiarazioni dell'On. ROGNONI veniva confermato il profondo impegno morale e politico del Presidente MATTARELLA, la sua volontà di non cedere di fronte a nessun ostacolo e di non aver riguardo per alcuno neanche all'interno del suo partito, come emergeva chiaramente dal riferimento alla posizione di Vito CIANCIMINO.

Da quella testimonianza risultava, però, anche che l'interlocutore, forse per una diversa percezione della realtà siciliana, non aveva avuto la sensazione della tensione e del senso di pericolo, anche personale, che pervadeva invece il Presidente MATTARELLA, come veniva ribadito 1'8 luglio 1981 dalla vedova, signora Irma CHIAZZESE, che riferiva più ampiamente e dettagliatamente al G.I. le confidenze finalmente fattele dalla Dr.ssa TRIZZINO (Fot. 617325 Vol. IX): "Da mio cognato prof. Sergio MATTARELLA ho saputo che mio marito era stato a Roma e che aveva avuto un colloquio con il Ministro degli Interni ROGNONI e che il colloquio aveva avuto per oggetto la questione politica siciliana con riferimento anche alla situazione interna della D.C. Dopo 4 o 5 giorni che mio cognato ebbe a riferirmi la circostanza, venne a trovarmi la Signora TRIZZINO che era stata capo di Gabinetto di mio marito. Alla signora riferii quanto succintamente mio cognato mi aveva detto e la signora mi riferì che un giorno mio marito, rientrato da Roma, nel primo pomeriggio, la mandò a chiamare e le disse, dopo averla invitata a sedere (la TRIZZINO abitualmente, parlando per motivi di lavoro per brevi momenti, stava in piedi): «sappia che questa mattina sono stato a Roma ed ho avuto un colloquio con il Ministro ROGNONI sulla questione politica siciliana; se dovesse succedermi qualche cosa, dico fisicamente, voglio che lei dica che io sono stato oggi a Roma a parlare con il Ministro degli interni». La TRIZZINO mi riferì ancora che mio marito le aveva raccomandato di tacere tale circostanza in maniera assoluta, sia a me che a mio cognato.

A D.R. Nel corso del colloquio che io ebbi al riguardo con la TRIZZINO, io cercai di accertare se mio marito avesse confidato alla stessa qualche altra cosa, ma la TRIZZINO negò di avere avuto altre confidenze e, nel corso della discussione seguitane la TRIZZINO precisò soltanto che la discussione tra mio marito e ROGNONI aveva avuto anche per oggetto, oltre il problema della mafia, in relazione ai collegamenti politici, anche fatti interni del partito. La TRIZZINO non fu con me ricca di particolari perché io non reagii bene, per ovvi motivi, a quanto apprendevo, in maniera così dettagliata per la prima volta; ciò perché mio cognato era stato molto più cauto rispetto a quanto non lo fosse stata la TRIZZINO.

A D.R. La TRIZZINO mi disse che mio marito era particolarmente dispiaciuto perché aveva avuto l'impressione, anzi dico meglio, era particolarmente dispiaciuto; secondo lei perché il Ministro ROGNONI non aveva dato troppo peso a quanto da lui esposto. La signora mi disse pure che mio marito era così amareggiato che lei provò un sentimento di angoscia.

A D.R. Alla Signora TRIZZINO io mossi un rimprovero quando mi riferì le circostanze di cui ho parlato; la rimproverai perché me le aveva taciute. La signora mi disse che non me ne aveva parlato perché mio marito le aveva espressamente detto di non riferire nulla dell'incontro con il Ministro ROGNONI né dell'oggetto di esso né a me né a mio cognato".

Per completare l'esposizione di quanto emerge dagli atti processuali su questo punto (che sarà oggetto di valutazione in un momento successivo), si deve solo aggiungere che sul colloquio tra il Ministro ROGNONI e il Presidente MATTARELLA non sono stati in grado di aggiungere altri particolari nemmeno i parlamentari che all'epoca rivestivano la carica di sottosegretario agli Interni (On. SANZA, LETTIERI e DARIDA), nonostante alcuni di loro fossero legati ai due interlocutori da rapporti personali oltre che politici. L'escussione di questi testi, nel 1990, si è resa necessaria per verificare se, eventualmente, all'incontro tra l'on. MATTARELLA e l'on. ROGNONI fosse stato presente uno dei Sottosegretari all'Interno, considerato che il prof. Leoluca ORLANDO CASCIO, nell'esame testimoniale del 21.9.1990 (fot. 938521 vol. LXX), aveva detto: «.... devo dire che anch'io ho memoria della presenza dell'on. SANZA, al cennato incontro o meglio ho memoria della notizia in questione. Potrebbe darsi che .... ne abbia sentito parlare dal compianto Cons. CHINNICI in occasione di una escussione testimoniale, dopo la quale rimasi a parlare con lui .... per lungo tempo». Pertanto, quest'Ufficio ha ritenuto di investigare anche in tale direzione, attesa l'importanza dell'eventuale presenza di una terza persona all'incontro per verificare l'esattezza dei ricordi dell'on. ROGNONI. Per raggiungere tale risultato, sono stati sentiti tutti i sottosegretari all'Interno D.C. dell'epoca, escludendo il solo sen. OCCHIPINTI sul rilievo logico che, ad un incontro così riservato il sottosegretario poteva partecipare solo come amico comune dei due interlocutori e l'OCCHIPINTI, in quanto neppure appartenente alla D.C., appariva sicuramente da escludere.

Le minacce per la legge urbanistica. La Repubblica l'11 gennaio 2020. Fra i momenti salienti dell'attività politica e parlamentare dell'On. MATTARELLA, vi fu certamente l'approvazione della nuova disciplina urbanistica, in occasione della quale egli ricevette anche minacce anonime. Già dal primo esame della Dr.ssa TRIZZINO, in data 9 gennaio 1980, risultava che (Fot. 614559, Vol. I): "Per quel che mi risulta, il Presidente MATTARELLA non ha ricevuto minacce se non in occasione della mancata promulgazione di parte della legge urbanistica ed in particolare di 3 articoli concernenti la sanatoria dell'abusivismo edilizio, impugnati dal commissario dello Stato. In realtà, nonostante tale impugnazione, lo statuto Regionale prevede che trascorsi 30 gg. senza che la Corte Costituzionale abbia deciso in merito, il Presidente della Regione può promulgare ciò nonostante la legge. Il Presidente MATTARELLA per un atto discrezionale di auto-tutela della Regione, in ossequio anche all'importanza del provvedimento legislativo, ha ritenuto di non promulgare detti articoli, attendendo le decisioni della Corte Costituzionale. In relazione a tale sua omissione, il Presidente ricevette una prima lettera di minaccia nel maggio '79, almeno credo, sulla quale scherzò con noi del Gabinetto. Dopo alcuni mesi, ricevette altra lettera con minacce di morte che lo turbarono in maniera più grave. Tali lettere sono state dallo stesso conservate nella sua scrivania, ove ritengo che siano tuttora custodite. Ricordo che il Presidente parlò di tale faccenda, non se personalmente o per telefono, con il Questore EPIFANIO, su consiglio di noi del Gabinetto. Non so quali esiti abbiano avuto tali contatti" (Fot. 614559, Vol I).

La questione era poi ripresa e approfondita, due giorni dopo, dal fratello del Presidente assassinato, On. Sergio MATTARELLA: "La legge urbanistica n. 71 del 1978 fu proposta su iniziativa della Giunta ed in particolare dell'On. FASINO, assessore al Territorio. Tale legge provocò un malcontento generalizzato e diffuso poiché, nel riproporre principi della Legge nazionale, abbassava notevolmente gli indici di edificabilità, danneggiando i proprietari dei terreni e lo sfruttamento degli stessi ai fini edilizi. Inoltre, la suddetta legge ha danneggiato i costruttori in quanto ha fatto diminuire i loro margini di guadagno, aumentando costi di costruzione e delle opere di urbanizzazione. Una volta deliberata dall'Assemblea, tale legge venne impugnata dal Commissario dello Stato per la parte concernente la sanatoria dell'abusivismo edilizio. A questo punto la discrezionalità di mio fratello poteva seguire tre diversi indirizzi:

1) ritardare la promulgazione dell'intera legge essendo stata la stessa impugnata dal commissario, ciò fino alla pronunzia della Corte Costituzionale, che già si prevedeva in tempi lunghi dato che la predetta Corte si occupava in quel periodo del "caso Lockeed";

2) promulgarla interamente, trascorsi i 30 gg. senza che fosse intervenuta la pronunzia della Corte Costituzionale, così come previsto dallo Statuto;

3) promulgarla solo per la parte non impugnata.

Egli scelse quest'ultima soluzione perché adottando la prima avrebbe favorito una intensificazione intensiva e massiccia dell'edilizia in un brevissimo arco di tempo, considerato che tutti i proprietari avrebbero cercato di ottenere la concessione edilizia fruendo dei vecchi indici di edificabilità notevolmente più alti. Mio fratello volle rispettare la volontà legislativa espressa dall'Assemblea per la regolamentazione urbanistica futura e quindi ritenne suo preciso impegno, resistendo a molteplici ed insistenti pressioni politiche, promulgare immediatamente la parte della legge non impugnata. Del resto, non ritenne di adottare la promulgazione della parte concernente la sanatoria per evitare che una contrastante decisione della Corte Costituzionale provocasse dei disordini amministrativi e l'obbligo di restituire agli aventi diritto le somme versate per la sanatoria" (Fot. 614745 Vol. I). L'importanza politica dell'approvazione della legge urbanistica e la entità degli interessi economici su cui essa incise è stata di recente chiarita e sottolineata nelle testimonianze del Prof. Leoluca ORLANDO e dell'On. Mario FASINO.

Il primo ha, infatti, dichiarato in data 29 maggio 1990 (Vol. LXIX, Fot. 919394): "In questo contesto, in un partito che a Palermo vedeva MATTARELLA in posizione fortemente minoritaria, quest'ultimo divenne nel 1978 Presidente della Regione, realizzando, promovendo e sostenendo, nel settore amministrativo e legislativo scelte assai incisive per la vita politico-economica della Regione e per la stessa vita politico-economica della città di Palermo. In particolare, l'approvazione della legge urbanistica regionale n. 71 del 1978, fissò autoritativamente ed in contrasto col vigente piano regolatore generale, drastiche riduzioni, sull'utilizzo edificatorio delle aree urbane. Con quella legge, tra l'altro, si ridusse l'indice massimo di edificabilità da 21 mc/mq a 7 e si portò l'indice di edificabilità del "verde agricolo" da 0,20 - mc/mq a 0,03; e, infine, con apposito comma, si stabilì per legge per il Consiglio Comunale di Palermo il divieto di edificabilità di dette aree di "verde agricolo" per fini privati, vietandosi che le stesse potessero essere oggetto di variante urbanistica, con la sola parziale eccezione (e per percentuali limitate) di edilizia economico-popolare. Fu questa legge, per gli amministratori comunali di Palermo, una sostanziale, drastica ed autoritativa riduzione di potestà discrezionale nell'uso del territorio. Ricordo, ancora, che aveva chiara la consapevolezza tanto lui quanto l'Assessore al Territorio, On. Mario FASINO, di quanto la nuova disciplina urbanistica regionale limitasse il potere dei politici cittadini ed incidesse sulla stessa capacità di manovra del "comitato di affari" palermitano. A D.R. Certamente utile, per comprendere la durezza dello scontro, è ricordare che la legge urbanistica regionale poté essere approvata soltanto a seguito di durissimi contrasti, superati per il peso politico del Presidente MATTARELLA. Al riguardo, credo che ulteriori, più precisi elementi, potrebbe fornire l'On. FASINO. Quest'ultimo, infatti, ma trattasi di una mia personale riflessione, a partire dalle elezioni successive non venne più rieletto deputato regionale nel Collegio di Palermo".

L'On. FASINO, a sua volta, escusso in data 13 giugno 1990, ha affermato (Vol. LXX Fot. 938149): "Prendo atto che il Prof. ORLANDO, recentemente, ha dichiarato che io avrei potuto fornire un contributo informativo sulle difficoltà che il Governo MATTARELLA incontrò nell'iter di approvazione della legge n. 71/78 (c.d. Legge Urbanistica Regionale). In effetti, come avevo già detto, detta legge fu una delle più qualificanti di quel Governo ed io, quale assessore al Territorio, rivendico a me il merito di essere riuscito a fare adeguare gli indici di edificabilità regionali a quelli che la legge statale (c.d. MANCINI-ponte già prevedeva da oltre un decennio. Pur essendo tale disegno di legge regionale parte del programma di Governo, la sua approvazione avvenne tra molti contrasti, evidenziatisi non tanto nel risultato numerico finale di approvazione della legge (oltre che alle forze di Governo aveva l'appoggio del P.C.I.) quanto, nel gioco degli emendamenti proposti in Commissione. Tale legge provocò la reazione di due gruppi di interessi diversi ma convergenti. Quello degli imprenditori edili, che videro ridurre notevolmente il potenziale edificatorio delle loro aree, quello stesso potenziale che aveva consentito, ad esempio, di devastare la via Libertà attraverso la demolizione delle -- vecchie palazzine "liberty" e la costruzione di moderni palazzi a più piani. E l'interesse dei proprietari terrieri di tutte le zone circostanti la città di Palermo, che attraverso l'abbassamento dell'indice di edificabilità del "verde agricolo", videro diminuire considerevolmente il potenziale edificatorio delle loro aree. A quest'ultimo riguardo, credo di poter dire senza tema di smentite che gran parte di questi terreni si appartenevano, direttamente o per interposta persona, a "famiglie" mafiose. Basti pensare alla zona di Ciaculli e Croce Verde- Giardini, ovvero alla parte alta di Via Leonardo Da Vinci, che mi risultava personalmente appartenersi all'imprenditore Michelangelo AIELLO.

A D.R. L'iter legislativo durò circa tre mesi, durante i quali l'ARS si occupò solo di questa legge: Ricordo che in questo lasso di tempo vi furono riunioni ed assemblee di sedicenti coltivatori diretti (che dalla legge, se fossero stati realmente tali, avrebbero avuto tutto da guadagnare), i quali chiedevano di non procedere alla approvazione della legge, cioè di non adeguare la normativa regionale a quella statale, operante già da molti anni. In effetti, questa legge nazionale già veniva applicata in Sicilia in tutti quei Comuni sprovvisti di un piano regolatore generale ovvero in quei pochi Comuni che avevano adeguato quest'ultimo agli standard nazionali. Delle riunioni di cui ho sopra fatto cenno, credo che sia rimasta traccia sulla stampa locale dell'epoca.

A D.R. Vero è, secondo quanto mi viene letto dalle dichiarazioni del Prof. ORLANDO, che io "pagai" politicamente tale impegno per fare approvare la legge 71/78, in quanto, dopo circa trent'anni di ininterrotta permanenza all'ARS con altissimo numero di preferenze, alle elezioni regionali del 1981 non venni rieletto, rimanendo il primo dei non eletti. Ricordo di avere perduto nella città di Palermo oltre 10.000 voti, mentre mantenni sostanzialmente i suffragi in Provincia. Di fatto, successivamente, entrai ugualmente all'ARS dopo l'elezione al Parlamento dell'On. D'ACQUISTO, ma la "bocciatura" del 1981 rimase ugualmente. Nel 1986, alla scadenza del mandato, decisi di non ricandidarmi, ma devo dire che tale decisione ha avuto motivazioni personali e non è stata connessa a quel risultato parzialmente sfavorevole.

A D.R. Per chiarire meglio, desidero precisare che pur essendo stato io l'artefice della approvazione della legge urbanistica, non avrei mai potuto riuscirvi se non avessi avuto l'appoggio incondizionato del Presidente MATTARELLA, che l'aveva inserita nel programma di governo e che mi sostenne durante l'iter legislativo.

A D.R. Quando nel mio esame testimoniale del 14.1.1980 ho espresso l'opinione che l'omicidio MATTARELLA fosse un "delitto politico", voluto dal coagularsi "di interessi di altre forze" che volevano mantenere lo stato attuale delle cose, intendevo riferirmi proprio a quelle forze che ho oggi indicato parlando della legge 71/78. Non escludo che tali forze potessero avere dei referenti in sede politica e, quindi, anche all'interno della D.C., nella quale milito da sempre. Tuttavia, per onestà intellettuale e doveroso senso di responsabilità, non posso indicare nominativamente un gruppo o una persona come referente politico di tali forze. Può sembrare strano che un uomo politico di esperienza come me non abbia conoscenze precise al riguardo, ma questa LI effettivamente la verità" (Fot. 938152 Vol. LXX).

Gli appalti del Comune di Palermo. La Repubblica il 12 gennaio 2020. Un'altra delle questioni che, secondo le testimonianze dei familiari e collaboratori, avevano maggiormente impegnato, sul finire del 1979, il Presidente MATTARELLA e destato in lui profonde preoccupazioni è la ispezione da lui personalmente disposta sulla regolarità delle procedure seguite dal Comune di Palermo per l'affidamento in appalto dei lavori per la realizzazione di sei edifici scolastici, in zone diverse della città. Nel suo primo esame, in data 9 gennaio 1980, la Signora Maria Grazia TRIZZINO, capo di Gabinetto del Presidente assassinato, segnalava fra le iniziative più importanti assunte dall'On. MATTARELLA la nomina di un ispettore: Al fine di indagare sulla concessione di sei appalti per la costruzione di scuole pubbliche da parte del Comune di Palermo con fondi erogati dall'Assessorato Regionale della Pubblica Istruzione».

Anche l'On. Sergio MATTARELLA, fin dalla prima dichiarazione resa a questo Ufficio 1'11 gennaio 1980 (Fot. 714745, Vol. I), poneva quell'appalto tra i temi meritevoli di approfondimento in relazione al gravissimo delitto: "Un'altra questione per la quale mio fratello si impegnò e si espose con la sua autorità, personalmente, fu quella concernente l'appalto di alcune scuole da parte del Comune di Palermo con fondi dell'Assessorato Regionale alla Pubblica Istruzione; su segnalazione del predetto Assessorato, mio fratello nominò l'Ispettore MIGNOSI, funzionario in cui riponeva fiducia, per accertare eventuali irregolarità. Il predetto ispettore presentò due relazioni a seguito delle quali mio fratello intervenne una prima volta sul Sindaco per bloccare le procedure e rifare le gare. Questa prima richiesta non ottenne probabilmente alcun risultato visto che ve ne fu una seconda, intervenuta nel dicembre u.s. (1979: N.D.R.). Non posso precisare con quali esiti. Ho ritenuto di dovere porre in risalto tale episodio per l'entità degli interessi economici in gioco, si trattava infatti di appalti di circa 6 miliardi".

Nell'interrogatorio reso al G.I., lo stesso On. Sergio MATTARELLA aggiungeva ancora: "Con mio fratello eravamo molto legati e non c'era cosa che ci riguardasse che non ci dicessimo l'un l'altro.  Una sola volta egli mi parlò di una lettera di minaccia, ciò fece dopo alcuni mesi dalla ricezione, forse per non preoccuparmi. Con me non parlò mai di altre minacce. Debbo però dire che uno o due mesi prima della sua uccisione, anzi nel dicembre del 1979, con specifico riferimento alle gare di appalto per gli edifici scolastici e alla ispezione da lui disposta all'Assessorato LL.PP., parlando con un suo collaboratore, il Prof. Francesco GIULIANA di Partinico, che insegna al Liceo di Salemi, ebbe a dire: «queste cose possono farmele pagare»; al che il GIULIANA: «politicamente ? »; e mio fratello: «non politicamente, ma sul piano fisico, personale».

L'episodio mi fu riferito dal Prof. GIULIANA dopo la morte di mio fratello, nel mese di gennaio 1980. D'altra parte so pure che una sera, durante il periodo natalizio del 1979, lasciando il suo ufficio verso le ore 21,00 assieme al Dott. Gaetano FAVAZZA, dell'Ufficio di Gabinetto, ebbe a dire a costui, che dimostrava meraviglia, per il fatto che non c'era alcuna sorveglianza, «noi non abbiamo nulla da temere perchè facciamo il nostro dovere»" (Fot. 617059 Vol. IX). L'importanza attribuita alla questione dallo stesso Presidente MATTARELLA emerge pure dalle dichiarazioni dell'On. Michelangelo RUSSO, esponente del P.C.I. e Presidente dell'Assemblea Regionale, che fu informato dallo stesso MATTARELLA «nel corso di un colloquio personale» della sua decisione di disporre l'indagine ispettiva (Fot; 614833, Vol. I). Anzi, l'on. RUSSO ha precisato nella sua dichiarazione al G.I. (Fot. 617131, Voi. IX), che il Presidente MATTARELLA ebbe a dirgli «con tono preoccupato: «forse me la faranno pagare» proprio mentre, dopo la visita del Presidente della Repubblica, faceva cenno «ai suoi interventi presso il Comune di Palermo per la questione degli appalti per la costruzione degli edifici scolastici e presso l'amministrazione regionale per la questione relativa ai funzionari collaudatori». Venivano, quindi, espletati approfonditi accertamenti con l'acquisizione di tutta la documentazione presso gli Uffici Comunali e Regionali, con l'escussione di numerosi testimoni ed anche con l'espletamento di indagini bancarie da parte del Nucleo Regionale di Polizia Tributaria. Dal complesso di questi accertamenti (v. in particolare il rapporto del 4.3,80, Fot. 615368, Vol. H; rapporto del 23.12.80 rot. 616002 Vol. IV e rapporto del 28.3.81, Vol. VI, Fot. 616326) emergeva in sintesi che:

- Nell'aprile 1979 il Comune di Palermo aveva pubblicato il bando di appalto concorso per la realizzazione di sei scuole (MARABITTI-MARVUGLIA, Passo di Rigano, Resuttana, Uditore, Castellana Bandiera e Piazzi) per un importo di spesa complessiva di circa L. 5.600 milioni;

- Ad ogni gara avevano chiesto di partecipare una trentina di imprese circa, metà delle quali non erano state ammesse per motivi vari, cosicché il numero delle imprese ammesse variava, per ognuna delle sei gare, da un minimo di 13 ad un massimo di 19;

- In data 2 ottobre 1979 la Giunta Comunale aveva nominato le sei commissioni giudicatrici che avrebbero dovuto esprimere un parere tecnico vincolante sulla idoneità del progetto presentato e sulla congruità del prezzo offerto;

- Per ognuno dei sei appalti era stato però presentato un solo progetto, rispettivamente dalle imprese SAGECO, Agostino CATALANO, EDIL REALE, SANSONE, CATALANO COSTRUZIONI, Gaetano Massimo BARRESI;

- Le commissioni giudicatrici avevano appena iniziato i loro lavori (tranne quella competente per la scuola di Via Castellana Bandiera, che aveva dichiarato non funzionale il progetto stralcio presentato dall'impresa CATALANO COSTRUZIONI).

Nel frattempo, fin, dal luglio 1979 erano pervenuti all'Assessorato Regionale alla Pubblica Istruzione alcuni esposti anonimi, che denunziavano gravi irregolarità nelle procedure di appalto. L'Assessore, On. Luciano ORDILE, dopo aver ricevuto in proposito generici chiarimenti dal Comune di Palermo, aveva richiesto, con nota del 28.9.1979, al Presidente della Regione di disporre gli opportuni accertamenti «tenendo conto anche che il fatto potesse riguardare anche altri Assessorati come quello agli Enti Locali» (v. ORDILE al P.M., Fot. 614901, Vol. II). Il 5 novembre 1979. la Presidenza della Regione informava l'Assessorato alla Pubblica Istruzione che aveva disposto un'ispezione straordinaria incaricando il Dr. Raimondo MIGNOSI; questi depositava in breve volgere di tempo- due relazioni, che venivano comunicate in data 14 e 28 novembre all'Assessorato P.I., che, in data 5 dicembre, inviava al Comune una nota in cui, evidenziate le irregolarità emerse in sede ispettiva, suggeriva i rimedi da adottare e cioè la riapertura dei termini dell'appalto-concorso ovvero l'annullamento degli atti e la riproposizione delle gare. Nel corso del mese di dicembre, il Presidente della Regione aveva invitato nel suo ufficio il Sindaco di Palermo, Dr. MANTIONE, e l'Assessore Comunale competente, Dr. Pietro LORELLO, e dopo aver fatto cenno, secondo quanto dagli stessi riferito, dei risultati dell'ispezione espletata dal Dr. MIGNOSI, dei criteri molto restrittivi adottati per la ammissione alla gara e della stranezza rappresentata dall'esistenza di una sola offerta per ogni scuola, aveva consigliato di riaprire i termini di partecipazione, ricevendo in proposito dai due amministratori comunali l'assicurazione della piena disponibilità del Comune. Due giorni dopo l'omicidio del Presidente MATTARELLA, e cioè l'8 gennaio 1980, il Comune aveva invece inviato all'Assessorato Regionale alla Pubblica Istruzione le proprie controdeduzioni. Nei mesi successivi, l'Amministrazione Regionale, acquisiti nuovi pareri tecnico-giuridici (del Comitato Tecnico Amministrativo Regionale, dell'Ufficio Legislativo e Legale e del consulente giuridico del Presidente D'ACQUISTO, Dr. Giorgio GIALLOMBARDO), perveniva alla conclusione che l'operato del Comune di Palermo era stato perfettamente regolare dal punto di vista della legittimità amministrativa, ma che tuttavia «ragioni di autotutela consigliavano di non dare più corso all'aggiudicazione dell'appalto» (D'ACQUISTO al G.I., Fot. 617133, Vol. IX), invito fatto proprio dall'Avv. MARTELLUCCI, subentrato al dott. MANTIONE nelle funzioni di Sindaco di Palermo. Non è naturalmente questa la sede per valutare né la linearità delle scelte della nuova Amministrazione Regionale (su cui il Dr. MIGNOSI ha espresso perplessità, Fot. 617100 Vol. IX) né la legittimità dell'azione degli uffici comunali né, infine, la liceità della condotta dei titolari delle sei imprese partecipanti ai sei appalti-concorso, i quali del resto - nel corso di altro procedimento penale - sono stati assolti con formula ampiamente liberatoria del reato 'di turbativa d'asta (art. 3.5,3 C.P.), che era stato contestato loro dopo che avevano dichiarato che tra essi non era intercorso alcun preventivo accordo e che era «solo per caso o per buona fortuna» che ognuno di loro si era ritrovato unico partecipante ad una singola gara di appalto. Va solo aggiunto che dalle indagini esperite dagli uffici di P.G., sono emersi dei collegamenti tra i titolari delle sei imprese e fra alcuni di loro e SPATOLA Rosario, esponente - com'è ben noto - della famiglia mafiosa GAMBINO-INZERILLO.

Giova, a questo proposito, riportare testualmente quanto riferito nel rapporto della Squadra Mobile e del Nucleo Operativo dei Carabinieri del 23.12.1980 (Fot. 616002 Vol. IV): "E proprio l'esistenza di un solido patto realizzato sia sul fronte internò, per evitare dispersioni di risorse e contrasti tra le sei imprese, sia sul fronte esterno, per dissuadere i concorrenti dal partecipare, che ha indotto gli investigatori a considerare le sei ditte in modo unitario, come se si trattasse di un'unica "corporation".

Ma non è solo la compattezza dimostrata dalle sei imprese che conduce a tale deduzione. Vi sono pure legami personali, associativi, familiari, societari e di altro tipo che, di seguito verranno illustrati. Infatti CATALANO Agostino, titolare di una delle sei imprese più volte citate, ha sposato una nipote di REALE Antonino, titolare a sua volta della "EDIL REALE", presentatrice del progetto relativo alla scuola da costruire a Resuttana. Inoltre, sia il CATALANO che il REALE, si sono serviti del medesimo professionista, l'Ing. MANNINO Giuseppe, per realizzare i progetti delle scuole presentati alla commissione giudicatrice. Le imprese edili facenti capo al CATALANO ed al BARRESI Gaetano Massimo fanno parte in sede regionale dell'API SICILIA (Associazione di Piccole e Medie Imprese) ed aderiscono in sede nazionale alla CONFAPI - ANIM; in considerazione dello stretto numero di imprese edili palermitane iscritte all'API SICILIA, Li da ritenere che i contatti tra il CATALANO ed il BARRESI siano quanto meno frequenti. Ma vi sono altri legami che non è il caso di sottovalutare per l'importanza che rivestono ai fini delle  indagini. SANSONE Gaetano, che pure ha ammesso di essere stato socio del noto mafioso SPATOLA Rosario, è stato di recente inquisito perché ritenuto uno degli adepti della cosca SPATOLA-INZERILLO-GAMBINO. Inoltre il SANSONE, che abita ed ha la sede sociale della sua impresa nel medesimo fabbricato degli SPATOLA, è cognato di GAMBINO Tommaso, a sua volta cugino di SPATOLA Rosario. Ma anche REALE Antonino ha stretti collegamenti con i costruttori SPATOLA, considerato che, nel corso di una perquisizione effettuata dalla Guardia di Finanza nella sede dell'Impresa ii SPATOLA Vincenzo (fratello di Rosario e di Antonino), è stata ritrovata. documentazione varia attinente ai lavori di completamento della scuola elementare C.E.P. Petrazzi), documentazione che avrebbe dovuto trovarsi negli uffici comunali. Come si vede, sono stati sufficientemente evidenziati i collegamenti esistenti fra cinque delle sei imprese partecipanti all'appalto-concorso. I vincoli di parentela tra il CATALANO ed il REALE, nonché tra il SANSONE e Rosario SPATOLA, la comunanza di interessi tra l'impresa REALE e quella CATALANO, che affidando la fase progettuale al medesimo tecnico, gli stretti legami fra le imprese SPATOLA e quella REALE, documentati dal rinvenimento negli uffici dell'impresa SPATOLA degli atti di pertinenza comunale, l’appartenenza  alla medesima associazione industriale delle imprese di CATALANO e BARRESI ed infine l'affiliazione del SANSONE all'organizzazione criminale degli SPATOLA, GAMBINO ed INZERILLO, tutto questo insomma, conduce a ritenere che il patto stretto tra gli imprenditori edili più volte già menzionati, abbia avuto la sollecitazione, l'organizzazione o quanto meno il placet dei massimi esponenti delle famiglie mafiose sopra indicate, la cui presenza traspare da ogni piega degli accertamenti. Pur senza volere affermare che le sei imprese costituivano dei semplici prestanomi, attraverso i quali l'aggregato mafioso si apprestava a monopolizzare tutti gli appalti-concorso (cosa che potrebbe anche essersi verificata stante la dovizia di mezzi di ogni genere di cui le tre famiglie dispongono), tuttavia l'essere riusciti a dimostrare che gli interessi delle imprese ammesse alla fase finale si identificano o collimano con quelli delle maggiori famiglie mafiose italo-americane, serve per evidenziare che la presa di posizione dell'On. MATTARELLA non danneggiava ciascuna delle sei imprese, impedendo a ciascuna l'aggiudicazione dell'appalto ammontante a circa un miliardo di lire, ma inibiva ad un gruppo di mafia di assicurarsi una serie di appalti per un valore globale di sei miliardi". Naturalmente, gli stessi verbalizzanti non hanno ritenuto di poter ricollegare con certezza alla vicenda dell'appalto delle sei scuole responsabilità personali in ordine all'omicidio del Presidente della Regione, ma hanno sottolineato l'importanza di quella vicenda anche, e soprattutto, alla luce di quanto riferito, in un lungo promemoria consegnato al P.M. il 26 gennaio 1980 dal Dr. Raimondo MIGNOSI, cioè dal funzionario incaricato dall'On. MATTARELLA di effettuare l'ispezione amministrativa presso il Comune di Palermo.

L'ispezione che ha fatto tremare tutti. La Repubblica il 13 gennaio 2020. Per la sua importanza è opportuno riportare testualmente ampi brani di questo pro-memoria del dottor RAIMONDO MIGNOSI. "Ricordo che, fin dall'origine della vicenda, ebbi a rilevare la particolare decisione del Presidente MATTARELLA nel disporre la ispezione tanto che, in un certo momento, ne ebbi persino una impressione di "animosità politica" (che era congeniale) perchè l'esercizio del suo potere di controllo straordinario mi sembrò spinto, ai limiti dell'eccesso rispetto alle attribuzioni istituzionali. A ciò fui indotto dalla considerazione delle seguenti circostanze:

1) Anzitutto il rilievo dato, fin dal 25 luglio, ad un esposto anonimo denunciante presunte irregolarità negli appalti, esposto sulla cui sola base il Presidente ha chiesto lo svolgimento di accertamenti e l'adozione di conseguenti provvedimenti agli Assessori regionali della Pubblica Istruzione e degli Enti Locali, mentre non Li prassi dell'Amministrazione regionale la presa in considerazione di anonimi, salvo il caso che non suggeriscano interventi che l'Amministrazione avrebbe comunque autonomamente posti in essere;

2) Secondariamente, la forma del decreto che, contrariamente alla prassi di conferire gli incarichi ispettivi con semplice lettera è stata adottata per l'instaurazione di un procedimento ispettivo nei confronti del Comune di Palermo, come per mettere al riparo l'azione amministrativa da possibili eccezioni di forma dell'Ente sottoposto a controllo; inoltre l'insolita pienezza di poteri garantiti per l'operatività dell'ispettore incaricato; ed infine l'attribuzione allo stesso, anche questo con innovazione alla prassi, dell'incarico di "formulare anche concrete proposte sugli eventuali provvedimenti da adottare";

3) Da ultimo, la legittimazione del Decreto di ispezione con riferimento alla norma dell'art. 2, lett. p) della legge 29 dicembre 1962, n. 28, la quale induce al presupposto dei "motivi di eccezionale gravità". Veniva posta, così, in essere una ispezione straordinaria per le cui eventuali conclusioni di irregolarità il Presidente della Regione non avrebbe potuto attingere ad altro rimedio amministrativo che al più grave dei propri poteri sanzionatori (scioglimento del massimo organo deliberante dell'Ente soggetto in base all'art. 2, lett. O) della legge citata, salva l'ipotesi alternativa dell'esercizio di un potere di influenza politica sugli organi del Comune per l'esperimento di un loro autonomo rimedio in autotutela, come il Presidente ha poi tentato di realizzare nel caso in questione.

Alle predette circostanze, che allora mi sembrarono già di per sé sufficienti ad evidenziare l'importanza che il Presidente MATTARELLA intendeva attribuire al problema della regolarità delle procedure di appalto nel Comune di Palermo per la realizzazione di opere pubbliche finanziate dalla Regione, debbo ora collegare anche altri fatti verificatisi nel corso dell'ispezione (direttive, colloqui e comportamenti del Presidente), che evidenzierò più avanti e che hanno consolidato in me il convincimento di una decisa volontà dell'On. MATTARELLA di impedire la aggiudicazione degli appalti con procedure meno che limpide. La lettera con cui il Presidente MATTARELLA sollecitava l'esperimento di opportuni accertamenti riguardo alle "presunte gravi irregolarità" denunciate con l'esposto anonimo del 7 luglio, era stata indirizzata agli Assessorati Regionali della Pubblica Istruzione e degli Enti Locali "per quanto di rispettiva competenza", e cioè al primo in considerazione della materia (edilizia scolastica), al secondo in considerazione del suo potere istituzionale di ordinaria vigilanza sui comuni. Le due diverse funzioni, benché sollecitate, non mi sembrarono correttamente esercitate. Quanto all'Assessorato degli Enti Locali non risulta, infatti, agli atti della Presidenza, nessun riscontro alla lettera del Presidente. L'Assessorato Regionale della Pubblica Istruzione, invece, ha dato riscontro alla richiesta presidenziale di accertamenti, proponendo però che essi venissero disposti direttamente dal Presidente. Tale sostanziale ricusazione della responsabilità competente, richiamata dal Presidente con la sua lettera del 25 luglio, non mi sembrò trovare legittima spiegazione nella motivazione dichiarata "poiché la questione può interessare sfere di competenza di diversi Assessorati..."), poiché in materia di edilizia scolastica l'Assessorato della Pubblica Istruzione ha una competenza specifica con compiti anche di vigilanza sugli Enti obbligati alla realizzazione delle opere programmate. D'altra parte è vero, al contrario, che l'Assessore alla Pubblica Istruzione si era già risolto, in un primo tempo, a disporre con proprio provvedimento lo svolgimento di indagini presso il Comune di Palermo proprio sulla materia degli appalti per la costruzione degli edifici scolastici del primo programma triennale. Di tale provvedimento io stesso ho potuto prendere visione nell'ufficio del Dott. CAPPELLANI, Coordinatore del gruppo di lavoro Edilizia scolastica e arredamenti, che lo conserva in atti, e dallo stesso ho avuto comunicazione dei nominativi dei due funzionati incaricati delle indagini, il Dott. GRILLONE e il Dott. GENTILE. Sempre dal Dott. CAPPELLANI, ho appreso che il motivo di questa vera e propria anomalia di comportamento degli organi dell'Assessorato fu dovuto all'ostinato rifiuto dei due funzionari incaricati (ed in particolare del Dott. Giovanni GENTILE) ad eseguire l'incarico loro conferito con atto assessoriale perfetto. Di fronte a tale rifiuto l'Assessore si sarebbe convinto, anche per la difficoltà di reperire altri funzionari disponibili cui affidare lo stesso incarico ispettivo, a modificare la precedente determinazione di fare eseguire le indagini ad organi dell'Assessorato, aderendo invece alla soluzione di ribaltare sul Presidente della Regione il compito di disporre la ispezione.

Non conosco i motivi della indisponibilità dei funzionari dell'Assessorato Regionale della Pubblica Istruzione a svolgere indagini presso il Comune di Palermo sulle procedure d'appalto; su questo punto posso soltanto riferire le seguenti circostanze, che mi sovvengono alla memoria come possibili espressioni di un clima, se non di paura almeno di cautela, del quale i due funzionari potevano avere risentito:

1) Agli inizi della mia ispezione, il Dott. CAPPELLANI mi disse che una sua relazione riservata, contenente rilievi sulla regolarità delle procedure seguite dal Comune di Palermo nelle gare d'appalto per la costruzione degli edifici scolastici, sarebbe stata oggetto di rielaborazione poiché la sua prima stesura, dopo il suo inoltro alla visione dell'Assessore, gli sarebbe stata restituita dal capo di Gabinetto, Dott. DI DIO, perché ritenuta troppo pesante nella forma, talché lo stesso Dott. CAPPELLANI avrebbe aderito all'invito ad una maggiore prudenza, rielaborandola. Su tale episodio grava la riserva di una memoria imprecisa, che tuttavia non altera la impressione che ricordo di averne tratto di una preoccupazione e di una reticenza degli organi dell'Assessorato della Pubblica Istruzione nel trattare la questione degli appalti gestiti dal Comune di Palermo.

2) In occasione di un mio colloquio con il Dott. Nino DI DIO, agli inizi dell'ispezione, egli mi disse di apprezzare la scelta del Presidente sulla mia persona per quell'incarico perché la materia richiedeva un particolare equilibrio che egli mi riconosceva.

Per rafforzare questo giudizio il Dott. DI DIO lo contrappose al criterio seguito, nel trattare la questione degli appalti scolastici del Comune di Palermo, dal Dott. CAPPELLANI, che egli aveva ritenuto saggio richiamare amichevolmente - ad una maggiore prudenza. E fu a tal proposito che egli ebbe ad usare, a mo’ di commento, la espressione: "A Palermo si spara per molto meno" (riferendosi alla entità del finanziamento complessivo previsto in circa sei miliardi per la costruzione delle scuole). Ricordo bene che la battuta mi colpì non solo perché se ne poteva dedurre che il Dott. DI DIO ne sapesse più di quanto appariva riguardo ai rischi connessi ad una ingerenza della Regione negli affari interni del Comune in materia di appalti, ma anche perché essa mi apparve significativa del fatto che egli riteneva prevalente l'aspetto "affaristico" degli appalti in corso per l'edilizia scolastica a Palermo su un altro aspetto, che invece mi preoccupava e sul quale avevo richiamato la sua attenzione: il quadro, cioè, delle lotte di fazione interne alla Democrazia Cristiana, quadro a cui la stampa riferiva in quei giorni quello che venne definito un vero e proprio "tiro al piccione" nei confronti degli uomini appartenenti alla corrente dell'On. RUFFINI, che a Palermo erano oggetto di scandali a getto continuo (casi GIGANTI, CASTRO, CASCIO ecc…). Che il Dott. DI DIO trascurasse quest'ultima chiave di interpretazione dell'attacco all'Assessore ai LL.PP. del Comune di Palermo LORELLO, in cui avrebbe potuto ridursi una ispezione regionale sugli appalti di scuole, è dimostrato dal fatto che egli non sapeva neppure che LORELLO fosse un fedele di RUFFINI, come si diceva, mentre invece lo riteneva amico dell'On. MATTARELLA. Proprio perché infastidito dal dubbio che io potessi essere strumentalizzato, con l'affidamento dell'incarico ispettivo e con l'esercizio della mia funzione professionale, a fini di eventuale partigianeria politica, ed allo scopo di sottrarmi ad una eventualità del genere, mi attenni al proposito di chiudere al più presto la mia ispezione, limitandomi ai termini formali dell'incarico senza cedere alla tentazione, che mi è congeniale, di approfondire, scendere in dettaglio e dilungarmi con il che solitamente svolgo il mio impegno di lavoro. Poiché il decreto di incarico mi commetteva di "effettuare accertamenti... allo scopo si verificare la regolarità delle procedure preliminari adottate" per l'appalto delle scuole e di "formulare anche concrete proposte sugli eventuali provvedimenti da adottare", ritenni pertanto di limitarmi a queste due finalità nei termini più formali possibili. E poiché fin dalle prime battute dell'ispezione mi fu subito chiara la possibilità di concludere dignitosamente, con l'accertamento di alcune irregolarità e con la proposta di una sospensione immediata delle procedure d'appalto in funzione di una loro riproduzione ex novo con attività più legittima, in data 12 novembre 1979 presentai una relazione con la quale riferivo sui vizi di legittimità riscontrati soprattutto nei bandi di appalto-concorso e nelle deliberazioni di esclusione dalle gare di alcune imprese e proponevo un intervento urgente e diretto del Presidente MATTARELLA sugli Organi del Comune per conseguire la sospensione della aggiudicazione degli appalti, nonché un intervento mediato attraverso "i competenti organi di ordinaria vigilanza" (Assessorati alla Pubblica Istruzione ed agli Enti locali) per indicare al Comune la modalità corrette attraverso cui avrebbe dovuto procedere alla reiterazione delle procedure d'appalto.

Tale relazione, presentata prima della scadenza dei limiti di tempo fissati nel decreto d'incarico (peraltro ordinatori e per prassi solitamente non rispettati in relazione alle esigenze operative degli accertamenti), venne da me stesso consegnata all'ufficio del Segretario Generale nonché personalmente al Capo di Gabinetto del Presidente Dott.ssa TRIZZINO, alla quale verbalmente feci inoltre presente quanto segue:

1) che dal punto di vista formale la ispezione era considerata conclusa, avendo io adempiuto ai compiti fissati nel decreto presidenziale di incarico;

2) che, tuttavia, la mia relazione volutamente si prestava a non essere considerata conclusiva (e conseguentemente l'attività ispettiva avrebbe potuto essere protratta), qualora ciò potesse servire a tenere il Comune sotto pressione finché non avesse deliberato formalmente di sospendere le procedure per l'aggiudicazione degli appalti;

3) che io ero personalmente restio a proseguire le indagini, perché consideravo rischiosi approfondimenti che avrebbero teoricamente ed eventualmente potuto condurre a rilievi di carattere penale, trattandosi peraltro di una ricerca estranea ai compiti istituzionali;

4) che ero restio a tale prosecuzione, anche perché la materia degli appalti è notoriamente "spinosa" per le possibili correlazioni di natura indefinibile fra organi del Comune di Palermo e taluni ambienti di appaltatori, il che avrebbe potuto comportare anche situazioni difficili;

5) che, da un punto di vista strettamente amministrativo, le conclusioni cui ero pervenuto nella mia relazione rappresentavano il massimo risultato possibile (rilievo di irregolarità e conseguente ripercorso dell'iter amministrativo per l'esperimento degli appalti, anche mediante la sola riapertura dei termini per la presentazione delle domande di partecipazione alle gare);

6) che suggerivo al Presidente l'opportunità di un intervento immediato e pressante (con lettera) per ottenere il risultato della sospensione degli appalti;

7) che, da un punto di vista politico, il Presidente MATTARELLA avrebbe potuto ritenersi soddisfatto di un tale risultato, potendosi a lui ascrivere il merito di avere tempestivamente bloccato una operazione che appariva poco limpida;

8) che, comunque, rimanevo disponibile alle istruzioni che il Presidente mi avrebbe impartito.

Il Presidente MATTARELLA ebbe la relazione lo stesso giorno, la lesse e la condivise, come poi mi confermò la Dott.ssa TRIZZINO; telefonò immediatamente al Sindaco MANTIONE, da cui ottenne l'assicurazione che il Comune aveva deciso di "bloccare tutto", ne diede atto in un appunto autografo in calce all'originale della mia relazione; inoltre diede istruzioni alla Dott.ssa TRIZZINO. Quando, l'indomani, mi recai a colloquio con essa, la Dott.ssa TRIZZINO mi comunicò il contenuto di tali istruzioni che erano le seguenti:

1) Il Presidente aveva disposto che la Segreteria Generale elaborasse una lettera da indirizzare all'Assessorato Regionale della Pubblica Istruzione, in conformità alle proposte da me formulate nella relazione ispettiva;

2) il Presidente desiderava che l'ispezione continuasse "anche se dovessero emergere rilievi penali".

Quanto alla prima direttiva, la Dott.ssa TRIZZINO la trasmise telefonicamente in mia presenza al Segretario Generale, Dott. Sergio GRIFEO, che, dopo una breve polemica sulla necessità di tenere l'originale e non una copia della mia relazione, mi convocò immediatamente ed in mia presenza diede istruzioni al suo collaboratore Dr. MICELI per la redazione di una lettera da inviare, come si concordò sul momento dietro mio suggerimento, non solo all'Assessorato della Pubblica Istruzione ma anche a quello degli Enti Locali per la eventualità che fosse necessario ricorrere in seguito ai suoi poteri sostitutivi nei confronti del Comune in caso di renitenza. Il Dott. GRIFEO non mancò, in quella occasione, di criticare punto per punto le deduzioni della mia relazione che non condivideva affatto; e poiché, ciò malgrado, si attenne alle direttive presidenziali, ne ricavai l'impressione che volesse in ogni modo sottolineare questa sua divergenza con il Presidente. Tanto più ne rimasi perplesso, in quanto collegai la circostanza col fatto che l'ispezione aveva la caratteristica formale di un'altra novità assoluta: mentre infatti tutti i precedenti incarichi ispettivi pervenivano in arrivo all'ufficio ispettivo (protocollate in partenza dal Gabinetto o dalla Segreteria Generale), questo mio per la prima volta nasceva cartolarmente da un provvedimento protocollato in partenza dall'ufficio ispettivo, per disposizione del Dott. GRIFEO. Più avanti, alcuni giorni dopo, la circostanza di quel ribadito distinguo del Dr. GRIFEO dall'orientamento del Presidente, mi tornò in mente quando appresi dalla stampa che egli si era dimesso per contrasti di fondo con il Presidente. Come altri colleghi, ritenni che le dimissioni del GRIFEO, annunciate per febbraio, sarebbero potute rientrare qualora la crisi di governo, frattanto aperta, avesse prodotto la sostituzione di MATTARELLA dalla carica di Presidente. Quanto alla seconda direttiva, che mi riguardava direttamente, debbo dire che mi vi adeguai certamente (riprendendo a recarmi in Comune per la consultazione degli atti ed elaborando appunti) ma con una riserva circa i tempi di esecuzione, nel senso che, siccome consideravo sostanzialmente esaurito il mio compito, non solo reputavo gli accertamenti che avrei potuto ulteriormente effettuare insuscettibili di modificare (ma semmai integrare con più minuziosi dettagli) le conclusioni cui ero già pervenuto, ma ritenni anche di potere proseguire il lavoro senza l'urgenza originariamente disposta ed ormai superata, e prevalentemente in funzione di supporto (con il prosieguo di una lenta ma presente attività ispettiva presso il comune) all'azione del Presidente e dell'Assessorato della Pubblica Istruzione per la definitiva e coerente conclusione della vicenda nel senso da me proposto ed accettato dal Presidente MATTARELLA. Ricordo di avere comunicato questa mia disposizione d’animo anche alla Dott.ssa TRIZZINO, alla quale precisai pure, scherzosamente, che tale mio atteggiamento era suggerito dalla preoccupazione di poter "finire in una betoniera", data la materia e data la decisione con cui avevamo (il Presidente ed io) messo le mani nel mondo palermitano degli appalti. D'altronde, da un punto di vista professionale, ero in una posizione corretta potendo sempre giustamente sostenere che avevo esaurito l'incarico, tanto che il Presidente aveva approvato le mie conclusioni, dandovi seguito in effetti anche con atti ufficiali. Permanevano, però, in me la perplessità sull'assicurazione del Sindaco data telefonicamente al Presidente, che il Comune aveva "deciso di bloccare tutto". Temevo, infatti, che il Sindaco si riferisse, più che ad un impegno di deliberare formalmente la sospensione del processo di aggiudicazione degli appalti in coerenza con le motivazioni giuridiche da me suggerite, a quanto era già stata fatto dal Comune (prima ancora della telefonata del Presidente MATTARELLA) e che si prestava a determinare una situazione di ambiguità ed incertezza. Mi riferisco a quanto operato dall'Assessore comunale ai Lavori Pubblici LORELLO, nella sua qualità di Presidente delle Commissioni giudicatrici dei sei progetti-offerta per gli appalti-concorso delle sei scuole. In data 10 novembre 1979, due giorni prima, cioè, della presentazione della mia prima relazione ispettiva, ma indipendentemente, l'Assessore LORELLO, presiedendo una delle sei commissioni, propose, ottenendo assenso unanime, di sospendere i lavori essendo in corso una ispezione regionale di breve durata. Era pertanto molto probabile che il Sindaco, nella conversazione di due giorni dopo col Presidente MATTARELLA, intendesse riferirsi, con l'espressione "il Comune ha deciso di bloccare tutto", esattamente alle determinazioni dell'Assessore LORELLO. Tanto più che questo aveva dichiarato in commissione di ritenere "la necessità che sull'argomento si pronunzi la Giunta Municipale".

Poiché una tale pronuncia della Giunta Municipale non risulta essere intervenuta (e ciò ancora a tutt'oggi), almeno non a livello di formale atto deliberativo (anche se può ipotizzarsi una irrituale presa d'atto, eventualmente risultante dai verbali della Giunta, del proposito dell'Assessore LORELLO di non procedere ad ulteriori convocazioni delle commissioni giudicatrici), avevo motivo di supporre che le assicurazioni del Sindaco date al Presidente circa il "blocco" delle operazioni fossero state date e recepite in buona fede, ma sulla base di un equivoco, che avrebbe potuto risolversi negativamente una volta cessata la pressione della Regione (o con la chiusura dell'ispezione o con la sostituzione del Presidente MATTARELLA, data la crisi di Governo in corso) mediante una possibile ripresa delle. procedure di aggiudicazione al punto in cui esse erano state sospese, potendosi rilevare quindi che “blocco" stava per "sospensione di fatto" nel lessico comunale. Mi preoccupavo anche che queste perplessità fossero presenti anche al Presidente MATTARELLA. Come ho già detto, dal punto di vista formale, potendo legittimamente considerare esaurito il mio compito, non avrei dovuto preoccuparmi degli esiti successivi alla mia relazione del 12 novembre; ma poiché il Presidente mi aveva posto, colla direttiva verbale di proseguire le indagini, in una posizione imbarazzante, e poiché dal punto di vista della mia serietà professionale giudicavo più positivo che le mie deduzioni ispettive conseguissero un risultato concreto in una conclusione dell'intera vicenda ad esse conformi, in data 23 novembre '79 mi sono risolto a presentare un secondo stralcio di relazione, limitato alla materia delle commissioni giudicatrici, che era uno degli argomenti che andavo via via approfondendo nel corso del seguito di ispezione fondato sulla direttiva verbale del Presidente. In tale relazione evidenziavo che "la sospensione dei lavori di una sola commissione giudicatrice... non soddisfa pienamente.... l'esigenza e... l'urgenza di pervenire tempestivamente, in via cautelativa, ad un provvedimento di sospensione delle aggiudicazioni degli appalti", ed avvertivo anche che "fino a quando l'amministrazione comunale non abbia formulato espressamente con apposito atto deliberativo la propria volontà di non concludere l'iter degli appalti concorso per riformarne gli atti preliminari onde procedere ad una modifica sostanziale delle gare in funzione dell'interesse pubblico di disporre di una pluralità di offerte, rimane sempre viva la possibilità che le commissioni giudicatrici... riprendano e concludano i propri lavori". La relazione del 23 novembre venne da me consegnata all'ufficio del Segretario Generale, che la fece pervenire al Presidente con una nota di accompagnamento del 27 novembre (prot. n. 509) a firma del dirigente coordinatore del servizio ispettivo. Sull'originale di tale nota di accompagnamento il Presidente annotò, il 28 novembre, una puntata duramente polemica nei confronti della Segreteria Generale e del servizio ispettivo, che non avevano sentito il dovere di formulare proposte. Da tale annotazione risulta chiaramente che il Presidente abbia ritenuto il convincimento che il Segretario Generale non condividesse le conclusioni della- mia relazione, tanto che dispose per iscritto l'invio all'Assessorato regionale della Pubblica Istruzione della mia relazione, insieme ad una bozza di lettera di accompagnamento minutata da lui stesso o dal suo Gabinetto, in cui si invitava l'Assessorato ad assumere le iniziative conseguenti ed opportune, indicando in particolare quella di invitare il Comune ad esercitare i propri poteri di autotutela nel senso da me rappresentato. L'Assessorato della Pubblica Istruzione, che aveva già scritto al Comune sulla base della mia prima relazione del 12 novembre, non ha ritenuto che la seconda relazione, pervenutagli con la lettera del Presidente sopra detta, aggiungesse nuovi elementi sufficienti a giustificare un secondo intervento sul Comune e se ne è astenuto fino al 14 gennaio 1980, dopo la morte del Presidente, data in cui ha inviato al Comune una nota di sollecito del riscontro alla prima lettera fondata sui rilievi della mia prima relazione, senza far cenno al contenuto della seconda.

Sta di fatto che fino alla data della morte del Presidente il Comune non ha dato alcun riscontro epistolare (né all'Assessorato della Pubblica Istruzione, né all'Assessorato Enti Locali, né alla Presidenza della Regione) che potesse rivelare un qualsiasi atteggiamento (se non quello noto della sospensione temporanea) riguardo alla sorte degli appalti, che rimanevano pertanto sempre in procinto di essere aggiudicati malgrado la decisa serie di interventi del Presidente MATTARELLA. Immediatamente dopo l'uccisione del Presidente, 1'8 gennaio '80, giornata di lutto cittadino, il Comune rompe il silenzio con una lettera (prot. n.165/SG/SZ 1) indirizzata all'Assessore della Pubblica Istruzione, a quello degli Enti locali ed al Presidente della Regione, nella quale sostanzialmente respinge tutti i rilievi formulati dalla Regione pur dichiarandosi disponibile ad un incontro. Per aggiungere un altro elemento a riprova della decisione con cui il Presidente MATTARELLA aveva perseguito lo scopo di bloccare l'operazione, riferisco il seguente particolare. Il 29 novembre 1979, il Presidente aveva fissato un colloquio al Sindaco MANTIONE per le ore 12,00, come ho appreso dalla Dott.ssa TRIZZINO. Non so se il colloquio avvenisse su richiesta del Sindaco (come tuttavia mi pare di aver capito) o per la convocazione del Presidente. Questi, che il giorno precedente aveva dato disposizione scritte per l'invio della lettera sopra citata, ebbe cura di raccomandare alla Dott.ssa TRIZZINO che la lettera stessa venisse indirizzata all'Assessorato della Pubblica Istruzione con data e protocollo del 28 novembre ancorché materialmente spedita il 29 mattina, allo scopo di potere ricevere il Sindaco al coperto da possibili ripensamenti e di potergli opporre, nella eventualità di prevedibili richieste in difformità alla linea da lui seguita, il fatto compiuto di una disposizione già ufficialmente ribadita nel senso della sospensione e del rifacimento delle gare d'appalto. Debbo a questo punto aggiungere che, al momento della presentazione della mia relazione del 23 novembre, ritenni doveroso inoltrare al Presidente anche una lettera riservata nella quale, oltre a richiamare la sua attenzione sulla poca attendibilità delle assicurazioni verbali del Sindaco, in quanto esse erano fondate su una sospensione di fatto pura e semplice della procedura di aggiudicazione degli appalti, avanzavo la proposta della acquisizione "da altri organi dell'ordinamento pubblico" (intendendo magistratura e polizia), di "elementi ed informazioni sulla personalità e. sui precedenti dei titolari delle sei imprese palermitane, uniche presentatrici di offerte, e sulle rispettive zone di influenza in relazione alle aree prescelte per la realizzazione delle sei scuole". Nella stessa lettera riservata, coglievo l'occasione per ribadire, in conclusione, che l'ispezione di cui ero stato incaricato poteva considerarsi esaurita, in quanto un suo eventuale prosieguo non avrebbe potuto condurre, sul piano amministrativo, a conclusioni diverse da quelle cui ero già pervenuto. La lettera venne protocollata con lo stesso numero e data, come è prassi, dello stralcio di relazione che vi era allegata. Quest'ultima, però, era stata formulata in modo da non richiedere necessariamente di essere inoltrata in allegato a lettera di accompagnamento, avendo una sua formale autonomia. Ciò mi consentì di inoltrare alla Segreteria Generale soltanto lo stralcio di relazione, mentre la lettera riservata venne da me sigillata in busta e personalmente da me consegnata alla Dott.ssa TRIZZINO, alla quale dissi: - "La prego di non considerare irriguardoso nei suoi confronti il fatto che le consegno in busta chiusa una lettera indirizzata al Presidente. Trattandosi di un riserbo a tutela del Presidente, io ho il dovere di comportarmi così, salvo il suo diritto di comportarsi come crede, dato il suo rapporto fiduciario col Presidente".

La dott.ssa TRIZZINO non mostrò di aversene a male e mi assicurò che avrebbe consegnato la busta chiusa. Allora aggiunsi: - "La prego di riferire al Presidente da parte mia che se egli ritiene inopportuno il contenuto di questa riservata, me lo dica con franchezza, e la lettera sarà come non scritta. A tal fine garantisco che non ho ancora acquisito agli atti la sua minuta".

A motivazione della insolita prassi che suggerivo aggiunsi ancora: "Questa busta odora di mafia, ed io non mi sento di coinvolgere altri, nè di esporre il Presidente su un terreno pericoloso".

Dopo alcuni giorni, il 28 novembre, la Dott.ssa TRIZZINO mi diede la risposta del Presidente. Riguardo allo stralcio di relazione, la risposta era nel senso che ho già detto (lettera alla P.I.); riguardo alla riservata, la Dott.ssa TRIZZINO mi disse testualmente: - "Dice il Presidente: la lettera resta" agli atti. Appena possibile, quindi, ne inserii la minuta nel fascicolo (ho saputo dopo che il Segretario Generale rimase sorpreso di trovarla come per incanto nello stesso fascicolo che aveva consultato altre volte senza vederla). Intrattenendomi ancora nell'ufficio della Dott.ssa TRIZZINO per commentare le decisioni del Presidente, mostravo di esserne soddisfatto perché essa chiudeva la fase ispettiva in vista di una soluzione radicale del problema di garantire una corretta gestione degli appalti per la costruzione delle scuole.

Dicevo, infatti, che il Presidente non aveva poteri amministrativi di intervento idonei allo scopo, essendo giuridicamente non ipotizzabile il ricorso alla sanzione dello scioglimento del Consiglio comunale, unica arma in suo potere, oltre, ovviamente, quella dell'influenza politica in funzione dell'esercizio del potere di autotutela del Comune. Una scelta diversa, che scontasse una insistenza nell'ispezione amministrativa - dicevo - avrebbe potuto dare, oltretutto, solo il risultato di esporre me personalmente al rischio, e concludevo scherzando: - Poi, lui continua a fare il Presidente della Regione, ed io finisco in una betoniera!

Era presente anche il Dr. CROSTA. Ad un tratto, mentre ancora ridevamo, si aprì la porta: era il Presidente che, vedendomi allegro, mi complimentò, chiedendomi dei miei figli mentre mi avvicinavo a lui ancora fermo sulla soglia. Subito entrai nel vivo della questione che mi aveva interessato, dicendogli qualcosa come: "Bisogna andarci piano, siamo su un terreno scivoloso".

Intervenendo, allora, la Dott.ssa TRIZZINO, celiando disse: - "Presidente, dice il Dott. MIGNOSI che, poi, Lei continua a fare il Presidente, e lui finisce nel cemento".

- "Io finisco nel cemento" - rispose MATTARELLA, guardandomi.

- "Ma no, Presidente" - replicai - "che c'entra? Lei è il Presidente della Regione".

- "Non è così" - insistette, e fece un gesto come per dire che sapeva bene quello che diceva, ed aggiunse, come per fare una concessione: - "Diciamo che ci finiamo tutti e due".

- e si allontanò nel salone dandomi appena il tempo di aggiungere: - "Magari in due plinti contigui!"

- ad alta voce, perché lo scherzo non pareva richiedere, allora, cautele di riservatezza.

Lasciato il Presidente, ero combattuto da opposti sentimenti: da un lato ero contento di poter considerare chiusa l'ispezione amministrativa, il che mi consentiva di estraniarmi alla vicenda; dall'altro ero preoccupato per aver contribuito, sia pure con la cautela che ho riferito, alla decisione scelta dal Presidente, che consideravo molto difficile.

Avvicinai il Dr. Felice CROSTA, Consigliere del Presidente, nel suo ufficio e, continuando a commentarne la disposizione, ne lodai il coraggio dicendo: - "ha scelto la via giusta. Era inutile proseguire un'azione strettamente amministrativa; su questo piano, al di là delle mie proposte non si può andare: occorre la volontà di autotutela del Comune. Se il Presidente vuole andare più in fondo, non deve fare altro che prendere il telefono e chiamare il Procuratore Generale o il Questore..."

Il Dr. CROSTA mi guardò con intenzione e disse, assentendo: - "Ma io credo che..." e chinava la testa lasciandomi capire che il Presidente lo avesse già fatto o intendesse farlo. Non ho approfondito: ancora oggi ignoro se il Presidente abbia interessato organi qualificati, ufficialmente o confidenzialmente, per indagini sugli appaltatori di natura diversa da quella amministrativa. E' vero che ne chiesi poi notizie alla Dott.ssa TRIZZINO, ma questa mi rispose di non esserne al corrente, aggiungendo che per questo genere di affari il Presidente si avvaleva della collaborazione del Dr. CROSTA.

Il successivo 30 novembre, due giorni dopo, rividi il Presidente. Ero andato a chiedere alla Dott.ssa TRIZZINO, che però mi disse che non aveva avuto occasione di informarsene, notizie sull'incontro del Presidente col Sindaco MANTIONE. Anche in quell'occasione, il Presidente giunse all'improvviso nell'ufficio di Gabinetto, di passaggio verso una riunione che era già in corso al piano terreno.

Lo accompagnai per chiedergli notizie "di prima mano" sul suo colloquio col Sindaco. Mi rispose che era andato "benissimo":

- "MANTIONE Li una persona seria. Mi ha garantito che rifaranno la gara d'appalto".

- "Sono contento - gli dissi - è la soluzione migliore per tutti. Avevo il timore che al Comune non fossero in condizione di tirarsi indietro, pur con tutta la buona volontà. Potevano avere degli impegni... e non riuscire a svincolarsi".

Mi rispose: - "Non ci sono problemi. Faranno una delibera di revoca, anziché di annullamento. E' giusto che salvino la faccia. Gli ho persino suggerito la motivazione: poiché siamo in presenza di una sola offerta; considerato l'interesse del Comune ad avere una possibilità di scelta fra una pluralità di progetti, ecc.".

Aggiunse anche: - "Il problema è chiuso. Ora possiamo rientrare..."

Capii che si riferiva all'ispezione e gli chiesi: - "Benissimo, Presidente - e, mentre mi salutava ai piedi dello scalone, aggiunsi: "Lei può essere soddisfatto: ha raggiunto il risultato di rimettere le cose a posto". Ricordo che successivamente, subito dopo la morte del Presidente MATTARELLA, quanto avevo appreso da lui circa i suoi colloqui col Sindaco MANTIONE mi è tornato dolorosamente alla memoria, perché il Presidente non era arrivato a coronare il suo intendimento poiché, infatti, gli impegni che egli mi diceva essere stati assunti dal Sindaco riguardo agli appalti scolastici non si erano ancora verificati.

Come ho già detto, il Comune di Palermo, dalla data dei primi esposti (luglio '79) che denunziavano pretese irregolarità nello svolgimento delle gare di appalto, per tutta la durata dell'ispezione, fino alla data della morte del Presidente MATTARELLA, ha mantenuto il silenzio sull'intera vicenda sia dal punto di vista della emanazione di atti deliberativi, sia da quello della corrispondenza con la Regione" (cfr. Fot. 614927 Vol. II). Si è riportato quasi interamente il promemoria del Dr. MIGNOSI, perché esso bene esprime la tensione e la sensazione di poricolo che quell'incarico ispettivo determinò non solo nel funzionario ma, quel che più conta, nello stesso Presidente della 577-, Regione, come Li stato confermato - secondo quanto si Li visto all'inizio di questo capitolo - dalla Sig.ra TRIZZINO, dall'On. Sergio MATTARELLA e dallo stesso Dr. CROSTA, il quale riferiva alla Squadra Mobile di essere stato presente ad` un colloquio tra il Presidente ed il Dr. MIGNOSI.

Il CROSTA precisava che, nel corso di questo, «il MIGNOSI aveva fatto rilevare che a séguito della sua ispezione, si sarebbero potuto verificare "reazioni"» e l'On. MATTARELLA aveva risposto che «se ci fossero state reazioni, a tali reazioni sarebbe stato interessato lui e non certo l'ispettore». E' peraltro da aggiungere che il Dr. CROSTA ha aggiunto che «in tale occasione il Presidente MATTARELLA aveva detto che comunque il problema si poteva considerare ormai superato, giacché se non ricordo male, nella stessa mattinata aveva avuto un colloquio nel suo ufficio con il Sindaco e con l'Assessore LORELLO, i quali gli avevano assicurato che avrebbero senz'altro proceduto al rinnovo di tutta la procedura relativa all'aggiudicazione degli appalti» (Fot. 615492, Vol. III). L'importanza attribuita alla questione dal Presidente MATTARELLA appare palese da tutto quanto precede. Va sottolineato in questa sede, rimandando ad un approfondimento successivo, che nella vicenda l'azione dell'on. MATTARELLA fu pressante, nuova nelle forme giuridiche adottate e sembrò addirittura - allo stesso dott. MIGNOSI - motivata in un primo tempo da "interessi politici". Pertanto, il tasso di esposizione del Presidente MATTARELLA fu elevato, se è vero (come è vero) che per tale iniziativa spesso, sia lui sia il MIGNOSI, ebbero a pensare - ancorché tra il serio ed il faceto - di potere "finire nel cemento". E, peraltro, si deve osservare che, ancora di recente, anche il Prof. Leoluca ORLANDO CASCIO, già stretto collaboratore del Presidente MATTARELLA e poi Sindaco della città' di Palermo dal 1985 41 1990, ha sottolineato l'importanza della «attenzione, anche amministrativa, (da parte del Presidente assassinato) per la vita comunale palermitana», rilevando che fu «certamente di grande rilievo simbolico l'ispezione disposta sugli appalti per la costruzione di alcune scuole».

Il Prof. ORLANDO ha poi aggiunto che: «tali scelte furono rese possibili tanto per la particolare ampia maggioranza che sosteneva il primo governo MATTARELLA, quanto per la stessa determinazione ed autorevolezza del Presidente».

Ha sottolineato, infine, che: «Il Comune di Palermo. prima di MATTARELLA, appariva politicamente una zona "off limits", egemonizzata da un "comitato di affari" che vedeva nei CASSINA, nei VASSALLO ed in altri imprenditori l'espressione economica e che vedeva in CIANCIMINO e nei suoi amici (dentro e fuori la D.C.) espressioni politiche». (29.5.1990, Vol. LXIX, Fot. 919394).

Appare doveroso osservare, a proposito dell'incidenza dell'intervento personale del Presidente MATTARELLA, che una ispezione ordinaria - disposta dall'Assessorato Regionale Enti Locali nei confronti del Comune di Palermo sui tema degli appalti in data 7.12.1979 - alla data del 7 maggio 1981, per difficoltà burocratiche di varia natura, non era stata ancora completata ed anzi doveva avere ancora effettivo inizio (cfr. dichiarazioni di LO FRANCO, DI VITA e MIGLIACCIO (Fott. 617239, 617243, 617270, Vol. IX). Alla vicenda relativa all'indagine sulle sei scuole, memoria difensiva della p.c. PCI-PDS del 30.5.1991 dedica una parte, in cui - rifacendosi peraltro agli atti del processo per l'omicidio del Procuratore della Repubblica dott. COSTA - lamenta che certe indagini delegate dal P.M. alla G. di F. il 14.7.1980 non vennero più espletate, di fatto, dopo la morte del compianto Magistrato. Al riguardo, non potendosi assolutamente entrare, in questa sede, nel merito di altro processo, giova solo precisare che - dagli atti di questo processo - emerge che 1' istruttoria sommaria fu condotta esclusivamente dal P.M. dott. Pietro GRASSO (ovviamente, in un ufficio gerarchicamente organizzato, con l'intesa di massima col Procuratore capo). Inoltre, l'importanza fondamentale attribuita a quell'indagine, su cui l'organo di p.g. delegato ebbe a riferire con rapporto definitivo del 28.3.1981, appare obbiettivamente sovradimensionata per due motivi logici:

1) il dott. GRASSO continuò a seguire l'istruttoria, anche dopo la formalizzazione, ed essa rimase nelle mani del Cons. Istr. CHINNICI (che, si assume nella stessa memoria, aveva avuto frequenti contatti col Proc. COSTA) per circa tre anni, di talché se il dott. CHINNICI avesse pensato che la stessa era fondamentale per le indagini, non avrebbe omesso di perseguirla con tutti i mezzi (invero notevoli) di cui era capace;

2) l'indagine, secondo quello che si è detto, portava in rotta di collisione l'azione dell'on. MATTARELLA con interessi mafiosi e questo, come diffusamente chiarito nel presente: provvedimento emerge pacificamente, onde non si vede sotto un profilo eminentemente probatorio - quale ulteriore contributo al processo sarebbe potuto venire da quegli asseriti accertamenti "inevasi", atteso che (si dirà chiaramente in prosieguo) in "Cosa Nostra" l'esistenza di un «problema MATTARELLA è pacifico, tanto che il BONTATE (cui il "gruppo INZERILLO" delle sei scuole era notoriamente vicino) aveva certamente dato il suo assenso di massima - come lo stesso INZERILLO - alla risoluzione del «problema», nei termini che appresso saranno dettagliatamente chiariti.

Vito Ciancimino e gli altri. La Repubblica il 14 gennaio 2020. Parzialmente diversa è stata, invece, la lettura degli avvenimenti fatta da CIANCIMINO Vito, il quale, in una dichiarazione resa al G.I. il 7 luglio 1990, ha affermato (loc. cit.): "Vero è che fino al periodo precedente le elezioni amministrative del 1975 io ero consigliere comunale D.C. di Palermo e capo gruppo consiliare, militando all'interno della corrente di maggioranza "fanfaniana", facente capo all'On. Giovanni GIOIA. In prossimità di quelle elezioni, il partito decise di non ricandidare più coloro che avessero già fatto tre o più consiliature, tra cui vi ero io, che ne avevo fatte quattro. Considerato che non condividevo tale forma di rinnovamento in sede locale, al quale non seguiva un analogo rinnovamento in sede nazionale, manifestai apertamente la mia opposizione. Di tal che nelle elezioni del 1975 presi le distanze da tutte le altre correnti della D.C. e feci eleggere (o meglio contribuii a fare eleggere) 7 consiglieri comunali, mettendo in crisi la maggioranza fino ad allora detenuta dall'On. GIOIA. Questa mia dissidenza aperta portò alla crisi della Giunta MARCHELLO, eletta subito dopo le consultazioni del 1975, e determinò, seppure indirettamente, quella Giunta SCOMA, appoggiata da tutte le componenti D.C. ad eccezione di quelle dell'On. GIOIA e mia. Tale dissidenza ebbe termine nel novembre 1976, esattamente il 6, a seguito di un incontro da me avuto a Palazzo Chigi con l'On. ANDREOTTI, alla presenza dell'On. LIMA, di Mario D'ACQUISTO e dell'On. Giovanni MATTA. Tale riunione era stata preceduta da una presa di contatto verso di me dell'On. MATTA, il quale, ovviamente, era solo il "nuncius" delle volontà di LIMA, di D'ACQUISTO e dello stesso ANDREOTTI. In effetti, io avevo in precedenza rifiutato un incontro con l'On. LIMA, nel senso non di non volerlo incontrare fisicamente poiché questo avveniva di frequente, ma nel senso che non avrei potuto "quagliare" alcunché di politicamente solido con lui in ordine ai motivi della mia dissidenza, giacché non lo ritenevo politicamente affidabile. Egli, infatti, era colui che - a mio avviso - a pochi giorni dalle elezioni politiche del 1968, aveva rotto un patto con l'On. GIOIA, creando grossi scompensi all'interno della corrente in cui tutti noi allora militavamo. Pertanto, accettai l'incontro con l'On. ANDREOTTI (allora - tra l'altro - Presidente del Consiglio), in quanto l'ho sempre ritenuto affidabile e tale mio giudizio, anche in quella occasione, era stato condiviso dall'On. Nino GULLOTTI, al quale avevo parlato della proposta d'incontro, persona con la quale ho sempre avuto rapporti estremamente franchi anche se talora divergenti sul piano politico. Come detto, in esito a tale incontro, la mia dissidenza sul piano locale cessò e ve ne è prova per il fatto che, nei giorni immediatamente successivi, un mio compagno di corrente, il Dott. Francesco ABBATE, su indicazione del mio gruppo, entrò a fare parte della Giunta provinciale di Palermo. A livello comunale, viceversa, il mio gruppo espresse degli assessori, esattamente due, solo dopo circa un anno (nel c.d. monocolore SCOMA della fine del 1977), in quanto dopo l'incontro con ANDREOTTI rifiutai - per questione di stile politico - di accettare la proposta dell'On. LIMA di sostituire con due miei compagni di corrente gli assessori repubblicani".

In sostanza, il CIANCIMINO cercava di minimizzare il significato del cambio di maggioranza all'interno della D.C., culminato nella formazione della Giunta SCOMA e nella elezione di REINA Michele alla Segreteria Provinciale, sottolineando l'unanimità presto ricomposta nel partito con l'adesione alla maggioranza del suo gruppo e di quello che faceva capo all'On. GIOIA. Si deve però osservare, in proposito, che (a prescindere dalla reale portata dell'incontro con l'On. ANDREOTTI - che, secondo l'On. LIMA, fu «un normale incontro politico, volto a raggiungere una pacificazione generale a Palermo, dato che anche l'On. GIOIA aveva dato il suo consenso a questa nuova stagione politica», mentre «la versione datane dal CIANCIMINO è nettamente enfatizzata per la parte che lo riguarda») dalle altre testimonianze acquisite agli atti è risultato chiaramente che l'adesione delle correnti "GIOIA" e "CIANCIMINO" alla maggioranza aveva solo un significato di "accordo tattico", mentre permanevano i contrasti di fondo sulla linea politica.

Questo è ben esplicitato dall'On. GORGONE, che ad esempio ha fatto notare che (loc. cit.): "Vero è che al congresso provinciale del 1977 il REINA venne riconfermato all'unanimità. Questo, però, non significava che i dissensi di linea politica tra le varie componenti erano spariti, ma solo che si era trovato un momento di accordo, forse occasionato anche dalla volontà dell'On. GIOIA di non continuare le ostilità interne. Taluni definiscono questo atteggiamento come arrendevolezza, la verità però - come qualche anno dopo potè verificarsi - è che l'On. GIOIA forse già covava quel male che poi lo condusse a morte" (il deputato decederà, infatti, per un tumore il 26.11.1981: N.D.R.). Pure l'On. PURPURA ribadiva che «anche la corrente dell'On. GIOIA e di Vito CIANCIMINO finirono con confluire in questa gestione politica nuova, seppure a livello semplicemente formale, in quanto permanevano le ragioni politiche di fondo da loro sempre sostenute».

In questo senso, una ulteriore conferma veniva dalle dichiarazioni dell'On. Nino MANNINO, a quel tempo segretario provinciale del P.C.I. e poi componente della Commissione Parlamentare Antimafia, il quale affermava, in data 28.6.1990 (loc. cit.): «Vero è che tra la prima e la seconda sindacatura di Carmelo SCOMA vi fu un ritorno nell'area della maggioranza interna della D.C. sia dei "fanfaniani" che dei "Cianciminiani". Ricordo di aver parlato di ciò, in termini preoccupati, sia con REINA sia con NICOLETTI, minacciando di ritirare l'appoggio programmatico del P.C.I. Essi mi risposero però che se il P.C.I. avesse fatto ciò, avrebbe lasciato sola quella parte della D.C. che voleva un rinnovamento della vita politica comunale e regionale a Palermo e in Sicilia. Fu per questo che il P.C.I. continuò, se pure per pochi mesi ancora, a mantenere aperto il dialogo con l'intera D.C.L1. In sostanza, dal complesso di tutte le dichiarazioni acquisite agli atti (alle quali si rinvia per 1'aspetto particolare della posizione delle diverse Giunte Comunali sul problema del c.d. "risanamento del centro storico"), emerge l'importanza - per gli equilibri politici della città di Palermo e dell'intera regione - del cambio di alleanze e di maggioranze, all'interno della D.C., che ebbe luogo negli anni 1975/76. Ed invero, fino a quella data, la corrente "fanfaniana" che faceva capo all'On. GIOIA, con l'appoggio dei gruppi di CIANCIMINO Vito, di Bernardo e - poi - di Piersanti MATTARELLA, nonché dei "dorotei", pur nella chiara diversità di apporti e di caratteristiche, aveva goduto di una pressoché totale egemonia all'interno del partito e, conseguentemente, anche nel governo della città, mantenuto grazie alla costante alleanza con il P.R.I. e con il P.S.D.I. Secondo il contributo ultimo dell'on. Sergio MATTARELLA (17.12.1990), tuttavia, la scelta politica di Piersanti – in favore dell'on. GIOIA (e di CIANCIMINO) - trovò giustificazione "strategica" nella valutazione (poi rivelatasi errata) che il GIOIA garantisse alle "minoranze" interne maggiore spazio di quello che avrebbe lasciato loro la corrente dell'on. LIMA. Questa posizione politica egemone era stata, quindi, caratterizzata da una netta contrapposizione - all'esterno del partito - con il P.C.I. e il. P.S.I. e, all'interno, da violenti scontri con le minoranze, facenti capo agli "andreottiani" dell'On. LIMA, all'On. NICOLETTI e all'area vicina alla CISL. Esempio importante di questi scontri è il c.d. "manifesto dei 12" del 17 novembre 1970, in cui alcuni esponenti della minoranza (NICOLETTI, AVELLONE, BONANNO, REINA, BRANDALEONE, BRUNO e PURPURA) si rivolgevano al dirigente organizzativo centrale della D.C., On. Oscar Luigi SCALFARO, per formulare pesantissime critiche, sulla situazione palermitana, non solo sul piano della linea politica ma anche del rispetto delle regole della vita di partito (tesseramenti fantasma ed altro). Il tutto contro la maggioranza di allora e per essa - emblematicamente - contro il CIANCIMINO, a quell'epoca sindaco della città (seppure solo dall'ottobre 1970 all'aprile 1971, quando fu costretto a dimettersi per le pressioni politiche rivolte da molti nei suoi confronti).

Va detto che, se pure negli anni fino al 1975 talune di queste minoranze entrarono a far parte delle giunte presiedute da Giacomo MARCHELLO (espressione dell'on. GIOIA), questo non significò cessazione dell'opposizione, ma soltanto dimostrazione di quella "flessibilità" tattica - tipica delle correnti D.C. - di cui hanno efficacemente parlato l'on. GORGONE e l'on. PURPURA. Dopo il 1975/76, invece, in coincidenza anche con i nuovi rapporti tra i partiti che stavano maturando a livello nazionale con i governi di "solidarietà nazionale", vi fu - come si è visto - un ribaltamento della situazione anche a Palermo. Questo fu determinato, peraltro, proprio dal passaggio della corrente "morotea" di Piersanti MATTARELLA e di quella "dorotea" all'alleanza con i gruppi degli On. LIMA, GULLOTTI e NICOLETTI e dell'area CISL (AVELLONE, D'ANTONI), che mise in minoranza la corrente dell'on. GIOIA (proprio in quei mesi abbandonato anche dal CIANCIMINO). E - inevitabilmente - la nuova maggioranza, ispirata dal gruppo "andreottiano" dell'on. LIMA, non poteva non assumere una posizione di apertura e collaborazione con i partiti della sinistra, sia per rispecchiare la linea nazionale sia per diminuire il peso dell'ancor forte opposizione interna dell'on. GIOIA. In questa chiave, ed in questo quadro complessivo, vanno quindi visti la nomina di Michele REINA alla Segreteria provinciale della D.C. e l'elezione di Piersanti MATTARELLA alla Presidenza della Regione. In altri termini, essendo cessata all'interno della D.C. palermitana l'egemonia di una sola corrente, l'area della maggioranza (seppur con la prevalente partecipazione della corrente "andreottiana" dell'on. LIMA) era divenuta composita. Questa circostanza nuova, unita al fatto che vi era l'appoggio (interno ed esterno) da parte dei partiti di sinistra fece sì che l'esponente di un gruppo - come il rappresentativo di una piccola frangia della D.C. (circa il 10%), potè divenire - per il proprio "peso" personale - Presidente della Regione, in quanto espressione di una larga coalizione.

La ricostruzione fin qui effettuata ha trovato sostanziale conferma anche nelle dichiarazioni rese, da ultimo in data 17.12.1990, dall'On. Sergio MATTARELLA (loc. cit.): "Vero è che nel 1968 vi fu una spaccatura tra l'On. LIMA e l'On GIOIA, che prima militavano all'interno della stessa corrente fanfaniana. Sento di precisare, però, che il rapporto fra i due non divenne di contrasto, ma che essi passarono da una fase collaborativa ad una fase concorrenziale sempre però all'interno del sistema di guida e controllo della vita amministrativa della città e della Provincia di Palermo. Questo è tanto vero che uno dei due gruppi esprimeva il sindaco e l'altro il Presidente della Provincia. In questo passaggio politico si inserì, a cavallo del 1970, la necessità di scegliere - per i gruppi minori della D.C. provinciale, tra cui quello di mio fratello Piersanti - tra LIMA e GIOIA al momento dell'elezione a sindaco di Vito CIANCIMINO o meglio tale necessità si era già posta per l'elezione degli organismi provinciali del partito nel 1968. La scelta fu in favore di GIOIA in quanto si ritenne che egli avrebbe "compresso" meno i gruppi minori ed anche perché la persona da lui indicata come candidato alla Segreteria, l'On. Giacomo MURATORE, veniva ritenuta molto equilibrata. Altro motivo della scelta di GIOIA fu quello relativo alla vicinanza tra l'On. LIMA e gli esattori SALVO, ritenuta estremamente imbarazzante in sé ed anche perché questi ultimi negli anni precedenti avevano fortemente contribuito ad interrompere l'esperienza positiva dell'On. Giuseppe D'ANGELO, quale Presidente della Regione. Questa scelta operata nel 1968 comportò, come logica conseguenza, l'appoggio alla scelta della maggioranza fanfaniana in favore di Vito CIANCIMINO quale sindaco di Palermo. Che quest'ultima scelta del gruppetto moroteo fosse legata a quella fatta nel 1968 mi pare dimostrato anche dal fatto che, all'indomani dell'elezione del CIANCIMINO, mio fratello Piersanti, unitamente all'On. RUFFINI (doroteo), altro esponente della maggioranza interna alla D.C. palermitana, fecero una dichiarazione con la quale invitavano il partito a riesaminare la situazione complessiva. Dopo alcuni anni di questa esperienza di maggioranza con "fanfaniani" (anche se i "morotei" erano solo due su quarantadue), Piersanti si rese conto che, nel concreto, le aspettative che aveva nutrito sull'On. GIOIA, soprattutto in tema di democrazia interna e di rispetto dei gruppi minori, erano infondate o meglio si erano progressivamente vanificate. Pertanto, soprattutto per i motivi politici che di seguito indicherò, nel 1976 contribuì a quel rinnovamento della D.C. palermitana, che vide Michele REINA come Segretario Provinciale e Carmelo SCOMA quale sindaco di Palermo. Il contributo del gruppetto moroteo (divenuto di 3 componenti su 42) finì con l'essere determinante, al pari degli altri gruppi minori, in quanto tutti questi facevano da ago della bilancia tra i due gruppi maggiori dell'On. GIOIA e dell'On. LIMA, mentre il gruppo del CIANCIMINO era su posizioni "aventiniane". I motivi del rinnovamento possono sintetizzarsi nella volontà di far corrispondere a Palermo quella sintonia tra l'On. MORO e l'On. ANDREOTTI, che aveva portato a Roma ad un governo caratterizzato dalla astensione del P.C.I. e, quindi, da una crescente attenzione della D.C. verso rapporti con questo partito fortemente osteggiata dalla corrente dell'On. FANFANI. Questa linea politica si stava manifestando anche alla Regione, col governo BONFIGLIO, attraverso forme di accordo programmatico col P.C.I. evidenziate già alla fine del 1975 col c.d. "patto di fine legislatura". Ma l'On. MATTARELLA ha, in questa occasione, voluto sottolineare altresì il ben diverso "peso" e la ben diversa importanza del ruolo svolto dal Presidente assassinato nell'ambito comunale ed in quello regionale.

Sostanzialmente marginale nel primo caso, di primo piano e addirittura decisivo nel secondo: "In questa linea politica era cruciale sul piano regionale il ruolo di Piersanti MATTARELLA sia per la crescente affermazione della sua personalità sia per i rapporti che egli, più degli altri esponenti del partito, intratteneva con i comunisti siciliani. Per Piersanti questa attenzione verso il P.C.I. doveva rappresentare insieme una sponda essenziale per nuovi indirizzi politici e una condizione utile per spingere sia il partito nel suo complesso sia l'intero sistema politico regionale a comportamenti politici ed amministrativi diversi dal passato e più coerenti con la posizione di rinnovamento. Tengo, peraltro, a fare presente che il gruppo moroteo siciliano ha sempre avuto un forte senso della propria autonomia ed identità propria nell'ambito del partito e, quindi, anche di diversità rispetto a tutte le altre componenti. Anche coerentemente a questo atteggiamento, il gruppo - sul piano comunale - non esitò a mantenere e quasi a sottolineare una posizione marginale all'interno della nuova maggioranza costituitasi nel 1976. Tutto ciò si concretizzò in un atteggiamento verso l'operato delle giunte comunali che pure il gruppo sosteneva e della stessa segreteria del partito che io definirei "di vigilanza" e di "attenzione critica". Si concretizzò, pure, nel rifiuto di assumere posizioni di vertice in due precise occasioni e cioè quando fu proposta la candidatura a sindaco della dr. AMBROSINI (fine 1977, dopo la prima giunta SCOMA) e quando fu proposta la candidatura del Prof. GIULIANA a Segretario provinciale, dopo la morte di Michele REINA.

In entrambi i casi gli interessati rifiutarono con l'approvazione di Piersanti MATTARELLA. Le SS.VV. mi chiedono di precisare nuovamente quale fosse la posizione di mio fratello Piersanti all'inizio del 1980 e in particolare se la lunga crisi del governo segnasse un suo momento di debolezza. In realtà, ribadisco che era assolutamente pacifico che mio fratello avrebbe presieduto anche il nuovo governo regionale e che egli vedeva la sua forza politica, secondo l'opinione generale, ancora in fase crescente sia in virtù dei suoi rapporti con i partiti della sinistra sia per il sistema di alleanze esistente tra i vari gruppi della D.C. Elemento ancor più decisivo forse erano i rapporti esistenti con mio fratello a livello nazionale del partito e in questo senso devo aggiungere che all'inizio del 1980 era convinzione generale che il Congresso Nazionale della D.C. previsto per il mese di febbraio, si sarebbe concluso - come già ho detto - con una maggioranza tra centro e sinistra, che avrebbe portato a riallacciare in tutte le sedi, almeno come linea di tendenza, il dialogo con il P.C.I.

E' chiaro che in questo quadro il ruolo di mio fratello era destinato a crescere ulteriormente. Invece il Congresso si concluse in modo del tutto diverso su una linea di chiusura al P.C.I., con la sconfitta della sinistra, ma questo esito maturò - contro ogni previsione - proprio e soltanto durante i giorni del Congresso". Peraltro è chiaro che tra i due livelli di azione politica e amministrativa, quello comunale e quello regionale, vi erano (e non potevano non esservi) molteplici interferenze; anche di questo vi sono significative conferme nelle più recenti dichiarazioni dell'On. MATTARELLA: "Dopo le riflessioni di questi giorni, ho ricordato due fatti che possono avere rilievo e che quindi intendo riferire. Il primo è che verso la fine del 1979 e precisamente tra la fine di novembre ed i primi di dicembre, mio fratello, parlò ai suoi più intimi collaboratori (Francesco GIULIANA, Andrea ZANGARA e Salvatore SAITTA) del suo programma di farli dimettere dal comitato provinciale del partito e di concludere la crisi che ne avrebbe seguito con il commissariamento del partito stesso. Devo dire che di questo programma (di cui mio fratello parlò anche con me) egli aveva parlato anche con la segreteria nazionale del partito, allora retta dall'On. ZACCAGNINI, ma che tuttavia tale programma doveva essere avviato ad esecuzione solo dopo il Congresso nazionale del partito, previsto per il febbraio 1980, se da tale congresso (come era previsto ma come non avvenne) fosse risultata, una maggioranza tra il centro e la sinistra del partito con la segreteria, verosimilmente, ad un esponente della sinistra. Il secondo fatto, che non mi risulta personalmente, ma mi è stato riferito dal Prof. GIULIANA, è che nel 1979 Vito CIANCIMINO fece in direzione provinciale della D.C. un duro attacco al governo regionale, presieduto da mio fratello, accusandolo di insensibilità ai problemi della città di Palermo. L'attacco traeva in realtà origine, secondo l'opinione comune, dalla mancata concessione di un finanziamento di alcuni miliardi all'AMAP di Palermo". Quest'ultima circostanza è stata poi confermata anche dall'On. GIULIANA, il quale ha altresì precisato che, al di là dell'episodio specifico del finanziamento di alcuni miliardi negato all'AMAP (di cui era Presidente, a quel tempo, un cugino dello stesso CIANCIMINO), egli attribuì alla presa di posizione del CIANCIMINO un significato politico di "chiara avversione nei confronti di Piersanti MATTARELLA".

Il quale peraltro, "non attribuì peso a tale attacco giacché non ne vedeva la refluenza sulla politica regionale".

Voleva una Regione con “le carte in regola”. La Repubblica il 15 gennaio 2020. Gioacchino Natoli, il giudice che il 9 giugno 1991 ha depositato l'ordinanza sui "delitti politici” Reina, La Torre e Mattarella. Come si è evidenziato in altra parte, nell'ambito dell'attività istruttoria sono stati assunti in esame i familiari e i collaboratori dell'uomo politico assassinato, i funzionari e gli assessori in carica nel gennaio 1980 nonché numerosi esponenti politici di tutti i partiti. Giova precisare, in termini generali, che il primo governo regionale presieduto dall'on. MATTARELLA fu eletto il 21 marzo 1978, ottenne la fiducia il 5 aprile successivo e si dimise 1'8 marzo 1979. Il suo secondo governo venne eletto il 15 marzo 1979, ottenne la fiducia dall'A.R.S. il 27 marzo seguente ed il 10 10 dicembre 1979 entrò in crisi, per cui al momento dell'uccisione l'on. MATTARELLA era in carica solo per l'"ordinaria amministrazione". In venti mesi di attività, le giunte regionali dirette dall'esponente politico D.C. presentarono all'Assemblea Regionale n. 110 disegni di legge, di cui ben 78 divennero leggi regionali, oltre ad altri 14 disegni che i "gabinetti" MATTARELLA ereditarono dal precedente governo dell'on. Angelo BONFIGLIO fecero approvare dall'A.R.S. Di tutto questo ponderoso carico legislativo, per come si è visto, l'unica legge che provocò la necessità di un'esposizione diretta dell'on. MATTARELLA (oltreché dell'on. FASINO) fu quella urbanistica (n. 71/78), di cui s'è ampiamente parlato. Ritornando alle dichiarazioni sopra riportate, sono emersi - in primo luogo - il rigore morale e la correttezza del Presidente MATTARELLA nonché il suo sforzo continuo, spinto fino alla cura di particolari apparentemente irrilevanti, per ottenere dall'amministrazione regionale un'azione efficiente ed imparziale, così da presentare la Regione Siciliana «con le carte in regola» nel confronto con lo Stato e con tutte le Regioni sui temi decisivi dello sviluppo civile. Basti qui ricordare soltanto alcune delle testimonianze acquisite agli atti processuali:

«L'On. MATTARELLA era un uomo serio, onesto e corretto, aperto alle spinte sociali di rinnovamento e un convinto meridionalista...» (RUSSO Michelangelo al P.M., 16.1.80, Fot. 614831, Vol. I):

«Il Presidente MATTARELLA era- fortemente interessato alla realizzazione dell'attività di programmazione...» (EPIFANIO Giovanni al P.M., Fot. 614825, Vol. I):

«Voleva dare l'immagine di un'amministrazione funzionale, operativa ed efficiente... Concepiva l'ufficio come un servizio al cittadino e dava l'esempio lavorando alacremente ed osservando per primo l'orario di ufficio. In genere non avuto richiesta da parte sua di trasferimenti o di distacchi di personale...» (SANFILIPPO Emilio al P.M., 16.1.80, f. 161, Vol. I).

«Il Presidente MATTARELLA, sui problemi di una certa rilevanza aveva l'abitudine di convocare tutti i direttori regionali per conoscere la loro opinione tecnico-burocratica sull'argomento. Tali ispezioni avvenivano senza la presenza degli assessori. Egli si faceva la propria idea e poi, allorché se ne parlava in giunta, poteva controbattere con elementi di fatto le tesi sostenute dai singoli assessori, i quali nelle loro valutazioni potevano essere influenzati dal lato politico, dando valutazioni diverse» (ALEPPO Giuseppe al P.M., 17.1.80, f. 205, Vol. I).

«L'azione politico-amministrativa del Presidente MATTARELLA e dei suoi governi si manifestò anche nella vita regionale. Basti, fra tutti, ricordare l'approvazione della legge 1/79 che realizzò in dimensione economica-finanziaria assai consistente una drastica riduzione della capacità di spesa degli assessori regionali con un ingente trasferimento di competenza ai comuni dell'isola; e basti altresì ricordare l'attenzione del Presidente MATTARELLA al settore degli appalti pubblici regionali» (ORLANDO Leoluca al G.I., 29.5.90, Vol. LXIX, Fot. 919394).

«L'On. MATTARELLA era un uomo estremamente onesto ed intransigente e considerava la sua carica come "un servizio". Arrivava in ufficio intorno alle 8 e dopo un intervallo molto breve per i pasti ritornava in ufficio, ove restava fino a sera inoltrata. Tanto per citare alcuni esempi che ne caratterizzano la dirittura morale, posso dire che distingueva in maniera precisa le funzioni espletate come personale di Gabinetto da quelle ricoperte come collaboratori politici sul piano personale...Inoltre usava in maniera rigorosa la macchina d'ufficio a sua disposizione, usando la macchina personale allorché non svolgeva mansioni inerenti alla carica... Questi suoi principi riportati pienamente nel suo lavoro costituivano un impegno continuo nel fare funzionare con la massima efficienza ed operatività la burocrazia regionale da sempre tacciata di un certo immobilismo. Ricordo che l'ultimo giorno dell'anno ci trovammo insieme da soli alla Presidenza per le scale ed io gli dissi: "siamo soli, in questo momento ci potrebbero ammazzare". Egli mi rispose "Ma perché ci dovrebbero ammazzare, facciamo il nostro dovere ed abbiamo la coscienza a posto"» (FAVAZZA Gaetano al P.M., 12.1.80, Fot. 614770, Vol. I).

«Il Presidente MATTARELLA diede all'Amministrazione Regionale la giusta dimensione inquadrandola nello spirito dello Statuto Regionale; e ciò nel senso di responsabilizzare al massimo sia gli assessori sia i funzionari. E fu in tale ottica e in tale prospettiva che venne emanata la legge regionale n. 2 del 1978 che, nell'intento di dare maggiore efficienza alla amministrazione, stabilì il principio della responsabilità collegiale della giunta di governo eliminando così clientelismo e sperequazioni. A D.R. Nei giorni che precedettero la sua uccisione il Presidente non appariva turbato in modo particolare. Egli non mi parlò mai di minacce ricevute per telefono a casa o in ufficio» (TRIZZINO Maria Grazia al G.I., 14.1.81, Vol. IX, Fot. 617035).

«E' stato colpito un politico serio, integro, impegnato e coerente» (NICOLETTI Rosario al P.M., 14.1.80, Fot. 614791, Vol. I).

«Il Presidente MATTARELLA aveva accentuato la tendenza alla collegialità nel senso che tutti i programmi che comportavano impegni di spesa di una certa rilevanza venivano valutati in sede di proposta della Giunta e inviati per il parere alle competenti commissioni legislative che sono formate proporzionalmente da tutti i partiti. Infine si arrivava alla deliberazione della Giunta, per cui i singoli assessorati in pratica sono stati privati, in parte, di quell'ampia discrezionalità nella scelta delle spese che prima caratterizzava la loro attività. Non può tralasciarsi lo spirito altamente innovativo di tali procedure che in pratica facevano partecipare il potere legislativo, seppur sotto forma di suggerimenti e di pareri, all'attività esecutiva. L'attività di coordinamento del Presidente MATTARELLA era caratterizzata da una estrema diligenza, nel senso che seguiva personalmente o tramite l'ufficio di Gabinetto le singole pratiche per cui gli pervenivano segnalazioni. Il Presidente MATTARELLA nell'ambito dell'amministrazione regionale portava avanti un discorso sulla moralizzazione e sulla efficienza dell'attività amministrativa regionale. Per esempio nell'ambito del mio assessorato sono state disposte in molti comuni tra cui anche quello di Palermo delle ispezioni straordinarie e si è proceduto anche alla nomina di commissari "ad acta" per il compimento di atti dovuti e non compiuti dalle amministrazioni locali» (TRINCANATO Gaetano al P.M., 15.1,80, Fot. 614816, Vol. I).

«Il Presidente durante la sua gestione aveva dato un impulso diverso alla funzione presidenziale nel senso che cercava di ottenere il massimo dell'efficienza e della operatività. Inoltre voleva che cambiasse sia nell'ambito nazionale che straniero la considerazione di una Sicilia "non con le carte in regola". Tutta la sua attività era rivolta con spirito di intransigenza a tali scopi...» (BUTERA Salvatore al P.M., 11.1.80, Fot. 614742, Vol. I).

Le risultanze istruttorie su questo punto sono poi confermate dalle dichiarazioni dei diretti collaboratori del Presidente assassinato (LA PLACA, CARBONE, BUTERA, FAVAZZA), che hanno sottolineato, altresì, nelle loro dichiarazioni che: «l'elettorato del Presidente MATTARELLA era costituito prevalentemente da giovani provenienti dall'Azione Cattolica o comunque di estrazione cattolica» (LA PLACA al G.I., Vol. IX, Fot. 617047); ovvero che : «la sua base elettorale era costituita essenzialmente da giovani che lo collaboravano attivamente ed inoltre da professionisti, tra cui i più giovani che avevano collaborato con lui all'università ed i più anziani che erano legati al padre. Inoltre lo appoggiavano un gruppo di intellettuali, cosiddetto "Gruppo Politica", forze sindacali come la CISL ed una larga parte dell'Azione Cattolica della quale era stato dirigente' nazionale» (CARBONE Pietro al P.M., Fot. 614737, Vol. I).

Ma, a questo proposito, interessante è anche la dichiarazione resa, il 20 settembre 1988, dall'avv. Antonino SORGI, noto penalista palermitano (già esponente politico del P.S.I.), che si è - a tal fine - presentato spontaneamente al Giudice Istruttore, ritenendo di adempire in questo modo «un suo preciso dovere civico». L'avv. SORGI riferiva di essere stato nominato suo difensore dal Presidente MATTARELLA, in relazione ad una imputazione (dalla quale venne poi assolto con formula piena) di violazione delle leggi sulla tutela dell'ambiente e che tale nomina lo aveva sorpreso perché in passato egli aveva difeso persone imputate di diffamazione proprio in danno dell'On. Bernardo MATTARELLA, padre di Piersanti. Ciò premesso, il penalista riferiva: "Durante il viaggio da Palermo ad Augusta, parlammo a lungo e potei constatare l'assoluta chiarezza di analisi della situazione siciliana da parte del mio interlocutore, soprattutto per quanto attiene al problema della criminalità mafiosa. Egli, fra l'altro, mi diceva di essere particolarmente soddisfatto perché il suo notevole consenso elettorale aveva radici diverse da quelle del padre, nel senso che, perduta la concentrazione dei consensi nelle zone che tradizionalmente avevano appoggiato suo padre, per contro l'appoggio elettorale nei suoi confronti si era dilatato in tutte le zone in cui egli era candidato. In sostanza, MATTARELLA diceva che la sua azione politica gli aveva alienato le simpatie di ben determinati gruppi clientelari che nel passato avevano appoggiato suo padre ma che, per contro, egli cominciava a riscuotere consensi spontanei da parte dell'elettorato; e tutto ciò egli lo valutava molto positivamente. Infatti, con una diagnosi che io peraltro condivido, MATTARELLA sosteneva che una delle cause principali della forza della mafia in Sicilia andava individuata nel rapporto clientelare tra mafiosi e potere politico che rendeva indissolubili, o comunque molto difficili da sciogliere, certi nodi che frenavano una piena esplicazione dell'azione politica. Per questi motivi, egli mi diceva che era stato sempre favorevole, data la situazione ambientale siciliana, a larghe coalizioni politiche di governo, senza escludere a priori il coinvolgimento anche della estrema sinistra. Ed individuava, altresì, come fattore importantissimo per la recisione di questi legami clientelari la trasparenza nella pubblica amministrazione". Va detto, peraltro, che il giudizio negativo riportato dall'avv. SORGI dal colloquio con Piersanti MATTARELLA, circa l'appoggio elettorale dato da gruppi clientelari all'on. Bernardo MATTARELLA, è stato decisamente contestato dall'on. Sergio MATTARELLA nelle dichiarazioni rese al Giudice Istruttore in data 17.12.1990. Tuttavia, non può ignorarsi che su questo giudizio, concernente ovviamente solo una parte dell'elettorato dell'on. Bernardo MATTARELLA (più volte ministro della Repubblica), esistono anche delle indicazioni in talune pagine delle relazioni delle prime Commissioni Antimafia.

Il “cambio delle alleanze” politiche. La Repubblica il 16 gennaio 2020. Nel corso dell'istruzione, si è cercato di chiarire anche il quadro della situazione politica nella quale si esplicò l'attività di Piersanti MATTARELLA negli ultimi anni di vita. Al momento della morte, invero, l'On. MATTARELLA era in carica, quale Presidente della Regione, soltanto per l'ordinaria amministrazione, a seguito delle dimissioni della Giunta da lui presieduta, provocate dal ritiro dalla fiducia da parte del Partito Socialista Italiano. In precedenza, invece, il primo Governo Regionale presieduto MATTARELLA aveva goduto anche dell’appoggio esterno del Partito Comunista Italiano (c.d. "politica di solidarietà autonomistica") ed era stato proprio il passaggio all'opposizione del P.C.I. che ne aveva determinato, di fatto, la crisi. Nella prima fase delle indagini si tendeva, quindi, a chiarire la linea politica dell'On. MATTARELLA, la posizione all'interno del suo partito ed altresì la reale possibilità che egli si facesse promotore di nuove intese con il P.C.I., nel futuro governo, fino a fare partecipare anche questo partito alla nuova Giunta. Dal complesso delle testimonianze acquisite nel corso del 1980 e del 1981 risultava, in buona sostanza, che l'On.  MATTARELLA, di cui era data praticamente per scontata la rielezione alla Presidenza della Regione, pur sensibile alle "istanze dei ceti popolari" ed attento alle posizioni delle forze politiche e sociali di sinistra, non aveva assunto (né intendeva assumere) alcuna iniziativa per una trattativa con il P.C.I., ai fini della formazione della nuova Giunta di Governo. Ciò, almeno, fino alla elaborazione di una precisa linea politica, anche su tale problema, da parte del Congresso Nazionale della Democrazia Cristiana, già fissato per il febbraio del 1980.

A tale proposito dichiarava, per esempio, in data 11.1.80, l'On. Sergio MATTARELLA (Fot. 614745, Vol. I): "Per quanto riguarda la linea politica di mio fratello, sin dall'inizio della sua attività ha seguito senza tentennamenti la corrente morotea. Egli volle comunque crearsi una propria autonoma posizione politica distinta, non come contenuto ideologico, da quella del padre, ma costituita con le proprie capacità. Anche se non era ammesso da alcuno, nemmeno da mio fratello, appariva scontata la sua nomina a Presidente del nuovo Governo Regionale. Circa la sua ventilata apertura nei confronti dei comunisti, fino alla partecipazione al Governo, debbo dire che in effetti tale decisione non poteva essere presa autonomamente da mio fratello senza prima acquisire delle indicazioni in tal senso dal congresso Nazionale della D.C. Egli era certamente disponibile a tale partecipazione di Governo, ma non lo considerava l'obiettivo essenziale. Mio fratello aveva in animo di passare alla Camera con le prossime elezioni politiche" (previste per il 1984: N.D.R.).

Analogamente, l'On. Mario FASINO dichiarava, in data 14.1.80 (Fot. 614787, Vol. I): "Le dimissioni recenti della Giunta erano state determinate dal ritiro della maggioranza del Partito Socialista e pertanto era stato inevitabile rimettere il mandato. Era comunque impressione comune che l'On. MATTARELLA sarebbe stato rieletto Presidente del, nuovo Governo. Regionale, anche se erano state ventilate altre candidature, come quelle dell'On. D'ACQUISTO e dell'On. NICOLETTI. Devo dire che, almeno con me, era stato molto cauto nel manifestare la convinzione che i tempi fossero maturi per una diretta partecipazione dei comunisti al Governo, comunque ogni decisione in tal senso, per un preciso deliberato dei direttivo Regionale della D.C., era stata rinviata all'esito del Congresso Nazionale della D.C. che si terrà nei primi di febbraio".

Ugualmente, l'On. Rosario NICOLETTI, a quel tempo Segretario regionale della D.C., riferiva in data 14.1.80 (Vol. I, Fot. 614791): "Per quanto concerne la linea politica dell'On. MATTARELLA nell'ambito della sua collocazione nella corrente "morotea", egli ha sempre seguito le linee politiche deliberate dagli organi collegiali del Partito. In particolare, egli non era fautore della proposta di risolvere la crisi regionale mediante la partecipazione dei Comunisti al Governo. Egli si adeguò alla deliberazione espressa all'unanimità della Direzione Regionale della D.C., secondo cui bisognava attendere le indicazioni che sarebbero venute fuori dal Congresso Nazionale del partito, che si dovrà tenere nei primi di febbraio. La D.C. Ei aperta ad una discussione che si Ei sviluppata nella ;fase pre-congressuale e che si svilupperà nella fase congressuale ed anche successivamente, sui modi per risolvere la crisi di assetto politico del Paese a livello centrale ed anche a livello di Governo locale. Nell'ambito di queste discussioni, si muove la linea di solidarietà nazionale rispetto alla quale vi sono varie sfumature ed interpretazioni, che corrispondono alle posizioni di gruppi e correnti del partito".

 Nello stesso senso si esprimeva, del resto, uno dei maggiori esponenti del P.C.I. siciliano, l'On. Michelangelo RUSSO, a quel tempo Presidente dell'Assemblea Regionale (Vol. I, Fot. 614831): "Per quel che mi risulta, l'On. MATTARELLA era un uomo serio, onesto. e corretto, aperto alle spinte sociali di rinnovamento e un convinto meridionalista, consapevole che la soluzione dei problemi del mezzogiorno era affidata all'unità delle forze democratiche. Non risponde alla realtà il fatto che egli stesse operando per la partecipazione dei comunisti alla Giunta di Governo, ma tale problema era certamente presente nel quadro degli sviluppi generali della politica nazionale. Ogni decisione in tal senso era stata comunque rinviata al Congresso Nazionale della D.C., che si terrà i primi di febbraio. In tale Congresso, si porrà in discussione quel veto assoluto, già posto dalla D.C., all'ingresso dei comunisti nelle Giunte locali; se questo veto potesse cadere la Sicilia Li una delle Regioni maggiormente predisposte a tale forma di collaborazione. Gli esponenti regionali della D.C. riproducono le posizioni che le varie correnti hanno assunto in ordine a tale problema a livello nazionale".

Dichiarazioni analoghe venivano rese anche dall'On. Mario D'ACQUISTO, pure assunto in esame da questo Ufficio il 14.1.80 (Fot. 614784, Vol. I): "Per quanto concerneva la sua linea politica, egli era molto aperto alle istanze provenienti dalle forze sociali e sindacali, sostenendo la politica della "solidarietà nazionale". Tuttavia, per quanto riguarda la sua posizione in relazione ad un eventuale ingresso dei comunisti nel Governo Regionale, egli era convinto che i tempi non fossero ancora maturi, ma comunque si rimetteva a quanto sarebbe stato deciso dal prossimo Congresso Nazionale della D.C. In atto, il governo regionale era dimissionario, ma tutto lasciava ritenere che egli sarebbe stato nuovamente eletto Presidente. Anche se per tale carica vi fosse all'interno del partito, oltre alla sua candidatura, quella mia e dell'On. NICOLETTI, ho manifestato l'opinione di cui sopra in quanto né io né l'On. NICOLETTI avremmo fatto una battaglia personale per ostacolare la sua elezione ed inoltre l'On. MATTARELLA era Presidente da poco tempo e non si era politicamente usurato in tale ruolo". Ma, per meglio comprendere il ruolo effettivo del Presidente MATTARELLA nella politica siciliana degli anni Settanta, al di là della posizione interlocutoria, da lui assunta, forse inevitabilmente alla vigilia del congresso nazionale del suo partito (febbraio 1980), è risultata utile l'ulteriore indagine compiuta nel corso del 1990 da questo Giudice Istruttore, con riferimento specifico alle vicende politiche della città di Palermo (della quale s'è parlato nella parte relativa al REINA). In tale ambito, ed anche al fine di chiarire i rapporti eventualmente intercorrenti tra gli omicidi in danno di Michele REINA (9 marzo 1979) e di Piersanti MATTARELLA (6 gennaio 1980), sono stati assunti in esame esponenti dei vari partiti presenti in Consiglio Comunale, dalle cui dichiarazioni è emersa una ricostruzione abbastanza univoca degli avvenimenti di quegli anni.

Così, per esempio, l'On. Sebastiano PURPURA ha dichiarato in data 22.11.1990 (loc. cit.): "Nel 1976 si crearono le condizioni politiche all'interno della D.C. palermitana per formare una nuova maggioranza interna, in opposizione all'On. GIOIA, che portò alla Segreteria, Michele REINA, ed al Comune, come Sindaco, Carmelo SCOMA. La novità di questa nuova maggioranza (correnti dell'On. LIMA, di Rosario NICOLETTI e di Piersanti MATTARELLA) consisteva in una politica di apertura al confronto col P.C.I. da realizzarsi in sede di formazione di programma della Giunta. In tal modo, al di là del fatto formale, il P.C.I. faceva parte della maggioranza di governo. L'opposizione dell'On. GIOIA e di Vito CIANCIMINO si basava sul fatto che essi pur accettando un confronto col P.C.I. in sede istituzionale (ad esempio in Consiglio Comunale), respingevano l'idea di una maggioranza politica - di fatto - che coinvolgesse il P.C.I. Dopo un periodo di opposizione, anche le correnti dell'On. GIOIA e di Vito CIANCIMINO finirono col confluire in questa gestione politica nuova, seppure a livello semplicemente formale, in quanto permanevano le ragioni politiche di fondo da loro sempre sostenute. A D.R. La scelta del REINA quale Segretario Provinciale fu determinata, in modo naturale, dal fatto che egli, dopo le amministrative del 1975 (15 giugno: N.D.R.), era capo gruppo della D.C. al Comune e rappresentava, per la sua personalità, la migliore espressione della nuova maggioranza. Ciò non toglie, però, che egli era sempre e soltanto espressione di una linea politica comune; tra l'altro, in una fase di apertura al P.C.I., i pregressi buoni rapporti del REINA (insieme a me e ad altri amici di corrente) con esponenti del P.C.I. (quale l'allora segretario provinciale Nino MANNINO), (rapporti risalenti al 1970), consentivano un migliore contatto personale nella maggioranza. Il riferimento al 1970 l'ho fatto poiché, a partire da quell'epoca, sia la componente di minoranza della D.C. (tra cui io, Michele REINA, Rosario NICOLETTI, Giuseppe Avellone e qualche altro) sia il P.C.I. fecero una forte opposizione alla corrente dell'On. GIOIA e dell'On. MATTARELLA (Piersanti), che costituivano la maggioranza del comitato provinciale D.C. Questa maggioranza, in quel periodo, portò all'elezione di CIANCIMINO a sindaco di Palermo, e la nostra opposizione, che era di tipo politico, trovò un ulteriore motivo per opporsi nel fatto che espressione della maggioranza era CIANCIMINO. Questo non perché il CIANCIMINO venisse ritenuto - come è avvenuto in tempi più recenti - vicino ad ambienti mafiosi, ma perché la sua personalità era "ingombrante" cioè finiva col dare più forza alla linea politica da noi osteggiata. A D.R. Il passaggio dell'On. Piersanti MATTARELLA dalla parte della nostra linea politica è collocabile - se non erro – verso il 1975 circa, cioè in occasione della nomina del REINA a Segretario provinciale (quindi, agli inizi del 1976: N.D.R.).

A D.R La lettera del 17.11.1970, indirizzata da me e da altri all'On. SCALFARO (quale dirigente organizzativo centrale della D.C.) esprime compiutamente la linea politica alla quale ci ispiravamo e prende il quadro dalla gestione interna del partito.

A D.R. Anche dopo le dimissioni del CIANCIMINO continuammo la nostra opposizione politica, durante le sindacature di Giacomo MARCHELLO, seppure con intensità diversa a seconda dei periodi. Infatti, se ben ricordo, sia io sia il REINA entrammo in una delle giunte comunali presiedute dal MARCHELLO (forse la seconda)".

Questa ricostruzione degli avvenimenti veniva sostanzialmente condivisa sia da numerosi esponenti della Democrazia Cristiana (Carmelo SCOMA, Nicola GRAFFAGNINI, Salvo LIMA, Francesco Paolo GORGONE) sia di altri partiti, quali il P.S.I. (Anselmo GUARRACI) e il P.C.I. (Antonino MANNINO), che sottolineavano del resto come la situazione palermitana dei gruppi politici in campo nazionale, dove l'on. ANDREOTTI presiedeva un Governo c.d. di "solidarietà nazionale", con l'appoggio esterno del P.C.I. L'on. GORGONE Francesco Paolo dichiarava, infatti, il 22.11.1980 (loc. cit.):  "Fino al 1976 circa, la maggioranza interna del Comitato Provinciale D.C. era stata della corrente dell'On. GIOIA ("fanfaniana"), appoggiata dalla mia corrente ("dorotei), da quella "morotea" dell'On. MATTARELLA e dai "CIANCIMINIANI" (fino alle elezioni comunali del 1975). All'opposizione vi era il gruppo "andreottiano" dell'On. LIMA e quello dell'On. NICOLETTI ("forze nuove"). Dopo le elezioni del 1975, vi fu un mutamento di alleanze e l'On. GIOIA rimase da solo in minoranza, mentre il CIANCIMINO aveva preso le distanze da tutte le altre correnti. Questa nuova maggioranza portò alla segreteria provinciale, già nel 1976, Michele REINA (poi confermate nel congresso provinciale del maggio 1977) ed. alla formazione della Giunta Comunale di Carmelo SCOMA. Le caratteristiche innovatrici di questa giunta possono individuarsi nel fatto che il sindaco, al contrario di quanto avvenuto in precedenza, non rispondeva più ad una sola corrente (cioè a quella dell'On. GIOIA) ma era espressione di una vera maggioranza politica, aperta anche alla collaborazione col P.C.I.".

SCOMA Carmelo dichiarava, poi, il 16.6.90 (loc. cit.): "Sono stato sindaco di Palermo dal gennaio 1976 all'ottobre 1978, presiedendo due Giunte: la prima (D.C., P.S.D.I., P.S.I. e P.R.I. con l'appoggio esterno del P.C.I.) durò fino alla fine del 1977 e la seconda fu costituita da un "monocolore di minoranza" della D.C. con l'appoggio esterno, su molti provvedimenti, della precedente area politica. La novità della mia sindacatura è costituita nel "confronto" col P.C.I., che precedette di qualche mese l'analoga esperienza nazionale del c.d. "governo di solidarietà nazionale".

La maggioranza all'interno della D.C., che portò alla mia elezione, era costituita da "Morotei", "Nuove Forze" (cioè il mio gruppo, che faceva riferimento all'On. BODRATO), dai "Dorotei", da "Impegno Democratico" (cioè al gruppo di ANDREOTTI, che era rappresentato in Sicilia dagli Onn. LIMA, DRAGO e D'ACQUISTO) e dai "Gullottiani" (On. FASINO ed altri). Si opponevano a questa nuova stagione politica "Fanfaniani" (che avevano come referente locale, l'On. GIOIA) ed i "CIANCIMINIANI", momentaneamente distaccatisi dai "Fanfaniani".

In questo contesto, mentre la segreteria Regionale continuò ad essere tenuta dall'On. NICOLETTI, appartenente alla mia stessa corrente, la segreteria Provinciale passò dal "fanfaniano" Avv. Gaspare MISTRETTA al Dott. Michele REINA, rappresentante della corrente "Impegno Democratico", i cui leaders erano gli On. LIMA, DRAGO e D'ACQUISTO".

A sua volta, CAMILLERI Stefano (capo di gabinetto del sindaco SCOMA) dichiarava il 20.6.90 (loc. cit.): "Nel febbraio 1976, dopo la formazione della Giunta SCOMA, fui invitato a diventare capo di Gabinetto del Sindaco, su cordiale "pressione" di Rosario NICOLETTI (allora segretario regionale D.C.), con cui avevo un buon rapporto umano e politico. A D.R. La Giunta SCOMA segnò l'inizio di una nuova fase politica, aperta anche al confronto con il P.C.I., basata su una larga convergenza all'interno della D.C. fra tutte le sue correnti, ad eccezione dei "Fanfaniani" dell'On. GIOIA e degli ex "Fanfaniani" di Vito CIANCIMINO. Ovviamente, appoggiavano concretamente questa nuova esperienza politica anche altre forze esterne alla D.C., quali il P.S.I., il P.S.D.I. ed il P.R.I. Ricordo che dopo la prima Giunta SCOMA che durò fino alla fine del 1977 circa (forse ottobre), il sindaco SCOMA presiedette una seconda Giunta, costituita da un monocolore D.C. di minoranza, con l'appoggio esterno delle stesse forze politiche che avevano fatto parte della precedente Giunta. In questo monocolore entrarono tutte le componenti interne della D.C. (compresi quindi i seguaci dell'On. GIOIA e CIANCIMINO), ma si continuò sostanzialmente a portare avanti la stessa linea politica della Giunta precedente, anche perché certi contrasti interni alla D.C. si erano appianati in sede di partito.

A D.R. Fino alla formazione di questa nuova maggioranza, aperta alle forze sociali ed al confronto con il P.C.I., il Comune di Palermo e la Provincia erano sostanzialmente indirizzati politicamente dalla corrente di maggioranza interna della D.C., facente capo all'On. GIOIA.

Quest'ultimo, che fino alla fine degli anni Sessanta formava una corrente unica ed omogenea con l'On. LIMA, con Giacomo MURATORE, con Vito CIANCIMINO, con l'avv. CACOPARDO ed altri, subì verso il 1968 la scissione dell'On. LIMA, che diede vita ad una propria corrente, che aveva come referente nazionale l'On. ANDREOTTI. L'On. LIMA fece questa scissione, per motivi che non conosco, con Michele REINA ed altri di cui non ricordo il nome in questo momento".

La testimonianza di Sergio Mattarella. La Repubblica il 17 gennaio 2020. Al termine di questa lunga esposizione delle risultanze delle indagini espletate, volta a dare un quadro esaustivo di tutti gli sforzi compiuti in ogni possibile direzione, che fosse compatibile con il divenire degli emergenze istruttorie, possono essere meglio valutate e comprese le dichiarazioni rese da alcuni testimoni nello sforzo di capire e di spiegare le possibili motivazioni dell'assassinio del Presidente MATTARELLA. Vanno, in primo luogo, ricordate le dichiarazioni, rese il 1 e il 14 luglio 1986 al G.I., dall'On. Sergio MATTARELLA (Fot. 648178, Vol. XXIII): "In questi anni ho maturato il convincimento - che peraltro mi si è fatto strada già nell'immediatezza dell'omicidio di mio fratello - che quest'ultimo è stato ucciso per tutta una serie di fattori fra di loro concatenati che hanno ispirato la decisione di eliminarlo. Già dalla istruttoria ritengo che sia emerso che mio fratello, quando era Presidente della Regione Siciliana, ha compiuto dei gesti molto significativi che di per sé, in un ambiente intriso di mafiosità avrebbe potuto provocarne l'uccisione: mi riferisco, in particolare, alla nota vicenda concernente gli appalti per le scuole concessi dal Comune di Palermo e alle conseguenti ispezioni da lui disposte e, soprattutto, ad un fatto apparentemente poco significativo ma che, in realtà, era gravido di conseguenze. Egli, infatti, insistette a lungo e senza successo per avere l'elenco dei funzionari regionali nominati collaudatori di opere pubbliche. E la ragione è intuitiva: attraverso gli elenchi dei collaudatori, fornitigli soltanto da alcuni Assessorati, egli si sarebbe potuto rendere conto di quali gruppi controllassero la materia dei pubblici appalti per potere intervenire più efficacemente. E in proposito mi sembra sintomatica l'inchiesta da lui disposta sull'Assessorato regionale ai LL.PP. l'impegno da lui profuso per l'approvazione della legge urbanistica regionale. Ma a parte questi fatti specifici, di per sé gravi denotanti l'impegno politico di mio fratello, mi sembra ancora più interessante rilevare che questa sua ansia di rinnovamento e l'abilità politica di cui era dotato stavano, e nemmeno tanto lentamente, creando una atmosfera diversa e migliore e, soprattutto, una classe di dirigenti, che riconoscevano la sua guida e che erano più alieni di tanti altri da compromissioni con ben individuabili ambienti di potere. E mi sembra ancora più evidente che questa mutata atmosfera certamente non era gradita a chi potesse pensare di utilizzare collaudati equilibri di potere per fini extra istituzionali. Non ritengo, infatti possibile alcuna altra causale di questo omicidio".

Ed ancora soggiungeva: "Ad integrazione del mio ultimo esame testimoniale, vorrei chiarire meglio la personalità ed il ruolo politico svolto da mio fratello Piersanti fino alla sua uccisione, al fine di un migliore inquadramento delle causali del suo omicidio. Altre attività compiute da mio fratello, che avevo trascurato di indicare, dimostrano a mio avviso, quanto fosse stato incisivo il suo slancio innovatore nel quadro politico preesistente. Mi riferisco, in particolare alla legge regionale che modificò le procedure di assegnazione delle opere pubbliche regionali; tale legge era ispirata alla filosofia di fondo di rendere quanto più possibile trasparenti i pubblici appalti, così evitando problemi che purtroppo sono noti a tutti. Se mal non ricordo, detta legge fu approvata dall'Assemblea Regionale alla fine del 1978 e mio fratello dovette constatare che in alcuni punti l'Assemblea Regionale aveva modificato l'originario disegno di legge, in senso peggiorativo rispetto alle finalità della legge stessa. Nel luglio '78, era riuscito far varare anche la legge sulla programmazione regionale della spesa pubblica; erano evidenti le finalità di tale legge, che mirava a razionalizzare e rendere costanti, ancorandoli a criteri obiettivi e di carattere generale, i vari flussi di spesa destinati ai diversi settori di intervento dell'Amministrazione regionale. Ma, oltre a ciò, egli si adoperò con ogni mezzo per far sì che il Comitato per la programmazione, previsto da detta legge, divenisse operante, come in effetti avvenne, nel più breve tempo possibile. Tutto ciò, evidentemente, impediva arbitrarie attribuzioni di spesa a determinati settori anziché ad altri e, all'interno degli stessi assessorati, rendeva più difficile certe erogazioni ispirate a favoritismo. Infatti, una volta che, geograficamente e per settori e per progetti, veniva stabilito il criterio di intervento dell'Amministrazione regionale, rimaneva poco margine per abusi e favoritismi. Ed in effetti, debbo rilevare che, dopo la morte di mio fratello, il Comitato per il programma non ha concretamente operato e, addirittura, non saprei nemmeno dire se tuttora questo Comitato, previsto dalla legge regionale tuttora vigente, sia stato o meno rinnovato. Queste e le altre iniziative di cui ho parlato nel mio precedente esame testimoniale (legge urbanistica, attività ispettiva, modificazione dei poteri della presidenza della Regione in senso maggiormente accentratore, gli episodi delle inchieste sulle sei scuole e della richiesta dei nomi dei collaudatori, l'inchiesta sull'Assessorato regionale LL.PP.) dimostrano quanto forte ed incisiva sia stata l'attività di rinnovamento, nel suo complesso ispirata da mio fratello; rendono evidente, altresì, che in siffatta maniera egli andava ad urtare contro interessi che da tale rinnovamento avrebbero innegabilmente subito pregiudizio. Ma, oltre a questa sua attività amministrativa che, come ho detto, creava timori e preoccupazioni ma anche consenso e fiducia da parte delle forze vitali della Regione, vi è da dire che egli politicamente era ormai diventato ben più che una promessa. Anzitutto, nell'ambito regionale egli era ormai un punto di riferimento e, nei rapporti con le altre Regioni e fra Regioni e gli organi politici centrali, si era ormai creato attorno a lui un vasto movimento favorevole tanto che era divenuto l'interlocutore privilegiato tutte le volte che erano in ballo argomenti che riguardavano problemi generali riguardanti l'ordinamento e la politica regionale. A ciò aggiungasi che egli era particolarmente stimato e legato da sincera amicizia a personaggi come Sandro PERTINI, Benigno ZACCAGNINI e Francesco COSSIGA. Con Aldo MORO, poi, vi era un legame particolarmente affettuoso ed intenso e quest'ultimo teneva mio fratello in grandissima considerazione. Ricordo, anzi, che, poco prima del suo rapimento, MORO, chiamò a Roma a mio fratello che ebbe con lui un lungo e riservato colloquio, sul cui contenuto mio fratello, che solitamente mi teneva al corrente di tutto, questa volta non mi riferì nulla, pur dicendomi che il colloquio era durato diverse ore. Preciso meglio che tale incontro non avvenne immediatamente prima del sequestro MORO ma circa tre quattro mesi prima. Ne consegue che con questo suo ruolo di grande prestigio, sia nell'ambito regionale, sia in quello politico nazionale (già correva voce di una sua possibile nomina a Vice segretario nazionale della D.C.) era impensabile che egli non fosse confermato Presidente della Regione Siciliana. E di ciò erano tutti ben consapevoli. Il pericolo, dunque, era che il mantenimento del potere da parte di mio fratello avrebbe reso irreversibile questa sua ascesa politica e, soprattutto, quelle condizioni di rinnovamento e di maggiore trasparenza, a qualsiasi livello, di mio fratello fermamente volute. E debbo soggiungere che, quando nel 1979 ci sono state le elezioni politiche anticipate, mio fratello, nonostante vivamente sollecitato, decise di rimanere nell'ambito politico regionale perché sentiva come impegno morale quello di completare la sua opera e temeva fortemente che, se fosse andato via questo processo di rinnovamento sarebbe rimasto incompiuto. E infatti, è un dato certo che dopo la morte di mio fratello si creò un forte arretramento ed una destabilizzazione delle condizioni politiche regionali. E proprio questa situazione di instabilità politica, creatasi per effetto dell'assassinio di mio fratello, era oggettivamente funzionale a determinati centri di interesse extra-istituzionali di vario genere, che sarebbero stati fortemente compressi e limitati da quel rinnovamento politico ed amministrativo fermamente voluto, e con successo, da mio fratello. Riassumendo, a mio parere, sia la incisiva attività amministrativa di mio fratello, sia il notevole peso politico dallo stesso acquisito, sia il pregiudizio da lui arrecato a centri di interesse extra-istituzionali, sarebbero di per se stessi, ciascuno di essi causale sufficiente per decretarne la morte. Ma io ritengo che, a parte la difficoltà di tener separate queste tre sfere di azione di mio fratello, è stato proprio il complesso di queste attività e degli interessi che venivano pregiudicati a costituire causale unica e complessiva della sua uccisione".

Orlando: “Era contro il comitato d'affari”. La Repubblica il 18 gennaio 2020. Per certi versi analoga, ma più centrata sulla situazione propria della città di Palermo, è poi l'analisi del Prof. Leoluca ORLANDO, che nel 1980 era, in qualità di consulente giuridico, uno dei più stretti collaboratori del Presidente MATTARELLA. Assunto in esame dal Giudice Istruttore il 29 maggio 1990, il Prof. ORLANDO ha innanzi tutto chiarito che egli era in grado di formulare un'analisi molto più vasta ed approfondita di quanto non avesse fatto nelle dichiarazioni rese al P.M. ed al G.I. in data 10.1.80 e 14.1.81 (dalle quali non era emerso alcun elemento significativo). Ciò perché poteva ormai giovarsi delle conoscenze acquisite e degli elementi di giudizio maturati in quasi un quinquennio quale sindaco di Palermo (fino al 1990) nonchè degli elementi di valutazione forniti dai fatti nel frattempo avvenuti ed in particolare dall'omicidio di Giuseppe INSALACO, ex sindaco della città, ucciso nel gennaio 1988.

Tanto premesso, appare opportuno riportare testualmente le dichiarazione del Prof. ORLANDO: "Per comprendere la situazione politica nella quale l'On. MATTARELLA ha svolto la sua attività bisogna far riferimento allo "scarto" esistente tra il suo ruolo politico regionale e quello nazionale, quest'ultimo vieppiù crescente, e la sua assai esigua presenza nell'amministrazione comunale (al momento della sua uccisione, al Consiglio Comunale di Palermo sedevano due soli Consiglieri Comunali vicini al Presidente ucciso). L'On. MATTARELLA aveva in più occasioni, in sede congressuale D.C., manifestato dissenso e avversità al signor Vito CIANCIMINO e si era trovato isolato nel Congresso Provinciale del 1976, avendo gli On. LIMA e GIOIA preferito allearsi con CIANCIMINO, lasciando fuori dal c.d. "listone" MATTARELLA. Il CIANCIMINO divenne responsabile degli Enti locali come tale, sostanzialmente, gestore per conto del partito delle iniziative relative alla amministrazione comunale. Ricordo, al riguardo, che un segretario provinciale della D.C., Nicolò GRAFFAGNINI, ancora agli inizi degli anni Ottanta, rinviava al CIANCIMINO le decisioni importanti concernenti il Comune di Palermo".

Dopo aver ricordato l'importanza della Legge Urbanistica regionale (la n. 71 del 1978, per la quale vedi supra, Paragrafo 7), il prof. ORLANDO aggiungeva: "Un tale intervento legislativo si accompagnò ad una attenzione, anche amministrativa, per la vita comunale palermitana. Di grande rilievo "simbolico" fu certamente l'ispezione disposta negli appalti per la costruzione di alcune scuole di Palermo, affidata al Dott. MIGNOSI. Tali scelte furono rese possibili tanto per particolare ampia maggioranza che sosteneva il primo governo MATTARELLA quanto per la stessa determinazione ed autorevolezza del Presidente, con riferimento al primo ed al secondo Gabinetto da lui presieduto. Il Comune di Palermo, prima di MATTARELLA, appariva politicamente una zona "off limits", egemonizzata da un "comitato di affari" che vedeva nei CASSINA, nei VASSALLO ed in altri imprenditori espressione economica e che vedeva in CIANCIMINO e nei suoi amici (dentro e fuori la D.C.) espressioni politiche. Vi era una consorteria politica trasversale, che teneva insieme CIANCIMINO, l'On. Salvo LIMA, l'On. Giovanni GIOIA ed esponenti di altri partiti come Giacomo MURANA P.S.D.I.). Quelle scelte, sicuramente, ruppero equilibri e lasciarono intendere un diverso più incisivo ruolo dell'On. MATTARELLA nella vita politica cittadina, ruolo che avrebbe potuto trovare espressione nelle elezioni della primavera del 1980 per il rinnovo del Consiglio Comunale di Palermo. L'azione politico-amministrativa del Presidente MATTARELLA e dei suoi governi si manifestò anche nella vita regionale. Basti, fra tutte, ricordare l'approvazione della legge 1/79, che realizzò in dimensione economica-finanziaria assai consistente una drastica riduzione della capacità di spesa negli assessorati regionali, con un ingente trasferimento di competenza ai Comuni della Sicilia; basti, altresì, ricordare l'attenzione del Presidente MATTARELLA al settore degli appalti pubblici regionali. Gli Assessorati particolarmente colpiti da tali provvedimenti furono quelli all'Agricoltura ed ai Lavori Pubblici. Il Presidente MATTARELLA viveva con qualche disagio, per come risulta da mia personale conoscenza, l'esperienza del secondo Governo, nel quale si era registrata una presa di distanza del P.C.I., che costituì un oggettivo indebolimento del Presidente MATTARELLA, coinvolto della necessità di proseguire sulla strada della moralizzazione e della riforma della Regione. Il Presidente MATTARELLA immaginava il secondo Governo da lui presieduto come un passaggio necessario della vita politica regionale e come un passaggio nella propria personale esperienza politica, che avrebbe potuto e dovuto trovare nel prossimo congresso nazionale della D.C. (febbraio 1980) un ruolo significativo con il previsto incarico di Vice Segretario nazionale del partito. L'On. MATTARELLA era portatore di una linea politica di rottura nei riguardi di vecchie compromissioni tra politica, mafia ed affari ed egli cercò di spezzare quel sistema, mantenendo però, molto forte il "senso del partito". I suoi gesti di rottura sostanziale vennero sempre consumati nel tentativo di conservare il rispetto di tradizionali regole formali della politica. Ma per il sistema dominante di potere la sua politica "delle carte in regola" era comunque dirompente e micidiale. La sua politica, rompendo sul versante dell'amministrazione degli affari, ad un certo punto incontrò anche la città di Palermo, dove affari e politica erano sovente la stessa cosa. L'Epifania dell'Ottanta, giorno della sua uccisione, appare così un passaggio decisivo dell'ulteriore prosecuzione dell'azione politica di MATTARELLA a Palermo, alla vigilia di importanti scadenze elettorali; un passaggio decisivo per la vita politica regionale, chiamata alla soluzione di una crisi di governo, che taluno immaginava potesse risolversi con un rafforzamento del nuovo governo e dello stesso Presidente MATTARELLA. Un passaggio decisivo per la vicenda politica personale e nazionale, alla vigilia del Congresso Nazionale della D.C.".

Iniziò tutto con l'omicidio di Michele Reina. La Repubblica il 19 gennaio 2020. Michele Reina, il segretario provinciale della Democrazia Cristiana di Palermo ucciso il 9 marzo del 1979. Giova, altresì, riportare testualmente le dichiarazioni di altri due esponenti politici palermitani, l'On. Antonino MANNINO, comunista, e l'On. Anselmo GUARRACI, socialista, non senza sottolineare il fatto che esse sono state rese al G.I. nel corso del 1990 e riflettono quindi, come si è già osservato a proposito del Prof. ORLANDO, le considerazioni e le valutazioni suggerite dai molti avvenimenti, spesso drammatici, succedutisi nel corso di quest'ultimo decennio.

Invero l'On. MANNINO dichiarava il 28.6.1990 Fot. 938359, Vol. LXX): "Ho conosciuto Piersanti MATTARELLA, sempre nella stagione politica di cui ho parlato, ma assai meno di REINA. Era sicuramente un uomo politico di statura elevatissima, di grosso spessore culturale e profondo conoscitore della "macchina" amministrativa regionale nonché delle pieghe del bilancio della Regione. Ovviamente, per come è noto, fu un uomo che tentò il massimo del rinnovamento politico in quegli anni e ricordo che, assieme a NICOLETTI e REINA, spingeva affinché il P.C.I. aiutasse la D.C. in quel tentativo di rinnovamento. Fu sempre oppositore di CIANCIMINO e dei metodi di quest'ultimo. Lei mi chiede, anche per l'omicidio dell'On. MATTARELLA, se io ho una causale da indicare, basandola su dati concreti, frutto di valutazione personale o di discussione all'interno del P.C.I. Al riguardo, riferendomi soprattutto ai colloqui con l'On. LA TORRE, posso solo dire che il pericolo costituito dall'On. MATTARELLA consisteva, a giudizio dei suoi avversari, non solo nel fatto che aveva portato avanti significative azioni politico-amministrative di profonda rottura col passato, ma che intendeva persistere su tale strada, anche quando era venuto meno quel quadro politico di "solidarietà autonomistica" che poteva giustificarne l'azione riformatrice. Intendo dite che a un certo momento l'On. MATTARELLA aveva chiaramente manifestato che la volontà di innovare era frutto di una sua ferma decisione personale. Quando parlo di avversari dell'On. MATTARELLA, intendo riferirmi a quel groviglio di interessi politico-affaristici, legati a criteri arbitrari e clientelari nella gestione della spesa pubblica e delle attività economiche della Regione. Non avendo elementi certi su cui basare una mia risposta, mi astengo dall'indicare - in termini soggettivi - le persone che possono avere costituito quel groviglio di interessi di cui ho parlato".

A sua volta, l'On. Anselmo GUARRACI dichiarava al G.I. in data 28.11.1990 (loc. cit.): "Lei mi chiede se abbia contributi da dare alla ricerca della verità in ordine alle causali degli omicidi REINA e MATTARELLA, sulla base della mia esperienza politica. Al riguardo, devo dire che vedo inseriti questi due omicidi in una linea criminosa che presenta due costanti e che comprende anche gli assassini di Cesare TERRANOVA, di Gaetano COSTA, di Pio LA TORRE, di Carlo Alberto DALLA CHIESA e di Rocco CHINNICI. La prima costante è quella ideologica, che si sostanzia nell'apertura concreta o nella appartenenza vera e propria al P.C.I.; la seconda costante è quella di avere colpito o di potere colpire degli interessi. Circa i due omicidi REINA e MATTARELLA la componente ideologica era ben spiccata. Ricordo, infatti, che il REINA aveva più volte detto che la fase storica non consentiva più di governare a Palermo "senza o contro il P.C.I.", il che era una novità di non secondario rilievo. Il MATTARELLA, dal suo canto, si apprestava - a mio avviso - nonostante il suo governo fosse dimissionario, a posizioni di ulteriore apertura al P.C.I. Entrambi, attraverso questi tentativi di innovare il sistema politico, avevano finito o potevano finire col colpire - anche inconsciamente - precedenti interessi consolidati, di carattere sia politico sia economico. Gli altri omicidi da me ricordati, taluni dei quali riguardanti magistrati, potrebbero avere avuto la medesima causale per l'appartenenza dichiarata o presunta delle vittime all'area del P.C.I. e per le posizioni di potere dalle stesse rivestite, che anch'esse minacciavano interessi precostituiti del tipo sopra ricordato".

In questo senso, assumono ancora maggior significato le dichiarazioni rese a questo Ufficio dall'On. Mario D'ACQUISTO il 14 gennaio 1980 e cioè appena otto giorni dopo l'assassinio del Presidente MATTARELLA (loc. cit.): "Non posso avanzare alcuna ipotesi particolare o privilegiarne qualcuna, tuttavia, a mio avviso, bisognerebbe riflettere su un eventuale collegamento tra l'omicidio REINA e quello di Piersanti MATTARELLA dato che entrambi si muovevano su una linea politica molto simile di 'apertura a forze politiche fuori dall'area di governo e di sinistra; infatti il Dr. REINA nell'ambito del Comune di Palermo aveva inserito i comunisti nella maggioranza con una forma di collaborazione esterna, anche se non inseriti nella Giunta. Evidentemente questo processo politico contrasta con gli interessi di altre forze, ma non fu facile, data la ampiezza delle ipotesi, stabilire se tali forze interessate ad una conservazione della situazione esistente abbiano una precisa matrice politica". Queste dichiarazioni dell'On. D'ACQUISTO, sul possibile collegamento tra i due delitti, hanno trovato poi un'eco in quelle dell'On. Antonino MANNINO, il quale, in data 28.6.1990, ha dichiarato al G.I. (loc. cit.): "Lei mi chiede se l'omicidio del REINA fu recepito da me o dal P.C.I. come un segnale diretto ad interrompere questa azione politica di rinnovamento, che aveva visto coinvolto per la prima volta, nella Amministrazione Comunale, seppure in termini di "confronto programmatico", il P.C.I. Posso dire di avere discusso di ciò soprattutto con PIO LA TORRE, il quale, quand'era stato componente della commissione antimafia, non aveva mancato di tenermi documentalmente informato delle varie acquisizioni a mano a mano fatte.

Frutto di tale discussione, snodatasi per molto tempo, è stata la definizione di due ipotesi:

a) la prima, secondo cui l'omicidio era finalizzato ad una pressione intimidatoria nei confronti degli esponenti siciliani della corrente di REINA, primo fra tutti l'On. LIMA;

b) la seconda, secondo cui REINA era stato l'agnello sacrificale di un nuovo equilibrio politico e di un accordo da lui vivacemente contrastato, così come appariva chiaro dal suo ruolo di punta nella contestazione di CIANCIMINO, sin dai tempi in cui questo fu sindaco, sia all'interno della D.C. sia in Consiglio Comunale.

Ancora oggi non sono in grado, nonostante l'esperienza personale maturata nella Commissione parlamentare antimafia, di indicare quale delle due tesi sia quella esatta. Posso dire, però, di essere convinto che il REINA è morto senza sapere - neppure lui - per quale motivo, giacche non era in grado forse, come tanti altri politici, di rendersi conto della chiave di lettura data dalla mafia a certe scelte politiche o politico-affaristiche. E' certo, comunque, che l'omicidio REINA è stato il primo della lunga catena di omicidi politici siciliani".

Gli “anonimi” firmati dal signor Di Marco. La Repubblica il 20 gennaio 2020. Durante la lunga e complessa istruttoria sono stati oggetto di verifica e di accertamento anche altre ipotesi investigative formulate nelle sedi più diverse o pervenute nei modi più disparati. Si dà contezza anche di queste indagini, sia perché hanno contribuito ad allungare i tempi sia per le più volte richiamate esigenze di compiutezza di informazione su quanto vi è negli atti processuali. Così va in primo luogo ricordato (seppure in estrema sintesi) che - specie nel periodo di tempo immediatamente successivo al 6 gennaio 1980 - sono pervenuti all'Autorità giudiziaria, agli uffici di P.G. e ai familiari del Presidente assassinato molti scritti anonimi, in cui venivano formulate accuse specifiche contro singole persone o - più spesso - generiche ipotesi, per spiegare l'origine e le motivazioni del gravissimo delitto. Tutti questi scritti anonimi, in particolare quelli che erano pervenuti al Presidente MATTARELLA e che sono stati sequestrati presso la Presidenza della Regione dopo la sua morte (cfr. fotogrammi 616145 - 616239 in Vol. V e tutto il Vol. XXIV) sono stati oggetto di indagine da parte degli organi di P.G. e di questo Ufficio, senza tuttavia ricavare da essi alcun elemento utile. Per gli esiti dei riscontri su di essi, si rimanda - in dettaglio - ai volumi sopra indicati, segnalando che molti scritti riguardavano presunti illeciti, disfunzioni amministrative etc. Inoltre, a partire dal luglio 1990, sono pervenuti sia alla locale Procura della Repubblica sia a questo Ufficio sia ancora a vari Uffici di P.G. esposti a firma di tale DI MARCO Domenico, già noto per avere intrattenuto - in passato - questo Ufficio sui fatti più vari accaduti in questa città ed in provincia. Tutte queste missive contenevano notizie, asseritamente da quello apprese da fonti diverse, in ordine a molti dei più gravi delitti commessi in Sicilia negli ultimi 15 anni. In particolare, per quel che rileva in questa sede, il DI MARCO ha riferito che sia il REINA sia il MATTARELLA sarebbero stati :uccisi per volontà dei corleonesi a seguito di contrasti con CIANCIMINO Vito e che un ruolo non marginale in questa vicenda avrebbe avuto il "tradimento" nei confronti degli stessi MATTARELLA e REINA da parte di Rosario NICOLETTI, il quale avrebbe così ceduto alle pressioni e alle aperte minacce del CIANCIMINO.

Il DI MARCO ha altresì scritto che gli omicidi del Presidente della Regione e del Segretario provinciale della D.C. si ricollegavano, e anzi traevano la prima origine, dalle vicende del Comune di San Giuseppe Jato, dove l'elezione di un sindaco comunista donna - in contrasto con la volontà del "prestigioso" esponente mafioso BRUSCA Calogero - aveva provocato l'ira di quest'ultimo e del di lui nipote (BRUSCA Bernardo): «che suggerì a Totò RIINA che soltanto scatenando una grossa guerra potevano mettere le mani sul potere e sui Comuni di Palermo e S. Giuseppe Jato. La guerra consisteva nell'uccidere vari D.C. e P.C.I. senza farlo sapere ai BONTATE e alle famiglie palermitane» (esposto del 22.11.90).

DI MARCO riferiva di avere appreso queste notizie da un suo cugino, BERTINI Domenico (già sottoposto a procedimento penale per spaccio di stupefacenti e altri reati), il quale ne era venuto a conoscenza: - per la parte riguardante S. Giuseppe Jato, direttamente da Antonio SALAMONE, che sfogava così il rancore contro BRUSCA Bernardo, che lo aveva soppiantato alla guida della "famiglia" mafiosa di quel centro;

- e, per la parte riguardante Palermo, assistendo casualmente ad una violentissima discussione, caratterizzata da uno scambio reciproco di accuse, tra l'on. Rosario NICOLETTI e il dr. Ernesto DI FRESCO, già Presidente dell'Amministrazione Provinciale, e del quale il BERTINI era diventato autista personale dopo che l'uomo politico era stato detenuto per alcuni mesi all'Ucciardone. Si deve a questo punto senz'altro rilevare che le accuse e in genere le dichiarazioni del DI MARCO appaiono frutto non di conoscenze originali, sia pur provenienti da fonti mediate, ma soltanto di una personale rielaborazione dell'enorme messe di notizie, pubblicate su questi tragici eventi dalla stampa nazionale. Questo è infatti il convincimento sia del Nucleo Operativo dei Carabinieri sia della Squadra Mobile, e cioè degli organi di p.g., cui sono state delegate le indagini. sulle missive del DI MARCO. Inoltre, la Squadra Mobile ha anche proceduto, su delega del P.M., ad assumere a sommarie informazioni sia il DI FRESCO che il BERTINI Domenico, il quale ha definito il DI MARCO, suo cugino acquisito, "un ragazzo alquanto disadattato", affermando di averlo visto per l'ultima volta nel 1984 e di non avergli mai parlato degli omicidi REINA e MATTARELLA. Il BERTINI ha altresì aggiunto di non avere mai conosciuto l'on. NICOLETTI, e di non avere mai lavorato alle dipendenze del DI FRESCO. Questi, a sua volta, pure assunto a sommarie informazioni, confermato di non avere mai avuto al suo servizio, quale autista, il BERTINI. Quanto, poi, al fatto che un esponente di "Cosa Nostra" del calibro di SALAMONE Antonio abbia potuto riferire notizie così gravi a un giovane appena conosciuto, come poteva essere il BERTINI, solo per sfogare il suo rancore nei confronti di BRUSCA Bernardo, appare assolutamente inverosimile, così come sembra ben strano - più in generale - che una persona come il DI MARCO, estraneo all'organizzazione criminale, possa venire in continuazione a conoscenza di notizie e particolari su molti dei più gravi delitti di "Cosa Nostra". Né si deve trascurare, da ultimo, che l'ipotesi prospettata in precedenza in ordine al fatto che il DE MARCO attinga le sue conoscenze dalle notizie di stampa, trova una ulteriore conferma nella considerazione che il DI MARCO (il quale già da alcuni anni - come si è detto - presenta periodicamente esposti e denunzie su molti dei delitti avvenuti in Sicilia), ha riferito le sue «informazioni» sull'ipotizzato ruolo dell'on. NICOLETTI nelle vicende che portarono all'omicidio di Michele REINA e di Piersanti MATTARELLA solo nel luglio 1990, e cioè dopo che tutta la stampa nazionale aveva riferito notizie ed ipotesi di analogo tenore a proposito delle dichiarazioni di Francesco MARINO MANNOIA. Vi è, infine, da aggiungere che il Giudice per le indagini preliminari di questo Tribunale ha, in data 14.1.1991, su conforme richiesta del P.M., archiviato il procedimento di indagini preliminari relative alle dichiarazioni del DI MARCO in ordine al sequestro di Graziella MANDALA'.

Il finto rapimento di Michele Sindona. La Repubblica il 21 gennaio 2020. Da ultimo, e non in ordine di importanza, si deve ricordare che nel corso dell'istruzione è stata altresì considerata l'ipotesi che vi potesse essere un qualche rapporto tra l'assassinio del Presidente della Regione e la presenza in Sicilia, nell'estate del 1979, di Michele SINDONA, circostanza più volte sottolineata ad esempio dalla vedova LA TORRE, anche sulla stampa. Come è ben noto, il finto rapimento del «finanziere» di Patti, la sua permanenza per circa due mesi in Sicilia e particolarmente nella zona di Palermo, il ruolo che in questa vicenda hanno avuto alcune appartenenti alla massoneria nonché gli esponenti di alcuni delle più importanti "famiglie" di "Cosa Nostra" siciliana e americana, hanno formato oggetto in tutti questi anni di una accuratissima attività di indagine sia da parte di più Autorità giudiziarie (e cioè quelle di Milano, Roma e Bologna oltre che di Palermo), sia da parte della Commissione parlamentare d'inchiesta sul "caso SINDONA". Questa imponente mole di accertamenti e riscontri non ha consentito, purtroppo, di chiarire tutti i punti della vicenda. E' stato, però, possibile ricostruire con precisione molte delle circostanze fondamentali, nonché il ruolo svolto da persone e gruppi spesso tra loro molto diversi. Per quanto riguarda, in particolare, la ricostruzione dei fatti connessi al finto rapimento del SINDONA, si può qui riportare, attesa la precisione degli approfondimenti, quella. effettuata dalla citata Commissione parlamentare d'inchiesta. Questo perché la stessa, in particolare, si è basata - a sua volta - sugli accertamenti dei Giudici Istruttori di Milano e di Palermo nonché su alcuni ulteriori accertamenti svolti dalla stessa Commissione. "SINDONA scomparve da New York il 2 agosto 1979, quando era passato meno di un mese da che il giudice WERKER aveva revocato li provvedimento di estradizione e quando il bancarottiere, che intanto aveva ottenuto la liberazione dalla cauzione (in precedenza prestata) di beni della moglie e della figlia, avrebbe dovuto comparire, il 10 settembre successivo, davanti all'autorità giudiziaria, in relazione al fallimento della Franklin. Per lasciare New York, SINDONA si servì di un falso passaporto intestato a Joseph BONAMICO e partì dall'aeroporto Kennedy con un volo diretto a Vienna, accompagnato da Antonio CARUSO, che aveva acquistato i biglietti con denaro procuratogli da Joseph MACALUSO. Giunto a Vienna, SINDONA, invece di proseguire in macchina per Catania come era nei programmi, si era invece recato a Salisburgo, dove aveva preteso, telefonandogli, che lo raggiungesse anche MACALUSO. Costui, CARUSO e SINDONA avevano fatto quindi ritorno a Vienna dove avevano alloggiato all’Hotel Intercontinental dal 4 al 5 agosto 1979. In questa data, quindi, Antonio CARUSO era tornato a New York, mentre MACALUSO si sarebbe recato a Catania. A sua volta, SINDONA era partito per Atene, tanto che il 6 agosto aveva alloggiato all'Hotel Hilton di quella città. Successivamente, SINDONA era stato raggiunto ad Atene, in tempi diversi, da MICELI CRIMI, Giacomo VITALE, Francesco FODERA', Ignazio PUCCIO e Giuseppe SANO, cugino di MACALUSO. Dopo alcuni giorni, quindi, SINDONA e i suoi amici abbandonarono l'idea, avanzata in un primo tempo, di raggiungere l'Italia con un'imbarcazione privata guidata dal PUCCIO e si imbarcarono invece per Brindisi su una comune nave di linea. Secondo il programma originario essi avrebbero dovuto recarsi a Catania, dove SINDONA avrebbe dovuto prendere alloggio in una villa, che gli avrebbe dovuto procurare MACALUSO. Il rifugio però era diventato indisponibile per motivi rimasti ignoti e pertanto, una volta sbarcati a Brindisi, MICELI CRIMI e PUCCIO proseguivano in taxi per Taranto e quindi in treno per Palermo, mentre SINDONA, insieme a VITALE e FODERA', si recava a Caltanissetta, dove giungeva nella notte tra il 15 e il 16 agosto. A Caltanissetta, SINDONA era atteso da Gaetano PIAZZA, un professionista avvertito da MICELI CRIMI, e da Francesca Paolo LONGO, amica intima di MICELI. Dopo aver cenato tutti insieme, VITALE e FODERA' andarono via, mentre SINDONA e la LONGO rimasero ospiti del PIAZZA. Il giorno seguente, quindi MICELI CRIMI (che intanto aveva raggiunto Palermo), si recò a Caltanissetta e da qui il PIAZZA accompagnò in macchina lui, SINDONA e la LONGO nel capoluogo siciliano dove pertanto SINDONA giunse il 17 agosto, prendendo alloggio in casa della LONGO. In seguito, dopo l'arrivo in Sicilia di John GAMBINO, e precisamente il 6 settembre 1979, SINDONA si trasferì in un villino di proprietà dei suoceri di Rosario SPATOLA, sito in contrada Piano dell'Occhio di Torretta, di cui lo stesso SPATOLA aveva consegnato le chiavi al GAMBINO, sia pure (secondo la sua versione) per un ragione del tutto diversa da quella reale. Intanto, fin dai primi giorni della sua fuga, SINDONA, evidentemente aiutato dai suoi amici, aveva cercato di accreditare la tesi del rapimento, inviando una serie di messaggi ai suoi familiari, al genero Pier Sandro MAGNONI e al difensore avvocato GUZZI. In questi messaggi, SINDONA sosteneva di essere stato rapito da un "gruppo proletario eversivo per una giustizia migliore", e, in particolare nelle lettere inviate all'avvocato GUZZI, precisava che i suoi rapitori avevano bisogno di numerosi documenti, concernenti i suoi rapporti con il mondo politico e finanziario italiano, e, tra l'altro, della "lista dei 500". In genere le lettere (ad una delle quali era allegata una fotografia SINDONA, con un cartello con la scritta: "il giusto processo lo faremo noi") erano scritte a macchina dallo stesso SINDONA, ma ce n'è anche una, caratterizzata da toni minacciosi, scritta a mano sempre da SINDONA personalmente. Tutte le missive, contenute in buste con i nomi dei destinatari venivano quindi consegnate a MACALUSO, CARUSO o altri, che provvedevano a impostarle negli USA, ovviamente allo scopo di dare ad intendere che SINDONA si trovava colà e non in Sicilia. Sempre nello stesso periodo del falso rapimento e con scopi ricattatori o di richiesta di denaro o di documenti, numerose telefonate vennero fatte da persone che si facevano passare per i rapitori di SINDONA, agli avvocati GUZZI e Agostino GAMBINO. Tra le altre si possono ricordare le telefonate estorsive o di sollecitazione dell'invio di documenti ricevute il 3 e il 18 settembre 1979 dall'avvocato GUZZI, quella del 26 settembre 1979 all'avvocato GAMBINO, con la quale si chiedeva un incontro che sarebbe dovuto avvenire di lì a qualche giorno, e quelle ancora del 1, 5 e 8 ottobre, sempre dirette ai due avvocati. Inoltre, il 18 settembre 1979 fu inviata da Roma una lettera minatoria a Enrico CUCCIA, che SINDONA - com'è noto - riteneva uno dei suoi più accaniti nemici, mentre il 5 ottobre la porta d'ingresso della abitazione milanese di CUCCIA veniva data alle fiamme e successivamente la figlia di CUCCIA riceveva una telefonata minatoria, con un esplicito riferimento all'incendio della porta. Alcune lettere risultano peraltro inviate anche alla figlia di SINDONA e al genero Pier Sandro MAGNONI che deve fondatamente ritenersi, come risulta dalle indagini compiute dai giudici milanesi e siciliani e come mette in evidenza il giudice istruttore di Palermo nel provvedimento conclusivo dell'istruzione (v. pag.831), fossero a conoscenza di quanto era in effetti avvenuto per esserne stati informati dallo stesso MICELI CRIMI, in un viaggio compiuto a New York durante la scomparsa di SINDONA. Nell'ultima lettera al genero, che è tutta una serie di allusioni e di avvertimenti in cui vengono fornite notizie e impartite istruzioni, spesso scritte come in un linguaggio cifrato, si fa tra l'altro riferimento alla circostanza che l'avvocato di Roma sarebbe stato contattato martedì o mercoledì 26 (settembre) con "notizia drammatica certamente documentabile". Si tratta, com'è chiaro, di una allusione che non può essere interpretata se non come il preannuncio del ferimento di SINDONA, da lui stesso fermamente voluto, da parte di MICELI CRIMI. Al riguardo, le istruttorie giudiziarie in corso hanno accertato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il 25 settembre 1979, nel villino della Torretta, alla presenza della LONGO e di John GAMBINO, MICELI Crimi ferì SINDONA, su sua pressante richiesta, sparandogli un colpo di pistola alla gamba, dopo- aver preso le opportune precauzioni per evitare che si potesse accertare che il colpo era stato sparato a bruciapelo. Il ferimento, voluto da SINDONA evidentemente al fine di rendere più attendibile il sequestro, costituì d'altro canto, per così dire, il primo passo della decisione da lui presa di tornare negli Stati Uniti. Infatti, dopo tre giorni la ferita era già rimarginata e SINDONA il 10 ottobre si trasferì nuovamente in casa della LONGO. Successivamente, il 2 ottobre, veniva spedita da Milano una lettera all'avvocato GUZZI, nella quale si comunicava che SINDONA avrebbe dovuto incontrarsi a Vienna 1'11 ottobre con lo stesso GUZZI e con l'avvocato GAMBINO, che pertanto per quella data avrebbero dovuto prendere alloggio all'Hotel Intercontinental. Senonché da una successiva telefonata dell'8 ottobre risultò che GUZZI non aveva ancora ricevuto la lettera e allora la LONGO provvedeva a telefonargli da una cabina pubblica, per comunicargli che l'indomani un corriere gli avrebbe recapitato una lettera dei "rapitori" di SINDONA. La lettera fu come al solito compilata da SINDONA che quindi quello stesso giorno (8 ottobre) lasciò la casa della LONGO a Palermo, insieme con GAMBINO, non mima che la donna fosse stata avvertita che in serata il messaggio per GUZZI sarebbe stato ritirato da una persona di fiducia. Infatti, verso le 18, Rosario SPATOLA ritirò il plico, per consegnarlo quindi, affinché lo recapitasse a GUZZI, al fratello Vincenzo. Costui però, alle ore 9,45 del 9 ottobre 1979, veniva arrestato, subito dopo aver consegnato la lettera all'avvocato GUZZI, dando così l'avvio alla fase delle indagini, che si è rivelata decisiva per scoprire la messinscena di SINDONA. Intanto, fallito l'incontro di Vienna, SINDONA si era recato a Francoforte e da qui il 13 ottobre 1979 aveva raggiunto in aereo New York dove era rimasto nascosto nel motel Conca d'Oro di Staten Island, per farsi poi trovare la mattina del 16 ottobre, in una cabina telefonica di Manhattan, in condizioni fisiche, che aveva volontariamente provveduto a far degradare per assumere l'aspetto di un vero sequestrato..." (Relazione AZZARO pag. 169-171; ma si deve notare che sulla ricostruzione del finto rapimento di Michele SINDONA e dei suoi rapporti con "Cosa Nostra" concordano sostanzialmente anche le relazioni di minoranza). In buona sostanza, è da ritenere per certo che il finto sequestro di Michele SINDONA fu gestito dalla mafia in tutte le sue fasi, da quella preparatoria a quella finale del rientro negli U.S.A.; altrettanto importante è stato - come si è visto - il ruolo di alcune logge massoniche.

Osserva a questo proposito la già citata relazione della Commissione parlamentare di inchiesta: "E' d'altra parte risultato, secondo quanto si è detto in precedenza, che, nei suoi vari spostamenti che da New York lo portarono prima a Caltanissetta e poi a Palermo, Sindona venne aiutato e materialmente accompagnato, oltre che da MICELI CRIMI, da altri personaggi tutti appartenenti al mondo della mafia quali MACALUSO, VITALE, FODERA', PUCCIO. Un ruolo di primo piano svolse in questa fase Giacomo VITALE, col quale MICELI CRIMI prese contatto, facendo intervenire, con una telefonata, Michele BARRESI, che in precedenza glielo aveva presentato. Il VITALE, sempre secondo il racconto di MICELI CRIMI, saputo che si trattava di aiutare un fratello massone, quale era SINDONA, non fece difficoltà di sorta, occupandosi in prima persona dell'organizzazione del viaggio di SINDONA in Sicilia, e procurando l'attiva partecipazione all'impresa di FODERA' e di PUCCIO. A Caltanissetta, secondo ciò che si è detto, intervennero il PIAZZA, che era stato presentato a MICELI CRIMI da quel funzionario massone della Regione, BELLASSAI, del quale si è pure detto prima; nonché la LONGO, anche essa massone e legata da un legame di affettuosa amicizia con MICELI CRIMI. A Palermo, infine, è appena il caso di ricordarlo, SINDONA fu ospite prima della LONGO e dopo l'arrivo in Sicilia di John GAMBINO nel villino della Torretta, appartenente ai suoceri di Rosario SPATOLA, che lo stesso SPATOLA aveva messo a sua disposizione. In questo periodo anche altre persone, come ad esempio il fratello di Joseph MACALUSO, Salvatore, e come gli INZERILLO, tra cui Salvatore, poi ucciso nel 1981, ebbero una parte non sempre marginale nell'impresa di SINDONA; mentre dal canto suo Pier Sandro MAGNONI si era spostato in Spagna dove avrebbero dovuto raggiungerlo Joseph MACALUSO e l'avvocato AHEARN, con l'intento, tra l'altro, di cercare di creare attraverso la stampa (anche provocando l'eventuale intervento di Leonardo SCIASCIA) un'opinione pubblica favorevole a SINDONA. Questo massiccio intervento della mafia a favore di SINDONA trova peraltro ulteriore riscontro nelle numerose telefonate che, durante la permanenza in Palermo dell'interessato, si intrecciarono, così come ha accertato il giudice di Palermo, tra personaggi della mafia siciliana, tra cui in primo luogo lo SPATOLA, e persone appartenenti in America al clan di John GAMBINO; mentre molte chiamate raggiunsero dagli USA le utenze di mafiosi siciliani, tra cui anche quelle degli INZERILLO. In particolare, il giudice istruttore ha anche potuto stabilire che il 10 settembre 1979, e cioè il giorno prima della partenza per la Svizzera di Vincenzo SPATOLA, dall'utenza telefonica americana di Erasmo GAMBINO era pervenuta una telefonata nella abitazione di Macia RADCLIFF, convivente con un nobile siciliano, che successivamente avrebbe ammesso di aver conosciuto ed anche aiutato in una determinata circostanza Salvatore INZERILLO. Anche il ritorno di SINDONA negli Stati Uniti fu favorito ed anzi organizzato da una parte di quelle stesse persone che lo avevano aiutato a raggiungere la Sicilia, in primo luogo da John GAMBINO. La partenza fu preceduta dal cambio di un assegno di 100.000 dollari, effettuato presso la Sicilcassa di Palermo da Rosario SPATOLA mediante l'utilizzazione del falso passaporto di Michele SINDONA, intestato a Joseph BONAMICO. Inoltre Joseph MACALUSO, ai primi di ottobre, raggiunse dall'America Catania, insieme con l'avvocato AHEARN e con la moglie di quest'ultimo. Subito dopo i tre, insieme con Salvatore MACALUSO, si erano recati a Palermo e qui i due MACALUSO avevano parlato con SINDONA, evidentemente per discutere le modalità del rientro negli USA. Quindi, dall'8 al 9 ottobre, Joseph MACALUSO, la moglie di questi e i coniugi AHEARN avevano alloggiato a Taormina e la notte successiva all'Hotel Jolly di Roma. In tutti i casi, come egli stesso ha ammesso davanti alla Commissione, i conti degli alberghi erano stati pagati dall'imprenditore GRACI, che ha affermato di aver fatto ciò per ricambiare una cortesia, ricevuta dal MACALUSO, anche se non aveva gradito che gli fosse stato addebitato dall'Hotel Jolly anche il conto degli ospiti americani del MACALUSO. Non c'è dubbio, infine, che nella fase finale del viaggio per l'America uno degli accompagnatori di SINDONA fu John GAMBINO. A queste protezioni e a questo aiuto che SINDONA ricevette per realizzare il suo disegno, bisogna aggiungere quello della massoneria. In proposito sono già significativi i nomi tante volte ricorrenti della LONGO, del PIAZZA, del BELLASSAI, del BARRESI e dello stesso MICELI CRIMI, sempre che quest'ultimo si limiti ad essere un massone e la sua personalità non abbia invece (come si potrebbe evincere da quanto si è riferito riguardo ai colloqui circa la sua appartenenza alla CIA) risvolti ed aspetti ben più inquietanti. Ma a tutto ciò bisogna aggiungere che, secondo le dichiarazioni da lui rese alla Commissione, MICELI CRIMI, durante la permanenza di SINDONA a Palermo, si recò ad Arezzo per parlare, su incarico di SINDONA, con Licio GELLI. A GELLI, MICELI CRIMI si sarebbe limitato a dire quanto gli aveva suggerito lo stesso SINDONA. In particolare, gli avrebbe domandato se non gli sembrava eccessivo il linciaggio morale a cui SINDONA era stato sottoposto e alla sua risposta positiva gli avrebbe rimproverato di non avere fatto niente, per cercare di attenuare questo linciaggio. GELLI allora gli avrebbe risposto che qualcosa aveva fatto e che gli effetti si sarebbero visti il giorno successivo. MICELI CRIMI quindi gli avrebbe chiesto se avrebbe potuto fare qualcosa ove la famiglia di SINDONA si fosse trovata in condizioni di bisogno; al che GELLI gli avrebbe detto che, se la famiglia aveva bisogno, doveva farglielo sapere, perché lui avrebbe cercato di muovere le persone adatte. A GELLI, sempre a suo dire, MICELI CRINI avrebbe parlato di SINDONA come di un rapito, ponendo le domande suggeritegli da SINDONA stesso come se fossero sue; ma la LONGO ha sostenuto di credere che GELLI sapesse che SINDONA si trovava in Sicilia...". (Relazione AZZARO fg. 172 - 174, citata)

Quanto poi agli scopi del finto sequestro e della permanenza di SINDONA in Sicilia, MICELI CRIMI ha dichiarato ai giudici di Palermo e Milano - nella prima fase delle indagini - che, secondo quanto comunicatogli dal SINDONA, che peraltro parlava pochissimo dei suoi fini e delle sue reali intenzioni, il viaggio del finanziere in Europa e in Sicilia doveva avere due obiettivi:

- il primo quello di favorire la riunificazione della massoneria (che era poi l'obiettivo che - a suo dire - muoveva realmente MICELI CRIMI) e di mettere in moto un tentativo separatista della Sicilia, in una chiave che si ricollegasse agli ideali massonici, antiateisti e anticomunisti, per estendere quindi questi ideali a tutta l'Italia;

- l'altro obiettivo era quello di ricercare in Italia documenti che avrebbero potuto aiutare SINDONA nelle sue vicende di carattere finanziario e giudiziario, anche fornendogli strumenti di pressione se non di vero e proprio ricatto nei confronti di esponenti del mondo politico, economico e delle istituzioni (si pensi al famoso "tabulato dei 500", mai ritrovato, e che sembra fosse relativo a illegali esportazioni di capitali all'estero).

Peraltro lo stesso MICELI CRIMI riferiva che durante la permanenza in Grecia, e prima ancora dell'arrivo degli altri, SINDONA lo aveva informato che il "golpe" separatista non era più attivabile, per cui egli si era reso conto, a quel punto, che la storia del "golpe" era stata un pretesto e che il Sindona in realtà voleva solo rientrare in possesso di documenti ritenuti molto importanti nella sua strategia.

E, del resto, questa era la richiesta formulata in tutte le lettere recapitate all'avv. Guzzi nonché l'unico oggetto di due lettere dirette dal SINDONA alla figlia e al genero ed acquisite agli atti (in fotocopia), nelle quali il SINDONA non scriveva nulla del "golpe separatista" ma impartiva istruzioni rientranti nella complessiva manovra da lui posta in essere per acquisire documenti e per creare un'opinione pubblica a lui favorevole.

Nella sentenza-ordinanza del 25.1.1982. conclusiva del procedimento penale contro SPATOLA Rosario ed altri, il Giudice Istruttore del Tribunale di Palermo, riassumendo l'esito delle minuziosissime indagini svolte anche dall'Ufficio Istruzione del Tribunale di Milano, ha così riepilogato gli esiti dell'attività istruttoria: "Le indagini relative ai motivi della presenza del SINDONA in Italia, ed a Palermo in particolare, ancora non sono concluse.

Può affermarsi, però, che il tentativo separatista era un mero pretesto, mentre i veri motivi erano ben altri:

- anzitutto, quello di rientrare in possesso di documenti assai compromettenti per personaggi autorevoli del mondo politico-finanziario per ottenere con l'arma del ricatto, consistenti appoggi nei procedimenti penali a suo carico;

- in secondo luogo, quello di cercare di riabilitare la sua immagine pubblica, mediante un'accorta campagna di stampa che lo presentasse come vittima di oscuri intrighi". (pag. 828, sentenza-ordinanza citata).

Sostanzialmente analoga è, a questo proposito, la valutazione della Commissione parlamentare di inchiesta, che ha però posto l'accento anche sulla pluralità di contatti e di incontri avuti da SINDONA durante la sua permanenza a Palermo con molte persone (delle quali è stato possibile identificare solo una parte), così da affermare che dalle indagini erano emersi: "segni di un tentativo, compiuto da SINDONA con il viaggio in Sicilia, non tanto di avere documenti che gli potessero servire, quanto di entrare in diretto contatto con persone che potessero venirgli concretamente in aiuto in un momento così difficile della sua vicenda che doveva precedere di poco il definitivo riconoscimento, negli U.S.A., delle sue irrefutabili e gravissime responsabilità". (Relazione Azzaro, pag.178).

Come si è già detto, le indagini sono continuate anche dopo la definizione del procedimento penale dianzi ricordato e altresì dopo la conclusione dei lavori della Commissione parlamentare d'inchiesta. Anche alla luce di nuove acquisizioni da parte dell'Autorità giudiziaria di altre città, in ordine ai contatti tra Joseph MICELI CRIMI e Licio GELLI, ai rapporti fra il SINDONA e i protagonisti del dissesto del Banco Ambrosiano, alla bancarotta delle banche di SINDONA e all'omicidio del liquidatore di una di esse, l'avv. Giorgio AMBROSOLI, nonché, infine, al ruolo che in alcune di queste vicende può avere svolto la loggia massonica P2, anche gli Uffici Giudiziari palermitani hanno preso nuovamente in considerazione la possibilità che il viaggio di SINDONA in Sicilia potesse avere avuto scopi ulteriori e più complessi di quelli accertati nella prima fase dell'istruzione, e ricollegabili ai gravissimi fatti di sangue che, sotto il segno del terrorismo eversivo di destra e della criminalità mafiosa, hanno colpito molte regioni d'Italia negli anni immediatamente successivi all'estate del 1979 ([…]).

La Cupola sapeva e non sapeva...La Repubblica il 22 gennaio 2020. Anche l'omicidio dell'on. MATTARELLA è stato naturalmente oggetto degli interrogatori resi da quegli esponenti di "Cosa Nostra", che hanno deciso di collaborare con la giustizia. In particolare, un contributo - se pur nei limiti che si indicheranno - è venuto dal BUSCETTA e dal MARINO MANNOIA, mentre nulla di specifico ha riferito il CALDERONE, ad eccezione del fatto che un omicidio di questa importanza non poteva che essere stato deciso dalla "commissione" di "Cosa Nostra" per l'assoluta mancanza di reazione- dopo l'evento - da parte della stessa (il che non sarebbe affatto avvenuto in caso di diversa matrice). Rinviando ad altra parte del presente provvedimento l'analisi delle loro dichiarazioni sui temi più generali della struttura di "Cosa Nostra" e del ruolo della "Commissione", è opportuno riportare qui, testualmente, quanto è stato specificamente riferito in ordine all'omicidio del Presidente della Regione. Va anche rilevato che sia il BUSCETTA (v. interrogatorio al G.I. del 4.12.84) sia il MARINO MANNOIA (v. interrogatorio alla Corte di Assise di Appello del maxi-uno) hanno esplicitamente ammesso la loro reticenza sui «fatti molto gravi che investono questioni politiche», nella convinzione che un turbamento degli equilibri troppo traumatico possa determinare una battuta d'arresto, gravissima, nell'attività degli inquirenti». Tuttavia, come detto in precedenza, il contesto delle loro dichiarazioni è stato comunque utilissimo per ricostruire le responsabilità dei mandanti anche dell'omicidio MATTARELLA.

BUSCETTA TOMMASO. In data 21 luglio 1984, BUSCETTA Tommaso dichiarava al G.I. di sapere che «MATTARELLA è stato. ucciso su mandato della "Commissione" e su ispirazione di Salvatore RIINA» e che «anche l'on. REINA è stato ucciso su mandato di RIINA».

Dopo aver aggiunto che «le vicende sono molto complesse e che diversi sono i responsabili di tali assassini», ha voluto «sottolineare vigorosamente che nessun omicidio può essere compiuto nella zona di influenza di una determinata "famiglia", senza il benestare del capo della "famiglia" stessa. Per gli omicidi di maggiore rilievo occorre poi il consenso della "Commissione". Trattasi di procedure che non soffrono eccezione» (Fot. 450010). Quattro giorni dopo, il 25 luglio 1984, il BUSCETTA riprendeva l'argomento affermando: «Per quanto concerne gli omicidi di Boris GIULIANO, di Cesare TERRANOVA, di Pier Santi MATTARELLA so per certo, per averlo appreso da Salvatore INZERILLO, che trattasi di omicidi decisi dalla "Commissione" di Palermo, all'insaputa di esso INZERILLO e di Stefano BONTATE ed anche di Rosario RICCOBONO. Anche questi omicidi hanno determinato l'allargamento del solco esistente tra BONTATE ed INZERILLO, da un lato, ed il resto della "Commissione" dall'altro» (Fot. 450031). In data 1 febbraio 1988, infine, il BUSCETTA, interrogato dal Giudice Istruttore in U.S.A. a proposito delle propalazioni anche auto-accusatorie di GALATI Benedetto sull'omicidio MATTARELLA (delle quali, si dirà) e del concorso dei “neri", ha soggiunto: "Circa, poi, la c.d. "pista nera" nulla mi risulta. Posso, dire, però, che io sono andato a Palermo per un breve permesso, nel marzo Ottanta, ed ho incontrato un po' tutti i personaggi più importanti di "Cosa Nostra" e non ho sentito neppure un minimo accenno all'eventualità che gli assassinii potessero essere di matrice eversiva.

Il significato di ciò può essere colto solo da chi appartiene a "Cosa Nostra"; bisognerebbe sapere, infatti, con quanta meticolosità la commissione di "Cosa Nostra" si interessa delle vicende anche banali di associati o estranei, per rendersi conto che fatti di tale gravità, come l'omicidio del Presidente della Regione, non potevano essere passati sotto silenzio, senza pervenire a conclusioni abbastanza sicure. Come ho detto stamattina, INZERILLO Salvatore ha perso il mandamento di Carini per non aver saputo dare esaurienti spiegazioni in commissione circa gli autori e i moventi di un banale omicidio, quello cioè di un certo LEGGIO. Dopo l'omicidio di MATTARELLA, invece, MADONIA Francesco, nella cui zona è avvenuto l'omicidio, non ha avuto noie di alcun genere. Né è successo nulla dopo l'omicidio dell'on. REINA né, ancor prima, a seguito della scomparsa di DE MAURO Mauro" (cfr. f. 816 vol. int. Calderone).

MARINO MANNOIA FRANCESCO. In data 8 ottobre 1989, MARINO MANNOIA Francesco dichiarava al G.I.: "Per quanto riguarda l'omicidio di MATTARELLA Piersanti, tralascio qualsiasi considerazione e mi limito ai fatti. Io ero tra gli uomini più fidati di BONTATE Stefano e, insieme con pochi altri, dipendevo direttamente da lui senza intermediazione di capo decina, sottocapo e consigliere. Quindi, ero in grado di sapere se la nostra famiglia, e BONTATE Stefano in particolare, vi fosse coinvolta. Ebbene, a meno che il BONTATE mi avesse taciuto fatti di questa rilevanza, e ciò mi sembra assolutamente improbabile, debbo dire che egli non solo non era al corrente degli autori e dei motivi dell'uccisione, ma anzi appariva particolarmente contrariato. E' certo che, a dire del BONTATE, in sua presenza questo omicidio non venne discusso in commissione; tuttavia era certo peA. tutti noi appartenenti a "Cosa Nostra" che si trattasse di omicidio di mafia, anche se ne ignoravamo, almeno io, i veri motivi. Solo in via di ipotesi, si supponeva che potesse essere stato o INZERILLO Santo o PRESTIFILIPPO Mario ma, ripeto, nessuno sapeva nulla di concreto su tale omicidio. Non mi risulta che BONTATE Stefano avesse rapporti con l'on. MATTARELLA Piersanti" (cfr. f. 6 vol. int.). Nuovamente interrogato in proposito, il 20 ottobre 1989, il MARINO MANNOIA soggiungeva: "Ho appreso dai mezzi di informazione che ieri è stato emesso mandato di cattura nei confronti di due terroristi neri per l'omicidio MATTARELLA. Nel ribadire quanto ho già detto in precedenza, rappresento alla S.V., per quanto possa essere utile, i seguenti fatti:

a) l'omicidio MATTARELLA non ha creato nessuno sconquasso in seno a "Cosa Nostra" ed alla "Commissione" in particolare e nessuna reazione all'esterno verso altri.

b) Se l'omicidio fosse avvenuto all'insaputa di "Cosa Nostra", si sarebbe creata una situazione di allarme generalizzato e si sarebbe cercato in tutti i modi di capire cosa era realmente avvenuto e i motivi di tale uccisione;

c) né BONTATE Stefano né altri hanno mosso contestazioni di sorta in seno alla commissione contro chicchessia, quale autore o ispiratore dell'omicidio, il che sarebbe puntualmente avvenuto se non ci fosse stato un previo accordo quanto meno di massima sull'omicidio stesso;

d) BONTATE Stefano, subito dopo l'omicidio, appariva particolarmente seccato ma non per l'omicidio in sé ma per altri motivi, che non mi furono mai detti e che tutt'ora non riesco a comprendere;

e) sicuramente nessuno del mandamento di BONTATE Stefano ha partecipato all'omicidio, perché altrimenti noi - ed io in particolare che ero tra i più vicini a BONTATE Stefano - lo avremmo saputo;

f) il malumore di BONTATE Stefano per questo omicidio si dissolse presto, tanto che, nella primavera inoltrata del 1980, quando sono state rinnovate le cariche elettive in seno alla nostra "famiglia" non solo BONTATE Stefano è stato rieletto rappresentante, ma erano presenti i più autorevoli esponenti di "Cosa Nostra" palermitana, tra cui io ricordo GRECO Pino "SCARPA", già membro della commissione in alternanza con GRECO Michele, e GRECO Nicola, inteso "NICOLAZZO", anch'egli uomo d'onore di Ciaculli, da tempo emigrato negli Stati Uniti, che aveva raccolto il prestigio e il carisma di GRECO Salvatore "CIASCHITEDDU".

Detto GRECO Nicola dovrebbe avere una linea di parentela con GRECO Giovannello e credo anche con "SCARPA". I personaggi più validi di "Cosa Nostra" che sicuramente, in quel periodo, avrebbero dovuto partecipare all'omicidio MATTARELLA, se ufficialmente deliberato dalla commissione, erano GRECO Giovannello, GRECO Pino "SCARPA", PRESTIFILIPPO Mario, MADONIA Antonino, INZERILLIO Santo. Spontaneamente soggiunge: se non faccio errori, l'omicidio MATTARELLA è avvenuto in territorio del mandamento di MADONIA Francesco e, anche successivamente, la famiglia del MADONIA ha sempre aumentato il suo prestigio. Poiché Lei me lo chiede, ricordo che detta famiglia da tempo è coinvolta in vicende che hanno a che fare con moventi, in certo qual modo, politici. Ricordo, ad esempio, la vicenda delle c.d. "bombe di capodanno"; inoltre, c'è un fatto singolare che io ho appreso in carcere da CALAMIA Giuseppe, uomo d'onore di Corso dei Mille (e non di Porta Nuova, come si è detto nel maxi processo). Il CALAMIA, detenuto con me a Trani, mi disse di avere appreso che MADONIA Salvatore si era sposato in carcere con una terrorista e questo è un fatto assolutamente singolare, che avrebbe comportato la messa fuori famiglia dello stesso MADONIA, data l'incompatibilità ideologica tra la mafia ed il terrorismo di qualsiasi specie. Quanto riferitomi dal CALAMIA mi è stato confermato da un po' tutti in seno a "Cosa Nostra" e, con nostro stupore, a MADONIA Salvatore non è accaduto nulla" (cfr. f. 71 segg. vol. int.). Infine, assunto nuovamente in esame dal Giudice Istruttore il 19 gennaio 1990, il MARINO MANNOIA, nel confermare le precedenti dichiarazioni, ha aggiunto: “... al riguardo, come ho già detto nel dibattimento d'appello del "maxi-uno", non voglio - almeno per il momento - aggiungere nulla, avendo detto omicidio indubbie caratteristiche politiche. Questa risposta non deve sembrarLe una mancanza di riguardo da parte mia, ma solo una esternazione del mio stato d'animo attuale, che non mi consente di affrontare certi argomenti. Posso solo aggiungere, a chiarimento di quanto già detto in precedenza, che non è senza significato - a mio avviso - che certi omicidi, aventi una certa valenza politica, siano avvenuti sempre in territori posti sotto il controllo di Francesco MADONIA da Resuttana e di Pippo CALO', che, unitamente a Giuseppe Giacomo GAMBINO ed a Salvatore RIINA, sono quei componenti della "commissione" che hanno mostrato maggiori propensioni verso i fatti politici. Per il CALO', intendo riferirmi all'omicidio del Procuratore della Repubblica Dr. Gaetano COSTA, che, come ho detto pure ieri ai Giudici di Catania, pur essendo stato commesso per volontà di Salvatore INZERILLO ed altri, non poteva non avere l'assenso del CALO', quale "capo mandamento" del territorio in cui è avvenuto. Per il MADONIA, intendo riferirmi agli omicidi MATTARELLA, REINA, GIULIANO, TERRANOVA e CHINNICI, tutti, avvenuti in territorio posto sotto il suo diretto controllo di "capo mandamento". Per il GAMBINO, il mio riferimento deve intendersi all’omicidio dell’ing. PARISI. Dimenticavo di precisare che nel territorio del CALO' è avvenuto anche l'omicidio del Prefetto DALLA CHIESA" (cfr. f. 221 vol. int. al P.M.). In conclusione, dalle dichiarazioni del BUSCETTA e del MARINO MANNOIA (estremamente caute - per loro stessa ammissione - su vicende con possibili riflessi di carattere politico) si traggono in modo chiaro queste considerazioni:

a) l'assassinio del Presidente MATTARELLA fu deciso nell'ambito del vertice di "Cosa Nostra" tanto da non suscitare né immediatamente (v. MARINO MANNOIA) né due-tre mesi dopo (v. BUSCETTA) alcuna significativa reazione. E, a questo proposito, c'è invece da ricordare che per altri episodi, certo meno importanti, per i quali erano stati tenuti totalmente all'oscuro, il BONTATE e l'INZERILLO avevano protestato violentemente (omicidio del Ten. Col. RUSSO) o, quanto meno, avevano chiesto spiegazioni a GRECO Michele nella sua qualità di capo della "Commissione" (omicidi DI CRISTINA e BASILE).

b) L'assassinio del Presidente MATTARELLA non fu discusso nella sede formale della "Commissione", tanto che il BONTATE, l'INZERILLO e anche il RICCOBONO erano all'oscuro della decisione di commettere il delitto.

E però si deve ritenere, in coerenza con quanto detto in altra parte di questo provvedimento, che anche il BONTATE e gli altri esponenti della "Commissione" a lui più vicini fossero in qualche modo consapevoli dell'esistenza di un "problema MATTARELLA" e della possibilità, insita sulla natura stessa di un'organizzazione sanguinaria come "Cosa Nostra", di un'azione delittuosa contro l’uomo politico. In questo modo si spiega che "né il BONTATE né altri hanno mosso contestazioni di sorta in seno alla Commissione contro chicchessia, il che sarebbe puntualmente avvenuto se non ci fosse stato un previo accordo quanto meno di massima sull'omicidio stesso", secondo quanto espressamente riferito dal MARINO MANNOIA. E, nello stesso senso, è pure significativo che il BUSCETTA, pur affermando di avere saputo da Salvatore INZERILLO che il delitto "era stato deciso dalla "Commissione" di Palermo all'insaputa di esso INZERILLO, di Stefano BONTATE ed anche di Rosario RICCOBONO" non accenna affatto ad alcuna reazione o anche ad una semplice protesta da parte di costoro. Una conferma di quanto fin qui sostenuto è da ultimo nelle affermazioni rese da Francesco MARINO MANNOIA il 20.10.89 (e sopra riportate) circa lo stato di «contrarietà» - se pur temporaneo - mostrato dal BONTATE dopo l'omicidio: "BONTATE Stefano subito dopo l'omicidio appariva particolarmente seccato, ma non per l'omicidio in sé ma per altri motivi che non mi furono mai detti e che tuttora non riesco a comprendere". Del resto, le conclusioni fin qui formulate sulla base delle dichiarazioni del BUSCETTA e del MARINO MANNOIA a proposito anche della posizione del BONTATE e degli altri esponenti di "Cosa Nostra" a lui più vicini, i quali non avrebbero protestato a seguito dell'omicidio del Presidente della Regione, trova in qualche modo spiegazione proprio in quello che si è detto in precedenza a proposito dell'azione di Piersanti MATTARELLA. Questa, invero, non era certo rivolta contro l'una o l'altra delle singole "famiglie" di "Cosa Nostra" ma anzi, proprio per la coerenza e la completezza del disegno politico che la ispirava, rappresentava un pericolo per le illecite attività dell'intera organizzazione (non si dimentichi, per esempio, che alcuni degli imprenditori coinvolti nella vicenda degli appalti delle sei scuole a Palermo erano certamente vicini, come a suo tempo si è visto, a SPATOLA Rosario e, quindi, alle "famiglie" BONTATE e INZERILLO). Ed inoltre, il BONTATE potrebbe avere visto in questo omicidio (come in quello del REINA) anche un "segnale" dei "corleonesi" per lui, traendo la convinzione (peraltro non esplicitata ad alcuno dei "pentiti") di una sua più che probabile posizione di debolezza in "Cosa Nostra".

Sull'omicidio del Presidente MATTARELLA sono state rese dichiarazioni anche da altre persone, che hanno comunque collaborato in vario modo con gli organi dello Stato: GALATI Benedetto, LO PUZZO Filippo e PELLEGRITI Giuseppe. Di tali contributi deve subito dirsi che sono risultati - dopo i dovuti riscontri (anche logici) - sostanzialmente inattendibili e hanno anzi dato origine, come per il PELLEGRITI, ad una imputazione nei confronti dello stesso per il reato di calunnia. In considerazione del fatto che le dichiarazioni rese dai menzionati soggetti (il GALATI, peraltro, non è mai venuto a contatto con l'A.G.) hanno dato luogo a tentativi di depistare le indagini dal corso che avevano imboccato, appare opportuno rinviare la trattazione alla parte specifica in cui si parlerà di queste situazioni.

Le accuse di Cristiano Fioravanti. La Repubblica il 23 gennaio 2020. A partire dall'ottobre 1982, cominciavano ad intervenire nel procedimento dichiarazioni di "collaboranti", inseriti a vario livello in gruppi dell'estremismo di destra, che facevano risalire a soggetti gravitanti in quell'ambiente l'esecuzione materiale dell'omicidio di Piersanti MATTARELLA. Come si vedrà, tali fonti di prova - sottoposte a rigoroso vaglio critico, con riferimento ad elementi oggettivi di verifica della attendibilità intrinseca ed estrinseca dei "collaboranti" - appaiono perfettamente compatibili con le altre significative acquisizioni istruttorie, che hanno consentito di delineare, con ragionevole certezza, la matrice politico-mafiosa dell'omicidio del Presidente della Regione Siciliana, volto a troncarne il suo coraggioso e tenace impegno per un profondo rinnovamento della politica e dell'amministrazione regionale. I primi concreti elementi di prova, in tale direzione, sono stati forniti dalle dichiarazioni di Cristiano FIORAVANTI. Questi - già appartenente, insieme al fratello Valerio, a gruppi romani dell'estrema destra - dopo il suo arresto (8.4.1981) maturava un progressivo ed autentico pentimento. Si apriva ad una fattiva collaborazione, ammettendo la propria responsabilità e fornendo precise e coerenti indicazioni probatorie in relazione a numerosi e gravissimi delitti. In particolare, con riferimento all'omicidio dell'on. Piersanti MATTARELLA, le dichiarazioni rese da Cristiano appaiono caratterizzate da una drammatica progressione, le cui ragioni egli stesso spiegherà in taluni dei suoi interrogatori. Il drammatico "iter" di ravvedimento e di dissociazione percorso da Cristiano FIORAVANTI inizia con talune caute indicazioni, fornite tra il 1982 ed il 1985, il cui significato - verificato alla luce delle dichiarazioni, ampie e complete, rese a partire dal 1986 - appare quello:

- di evitare di accusare, dapprima, direttamente il fratello, al quale è legato da un intenso rapporto affettivo;

- di fornire, tuttavia, all'Autorità giudiziaria gli elementi per un'indagine, nel cui ambito, anche con l'acquisizione di ulteriori fonti di prova, il fratello Valerio possa determinarsi a chiarire da sé le proprie responsabilità.

La prima fase delle dichiarazioni, contraddistinta da semplici "segnali", inizia con le dichiarazioni rese al G.I. di Roma, delle quali si riporteranno i passi più significativi. AL G. I. DI ROMA IL 28.10.1982 (Fot. 616682 segg., Vol. VII) “... prendo atto che in base alle dichiarazioni rese da Walter SORDI, a commettere l'omicidio di Mino PECORELLI sarebbe stato mio fratello Valerio su commissione di GELLI. In proposito posso dire che non mi risulta nulla, ma posso rappresentare all'Ufficio quella che fu la mia istintiva sensazione una volta appresa dai giornali la notizia di quel delitto. Per il tipo di arma usata, che fu una 7.65 silenziata e per il fatto che all'epoca erano da noi presi di mira giornalisti e singole redazioni, ebbi la convinzione che ho tuttora che ad uccidere PECORELLI fosse stato Valerio... Ciò che mi mandò istintivamente alla persona di mio fratello come possibile autore del fatto fu la zona dove il delitto fu compiuto, il modo di operare, l'arma usata ed il genere dei dettagli che mi fecero intravedere qualcosa di molto familiare...Un altro episodio delittuoso che, senza averne le prove, istintivamente ricollego a mio fratello Valerio è stato l'omicidio di un personaggio siciliano, non so dire se un uomo politico o un magistrato, che venne ucciso in una piazza o in una strada di Palermo in presenza della moglie. Si era nel luglio 1980 e Valerio era in Sicilia ospite di MANGIAMELI e all'epoca progettava l'evasione di CONCUTELLI ed una rapina in una mega gioielleria di Palermo. Nel vedere gli identikit convenni, assieme a mio padre, che sembravano somigliare moltissimo sia a Valerio che a Gigi" (CAVALLINI: N.D.R.).

Già in questa prima dichiarazione, Cristiano indica all'Autorità Giudiziaria alcuni importanti spunti di indagine:

1) il collegamento logico con un altro crimine assai oscuro, non rientrante nella logica "politica" dell'eversione di destra (l'omicidio del giornalista PECORELLI);

2) la connessione tra l'uccisione del "personaggio" siciliano e il progetto di evasione dal carcere di Palermo di Pierluigi CONCUTELLI;

3) la indicazione dell'altro esecutore materiale dell'omicidio (Gilberto CAVALLINI).

Gli elementi di indagine offerti all'Autorità giudiziaria divengono più numerosi e concreti nelle successive dichiarazioni rese al G.I. di Palermo.

AL G.I.DI PALERMO IL 25.1.1983 (Fot. 617333-617345 Vol. IX) “Effettivamente quando mi trovavo al carcere di Rovigo fui interrogato dal G.I. dott. GENNARO, al quale riferii circostanze a mia conoscenza intorno all'omicidio del giornalista Mino PECORELLI. Parlai pure al giudice di un omicidio che, secondo una mia sensazione, mio fratello Valerio potè commettere a Palermo tra l'inizio ed il mese di marzo del 1980. Preciso questa epoca perché io come punto di riferimento prendo la data del mio arresto che è avvenuto il 17.4.1980 (trattasi di una carcerazione che terminerà all'inizio di agosto 1980: N.D.R.). Prima di tale data mio fratello fece frequenti viaggi in Sicilia assieme a Gilberto Cavallini. Egli si recava a Palermo, andando sempre in aereo, assieme a CAVALLINI prima del mio arresto. Dopo il mio arresto continuò a recarsi a Palermo in compagnia di MAMBRO Francesca, che era la sua ragazza. I viaggi con la MAMBRO furono più frequenti nel mese di agosto. Il mese di agosto, mio fratello assieme alla MAMBRO, lo trascorse a Palermo, preciso a casa di MANGIAMELI, che so che è a Palermo ma non so se in qualche località vicino a Palermo. Preciso ancora che fino al 5/8 mio fratello era a Roma dove assieme al gruppo CAVALLINI consumò una rapina in una armeria. Dopo il 5/8, assieme alla MAMBRO, così come ho detto, andò in casa di MANGIAMELI per preparare il piano di evasione di CONCUTELLI, ma più che altro per creare appoggi in Sicilia e per procurare mezzi finanziari rapinando una gioielleria. Il periodo della mia detenzione va dal 17 aprile al 2 agosto. In quel periodo mio fratello Valerio agiva in clandestinità ma quando uscì dal carcere mi telefonò. Il giorno prima che partisse per la Sicilia ci incontrammo e parlammo oltre che della rapina all'armeria, dell'omicidio del Giudice AMATO e dell'assalto dinanzi al liceo Giulio Cesare, dove era morto l'agente EVANGELISTA e dove erano rimasti feriti due agenti. Mi chiese quali reazioni si erano avute nell'ambiente del carcere da parte dei camerati detenuti. Io gli dissi che era stato accolto bene addirittura con esultanza. Dopo questo incontro, io con la mia ragazza partii per il mare, mio fratello a quanto ho saputo, dopo, partì per la Sicilia assieme alla MAMBRO.

A D.R. Mio fratello era nella clandestinità dal settembre-ottobre 1979 e cioè da circa un mese prima dell'arresto di CALORE per l'omicidio LEANDRI.

A D.R. Durante questa prima fase della clandestinità, con mio fratello mi vedevo molto di frequente perché ancora non era colpito da mandato di cattura. Non dormiva a casa, ma ci vedevamo molto frequentemente a seguito di telefonate nei luoghi che avevamo già stabilito quando ci incontravamo di persona.

A D.R. Il luogo nel quale ci vedevamo più spesso era un appartamento alla Magliana e presso un canile che io avevo realizzato sull'argine del Tevere che utilizzavamo per deposito armi.

A D.R. Dei suoi viaggi in Sicilia parlavamo assieme al CAVALLINI e, se non ricordo male, in quel periodo lui aveva con sé un documento di identità intestato a «Riccardo CUCCO».

A D.R. Come ho detto al giudice GENNARO, io penso che mio fratello e CAVALLINI poterono consumare l'omicidio in danno di quella personalità palermitana molto importante che fu uccisa in presenza della moglie. Ciò ho detto non perché avessi avuto confidenze di mio fratello o di CAVALLINI, ma perché avendo visto i giornali e avendo osservato l'identikit, mi sembrò di riconoscere sia mio fratello che CAVALLINI. Sul piano delle considerazioni, ritenni e ritengo che essendo mio fratello ed il CAVALLINI a Palermo per preparare la fuga e per creare gli appoggi a CONCUTELLI, avranno potuto commettere l'omicidio per ottenere dei favori in cambio.

A D.R. Non vedo mio fratello dal 5.2.81, data del suo arresto. Io fui arrestato alcuni mesi dopo, esattamente 1'8.4.1981. Dai primi di settembre 1980 e fino al 5.2.1981, giorno in cui mio fratello fu arrestato, con lui vivevamo, nella clandestinità insieme; in tale periodo parlammo dell'omicidio MANGIAMELI e della rapina a Palermo di una gioielleria tra le migliori di Palermo, ma non parlammo di altro.

A D.R. Con mio fratello non si parlava mai di omicidi commessi; si parlava di rapine, si parlava di tutto ma mai di omicidi, a meno che non si fosse trattato di omicidi commessi dal nostro gruppo.

A D.R. Mio fratello utilizzava armi di tutti i tipi.

A D.R. Nel periodo che va dalla fine del 1979 alla data dell'arresto di mio fratello, nei nostri depositi avevamo armi di tutti i tipi. Pistole calibro 7,65 e di altri calibri, rivoltelle calibro 38, M. 12, fucili d'assalto, bombe a mano e financo bazooka.

A D.R. In aereo mio fratello non poteva andare armato, ma in Sicilia poteva rifornirsi di armi presso i camerati. Può darsi che qualche volta sia andato in Sicilia in macchina ed abbia portato con sé armi.

A D.R. A Palermo, sicuramente, mio fratello oltre che con MANGIAMELI aveva rapporti con altre persone, col fratello di CONCUTELLI, al quale telefonava spesso ed al quale avrebbe dovuto comunicare il giorno del trasferimento del fratello nel carcere di Taranto per effettuare l'assalto alla scorta e quindi la liberazione.

A D.R. Non so quali altre persone mio fratello contattò a conobbe a Palermo. Anche perché era stabilito tra noi, proprio per prassi di non chiedere mai niente. Con riferimento alla permanenza di mio fratello in Sicilia, mi fece dei nomi ma io non chiesi nulla. Presumo che a Palermo mio fratello, oltre che con i camerati, avesse avuto rapporti con la malavita locale, ma è solo una mia supposizione. Su queste circostanze potrebbe dare indicazioni la moglie di MANGIAMELI, perché, a quanto io so, la si voleva eliminare dopo l'uccisione del marito perché era a conoscenza di molte cose. Una persona che mio fratello conosceva e che anche io intravidi, è un certo VOLO. Io lo vidi a Porta Pia il giorno in cui assieme a mio fratello, Dario MARIANI, Francesca MAMBRO, la ragazza di mio fratello e Giorgio VALE prelevammo il MANGIAMELI. Il VOLO si trovava nella piazzetta assieme al MANGIAMELI. Il MARIANI ed io chiamammo il MANGIAMELI, preciso io ed il MARIANI con l'autovettura ci avvicinammo al VOLO ed al MANGIAMELI, mio fratello con la MAMBRO ed il VALE non si fecero vedere. Quando ci avvicinammo al MANGIAMELI, MARIANI scese dalla macchina e disse al MANGIAMELI: «c'è Valerio che ti deve parlare», MANGIAMELI salì in macchina e VOLO restò ad aspettare. Quanto ho detto alla S.V. l'ho già detto al Giudice GENNARO.

A D.R. Circa l'attività di mio fratello in Sicilia potrebbe fornire indicazioni importanti CAVALLINI, anzi lui sa tutto di mio fratello. Però, a quanto ne so, sta in Sud America. Notizie potrebbero essere fornite dalla moglie di MANGIAMELI; parlando di lei, mio fratello, era solito ripetere che era molto più pericolosa del marito.

A D.R. Mio fratello usava occhiali da vista rotondi di quelli che a Roma chiamiamo a «piotta», che sono con le intelaiature di metallo e con i vetri rotondi, a forma e delle dimensioni di una moneta da L. 100.

A D.R. Mio fratello, nell'inverno 1979-80, indossava spesso delle giacche a vento imbottite di piume d'oca, cosiddetti «piumini»; ricordo che in quell'epoca ne aveva uno di colore blu o celeste, che usava quando andava in moto. Mio fratello è alto circa mt. 1,75, robusto, capelli castani. CAVALLINI è piuttosto magro, scavato in faccia, stempiato, con i capelli neri, è più alto di qualche centimetro di mio fratello.

A D. PM. R. Non so se mio fratello avesse disponibilità di autovetture in Sicilia.

A D.R. Mio fratello aveva i capelli un po’ lunghi con la riga da una parte.

A D.R. Mio fratello nel dicembre '79 - gennaio '80 usava delle scarpe inglesi chiamate «clark» scamosciate di colore beige.

A D.R. Non ricordo se mio fratello o CAVALLINI avessero delle giacche a vento con strisce bianche su fondo blue scuro.

D.R. E' possibile che mio fratello avesse a Palermo, oltre che con MANGIAMELI, contatti con politici di destra; su questa circostanza potrebbe fornire elementi Walter SORDI, che è stato arrestato assieme a TOMASELLI. Potrebbe anche fornire notizie su CAVALLINI o su fatti o circostanze eventualmente conosciute dal predetto". Come si vede, in questa fase Cristiano FIORAVANTI non ha ancora deciso di rivelare tutto ciò che sa; ma fornisce al Giudice importantissimi elementi suscettibili di riscontro (i viaggi in Sicilia di Valerio; i falsi documenti da lui talora adoperati e intestati a "Riccardo CUCCO"; i contatti con Francesco MANGIAMELI; la possibilità di uno "scambio di favori" con la mafia), e indica, altresì, persone che utilmente potrebbero essere sentite sulla vicenda (Rosaria AMICO, moglie di Francesco MANGIAMELI; Alberto VOLO; Gilberto CAVALLINI; Walter SORDI). Seguono le dichiarazioni rese al P.M. di Bologna, che indagava sulla "strage alla stazione" del 2 agosto 1980.

AL P.M. DI BOLOGNA IL 22.3.1985 (Fot. 901961-901963 Vol. L) "Preciso che al corrente della nostra presenza a Taranto, impegnati nel progetto di evasione di CONCUTELLI, era certamente CARMINATI e dunque il gruppo della. Magliana al quale egli era collegato...L'ultima volta che sono stato a Taranto, cioè nel periodo in cui venne trovata la valigia, sul treno, era presente anche CAVALLINI. Ritenevo molto pericolosa quell'azione per cui chiedevo i motivi per i quali si dovesse realizzare ad ogni costo. Fu Valerio a dirmi che CONCUTELLI rappresentava un simbolo per tutta la destra...Per quanto riguarda gli attentati avvenuti a Roma tra il novembre 1979 ed il febbraio 1980, rivendicati dai «Nuclei Fascisti Rivoluzionari», devo dire che in quel periodo nel quartiere Prati avvenivano continuamente attentati ad' opera di ragazzi della sez. Prati del M.S.I. Prendo atto, per la prima volta, che con la sigla Nuclei Fascisti Rivoluzionari fu rivendicato anche l'omicidio a Pier Santi MATTARELLA, presidente della Regione Sicilia. Io ho sempre espresso la convinzione che gli autori materiali di quell'omicidio fossero mio fratello e Luigi (1) CAVALLINI, coinvolti in ciò dai rapporti equivoci che stringeva MANGIAMELI in Sicilia.

(1) Si tratta di un errore di trascrizione nell’originale del documento, il riferimento è ovviamente a Gilberto CAVALLINI

La storia dell'eliminazione di MANGIAMELI da parte di mio fratello richiama quei collegamenti.

Peraltro, mi risultava che in quei giorni mio fratello e anche CAVALLINI e Francesca MAMBRO erano in Sicilia per loro contatti con MANGIAMELI. Quando furono pubblicati gli identikit degli autori materiali dell'omicidio MATTARELLA sui giornali, ricordo che mio padre esclamò, per la somiglianza degli identikit con mio fratello e CAVALLINI, somiglianza che io stesso avevo rilevato immediatamente, «hanno fatto anche questo !»”. In queste dichiarazioni, Cristiano FIORAVANTI aggiunge un altro, importante, tassello nel mosaico di informazioni che via via fornisce ai magistrati: il collegamento tra il fratello Valerio e la cosiddetta "banda della Magliana", anche in relazione ad uno dei piani di evasione di Pierluigi CONCUTELLI. Tale significativo collegamento (la cui importanza verrà evidenziata in seguito) è più dettagliatamente focalizzato nelle successive dichiarazioni.

Entrano in scena i “neri”. La Repubblica  il 24 gennaio 2020.

LA TESTIMONIANZA DI CRISTIANO FIORAVANTI. "Sono del tutto estraneo all'omicidio dell'On. MATTARELLA, come, del resto, a quelli dell'on. LA TORRE e del dottor REINA. Su di essi non ho alcun elemento di fatto da riferire. Devo, in proposito, far presente che non avrei alcun problema a dire tutto ciò che potesse essere a mia conoscenza, ma, ripeto, non ho elementi oltre a quelli di cui ho già parlato con il dottor CHINNICI.

D.R. In verità l'omicidio dell'on. MATTARELLA è una «brutta storia», e non so se altri, che pure hanno ammesso le loro responsabilità in vari omicidi, sarebbero disposti a dire tutto ciò che, eventualmente sapessero. E ciò sia per problemi, di sicurezza nelle carceri, sia per problemi di «immagine» del gruppo di appartenenza.

D.R. Per quanto io ne so, il nostro gruppo non ha mai avuto rapporti con la mafia. Sapevamo che in giro si diceva che in Sicilia nulla potesse farsi senza il consenso della mafia.

D.R. I nostri obiettivi erano i magistrati, le forze dell'ordine ed i delatori. La mentalità della destra era «di vendetta», e volevamo replicare alle offese patite da magistrati, poliziotti, carabinieri, ritenuti nostri persecutori. I «politici» non erano un nostro obiettivo, per lo meno a quel tempo.

D.R. Non posso escludere che l'omicidio dell'on. MATTARELLA sia stato commesso da qualcuno appartenente al nostro gruppo, e ciò per ricambiare un qualche favore ricevuto.

D.R. Sapevo dei rapporti che intercorrevano fra Alessandro ALIBRANDI, Massimo CARMINATI e Claudio BRACCI, che erano dei «politici». Sapevo che ALIBRANDI e CARMINATI davano in deposito quanto proveniva da rapine da essi compiute a GIUSEPPUCCI, collegato con ABBRUCIATI e DIOTALLEVI, a Roma, il quale, in cambio, pagava elevati interessi mensili. I due, inoltre, riscuotevano crediti per conto del GIUSEPPUCCI, usando, al bisogno, anche le maniere forti. So che Walter SORDI ha accusato ALIBRANDI, CARMINATI e BRACCI di aver assassinato, a Roma, un tabaccaio per conto del gruppo DIOTALLEVI ed ABBRUCIATI.

D.R. Non ho mai sentito il nome di Pippo CALO' o di Mario AGLIALORO.

D.R. Non credo che mio fratello Valerio sia andato in Sicilia per far fuggire CONCUTELLI; fra l'altro, poteva mantenere i rapporti con MANGIAMELI a Roma".

In questo interrogatorio inizia a trapelare l'interno travaglio che finora lo ha trattenuto dal rivelare interamente la verità e, dalle frasi sopra sottolineate, ciò emerge chiaramente. Queste contengono un implicito "messaggio", il cui significato verrà, infine, messo in chiaro nelle dichiarazioni rese, qualche tempo dopo, al P.M. di Firenze dott. VIGNA. RESE AL P.M. DI FIRENZE, il 26.3.1986 (Fot. 607528 Vol. XIII) ".... Ho chiesto di conferire urgentemente con lei per rendere le seguenti dichiarazioni, a render le quali sono mosso dal desiderio che mio fratello Valerio faccia completa chiarezza su quanto ha compiuto. Io non sono capace di accettare nel mio animo che egli possa aver commesso la strage di Bologna della quale è accusato, ma nello stesso tempo voglio porlo con le spalle al muro perché chiarisca tutto quello che ha fatto. Ed allora voglio dire quello che so dell'omicidio MATTARELLA. Noi, il giorno dell'omicidio MANGIAMELI... (...io, Valerio, Francesca MAMBRO e Giorgio VALE stavamo ad un bar... MARIANI Dario era nella piazza al luogo di appuntamento con MANGIAMELI...), eravamo in attesa che giungesse anche la moglie del MANGIAMELI che sapevamo doveva venire a prenderlo. Ma la moglie non venne poi all'appuntamento e venne invece VOLO (n.d.r.: per un preciso riscontro, vedi la sentenza della Corte di Assise di Roma 16.7.1986 relativa a quell'omicidio nonché le dichiarazioni di Alberto VOLO, infra). Dai discorsi fattimi la mattina, capii che avevano deciso di agire non solo nei confronti del MANGIAMELI ma anche nei confronti di sua moglie e perfino della bambina .... Comunque, la mattina le motivazioni delle azioni da compiere contro il MANGIAMELI erano sempre le solite e cioè la questione dei soldi, la questione della evasione del CONCUTELLI. Fu poi compiuto l'omicidio del MANGIAMELI e come ho detto sua moglie non venne all'appuntamento. Il giorno dopo rividi nuovamente Valerio e lui era fermo nel suo proposito di andare in Sicilia, per eliminare la moglie e la bambina del MANGIAMELI, e diceva che bisognava agire in fretta, prima che venisse scoperto il cadavere di MANGIAMELI e la donna potesse fuggire. Io non riuscivo a capire quella insistenza nell'agire contro la moglie e la figlia del MANGIAMELI...E allora Valerio mi disse che avevano ucciso un politico siciliano in cambio di favori promessi dal MANGIAMELI e relativi sempre alla evasione del CONCUTELLI oltre ad appoggi di tipo logistico in Sicilia. A proposito di CONCUTELLI, Valerio mi fece cenno al fatto che MANGIAMELI o chi per lui poteva, attraverso un medico, far sì che CONCUTELLI andasse in ospedale o in un altro carcere (n.d.r.: per un puntuale riscontro, v. appresso). Mi disse Valerio che per decidere l'omicidio del politico siciliano vi era stata una riunione in casa MANGIAMELI e in casa vi erano anche la moglie e la figlia di MANGIAMELI, riunione cui aveva partecipato anche uno della Regione Sicilia, che aveva, dato le opportune indicazioni e cioè la «dritta» per commettere il fatto. Mi disse Valerio che al fatto di omicidio avevano partecipato lui e CAVALLINI e che Gabriele DE FRANCISCI aveva dato loro la casa. Non mi dette altri particolari su questa casa e cioè non mi disse se era di proprietà della famiglia DE FRANCISCI o presa in affitto e da chi: mi disse, ripeto, che Gabriele DE FRANCISCI aveva dato la casa, lì a Palermo, in un luogo non lontano da quello ove si svolse il fatto di omicidio (n.d.r.: per un preciso riscontro, circa l'esistenza di abitazioni di intimi familiari del DE FRANCISCI nelle vie Tasso, Ariosto e Rapisardi di Palermo, vicine al viale della Libertà, ove venne consumato il delitto, v. appresso).

L’azione contro la moglie e la figlia del MANGIAMELI veniva motivata da Valerio col fatto che esse erano state presenti alla riunione: diceva Valerio che una volta ucciso il marito erano pericolose quanto lo stesso MANGIAMELI. Poi l'azione contro le due donne non avvenne in quanto il cadavere di MANGIAMELI fu poco dopo ritrovato" (n.d.r.: per un puntuale riscontro, cfr. la sentenza, già citata, della Corte di Assise di Roma del 16.7.1986). Con questa dichiarazione, Cristiano FIORAVANTI ha compiuto la scelta di rivelare tutto ciò che sa. Il giorno successivo, al P.M. di Roma, dopo dettagliate dichiarazioni concernenti i rapporti fra l'estrema destra e la "banda delle Magliana" nonché l'omicidio di Mino PECORELLI (sui quali v. appresso), Cristiano conferma le dichiarazioni sull'omicidio MATTARELLA.

Di questo interrogatorio conviene trascrivere le seguenti, ulteriori precisazioni: AL P.M. DI ROMA IL 27.3.1986 (Fot. 607532 Vol. XIII) "Il giorno dopo (n.d.r.: l'omicidio del MANGIAMELI) chiesi a Valerio il motivo per il quale intendeva uccidere anche la moglie e la bambina del MANGIAMELI. Mi rispose che la moglie era più pericolosa del marito perché «sapeva» più del MANGIAMELI stesso. Io gli dissi che non mi sembrava un buon motivo, in quanto se era vero che il MANGIAMELI si era approfittato dei giovani di T.P. («Terza Posizione») e si era appropriato di denaro, era sufficiente che pagasse lui e non era necessario uccidere anche gli altri. Fu allora che Valerio disse che tutta la famiglia si era approfittata di lui e in particolare, assumendo di essere in grado di procurare appoggi logistici a lui ed al costituendo gruppo CAVALLINI nonché di organizzare l'evasione di un simbolo della destra quale CONCUTELLI, aveva indotto lui ed il CAVALLINI ad uccidere un politico siciliano. La decisione era stata adottata nel corso di una riunione... alla quale, come mi disse mio fratello, aveva partecipato anche la moglie del MANGIAMELI oltre ad un amico del MANGIAMELI, impiegato alla Regione Sicilia, che aveva fornito le indicazioni necessarie per la individuazione dell'obiettivo ed il momento in cui colpirlo. Valerio mi disse che si erano avvalsi anche dell'ausilio di Gabriele DE FRANCISCI, il quale aveva fornito la disponibilità di una casa, forse di parenti, che aveva a Palermo nei pressi del luogo ove il fatto era poi accaduto. Valerio non mi parlò delle modalità del fatto. Neppure il CAVALLINI lo fece mai...Gabriele DE FRANCISCI era legato a mio fratello ed a me da strettissimi rapporti di amicizia...Debbo perciò presumere che Gabriele fosse stato messo al corrente dell'uso della casa che doveva fornire. Ciò anche nell'ottica di una correttezza di rapporti fra noi "camerati" quando, come nel caso di specie, eravamo particolarmente amici.

D'altronde Gabriele aveva partecipato con Valerio a vari episodi criminosi dell'epoca in cui eravamo al FUAN; aveva conosciuto presumibilmente il MANGIAMELI perché, come questi, aveva partecipato all'assalto al Distretto di Padova ... e avrebbe partecipato più tardi a fatti come l'omicidio EVANGELISTA del maggio 1980. (n.d.r.: cfr. sentenza Corte di Assise di Roma del 16.7.1986, nel Vol. XXX Fot. 739131). Il racconto che ricevetti da Valerio fu successivo (settembre '80) all'impressione espressa da mio padre, quando vide sul giornale gli identikit dell'omicidio MATTARELLA. Disse... « Mio Dio hanno fatto anche questo! »".

AL G.I. DI PALERMO IL 29.3.1986 (Fot. 607544 Vol. XIII) Anche di tale interrogatorio, nel quale Cristiano FIORAVANTI conferma le dichiarazioni rese nei giorni 26 e 27 marzo 1986, è sufficiente trascrivere qui alcuni passi, idonei ad illuminare il travagliato "iter" psicologico in esito al quale Cristiano decide di rivelare ciò che sa sull'omicidio MATTARELLA, nonché a fornire ulteriori precisazioni in punto di fatto."... Preciso che già nel 1982 (n.d.r.: v. dichiarazioni del 28.10.1982) io esternai la mia convinzione, sotto forma di supposizione, che mio fratello Valerio avesse ucciso un politico siciliano. Ricordo che ne parlai a proposito dell'omicidio PECORELLI con il magistrato che si occupava di quelle indagini. In realtà, io sull'omicidio MATTARELLA avevo appreso direttamente da mio fratello Valerio, ma ritenni all'epoca di esternare soltanto mie asserite supposizioni per saggiare quale fossero le reazioni di mio fratello. Preciso meglio che io ho amato molto mio fratello e ho dedicato a lui la mia vita, poiché ero convinto che agisse per ragioni esclusivamente ideali e pure. Senonché, dopo le accuse recentemente mossegli a proposito della strage di Bologna..., ho cominciato a dubitare che mio fratello fosse invece inserito in un giro diverso e che le motivazioni delle sue azioni fossero più oscure. Ho deciso pertanto di metterlo definitivamente alla prova. Io so, infatti, per avermelo lui stesso rivelato, che egli è coinvolto nell'omicidio MATTARELLA. Se egli lo ammetterà, continuando però a negare la partecipazione alla strage di Bologna, ne dedurrò che di quest'ultima è innocente. Se negherà invece anche l'omicidio MATTARELLA, che io come ho detto so che ha commesso, ne dedurrò che è possibile un suo effettivo coinvolgimento nella strage di Bologna...".

Quindi, dopo aver parlato delle promesse non mantenute del MANGIAMELI circa gli appoggi e gli aiuti da ricevere in Sicilia, ha soggiunto: “.... questi appoggi ed aiuti sarebbero venuti al MANGIAMELI ed al nostro gruppo, come mi disse mio fratello, in cambio di un favore fatto ad imprecisati ambienti che avevano interesse all'uccisione del Presidente della Regione Siciliana. All'uopo, era stata fatta una riunione a Palermo in casa del MANGIAMELI, in periodo che non so di quanto antecedente all'omicidio del MATTARELLA, e nel corso di essa erano intervenuti, oltre al MANGIAMELI, mio fratello Valerio, la moglie del MANGIAMELI, ed una persona della Regione (non so se funzionario o politico)...Aggiunse mio fratello che l'omicidio era stato poi effettivamente commesso da lui e dal CAVALLINI, mentre collaborazione era stata prestata da Gabriele DE FRANCISCI, il quale aveva procurato una casa di appoggio, sempre necessaria allorché si procede ad azioni armate. Circa l'uso della casa, debbo far presente che nelle azioni armate è sempre necessario averne una a disposizione e non ha importanza se questa è occupata o meno da persone che non debbono essere messe al corrente del fatto. Ci si può infatti ivi presentare, occultando le armi sulla persona, come amici in visita e trattenersi il tempo necessario perché venga allentata la pressione di polizia, che scatta nella immediatezza del fatto criminoso. La casa deve infatti trovarsi nelle vicinanze del luogo del delitto...

D.R. Solo recentemente ho appreso da Sergio CALORE che si trova detenuto con me a Paliano, che i primi contatti di mio fratello Valerio col MANGIAMELI risalgono al 1979, probabilmente. In particolare, tra l'altro, il CALORE mi ha rivelato che nel 1979 mio fratello, Giuseppe DI MITRI e Roberto NISTRI, capi militari di Terza Posizione, si recarono da lui per chiedergli un mitra UZI che doveva servire... in una progettata evasione del CONCUTELLI a Palermo. Il DI MITRI ed il NISTRI erano legati notoriamente al MANGIAMELI....Il MANGIAMELI, peraltro, era il responsabile in Sicilia di Terza Posizione ed ovviamente non poteva essere estraneo a quel progetto di evasione del CONCUTELLI, al quale, come ho appreso dal CALORE, anche mio fratello partecipava...”.

Perché mio fratello Giusva non parla? La Repubblica il 25 gennaio 2020. AL P.M. DI ROMA L'8.5.1986 (Fot. 639972 Vol. XXI) Da questo magistrato, Cristiano FIORAVANTI viene dapprima interrogato in merito a precedenti indicazioni di Angelo IZZO, relative ad un suo possibile coinvolgimento nell'omicidio di Mino PECORELLI (v. deposizione dell'IZZO. al G.I. di Bologna dell'8.4.1986, infra) e fornisce una spiegazione, traente origine dai rapporti che l'IZZO cercava di allacciare con Raffaella FURIOZZI, già fidanzata di Cristiano FIORAVANTI (anche su ciò, v. in particolare la deposizione di Ivano BONGIOVANNI del 17.4.1986).

In tale interrogatorio, Cristiano FIORAVANTI fornisce inoltre ulteriori dettagli sulla sua decisione di rivelare quanto a sua conoscenza sull'omicidio MATTARELLA: “... Ovviamente, dopo aver recentemente appreso dalla FURIOZZI che questa ancora innamorata di me, pur se non posso essere certo di nulla, mi viene da pensare che IZZO mi abbia accusato proprio per «eliminare il suo rivale in amore». Tale interpretazione mi sembra ovviamente riduttiva ma non riesco a dare altre spiegazioni, oltre questa o quella di guadagnare titoli di merito agli occhi dei Magistrati. Io, d'altronde, sono stato convinto dall'IZZO a dire anche quanto sapevo sugli omicidi PECORELLI e MATTARELLA; la cosa mi è costata molta fatica ma fu l'IZZO a dirmi che dovevamo mettere con le spalle al muro mio fratello e che Valerio doveva uscire allo scoperto anche sulla strage di Bologna. Ciò potevamo fare solo se riuscivamo a convincere e «chiudere» Valerio sulle cose che sapevamo...Mi aggiunse che il pentimento del SODERINI poteva comportare l'effetto che egli parlasse degli omicidi MATTARELLA e PECORELLI per averlo saputo in carcere da Valerio. Disse che sui due fatti egli aveva ricevuto notizie in carcere da Valerio e che ben poteva darsi che lo stesso racconto Valerio avesse fatto a Stefano. Tutto ciò mi veniva detto da IZZO attorno ai primi di marzo e, comunque, in periodo immediatamente prossimo al tempo in cui venne sui giornali notizia del pentimento di SODERINI (e cioè durante il processo per i fatti del Flaminio) e vennero a Paliano i Giudici di Bologna e di Firenze. Si tratta di giorni diversi rispetto a quello del mio interrogatorio del 26.3.1986 al Giudice VIGNA. IZZO mi disse che la congerie di indizi che ho sopraindicato portava inevitabilmente a Valerio e che io dovevo contribuire alla verità e ad indurre Valerio a dirla con compiutezza. Fu così che quando IZZO mi disse che il dott. VIGNA era a Paliano, io mi portai da lui dopo che IZZO mi aveva introdotto, chiedendo al dott. VIGNA se poteva interrogarmi sull'omicidio MATTARELLA. Nei giorni successivi, fui interrogato su quell'omicidio e sull'omicidio PECORELLI anche dai Giudici di Palermo e dal Giudice MONASTERO, al quale fra l'altro espressi il mio desiderio di avere un confronto allargato con IZZO, SODERINI e Valerio. Seppi poi da IZZO che aveva telefonato al dott. MANCUSO di Bologna e da questo aveva appreso della inopportunità di un confronto che precedesse l'interrogatorio da parte dei Giudici bolognesi dell'IZZO medesimo. A questo punto mi arrabbiai moltissimo, perché dissi ad IZZO che in questo modo avremmo praticamente «incastrato» mio fratello e il nostro scopo di chiarezza sarebbe venuto meno, in quanto Valerio non sarebbe «venuto con noi» e mai e poi mai avrebbe detto qualcosa, dopo aver appreso che dei due omicidi si interessavano i Giudici di Bologna...Voglio aggiungere spontaneamente, dopo aver avuto lettura del verbale, che IZZO mi convinse a dire le cose che sapevo sull'omicidio MATTARELLA e PECORELLI. Le mie dichiarazioni sul punto corrispondono pienamente al vero, nel senso che io ho effettivamente appreso da varie fonti di conoscenza indicate nei miei precedenti verbali la responsabilità di Valerio, CAVALLINI ed altri sui due fatti criminosi indicati. Ciò dico per eliminare qualsiasi dubbio che sul punto potesse essere mai avanzato. D'altra parte, a dare ulteriore contezza della veridicità delle mie affermazioni, stanno le motivazioni che precedettero quelle dichiarazioni e la volontà di chiarire la posizione di mio fratello. Il mio intento era addirittura quello di fare dichiarazioni in dibattimento durante il processo MANGIAMELI e ciò per mettere pubblicamente e «brutalmente» mio fratello di fronte alle sue responsabilità...".

AL G.I. DI PALERMO IL 25.5.1986 (Fot. 633230 Vol. XX) Dopo aver confermato le precedenti dichiarazioni, Cristiano FIORAVANTI fornisce ulteriori dettagli in ordine alla fase preparatoria ed esecutiva dell'omicidio. Anche questo interrogatorio evidenzia l'assoluta attendibilità intrinseca del dichiarante, il quale pone la massima cura nel distinguere le notizie effettivamente apprese dalle proprie deduzioni (riguardanti, ad esempio, gli eventuali ruoli di Francesca MAMBRO e Gabriele DE FRANCISCI), dà conto degli interni conflitti emotivi che hanno determinato sue dichiarazioni in senso diverso (nel giudizio relativo all'omicidio di Francesco MANGIAMELI), offre una utile chiave di lettura dei contributi di altri "collaboranti" (Angelo IZZO, Sergio CALORE). “... Confermo, previa lettura avutane, la dichiarazione da me resa ai GG.II. di Palermo il 29.3.1986. Ribadisco di avere appreso direttamente da mio fratello Valerio che egli e Gilberto CAVALLINI erano stati gli autori materiali dell'omicidio dell'On.le Piersanti MATTARELLA e che tale decisione era stata preceduta da una riunione avvenuta in casa del MANGIAMELI, alla quale avevano partecipato, oltre a mio fratello stesso, il MANGIAMELI, la moglie ed un funzionario o un uomo politico della Regione Siciliana, che aveva fornito i particolari nelle abitudini del parlamentare siciliano, necessari per la consumazione dell'omicidio. Io ritengo scontato che alla riunione avessero partecipato la MAMBRO, che non muoveva passo senza il Valerio, ed il CAVALLINI, essendo destinato alla commissione del delitto; ma trattasi di mie deduzioni personali. Ribadisco che, sempre secondo mio fratello Valerio, Gabriele DE FRANCISCI gli aveva fornito la disponibilità di una casa nei pressi del luogo dell'assassinio; mio fratello, però, non mi disse che avevano fatto effettivamente uso della casa stessa. Al riguardo faccio presente che la casa di appoggio viene usata solo quando ciò è reso necessario dalle modalità concrete dell'attentato e non quando l'azione fila via liscia e ci si può allontanare indisturbati.

A D.R. Mio fratello non mi disse come era venuto a Palermo e come ne fosse andato via; egli, infatti, si limitò a confessarmi di aver commesso l'omicidio in questione ed io, del resto, non avevo bisogno di chiedergli ulteriori particolari, dato che era evidente che si trattava di un episodio analogo ad altri da noi commessi che non richiedessero particolare spiegazione. Egli mi avrebbe informato solo se nel corso dell'azione fosse intervenuto qualche fatto imprevisto, meritevole di particolare commento.

A D.R. Per quel che ne so, in Sicilia Valerio FIORAVANTI aveva rapporti solo con Francesco MANGIAMELI, l'unico che avrebbe potuto fare da tramite con i mandanti dell'omicidio.

A D.R. In sede di confronto con mio fratello Valerio, reso davanti al G.I. di Roma, dott. MONASTERO, mi sono reso conto che il predetto teneva una linea ostinatamente negativa. Mi sono reso conto, però, durante quel confronto, che mio fratello era particolarmente oppresso dalle mie nuove accuse e ciò mi ha particolarmente toccato; pertanto, nell'udienza tenutasi successivamente (il giorno dopo), davanti alla Corte di Assise di Roma, inerente all'omicidio MANGIAMELI, ho preferito dichiarare che quanto io sapevo sull'omicidio MATTARELLA era frutto di mie convinzioni personali, che però avevo riveduto. Trattasi, lo ribadisco, di un mio comportamento processuale motivato soltanto da ragioni di affetto nei confronti di Valerio, essendo emotivamente sconvolto dalla sua reazione alle mie accuse; peraltro, in quel confronto, io e mio fratello non avevamo toccato l'argomento dell’omicidio MATTARELLA.

Spontaneamente soggiunge: se ho riferito all'Autorità Giudiziaria quanto io sapevo sugli omicidi PECORELLI e MATTARELLA non è stato certamente per trarne vantaggi sotto il profilo personale. Io sono stato arrestato nell'aprile 1981, prima che venisse approvata la legge a favore dei pentiti politici ed ho subito iniziato a collaborare con la Giustizia in misura veramente notevole. Ho ammesso le mie responsabilità per gli omicidi di due Carabinieri, avvenuti a Padova il 5.2.81, e per questi reati sono stato condannato, in virtù del mio eccezionale contributo, a tredici anni di reclusione, con sentenza ormai definitiva. Nel procedimento in corso davanti alla Corte di Assise di Roma, ho ampiamente ammesso di avere commesso gli omicidi SCIALABRA e MANGIAMELI e non mi aspetto nessun particolare aiuto per quanto ho riferito in ordine a mio fratello. Ho inteso soltanto, con la mia presa di posizione, far comprendere a Valerio che era giunto anche per lui il momento di chiarire le sue responsabilità, anche per comprendere io stesso chi sia veramente mio fratello. Mi rendo conto, però, che per lui è impossibile compiere questo sforzo di autocritica, anche perché ciò significherebbe ammettere di essere stato strumentalizzato da altri e, cioè, da quei poteri occulti che noi abbiamo sempre combattuto e ciò egli non lo farà mai.

A D.R. Per quanto riguarda Angelo IZZO, debbo dire che non sono in grado né di confermare, né di escludere che Valerio possa avergli confidato qualcosa sugli omicidi PECORELLI e MATTARELLA.

Quello che mi sento di escludere - ben conoscendo Valerio - è che possa avergli confidati eventuali contatti con la mafia siciliana o con «la banda della Magliana». IZZO, condannato all'ergastolo con pena definitiva, probabilmente ritiene che un suo contributo eccezionale in ordine ad alcuni c.d. «omicidi eccellenti» possa in qualche modo risolversi a suo favore ai fini di una riduzione della pena. E' assurdo, poi, che egli mi accusi di avere partecipato ad un omicidio come quello di PECORELLI, cui io sono del tutto estraneo e sul quale ho riferito quanto a mia conoscenza. L'IZZO da tempo (dieci anni) è rinchiuso nelle carceri speciali e di storie su tanti fatti, spesso ingigantite o distorte, ne ha apprese parecchie. Mio fratello, inoltre, era molto unito a Sergio CALORE, quale certamente avrebbe riferito di avere commesso gli omicidi in questione, se avesse voluto confidarsi con qualcuno; e ciò a differenza di IZZO...

A D.R. E' vero, come la S.V. afferma essere stata riferito da Sergio CALORE, che io mi sono recato da Bruno MARIANI per ritirare un mitra UZI. Ho eseguito questo incarico su richiesta di Valerio, che mi aveva detto che il mitra occorreva per consumare una rapina alla Chase Manhattan Bank di Roma. Il mitra non è stato riconsegnato da me ed ignoravo che Valerio ne avesse richiesto il prestito a Sergio CALORE motivandolo con la necessità di impiegarlo per far evadere CONCUTELLI.

...Spontaneamente soggiunge: mio fratello non mi disse di avere ucciso l'On.le MATTARELLA, bensì soltanto un uomo politico siciliano e che quest'ultimo era in compagnia della moglie ed era di ritorno dalla messa; mi disse anche che lo aveva ucciso con una rivoltella cal. 38. E' stato molto agevole, per me, sulla base di questi particolari, individuare l'uomo politico ucciso, anche a seguito di quanto riferitomi dai Magistrati con cui ho iniziato a collaborare. Credo che queste mie dichiarazioni risalgano alla fine del 1982 - primi del 1983 -. Nel periodo dell’assassinio, noi camminavamo armati normalmente con una rivoltella cal. 38, una pistola automatica bifilare, munizionamenti e una bomba a mano”.

AL G.I. DI PALERMO IL 19.12.1986 (Fot. 702731 Vol. XXV) Cristiano FIORAVANTI riceve dapprima lettura delle dichiarazioni, in data 7.6.1986 (v. appresso), con le quali il fratello Valerio ha respinto ogni accusa, definendo "inspiegabile" e "contraddittoria" la condotta di Cristiano. Il dichiarante spiega ancora una volta, in maniera seria e convincente, il travagliato "iter" psicologico ed emotivo che, del tutto disinteressatamente, lo ha indotto a rivelare ciò che sa sull'omicidio MATTARELLA. "... Ricevo lettura di quanto dichiarato da Valerio FIORAVANTI il 7.6.1986 (Fott. 639197-639209 Vol. XX) e, al riguardo, dichiaro quanto segue. Anzitutto, ribadisco le mie precedenti dichiarazioni, di cui ricordo perfettamente il contenuto, in ordine a quanto mi risulta circa la partecipazione di mio fratello all'omicidio MATTARELLA. Vorrei ancora una volta sottolineare, da un lato, che accusare mio fratello di un omicidio così "sporco" a me è costato e costa tuttora grandissima fatica per l'affetto che mi lega a Valerio: inoltre i miei familiari mi hanno aspramente criticato mossi da evidente affetto per Valerio. Dall'altro, non vedo proprio quale concreto interesse processuale potrei ricavare da queste mie accuse contro mio fratello. In tutti i processi a mio carico ho lealmente ammesso e mie responsabilità e quelli più gravi sono già definiti o sono sul punto di esserlo con riconoscimento della mia «qualità di pentito». Io ritengo che in tempi brevi ragionevolmente, riacquisterò la libertà e non vedo perché avrei dovuto accusare mio fratello di reati tanto gravi se fossi stato spinto, come afferma Valerio, da motivi di sconti di pena. Solo in tempi recenti ho deciso di riferire quanto a mia conoscenza sull'omicidio MATTARELLA, volendo giungere ad un chiarimento con me stesso e sulla reale personalità di mio fratello. Noto con stupore che mio fratello ha riferito fatti molto controproducenti per lui stesso come la sua presenza a Palermo nel gennaio 1980; circostanza, questa, che non aveva mai ammesso finora e della quale io nulla sapevo. Ricordo che, nell'ultimo confronto con Valerio, quest'ultimo si dichiarava del tutto tranquillo sull'omicidio MATTARELLA poiché, a suo dire aveva conosciuto MANGIAMELI soltanto nel marzo-aprile 1980; e nessuno all'infuori di lui, era a conoscenza di questa circostanza, che non era altrimenti dimostrabile se egli non l'avesse riferita. In definitiva, questo stranissimo comportamento processuale di Valerio può trovare spiegazione, a mio avviso, solo nel fatto che egli, non potendolo ammettere esplicitamente, fa di tutto affinché la sua responsabilità in ordine all'omicidio in questione venga fuori per altra via. Io ho le mie precise convinzioni circa i motivi di questo suo persistente diniego a confessarsi autore dell'omicidio MATTARELLA; ma trattandosi soltanto di supposizioni mi astengo doverosamente dal riferirle. E' certo, però, che deve esserci qualcosa di grave perché mio fratello adotti un comportamento tanto strano, specie se si considera che ha confessato gli altri omicidi da lui commessi. Vorrei sottolineare, per esigenze di chiarezza, che non mi sentirei di fare affidamento con tranquillità su quanto riferito da Angelo IZZO. E ciò non perché abbia riferito cose false sul mio conto, travisando il mio ruolo in vicende in cui, peraltro, ho ammesso le mie responsabilità (vedi omicidio DI LEO, commesso a Roma nel settembre 1980). Ma perché in realtà, egli ha sempre riferito cose francamente inattendibili e indimostrabili, rivelando col suo comportamento di gravitare in un ambiente torbido. Non si deve mai dimenticare che IZZO è quel soggetto resosi responsabile dell'inqualificabile atto delittuoso di S. Felice CIRCEO e che, proprio per questa sua personalità, non era certamente visto di buon occhio da noi, anche se faceva parte di QUEX (la rivista rivoluzionaria dei detenuti di destra): mi sembra assurdo, dunque, che tutti - anche persone di notevole spessore politico e di forte personalità - facessero quasi a gara per confidargli tutti i segreti più gravi.

A D. R. Non ho mai detto ad IZZO che il tramite della conoscenza fra Valerio e MANGIAMELI fosse Peppe DI MITRI; ciò a me non risulta e, pur avendone parlato con mio fratello, ritengo più probabile che sia stato altri ma potrei fare solo supposizioni. Per quanto ne so, è stato Sergio CALORE a far conoscere CAVALLINI a mio fratello. Io ritengo che il primo gesto commesso dai due, insieme, sia stata la rapina di Tivoli commessa alla fine del 1979 (gioielleria).

A D.R. Sono sicuro che Valerio mi abbia detto la verità nel confidarmi le sue responsabilità nell'omicidio dell'uomo politico siciliano. Egli doveva convincermi dell'utilità, dopo l'uccisione di MANGIAMELI, anche dell'uccisione della moglie e della figlia di quest'ultimo e, pertanto, doveva presentarmi una reale esigenza; e mi disse, pertanto, che la moglie aveva partecipato alla riunione in cui si era decisa l'uccisione ed era ancora più pericolosa del marito".

La lettera al giudice Falcone. La Repubblica il 26 gennaio 2020. Dalla Casa di reclusione di Paliano, il 30.3.1987, Cristiano scriveva a questo Ufficio: “Egr. Dott. FALCONE Le scrivo perché non sono sereno, non riuscendo a scindere la verità dalla falsità rendendomi conto di essere stato influenzato da una serie di fattori che mi hanno portato a fare le dichiarazioni che ho reso davanti a Lei, oggi, dopo aver riflettuto a lungo non me la sento di confermare le suddette dichiarazioni. Non è facile per me accusare mio fratello di un reato così grave ed è proprio per questo che devo avere l'assoluta certezza di quello che ho detto e purtroppo non avendola non riesco ad accettare l'idea di accusarlo su storie che non ho vissuto di persona e perciò non posso fare altrimenti, devo rendere conto anche alla mia coscienza e alla mia famiglia, gradirei parlarle di persona quando capiterà a Roma per lavoro".

Il senso della lettera, già facilmente intuibile per i suoi riferimenti alle responsabilità affettive verso il fratello e la famiglia, è dolorosamente messo in chiaro nel successivo interrogatorio. AL G.I. DI PALERMO IL 15.4.1987 (Fot. 746889 Vol. XXXIX) "Le ho scritto la lettera che le è pervenuta per rappresentarle il mio intenso stato di disagio affettivo, poiché mi sono reso conto che, inevitabilmente le mie dichiarazioni sul coinvolgimento di mio fratello Valerio avranno il loro peso, non insignificante, nel procedimento penale a suo carico in ordine, alla strage di Bologna, attualmente in corso di svolgimento davanti alla Corte di Assise di quella città. Con la lettera sopra richiamata, non ho inteso affatto ritrattare le mie precedenti dichiarazioni riguardanti l'omicidio MATTARELLA, ma soltanto esprimere la gravissima preoccupazione per la sorte di mio fratello. Io non so dire se egli è o meno responsabile dei fatti da lui riferitimi e, in particolare, dell'omicidio MATTARELLA di cui mi confidò essere autore. Però, la prego di comprendere il dramma umano che io sto attualmente vivendo e la prego altresì di rinviare il mio interrogatorio ad almeno una quindicina di giorni affinché io possa riflettere ulteriormente sulla scelta processuale da adottare in ordine alle mie dichiarazioni sull'omicidio MATTARELLA".

AL G.I. DI PALERMO L'11.5.1987 (Fot. 750288 Vol. XXXIX) "Dopo lungo travaglio, ho deciso di confermare quanto ho riferito sull'omicidio MATTARELLA, per averlo appreso da mio fratello Valerio. E' una imprescindibile esigenza di verità sapere chi è realmente mio fratello e non posso, in nome di un malinteso affetto, negare quanto in effetti è accaduto. In sostanza, non posso negare la realtà storica di fatti che sono accaduti, come le confidenze fattemi da mio fratello Valerlo sul suo coinvolgimento nell'omicidio MATTARELLA. Ci sono diversi punti oscuri nelle sue azioni che finora non sono riuscito a comprendere; lo stesso barbaro omicidio di MANGIAMELI e l'accanimento di mio fratello nel proposito di eliminare la moglie e la figlia del predetto, sono tuttora, a mio avviso, inspiegabili sulla base delle ideologie politiche che assume di professare. E c'è da dire che Valerio ha confermato anche in Corte di Assise questi suoi propositi. Altri episodi mi sembrano difficilmente spiegabili, alla luce dello spontaneismo armato di cui egli è esponente di rilievo. L'omicidio LEANDRI, avvenuto nel dicembre 1979, ha infatti una causale molto strana. LEANDRI è stato ucciso per errore di persona e, al suo posto, avrebbe dovuto essere ucciso l'avv. ARCANGELI, ritenuto responsabile di avere fatto arrestare CONCUTELLI e di essere un uomo che lavorava per i Servizi Segreti. Altro fatto singolare è la mancata individuazione della finanziaria in danno della quale io avrei dovuto, insieme con CAVALLINI, mio fratello, Francesca MAMBRO, Giorgio VALE, Luca CERIZZO ed altro soprannominato «il paglia», compiere una rapina il 5.2.1981 a Milano, oppure il giorno dopo. Andai a Milano esclusivamente per partecipare a questa rapina, che doveva essere compiuta immediatamente; il che significa che i sopralluoghi erano già stati fatti ed il piano già predisposto. Mi era stato, detto, fra l'altro, dai miei correi (non ricordo da chi) che la finanziaria era ubicata a circa cento metri dalla Questura. Senonché, come ho detto più volte, quella mattina CAVALLINI mi avvertì che un tale di Padova, di cui adesso non ricordo il nome, aveva buttato in un canalone le armi, per cui fu necessario acquistare le attrezzature di subacqueo per tentare il recupero. Poi, com'è noto, il Valerio, nel tentativo di recupero (io materialmente ero in acqua) ebbe una sparatoria coi CC. e fu ferito ed arrestato. Faccio presente, nel riportarmi a quanto ho già detto su tale episodio, che con me, quando sono arrivato a Milano ed anche a Padova nei pressi del canalone, vi era anche Gabriele DE FRANCISCI, che riuscì ad eclissarsi, a bordo di una seconda vettura da lui guidata. La mancata individuazione della finanziaria mi sembra molto sospetta, se si considera che mio fratello ha ammesso tutto; e lo stesso dicasi per CAVALLINI e la MAMBRO. La cosa mi sembra molto sospetta avendo appreso da Roberto FRIGATO che la finanziaria si occupava di riciclaggio di danaro sporco e che egli era d'accordo con un impiegato o meglio con un azionista della società che avrebbe dovuto comunicare il giorno in cui presso l'Agenzia vi sarebbe stato il danaro. L'azionista intendeva, in siffatta maniera, dare un serio colpo alla finanziaria per acquistare le azioni degli altri a prezzo vile, con la sua quota di bottino proveniente dalla rapina. A D.R. Non mi risulta che mio fratello abbia mai avuto rapporti con Roberto FIORE e con ADINOLFI; egli aveva ottimi rapporti, ma solo fino al 1979, con Giuseppe DI MITRI. Mi sembra poco plausibile, pertanto, che sia stato il FIORE a presentare MANGIAMELI a mio fratello. E' più probabile, alla luce di quanto io so, che sia stato Giorgio VALE o, addirittura, CAVALLINI, gli unici due con cui, nel 1979, mio fratello manteneva rapporti. Peraltro, tuttora mi è ignoto in quali circostanze mio fratello abbia fatto la conoscenza di Giorgio VALE".

Sentito dalla Corte di Assise di Bologna nel giudizio di primo grado relativo alla strage del 2 agosto 1980, Cristiano FIORAVANTI non confermava quanto aveva precedentemente riferito sugli omicidi PECORELLI e MATTARELLA. Successivamente, però, chiariva le ragioni del suo comportamento in Assise al P.M. di Bologna. Ancora una volta, com'era già avvenuto davanti all'Assise di Roma nel procedimento per l'omicidio MANGIAMELI, non si era sentito - psicologicamente - di mantenere ferma l'accusa contro il fratello, isolandosi affettivamente dal resto della sua famiglia (e soprattutto dal padre, Mario), schierata al fianco di Valerio.

AL P.M. DI BOLOGNA IL 4.3.1988 (Fot. 850002 Vol. XLVII) "Intendo spontaneamente riferirete chiarire talune questioni che in questi giorni mi hanno agitato. Preciso che si tratta di vecchi nodi che io non sono riuscito a risolvere e che mi hanno portato ad una parziale ritrattazione avanti la Corte di Assise di Bologna. Io avevo già detto al Dr. FALCONE che non avrei retto nel confermare le mie accuse in presenza di mio fratello Valerio. Avevo anche chiesto a detto giudice di Palermo di avvertirLa di questo, se possibile, poiché io già sapevo che non avrei retto nell'aula della Corte di Assise di Bologna alla presenza di mio fratello. Oggi però avverto l'esigenza di affrancarmi da una tale mia subalternità e condizionamento nei confronti di mio fratello, verso cui continuo a nutrire sentimenti di profondo affetto. Per fare ciò devo necessariamente spezzare un'altra serie di affetti e di rapporti collegati a tutta la mia vicenda terroristica. In particolare, devo dire che attraverso mio padre rimbalzano su di me continuamente pressioni affinché io ritratti le mie dichiarazioni. Per ragioni che non conosco, taluni legali sono convinti che io sappia molto più di quanto non abbia già dichiarato, il che peraltro mi porta ad avere comprensibili preoccupazioni. Io, sia pure in maniera sofferta e graduale, liberandomi progressivamente da una serie di affetti famigliari, sono riuscito a realizzare una collaborazione leale con le varie Autorità giudiziarie. Viceversa, l'avvocato CERQUETTI, dichiarandosi convinto che io avessi sempre confessato reati non commessi in riferimento alle accuse da me rivolte a mio fratello sull'omicidio PECORELLI e per l'omicidio MATTARELLA, ha detto a mio padre che si trattava di accuse false che io avrei dovuto ritrattare. L'avvocato CERQUETTI, nel dire ciò a mio padre, sosteneva che «i Giudici di Bologna non mi avrebbero mai fatto uscire dal carcere se io non avessi riferito loro che Valerio era responsabile della strage di Bologna». Aggiungeva anche che «i Giudici di Bologna si servivano di IZZO per raggiungere il loro scopo, che era quello di accusare Valerio e di mettere me sotto pressione perché io dicessi loro le cose che volevano che io ammettessi». Ho ricevuto per anni tante e tali di queste pressioni che alla fine mi sono convinto che effettivamente questo gioco ai miei danni fosse stato realizzato. Avvertivo l'esigenza di chiarire con Lei quanto mi è capitato ed ecco il motivo per cui ho chiesto di parlarLe di queste mie vicende personali. Intendo poi spontaneamente rivelare un altro episodio che mi è capitato durante la mia detenzione presso il Reparto Operativo dei Carabinieri di Roma. Era il febbraio 1983; SORDI era stato arrestato da poco ed aveva iniziato a collaborare riferendo particolari sull'omicidio PECORELLI. Io, per esigenze istruttorie, fui portato presso il Reparto Operativo dove c'era anche SORDI e qui venni sottoposto a numerosi interrogatori. In questo periodo mi venne più volte chiesto cosa io sapessi dell'omicidio PECORELLI, evidentemente a seguito di quanto aveva detto sul punto SORDI. Mi sembra di ricordare che io mai avevo detto nulla su tale episodio, anche se io avevo sempre nutrito seri dubbi che mio fratello c'entrasse in tale omicidio, oltre che in quello di un uomo politico assassinato in Sicilia, che solo in un secondo momento seppi trattarsi dell'onorevole MATTARELLA. Successivamente, nel 1986, sarò molto più esplicito su tali episodi con i Giudici di Roma e di Palermo. Nel 1983, invece, al Reparto Operativo fui molto più defilato. Ciò perché mio fratello aveva confessato numerosi omicidi ma non quei due, il che mi faceva capire che c'era qualcosa di oscuro in tali episodi che mio fratello voleva coprire e che io non intendevo svelare anche perché non conoscevo i retroscena. Sempre in quel periodo il mio legale, l'avvocato Maurizio DI PIETROPAOLO, mi chiese più volte cosa sapessi dell’omicidio PECORELLI durante i nostri colloqui. Io gli dissi che non ne sapevo nulla. L'avvocato DIPIETROPAOLO mi disse che se io avevo interesse a restare al Reparto Operativo e a non rientrare in carcere, potevo dare ai Giudici un «contentino». Gli chiesi cosa intendesse per «contentino», dal momento che io gli avevo riferito di non saper nulla di tale omicidio ed egli mi rispose: «nel caso ne parleremo». In pratica, io capii che il mio legale voleva incanalare le cose per favorire qualcuno o per giochi ed interessi che mi sfuggivano ed ai quali io ero certamente estraneo. Quando chiesi a mio padre, dopo le rivelazioni, di CALORE e SODERINI, se realmente il mio avvocato lo avesse avvicinato per la vicenda PECORELLI, mio padre mi rispose che ciò non era vero. L'avvocato DIPIETROPAOLO mai nessun accenno mi fece all'omicidio MATTARELLA. Mio padre mi disse che l'avvocato CERQUETTI gli aveva poi spiegato che se io avessi ritrattato le mie dichiarazioni sui due omicidi ed avessi affermato che si trattava di circostanze false nessuno avrebbe potuto togliermi i benefici di legge di cui avevo già usufruito con sentenze definitive e tutt'al più avrei potuto andare incontro ad una pena non superiore ai due anni di reclusione per calunnia e favoreggiamento. Anche ultimamente, in occasione del processo per l'omicidio DI LEO, l'avvocato CEROUETTI, difensore di Donatella DE FRANCISCI, mi ha invitato, sempre attraverso mio padre, a ritrattare le mie dichiarazioni; dico meglio: in occasione del processo DI LEO (febbraio '88) nel quale io ero imputato, confesso e chiamante in correità (avevo riferito a PEDRETTI, dopo un colloquio con la Donatella DE FRANCISCI, che era tutto pronto per ammazzare il giornalista CONCINA, che gli appostamenti erano stati positivi e che in settembre si sarebbe «proceduto»), l'avvocato CERQUETTI ha avvicinato mio padre, dicendogli che si stava facendo in modo di condannarmi e di farmi perdere i benefici per una accusa di omicidio che io non avevo confessato. Viceversa, era vero il contrario ma mio padre non lo sapeva. Devo dire a questo punto, che se io all'udienza del dicembre '87 non ho confermato quanto avevo riferito sugli omicidi PECORELLI e MATTARELLA è stato per questo clima che l'avvocato CEROUETTI è riuscito a creare nella mia famiglia; in altri termini dicendo a mio padre che io ho detto il falso su tali episodi e che era necessario convincermi a ritrattarli, egli è riuscito a condizionare mio padre, che mi considera un «infame» e che è interessato solo a mio fratello, ed a fargli esercitare nei miei confronti dei ricatti morali ed affettivi. E' da anni che l'avvocato CEROUETTI porta avanti questo compito, che come ho detto è riuscito a condizionare la mia condotta processuale. Il legale invitò mio padre ad essere presente in aula per assistere a quello che io dicevo, sapendo che la sola sua presenza mi avrebbe condizionato. A Bologna, poiché la mia deposizione slittò, mio padre presente all'udienza in cui non fui escusso e non potè essere presente quando fui interrogato. Evidentemente, però, il clima che si era già creato mi portò a quella ritrattazione sui due episodi criminosi di cui ho detto. Quanto ho detto è determinato da una esigenza, che avverto in questo momento più forte che non nel passato, di affrancarmi da ogni condizionamento nel tentativo di conquistarmi una più completa autonomia ed indipendenza. Al momento non ricordo altro".

Prescindendo, qui, da ogni valutazione in ordine alle motivazioni ed alle modalità degli interventi dei citati professionisti, è necessario ricordare che le dichiarazioni di Cristiano trovano riscontro in un altro episodio, richiamato nella sentenza della Corte di Assise di Bologna relativa alla strage del 2 agosto 1980, su "cointeressenze processuali" tra Licio GELLI e Valerio FIORAVANTI in relazione all'omicidio PECORELLI (su tale episodio v. "amplius" in appresso). Con talune precisazioni, Cristiano FIORAVANTI ritorna sull'argomento nelle dichiarazioni del 21.7.1988, rese a questo Ufficio.

AL G.I. DI PALERMO IL 21.7.1988 (Fot. 850655 Vol. XLVII) “Confermo, previa lettura avutane, la dichiarazione da me resa al P.M. di Bologna, dott. L. MANCUSO, il 4.3.1988 (Vol. XLVII, ff 183-187).

Debbo dire, però, che per quanto riguarda le mie dichiarazioni sull'avv. DI PIETROPAOLO si tratta di mere sensazioni e valutazioni, squisitamente personali, la cui attendibilità non sono in grado di riferire; pertanto, non le confermo. Vorrei soggiungere che mi trovo in uno stato di profondo disagio, perché ho appreso da mio padre, al quale ciò è stato comunicato da mio fratello, che adesso i pentiti della mafia starebbero facendo rivelazioni anche sulla esecuzione materiale dell'omicidio MATTARELLA da parte di mafiosi; e Valerio, secondo quanto mi ha riferito mio padre, ha soggiunto: «adesso, sono problemi per quelli che mi hanno accusato dell'omicidio MATTARELLA». Ignoro da chi mio fratello avrebbe appreso queste notizie; forse, ma è soltanto una mia opinione, dai giornali o dalla televisione. Ho appreso ciò da mio padre in occasione di un permesso, concessomi dal magistrato di sorveglianza, dal 1° al 13 giugno scorso, che ho trascorso a casa dei miei familiari, a Roma. In sostanza, io non posso che ribadire la verità del fatto storico di avere appreso personalmente da mio fratello Valerio, con le modalità che ho riferito nei miei precedenti interrogatori, che egli era coinvolto nell'omicidio di un uomo politico siciliano, che secondo le Autorità si identificherebbe nell'on. MATTARELLA. Per quanto mi riguarda, ribadisco di non sapere e di non avere altri elementi per stabilire se egli ha effettivamente commesso questo omicidio; ma non posso sostenere, per onestà intellettuale, che egli non mi abbia confidato ciò, anche se, ove ritrattassi, probabilmente la mia situazione ne trarrebbe beneficio.

A D.R. Per quanto concerne l'omicidio di Michele REINA, segretario provinciale della D.C. di Palermo, che la S.V. mi dice essere avvenuto, in Palermo il 9.3.1979, debbo dire che apprendo soltanto adesso di tale omicidio e che il nome di REINA non mi dice nulla.

A D.R. Escludo che mio fratello mi abbia mai detto di essere in qualche modo coinvolto nell'omicidio suddetto. Apprendo dalla S.V. che le vedova di Michele REINA ha recentemente reso una dichiarazione nel corso della quale ha fotograficamente notato una somiglianza fra il killer di suo marito e mio fratello Valerio ed ha precisato delle modalità di esecuzione dell'assassinio che ricordano gli omicidi commessi da mio fratello, secondo quanto la S.V. mi dice. Al riguardo, ribadisco che di tale omicidio non mi risulta nulla e che mai ne ho parlato, con Valerio o con altri.

A D.R. Se ben ricordo, il 6.3.1979 era l'anniversario della morte di Franco ANSELMI, che si intendeva commemorare con un'altra rapina in un'altra armeria, come quella in cui era stato ucciso l'ANSELMI. Trattasi della rapina in danno dell'armeria Omnia Sport che, però, fu commessa qualche giorno dopo, cioè, lo stesso giorno in cui io sono stato dimesso dal carcere. Io, quindi, non ho partecipato alla rapina, che però è stata commessa da mio fratello Valerio, Francesca MAMBRO, Giuseppe DI MITRI, Alessandro ALIBRANDI, Dario PEDRETTI, Alessandro PUCCI, Gabriele DE FRANCISCI ed altri. In quel periodo, Valerio era molto attivo sulla piazza di Roma e, se ben ricordo, si allontanò da questa città dopo una decina di giorni dalla consumazione della rapina, per distribuire parte delle armi sottratte ai gruppi che voleva creare nel Nord, a Trieste e Rovigo. Anzi, non sono nemmeno sicuro, adesso, se sia allontanato da Roma o se la consegna delle armi sia avvenuta nella Capitale. Quel che è certo è che non ho mai sentito parlare di un suo viaggio in Sicilia in quel periodo".

Le “pressioni” e il silenzio. La Repubblica il 27 gennaio 2020. La drammatica vicenda di Cristiano FIORAVANTI e le pressioni esercitate per condizionare la sua condotta processuale, ovviamente, non cessano. Ne è riprova la lettera al Giudice Istruttore di Palermo del 26.8.1989. LETTERA AL G.I. DI PALERMO DEL 26.8.1989 (Fot. 906374 Vol. LII) Dalla Casa di reclusione di Paliano, il 26.8.1989, Cristiano FIORAVANTI Scrive: "Io sottoscritto Cristiano FIORAVANTI dichiaro di non voler confermare le dichiarazioni rese nella fase istruttoria sull'omicidio di Piersanti MATTARELLA e di astenermi in futuro a rispondere su tale fatto, avvalendomi dell'art. 350 C.P.P. che cita «i prossimi congiunti dell'imputato o di uno dei coimputati del medesimo reato possono astenersi dal deporre». Questa mia decisione è maturata in seguito a seri motivi di famiglia".

Cristiano spiega le ragioni della sua scelta nel successivo interrogatorio del 16.3.1990. AL G.I. DI PALERMO IL 16.3.1990 (Fot. 918820 Vol. LXVII) "Intendo avvalermi della facoltà di non rispondere, anche se riconosco integralmente tutte le dichiarazioni sin qui rese, in quanto non ho più la forza né fisica né psichica per continuare ad accusare mio fratello, subendo tutte le conseguenze di carattere morale, affettivo e familiare connesse a questa mia scelta, che mi è costata e mi costa un prezzo altissimo. Tra l'altro, ho interrotto quasi del tutto ogni rapporto con l'esterno, all'infuori di mia sorella. Intendo chiarire che non è un ripensamento alla mia scelta di collaborazione, anzi sostengo tutt’oggi che sia stata la scelta più giusta che mi ha permesso di trovare la via per tentare di espiare i miei gravissimi reati. Tale collaborazione, però, per il motivo avanti indicato, non comprende proprio e soltanto il processo riguardante l'omicidio dell'on. MATTARELLA, o meglio, non intendo andare oltre nella collaborazione già resa dell'istruttoria di quest'ultimo processo. Spontaneamente aggiunge: non escludo che in futuro, se riuscirò a superare questo stato di prostrazione fisica e psichica, sarò di nuovo disponibile a rendere ulteriori interrogatori, anche perché mi rendo conto che questa mia scelta odierna cozza con la scelta precedente di recidere nettamente ogni legame con passato. A questo punto, sono le ore 16,40, si presenta l'avv. Giampiero MENDOLA in sostituzione dell'avv. DI PIETROPAOLO, il quale viene reso edotto di quanto sin qui verbalizzato. Letto, confermato e sottoscritto alle ore 16,45. Si dà atto che prima di firmare il verbale il FIORAVANTI spontaneamente accetta di rispondere solo ad una domanda concernente un piumino di colore azzurro.

A D.R. Ricevo lettura di quanto dichiarato da mio fratello Valerio, circa il possesso di un piumino di colore blu, nel suo interrogatorio del 23.10.1989. Al riguardo, devo precisare che è vero che io possedevo o meglio ho posseduto un piumino di colore azzurro, marca Moncler. Ho comprato, però, tale indumento solo dopo l'estate del 1980 e non so che fine abbia fatto. E' vero, però che Stefano SODERINI quando venne al carcere di Paliano, nel 1986 o 1987, mi regalò un piumino di colore blu, marca CIESSE, dicendomi che era stato di Valerio. Io non avevo ricordo che tale indumento era stato nella disponibilità di mio fratello. Questo capo di abbigliamento, per quel che ne so, dovrebbe tuttora trovarsi in casa di mio padre, in via del Tritone n. 94 Roma. In questo momento mio padre si trova all'estero, a Ceylon, ed in casa non c'è nessuno.

A D.R. Prima del piumino Moncler avevo avuto un altro piumino, di scarso valore commerciale, forse di origine cinese, di colore azzurro «carta da zucchero» ma non blu, che utilizzavo per andare in motocicletta. Anche di questo indumento non ho saputo più nulla da quando mi sono dato alla latitanza". Le dichiarazioni testé trascritte spiegano le ragioni del comportamento processuale assunto, nel medesimo periodo (marzo 1990), innanzi alla Corte di Assise di Appello di Bologna, che giudicava - in quel momento - sulla strage del 2.8.1980.

ALLA CORTE DI ASSISE DI APPELLO DI BOLOGNA IL 29.3.90 (Fot. 918994 Vol. LXVII) “... viene introdotto FIORAVANTI Cristiano. Si dà atto che è presente il difensore di ufficio CAVARRETTA del Foro di Bologna. Quindi, il dr. ESTI legge le dichiarazioni rese dal teste il giorno 22 marzo 1990. Non intendo rispondere a domande come quelle che la S.V. mi formula, intorno all'omicidio MANGIAMELI. Alla domanda se conoscesse il MANGIAMELI risponde: Io conobbi costui soltanto il giorno che lo prelevammo. Sapevo che era un dirigente di T.P. Non intendo rispondere alla domanda circa i rapporti intercorrenti tra il MANGIAMELI e mio fratello. Confermo le dichiarazioni da me rese nel corso del processo in ordine al delitto MANGIAMELI, non confermo dichiarazioni che abbiano ad oggetto l'omicidio MATTARELLA. Il Procuratore Generale produce documento contenente dichiarazioni rese da Cristiano FIORAVANTI al Procuratore della Repubblica il 4.3.1988 (v. prima).

A D. risponde: Effettivamente, mentre ero detenuto nelle Carceri di Paliano ove trovavasi anche il dott. MANCUSO, sentii il bisogno di fare una dichiarazione spontanea.

A D. del dr. ESTI risponde: Voglio far presente che nel fare dichiarazioni in passato in ordine alla strage di Bologna, al delitto MANGIAMELI, al delitto MATTARELLA e delitto PECORELLI, fui influenzato da IZZO Angelo. L’IZZO mise in discussione l'operato di mio fratello. Cominciava a dire che c'erano molti punti oscuri sull’operato di mio fratello. Diceva che c’erano prove che coinvolgevano mio fratello nei fatti di cui sopra. Egli mi enunciò alcuni fatti e circostanze intese a sostenere la sua affermazione. Io rimasi sconvolto. Di fronte agli elementi che enuncia l'IZZO io mi convinsi della fondatezza su guanto egli affermava a proposito di mio fratello. L'IZZO diceva che gli elementi che mi presentava li aveva desunti da confidenza dello stesso Valerio. Successivamente, mi sono reso conto che mio fratello non potesse assolutamente essere stato partecipe di fatti così infamanti. Se io avessi soltanto il dubbio che mio fratello potesse averli commessi sarei il suo più accanito accusatore. L'IZZO, tra l'altro, cominciò anche ad accusarmi di cose che io non avevo mai commesso ed io cominciai a mia volta a non avere più fiducia in lui. Egli mi ha esposto anche al pericolo di incriminazioni. Per buona fortuna disponevo di elementi di sostegno di affermazione della mia innocenza. Non confermo quanto dichiarato il 26 marzo 1986 al Procuratore della Repubblica di Firenze e il 25 aprile 1986 al Giudice Istruttore di Bologna relativamente alla volontà di mio fratello di sopprimere anche la moglie del MANGIAMELI e la figlia in relazione al fatto che egli aveva anche ammazzato un politico e la moglie ne era a conoscenza. Preciso che io non confermo perché non intendo portare avanti questa accusa.

L'avv. BALDI chiede acquisirsi il documento prodotto dal P.G. (n.d.r.: dichiarazioni rese al P.M. di Bologna il 4.3.1988 - di cui prima).

L'avv. BERTI A. VELI di parte civile si associa alla richiesta dell'avv. BALDI.

L'avv. MANCINI chiede che prima dell'acquisizione del documento si dia termine alla difesa per poter esaminare il documento prodotto.

A questo punto dà lettura del documento perché le parti siano messe in grado di concludere circa la sua acquisibilità.

Rivolge peraltro-domanda al Cristiano FIORAVANTI se ne conferma il contenuto e lui dichiara: Mi trovavo in un particolare stato d'animo, vedevo tutto nero e mi sentivo fatto segno ad un complotto. Un paio di mesi dopo feci un'altra dichiarazione al dr. MANCUSO, sempre a Paliano, nella quale non confermavo le dichiarazioni rese perché erano dettate da questa mia mania di persecuzione".

(Dopo che la Corte ha provveduto su talune istanze delle parti: n.d.r.) "Viene quindi richiamato Cristiano FIORAVANTI. A D. dr. ESTI risponde: Prendo atto della mia dichiarazione, in data 29 agosto 1983, secondo cui mio fratello dal febbraio del 1980 cominciò a frequentare la Sicilia dove era in contatto col MANGIAMELI. Confermo la medesima ma non so dire chi abbia messo mio fratello in contatto col MANGIAMELI. Valerio mi disse che stava gettando le basi per fare delle rapine di autofinanziamento in quella città. Nulla sapevo del collegamento di questi viaggi con il progetto di evasione del CONCUTELLI. Nel «covo di Taranto» io misi piede nel settembre del 1980". Le ragioni che hanno ispirato la scelta processuale di Cristiano FIORAVANTI vengono lealmente spiegate in un successivo interrogatorio, importante per la sostanziale conferma logica della veridicità delle precedenti dichiarazioni.

Si tratta dell'interrogatorio del 24.7.1990, reso a questo Ufficio. AL G.I. DI PALERMO IL 24.7.1990 (Fot. 938441 Vol. LXX) "Intendo continuare ad avvalermi della facoltà di non rispondere, anche se riconosco integralmente, le dichiarazioni sin qui rese giacché, da quando ho preso questa decisione, ho finalmente trovato quella tranquillità di animo che in precedenza avevo inutilmente cercato. Ho ripreso efficacemente un sereno rapporto familiare con mia sorella Cristina e non intendo più perderlo, anche perché è l'unico che mi è rimasto. Infatti, da circa 2 anni non vedo più mio padre, il quale, schierato apertamente dalla parte di Valerio, ritiene forse in tal modo di condizionare il mio comportamento fino a quando questa istruttoria non sarà conclusa. Intendo chiarire che la decisione ancora oggi riaffermata è frutto anche di questo comportamento di mio padre, ma è soprattutto determinata da una mia riflessione sui veri valori della vita tra i quali ritengo di collocare al primo posto quello della famiglia. E siccome, allo stato, la mia famiglia è costituita da mia sorella Cristina, intendo salvaguardare questo rapporto. Tra l'altro, dopo avere fermamente creduto nel valore della giustizia in questi ultimi mesi ho avuto la sensazione di essere stato «usato» cioè di essere stato spremuto e poi gettato via. Non posso nascondere che nella mia ansia, tuttora attuale, di capire che cosa ha fatto realmente mio fratello Valerio, avrei voglia di continuare a dare il mio apporto alle indagini e al riguardo, posso soltanto dire che, ad esempio, sono ansioso di sapere come mai una BMW (serie 7) di cui CAVALLINI aveva la disponibilità a Milano (nel 1981) e che doveva servire per il sequestro del figlio di BENETTON, è stata poi trovata a Palermo. Ho appreso questa notizia dalla D.ssa DAMENO, che mi interrogò a Milano verso il 1986 (per il significato di questa vicenda, v. appresso: n.d.r.). Comunque, nonostante questa mia ansia di conoscenza, ritengo di dover continuare nella mia scelta odierna di non rendere ulteriori dichiarazioni".

L'omicidio come “scambio di favori”. La Repubblica il 28 gennaio 2020. Come si è visto, secondo le notizie riferite da Cristiano FIORAVANTI, l'omicidio MATTARELLA rappresentò il frutto di uno "scambio di favori" tra il gruppo terroristico romano cui apparteneva Valerio FIORAVANTI e i mandanti mafiosi siciliani. Questi ultimi, per un tramite rimasto ignoto (verosimilmente MANGIAMELI ma, ipoteticamente, anche altri - come gli appartenenti alla "banda della Magliana" - incaricati dal CALO'), avevano assicurato ai N.A.R. appoggi logistici e, in particolare, una specifica collaborazione per favorire l'evasione di Pierluigi CONCUTELLI dalla Casa Circondariale di Palermo. Ciò, sicuramente, a partire da epoca antecedente al novembre 1979. Tale progetto del novembre 1979 si inserisce in una serie di analoghi progetti, ai quali i neofascisti annettevano grande importanza politica, per il valore emblematico della figura di CONCUTELLI nel mondo dell'eversione di destra. E' chiaro, infatti, che chi fosse riuscito ad attuare un simile disegno avrebbe acquisito, per ciò stesso, grande prestigio ed autorità nella "galassia" dei movimenti della destra eversiva. Nella relazione dell'Alto Commissario, pervenuta 1'8.9.1989, è contenuta una puntuale ricostruzione di ben nove progetti di evasione (v. pagg. 95-104).

Di questi, interessano particolarmente il presente procedimento:

1) il quinto, che avrebbe dovuto aver luogo nel novembre del 1979, durante la permanenza di CONCUTELLI nel carcere dell'Ucciardone, ove il detenuto, già ristretto all'Asinara, era stato trasferito 1'11.10.1979 per motivi di giustizia;

2) il sesto, che avrebbe dovuto essere attuato il 4.4.1980 sempre a Palermo, ove il CONCUTELLI era stato trasferito il 29.3.1980 per presenziare ad una udienza, fissata proprio per il 4 aprile, innanzi alla Corte di Appello.

Questi progetti di evasione sono stati ricostruiti in modo esauriente, grazie alle dichiarazioni di taluni degli stessi protagonisti e, in particolare e da ultimo, da Giuseppe DI MITRI, materiale responsabile del disegno da attuare nel novembre 1979. Sono state già ricordate le dettagliate dichiarazioni rese, su tal punto, da Sergio CALORE (al G.I. di Palermo il 29.4.1986) e da Stefano SODERINI (al G.I. di Palermo il 29.6.1986). A queste vanno aggiunte le dichiarazioni di Pierluigi CONCUTELLI, Giuseppe DI MITRI, Sergio CALORE e degli stessi Valerio FIORAVANTI e Francesca MAMBRO.

LE DICHIARAZIONI DI PIERLUIGI CONCUTELLI AL G.I. DI PALERMO IL 23.6.1989 (Fot. 904729 Vol. LII) "Il G.I. avverte il Sig. CONCUTELLI che, nell'ambito delle indagini istruttorie concernenti l'omicidio di Piersanti MATTARELLA, viene interrogato come imputato di reato connesso in relazione al procedimento penale a suo carico, in corso di svolgimento davanti alla Corte di Assise di Roma, ove è imputato del delitto di banda armata. Il CONCUTELLI dichiara: prendo atto di quanto sopra e faccio presente che intendo rispondere alle domande, ma mi preme sottolineare che non intendo trasformarmi né in delatore né in un infame. A D.R. In effetti è vero che è stato posto in essere un serio e concreto progetto per farmi evadere durante una delle mie presenze nel carcere di Palermo, in occasione di un processo a mio carico che si tenne nel marzo – aprile 1980 e comunque nella primavera di quell'anno. Il progetto era di assalire il furgone cellulare durante il tragitto fra il carcere di Palermo e il Palazzo di Giustizia, bloccandolo mediante un tamponamento, verosimilmente nella via Gaetano Daita se mal non ricordo. Una volta fermato il cellulare, i Carabinieri sarebbero stati circondati dall'esterno, mentre io dall'interno avrei compiuto opera di persuasione, approfittando della concitazione del momento, per indurli a non reagire. La portiera sul retro del cellulare sarebbe stata aperta a strappo mediante un cavo da rimorchio. Inoltre si sapeva benissimo che quasi sempre lo sportello del conducente viene lasciato aperto per cui gli assalitori sarebbero entrati nel furgone attraverso questa via dopo l'effetto sorpresa dell'urto. Pur non intendendo fornire troppi particolari, posso dire che questo progetto era tanto concreto che per ciò stesso io preferii andare a Palermo mentre, a Milano, dove mi trovavo perché vi era un altro processo a mio carico, avrei potuto partecipare ad un altro progetto di evasione che in effetti si concretizzò una decina di giorni dopo la mia partenza da Milano. In tale evasione era coinvolto VALLANZASCA con altri del suo gruppo e con appartenenti a Prima Linea; il VALLANZASCA rimase ferito. A D.R. Coloro che dovevano realizzare tale progetto erano Valerio FIORAVANTI, ed altri del suo gruppo, fra cui ricordo Francesca MAMBRO e Stefano SODERINI. Un ruolo importante, soprattutto logistico e ricognitivo della zona, avrebbe dovuto essere svolto da Francesco MANGIAMELI, mio carissimo amico fin dai tempi dell'adolescenza. Ho appreso che il progetto falli, in seguito, perché il MANGIAMELI che avrebbe dovuto essere presente anch'egli in città, si era reso irreperibile. Anzi, secondo quanto mi ha detto Valerio FIORAVANTI questa è stata una causa se non quella principale della eliminazione del MANGIAMELI stesso. Spontaneamente soggiunge: in effetti io credo che tutto fosse pronto per l'evasione e un primo urto io lo sentii da dentro il furgone; anzi in seguito il FIORAVANTI mi ha detto che l'urto era stato provocato da lui alla guida di una Fiat Ritmo o auto similare. Fra l'altro, il FIORAVANTI mi ha descritto le caratteristiche del furgone ed anche gli abiti che io indossavo, per cui ritengo che quanto da lui riferito risponde al vero.

A D.R. A Palermo gli assalitori erano in possesso di mitra e di pistole semiautomatiche. Successivamente, a Padova e a Roma, furono compiuti attacchi nei confronti di reparti dell'esercito per entrare in possesso di armi da guerra, più adatte per azioni del genere.

A D.R. In effetti, è vero che nel novembre 1979, in occasione di un'altra mia presenza carceraria a Palermo avrebbe dovuto essere posto in essere un altro progetto per farmi evadere. Io, che già allora soffrivo di ulcera gastrica, avrei dovuto simulare una perforazione ulcerosa, ingerendo sangue che mi sarei prelevato dalle mie stesse vene. Si prevedeva che sarei stato ricoverato in ospedale e, come allora mi si disse, avrei ricevuto un aiuto nel padiglione chirurgia per evadere. Io stesso, che allora ero ricoverato alla 9^ sezione, ricevetti da un detenuto dell'8^ sezione di cui non intendo fare il nome, una «farfalla», durante il percorso per andare al colloquio con il mio difensore e provvidi a ingerire il sangue estratto da un mio braccio attraverso questo strumento. Senonché, accadde che in carcere, forse perché impressionati dal mio nome, anziché ricoverarmi d'urgenza in ospedale, mi iniettarono per via endovenosa, con grave pericolo per la mia incolumità, una dose massiccia di morfina sintetica e/o baralgina. Successivamente, ho appreso da Sergio CALORE e mi è stato confermato dagli interessati, che ad attendermi in ospedale vi erano membri del gruppo romano di Valerio FIORAVANTI e quest'ultimo personalmente. Valerio FIORAVANTI mi ha confermato personalmente la sua presenza nell'ospedale di Palermo; e lo stesso ha fatto un altro del mio gruppo, di cui però non intendo fare il nome. Sergio CALORE mi ha anche riferito, durante la nostra comune detenzione a Novara, che aveva consegnato al FIORAVANTI un mitra UZI che, per le sue ridotte dimensioni si prestava meglio ad essere occultato. Anche tale circostanza mi è stata confermata dal FIORAVANTI.

A D.R. Valerio FIORAVANTI mi ha confermato non già espressamente la sua materiale partecipazione a questo progetto di evasione, bensì la sua conoscenza della partecipazione del gruppo romano all'evasione stessa. Poiché Lei mi chiede nuovamente chi sia quella persona del mio gruppo che ha partecipato al progetto in questione e mi assicura che non ne potranno derivare conseguenze penali di apprezzabile rilevanza, non ho difficoltà a riferire che il personaggio in questione è Mario ROSSI che attualmente trovasi, se non erro, detenuto per l'espiazione di un residuo di pena.

A D.R. Io ritengo che la conoscenza tra MANGIAMELI e Valerio FIORAVANTI risalga agli anni 1977 - 78, nel periodo in cui cioè il gruppo palermitano di Terza Posizione ha tollerato una certa vicinanza col gruppo dello spontaneismo armato di Valerio FIORAVANTI. Ciò, del resto, era in linea con l'atteggiamento complessivo di Terza Posizione su scala nazionale. Credo che NISTRI e ZANI potranno confermare queste mie affermazioni, con maggiore precisione. Come è noto, comunque, io in quel periodo ero detenuto all'Asinara.

A D.R. La Mia evasione è stata sempre il chiodo fisso di quella area politica di cui facevo parte e ubicata, secondo quanto io ritengo, erroneamente nell'ambito della destra eversiva. A D.R. Non ho elementi per poter stabilire in che periodo si sono conosciuti FIORAVANTI e CAVALLINI". Sul punto, è stato sentito anche Mario ROSSI (Fot. 904917 Vol. LII), in data 4.7.1989, il quale ha escluso ogni sua partecipazione a qualsivoglia progetto della specie e, comunque, a quello del novembre 1979, asserendo di avere conosciuto Valerio FIORAVANTI qualche mese dopo. Posto a confronto col CONCUTELLI, in data 18.1.1990 (Fot. 918542 Vol. LXVI), il ROSSI ha mantenuto ferma la sua dichiarazione, mentre il primo ha fatto una parziale ritrattazione, precisando che forse si era espresso male nell'interrogatorio del 23.6.1989. Ha detto, infatti, che aveva saputo da qualcuno (forse il CALORE) che il ROSSI era stato informato del progetto di evasione del novembre 1979, senza però potere essere certo che questi avesse materialmente partecipato all'attività di preparazione.

LE DICHIARAZIONI DI GIUSEPPE DI MITRI  AL G.I. DI PALERMO IL 22.11.1989 (Vol.LXIV Fot. 918016) "Vero è che nell'autunno 1979 fui incaricato da Roberto FIORE di organizzare un progetto di evasione da un ospedale palermitano di Pierluigi CONCUTELLI. In effetti, tra la fine di ottobre ed i primi di novembre 1979, scesi in aereo a Palermo da Roma (utilizzando quasi sicuramente il falso nome Andrea DELLA VALLE) per fare una ricognizione dei luoghi, previa presa di contatto con Francesco MANGIAMELI, ispiratore dell'evasione, il quale ne aveva tempo prima parlato con il FIORE e Gabriele ADINOLFI, forse nel corso di un «campo» politico tenutosi in estate a Metaponto. Giunto all'aeroporto di Palermo, telefonai al MANGIAMELI, che mi venne a prelevare e mi portò a visitare l'ospedale ove il CONCUTELLI, a suo dire, avrebbe dovuto essere ricoverato, dopo avere simulato un attacco di ulcera.

A D.R. Se ben ricordo, la mia permanenza a Palermo fu breve e non so se arrivai a passarvi una notte. Se ciò è avvenuto, sono stato sicuramente ospite del MANGIAMELI, giacché ricordo bene di essere stato a casa sua. Durante questa permanenza, non incontrai alcuno all'infuori del MANGIAMELI.

A D.R. Credo di essere in grado, ove necessario, di riconoscere l'ospedale palermitano da me ispezionato col MANGIAMELI. La responsabilità organizzativa dell'evasione incombeva esclusivamente su di me, che, in «Terza Posizione», avevo riconosciute dagli altri le migliori capacità «organizzativo-militari». Il MANGIAMELI si limitò a prospettare le esigenze sue personali di far evadere il CONCUTELLI cui era legato da antica e profonda amicizia, senza fornirmi alcuna indicazione su come avrei dovuto organizzare l'evasione. Subito dopo il viaggio a Palermo (che, ribadisco in questa sede, è stato l'unico da me compiuto), tornai a Roma e ricordo di avere incontrato a Tivoli Sergio CALORE, cui esposi il progetto, nel tentativo non solo di ottenerne l'ausilio sotto il profilo di un contributo per le armi che sapevo essere in suo possesso, ma soprattutto di coinvolgerlo personalmente nell'operazione. Infatti, io vedevo l'evasione del CONCUTELLI, che non conoscevo, come un momento di aggregazione politica di vari gruppi eversivi di destra, esistenti in quel momento storico. Ora che Lei me lo chiede, ricordo che all'incontro di Tivoli era pure presente Valerio FIORAVANTI.

A D.R. Quest'ultimo, elemento di punta dei NAR, era una delle persone cui avevo chiesto di partecipare per «l'operazione CONCUTELLI», proprio nella prospettiva politica sopra indicata. Devo dire, infatti, che io in quel momento, pur militando ed essendo un esponente di rilievo di T.P., operavo a stretto contatto con Valerio FIORAVANTI, Cristiano FIORAVANTI, Alessandro ALIBRANDI, Stefano TIRABOSCHI e Mimmo MAGNETTA nell'attività di «lotta armata», che era estranea alle finalità di T.P.

A D.R. Le persone che, a mio avviso, dovevano operare a Palermo erano quelle sopra indicate, oltre a Roberto NISTRI, Giorgio VALE e Alessandro MONTANI. Devo dire, però, che nell'organizzare il piano di evasione, io nutrivo forti perplessità sulla parte logistica successiva all'evasione stessa e, proprio per questo, avevo manifestato al MANGIAMELI tali perplessità. Egli mi assicurò che ci avrebbe aiutati, anche se per la fuga dall'ospedale io volevo che fossimo coinvolti solo noi «romani», essendo prevedibile che le forze di polizia avrebbero immediatamente cercato tutti gli aderenti palermitani ai gruppi eversivi di destra. Sta di fatto che, allorché appresi da FIORE che il CONCUTELLI aveva simulato l'attacco di ulcera in carcere, io non avevo ancora dato il mio assenso all'inizio delle operazioni, tanto che tutti noi eravamo ancora a Roma, seppure in uno stato di pre-allarme. Intendo dire che il supporto logistico palermitano, promessomi dal MANGIAMELI, non mi era stato ancora comunicato o, forse, io non avevo ancora avuto modo di verificarlo in concreto.

Difatti, i miei ricordi su questa fase non sono nitidi, dato il tempo trascorso, e posso quindi oggi avvalermi solo di ricostruzioni logiche.

A D.R. Il mio piano prevedeva un intervento armato nella corsia dell'ospedale, volto a liberare CONCUTELLI, dopo avere immobilizzato con qualunque mezzo coloro che lo sorvegliavano, compresa la «volante» che verosimilmente si sarebbe trovata all'ingresso dell'ospedale. Per quel che ricordo, con le precisazioni avanti fatte, posso dire che ritenevamo, dopo il ricovero del CONCUTELLI, di avere a disposizione alcuni giorni per potere scendere a Palermo in treno con le armi, rubare nel posto alcuni automezzi, conoscere la viabilità cittadina e portare a termine la liberazione del CONCUTELLI.

A D.R. Ricordo di aver chiesto, nell'incontro palermitano col MANGIAMELI, una base per nascondere il CONCUTELLI e noi stessi. Il MANGIAMELI mi promise che l'avrebbe trovata, anche se non so nulla sul suo effettivo reperimento. Io gli avevo consigliato di trovarla fuori città, anche se non molto distante da essa. Spontaneamente aggiunge: desidero precisare bene che, per l'inizio dell'operazione, non era necessario il mio assenso, in quanto il nostro intervento era previsto solo dopo il ricovero del CONCUTELLI in ospedale, essendo questa la necessaria condizione perché il piano partisse, infatti, non era certo (così come la realtà dimostrò) che il CONCUTELLI riuscisse a farsi ricoverare in Ospedale. Prendo atto che, secondo Alberto Stefano VOLO, il piano avrebbe dovuto prevedere un nostro intervento in concomitanza con l'arrivo in Ospedale del CONCUTELLI e che, quindi, noi avremmo dovuto essere presenti a Palermo. Al riguardo, non posso che ribadire che ciò che ho detto è la verità e che nessuno di noi, per quel che so, era a Palermo. Prendo, altresì, atto che il CONCUTELLI ha dichiarato di avere appreso da Sergio CALORE e da altri che il «gruppo romano» fu effettivamente presente in Ospedale, in quella occasione. Anche sul punto non posso che riportarmi alla risposta precedente".

Nelle dichiarazioni rese il 18.1.1990 (Fot. 918540-918541 Vol. LXVI), il DI MITRI ha poi più concretamente indicato i potenziali autori di quel progetto di evasione, distinguendo tra coloro con i quali aveva discusso il piano (Sergio CALORE e Valerio FIORAVANTI) e coloro ai quali si era riservato invece di illustrarlo: “... All'incontro di Tivoli, di cui ho detto il 22.11.1989, che oggi ricordo essere avvenuto in una trattoria sita tra Marcellina e Palombara Sabina, era pure presente Roberto NISTRI, nel senso che accompagnò in auto me e Valerio FIORAVANTI, anche se sono quasi certo che non partecipò alla discussione con il CALORE.

A D.R. Non ricordo, oggi, se lo misi al corrente dell'oggetto della discussione, ma sarei portato a dire di no, non avendo egli partecipato all'incontro. A precisazione di quanto a Lei dichiarato il 22.11.1989, devo dire che davo per scontata la disponibilità di coloro che ho menzionato in quell'atto a partecipare al tentativo di evasione del CONCUTELLI, anche se agli stessi mi riservavo di illustrare il progetto allorché mi fossi deciso a porlo in essere. Ciò vale ovviamente per tutti, ad eccezione di Valerio FIORAVANTI, che partecipò direttamente all'incontro con il CALORE". E' opportuno, infine, ricordare che le informazioni fornite dal DI MITRI sono state convalidate da un'ispezione dei luoghi, eseguita il 16.2.1990, nel corso della quale il dichiarante ha indicato con assoluta precisione:

1) l'Ospedale Civico di Palermo come la struttura nella quale CONCUTELLI, simulando un attacco d'ulcera, avrebbe tentato di farsi ricoverare;

2) il Padiglione di Chirurgia del detto ospedale come il reparto in cui esso DI MITRI aveva effettuato, insieme al MANGIAMELI, un sopralluogo per preparare l'evasione;

3) l'itinerario prescelto per la fuga, costituito da una stradina interna al nosocomio, chiusa da un cancello di ferro che avrebbe dovuto essere preventivamente forzato;

4) la casa del MANGIAMELI (v. relazione di servizio in data 16.2.1990 dell'Ispettore di Polizia Antonio ONGAR della DIGOS di Roma: Fot. 918720-918722 Vol. LXVI).

LE DICHIARAZIONI DI SERGIO CALORE AL G.I. DI PALERMO IL 22.11.1989 (Vol. LXIV Fot. 918023) "Vero è che poco dopo la mia scarcerazione del 13.11.1979, mi vennero a trovare in Tivoli Valerio FIORAVANTI, Giuseppe DI MITRI e Roberto NISTRI. Più precisamente io conoscevo molto bene FIORAVANTI, avevo incontrato qualche volta il DI MITRI e non conoscevo affatto il NISTRI. Fu Valerio FIORAVANTI a dirmi che stavano progettando un tentativo di evasione del CONCUTELLI da un ospedale palermitano, ove quest'ultimo si sarebbe dovuto far ricoverare, simulando la perforazione di una ulcera. Valerio mi chiese se potessi procurare loro una mitraglietta corta ed io gli risposi che quasi sicuramente gli avrei potuto fornire un mitra UZI privo di caricatore, cosa che in effetti feci, consegnandolo a Cristiano FIORAVANTI il giorno successivo, o meglio facendolo consegnare a lui da Bruno MARIANI, che lo conosceva giacché erano stati condetenuti da minorenni. La consegna avvenne nella zona di Tor Pignattara. Durante l'incontro, svoltosi con i tre di cui ho detto in una trattoria sita tra Marcellina e Palombara Sabina, mi fu chiesto solo dell'arma. Io dissi loro se avevano bisogno di uomini, all'infuori di me che ero sottoposto ad obblighi processuali, ma mi fu risposto che non ve ne era bisogno.

A D.R. Il mio interlocutore principale fu Valerio FIORAVANTI, ma non posso escludere che anche gli altri due siano intervenuti nel discorso. Valerio mi disse che il referente palermitano era Roberto MIRANDA; anzi, mi correggo, fu il DI MITRI a dirmi ciò. Più esattamente, fui io a chiedere se i referenti palermitani fossero per caso Enrico TOMASELLI e Roberto INCARDONA, esponenti di «Costruiamo l'Azione» da cui si erano distaccati, nel 1978, per passare a T.P. ed al Movimento Indipendentista Siciliano (o sigla simile).

Mi fu detto, invece, che era il MIRANDA.

A D.R. Non ho saputo mai che a questo progetto era interessato Francesco MANGIAMELI, di cui seppi qualcosa solo dopo la di lui uccisione. Fu il SIGNORELLI, infatti, mentre eravamo in carcere, a dirmi che lo avevo conosciuto durante una riunione in casa sua del settembre 1978 e che, anzi, lo avevo accompagnato anche alla stazione Termini.

A D.R. Non so null'altro di questo progetto di evasione".

Quella missione a Palermo. La Repubblica il 29 gennaio 2020. LE DICHIARAZIONI DI VALERIO FIORAVANTI AL G.I. DI PALERMO IL 7.6.1986 (Fot. 639197 Vol. XX) ".... Ho conosciuto Gilberto CAVALLINI qualche giorno prima della rapina commessa a Tivoli in danno di una gioielleria, avvenuta, se mal non ricordo, il 15.12.1979. A tale rapina partecipai col CAVALLINI e con altri soggetti, di cui non intendo fare il nome, anche se mi sembra che abbiano, tutti, confessato. Nell'intervallo fra la scarcerazione di Sergio CALORE, avvenuta a metà novembre 1979, ed il suo arresto, avvenuto il 17.12.1979, in relazione all'omicidio LEANDRI, mi fu comunicato, da una persona di cui non intendo fare il nome, che stava preparandosi un tentativo di far evadere CONCUTELLI, in occasione del suo arrivo al carcere palermitano dell'Ucciardone. Egli si sarebbe fatto ricoverare in ospedale, con i normali trucchi posti in essere dai detenuti, ed ivi avrebbero cercato di liberarlo. Mi si propose di partecipare a questa operazione che avrebbe avuto l'appoggio logistico di «camerati» siciliani (dei quali ho visto di sfuggita uno solo, a Roma, che non era MANGIAMELI e che non ho più incontrato) ed io chiesi notizie in merito a Sergio CALORE, per valutare se ne valeva la pena. Il CALORE mi incoraggiò ed anzi mi fornì un mitra UZI, particolarmente adatto, per le sue piccole dimensioni, ad essere portato in luogo pubblico, come un ospedale, senza farne accorgere a nessuno. Io stesso ritirai il mitra - o meglio non ricordo se lo prelevai o lo restituii; credo, comunque, che il mitra sia stato, poi, sequestrato dalla polizia. Due dei camerati romani andarono a Palermo per un sopralluogo e credo che vi siano andati in aereo; ne fecero ritorno o lo stesso giorno o il giorno successivo e mi comunicarono che, a loro avviso, l'operazione era facile per cui dovevo tenermi pronto. Dopo un paio di giorni mi comunicarono, invece, che non se ne sarebbe fatto nulla perché il CONCUTELLI non era riuscito a farsi ricoverare. Il mitra, pertanto, fu adoperato per alcune rapine e, poi, fu preso in consegna dal CAVALLINI per restituirlo, dato che il CALORE, nel frattempo, era stato arrestato. Circa 15-20 giorni dopo l'arresto di CALORE (17.12.1979: N.D.R.), Giorgio VALE (almeno questo è il mio ricordo) mi fece conoscere Roberto FIORE, il quale era a me noto in precedenza solo vagamente. Mi incontrai col FIORE in un luogo che non ricordo e quest'ultimo mi chiese di incontrarmi con un camerata siciliano che desiderava parlarmi. Fissai l'appuntamento per qualche giorno dopo a Piazza del Popolo, in Roma, e, se mal non ricordo, il siciliano era accompagnato dal FIORE, che subito dopo si allontanò. Trattavasi di Francesco MANGIAMELI, del quale feci la conoscenza in quell'occasione. Egli mi chiari che stava occupandosi dell'evasione del suo amico Pierluigi CONCUTELLI (che egli chiamava Piero) e mi chiese di andare a Palermo per effettuare un sopralluogo al fine di concretare l'operazione. Andai a Palermo, da solo, dopo qualche giorno, nel gennaio 1980, e son quasi sicuro di aver preso l'aereo, usando il falso nome «DE FRANCISCI» o, più probabilmente, un nome qualsiasi. A Palermo fui ospite per un paio di giorni nella casa di Francesco MANGIAMELI, sita in Palermo, credo in via delle Province (ma potrei sbagliare). Trattasi di un appartamento sito in uno stabile di recente costruzione, al quinto o al sesto piano o forse ancora più in alto, e di fronte allo stabile vi era un terreno, credo un agrumeto. Era una casa normalmente arredata ed ivi feci la conoscenza della moglie del MANGIAMELI, Rosaria, e della figlia, nella cui camera da letto dormii per due notti, in un letto separato. Occupai il tempo della mia permanenza in Palermo per controllare il tragitto del furgone blindato dall'Ucciardone al Palazzo di Giustizia, ritenendo che, in una città sconosciuta, l'unica possibilità di intervento per me fosse l'attacco al blindato durante il percorso. Discussi di queste mie conclusioni col MANGIAMELI, che convenne con le mie considerazioni; gli affidai l'incarico di procurarmi un appartamento sicuro in una zona di Palermo distante dal luogo dell'attacco, dove io e gli altri camerati ci saremmo nascosti per diversi giorni prima di allontanarci da Palermo. Anzi, ricordo che gli lasciai una somma di danaro, di cui non ricordo l'importo, per prendere in affitto subito un appartamento, al fine di non destare sospetti. In quel periodo, feci la conoscenza di due camerati, presentatimi dal MANGIAMELI di cui ignoro il nome e che probabilmente non sarei in grado nemmeno di riconoscere. Costoro mi aiutarono nella scelta dei percorsi ma né mi fecero capire né io chiesi, se erano a conoscenza del progetto; ciò è del tutto normale in casi del genere.

A D.R. Sono sicuro di non avere incontrato Gabriele DE FRANCISCI, che io ben conosco, a Palermo in quel periodo.

A D.R. Se mal non ricordo, in quel periodo indossavo un «piumino» azzurro-blu.

A D.R. Ritornato a Palermo cominciai a pensare al modo come procurarci le armi e, con Gilberto CAVALLINI e con altri due o più camerati, di cui non intendo fare il nome, mi recai alla Caserma di Cesano, a me ben nota perché ivi avevo prestato servizio militare come allievo ufficiale. Ci rendemmo conto che l'operazione non era possibile perché eravamo pedinati, o almeno così credemmo, e, pertanto, ci spostammo a Padova, dove, al distretto militare, riuscimmo a portare via, il 30.3.1980, quattro mitragliatrici MG, ed alcuni fucili GARAND; armi, però, che subito dopo furono abbandonate per un disguido. Comunque, per evitare che si pensasse a noi, soprattutto nell'ambiente carcerario, e che la notizia venisse alle orecchie degli organi di Polizia, apponemmo delle scritte sui muri di Padova rivendicando l'azione da parte delle Brigate Rosse. A questo punto, ritenni opportuno andare comunque a Palermo per informare il MANGIAMELI di quanto era accaduto e per studiare se era possibile improvvisare un piano alternativo che non richiedesse armi particolari. Mi recai a Palermo con Francesca MAMBRO, pienamente informata di quanto stavo facendo e prendemmo alloggio presso l'Hotel Des Palmes, dopo di avere pernottato, per una notte, presso l'Albergo Politeama. Ci recammo a Palermo in autovettura (una Volkswagen Golf rossa, rubata) e, durante il percorso, ebbi un lieve incidente stradale nel tratto Messina-Palermo privo di autostrada. Appena arrivati a Palermo, ci recammo a casa del MANGIAMELI ed il portiere dello stabile ci consegnò una lettera del predetto, colla quale ci comunicava che si era dovuto assentare da Palermo per le vacanze pasquali e che ci saremmo risentiti in seguito. Ciò ci fece adirare, poiché, proprio il giorno prima gli avevo telefonato invitandolo a non allontanarsi da Palermo per nessun motivo, poiché stavo per partire per quella città; inoltre, senza il suo appoggio logistico, non avremmo potuto far nulla in una città a noi sconosciuta. Debbo precisare che il MANGIAMELI ben sapeva del nostro progetto di rapinare delle armi al Distretto militare di Padova, perché, per coinvolgerlo definitivamente e tentare di avere da lui un comportamento meno leggero, lo avevamo indotto a parteciparvi, col ruolo di autista di una delle due autovetture di appoggio; egli avrebbe dovuto compiere un tragitto di appena duecento metri per rilevarci prima dell'attacco; invece, non lo vedemmo arrivare e fummo costretti a mandare a monte l'operazione. Successivamente, lo ritrovammo alla Stazione ferroviaria di Padova e candidamente ci disse che si era perso. Quindi, avendo dato i giornali ampio risalto all'operazione di Padova, successivamente compiuta senza il suo concorso, egli necessariamente doveva rendersi conto ché noi non avevamo le armi sperate; peraltro, quando telefonicamente lo avvertii del mio arrivo, gli dissi anche che le armi erano andate perdute ma che avremmo tentato ugualmente di far evadere CONCUTELLI con le armi a nostra disposizione, modificando il piano. Data l'assenza di MANGIAMELI, ci fu impossibile, dunque, a me e alla MAMBRO, di porre in essere alcuna attività e, pertanto, appena riparata la Golf, ripartimmo per Roma, dopo alcuni giorni. In questo periodo, a Palermo non abbiamo incontrato nessuno.

A D.R. Ignoro in quale misura l'AMICO Rosaria, moglie del MANGIAMELI, fosse a conoscenza dei nostri piani. Posso dire, però, che, durante la successiva nostra permanenza a Tre Fontane a casa del MANGIAMELI, di cui appresso dirò, l'AMICO si atteggiava a guerrigliera e sbandierava con chicchessia la sua amicizia con CONCUTELLI, indispettendomi non poco, poiché ciò era molto pericoloso.

A D.R. Circa la nostra permanenza a casa del MANGIAMELI, a Tre Fontane, nell'estate del 1980, posso dire che ci siamo recati lì perché invitati dal MANGIAMELI a trascorrervi un periodo di vacanze. In quel periodo noi vivevamo nella clandestinità, ritenendo che fosse la miglior cosa da fare, pur in assenza di mandati di cattura. E fu proprio a Tre fontane che mi resi conto della profonda incompatibilità fra le mie idee e quelle del MANGIAMELI, vecchio appartenente ad Ordine Nuovo, organizzazione, questa, della quale non condividevo l'apparato verticistico e la mancata partecipazione della base alle scelte operative.

A D.R. Non è vero che io abbia avuto un violento alterco, a Tre Fontane, coi coniugi MANGIAMELI perché trattavo male la loro figlia. In realtà, accadde che ci accorgemmo che il MANGIAMELI utilizzava il nostro danaro anche per fini personali come, ad esempio, l'acquisto di molti giocattoli alla figlia e gli facemmo notare, Francesca ed io, che ciò era profondamente immorale; ma nulla di personale vi era, ovviamente, verso la bambina.

A D.R. Vero è che, durante la nostra permanenza a Tre Fontane, il MANGIAMELI si è allontanato per alcuni giorni, per recarsi a Taranto per effettuare alcuni sopralluoghi e per prendere in affitto la casa; credo, anzi, che l'affitto sia avvenuto in altra occasione, prima o dopo.

Al ritorno, ci presentò un conto spese di L. 2.700.000, francamente eccessivo. Ma successivamente, quando ci recammo a Taranto, nella casa presa in affitto da Mauro ADDIS, ci accorgemmo che l'anticipo era stato pagato al proprietario dall'ADDIS e non dal MANGIAMELI, nonostante già corrispostogli, e che il MANGIAMELI verosimilmente non era nemmeno andato a vedere il carcere di Taranto. Infatti aveva omesso di-riferirci che lo stesso, per ben tre lati, confina con un giardino pubblico che facilita enormemente qualsiasi tipo di azione.

A D.R. Lei mi fa presente che Rosaria AMICO ha sostenuto di avermi conosciuto soltanto in occasione del nostro viaggio in Sicilia del luglio 1980. Io posso confermare che già nel gennaio 1980 sono stato ospite a casa sua e ne ho fatto la conoscenza, seppur sommaria.

A D.R. La Francesca MAMBRO, come Lei fa notare, dichiarato che nel periodo pasquale eravamo andati a Palermo per un viaggio di piacere, ciò è avvenuto perché ha reso queste dichiarazioni in un periodo in cui preferiva non riferire compiutamente quanto a sua conoscenza.

A D.R. Durante il periodo della Pasqua 1980, ed anche durante il successivo soggiorno estivo io e Francesca, senza eccessivo impegno, studiammo la possibilità di rapinare una grossa gioielleria palermitana (quella denominata «Matranga»), ma non se ne fece nulla, nonostante ritenessimo l'operazione relativamente facile.

A D.R. MANGIAMELI è stato ucciso non per uno specifico motivo ma perché, insieme con FIORE e ADINOLFI, mirava ad egemonizzare il nostro ambiente, o meglio quel che rimaneva dell'ambiente giovanile di Terza Posizione, dopo che, per effetto della strage di Bologna, un po' tutti erano dispersi e privi di guida. Non è stata resa nota immediatamente l'uccisione del MANGIAMELI - ed anzi il suo cadavere è stato nascosto - perché pensavamo di eliminare anche FIORE e ADINOLFI, inoltre, non potevano esser pubblici né i motivi di contrasto, né la programmazione dell'evasione di CONCUTELLI. Anche AMICO Rosaria sarebbe stata uccisa se fosse stato possibile catturarla, perché temevamo che potesse parlare dei nostri tentativi di far evadere CONCUTELLI. Temevamo, in particolare, che potesse parlare della casa o del carcere di Taranto, coinvolgendo Mauro ADDIS, che in quel periodo ci era molto utile. La casa di Taranto era, per noi, importantissima, essendo, allora, l'unico rifugio sicuro ed essendo saltata la copertura, nel Veneto, fornitaci da CAVALLINI. In quel periodo, infatti, CIAVARDINI era stato fermato nel pressi di Treviso con un documento falso intestato ad Amedeo DE FRANCISCI, che, allora, era in carcere o meglio era ricercato".

LE DICHIARAZIONI DI FRANCESCA MAMBRO AL G.I. DI PALERMO IL 24.6.1986 (Fot. 642924 Vol. XX) "Ho sentito parlare per la prima volta, del progetto di far evadere CONCUTELLI dal mio attuale marito, Valerio FIORAVANTI, nel marzo 1980. Egli mi disse che era opportuno che liberassimo il CONCUTELLI, anche se faceva parte di una generazione politica diversa dalla nostra, poiché gliene aveva parlato molto bene Sergio CALORE, durante la loro comune detenzione. Valerio mi prospettò questo progetto come una sua iniziativa ma ignoro se, prima di me, ne avesse parlato con altri. Non mi disse se, nel passato, avesse già tentato di far evadere CONCUTELLI e, in particolare, se fosse già stato a Palermo. Anzi, sarei portata ad escludere ciò, poiché, quando andammo a Palermo, mi accorsi che non conosceva la città. Al progetto erano interessati, secondo Valerio, anche CAVALLINI, Giorgio VALE e gli altri del gruppo, di cui non intendo fare il nome. Era sua intenzione di assaltare il furgone blindato con CONCUTELLI durante il trasferimento dal carcere al Palazzo di Giustizia di Palermo, o viceversa; per le armi necessarie per l'attacco, Valerio mi disse che ce le saremmo procurate a Padova e precisamente al Distretto dell'Esercito; l'attacco riuscì a metà poiché le armi furono prese ma poi abbandonate per un disguido. In quella occasione seppi che era già stato operato un tentativo di acquisizione di armi alla Caserma di Cesano e un altro tentativo al Distretto Militare di Padova, entrambi andati a male. Nel primo tentativo al Distretto di Padova aveva partecipato anche un certo Ciccio che era stato anzi la causa del fallimento dell'impresa perché si era allontanato nel momento cruciale. L'attacco al Distretto militare di Padova venne effettuato alla fine di marzo 1980 e, pur non avendo armi adatte, Valerio ritenne di tentare ugualmente e, pertanto, scendemmo a Palermo. Prima di partire, Valerio mi informò che ci attendeva a Palermo "Ciccio", il quale ci aveva procurato una casa da utilizzare come base pagando l’affitto con denaro datogli da Valerio. Arrivammo a Palermo in macchina (una GOLF Rossa), dopo un incidente stradale che danneggiò l'autovettura e ci recammo subito a casa del "Ciccio" e, cioè, di Francesco MANGIAMELI. Io rimasi in macchina e Valerio, ritornato dopo un po', mi disse, molto seccato, che il MANGIAMELI si era allontanato per Milano con la famiglia; su questo punto non saprei essere più precisa - non ricordandolo bene - ma mi sembra evidente che Valerio avrà parlato con qualcuno. Non ricordo se mi mostrò una lettera del MANGIAMELI. Poiché il progetto era andato a monte, rimanemmo a Palermo per alcuni giorni, prendendo alloggio presso l'Hotel des Palmes; Valerio aveva con sé i documenti di identità intestati a Amedeo DE FRANCISCI mentre io ero in possesso di quelli genuini. Attendemmo che la macchina venisse riparata e, in quei giorni, andammo in giro per la città, senza incontrare nessuno. Della città ricordo il lungomare, piazza Politeama, e i venditori di pane e panelle; ricordo anche le pasticcerie palermitane. Ho visto anche il Palazzo di Giustizia, dall'esterno. Ci siamo recati a casa di MANGIAMELI, a Tre Fontane, nel luglio 1980, soprattutto perché avevamo intenzione di rapinare alcune gioiellerie palermitane. Prendemmo alloggio, questa volta, all'Hotel Politeama e, quello stesso, giorno o il giorno successivo, il MANGIAMELI ci rilevò e ci accompagnò a casa sua, a Palermo, dopo avere comprato dei viveri; pranzammo a casa sua, dove feci la conoscenza della moglie del MANGIAMELI, e, dopo avere pranzato, nel pomeriggio ci recammo a Tre Fontane. Io già conoscevo il MANGIAMELI, perché mi era stato presentato dal CAVALLINI a Roma, a Villa Massimo; era presente anche Valerio.

A D.R. Non ricordo se Valerio e la moglie del MANGIAMELI già si conoscessero, né ricordo se, a casa del MANGIAMELI, tentò di riparare la maniglia della porta di ingresso.

A D.R. Escludo che l'AMICO avesse il comportamento tipico delle "donne siciliane"; essa assisteva liberamente ai nostri discorsi e noi non adottavamo alcuna cautela per evitare che ci ascoltasse.

A D.R. A Tre Fontane facemmo la conoscenza di Alberto VOLO e della moglie e di una coppia di coniugi, con due figli abbastanza grassi di circa dieci-dodici anni. In loro presenza e davanti a me non si parlò di CONCUTELLI.

A D.R. Durante la nostra permanenza a Tre Fontane, MANGIAMELI si allontanò per alcuni giorni, poiché doveva recarsi a Taranto per affittare una casa in vista dell'evasione di CONCUTELLI. Al suo ritorno, ci disse che aveva preso in affitto un villino bifamiliare con annesso giardino. Ci disse che si era recato a Taranto personalmente e noi comprendemmo dai suoi discorsi, anche se non ce lo disse esplicitamente, che si era fatto accompagnare da qualcuno".

La lettura coordinata delle dichiarazioni acquisite, in ordine ai piani da attuare a Palermo per l'evasione di Pierluigi CONCUTELLI, induce ad alcune interessanti riflessioni, determinate dai riferimenti ai soggetti che parteciparono ai due progetti. Invero, al piano del novembre 1979, in qualità di organizzatori e/o esecutori, avrebbero partecipato:

1) Secondo CONCUTELLI: Francesco MANGIAMELI, Sergio CALORE, Valerio FIORAVANTI e "altri del suo gruppo" (incerta, invece, la partecipazione di Mario ROSSI, del quale CONCUTELLI parla nell'interrogatorio del 23.6.1989, per manifestare poi, in un successivo confronto col ROSSI, dubbi determinati da una possibile imprecisione dei propri ricordi);

2) secondo DIMITRI: egli stesso, Roberto FIORE, Gabriele ADINOLFI, Francesco MANGIAMELI, Sergio CALORE, Valerio FIORAVANTI e, forse, Roberto NISTRI;

3) secondo CALORE: egli stesso, Valerio FIORAVANTI, Giuseppe DI MITRI, Roberto NISTRI (e, forse, Roberto MIRANDA, Stefano PROCOPIO, Mario ROSSI o Bruno MARIANI); non era nota al CALORE, invece, la partecipazione di Francesco MANGIAMELI;

4) secondo Valerio FIORAVANTI: egli stesso, Sergio CALORE, e altri non indicati, con esclusione di Francesco MANGIAMELI.

Invece, al piano programmato per l'aprile 1980, avrebbero partecipato:

1) Secondo CONCUTELLI: Francesco MANGIAMELI, Valerio FIORAVANTI e altri del suo gruppo, tra cui Francesca MAMBRO e Stefano SODERINI. In particolare, Valerio FIORAVANTI sarebbe anche passato alla fase di attuazione del piano;

2) secondo SODERINI: egli stesso, Pasquale BELSITO e "i magnifici 7" (Valerio FIORAVANTI, MAMBRO, CAVALLINI, CIAVARDINI, ROSSI, DE FRANCISCI, VALE);

3) secondo Valerio FIORAVANTI: egli stesso, Roberto FIORE, Francesco MANGIAMELI e altri "camerati" non conosciuti;

4) secondo Francesca MAMBRO: Valerio FIORAVANTI e Francesco MANGIAMELI.

La prima riflessione riguarda la composizione "politica" dei gruppi. Quello impegnato nel primo progetto (novembre 1979) è costituito da membri di varie formazioni dell'ultradestra (Terza Posizione, Costruiamo l'Azione, N.A.R.). Quello impegnato nel secondo progetto è costituito, invece, soltanto da membri del gruppo di Valerio FIORAVANTI ("i magnifici sette") e da persone a lui accostatesi in questo periodo (SODERINI, BELSITO). Di altra "matrice" politica (T.P.) resta soltanto Francesco MANGIAMELI. La seconda riflessione riguarda il momento, in cui si sarebbe stabilito un "contatto" tra Valerio FIORAVANTI e Francesco MANGIAMELI. E' significativo, a tal riguardo, che in relazione al piano di evasione concepito nel novembre 1979 Valerio FIORAVANTI esclude di aver avuto contezza della partecipazione di Francesco MANGIAMELI; laddove invece, secondo altre fonti (CONCUTELLI e DI MITRI), Francesco MANGIAMELI era colui che, per primo, aveva ideato il piano di evasione. Un'altra considerazione riguarda la presenza o meno nell'Ospedale Civico di Palermo, nell'ambito del piano di evasione del novembre 1979, di Valerio FIORAVANTI e di altri del suo gruppo. La circostanza non può dirsi chiarita, poiché CONCUTELLI, nel suo interrogatorio del 23.6.1989, ha affermato dapprima di aver saputo da CALORE e dallo stesso FIORAVANTI che costui e altri del "gruppo romano" erano presenti nell'Ospedale, aggiungendo però, subito dopo, che Valerio gli aveva confermato "non già la sua materiale partecipazione, bensì la sua conoscenza della partecipazione del gruppo romano all'evasione". D'altra parte, Sergio CALORE ha precisato (dich. 9.4.1986) che, pur ritenendo probabile che qualcuno si fosse recato a Palermo constatando l'impossibilità di attuare il piano per il mancato trasferimento di CONCUTELLI in ospedale, non poteva neppure escludere che tale impossibilità fosse stata constatata senza la necessità di spostarsi a Palermo. Infine, Giuseppe DI MITRI (dich. 22.11.1989) ha riferito che - per quanto gli constava - nessuno del gruppo era presente a Palermo. Gli anzidetti argomenti inducono, fin d'ora, ad alcune logiche considerazioni:

1) appare scarsamente credibile la tesi di Valerio FIORAVANTI, secondo cui egli avrebbe conosciuto MANGIAMELI soltanto dopo l'ideazione del primo progetto di evasione da attuarsi a Palermo;

2) nell'ambito del secondo progetto di evasione, da attuarsi sempre a Palermo, il ruolo di Valerio FIORAVANTI e del suo "gruppo" appare predominante e determinante al punto da prevedere la realizzazione preventiva di azioni contro obiettivi militari (l'irruzione al Distretto Militare di Padova del 30.3.1980 per il reperimento delle armi pesanti da utilizzare per l'attacco al furgone blindato);

3) è importantissima l'ammissione di Valerio FIORAVANTI, che fino a quel momento non emergeva da alcuna fonte riscontrata, secondo cui egli si trovava a Palermo (con un "piumino" blu), circa 15-20 giorni dopo l'arresto di Sergio CALORE, cioè entro la prima decade di gennaio 1980. Questa notizia, comunque, il FIORAVANTI l'aveva data - per la prima volta - già nell'interrogatorio del 5.7.1985.

Di tale ammissione - e dell'importanza rilevante a suo carico - si accorge lo stesso Cristiano FIORAVANTI, che, infatti, la fa notare al G.I. che lo interroga.

La strategia fascista e l'obiettivo Mattarella. La Repubblica il 30 gennaio 2020. Come si è già ricordato, secondo le notizie riferite da Cristiano FIORAVANTI, l'omicidio MATTARELLA rappresentò il frutto di uno "scambio di favori" tra il gruppo eversivo di Valerio e gli ambienti mafiosi siciliani interessati alla uccisione del Presidente della Regione. Delle prestazioni criminali reciprocamente promesse, soltanto la prima (l'omicidio) fu effettivamente adempiuta, poiché la seconda (l'evasione) non fu mai attuata a causa, principalmente, dello sfuggente comportamento del MANGIAMELI che, pure, avrebbe operato da tramite fra i neofascisti e la mafia. Tale, almeno, la tesi dello stesso Valerio FIORAVANTI (riferita da CONCUTELLI nell'interrogatorio del 23.6.1989), secondo cui proprio le gravi responsabilità del MANGIAMELI nel fallimento degli indicati progetti di evasione avrebbero costituito una delle cause della sua eliminazione. L'argomento sarà ripreso, comunque, nel paragrafo dedicato all'omicidio di Francesco MANGIAMELI. In questa sede, è opportuno invece svolgere talune considerazioni sull'"equilibrio" tra le due prestazioni previste dall'accordo criminoso. Tale "equilibrio" potrebbe sfuggire in una visione degli eventi superficiale e, soprattutto, unilaterale. Al riguardo è significativa la differenza tra i punti di vista di soggetti, pur appartenenti alla stessa area politica e culturale. Così, ad esempio, Sergio CALORE (int. del 29.4.1986) ricorda di avere ritenuto "debole", come causale dell'omicidio MATTARELLA, quella riferibile ad un "appoggio, da parte di terzi, della fuga di CONCUTELLI".

Al contrario, un omicidio pur "eccellente" come quello del Presidente della Regione Siciliana non doveva apparire un "prezzo" troppo altro da pagare nell'ottica di chi (Valerio):

1) per attuare l'evasione di CONCUTELLI, non ebbe esitazione alcuna a commettere altre azioni pericolose, come l'attacco ad obiettivi militari (il Distretto Militare di Padova e, poi, la Caserma di Cesano, un camion dei Granatieri di Sardegna);

2) aveva già commesso gravissimi omicidi (SCIALABBA il 28.2.1978; LEANDRI il. 17.12.1979)e altri ne avrebbe di lì a poco commessi (ARNESANO il 6.2.1980; EVANGELISTA il 28.5.1980; e, soprattutto, AMATO il 23.6.1980).

Il vero è che l'"equilibrio" politico-criminale tra le due "prestazioni" può cogliersi agevolmente nel quadro di una visione storica degli eventi, che spiega l'enorme importanza politica della divisata liberazione del "prigioniero" CONCUTELLI, dal punto di vista dell'area eversiva di destra. A tal riguardo, deve porsi in evidenza che l'evasione di CONCUTELLI deve essere "letta" come momento decisivo di una strategia, volta ad acquisire una posizione egemonica e unificante nell'area dell'"ultradestra", strategia che aveva registrato, come "momenti" precedenti e logicamente connessi, due altri significativi episodi:

- la fuga di Franco FREDA dal soggiorno obbligato di Catanzaro (5.10.1978);

- la divisata eliminazione dell'Avv. Giorgio ARCANGELI, risoltasi poi, per un errore di persona, nell'uccisione di Antonio LEANDRI (17.12.1979).

Meritano di essere ricordate, al riguardo, le puntuali considerazioni svolte nella sentenza della Corte di Assise di Bologna n. 4/88 dell'11.7.1988 (di per sé indipendenti dal merito del giudizio, ancora oggi non definitivo, sull'oggetto principale del procedimento, costituito dalla strage di Bologna del 2.8.1980): "Emblematico il fatto che a tale area siano ascrivibili i piani - l'uno riuscito e l'altro non portato a compimento - per la liberazione dei due leaders storici della destra eversiva: quello che portò alla fuga di Franco FREDA dal soggiorno obbligato di Catanzaro, e quello - lungamente coltivato da taluni degli odierni imputati, all'interno della progettualità specifica della banda armata in esame - che mirava a procurare l'evasione di Pierluigi CONCUTELLI, già comandante militare di Ordine Nuovo, e assassino del dott. Vittorio OCCORSIO. Inequivoca la valenza politica di un'azione volta alla liberazione di FREDA: si tratta, da parte di camerati, di un esplicito riconoscimento di leadership al priore della vecchia destra, il quale si trovava, all'epoca, in una situazione ancora non giudiziariamente definita in relazione alla strage di Piazza Fontana. Le responsabilità per la fuga di FREDA sono emerse con chiarezza in altra sede giudiziaria (l'istruttoria del procedimento romano a carico di ADDIS Mauro + 140: n.d.r.), ove ebbero a rendere dichiarazioni ampiamente confessorie non solo Paolo ALEANDRI, ma anche Ulderico SICA e Pancrazio SCORZA. Alla luce delle stesse, complessivamente risulta che l'allontanamento del FREDA dal soggiorno obbligato era stato deliberato ed organizzato da Massimiliano FACHINI, Roberto RAHO, Sergio CALORE e Paolo ALEANDRI, mentre, per la fase di attuazione, si era fatto ricorso all'opera di Benito ALLATTA, Fausto LATINO, Ulderico SICA e Pancrazio SCORZA.

Sono poi sopravvenute anche le dichiarazioni di Sergio CALORE: "... In questo periodo, verso la fine del mese di settembre ‘78, a casa di ALEANDRI a Roma, mi incontrai con FACHINI, che informò che era in fase esecutiva il progetto di permettere l'allontanamento di FREDA dal soggiorno obbligato. ALEANDRI e FACHINI mi dissero che già da diversi giorni stavano cercando di mettere a punto l'operazione ma che le persone che intendevano utilizzare per portarla a termine, si trattava di persone dell'ambiente di Vigna Clara, da quanto mi dissero, si erano dichiarate all'ultimo momento indisponibili...".

In giudizio, riprendendo il filo di tali dichiarazioni, di cui gli era stata data lettura e rispondendo alla domanda volta a conoscere cosa fosse poi accaduto, riferiva il CALORE: "Mi dissero che nel giro di 48 ore al massimo bisognava reperire delle persone e delle automobili ed allora io contattai Benito ALLATTA, Pancrazio SCORZA e Ulderico SICA, che erano tre persone più in contatto con me del gruppo e si resero disponibili. Andarono giù con la macchina di Fausto LATINO, che aveva una 127 di colore azzurro e con una 124 che mi feci prestare da una persona vicino a Tivoli a titolo personale. Andarono giù con questi mezzi e praticamente poi la cosa fu portata a termine".

Tra la liberazione di FREDA ed il progetto di far evadere Pierluigi CONCUTELLI si colloca un altro episodio criminoso del quale è necessario far menzione. Il 17.12.1979 veniva ucciso in Roma Antonio LEANDRI. E' stato giudiziariamente accertato che lo sventurato incolpevole giovane fu colpito, per un errore di persona, in luogo della vittima designata, l'avv. Giorgio ARCANGELI, al quale - in determinati ambienti della destra - si attribuiva la veste di delatore e si addebitava, tra l'altro, la cattura di Pierluigi CONCUTELLI. Responsabili dell'omicidio sono risultati essere, in concorso con altri, Sergio CALORE e Valerio FIORAVANTI. L'intento di vendicare il comandante militare di Ordine Nuovo, punendo il suo presunto traditore, seppure non determinò in via esclusiva l'azione delittuosa, rientrava tuttavia nel movente dei responsabili al di là delle proclamazioni ufficiali degli imputati di quel procedimento, occorre ricordare che di lì a qualche mese FIORAVANTI e sodali si troveranno attivamente impegnati in un rischiosissimo progetto di procurare l'evasione del CONCUTELLI. Di tale ultima vicenda - pacifica nella sostanza dei fatti - si dirà in un prosieguo di trattazione. Qui occorre rilevare - tirando le fila di quanto precede - che persone comunque legate all'area politica della banda armata oggetto di giudizio hanno concorso, sia pure in tempi e con modalità diverse, in reati o progetti delittuosi che avevano una comune finalità strategica: liberare e portare in clandestinità un leader storico della destra eversiva dalla personalità carismatica quale è Franco FREDA; vendicare l'arresto del Comandante Militare di Ordine Nuovo, sopprimendo colui che nell'ambiente era indicato come il responsabile della sua prigionia; infine, procurare l'evasione del Comandante Militare, anche a costo di enormi rischi. Va osservato - riprendendo le parole dell'ordinanza a rinvio a giudizio - essere "innegabile che tutte le azioni qui descritte non possono trovare inquadramento che in una strategia rivolta a riunificare l'ambiente della destra eversiva, galvanizzando le energie attraverso atti che in qualche modo rappresentano un esplicito riconoscimento della "leadership" dei capi storici e delle tesi politiche delle quali sono portatori".

Nella medesima sentenza dell'11.7.1988, poi, vien preso specificamente in esame il progetto di "liberazione" di CONCUTELLI, con valutazioni che meritano di essere totalmente condivise, anche alla luce delle circostanze emerse nel presente procedimento: "L'idea di far evadere l'ex comandante militare di Ordine Nuovo si fa seriamente strada negli ambienti dell'eversione neofascista, verso la fine del '79, come, del resto, l'idea dell'attentato all'avvocato romano ARCANGELI (sfociato per errore di persona – come si è detto e ripetuto - nell'omicidio del giovane LEANDRI), considerato il responsabile della cattura del CONCUTELLI. Del progetto di fuga, patrimonio di una più vasta area, si impadronì operativamente, a far tempo da una certa data, il gruppo di Valerio FIORAVANTI. Il teatro dell'azione, che prima avrebbe dovuto essere in Milano, poi in Palermo, si trasferisce in Taranto, città presso la cui Casa Circondariale il CONCUTELLI, detenuto prima in Trani e poi in Novara, doveva essere tradotto per presenziare alla celebrazione di un giudizio a suo carico..."

“... L'esame della vicenda che è possibile ricostruire nei dettagli anche e soprattutto attraverso le dichiarazioni, in definitiva sostanzialmente non dissonanti, di molti di coloro che vi presero parte - impone di riprendere e di mettere meglio a fuoco talune considerazioni già precedentemente svolte. Valerio FIORAVANTI e sodali, nel corso del 1980 e fino al gennaio del 1981, coltivano un progetto, altamente rischioso e di esito incerto, per liberare un personaggio di prestigio della vecchia destra, ancora pienamente collegato all'ambiente di Ordine Nuovo..."

"... A questo progetto è interessato, e vi partecipa a pieno titolo il CAVALLINI, vera e propria creatura del FACHINI. L'azione che si programma è espressione di una strategia unificante, che tende ad "aggregare" le componenti disperse della destra eversiva, assicurando la ripresa della leadership da parte di una persona dotata di esperienza militare e di indiscutibile carisma. Costituisce l'ideale seguito dall'operazione promossa dai vari FACHINI, CALORE, ALEANDRI, SICA, SCORZA, ALLATTA, allorché si prestarono a liberare Franco FREDA dal soggiorno obbligato di Catanzaro: operazione i cui esiti si erano rivelati solo parzialmente soddisfacenti, per il rifiuto del FREDA di darsi alla clandestinità in Italia. "Il progetto... - scrive il Giudice Istruttore... è un momento di centrale importanza all'interno di una scelta di lotta armata che prevede un'utilizzazione di più strumenti tattici: l'attentato al singolo esponente delle Istituzioni, l'attentato a carattere indiscriminato con diffusione di terrore, l'operazione militare che dà prestigio e "morale" all'ambiente eversivo, convincendolo della presenza di possibilità di successo e riempendolo, anche emulativamente, di ammirazione per coloro che più direttamente di altri agiscono sul piano militare".

A ben vedere, si tratta di strumenti tattici assai diversificati, la cui complessiva finalizzazione ad una strategia unitaria - intesa come programma "politico" - di un'unica banda armata - è dato che, se può essere compreso oggi, alla luce dei contributi forniti da ex aderenti alle formazioni armate della destra eversiva e di una visione d'insieme delle innumerevoli acquisizioni processuali, era assai meno perspicuo, all'epoca dei fatti, per i militanti di base del frastagliato arcipelago neofascista".

E' chiarissimo, alla luce di quanto sopra rappresentato, che la decisione della Corte di Assise di Bologna su questa ricostruzione mantiene intatta tutta la propria valenza probatoria, indipendentemente dal fatto che - in sede di Appello - la sentenza sia stata riformata assolutoriamente per la vicenda della "strage alla stazione". Infatti, il significato che l'eversione di destra attribuiva - nel dicembre 1979 - alla liberazione di CONCUTELLI prescinde totalmente dalla responsabilità degli imputati per i fatti del successivo 2 agosto 1980.

Le rivendicazioni dopo l'omicidio. La Repubblica il 31 gennaio 2020. Significativo riscontro alle accuse formulate nei confronti di Valerio FIORAVANTI e di Gilberto CAVALLINI è costituito dalle varie rivendicazioni (solo apparentemente contraddittorie) che seguirono la consumazione dell'omicidio. La prima giungeva all'ANSA di Palermo, alle ore 14.45 del 6.1.1980: "Qui Nuclei Fascisti rivoluzionari. Rivendichiamo l'uccisione dell'Onorevole MATTARELLA in onore ai caduti di via Acca Larentia".

La seconda, al Corriere della Sera di Milano, alle 18.48: "Qui PRIMA LINEA. Rivendichiamo esecuzione MATTARELLA che si è arricchito alle spalle dei terremotati del Belice".

La terza, alla Gazzetta del Sud di Messina, alle ore 19.10: "Qui Brigate Rosse. Abbiamo giustiziato MATTARELLA. Segue comunicato".

La quarta, al Giornale di Sicilia di Palermo, alle 21.40: "Qui Brigate Rosse. Abbiamo giustiziato l'On. MATTARELLA. Mandate subito tutta la gente nelle cabine telefoniche di Mondello. Troverete il ciclostilato delle B.R.".

Il ciclostilato non viene, però, rinvenuto. Di straordinario interesse è, nella sua struttura sintattica e "ideologica", la prima rivendicazione, giunta all'ANSA alla distanza di una sola ora dalla morte di Piersanti MATTARELLA (avvenuta presso l'Ospedale "Villa Sofia" di Palermo alle 13.40).

Al riguardo, va riportata la puntuale analisi compiuta nel rapporto della DIGOS di Bologna del 2.2.1985: "L'omicidio dell'On. MATTARELLA, avvenuto a Palermo alle ore 13.05 del 6.1.1980, ad opera di due giovani armati di pistola, venne rivendicato alle ore 14.55 con la seguente telefonata all'ANSA di quel capoluogo: "Qui Nuclei Fascisti Rivoluzionari - Rivendichiamo l'uccisione dell'On. MATTARELLA in onore ai caduti di via . Acca. Larentia". "Alla luce di quanto detto in precedenza, occorre analizzare tale rivendicazione, onde valutarne l'attendibilità sotto il profilo della sua effettiva riferibilità a gruppi di estrema destra. Dal punto di vista lessicale la rivendicazione può essere scomposta in tre parti: "Qui Nuclei Fascisti Rivoluzionari - Rivendichiamo l'uccisione.../ Onore ai caduti...", che costituiscono altrettanti elementi ricorrenti in successive rivendicazioni di crimini di certa attribuibilità all'estrema destra, quali ad es. gli omicidi dell'Appuntato di P.S. EVANGELISTA e del giudice Mario AMATO.

Il primo, infatti, avvenuto i1 28.5.1980 a Roma, fu rivendicato con la seguente telefonata alla redazione dell'Unità. "Siamo i NAR Rivendichiamo noi l'attentato di questa mattina a Piazza Istria/ Onore al camerata CECCHIN - Libertà per tutti i camerati".

Il secondo, avvenuto il 23.6.1980 a Roma, fu rivendicato con questa telefonata alla redazione di "Paese Sera": "Siamo i NAR/ rivendichiamo l'attentato del giudice Mario AMATO, avvenuto questa mattina/ Seguirà comunicato.

Dei due omicidi sono stati riconosciuti colpevoli - come noto - Valerio FIORAVANTI, Francesca MAMBRO (rei confessi) e altri componenti i NAR. Senza contare poi la prima rivendicazione pervenuta all'ANSA alle ore 13.45 del 2.8.1980, subito dopo la strage alla locale stazione F.S.: "Qui NAR/ Rivendichiamo l'attentato di Bologna/ Onore al camerata TUTI".

Non solo quindi la rivendicazione dell'omicidio MATTARELLA ricalca, dal punto di vista sintattico e "ideologico", le menzionate rivendicazioni dei NAR, ma si può anche ragionevolmente avanzare l'ipotesi che la sigla "Nuclei Fascisti Rivoluzionari" non costituisce altro che una variante, forse anche prodromica, della stessa sigla "Nuclei Armati Rivoluzionari". Identiche potrebbero quindi essere anche le persone che hanno agito usando le due sigle.

L'accertamento può avere una chiave di lettura proprio nella stessa rivendicazione che richiama "...i caduti di Acca Laurentia", ovvero l'uccisione dei due giovani aderenti al MSI, Franco BIGONZETTI e CIAVATTA Francesco, avvenuta davanti alla Sezione di Acca Larentia in Roma, il 7.1.1978. L'azione venne rivendicata da un sedicente "Nucleo Armato per il Contropotere territoriale". Nella successiva manifestazione di protesta, in uno scontro a fuoco con le forze dell'ordine, morì un altro giovane missino, RECCHIONI Stefano. L'uccisione dell'On. MATTARELLA, cade quindi nella seconda ricorrenza dei fatti, anzi, viene compiuta "in onore di quei caduti". E' tuttavia significativo che la prima ricorrenza fu sinistramente "celebrata", il 9.1.1979 con l'assalto all'emittente di sinistra di Roma "Radio Città Futura", da parte di giovani travisati che, a colpi di arma da fuoco, ferirono cinque persone.

L'azione venne rivendicata con la seguente telefonata alla redazione de "Il Tempo": "Siamo Fascisti/Rivendichiamo l'attentato a Radio Città Futura, seguirà comunicato/Onore ai camerati uccisi". Non vi è chi non veda la impressionante analogia con la rivendicazione dell'omicidio MATTARELLA e con quelli già menzionati di EVANGELISTA e del Dr. AMATO. Ebbene, del delitto sono stati riconosciuti responsabili Valerio FIORAVANTI, MAMBRO Francesca ed altri aderenti ai NAR.

La stessa MAMBRO ha riconosciuto che, nel corso dei fatti di Acca Larentia, Stefano RECCHIONI cadde proprio avanti a lei e che tale fatto fu decisivo per la sua scelta di "antagonismo" (int. del 27.4.1982 ai G.I. di Bologna dr. GENTILE e dr. FLORIDIA). Non solo, la sigla usata per l'omicidio MATTARELLA, "Nuclei Fascisti Rivoluzionari", compare poche altre volte, sia immediatamente prima che subito dopo, in occasione dei seguenti attentati, tutti compiuti a Roma:

- 26.12.1979: lancio di bottiglie incendiarie contro un autobus dell'ATAC alla stazione Tuscolana;

- 01.01.1980: lancio di bottiglie incendiarie contro l'autorimessa della SIP di via Boezio (Quartiere Prati);

- 07.01.1980: incendio di una scuola nel quartiere di Primavalle;

- 18.02.1980: incendio dell'autovettura di un iscritto al P.C.I.

Si noti poi che, in concomitanza dell'assalto a Radio Città Futura, furono compiuti, sempre la notte del 6.1.1979, a Roma, numerosi attentati incendiari ai danni di varie sale cinematografiche, rivendicati da anonimi qualificantisi: "Siamo fascisti". Il successivo giorno 8.1.1979, altri due attentati furono rivendicati da sedicenti "Fasci clandestini" e da "Gruppo di Fascisti". Il giorno dopo ci sarà l'attentato a Radio Città Futura.

E' importante constatare che tutti gli attentati di cui sopra sono avvenuti in punti attigui a Piazza Tuscolo, Quartiere Prati, Piazza dei Navigatori, ove all'epoca, era attivissima l'azione di estremisti di destra, ed in particolare di quelli del FUAN, dal quale provengono "politicamente" FIORAVANTI Valerio ed altri che hanno dato vita ai NAR. Analogamente, a Catania, 1'8 ed il 10.1.1979, vennero compiuti diversi attentati ai danni di alcuni cinema, di una caserma dei CC., di una centralina telefonica e di un autobus, rivendicati da anonimi che si qualificavano "Siamo fascisti" ovvero "Siamo un gruppo di fascisti armati..." e che richiamavano la "memoria" dei "caduti" di Acca Larentia. Da quanto sopra esposto emergono quindi fondati motivi per ritenere non solo che l'omicidio dell'On. MATTARELLA sia avvenuto ad opera di terroristi di destra gravitanti nei NAR, ma in particolare che sia stato eseguito in prima persona da FIORAVANTI Valerio. Il quale, peraltro, aveva una importante base di appoggio in Sicilia, assicuratagli da Francesco MANGIAMELI, presso il quale soggiornò dal 15 al 30 luglio '80 (insieme con la MAMBRO), certamente per preparare la evasione di CONCUTELLI da Taranto, ma forse non solo per quello". Fin qui, il citato rapporto della DIGOS di Bologna del 2.2.1985. Ma, alle considerazioni testé riferite, possono essere aggiunte quelle svolte nella Relazione dell'Alto Commissariato Antimafia (ff. 82 - 85), che appaiono ampiamente condivisibili: "... Nel caso MATTARELLA, la rivendicazione è fatta dai Nuclei Fascisti Rivoluzionari "in onore dei caduti di Via Acca Larentia" e quindi in onore di camerati uccisi da compagni. Sotto tale aspetto, dunque, la rivendicazione è omogenea rispetto alla sigla usata. Anche il riferimento all'episodio di Via Acca Larentia non è privo di significato, dal momento che esso interviene a due anni da quel fatto (7.1.1978).

Sostiene lo stesso V. FIORAVANTI, nell’interrogatorio reso al P.M. di Padova il 10.2.1981: (A partire dalla fine del 1978) "Rimangono, come momenti ed occasioni di iniziativa" (per l'ambiente di destra) gli anniversari e ricorrenze classiche, che sono quelli della morte di MANTAKAS, RAMELLI, ZICCHIERI ed altri. In queste occasioni si "affiggono manifesti di ricordo" e vengono organizzate talora azioni dimostrative, tipo il ferimento o l'accoltellamento o l'uccisione di un avversario politico". L'interrogatorio conferma, per un verso, quanto potesse essere sentita nell'ambiente del FIORAVANTI una ricorrenza quale quella di Via Acca Larentia; per un altro, colpisce la circostanza che, nel citare le varie ricorrenze, il FIORAVANTI abbia omesso di richiamare proprio quella in questione, che pure riguardava un fatto di estrema gravità quale l'uccisione dinanzi la sezione MSI di Via Acca Larentia di due "camerati" - CIAVATTA e BIGONZETTI - oltre che il successivo ferimento a morte di Stefano RECCHIONI. Un altro anniversario che FIORAVANTI non cita è quello della morte di Franco ANSELMI (7.3.1978).

Tali omissioni sono oggi significative. Alle ricorrenze "omesse" (od agli stessi fatti omessi), si collegano infatti episodi specifici ascrivibili al FIORAVANTI e dei quali, all'epoca di quell'interrogatorio, egli non voleva parlare. Si apprenderà più tardi che all'episodio in cui trovò la morte ANSELMI, il FIORAVANTI aveva partecipato personalmente; che, quale azione commemorativa della morte dell'ANSELMI, il FIORAVANTI stesso aveva organizzato l'anno dopo (il 15.3.1979) la rapina all'armeria Omnia Sport. (Si rilevi che, invero singolarmente, la rapina era stata rinviata di alcuni giorni. Il motivo del rinvio non è stato a tutt'oggi chiarito, ma merita approfondimento avendo riguardo a talune indicazioni - esistenti nel processo - circa la possibile implicazione del FIORAVANTI, il 9.3.1979, in un altro omicidio "eccellente" avvenuto in Sicilia e cioè quello di Michele REINA). Si apprenderà poi che, per commemorare i morti di Via Acca Larentia, il FIORAVANTI ha partecipato, il 28.2.1979, all'omicidio di Roberto SCIALABBA e, il 9.1.1979 all'assalto a Radio Città Futura. Di un anno dopo (il 6.1.1980) è la rivendicazione in questione...... L'assalto a Radio Città Futura, stando alla ricostruzione compiuta dal FIORAVANTI sempre nell'interrogatorio del 10.2.1981, ha una valenza particolare perché rappresenta un mutamento della politica dell'estremismo di destra e l'inizio di un atteggiamento rivoluzionario anti-sistema, emulativo, in fondo, di quello di sinistra. "Naturalmente - dice Valerio FIORAVANTI - non è che i "compagni" cessassero di essere avversari, ma anche nelle azioni contro questi avversari, negli attentati, cominciava ad esprimersi in modo di essere dei gruppi di destra diverso dal solito modello dello squadrista, ma tendenzialmente simile al modo di operare dei gruppi armati di sinistra".

Dal contesto appena descritto discendono due conseguenze:

- Il compimento di un atto di sangue ai danni di un esponente dello stato borghese, per giunta ritenuto disponibile all'apertura al P.C.I., poteva ben essere "rivendicato" anche se si trattava di un "atto su commissione". Agli occhi dell'esecutore materiale esso era pur sempre un "atto in sé rivoluzionario" e comunque un modo per vendicare chi - come i morti di Acca Larentia - intendeva reagire alla "ghettizzazione" in cui lo aveva relegato lo Stato consumistico.

- Una rivendicazione a nome dei NAR non era concepibile. Per un verso, avrebbe scatenato la "repressione" nei confronti di tutti gli estremisti di destra siciliani ed un loro più attento controllo da parte delle forze di polizia, preoccupate dell'esistenza, anche in Sicilia, di un nucleo territorialmente operante, all'epoca, solo al nord ed a Roma.

Un controllo ovviamente inopportuno per più motivi, anche in vista dell'attività da compiere in favore del CONCUTELLI. Per un altro verso, la rivendicazione NAR avrebbe potuto determinare uno spostamento delle indagini su Roma e la individuazione dei gruppi colà operanti. Infine, il fatto interveniva in un momento particolare dell'esperienza del FIORAVANTI: quello in cui egli stava formando un "nuovo gruppo", volto a coagulare intorno a sé esperienze diverse e movimenti giovanili stratificati. Lo stesso CAVALLINI non era mai stato dei NAR, ma aveva gravitato attorno ad altri movimenti. La rivendicazione NAR avrebbe legato il FIORAVANTI ad esperienze passate ed avrebbe preoccupato - attesa la gravità del fatto - gli stessi potenziali aderenti "rivoluzionari" (legandoli prematuramente in modo irreversibile). Per quanto non idonea a consentire l'individuazione del gruppo al quale il fatto era ascrivibile, la rivendicazione "Nuclei Fascisti Rivoluzionari" (rivendicazione che, come si è detto, era comunque necessaria in relazione all'atto in sé ed al suo collegamento con una commemorazione) non era però sufficientemente "depistante".

Per tale motivo fu fatta seguire da rivendicazioni richiamanti il gruppo armato di "Prima Linea" e quello "B.R.". Il FIORAVANTI si comporterà analogamente il 6.2.1980, (appena un mese dopo l'omicidio MATTARELLA) in occasione dell'omicidio dell'agente ARNESANO e, il 28.5.1980, in occasione dell'omicidio EVANGELISTA. Anche in quelle occasioni farà seguire o precedere dalla rivendicazione B.R. o Prima Linea, quella a nome dei NAR...... L'intento, come specificheranno lo stesso FIORAVANTI ed il SODERINI, era quello di apparire una "variabile impazzita", non agevolmente individuabile né dalle forze della repressione né dagli stessi estremisti dell'ambiente, non stabilmente cooptati nel nuovo gruppo e perciò facilmente "permeabili"".

La vedova e il riconoscimento fotografico. La Repubblica l'1 febbraio 2020. Oltre che elemento probatorio "ex se", un ulteriore riscontro della veridicità delle notizie riferite da Cristiano FIORAVANTI è costituito dalle ricognizioni personali e dalle deposizioni della moglie della vittima. In particolare, in occasione di una prima ricognizione fotografica (compiuta il 19.3.1984: Fott. 617383 - 617386 Vol. IX), Irma CHIAZZESE MATTARELLA ebbe a dichiarare: " ... Debbo comunque dire che ho provato una forte sensazione nel vedere le fotografie di Giusva FIORAVANTI. Lo stesso FIORAVANTI è quello, che più corrisponde all'assassino che ho descritto nell'immediatezza dei fatti. Sempre a proposito del FIORAVANTI voglio aggiungere che la nostra collaboratrice domestica, Giovanna SALETTA, ora coniugata SAMPINO, mi riferì di avere assistito all'assassinio di mio marito, essendo lei affacciata ad una finestra di casa nostra. Quando le mostrai, peraltro in modo quasi incidentale e senza voler dare peso alla cosa, una fotografia del suddetto Giusva FIORAVANTI, fotografia pubblicata sui giornali, la ragazza ebbe quasi una crisi ed affermò che per lei non c'erano dubbi che l'uomo ritratto fosse l'assassino di mio marito. La ragazza fra l'altro ignorava che il FIORAVANTI fosse ritenuto implicato nell'omicidio. Quando vide la foto essa non era più al nostro servizio. La mia impressione fu che trattavasi di una manifestazione assolutamente sincera".

La dichiarazione di Irma MATTARELLA, provoca, pochi giorni dopo (26.3.1984) l'audizione di SAMPINO Giovanna: "Non sono mai stata sentita né dagli organi di polizia, né dalla Autorità Giudiziaria. Ho prestato servizio, quale collaboratrice domestica, presso la famiglia MATTARELLA, per circa 12 anni. Il giorno in cui il Presidente MATTARELLA venne assassinato, io mi trovavo nella sua abitazione, e quando udii il primo colpo ebbi l’impressione che si trattasse di un rumore proveniente dal tubo di scarico di un'automobile. Quando, immediatamente dopo, udii un secondo colpo, ebbi la sensazione che qualcosa di grave fosse avvenuto al Presidente MATTARELLA. Mi affacciai subito alla finestra del salotto, che si affaccia sulla via Libertà, e vidi un ragazzo, vestito con un giubbotto chiaro, più esattamente azzurro, e con un piccolo cappellino sulla nuca. Il ragazzo era vicinissimo al lato guida dell'autovettura del Presidente MATTARELLA, e lo vidi sparare. Lo vidi in faccia mentre sparava, e rimasi impressionata dal fatto che fosse assolutamente tranquillo, come se stesse bevendo un bicchiere d'acqua. Corsi subito per telefonare, ma non ci riuscii per l'emozione, e mi affacciai nuovamente alla finestra. Vidi che il ragazzo stava sparando un colpo dal lato destro dell'autovettura: si trovava grosso modo al centro dell'autovettura stessa. Ebbi quindi modo di ben vederlo in viso. A questo punto vengono mostrate alla signora SAMPINO le fotografie segnaletiche di FIORAVANTI Valerio e FIORAVANTI Cristiano. Risponde: Posso escludere che il giovane rappresentato nella fotografia con l'indicazione "FIORAVANTI Valerio" sia il giovane che ho visto sparare. Sono invece certa che il giovane, ritratto nella fotografia con l'indicazione "FIORAVANTI Cristiano" sia il giovane che ho visto sparare. Dopo avere terminato di sparare, prima di salire su un'autovettura - forse una 127 o una 126, comunque di colore bianco - alzò la testa. Prese posto sul sedile "lato passeggero". Scesi subito per strada. La prima persona che vidi fu un fotografo, alto, magro e con il "codino". Ne ricordo bene il viso. Faccio ancora presente che l'assassino indossava un paio di jeans".

Invitata, a distanza di tempo (5.7:1985: Fott. 618005 - 618006 Vol. XII), a procedere a formali ricognizioni di persona, la SAMPINO non riconoscerà né Cristiano né Valerio FIORAVANTI. Il comportamento processuale della SAMPINO, apparentemente contraddittorio, può trovare spiegazione:

1) nella notevolissima somiglianza (agevolmente rilevabile da chiunque li abbia conosciuti anche soltanto per motivi di ufficio) tra Cristiano e Valerio FIORAVANTI;

2) nella ben comprensibile difficoltà psicologica incontrata dalla teste nell'assumersi, oltretutto a distanza di oltre cinque anni dal fatto, la responsabilità di una ricognizione formale.

D'altra parte, il ben maggiore valore probatorio della originaria reazione della SAMPINO è evidenziato in una successiva deposizione della vedova MATTARELLA (8.7.1986, Fot. 646416 Vol. XXIII): "... Sono a conoscenza che SAMPINO Giovanna non ha riconosciuto Valerio FIORAVANTI. Non so dire se potrei riconoscerlo io ma è certo che essa quando vide in fotografia il FIORAVANTI, sulla "Stampa" di Torino ed in mia presenza, ebbe un sussulto e scoppiò in un pianto dirotto. La SAMPINO era particolarmente legata a mio marito come del resto la famiglia tutta ed è stata l'unica a soccorrerci nell'immediatezza dell'omicidio. Spontaneamente soggiunge: a questo punto mi sembra di ricordare che la foto del FIORAVANTI vista dalla SAMPINO, fosse stata pubblicata sul "Corriere della Sera" e non sulla "Stampa"".

In sede di ricognizione formale (compiuta il 25.9.1986) Irma CHIAZZESE MATTARELLA dichiara (Fot. 665565 Vol. XXIII): "Riconosco con certezza nell'individuo posto alla mia sinistra quel FIORAVANTI Valerio la cui fotografia ho visto più volte sui giornali. Ritengo probabile, sulla base dei ricordi che ho dell'assassino di mio marito, che si tratti proprio di lui. In particolare, l'altezza coincide e lo stesso dicasi per quanto si riferisce alla fisionomia. Ritengo, comunque, che non avrei potuto dare un avessi effettuato la ricognizione personale nella immediatezza del fatto. In sostanza, quando dico che è probabile che nel FIORAVANTI si identifichi l'assassino ho inteso dire che è più che possibile che lo stesso sia autore dell'omicidio ma che non sono in grado di formulare un giudizio di certezza. Si dà atto che la teste ha reso questa dichiarazione dopo avere a lungo (per diversi secondi) esaminato i tre soggetti attraverso uno specchio a piani paralleli in modo, cioè, da non essere vista dai predetti".

Quest'ultima dichiarazione espressa in termini di forte probabilità, che testimonia peraltro l'altissimo senso di responsabilità della Sig.ra MATTARELLA, acquisisce il crisma della definitiva certezza alla luce della dettagliata deposizione (al G.I. di Palermo in data 8.7.1986: Fott. 646412 - 646416 Vol. XXIII), nel corso della quale la stessa aveva così dichiarato: "Confermo, previa lettura avutane, le dichiarazioni da me rese al P.M. di Palermo ed al G.I. di Palermo....Debbo effettuare però le seguenti precisazioni in ordine alle modalità dell'assassinio di mio marito che a suo tempo non riferii compiutamente, essendo stata interrogata nella immediatezza dell'assassinio ed essendo, quindi, ancora sconvolta per quanto era accaduto. Il giovane che poi uccise mio marito io lo vidi, ancor prima che sparasse, quando scesi da casa per prendere posto nell'autovettura, posta a circa 15 metri. Il luogo dove dovevo recarmi era lo scivolo posto davanti all'autorimessa dove mio marito custodiva l'autovettura. Detto scivolo dista dal portone di ingresso di casa mia circa una ventina di metri e, per arrivarvi, bisogna percorrere il marciapiedi di via Libertà antistante al Bar "Astoria". Nell'uscire dal portone e giunta sul marciapiedi mi vidi tagliare la strada da un giovane di statura leggermente inferiore alla media o addirittura di statura media che indossava un kawai azzurro con cappuccio in testa; infatti piovigginava. Il giovane percorse davanti a me alcuni metri e potei notare che procedeva con passo elastico ed ondeggiando leggermente le spalle; in sostanza mi diede l'impressione di un'andatura ballonzolante...Come dissi a suo tempo, trattasi di un giovane di circa 22, 23 anni dal comportamento glaciale e dal viso piuttosto rotondo e dalla carnagione chiara. Mi colpì, di questo viso, in particolare, il contrasto fra i lineamenti del volto, gentili, e lo sguardo spietato. Gli occhi, in particolare, avevano una particolarità che non so come esprimere ma che mi sembra possa riassumersi nel fatto che, forse, erano piccoli e, o troppo ravvicinati o troppo distanti tra di loro. I capelli erano castano chiari quasi sul biondo, molto lisci e con ciuffo sul lato destro... come ho già detto altre volte sono rimasta particolarmente colpita dai dati somatici dell'assassino da me testé indicati. Tuttavia né adesso né credo prima sono sicura di essere in grado di riconoscerlo. L'evento è stato tanto traumatico che non posso dire se, ora come allora, anche se mi venisse mostrato il vero assassino, potrei riconoscerlo".

Tale fondamentale deposizione acquista decisiva valenza probatoria alla luce delle successive dichiarazioni (rese al G.I. di Palermo 1'11.7.1986, Fott. 646697-646701 Vol. XXIII) di SODERINI Stefano: "La S.V. mi dà lettura delle modalità dell'assassinio dell'On. MATTARELLA, riferite alla vedova, Irma CHIAZZESE. Al riguardo posso dire soltanto che, in effetti, la descrizione del killer riferita dalla vedova MATTARELLA, si attaglia a Valerio FIORAVANTI. Quest'ultimo, inoltre, ha un'andatura ballonzolante e muove le spalle, anche se non marcatamente. In sostanza, si muove in maniera abbastanza singolare, tanto che veniva soprannominato, soprattutto negli ultimi tempi, "l'orso", per questo motivo (il FIORAVANTI confermerà questo appellativo, anche se ancorato al suo carattere: N.D.R.).

Il FIORAVANTI si muoveva così in ogni circostanza; anche quando era "in azione". Anzi, questo suo modo di comportarsi, quasi giocherellone, spiazzava le persone contro cui agiva che non si accorgevano delle sue reali intenzioni se non quando era troppo tardi"...Rimane, infine, da porre in evidenza che, nel contesto dello stesso interrogatorio, il SODERINI ha fornito alla tesi accusatoria un ulteriore oggettivo riscontro allorché ha dichiarato: "So per certo che, fin quando il CAVALLINI non ha procurato il macchinario per fabbricare targhe di autovetture false, il FIORAVANTI mi diceva che, per alterare le targhe delle vetture, era solito usare più targhe che tagliava per ricostruirne un'altra con i numeri, conseguentemente, "modificati". Ebbene, proprio tale tecnica è stata adoperata per la alterazione della targa dell'autovettura Fiat 127 usata dagli assassini dell'On. MATTARELLA. Come si legge nel rapporto preliminare della Squadra Mobile e dal Nucleo Operativo dei Carabinieri di Palermo del 9.2.1980 (Fot. 615078 Vol. II), la targa della detta Fiat 127: "Era stata parzialmente manomessa mediante l'applicazione dello spezzone di un'altra targa, talché si leggeva PA 546623, invece dell'originale PA 536623. Lo spezzone di targa usato appartiene... alla targa 540916, asportata la notte del 6 gennaio in via delle Croci".

Il patto fra poteri per il delitto dell'Epifania. La Repubblica il 2 febbraio 2020. Per le considerazioni già svolte, deve ritenersi provato che l'omicidio di Piersanti Mattarella fu materialmente eseguito da Valerio FIORAVANTI e Gilberto CAVALLINI. Dalle fonti di prova esaminate è risultato, altresì, che l'omicidio del Presidente della Regione Siciliana fu un omicidio “politico-mafioso”, attuato in virtù di uno specifico “pactum sceleris” intervenuto fra i detti esponenti della destra eversiva e Cosa Nostra. Quest'alleanza criminosa può apparire singolare soltanto ad un'osservazione superficiale, poiché risulta ormai, da una pluralità di importanti atti giudiziari acquisiti ex art 165 bis c.p.p., e da atti istruttori specifici compiuti nel presente procedimento, un ampio contesto di non occasionali e articolati rapporti tra ambienti del terrorismo “nero”, della criminalità di tipo mafioso e della criminalità politico-economica. In tale contesto deve ricercarsi l'origine dell'omicidio dell'On. MATTARELLA, anche se si sono potute attingere risultati processualmente validi solo a livello di “Cosa Nostra” (il che, come ampiamente spiegato e dimostrato, non è poca cosa). Più particolarmente, per quanto riguarda questo gravissimo episodio criminoso, la genesi logica della scelta, da parte di “Cosa Nostra”, di due esponenti del terrorismo “nero” quali esecutori materiali deve essere individuata nella eccezionalità del crimine, le cui motivazioni trascendevano la ordinaria logica dell'organizzazione mafiosa e coinvolgevano interessi politici che dovevano restare assolutamente segreti nonché nel momento storico che questa criminale associazione attraversava per dinamiche interne. Secondo quanto risulta dalle indagini (v., in particolare l'analisi delle dichiarazioni rese da BUSCETTA Tommaso e da Francesco MARINO MANNOIA), l'assassinio del Presidente della Regione fu deciso nell'ambito del vertice di “Cosa Nostra”, tanto da non suscitare né immediatamente (v. MARINO MANNOIA) né due-tre mesi dopo (v. BUSCETTA) alcuna significativa in seno alla stessa. Un'analisi critica e ragionata di tutte le risultanze, però, porta a ritenere che il momento ed il modo di commettere l'omicidio non furono discussi nella sede formale della “Commissione”. È certo che tutti i componenti della “Commissione” erano consapevoli dell'esistenza di un “problema MATTARELLA”, il che significava la possibilità di un'azione delittuosa contro l'uomo politico, prestando il proprio assenso. Il “problema” derivava dal fatto che l'azione dell'uomo politico non era rivolta contro l'una o l'altra delle singole “famiglie” (cosa che avrebbe potuto creargli contrasti con una sola “fazione”) ma, proprio per la coerenza e la completezza del disegno politico che la ispirava, rappresentava un pericolo per gli illeciti interessi dell'intera “Cosa Nostra”. Orbene, l'esistenza di un “problema” in “Cosa Nostra” nei confronti di qualcuno è sempre foriero di gravi conseguenze per il soggetto che lo ha causato: basti pensare, ad esempio, al precedente “problema” rappresentato dal ten. Col. CC Giuseppe RUSSO. Tanto che, quando questi venne ucciso nell'agosto 1977 (all'insaputa dello stesso DI CRISTINA, di BONTATE e BADALAMENTI), il DI CRISTINA protestò vivacemente con Michele GRECO proprio per la decisione unilateralmente presa ed attuata dai “corleonesi”. Viceversa, nessuna traccia di opposizione al “problema MATTARELLA” risulta dalle emergenze probatorie: il che non può significare altro se non il fatto che neppure l'“ala moderata” (e primo fra tutti il BONTATE) aveva motivo di opporsi alla risoluzione del “problema”, anche se questo – al momento in cui se ne parlò – non richiedeva un immediato intervento. Acquisita l'adesione sull'“an” da parte di tutti i componenti la “Commissione”, i “corleonesi” ed i loto alleati si ritennero in grado – allorché giudicarono maturi i tempi in funzione dei loro interessi – di poter eseguire autonomamente il deliberato assunto in precedenza. Si deve por mente, però, alla fase storica in cui maturò questo problema, giacché questo spiega logicamente per quale motivo, ad esempio, Stefano BONTATE (leader dell'“ala moderata”) ritenne di non fare scoppiare il “caso” in seno alla “commissione”. Egli, infatti, non avrebbe potuto eccepire che non vi era stato il suo consenso all'uccisione dell'On. MATTARELLA, in quanto, quando il “problema” si era posto, non aveva speso alcuna parola per dimostrare che l'azione politica di quello non doveva condurlo a morte, in altri termini non si era opposto. Avrebbe solo potuto far rilevare che non era stato interpellato per decidere il “quando” ed il “quomodo”: ma, questa pur possibile condotta – ostavano due considerazioni. La prima era che egli aveva capito che l'averlo tenuto all'oscuro di questi “dettagli” significava che i suoi avversari lo ritenevano ormai “fuori gioco”; e, a fronte di questa consapevolezza, l'unico modo per contrastarli era quello di scatenare per primo la “guerra”. La seconda era verosimilmente che, dopo i fatti connessi all'omicidio di Francesco MADONIA da Vallelunga (per i quali egli era stato “salvato”, mentre i suoi alleati – DI CRISTINA, Giuseppe CALDERONE e BADALAMENTI – erano stati severamente puniti), il BONTATE non si sentiva “legittimato” ad invocare il rispetto delle “regole”, che, peraltro, nella sostanza erano state rispettate. Capiva che l'unico mezzo per opporsi era affidato alle armi. Ma, evidentemente, non riteneva di essere ancora pronto per fare ricorso ad esse. Questo spiega perché BUSCETTA ha sempre riferito che BONTATE era stato tenuto all'oscuro dalla decisione di uccidere l'on. MATTARELLA mentre MARINO MANNOIA ha detto che il suo capo – nei giorni successivi all'omicidio – “era contrariato”, ma qualche dopo ritornò tranquillo, tanto che alla sua rielezione della primavera 1980 parteciparono tutti i componenti della “commissione”. L'equilibrio interno del vertice di “Cosa Nostra” era ormai da tempo in fase di progressiva disgregazione, e già tra la fine del 1979 e gli inizi del 1980, il gruppo “corleonese” aveva deciso di forzare la mano alla fazione avversaria, rispettando sempre, però, le “regole” formali di “Cosa Nostra”. Per cui, la decisione di procedere all'assassinio fu, quindi, adottata e attuata dal gruppo che di lì a poco avrebbe scatenato la “guerra di mafia”, dopo avere però coinvolto nella deliberazione sull'“an” (intervenuta verosimilmente tempo prima) tutti gli avversari “politici” (BONTATE, INZERILLO, RICCOBONO, PIZZUTO). Tale gruppo, costituito dai “corleonesi” e dai loro alleati, non solo non aveva alcuna remora a realizzare un così grave omicidio politico, ma cominciava a seguire logiche “operative” diverse da quelle tradizionali. Infatti, mentre la componente di “Cosa Nostra” allora facente capo a Stefano BONTATE proveniva da una antica e collaudata esperienza di complessi ed articolati rapporti con il mondo politico (acquisendo la logica e le tecniche proprie di quell'ambiente, caratterizzato dalla ricerca del potere attraverso la realizzazione di equilibri progressivamente più favorevoli ai propri interessi, con una attenta ponderazione dei rischi e dei vantaggi di ogni azione), al contrario, la componente “corleonese” era animata da una ben diversa “filosofia del potere”. Si proponeva di realizzare la propria violenta e brutale egemonia non solo nello specifico ambito di “Cosa Nostra”, ma anche (su un “secondo fronte”) nei confronti dello stesso modo politico, considerato come una entità, da sottomettere e dominare anche con l'uso della propria potenza “militare”. In quest'ottica ed in questo contesto storico, si individua con chiarezza la piena coerenza logica della scelta di soggetti criminali estranei a “Cosa Nostra” per attuare l'omicidio.

Era necessario, invero, raggiungere una duplice esigenza di segretezza:

1) nei confronti dei “vertici” tenuti estranei alla decisione “operativa”, poiché questi, altrimenti, avrebbero potuto opporre riserve e dissensi (quanto meno in ordine ai tempi ed alle modalità dell'operazione) e paralizzare così una determinazione irreversibilmente adottata dal gruppo che si avviava, anche mediante quest'omicidio, a conquistare il dominio totale di “Cosa Nostra”;

2) nei confronti di tutti i membri di “Cosa Nostra” di livello inferiore al vertice supremo dell'organizzazione, ancorché appartenenti alle “famiglie” che quel vertice esprimevano, poiché doveva essere assicurata, anche per l'avvenire, una inviolabile segretezza delle motivazioni e dei mandanti dell'omicidio.

Si deve tener presente a quest'ultimo riguardo, infatti, che una “regola” indefettibile di “Cosa Nostra” è quella – tra “uomini d'onore” – di dirsi la verità su “fatti riguardanti altri uomini d'onore”. Pertanto, laddove fossero stati utilizzati per l'omicidio dell'On. MATTARELLA degli “uomini d'onore” e – per avventura – altri “uomini d'onore” avessero chiesto a questi ultimi notizie sul delitto, i “killers” non avrebbero potuto tacere la verità ed il fatto avrebbe potuto venire a conoscenza di un numero non definito di appartenenti all'associazione. Questo rischio, invece, veniva assolutamente evitato con l'utilizzazione di soggetti estranei a “Cosa Nostra”, giacché a quelle eventuali domande i “corleonesi” ed i loro alleati avrebbero potuto non dire la verità, senza tuttavia violare alcuna “regola” dell'associazione. La garanzia di tale duplice obiettivo non sarebbe stata possibile, evidentemente, se – in conformità alla tradizionale “prassi” di “Cosa Nostra” – fossero stati designati per l'esecuzione del delitto “uomini d'onore” appartenenti alle “famiglie” che avrebbero dovuto essere “rappresentate” nell'operazione in ragione delle motivazioni, degli interessi coinvolti e del “territorio” nel cui ambito il delitto doveva attuarsi.

Alla duplice esigenza ora indicata soddisfaceva, invece, perfettamente la utilizzazione di “esecutori” come Valerio FIORAVANTI e Gilberto CAVALLINI. Costoro infatti:

1) appartenevano ad una realtà, quella dello “spontaneismo rivoluzionario” di estrema destra, assolutamente estranea ai problemi politici e, ancor più, mafiosi della Sicilia;

2) erano forniti dei necessari requisiti di “professionalità” criminale;

3) potevano essere contattati e utilizzati, senza alcuna necessità di renderli partecipi delle motivazioni e dei mandanti dell'omicidio, grazie all'esistenza, nella capitale, di già collaudati rapporti tra ambienti della destra eversiva, della criminalità comune (la c.d. “Banda della Magliana”) e di “Cosa Nostra” (attraverso il CALÒ).

Di tali rapporti – che hanno avuto implicazioni non soltanto criminali ed affaristiche ma anche politiche, e nei quali ha ricoperto certamente un ruolo centrale Giuseppe CALÒ, “emissario romano” dei Corleonesi e dei loro referenti politici – si tratterà più diffusamente in appresso.

Qui, occorre aggiungere che – oltre al soddisfacimento delle cennate fondamentali esigenze – la scelta di “killers” neri offriva ai mandanti del crimine ulteriori non trascurabili vantaggi, poiché avrebbero potuto determinare:

1) in caso di fallimento dell'“operazione”, la riferibilità del delitto ad esponenti della criminalità politica eversiva, anziché a “Cosa Nostra” (in tal senso non va sottovalutato il significato delle scritte contro MATTARELLA intestate a “Terza Posizione” comparse a Palermo prima dell'omicidio e delle prime telefonate di rivendicazione);

2) nel caso di consumazione del delitto, invece, un depistaggio delle indagini e, comunque, una potenziale confusione investigativa , rendendo, a seconda dei casi e di volta in volta, poco credibile l'una o l'altra delle “piste investigative” (cosa che si è in effetti determinata, almeno per un certo periodo di tempo).

Infatti, basta ricordare i problemi ricostruttivi che hanno reso particolarmente complessa l'istruzione del presente procedimento, determinati proprio dalle difficoltà di “lettura” di una “pista nera” apparentemente contraddittoria perché di fatto non gestita secondo le tipologie “eversive”. Invero, il delitto non soltanto non presentava adeguate motivazioni a sostegno di una plausibile “matrice terroristica”, ma dopo le prime vaghe telefonate di rivendicazione, non fu in alcun modo “gestito” politicamente, come sarebbe stato altrimenti ragionevole attendersi. Soltanto una complessa e laboriosa attività istruttoria ha consentito, infine, di individuare la corretta   “chiave di lettura” della “pista nera”, qui priva di qualsiasi implicazione terroristica o “rivoluzionaria”, e dimostrativa invece di una nuova complessa realtà, caratterizzata dalla progressiva integrazione di settori della criminalità eversiva nell'ambiente politico-mafioso. In tale contesto, le due entità criminali finiscono col divenire reciprocamente funzionali, poiché la prima si giova della potenza economica e delittuosa di “Cosa Nostra”, con garanzia di assoluta omertà, e “Cosa Nostra”, a sua volta, acquisisce lo sfruttamento di nuove forze di cui servirsi, quando necessario, per perseguire propri interessi ovvero per colpire e distogliere da sé gli apparti istituzionali dello Stato.

L'Italia occulta e il caso Mattarella. Giuliano Turone il 3 febbraio 2020 su La Repubblica. Italia Occulta (Chiarelettere editore), il libro del giudice Giuliano Turone sui misteri del nostro Paese dal 1978 al 1980. La dinamica del delitto e la questione delle targhe. Palermo, via della Libertà, 6 gennaio 1980, ore tredici circa. Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia, viene assassinato a colpi di arma da fuoco sotto casa sua. Il killer è un giovane che lo attende nei pressi del passo carraio del garage dal quale egli si appresta a uscire alla guida della sua auto. Accanto a lui siede la moglie, Irma Chiazzese. Il killer esplode numerosi colpi su Mattarella attraverso il finestrino. Subito dopo si avvicina a una Fiat 127, su cui si trova un complice dal quale riceve un’altra arma con la quale torna a sparare contro Mattarella, già colpito a morte, ferendo a una mano anche la moglie. Poi i due si allontanano a bordo della Fiat 127. (Testo, rivisto dall’Autore, del capitolo XII del volume Italia occulta. Dal delitto Moro alla strage di Bologna. Il triennio maledetto che sconvolse la Repubblica (1978-1980), Chiarelettere, 2019, pp. 227 ss). La perizia balistica stabilirà che per l’omicidio sono stati utilizzati due revolver calibro 38.L’auto degli assassini viene trovata circa un’ora dopo abbandonata in via degli Orti, a breve distanza dal luogo del delitto. È apparentemente targata PA-546623, masubito gli agenti constatano che in realtà le targhe sono state contraffatte in un modo particolare:

a) la targa anteriore si compone di due pezzi, rispettivamente: 54 e 6623PA;

b) la targa posteriore si compone di tre pezzi, rispettivamente: PA, 54, 6623;

c) questi ultimi tre pezzi «presentano superiormente del nastro adesivo di colore nero verosimilmente posto per meglio trattenerli alla carrozzeria». (Queste tre caratteristiche della contraffazione, originariamente indicate nel rapporto di polizia giudiziaria, le ritroviamo anzitutto nella «Relazione sull’omicidio dell’On.le Mattarella del 6 gennaio 1980», pp. 3-4 e 79, redatta in data 8 settembre 1989 da Loris D’Ambrosio –allora distaccato presso l’ufficio dell’alto commissario antimafia –e allegata agli atti del procedimento penale relativo ai tre omicidi «politici» (Michele Reina, Piersanti Mattarella, Pio La Torre). Sono poi riportate nei provvedimenti cardine di quello stesso procedimento: requisitoria del 9 marzo 1991 della Procura della Repubblica di Palermo c/ Michele Greco e altri, p. 140; sentenza-ordinanza del giudice istruttore di Palermo del 9giugno 1991, p. 182; sentenza del 12 aprile 1995 della Corte d’assise di Palermo, p. 19; sentenza del 17 febbraio 1998 della Corte d’assise d’appello di Palermo, p. 176. Come si vedrà, a queste circostanze relative alla contraffazione delle targhe si ricollega un elemento probatorio fondamentale, che purtroppo non è stato adeguatamente coltivato.2Nel suo rapporto, la polizia giudiziaria evidenzia la singolarità della circostanza secondo la quale i luoghi dell’agguato, dei furti e del rinvenimento della Fiat 127 dopo il delitto distano poche centinaia di metri l’uno dall’altro). Quella Fiat 127 è stata rubata la sera prima del delitto, sempre nella stessa zona di Palermo, e la sua targa autentica (PA-536623) era quasi uguale a quella poi contraffatta, dato che differiva da quest’ultima solo relativamente alla seconda cifra, che originariamente era 3 anziché 4. Indagando sull’auto con la targa contraffatta si è scoperto che, sempre la sera prima del delitto, sono state rubate anche le targhe (anteriore e posteriore) di un’altra auto –una Fiat 124 –parcheggiata sempre nella stessa zona e targata PA-540916. È risultato evidente che la contraffazione è avvenuta semplicemente asportando lo spezzone 53 dalle targhe autentiche della Fiat 127 e sostituendolo con lo spezzone 54 prelevato dalle targhe asportate dalla Fiat 124.Non viene trovata traccia, almeno per il momento, dei residui della contraffazione, vale a dire degli spezzoni avanzati dalla frammentazione delle targhe utilizzate (gli spezzoni PA, 53 e 0916). Su questi particolari torneremo più avanti, perché se si fossero approfonditi a quel tempo gli accertamenti su quelle targhe, sarebbe stato possibile ricostruire in modo completo le dinamiche dell’omicidio Mattarella, anche relativamente agli aspetti che invece sono rimasti purtroppo oscuri2.Il killer, che ha agito a volto scoperto, è stato descritto concordemente e con una certa precisione sia dalla signora Irma Chiazzese, sia da cinque testimoni oculari presenti sulla scena del crimine (compresa la colf di casa Mattarella, che ha assistito alla scena alla finestra). Si trattava di un giovane di bella presenza, di circa venticinque anni, alto all’incirca un metro e settanta, corporatura robusta e capelli castani. Indossava una giacca a vento celeste tipo k-waye occhiali scuri. Quando si muoveva procedeva con passo elastico e ondeggiando leggermente le spalle, dando l’impressione di una andatura ballonzolante. Il giovane aveva agito con grande calma e freddezza e tutti i testimoni hanno osservato che aveva sulle labbra un accenno di sogghigno. In particolare la signora Mattarella era rimasta colpita dal contrasto tra i lineamenti del volto, che erano gentili, da ragazzo per bene, e lo sguardo, che era invece spietato, così come era glaciale il suo comportamento.

La mafia e i nuovi accordi con la politica. Giuliano Turone il 4 febbraio 2020 su La Repubblica. Il ministro dell'Interno del 1980 Virginio Rognoni. Come si può leggere nel rapporto giudiziario del 23 dicembre 1980, Piersanti Mattarella nel suo operato politico si era battuto per sradicare i vincoli di reciproco condizionamento tra politici, forze imprenditoriali e organizzazioni mafiose. Egli aveva disposto, infatti, accurate ispezioni in materia di appalti, tra cui una in particolare, volta a verificare presunte irregolarità sulle procedure seguite dal Comune di Palermo nelle gare di appalto per la costruzione di sei edifici scolastici. Ciò deve essere stato enormemente sgradito a Cosa Nostra, soprattutto a quella fazione facente capo a Bontate, Spatola, Inzerillo e Gambino –specificamente interessata a quelle gare –che abbiamo visto confrontarsi addirittura con il presidente del Consiglio Andreotti in persona sul «problema» Mattarella, sia prima sia dopo l’omicidio. Pertanto non sembra casuale che, appena due giorni dopo l’omicidio Mattarella, il Comune di Palermo si sia affrettato a sostenere la regolarità delle gare d’appalto, contestando così i risultati dell’ispezione e contraddicendo anche l’impegno, che aveva assunto il sindaco pro tempore con il presidente della Regione, di annullare le procedure sino a quel momento formalizzate. Piersanti Mattarella era da tempo angosciosamente preoccupato per la crescente aggressività di Cosa Nostra e anche per le possibili reazioni mafiose alle sue iniziative, che avrebbero potuto minacciare la sua stessa incolumità fisica. Questo stato d’animo di Mattarella traspare dalle deposizioni del suo capo di gabinetto Maria Grazia Trizzino e dell’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni, che aveva avuto un colloquio con il presidente della Regione nell’ottobre 1979. In particolare, in base alla deposizione del ministro Rognoni, veniamo a sapere che in quel colloquio Mattarella: –si era ricollegato agli omicidi del commissario Boris Giuliano e del giudice Cesare Terranova (rispettivamente luglio e settembre 1979) per sottolineare che la mafia stava privilegiando nuove forme criminose e creando inquietanti legami con la politica;–aveva aggiunto che il suo sforzo era quello di recidere proprio tali legami, facendo riferimento agli interventi volti a fermare la procedura di alcuni «appalti concorso» (a proposito dell’omicidio di Piersanti Mattarella si veda G.Grasso, Piersanti Mattarella. Da solo contro la mafia, Edizioni San Paolo, 2014; G.Marcucci, Generazione senza rimorso, in AA.VV., Alto tradimento, P. Bolognesi (a cura di), Castelvecchi,.2016.4Deposizione Trizzino 10 aprile 1981 e deposizione Rognoni 11 giugno 1981, in Tribunale Palermo, g.i., sentenza-ordinanza 9 giugno 1991, pp. 210-214.5Il cosiddetto «appalto concorso» viene adottato quando, per l’esecuzione di lavori che presentano caratteristiche tecniche particolari, le ditte vengono invitate a presentare, a fianco delle offerte economiche, anche i relativi progetti tecnici) e ad altri interventi simili, senza nascondersi che potevano provocare ostilità nei suoi confronti e anche un clima di grave intimidazione; –aveva espresso chiaramente il suo vivo dissenso e la sua grande preoccupazione per le notizie sulle pressioni che l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino –uomo di «discussa, ambigua e dubbia personalità» – stava mettendo in atto per ottenere «un reinserimento a un livello di piena utilizzazione politica all’interno del partito della Democrazia cristiana».

Un’altra deposizione rilevante, circa le preoccupazioni che tormentavano il presidente della Regione Sicilia, è quella del suo successore, Mario D’Acquisto, secondo il quale Mattarella «era particolarmente preoccupato anche perché temeva che il terrorismo potesse cercare nuove aree di espansione nel Sud aggiungendosi al fenomeno della mafia [...]. Il presidente ucciso paventava che la mafia siciliana potesse offrire al terrorismo killer e aiuti di altro genere, ove il terrorismo politico avesse deciso l’alleanza con la mafia».

La relazione di Loris D'Ambrosio. Giuliano Turone il 5 febbraio 2020. Loris D'Ambrosio, il magistrato al tempo in servizio all'Alto Commissariato Antimafia. L’ipotesi di un’alleanza di Cosa Nostra con il terrorismo politico –segnatamente con la destra eversiva dei Nuclei armati rivoluzionari (Nar) e di Terza posizione (Tp) –è quella sulla quale stava lavorando Giovanni Falcone negli anni 1986-1987, prima di venire emarginato dai capi dei due uffici inquirenti palermitani. Il suo lavoro viene proseguito nel biennio 1988-1989, come si è già accennato, dal collega Loris D’Ambrosio, grande esperto di eversione di destra, il quale sta allora operando però all’interno dell’alto commissariato antimafia, che non ha certo la stessa incisività investigativa di un ufficio giudiziario inquirente. Ciò malgrado, il risultato del lavoro –la Relazione dell’8 settembre 1989 –è davvero un testo estremamente interessante. Nella Relazione si osserva anzitutto come dalle indagini svolte sull’omicidio di Piersanti Mattarella non sia emersa nessuna pista investigativa volta a individuare gli autori materiali del fatto in soggetti gravitanti nelle organizzazioni mafiose. I collaboratori di giustizia di estrazione mafiosa hanno infatti dichiarato di non sapere chi fossero i due killer, né a quale famiglia appartenessero. Inoltre, la signora Chiazzese non ha ravvisato nessuna somiglianza tra lo sparatore e le immagini di soggetti mafiosi che le sono state sottoposte. Va detto, però, che l’inesistenza di piste mafiose riconducibili agli autori materiali del crimine non implica affatto l’esclusione della matrice mafiosa dell’omicidio Mattarella. Del resto, come si è visto nel paragrafo precedente, le presumibili motivazioni del delitto si ricollegano proprio alle logiche di Cosa Nostra e non hanno nulla di sia pur larvatamente eversivo. Certamente non con riferimento all’eversione di sinistra, ma neanche con riferimento all’eversione di destra. In particolare, per quanto riguarda il terrorismo di destra, se ci soffermiamo sulle «espressioni rivoluzionarie» che esso poteva presentare a quel tempo, dobbiamo riconoscere che il fatto criminoso di cui ci stiamo occupando non è riconducibile al cosiddetto terrorismo spontaneista (emulativo di quello di sinistra) schierato contro il sistema capitalistico e borghese, ovvero «contro una società massificante che soffoca le avanguardie “elitarie” chiamate a condurre il popolo alla rivoluzione e alla restaurazione eroica della spiritualità olimpico-solare». Né l’omicidio Mattarella è riconducibile «alle azioni esemplari in se stesse, dirette e punitive, capaci di disarticolare il sistema, e che qualunque camerata di fede è in grado di compiere». Ecco allora che nella Relazione l’omicidio Mattarella viene rappresentato come un omicidio del tutto anomalo: «Maturato in quel composito ambiente umano e politico che, al fine di accrescere il proprio potere economico, affaristico e istituzionale [...], si presta a gestire gli interessi pubblici secondo schemi e principi tipicamente delinquenziali [...]. Non si tratta, allora, di un omicidio di mafia, ma di un omicidio di politica mafiosa: nel quale, cioè, la riferibilità alla mafia come “organizzazione” deve necessariamente stemperarsi attraverso una serie di passaggi mediati, di confluenze “operative” e “ideative” apparentemente disomogenee ma in grado di dare, nel loro complesso, il senso compiuto dell’antistato». È questo – osserva ancora la Relazione – uno dei motivi, se non il motivo principale, per il quale l’esecuzione dell’omicidio non viene affidata ai killer delle organizzazioni mafiose: tanto più che, in tal modo, si ottiene anche l’effetto di «disorientare l’opinione pubblica e l’apparato investigativo» e si dà agli stessi affiliati mafiosi «l’impressione di quanto devastante ed estesa sia la capacità di espansione e controllo che l’antistato è in grado di esercitare».

Fioravanti contro Fioravanti. Giuliano Turone il 6 febbraio 2020 su la Repubblica. Tra il 1982 e il 1983 cominciano ad arrivare alla magistratura inquirente dichiarazioni di collaboratori di giustizia provenienti dalla destra eversiva, che indicano in Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, militanti dei Nuclei armati rivoluzionari, gli autori materiali dell’omicidio Mattarella. Il primo a fare questa rivelazione, sia pure in maniera ancora nebulosa, è Cristiano Fioravanti, fratello minore di Valerio, anch’egli militante dei Nar, ma dal 1981 collaboratore di giustizia. Già in un verbale dell’ottobre 1982 Cristiano comincia a collegare l’omicidio di Piersanti Mattarella a suo fratello Valerio, precisando che quest’ultimo, nei giorni in cui fu commesso l’omicidio, si trovava a Palermo ospite di Francesco Mangiameli, uno dei dirigenti di Terza posizione. Cristiano aggiunge che anche prima di quel delitto (e pure successivamente, come vedremo) suo fratello aveva fatto «frequenti viaggi in Sicilia insieme a Gilberto Cavallini» e che lì entrambi erano da tempo in contatto con Mangiameli. In Sicilia, Francesco Mangiameli, detto Ciccio, era il capo riconosciuto di Terza posizione, un gruppo dello spontaneismo armato di estrema destra la cui storia ha incrociato in più punti, non sempre pacificamente, quella dei Nar. Quando Cristiano Fioravanti inizia a fare le sue rivelazioni agli inquirenti, Mangiameli in realtà è già morto da circa due anni, essendo stato assassinato il 9settembre 1980 proprio dai due fratelli Fioravanti –sul punto ampiamente confessi –con il concorso della compagna di Valerio, Francesca Mambro, e di altri due camerati (Giorgio Vale e Dario Mariani), tutti condannati con sentenza definitiva. Le assidue frequentazioni tra Valerio Fioravanti e Ciccio Mangiameli si collocano tra il 1979 e l’estate 1980, quando i Nar e Tp si concentrano su un comune progetto «eroico», quello cioè di organizzare l’evasione dal carcere di Pierluigi Concutelli, il killer neofascista che sta scontando l’ergastolo per avere assassinato il magistrato Vittorio Occorsio nel 1976. Ciascuno ha i suoi miti, si sa, e anche per ragioni generazionali il giovane Mangiameli e l’ancor più giovane Fioravanti si appassionano all’idea di liberare il loro «eroe» Concutelli. Il progetto non verrà realizzato, ma il dipanarsi dei suoi tentativi falliti finirà per riflettersi sulle indagini relative sia all’omicidio Mattarella, sia all’omicidio Mangiameli, sia –addirittura –alla strage di Bologna del 2 agosto 1980, per la quale Francesca Mambro e Valerio Fioravanti sono stati condannati all’ergastolo con sentenza definitiva. In un interrogatorio del 22 marzo 1985 Cristiano Fioravanti dichiara con maggior precisione che gli autori materiali dell’omicidio Mattarella sono suo fratello Valerio e Gilberto Cavallini, «coinvolti in ciò dai rapporti equivoci che Mangiameli stringeva in Sicilia». Cristiano osserva che la stessa uccisione di Mangiameli «richiama quei collegamenti», e precisa che in quei giorni, intorno all’Epifania del 1980, c’era a Palermo presso Mangiameli, con Valerio e Gilberto, anche Francesca Mambro. Le dichiarazioni in cui Cristiano Fioravanti accusa suo fratello Valerio dell’omicidio Mattarella sono sempre piuttosto sofferte, ma in quelle rese tra marzo e dicembre del 1986 a Giovanni Falcone e agli altri giudici istruttori del pool di Palermo egli appare sempre meno combattuto. Queste sono, riportate fedelmente, le parti più rilevanti del suo racconto:«Della partecipazione di mio fratello all’omicidio Mattarella appresi da lui stesso dopo l’omicidio del Mangiameli [9 settembre 1980] e precisamente il giorno successivo, di mattina. Io infatti avevo partecipato a quell’omicidio senza conoscerne, né previamente chiederne, i motivi. Successivamente, specie perché mio fratello insisteva che era necessario uccidere anche la moglie e la figlia del Mangiameli, chiesi spiegazioni sul perché di tali delitti. Eravamo in auto in giro per Roma e credo fosse presente anche Francesca Mambro. Mio fratello mi disse che il Mangiameli aveva fatto delle promesse circa aiuti e appoggi che doveva ricevere in Sicilia e che queste promesse non erano state mantenute. In particolare aveva promesso che, grazie a determinati appoggi che si era procurato, sarebbe riuscito a propiziare l’evasione di Concutelli, previo trasferimento di costui in un ospedale o in un carcere meno sorvegliato di quello ove si trovava. Quanto a questi appoggi e aiuti sarebbero venuti al Mangiameli e al nostro gruppo, come mi disse mio fratello, in cambio di un favore fatto a imprecisati ambienti che avevano interesse all’uccisione del presidente della Regione siciliana. All’uopo era stata fatta una riunione a Palermo in casa del Mangiameli, in periodo che non so di quanto antecedente all’omicidio del Mattarella, e nel corso di essa erano intervenuti, oltre al Mangiameli, mio fratello Valerio, la moglie del Mangiameli, e una persona della Regione (non so se funzionario o politico). Quest’ultimo avrebbe dato «la dritta», cioè le necessarie indicazioni per poter programmare l’omicidio. Aggiunse mio fratello che l’omicidio era stato poi effettivamente commesso da lui e dal Cavallini, mentre una collaborazione era stata prestata da Gabriele De Francisci [altro membro dei Nar, n.d.a.], il quale aveva procurato una casa di appoggio, sempre necessaria allorché si procede ad azioni armate [...].Faccio ancora presente che l’episodio dell’uccisione del Mattarella narratomi da mio fratello non mi meravigliò, nonostante fossi certo che l’uccisione di un politico siciliano era estranea ai fini politici delle nostre azioni. Infatti rientrava nella nostra filosofia di azione procedere anche ad azioni criminose per procurarci favori, a condizione però che ciò non comportasse un legame stabile con diversi ambienti e gruppi. Invero azioni criminose siffatte furono commesse anche a Milano e a Roma».Per quanto riguarda invece il movente dell’omicidio di Francesco Mangiameli, Cristiano lo ricollega al timore, esternato da Valerio Fioravanti, che Mangiameli potesse rivelare ciò che sapeva sull’uccisione di Mattarella e sulla riunione che ne aveva preceduto l’assassinio. Poiché a quella riunione avevano assistito anche la moglie di Mangiameli e la sua bambina, Valerio avrebbe voluto uccidere anche queste ultime prima che venisse ritrovato il cadavere di Mangiameli, che era stato affondato in un laghetto. Fortunatamente l’ulteriore orrendo massacro è stato sventato perché il corpo del malcapitato è riaffiorato ed è stato ben presto ritrovato. Ecco come conclude Cristiano Fioravanti:«Sono sicuro che Valerio mi abbia detto la verità nel confidarmi le sue responsabilità nell’omicidio dell’uomo politico siciliano. Egli doveva convincermi dell’utilità, dopo l’uccisione di Mangiameli, anche dell’uccisione della moglie e della figlia di quest’ultimo e, pertanto, doveva presentarmi una reale esigenza; e mi disse che la moglie aveva partecipato alla riunione in cui si era decisa l’uccisione ed era ancora più pericolosa del marito13».Tuttavia è stata avanzata un’altra ipotesi, forse più plausibile, per quanto riguarda il movente dell’omicidio di Mangiameli, nel senso che esso sia in realtà ricollegabile al timore che quest’ultimo potesse rivelare ciò che certamente sapeva sulla strage della stazione di Bologna.

Quei fascisti palermitani. Giuliano Turone su La Repubblica il 7 febbraio 2020. Oltre a essere il più autorevole militante di Terza posizione in Sicilia, Francesco «Ciccio» Mangiameli era anche professore di Lettere in un liceo di Palermo ed era ovviamente in contatto con altri esponenti del mondo della scuola. Tra questi vi era Alberto Volo, che gestiva una scuola privata nel capoluogo siciliano –l’istituto Manara Valgimigli –ed era anch’egli vicino a Terza posizione. I due si erano conosciuti un paio di mesi prima dell’omicidio Mattarella e tra loro era nata una grande amicizia e confidenza, su cui Volo si sofferma nelle dichiarazioni rese ai giudici istruttori del pool di Palermo tra marzo e aprile 1989: «Circa l’omicidio di Piersanti Mattarella, posso dire quanto segue. Tutto è partito dalla mia conoscenza con Francesco Mangiameli, avvenuta [...] nell’ottobre-novembre 1979 [...]. Simpatizzammo subito data la nostra comune ideologia e così, in breve tempo, fui coinvolto dal Mangiameli in un progetto per far evadere Pierluigi Concutelli [...]. Per quanto attiene più precisamente all’omicidio di Piersanti Mattarella, io posso riferire quanto mi è stato confidato dal Mangiameli [... il quale] mi confidò che a uccidere Piersanti Mattarella erano stati Riccardo e il prete e cioè Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, della cui appartenenza ai Nar egli mi rese edotto [...]. Ricordo peraltro che il Mangiameli si diceva certo che a uccidere Mattarella era stata la massoneria che si era avvalsa dei due suddetti [...]. Il Mangiameli [...] mi confidò che egli sapeva soltanto, inizialmente, che egli doveva dare appoggio logistico ai due per una azione importante [...]. Mi riferì anche che i due, prima e dopo l’omicidio, avevano trovato rifugio nella sua villa di Tre Fontane che, specialmente allora, e in quella stagione, costituiva rifugio ideale per chi volesse nascondersi, essendo molto isolata». Sin qui, gli elementi d’accusa a carico di Valerio Fioravanti e di Gilberto Cavallini sono fondamentalmente due: le dichiarazioni di Cristiano Fioravanti, fratello di Valerio, e la presenza a Palermo di quest’ultimo e di Cavallini proprio nei giorni in cui Mattarella viene ucciso, circostanza rivelata concordemente sia da Cristiano sia da Alberto Volo. Un altro elemento di accusa nei confronti dei due è costituito dall’identificazione di Valerio Fioravanti da parte di Irma Chiazzese, la vedova di Piersanti Mattarella, che aveva visto in faccia lo sparatore, il quale «indossava un k-wayazzurro con cappuccio in testa». Il riconoscimento avviene a quattro anni di distanza dal fatto, quando diventano di pubblico dominio le accuse mosse al leader dei Nar da suo fratello Cristiano. Il 19 marzo del 1984, la signora Chiazzese dichiara di avere provato «una forte sensazione nel vedere le fotografie di Giusva Fioravanti» e precisa che Valerio Fioravanti «è quello che più corrisponde all’assassino che ho descritto nell’immediatezza dei fatti»15. Due anni dopo, in sede di ricognizione formale, articola meglio la sua valutazione: «Quando dico che è probabile che nel Fioravanti si identifichi l’assassino intendo dire che è più che possibile che lo stesso sia autore dell’omicidio, ma che non sono in grado di formulare un giudizio di certezza». Infine, nel luglio del 1986, aggiunge un particolare. Racconta di aver incrociato il killer poco prima che aprisse il fuoco e di aver notato, tra l’altro, il suo strano modo di camminare, che definisce «un’andatura ballonzolante». Che Valerio Fioravanti si muovesse così lo racconta anche il suo camerata Stefano Soderini, esponente dei Nar diventato poi collaboratore di giustizia. In un interrogatorio reso al giudice istruttore Falcone nel luglio del 1986 Soderini, dopo aver affermato che «la descrizione del killer riferita dalla vedova Mattarella si attaglia a Valerio Fioravanti», rivela anche un soprannome («l’orso») affibbiato al leader dei Nar proprio per quella sua caratteristica. «Il Fioravanti» precisa Soderini «si muoveva così in ogni circostanza, anche quando era in azione. Anzi, questo suo modo di comportarsi, quasi giocherellone, spiazzava le persone contro cui agiva che non si accorgevano delle sue reali intenzioni se non quando era troppo tardi»16.In quello stesso interrogatorio del luglio 1986 Stefano Soderini fornisce a Giovanni Falcone un ulteriore oggettivo riscontro probatorio allorché dichiara quanto segue: «So per certo che, fin quando il Cavallini non ha procurato il macchinario per fabbricare targhe di autovetture false, il Fioravanti mi diceva che per alterare le targhe delle vetture era solito usare più targhe, che tagliava per ricostruirne un’altra con i numeri, conseguentemente, “modificati”»17.Si tratta dell’elemento probatorio cui si è accennato all’inizio–quello della targa falsa montata sulla Fiat 127 dagli assassini di Mattarella –che aveva suscitato l’interesse di Giovanni Falcone e poi quello di Loris D’Ambrosio, ma che è stato sostanzialmente ignorato dagli inquirenti palermitani dopo l’avvenuta emarginazione di Falcone. Ce ne occupiamo nel prossimo paragrafo.

La targa camuffata. Giuliano Turone l'8 febbraio su La Repubblica. Nella sua Relazione dell’8 settembre 1989 Loris D’Ambrosio precisa che l’affermazione di Stefano Soderini, secondo cui Giusva Fioravanti «era solito usare più targhe che tagliava per ricostruirne un’altra con i numeri conseguentemente “modificati”», riflette una prassi molto diffusa negli ambienti della destra eversiva, specialmente tra gli esponenti di Terza posizione e dei Nar. Più volte, nei relativi covi, si sono trovate targhe tagliate e/o modificate in quel modo. La Relazione si riferisce in particolare alle targhe –in gran parte tagliate –rinvenute a Roma l’8 ottobre del 1982 in occasione dell’arresto di tre membri di Terza posizione. Una di queste targhe era «composta da due parti trattenute da nastro adesivo», proprio come quella della Fiat 127 del caso Mattarella18.I tre arrestati risultavano collegati a Enrico Tomaselli, il giovane luogotenente di Francesco Mangiameli, «chiamato a ricompattare l’ambiente “tercerista” siciliano dopo la morte di quest’ultimo» (tercerista è un’espressione ispanica con cui i membri di Tp designano se stessi). Non si tratta quindi – prosegue la Relazione – di soggetti del tutto estranei all’ambiente dei Nar, dato che all’epoca del loro arresto i Nar «operavano congiuntamente al gruppo dei terceristi e disponevano anche di “covi” e “basi” comuni dove confluivano quasi indifferentemente armi, documenti, targhe, procurati dall’uno o dall’altro gruppo». Inoltre, data la frequentazione continuativa tra gli uni e gli altri, non può certo sorprendere «il reciproco scambio di esperienze, fra cui ben potevano rientrare, insieme alle modalità di falsificazione dei documenti [...], quelle concernenti le modalità di falsificazione delle targhe»19.A questo punto la Relazione si sofferma sull’esito di una perquisizione di notevole rilievo, operata dal nucleo operativo dei carabinieri di Torino il 26 ottobre del 1982 (quindi pochi giorni dopo l’operazione romana di cui sopra) in un covo di Terza posizione che si trovava in un appartamento di via Monte Asolone,nel capoluogo piemontese, affittato sotto falso nome a Fabrizio Zani, uno dei leader di quella formazione. La Relazione suggerisce agli inquirenti di Palermo di svolgere accertamenti accurati su «due pezzi di targa» lì rinvenuti, che hanno tutto l’aspetto di una «targa virtuale» componibile proprio con i pezzi residuati dal camuffamento di targa operato dagli assassini di Mattarella sulla Fiat 127: «Va pertanto sottoposto ad accurato accertamento quanto rinvenuto il successivo 26.10.1982 in Torino, nel c.d. covo di via Monte Asolone (v. RR. GG. 21.10.1982 dei CC Rep. Op. Torino, all. 14) già in uso a Zani Fabrizio, da tempo latitante, aderente a Terza posizione e particolarmente vicino a Enrico Tomaselli. Nel covo vengono rinvenuti – fra l’altro – due pezzi di targa, uno comprendente la sigla PA e l’altro contenente la sigla PA e il numero 563091. Non si precisa, nel verbale, se si tratta di parti di targa o di targa intera. La circostanza merita di essere accertata poiché, oltre che della stessa sigla PA, la targa rinvenuta a Torino risulta composta con gli stessi numeri (pur se diversamente collocati) rimasti [...] in possesso degli autori dell’omicidio dell’on. Mattarella dopo la alterazione della targa della vettura utilizzata per commettere il fatto (PA -5.3.0.9.1.6; targa rinvenuta in Torino: PA -5.6.3.0.9.1.)». Nell’intestazione del verbale di sequestro di via Monte Asolone l’appartamento preso in affitto da Fabrizio Zani viene definito, non a caso, come una base a disposizione di elementi della destra eversiva appartenenti indifferentemente ai Nar o a Terza posizione.Il materiale sequestrato è copiosissimo e comprende moduli in bianco per costruire documenti falsi, segnatamente tesserini di appartenenti all’Arma dei carabinieri, nonché divise della stessa Arma e di altri corpi di polizia. Ma vediamo anzitutto chi è Fabrizio Zani e quali sono i suoi rapporti con Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini.

Il magazzino torinese della destra eversiva. Giuliano Turone il 9 febbraio 2020 su La Repubblica. Fabrizio Zani, già esponente di Terza posizione, noto anche per avere fondato il periodico di impronta neonazista «Quex», viene arrestato una prima volta nel 1974 per alcuni attentati dinamitardi. Torna libero nel 1978 e continua la lotta armata con il gruppo dei Nar che fa capo a Valerio Fioravanti (cheverrà arrestato nel febbraio 1981), nonché a Pasquale Belsito, Gilberto Cavallini e Stefano Soderini. Zani è uno degli autori materiali della sanguinosa rapina commessa a Roma la mattina del 5 marzo 1982, da alcuni esponenti dei Nar e di Terza posizione, all’agenzia n. 2 della Banca nazionale del lavoro di piazza Irnerio. Tra i rapinatori c’è Francesca Mambro, la compagna inseparabile di Valerio Fioravanti, che proprio in quell’occasione viene arrestata. Ai preparativi, pur senza parteciparvi, ha contribuito anche Gilberto Cavallini, che il giorno prima dell’operazione ha fornito al gruppo di fuoco uno dei giubbotti antiproiettile e un mitra M3, utilizzati nel corso della rapina e del successivo scontro a fuoco con le forze di polizia. È il caso di aggiungere che nell’appartamento di via Monte Asolone è stata rinvenuta anche una pistola Beretta calibro 9 mod. 1934, risultata poi sottratta a un militare dell’Arma dei carabinieri proprio nel corso della rapina di piazza Irnerio 22. Successivamente, il 26 novembre del 1982, Fabrizio Zani, Pasquale Belsito e Stefano Soderini, unitamente ad alcuni altri camerati dei Nar, organizzano un’importazione di armi e munizioni da guerra, tra cui una bomba a mano di fabbricazione francese, tentando di introdurle in Italia di notte dal valico di Ventimiglia, a bordo del treno internazionale Les Arcs. Nell’involucro contenente le armi, intercettato da un ferroviere francese, viene trovato anche un timbro di plastica con la dicitura ANTONIO SERICOLI, che riconduce a Gilberto Cavallini, dato che l’impronta di quel timbro è stata a suo tempo rilevata su uno dei documenti falsi di cui egli si era servito. Le vicende dell’autunno 1982 (in particolare il ricco materiale sequestrato a Torino in via Monte Asolone e il borsone di armi di Ventimiglia con il timbro di Cavallini) fanno sì che l’attenzione degli inquirenti si appunti sulle figure di rilievo, appunto, di Gilberto Cavallini e di Stefano Soderini, che insieme a Pasquale Belsito sono tra i pochi componenti ancora in libertà dei Nar, o quanto meno della cosiddetta banda Cavallini. Il primo a essere arrestato, nell’aprile del 1983, è proprio Fabrizio Zani. Il 12 settembre dello stesso anno tocca a Cavallini e Soderini, che vengono fermati insieme in un bar di Milano. Stefano Soderini diventa poi collaboratore di giustizia e fornisce agli inquirenti importanti rivelazioni. Si è già ricordata quella circa la tecnica seguita da Giusva Fioravanti per 21Tribunale di Roma, procedimento penale n. 15768/81 pm e n. 3017/82 g.i. a carico di Belsito Pasquale + 68, requisitoria del pm del 27 aprile 1984, pp. 325-356 e segnatamente 344-345. È questa la requisitoria in cui Loris D’Ambrosio ha approfondito lo studio dei reperti torinesi sequestrati in via Monte Asolone, prima ancora che ci si avvedesse dell’importanza dei «due pezzi di targa» indicati al n. 42 del verbale di sequestro, importanza emersa solo nel 1989.22Ivi, p. 353. La pistola è stata rinvenuta con il numero di matricola cancellato, il quale però si è potuto ricostruire attraverso una perizia tecnica. Il camuffamento delle targhe d’auto. Ma non meno importante è la rivelazione secondo la quale Fabrizio Zani, circa tre mesi prima del tentativo d’importazione d’armi di Ventimiglia, aveva acquistato una bomba a mano da un camerata francese.

La prova dei “due pezzi di targa”. Giuliano Turone il 10 febbraio su La Repubblica. Nell’elenco degli oggetti sequestrati in via Monte Asolone, i reperti su cui ora dobbiamo soffermarci compaiono al n.42: «Due pezzi di targa di cui uno comprendente la sigla PA e uno contenente la sigla PA e il numero 563091». Va inoltre osservato che poco più sotto, al n.46, risulta repertata anche «Una confezione di pasta per modellare di marca “DAS”». La scarsa accuratezza con cui è stato redatto il verbale di sequestro fa sì che la descrizione dei due reperti indicati al n. 42 risulti piuttosto sibillina: si parla di «due pezzi di targa». Ma mentre il primo –costituito solo dalla sigla PA –è indubbiamente un pezzo di targa, il secondo reperto sembrerebbe avere l’aspetto di una targa intera, dato che il verbale dice che contiene la sigla di Palermo più le sei cifre che contrassegnavano, negli anni Settanta e nei primissimi anni Ottanta, le targhe automobilistiche (intere) del capoluogo siciliano. D’altra parte, l’ipotesi che il secondo reperto fosse in realtà una targa autentica e intatta, appartenente a un veicolo realmente e regolarmente targato PA-563091, è inconciliabile con l’espressione «pezzo di targa» con cui il verbalizzante vi si riferisce. È quindi maggiormente plausibile l’ipotesi che il poco accorto verbalizzante abbia inteso designare con quell’espressione imprecisa una targa (evidentemente falsa) costruita assemblando tra loro «pezzi» di targhe diverse. Più precisamente, dato che i pezzi di targa residuati dopo il camuffamento operato sulla Fiat 127 del delitto Mattarella erano PA, 53 e 0916, l’ipotesi concreta è quella di una targa fasulla, costruita utilizzando proprio quei pezzi: precisamente, ritagliando la cifra 6 finale e inserendola tra la cifra 5 e la cifra 3.Il «dilemma» si sarebbe potuto risolvere molto agevolmente, fin dal settembre 1989, se solo l’ufficio istruzione di Palermo avesse seguito il suggerimento contenuto nella Relazione D’Ambrosio («Va pertanto sottoposto ad accurato accertamento quanto rinvenuto») e avesse richiamato ed esaminato con attenzione il secondo reperto del corpo di reato n. 42 di via Monte Asolone. In questo modo gli inquirenti avrebbero accertato senza margini di dubbio se il reperto in questione fosse una targa palermitana autentica (quindi irrilevante ai fini dell’inchiesta in corso e approdata chissà come nel covo Nar di Torino), oppure se si trattasse –ipotesi ben più probabile –di una targa falsa assemblata nel modo anzidetto (per i Nar piuttosto usuale) con i pezzi residuati dal camuffamento operato sulla Fiat 127 dell’omicidio. Se fosse stata constatata la fondatezza di questa seconda ipotesi, sarebbe stato inevitabile domandarsi come mai i residui del noto camuffamento di targa dell’omicidio Mattarella fossero finiti proprio in quel covo dei Nar e di Terza posizione, gestito da un esponente non secondario –quale era Zani –proprio del gruppo Fioravanti-Cavallini-Soderini. Questa circostanza avrebbe costituito un ulteriore importante elemento di prova a carico di Fioravanti e Cavallini quali autori materiali di quell’omicidio. Ma c’è di più. Una volta che quel reperto si fosse rivelato una targa assemblata, sarebbe stato opportuno sottoporla a un accertamento tecnico per verificare se, nella sua parte sottostante, ci fossero tracce di componenti di quella «pasta per modellare di marca “DAS”», una confezione della quale è stata pure trovata nell’appartamento di via Monte Asolone (reperto n. 46). Quel tipo di materiale poteva servire egregiamente a tenere uniti i diversi pezzi di targa durante le operazioni di assemblaggio onde far sì che, a lavoro ultimato, il tutto si presentasse come un pezzo unico ben mimetizzato. Invece nulla di tutto ciò è mai stato fatto. Quando la Relazione D’Ambrosio giunse, dall’ufficio dell’alto commissario antimafia, sulla scrivania del consigliere istruttore di Palermo Antonino Meli, nel settembre del 1989, il pool antimafia era già stato smantellato da tempo, Giovanni Falcone –ormai emarginato dalla nuova dirigenza –si era appena trasferito alla Procura della Repubblica come procuratore aggiunto (sarà emarginato anche lì) e Paolo Borsellino era a Marsala. Non è dato sapere se Antonino Meli abbia letto la Relazione, ma è certo che l’unica iniziativa che prese fu quella di rinviare il documento al mittente per un presunto vizio di forma: mancava la firma dell’alto commissario Domenico Sica24. Non sappiamo quando la Relazione fu ritrasmessa a Palermo. Essa è comunque citata –con riferimento solo ad aspetti marginali –sia nella requisitoria finale del procedimento riguardante l’omicidio Mattarella (firmata dai pubblici ministeri il 9marzo del 1991) sia nella successiva sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio emessa dal giudice istruttore il 9 giugno 1991. Ma la parte determinante della Relazione, quella relativa alla necessità di disporre accertamenti sui «pezzi di targa» di via Monte Asolone, è stata totalmente ignorata. Che ne è oggi dei reperti di via Monte Asolone? Sequestrati il 26 ottobre del 1982, sono rimasti a Torino custoditi per qualche mese presso quel nucleo operativo dei carabinieri, dopo di che sono stati trasmessi a Roma e sono approdati al locale ufficio corpi di reato nel giugno 1983 per essere unitial processo dei Nar lì pendente a carico di Pasquale Belsito e altri25. Chi scrive ha tentato di rintracciarli ed esaminarli, ma ha trovato solo il verbale di distruzione dell’ufficio corpi di reato del Tribunale di Roma, il quale attesta che, dopo vent’anni dalla presa in consegna, i reperti di via Monte Asolone sono stati ritualmente distrutti. Precisamente il 15 giugno del 2004 (corpo di reato n. 110116 comprendente «due pezzi di targa»).La conseguenza è che, per quanto riguarda la soluzione del «dilemma» di cui sopra, a noi non resta che accontentarci di una ricostruzione in via di logica probabilistica. Ricostruzione, del resto, che può rivestire solo un interesse meramente storico, dato che Fioravanti e Cavallini sono stati ormai assolti con sentenza definitiva dall’accusa di concorso nell’omicidio Mattarella e, per il principio costituzionale del ne bis in idem, non possono comunque essere processati una seconda volta per il medesimo reato. Va anche detto che il suddetto «dilemma» non è privo di una sua ragion d’essere. Infatti, chi scrive ha consultato il pubblico registro automobilistico e ha rilevato che l’auto regolarmente targata PA-563091 (che ovviamente esisteva ed era una Renault) era stata immatricolata a Palermo il 3 marzo 1980 con quel numero di targa, ma era stata poi ritargata, sempre a Palermo, in data 28 aprile 1982, perché la targa PA-563091 era stata denunciata come «smarrita» (ironia della sorte!) in quella data. Ragion per cui, teoricamente, ci sarebbe una sia pur remota possibilità che quella targa smarrita pur contenendo le medesime cifre dei residui del noto camuffamento, sia misteriosamente finita proprio nel covo Nar di Torino e sia stata –altrettanto misteriosamente –definita «pezzo di targa» dal verbalizzante di via Monte Asolone.

Tuttavia, il fatto che la targa autentica PA-563091 sia stata smarrita a Palermo, in una situazione che non ha relazione alcuna con l’ambiente dei Nar, rende estremamente improbabile che essa sia andata a finire a più di millecinquecento chilometri di distanza, proprio in quel covo Nar di Torino. Mentre è ben più probabile –tanto più tenendo conto dei rapporti esistenti tra il Nar Zani del covo di Torino e i Nar Fioravanti e Cavallini presenti a Palermo nei giorni intorno all’Epifania del 1980 –che il reperto 563091-PA di via Monte Asolone fosse una targa fasulla, assemblata con i residui del camuffamento di targa del caso Mattarella. Abbiamo interpellato un autorevole matematico, il professor Marco Abate dell’università di Pisa, circa la possibilità di eseguire scientificamente questo calcolo probabilistico. La risposta è stata che un simile calcolo matematico non è scientificamente possibile se non tenendo conto di fattori effettivamente riconducibili a dati numerici. È però possibile –e può fornire un risultato comunque interessante che può dare un’idea di massima –un calcolo desumibile dai dati relativi al numero dei veicoli immatricolati mese per mese nel capoluogo siciliano. Il risultato è, all’incirca, una probabilità su millequattrocento. In nota si possono trovare i singoli passaggi del calcolo matematico26.La nostra conclusione ha trovato una conferma concreta quando siamo riusciti a entrare in possesso di una copia del rapporto di polizia giudiziaria del 9 febbraio 1980 relativo all’omicidio Mattarella. Sono infatti allegate al rapporto le fotografie delle false targhe montate sulla Fiat 127 (figura 3 e figura 4) nonché le fotografie degli spezzoni di targa –ripresi fronte e retro dopo la rimozione –con cui gli assassini avevano composto la falsa targa montata su quella vettura (figura 5 e figura 6)27. Nella facciata retrostante degli spezzoni (figura 6) è evidente la presenza di una materia bianca, che ben potrebbe essere proprio il Das impiegato per tenere uniti i pezzi. Inoltre appare evidente, dalle due fotografie, che lo scopo reale del nastro adesivo nero era solo quello di mascherare le cesure tra i singoli pezzi per evitare che si intravedesse il colore bianco della materia sottostante (figura 5). Informato delle circostanze illustrate in questo scritto, il procuratore nazionale. In particolare, al professor Marco Abate, ordinario di Geometria presso il dipartimento di Matematica dell’università di Pisa, è stato domandato se fosse possibile calcolare scientificamente le probabilità che il reperto torinese 563091-PA, sequestrato a Torino il 26 ottobre del 1982, fosse la targa autentica smarrita a Palermo in data anteriore e prossima al 28 aprile del 1982, a fronte delle probabilità che esso fosse invece una targa falsa assemblata con i pezzi residuati dal camuffamento operato a Palermo, ai primi di gennaio del 1980, dagli autori dell’omicidio Mattarella. La risposta è stata che un simile calcolo matematico non è possibile, dato che la soluzione al quesito dipende da troppi fattori non riconducibili a dati numerici (il luogo e il tempo dello smarrimento della targa, il luogo e il tempo del suo ipotetico ritrovamento, la distanza tra le due località, il rapporto esistente o non esistente tra chi ha operato nel luogo dello smarrimento e chi ha operato nel luogo dell’ipotetico ritrovamento e altri possibili fattori rilevanti). L’unico calcolo possibile (interessante, ancorché insufficiente per risolvere il quesito in argomento) è quello che si può desumere dai dati, ricavabili dal sito targheitaliane.com, relativi al numero dei veicoli immatricolati mese per mese nelle singole province d’Italia. Riportiamo qui di seguito il calcolo in argomento, che è una stima della probabilità astratta che il numero di una targa presa a caso a Palermo sia ottenibile come permutazione delle cifre presenti nei pezzi avanzati dalle targhe per l’omicidio Mattarella. Supponiamo che a ottobre 1982, nella provincia di Palermo, circolino solo auto immatricolate dal settembre 1967, corrispondente alla targa PA-200000, sino al 22 settembre 1982, corrispondente alla targa PA-665680: sono 465.680. Invece, i numeri di targhe che si possono comporre usando i pezzi avanzati, e che possono corrispondere ad auto in circolazione nella provincia di Palermo secondo l’assunzione precedente, sono 336. Infatti, devono cominciare con 3, 5 o 6; non possono cominciare con 2 o 4 perché queste cifre non sono presenti nei pezzi di targa, e non possono cominciare con 0, 1 o 9 perché targhe inizianti con 9 non c’erano e targhe inizianti con 0 o 1 sono precedenti al settembre 1967. Inoltre, combinazioni che cominciano con 6 sono accettabili solo se precedenti alla targa PA-665680. Quindi la probabilità che una targa presa a caso nella provincia di Palermo a settembre 1982 sia ottenibile anche ricomponendo i pezzi di targa relativi al caso Mattarella è circa 336/465680 (pari a circa lo 0,07%). Vale a dire, all’incirca, una probabilità su millequattrocento. Franco Roberti, il 30 agosto del 2017 ha trasmesso al procuratore della Repubblica di Palermo un «atto d’impulso», come previsto dall’articolo 371-bis del Codice di procedura penale, con richiesta di riaprire le indagini preliminari sull’omicidio Mattarella e di accertare se gli spezzoni della falsa targa PA-546623, montata sull’autovettura Fiat 127 utilizzata per quell’omicidio, presentino tracce della pasta per modellare marca Das. Il 4 gennaio 2018 la Procura della Repubblica di Palermo ha riaperto il caso. Al momento in cui questo libro va in stampa non è dato sapere se l’atto d’impulso della Procura nazionale abbia avuto qualche effetto.

Nino Mattarella, il fratello del presidente e i prestiti dall’usuraio Enrico Nicoletti. Quello che secondo molti è stato "il cassiere della Banda della Magliana" prestò 750 milioni di vecchie lire ad Antonino Mattarella. E' quanto emerge dal provvedimento del Tribunale di Roma che nel '95 sequestrò i beni del faccendiere romano. Marco Lillo l'1 febbraio 2015 su Il Fatto Quotidiano. Le colpe dei fratelli non ricadono sui presidenti della Repubblica però è giusto conoscere a fondo la storia delle famiglie di provenienza quando si parla di capi di Stato. Sia nella luce, come nel caso del fratello Piersanti, nato nel 1935 e ucciso nel 1980 dalla mafia, sia nell’ombra, come nel caso di Antonino, nato nel 1937, terzo dopo Caterina (del 1934) e prima del piccolo Sergio, classe 1941. Antonino Mattarella ha fatto affari con quello che è da molti chiamato “Il cassiere della Banda della Magliana” anche se quella definizione è imprecisa e sta stretta a don Enrico Nicoletti, una realtà criminale, come dimostra la sua condanna definitiva per associazione a delinquere a 3 anni e quella per usura a sei anni, autonoma e soprattutto di livello più alto. Enrico Nicoletti era in grado di parlare con Giulio Andreotti, faceva affari enormi come la costruzione dell’università di Tor Vergata, si vantava di conoscere Aldo Moro, ha pagato parte del riscatto del sequestro dell’assessore campano dc Ciro Cirillo. Ora si scopre che ha prestato, 23 anni fa, 750 milioni di vecchie lire al fratello del presidente della Repubblica. Il Tribunale di Roma nel provvedimento con il quale applica la misura di prevenzione del sequestro del patrimonio di Nicoletti nel 1995 si occupa dei rapporti tra Nicoletti e l’avvocato Antonino Mattarella, cancellato dall’ordine professionale per i suoi traffici, secondo alcune pubblicazioni che risalgono a dieci anni fa (anche se nella lettera pubblicata qui sotto il fratello del capo dello Stato sostiene che la “cancellazione” è avvenuta in pendenza di una sua esplicita richiesta). Nell’ordinanza scritta dal giudice estensore Guglielmo Muntoni, presidente Franco Testa, si descrive la storia di un palazzo in zona Prenestina comprato da Nicoletti, tramite una società nella quale non figurava, grazie anche alla transazione firmata con il curatore di un fallimento di un costruttore, Antonio Stirpe. L’affare puzza, secondo i giudici, perché il curatore, Antonino Mattarella era indebitato con lo stesso Nicoletti. Il palazzo si trova in via Argentina Altobelli in zona Prenestina e ora è stato confiscato definitivamente dallo Stato. “Davvero allarmanti sono le vicende attraverso le quali il Nicoletti ha acquistato l’immobile in questione – scrivono i giudici – Nicoletti infatti ha rilevato l’immobile dalla società in pre-fallimento (fallimento dichiarato il 20 luglio 1984) dello Stirpe con atto 9 gennaio 1984; è riuscito ad evitare una azione revocatoria versando una cifra modestissima, lire 150 milioni, rispetto al valore del bene, al fallimento. La transazione risulta essere stata effettuata tramite il curatore del fallimento Mattarella Antonino, legato al Nicoletti per gli enormi debiti contratti col proposto (dalla documentazione rinvenuta dalla Guardia di finanza di Velletri emerge che il Nicoletti disponeva di titoli emessi dal Mattarella, spesso per centinaia di milioni ciascuno)”. La legge fallimentare cerca di evitare che i creditori di un imprenditore restino a bocca asciutta. Il curatore dovrebbe evitare che, prima della dichiarazione di fallimento, i beni prendano il volo a prezzo basso. Per questo esistono contro i furbi le cosiddette azioni revocatorie che riportano i beni portati via con questo trucco nel patrimonio del fallimento. Il curatore dovrebbe vigilare e invece, secondo i giudici, l’avvocato Antonino Mattarella aveva fatto un accordo con Nicoletti e il palazzo era finito nella società di don Enrico. Per questo le carte erano state spedite in Procura ma, prosegue l’ordinanza del sequestro, “una volta che gli atti furono trasmessi dal Tribunale Civile alla Procura della Repubblica per il delitto di bancarotta si rileva che le indagini vennero affidate al Maresciallo P. che risulta tra i soggetti ai quali Nicoletti inviava generosi pacchi natalizi”. Non era l’unica operazione realizzata dalla società riferibile a Nicoletti e poi sequestrata, la Cofim, con Antonino Mattarella. “In data 23 aprile 1992 risulta il cambio a pronta cassa dell’assegno bancario di lire 200 milioni non trasferibile, tratto sulla Banca del Fucino all’ordine di Mario Chiappini”, che è l’uomo di fiducia di Nicoletti per l’attività di usura. “In data 28 aprile viene versato sul predetto c/c altro assegno di lire 200 milioni sulla Banca del Fucino, tratto questa volta all’odine della Cofim dallo stesso correntista del primo assegno: questo viene richiamato dalla società, a firma dell’Amministratore sig. Enrico Nicoletti. In data 30 aprile 1992 la Banca del Fucino comunica l’avvio al protesto del secondo assegno). ”L’assegno citato – concludono i giudici di Roma – risulta essere stato emesso dal Prof. Antonino Mattarella”. I giudici riportano le conclusioni del rapporto degli ispettori della Cassa di Risparmio di Rieti, Cariri. “A tal proposito – scrive il Tribunale – viene esemplificativamente indicato il richiamo di un assegno di 550 milioni emesso sempre dal Prof. Mattarella. Si riporta qui di seguito per estratto quanto esposto dall’ispettorato Cariri: ‘In data 15 maggio 1992 (mentre era in corso la presente ispezione), è stato effettuato dalla Succursale il richiamo di un assegno di Lire 550 milioni, tratto sulla Banca del Fucino da Mattarella Antonio, versato in data 4 maggio sul c/c 12554 della Cofim (società riferibile a Nicoletti e poi sequestrata, ndr). Il richiamo è avvenuto previo versamento sul c/c della Cofim di altro assegno di pari importo tratto dallo stesso Mattarella, essendo il primo insoluto’. La Banca del Fucino ha regolarmente informato la nostra Succursale (il giorno 21 o 22) che anche il secondo assegno, regolato nella stanza di compensazione del 18 maggio, era stato avviato al protesto. (…). L’assegno di 550.000.000 lire è tornato protestato il 4 giugno e, al termine dell’ispezione, è ancora sospeso in cassa per mancanza della necessaria disponibilità per il riaddebito sul conto della Cofim”. I rapporti tra Nicoletti e Antonino Mattarella risalivano ad almeno 3 anni prima. I giudici riportano un episodio: il 17 luglio del 1989 Nicoletti telefona al suo uomo di fiducia Mario Chiappini mentre sta nell’ufficio di un tal Di Pietro della Cariri. Chiappini prende il telefono e dice al suo boss “che aveva prelevato e fatto il versamento e che era tutto a posto. Doveva sentire solo Mattarella con il quale aveva un appuntamento”.

Il Fatto Quotidiano del 30 gennaio 2015 modificato dalla redazione web l’1 febbraio 2015. RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO “Presi quei soldi da Nicoletti, ma vi spiego come andò…” Caro direttore, leggo l’articolo pubblicato in prima pagina (edizione del Fatto Quotidiano di venerdì 30 gennaio) e scrivo per rettificarne i contenuti e chiedo la completa pubblicazione ai sensi della legge sulla stampa. A prescindere dalla circostanza che mai sono stato “radiato” dall’Albo degli Avvocati dato che si è trattata di una “cancellazione”, tra l’altro in pendenza di una mia esplicita richiesta al riguardo in quanto passato a “tempo pieno” all’insegnamento universitario, vorrete prendere nota di quanto segue: mai sono stato in affari con il Nicoletti. Ciò premesso. I movimenti di assegni segnalati nell’articolo (e altri) avevano origine da operazioni di prestiti a tasso “particolarmente elevato” ricevuti dal Nicoletti, noto operatore del settore (peraltro presentatomi, a suo tempo, da persona al di sopra di ogni immaginabile sospetto: un cancelliere del Tribunale di Roma), in ragione di difficoltà finanziarie nelle quali ero venuto a trovarmi per alcune operazioni immobiliari avviate in società con terze persone, per le quali avevo prestato garanzie personali, a cui ho dovuto far fronte in prima persona, con i proventi della mia attività professionale. Tutti i miei titoli rilasciati al Nicoletti per le operazioni di “prestito” sono stati da me pagati e, comunque, dette operazioni sono tutte successive alle vicende del fallimento Stirpe. Quanto all’immobile cui si fa riferimento, la ricostruzione dei fatti è totalmente errata. Quando è stato dichiarato il fallimento Stirpe, l’immobile in questione era già nel patrimonio del Nicoletti in quanto lo stesso aveva ottenuto il trasferimento di proprietà prima della dichiarazione di fallimento in compensazione di crediti vantati con il debitore poi fallito. Dopo avere esaminato la documentazione, nella mia qualità di curatore fallimentare, ho ritenuto opportuno proporre il giudizio per l’azione revocatoria, l’esito del quale è stato favorevole al fallimento per cui il bene ritornava nella massa attiva. La difesa del Nicoletti (assistito da professionista di chiara fama) ha proposto appello avverso la decisione di primo grado. Nelle more è stata avanzata una proposta transattiva che prevedeva la rinuncia da parte del fallimento alla sentenza favorevole contro versamento della somma di 150.000.000 di lire, ferma restando la cancellazione dei debiti pregressi dello Stirpe a suo tempo compensati con il trasferimento del bene. La proposta transattiva è stata sottoposta al comitato dei creditori che ha espresso parere favorevole ed è stata approvata dal giudice delegato cui spettava la decisione (e non al curatore). Quindi il prezzo pagato dal Nicoletti per l’immobile non è stato di 150 milioni, come riportato nell’articolo, ma a questa somma va aggiunto quanto compensato con la precedente operazione di acquisizione del bene prima del fallimento come si potrà accertare dalla documentazione relativa al fallito. Nelle more delle appena citate procedure per la formalizzazione della transazione, il giudizio di appello è andato avanti e rimesso al Collegio per la sentenza. Completate le formalità di approvazione dell’accordo transattivo, il Nicoletti ha versato l’importo concordato. Subito dopo è stata depositata la sentenza d’appello che, in accoglimento del ricorso del Nicoletti, ha rigettato la domanda in revocatoria proposta dalla curatela e accolta in primo grado! In conclusione, se non fosse intervenuta e definita la transazione con l’incasso di quanto concordato, il bene immobile, in seguito alla decisione dell’appello, sarebbe rimasto nella piena proprietà del Nicoletti senza l’esborso ulteriore di 150 milioni ottenuto con la transazione. Posso affermare che sono stato l’unico curatore fallimentare (o uno dei pochi) a proporre una azione revocatoria nei confronti del Nicoletti (nonostante i consigli contrari) e di aver definito con vantaggio per la curatela una vicenda nata da prestiti usurari risolti con acquisizione di un bene (prima del fallimento). Antonino Mattarella.

La ricostruzione dei fatti è del Tribunale di Roma nell’ordinanza di sequestro dei beni di Enrico Nicoletti. (M.L.)

Attilio Bolzoni e Francesco Viviano per “la Repubblica” 03.02.2015. C’è una piccola scossa di terremoto alle falde dell’Etna che butta lava sulla neve bianca e sbuffa. Sbuffa anche lui all’improvviso. E dice: «Sergio si deve guardare dai politici». Il fratello del Presidente della Repubblica è rintanato nel suo rifugio sotto il vulcano con i suoi quarantasette cani ed è circondato da nove ettari di vigna che si arrampica sulla roccia nera. Si presenta: «Sono io Antonino Mattarella, ho 78 anni, quattro più di Sergio, ho fatto il docente universitario — diritto del lavoro — e quando non sto a Roma sono sempre qui a Santa Venerina con i miei cani di razza che allevo e mando ai concorsi ». A Villa Grifunera, dove si produce un vino rosso e profumato che ha chiamato “Iddu” (in siciliano “lui”, dedicato al vulcano) abbiamo intervistato l’altro dei Mattarella. Nel piccolo studio di una villa di campagna tanti libri e tantissimi cd di musica classica, una sola fotografia: quella del padre Bernardo. Molti non sapevano della sua esistenza, poi nei giorni scorsi “Il Fatto” ha cominciato a scrivere su di lei...

«Sono amareggiato, io non c’entro con l’attività politica di mio fratello, non ho mai interferito con certe cose, né con Sergio e prima neanche con Piersanti… Non avevano bisogno di me».

Ci racconti questa vicenda dei suoi rapporti con alcuni criminali, quelli della banda della Magliana. Come li ha conosciuti? Come è entrato in contatto con loro e come mai prese soldi in prestito da quei personaggi?

«E’ una vicenda assurda di 25 anni fa. Lo stesso pm che l’aveva aperta ha chiesto poi l’archiviazione che il giudice ha controfirmato. Cosa dovrei aggiungere su una storia che non esiste da un punto di vista giudiziario?».

Potrebbe chiarire.

«Posso soltanto esprimere la mia opinione: non ha senso che veniate qui a tirare fuori una cosa come questa quando non la si conosce. Una ricostruzione fondata su niente».

Però lei dovrebbe spiegarci, al di là di come si è concluso il caso giudiziario, come e perché sono nate queste relazioni.

«Non ne voglio parlare più, gli ho creato già abbastanza problemi a Sergio con queste buttanate».

Andrà a Roma per il giuramento del Presidente?

«No, non mi sono mai intromesso nelle attività politiche dei miei fratelli e non lo farò certo domani. Stamattina ho mandato un messaggio a Sergio, gli ho detto: scusami se domani non sarò a Roma, se sto in disparte. Mi ha risposto: ‘Ti capisco’..».

Che rapporto ha con suo fratello Sergio?

«Fraterno, bellissimo. Non ci vediamo spessissimo ma ci sentiamo sempre. Quando andavo a Palermo dormivo sempre a casa sua».

E ieri, quando vi siete sentiti?

«Subito dopo l’elezione, prima ci siamo scambiati il solito sms e poi abbiamo parlato al telefono. Ma aveva fretta, stava preparando il discorso. E’ una grande emozione per me, io non ho mai fatto politica ma alla politica ci sono abituato. Io ho conosciuto De Gasperi, tutta la classe politica di quel tempo. Colombo, Andreotti… La Pira veniva a casa nostra a Palermo. Prima sostenevo la Dc, adesso voto Pd».

Se lo aspettava che fosse proprio lui il Presidente?

«Ero convinto che Presidente sarebbe dovuto diventare la volta precedente perché Sergio è l’uomo giusto al posto giusto. Ma l’altra volta ci fu il veto di Berlusconi, Bersani offrì una terna e lui disse no. Io, io non l’avrei invitato Berlusconi domani.. Sì, Sergio doveva diventare prima Presidente ».

Come definirebbe suo fratello in due parole?

«Una persona equilibrata. Renzi ha detto che è di grande rigore morale. Equilibrio e rigore morale, le doti di un Presidente della Repubblica».

Consigli da dare al fratello più piccolo?

«Di guardarsi dai politici, Sergio è un uomo di profondissima cultura, cosa non comune tra gli uomini politici italiani. Non mi permetterei di dargli consigli tranne uno: continui a fare quello che ha fatto sino ad ora».

E dell’altro fratello, Piersanti, cosa ricorda di quel giorno, il 6 gennaio del 1980?

«Non avrei mai pensato a una tragedia del genere, non ci pensavo assolutamente, non so se lui avesse delle preoccupazioni mai io certamente no. Ero a Roma, a pranzo con amici, presi il primo aereo».

Ucciso dalla mafia?

«Solo dalla mafia? E la matrice politica? Voleva rompere equilibri, appalti».

Lei ha solo la foto di suo padre in questo studio. E quelle degli altri suoi familiari?

«Le altre foto le tengo tutte nella mia casa di Roma. Mio padre.. mio padre era un uomo onesto con un viso aperto, un uomo veramente completo».

E un po’ chiacchierato per le sue amicizie mafiose.

«Hanno tutti rettificato e l’unico che non l’ha fatto è stato Danilo Dolci che è stato condannato. Ho sempre pensato di scrivere un libro sulla storia dei Mattarella».

Un libro per scrivere cosa?

«Mio padre è sempre stato avversato da gente come gli esattori Salvo di Salemi da Salvo Lima. Poi di tutta quell’epoca l’unico che ha pagato il conto è stato Vito Ciancimino che era l’ultima ruota del carro. La corrente fanfaniana era tutta contro mio padre. A Palermo c’erano Gioia e Lima, poi Lima è diventato andreottiano».

E la mafia che c’entra?

«Eh la mafia era quella della Sicilia occidentale, per esempio qui a Catania non era vera mafia, la mafia stava dall’altra parte della Sicilia. Oggi sono più gangster che mafiosi».

Antonino Mattarella racconta ancora della sua famiglia, della Sicilia, di Palermo, del fratello Presidente. E poi torna alle origini, al padre Bernardo. E’ un nome che ciascuno dei tre figli — Piersanti, Sergio e lui, Antonino — ha voluto dare anche ai loro figli: «Ce ne sono tre di Bernardo, uno in ogni famiglia Mattarella, quello di Sergio si chiama Bernardo Giorgio, gli altri due sono Bernardo e basta».

Antonino Mattarella e i legami con il cassiere della Banda della Magliana. Correva l'anno 2015, esattamente il primo febbraio, quando Il Fatto tirò fuori la vicenda del fratello del presidente della Repubblica, Antonino Mattarella. Si parlò di intrecci con la Banda della Magliana. Antonio Del Furbo su Zona D’Ombra il 29 maggio 2018. Antonino Mattarella, classe 1937, avrebbe fatto affari con quello che è da molti chiamato “Il cassiere della Banda della Magliana”, Enrico Nicoletti che non aveva nessuna difficoltà nel parlare con Giulio Andreotti. Nicoletti faceva affari giganteschi, come la costruzione dell’università di Tor Vergata. Tre anni fa si scoprì che nel 1992 Nicoletti prestò 750 milioni di vecchie lire al fratello del presidente della Repubblica. Il Tribunale di Roma, oltre al sequestro preventivo del patrimonio di Nicoletti, nel 1995 si occupò anche dei rapporti tra Nicoletti e l’avvocato Antonino Mattarella. Nell’ordinanza del giudice venne descritta la storia di un palazzo in zona Prenestina comprato da Nicoletti, attraverso una società nella quale non figurava, grazie anche alla transazione firmata con il curatore di un fallimento di un costruttore, Antonio Stirpe. Antonino Mattarella era indebitato con lo stesso Nicoletti e il palazzo è stato confiscato definitivamente dallo Stato. “Davvero allarmanti le vicende attraverso le quali il Nicoletti ha acquistato l’immobile in questione – scrivono i giudici – Nicoletti infatti ha rilevato l’immobile dalla società in pre-fallimento (fallimento dichiarato il 20 luglio 1984) dello Stirpe con atto 9 gennaio 1984; è riuscito ad evitare una azione revocatoria versando una cifra modestissima, lire 150 milioni, rispetto al valore del bene, al fallimento. La transazione risulta essere stata effettuata tramite il curatore del fallimento Mattarella Antonino, legato al Nicoletti per gli enormi debiti contratti col proposto (dalla documentazione rinvenuta dalla Guardia di finanza di Velletri emerge che il Nicoletti disponeva di titoli emessi dal Mattarella, spesso per centinaia di milioni ciascuno)”. "La legge fallimentare - scrive il Fatto - cerca di evitare che i creditori di un imprenditore restino a bocca asciutta. Il curatore dovrebbe evitare che, prima della dichiarazione di fallimento, i beni prendano il volo a prezzo basso. Il curatore dovrebbe vigilare e invece, secondo i giudici, l’avvocato Antonino Mattarella aveva fatto un accordo con Nicoletti e il palazzo era finito nella società di don Enrico. Per questo le carte erano state spedite in Procura ma, prosegue l’ordinanza del sequestro, una volta che gli atti furono trasmessi dal Tribunale Civile alla Procura della Repubblica per il delitto di bancarotta si rileva che le indagini vennero affidate al Maresciallo P. che risulta tra i soggetti ai quali Nicoletti inviava generosi pacchi natalizi”. La Cofim non era l’unica operazione realizzata dalla società riferibile a Nicoletti e poi sequestrata. “In data 23 aprile 1992 risulta il cambio a pronta cassa dell’assegno bancario di lire 200 milioni non trasferibile, tratto sulla Banca del Fucino all’ordine di Mario Chiappini”, uomo di fiducia di Nicoletti per l’attività di usura. “In data 28 aprile viene versato sul predetto c/c altro assegno di lire 200 milioni sulla Banca del Fucino, tratto questa volta all’ordine della Cofim dallo stesso correntista del primo assegno: questo viene richiamato dalla società, a firma dell’Amministratore sig. Enrico Nicoletti. In data 30 aprile 1992 la Banca del Fucino comunica l’avvio al protesto del secondo assegno). ”L’assegno citato – concludono i giudici di Roma – risulta essere stato emesso dal Prof. Antonino Mattarella”. I giudici riportano le conclusioni del rapporto degli ispettori della Cassa di Risparmio di Rieti, Cariri. “A tal proposito – scrive il Tribunale – viene esemplificativamente indicato il richiamo di un assegno di 550 milioni emesso sempre dal Prof. Mattarella". Si riporta qui di seguito per estratto quanto esposto dall’ispettorato Cariri: "in data 15 maggio 1992 (mentre era in corso la presente ispezione), è stato effettuato dalla Succursale il richiamo di un assegno di Lire 550 milioni, tratto sulla Banca del Fucino da Mattarella Antonio, versato in data 4 maggio sul c/c 12554 della Cofim (società riferibile a Nicoletti e poi sequestrata, ndr). Il richiamo è avvenuto previo versamento sul c/c della Cofim di altro assegno di pari importo tratto dallo stesso Mattarella, essendo il primo insoluto’. La Banca del Fucino ha regolarmente informato la nostra Succursale (il giorno 21 o 22) che anche il secondo assegno, regolato nella stanza di compensazione del 18 maggio, era stato avviato al protesto. (…)." In una lettera aperta, Antonino Mattarella diede la sua versione dei fatti, pur ammettendo di aver preso i soldi. "I movimenti di assegni segnalati nell’articolo (e altri) avevano origine da operazioni di prestiti a tasso particolarmente elevato” ricevuti dal Nicoletti, noto operatore del settore (peraltro presentatomi, a suo tempo, da persona al di sopra di ogni immaginabile sospetto: un cancelliere del Tribunale di Roma), in ragione di difficoltà finanziarie nelle quali ero venuto a trovarmi per alcune operazioni immobiliari avviate in società con terze persone, per le quali avevo prestato garanzie personali, a cui ho dovuto far fronte in prima persona, con i proventi della mia attività professionale. Tutti i miei titoli rilasciati al Nicoletti per le operazioni di “prestito” sono stati da me pagati e, comunque, dette operazioni sono tutte successive alle vicende del fallimento Stirpe. Quanto all’immobile cui si fa riferimento, la ricostruzione dei fatti è totalmente errata. Quando è stato dichiarato il fallimento Stirpe, l’immobile in questione era già nel patrimonio del Nicoletti in quanto lo stesso aveva ottenuto il trasferimento di proprietà prima della dichiarazione di fallimento in compensazione di crediti vantati con il debitore poi fallito. Dopo avere esaminato la documentazione, nella mia qualità di curatore fallimentare, ho ritenuto opportuno proporre il giudizio per l’azione revocatoria, l’esito del quale è stato favorevole al fallimento per cui il bene ritornava nella massa attiva. La difesa del Nicoletti (assistito da professionista di chiara fama) ha proposto appello avverso la decisione di primo grado. Nelle more è stata avanzata una proposta transattiva che prevedeva la rinuncia da parte del fallimento alla sentenza favorevole contro versamento della somma di 150.000.000 di lire, ferma restando la cancellazione dei debiti pregressi dello Stirpe a suo tempo compensati con il trasferimento del bene. La proposta transattiva è stata sottoposta al comitato dei creditori che ha espresso parere favorevole ed è stata approvata dal giudice delegato cui spettava la decisione (e non al curatore). Quindi il prezzo pagato dal Nicoletti per l’immobile non è stato di 150 milioni, come riportato nell’articolo, ma a questa somma va aggiunto quanto compensato con la precedente operazione di acquisizione del bene prima del fallimento come si potrà accertare dalla documentazione relativa al fallito. Nelle more delle appena citate procedure per la formalizzazione della transazione, il giudizio di appello è andato avanti e rimesso al Collegio per la sentenza. Completate le formalità di approvazione dell’accordo transattivo, il Nicoletti ha versato l’importo concordato. Subito dopo è stata depositata la sentenza d’appello che, in accoglimento del ricorso del Nicoletti, ha rigettato la domanda in revocatoria proposta dalla curatela e accolta in primo grado! In conclusione, se non fosse intervenuta e definita la transazione con l’incasso di quanto concordato, il bene immobile, in seguito alla decisione dell’appello, sarebbe rimasto nella piena proprietà del Nicoletti senza l’esborso ulteriore di 150 milioni ottenuto con la transazione. Posso affermare che sono stato l’unico curatore fallimentare (o uno dei pochi) a proporre una azione revocatoria nei confronti del Nicoletti (nonostante i consigli contrari) e di aver definito con vantaggio per la curatela una vicenda nata da prestiti usurari risolti con acquisizione di un bene (prima del fallimento)."

Calibro 38 e targa falsificata: Mario Francese ucciso come le altre vittime eccellenti di mafia. L’unico proiettile repertato, dei quattro che hanno ucciso Mario Francese, era di una pistola della stessa marca di quella usata per gli omicidi di Piersanti Mattarella e Michele Reina. Damiano Aliprandi il 29 gennaio2020 su Il Dubbio. Erano le 21: 15 del 26 gennaio del 1979 quando una donna di nome Ester, mentre si trovava nella stanza da letto, seduta dietro i vetri del balcone che si affacciava sul Viale Campania, a Palermo, sente una forte detonazione. Aveva istintivamente rivolto lo sguardo verso la strada proprio nel momento in cui un uomo era già caduto per terra, e aveva notato un individuo sui 35 anni con il braccio destro teso verso il basso, impugnando una rivoltella, esplodere diversi colpi. Il killer, secondo la testimonianza della donna, aveva sparato con tremenda freddezza e determinazione e, in questo brevissimo arco di tempo, aveva indirizzato ripetutamente lo sguardo verso il balcone della sua abitazione. I loro sguardi si erano incrociati, e, per un istante, aveva temuto per la propria vita. L’uomo a terra, secondo la perizia medica, fu raggiunto da almeno quattro proiettili di arma da fuoco corta: tre alla testa e il quarto al collo. La morte avvenne quasi istantaneamente per le gravissime lesioni cranio- facciali provocate dai proiettili che raggiunsero la testa. I colpi furono esplosi tutti da una distanza superiore ai 20- 25 cm. Dagli atti emerge che l’unico proiettile repertato proveniva da un revolver calibro 38 special, del tipo Smith & Wesson. Stesso tipo di arma che avrebbe ucciso due mesi dopo il segretario provinciale della Democrazia cristiana, Michele Reina e un anno dopo l’ex presidente della Regione Piersanti Mattarella. Ma non solo. Altra analogia con il delitto eccellente è l’utilizzo del veicolo per commettere l’efferato omicidio: la targa era stata sostituita con un’altra formata da due spezzoni di diverse targhe. Parliamo infatti di un omicidio mafioso e l’uomo a terra in quella fredda sera del 26 gennaio del ’ 79 era Mario Francese, colui che in quegli anni è stato il protagonista della cronaca giudiziaria e del giornalismo d’inchiesta siciliano. Abile ad anticipare gli inquirenti nell’individuazione di nuove piste investigative. Famoso anche per essere stato il primo ed unico giornalista ad aver intervistato Ninetta Bagarella, moglie di Totò Riina e sorella di Leoluca, il killer che lo ucciderà. Fu il primo ad aver messo mano su mafia- appalti. Proprio per questo fu ucciso dalla mafia. Con atteggiamento aperto, coraggioso e grande senso del comune, si immergeva nella ricerca della verità dei fatti di Cosa nostra, quei business sugli appalti che stavano insidiando la Sicilia, quegli intrecci tra politica, imprese e mafia che andavano radicandosi su un territorio già torturato dalle cosche. Secondo i giudici che hanno condannato i mafiosi per l’omicidio di Mario Francese, la casuale è chiara. Dagli articoli e dossier redatti dal giornalista, «emerge – scrivono i giudici una straordinaria capacità di operare collegamenti tra i fatti di cronaca più significativi verificatisi nel corso degli anni, di interpretarli con coraggiosa intelligenza e di tracciare così una ricostruzione di eccezionale chiarezza e credibilità sulle linee evolutive dell’organizzazione mafiosa, in una fase storica nella quale emergevano le diffuse e penetranti infiltrazioni di Cosa nostra nel mondo degli appalti e dell’economia ed iniziava a delinearsi la strategia di attacco alle Istituzioni da parte dell’illecito sodalizio». Una strategia eversiva che avrebbe fatto un “salto di qualità” proprio con l’eliminazione di una delle menti più lucide del giornalismo siciliano, di un professionista estraneo a qualsiasi condizionamento, privo di ogni compiacenza verso i gruppi di potere collusi con la mafia e capace di fornire all’opinione pubblica importanti strumenti di analisi dei mutamenti in atto all’interno di Cosa nostra. I giudici evidenziano il fatto significativo che sia stato proprio l’assassinio di Mario Francese ad aprire la lunga catena di “omicidi eccellenti” che insanguinò Palermo tra la fine degli anni 70 e il decennio successivo, in attuazione di un preciso disegno criminale che mirava ad affermare il più assoluto dominio mafioso sui gangli vitali della società, dell’economia e della politica in Sicilia. Leggendo gli articoli di Mario Francese apparsi su Il Giornale della Sicilia, saltano all’occhio le sue inchieste sugli appalti e compaiono nomi di imprese nazionali che poi ritroveremo anche nel famoso dossier mafia- appalti redatto dagli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno per volere di Giovanni Falcone. Cita l’impresa milanese Lodigiani, la Pantalena, la Garboli e in particolare la Saiseb: l’impresa con sede centrale a Roma che, conosciuta a Castelvetrano per il famoso contenzioso di oltre 3 milioni di euro con il comune, giocava un ruolo importante nella ricostruzione del Belice, facendo lavori per vari miliardi di lire, giocando molto sulle perizie di variante, facendo molto lievitare i costi degli appalti. Francese si chiese come mai un pregevole colonnello dei Carabinieri – dopo aver lasciato l’Arma- volesse andare a collaborare con questa grossa società. Francese si riferisce al colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, ucciso nel ’ 77 dai killer di Totò Riina. Secondo il giornalista Mario Francese l’omicidio Russo era collegato con la guerra di mafia che scoppiò per il giro di miliardi legato alla Diga Garcia. In seguito, dai vari documenti investigativi, risulterà un nome legato a quel giro di affari miliardari: è quello di Angelo Siino, il ” ministro dei lavori pubblici” della mafia corleonese. E sarà proprio Siino a dire che il movente dell’omicidio del colonello Russo è da ricercare nelle indagini che l’alto ufficiale aveva svolto nella costruzione della diga Garcia e nel suo interessamento per far aggiudicare i lavori della costruzione della diga Piano Campo all’impresa Saibeb. Era sembrato quasi un affronto, una vera e propria onta per Riina e il clan dei corleonesi. Il pentito Balduccio Di Maggio aggiungerà: «Riina stesso mi disse che dato che nella nostra zona non c’erano imprese in grado di concorrere a tale opera, l’unica soluzione possibile era quella di farla aggiudicare alla ditta Costanzo di Catania». E poi ci sarà Giovanni Brusca a dire: «Per volontà di Riina era stato stabilito che l’appalto andasse a Costanzo e Lodigiani». Imprese nazionali di rilievo, appalti miliardari guidati da Totò Riina. Il giornalista Mario Francese aveva capito tutto, anticipando in parte quello che poi sarà evidenziato dal dossier mafia- appalti: per questo la commissione presieduta da Totò Riina ha deliberato la sua morte. Come detto, l’omicidio di Francese inaugurò la serie di delitti eccellenti. Il modus operandi mafioso è lo stesso. Utilizzo dello stesso tipo di pistola e la contraffazione della targa utilizzando due spezzoni di targhe diverse. Un motivo in più, forse, per accettare la sentenza Mattarella che assolse gli ex nar Fioravanti e Cavallini, condannando invece i mafiosi per l’omicidio e i due falsi pentiti come Angelo Izzo e Giuseppe Pellegriti per aver depistato le indagini. Anche in quel caso si parla di appalti tra le casuali dell’omicidio. Il delitto del giornalista Mario Francese cadde nel dimenticatoio, tanto che l’inchiesta venne archiviata. Ci sono voluti anni per riaprirla su richiesta della famiglia. Il processo si è svolto con rito abbreviato, concludendosi nell’aprile del 2001, con la condanna a trent’anni di Totò Riina, Francesco Madonia, Antonino Geraci, Giuseppe Farinella, Michele Greco, Leoluca Bagarella ( esecutore materiale) e Giuseppe Calò. Anche in Cassazione l’impianto accusatorio ha retto, ma vengono assolti tre boss ‘ per non aver commesso il fatto’: Pippo Calò, Antonino Geraci e Giuseppe Farinella. A far riaprire il caso di Mario Francese fu soprattutto il figlio Giuseppe. Nella notte tra il 2 e il 3 settembre del 2002 si è tolto la vita schiacciato da un dolore che lo aveva accompagnato fin dal primo momento dopo l’omicidio del padre.

Piersanti Mattarella, l’ex magistrato Turone: «Fu un omicidio del tutto anomalo». Giovanni M. Jacobazzi il 7 gennaio 2020 su Il Dubbio. Intervista all’ex magistrato Turone: «L’ipotesi di un’alleanza di cosa nostra con il terrorismo politico è quella sulla quale stava lavorando Giovanni Falcone». «L’ipotesi di un’alleanza di Cosa nostra con il terrorismo politico – in particolare con la destra eversiva dei Nuclei armati rivoluzionari ( Nar) e di Terza posizione ( Tp) – è quella sulla quale stava lavorando Giovanni Falcone negli anni 1986- 1987, prima di venire emarginato dai capi degli uffici inquirenti di Palermo», afferma Giuliano Turone. Turone è il magistrato che indagò Michele Sindona nell’inchiesta sull’omicidio di Giorgio Ambrosoli e poi dispose nel 1981 la perquisizione, insieme al collega Gherardo Colombo, a carico di Licio Gelli. Grande conoscitore della indagini di criminalità organizzata ed eversiva, ha fatto parte del primo gruppo di magistrati in servizio presso la Procura nazionale antimafia. Ha pubblicato nel 2019 per Chiarelettere Italia occulta. Dal delitto Moro alla strage di Bologna. Il triennio maledetto che sconvolse la Repubblica ( 1978- 1980), nel quale ha svolto anche una analisi sull’omicidio del presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella, avvenuto il 6 gennaio del 1980 a Palermo. Fra le piste investigative affrontate da Turone, quella appunto di un patto fra Cosa nostra e i Nar di Valerio Fioravanti. «Dalle indagini svolte sull’omicidio di Mattarella non è emersa la possibilità di individuare gli autori materiali del fatto in soggetti gravitanti nelle organizzazioni mafiose. I collaboratori di giustizia hanno dichiarato di non sapere chi fossero i killer né a quale famiglia appartenessero. Inoltre la moglie di Mattarella, la signora Irma Chiazzese, non ha ravvisato nessuna somiglianza tra lo sparatore e le immagini di soggetti mafiosi che le sono state sottoposte», premette Turone, precisando però che «l’inesistenza di piste mafiose riconducibili agli autori materiali del crimine non implica affatto l’esclusione della matrice mafiosa dell’omicidio Mattarella». L’omicidio di Mattarella viene presentato come «un omicidio del tutto anomalo» nella relazione dell’Alto commissariato antimafia del 1989 a firma di Loris D’Ambrosio, «maturato in quel composito ambiente umano e politico che, al fine di accrescere il proprio potere economico, affaristico e istituzionale, (…) si presta a gestire gli interessi pubblici secondo schemi e principi tipicamente delinquenziali. Non si tratta, allora, di un omicidio di mafia, ma di omicidio di “politica mafiosa”: nel quale, cioè, la riferibilità alla mafia come “organizzazione” deve necessariamente stemperarsi attraverso una serie di passaggi mediati, di confluenze “operative” e “ideative” apparentemente disomogenee ma in grado di dare, nel loro complesso, il senso compiuto dell’antistato». Il coinvolgimento di Valerio Fioravanti nell’omicidio di Mattarella risale al 1982, dopo la testimonianza del fratello minore Cristiano, collaboratore di giustizia, secondo cui «Valerio si trovava in quel tempo ospite a Palermo di Francesco Mangiameli, un dirigente di Terza posizione». «Valerio – proseguì il fratello – aveva fatto numerosi viaggi in Sicilia insieme a Gilberto Cavallini», poi coinvolto nella strage della stazione di Bologna. Nel 1985 Cristiano fu ancora più preciso, affermando che anche Francesca Mambro, la compagna di Valerio, intorno all’Epifania del 1980 si trovava a Palermo. A rafforzare le dichiarazioni accusatorie di Cristiano, il riconoscimento da parte della vedova di Mattarellla di Valerio Fioravanti come il killer del marito. Una pista che non è stata seguita con la dovuta attenzione è, invece, quella relativa alla targa della Fiat 127, rubata la sera prima del delitto, con cui i killer di Mattarella si allontanarono dal luogo del delitto. Una targa “composta”: quella della vettura rubata era PA 536623, quella usata in concreto era PA 546623. Nel 1982 vennero rinvenute dei pezzi di targa in un covo romano di Terza posizione. Fioravanti era solito usare più targhe di cui modificava i numeri. Pochi giorni dopo la perquisizione romana, i carabinieri di Torino rinvennero in un altro covo di Terza posizione nel capoluogo piemontese due pezzi di targa che avevano l’aspetto di una targa componibile proprio con i pezzi residuati dal camuffamento di targa operato dagli assassini di Mattarella. Nel 2004 tali reperti vennero stati distrutti. «Se fossero approfonditi a suo tempo sarebbe stato possibile ricostruire in modo completo le dinamiche dell’omicidio Mattarella», conclude Turone, ribadendo comunque «che Fioravanti e Cavallini sono stati assolti con sentenza definitiva dall’accusa di concorso nell’omicidio Mattarella» e tale ricostruzione è ora di «interesse meramente storico».

Omicidio Piersanti Mattarella, Fioravanti: «Ucciso dai Nar? Falcone non ci credeva». Damiano Aliprandi il 3 gennaio 2020 su Il Dubbio. 40 anni fa l’omicidio. L’ex terrorista sostiene che il giudice lo avesse incriminato per le pressioni ricevute. Anche Buscetta in antimafia disse: «Cosa Nostra non fa agire due fascisti per ammazzare un presidente della regione». «Giovanni Falcone non credeva alla mia colpevolezza, egli stesso mi disse che ha dovuto procedere ugualmente nei miei confronti per via delle pressioni che ricevette». Così l’ex capo dei nuclei armati rivoluzionari ( Nar) Valerio Fioravanti, contattato da Il Dubbio, spiega il motivo per il quale, nei confronti suoi e dell’altro ex Nar Gilberto Cavallini, il giudice Giovanni Falcone aveva spiccato un mandato di cattura per l’omicidio dell’allora presidente della regione Sicilia Piersanti Mattarella. Il sei gennaio ricorre il 40esimo anniversario della morte di Mattarella. A colpirlo, è un giovane che lo attende in prossimità dell’uscita del garage dal quale si appresta ad uscire alla guida della sua Fiat per recarsi ad assistere alla messa. I primi a soccorrere Mattarella è il fratello Sergio, l’attuale presidente della Repubblica. È lui a tirarlo fuori dall’abitacolo ancora agonizzante. Lo tiene in braccio, gli regge la testa, si aggrappa al suo ultimo brandello di vita e versa le prime lacrime quando cessa definitivamente di respirare. Per Giovanni Falcone quegli anni sono molto difficili. Una data cruciale è il maggio del 1990. Milioni di italiani sono incollati alla tv a guardare la puntata di Samarcanda, il programma di Rai3 condotto da Michele Santoro. Si parla di mafia e prende la parola il sindaco di Palermo Leoluca Orlando: «Io sono convinto, e me ne assumo tutte le responsabilità, che dentro i cassetti del Palazzo di Giustizia ce n’è abbastanza per fare chiarezza su questi delitti». Il delitto è quello Mattarella e i “cassetti” sono quelli dell’ufficio di Falcone. Si parla anche del coinvolgimento degli ex Nar e dietro le spalle dei presenti c’è la gigantografia di Valerio Fioravanti. «Qualche giorno dopo la trasmissione – racconta Fioravanti a Il Dubbio – Falcone viene da me al carcere di Rebibbia dove ero recluso, fa uscire la sua scorta e i collaboratori dalla stanza, e dopo avermi chiesto se avevo bisogno di un avvocato mi dice “Lei ha visto la televisione? Capisce che se io non procedo divento anche io un sodale della P2?” Questa è la spiegazione data per cui Falcone ha dovuto fare il mandato di cattura nei miei confronti». In realtà Fioravanti ha raccontato questo episodio, sentito come teste, anche durante il processo per la strage di Bologna dove è imputato Cavallini. Ma è possibile? Eppure in questi giorni la commissione Antimafia ha reso pubblico il verbale integrale dell’audizione di Falcone davanti alla commissione dell’epoca, datato 3 novembre 1988, dove parla proprio della pista “nera” per l’uccisione di Mattarella. Non ne ha parlato con enfasi, ma con cautela. Di certo, da lì a poco, – lui e altri suoi colleghi – spiccheranno un mandato di cattura nei confronti di Fioravanti e Cavallini. Ma, contestualmente, Falcone ha anche inquisito Giuseppe Pellegriti e Angelo Izzo per calunnia aggravata. Non è da poco, perché parliamo di due pentiti che secondo Falcone hanno depistato l’inchiesta. «Le indagini hanno finalmente rilevato in maniera inequivocabile come sia stato in realtà Angelo Izzo la vera fonte e ispiratore delle false rivelazioni di Pellegriti», scrive Falcone nel suo ultimo atto da procuratore aggiunto, prima di volare a Roma al ministero di Grazia e Giustizia. Ma chi avevano accusato come esecutore materiale del delitto Mattarella? Proprio l’ex Nar Fioravanti. Nell’ 89 Falcone ha già capito tutto. Dopo aver incriminato per calunnia aggravata Pellegriti, ha firmato con le stesse motivazioni anche un mandato di cattura per Izzo che invece era ritenuto credibile dal magistrato Libero Mancuso, l’allora Pm che indagava sulla strage di Bologna. Falcone ritiene di aver individuato in Izzo uno di quei misteriosi personaggi che si sono serviti di Pellegriti per sollevare un polverone. L’estremista di destra, condannato all’ergastolo per il massacro del Circeo, è stato anche uno dei principali accusatori di Fioravanti e Francesca Mambro nel processo per la strage di Bologna. Ed ha indicato ancora Fioravanti come killer di Mattarella. Dai magistrati bolognesi le sue rivelazioni sono sempre state prese sul serio, nonostante abbia in più occasioni fornito ricostruzioni lacunose e confuse. Izzo aveva anche suggerito a Cristiano Fioravanti di accusare il fratello Valerio. In un interrogatorio reso a Roma, il fratello di Fioravanti afferma di essere stato convinto da Izzo a parlare dei delitti Mattarella e Pecorelli. Egli, interrogato in merito alle accuse rivoltegli da Izzo, relative a un suo possibile coinvolgimento nell’omicidio di Mino Pecorelli, ha fornito una spiegazione di tale chiamata in reità traente origine dai rapporti che Izzo cercava di allacciare con Raffaella Furiozzi ( ex Nar), già sua fidanzata, dichiarando testualmente: «Mi viene da pensare che mi abbia accusato proprio per “eliminare il suo rivale in amore”». Falcone, a proposito del depistaggio, dirà qualcosa di più nel ’ 91 davanti al Csm. Parliamo di quel famoso interrogatorio subito dopo le accuse di Leoluca Orlando, Alfredo Galasso e Carmine Mancuso dell’allora movimento politico antimafia “La rete”. Gli chiedono spiegazioni del perché aveva inquisito Pellegriti e Izzo. Falcone, dopo aver ripercorso tutti i fatti, ha anche aggiunto: «Prima di interrogare Pellegriti ci sono state tutte una serie di strane frequentazioni del personaggio, poi ci sono stati dei convegni carcerari in cui certe persone hanno incontrato Pellegriti e continuano ad alzare il polverone». Il dato oggettivo è che il processo sui delitti eccellenti poi c’è stato e gli stessi pubblici ministeri hanno chiesto l’assoluzione degli ex Nar Fioravanti e Cavallini. Saranno infatti assolti definitivamente anche in Cassazione, mentre verranno condannati Totò Riina assieme ai sei mafiosi, compreso Izzo e Pellegritti per calunnia. D’altronde tutti i pentiti mafiosi ascoltati durante il processo hanno confermato che gli esecutori appartenevano alla cupola. Interessante ciò che disse Buscetta alla commissione Antimafia e ribadito poi durante il processo sui delitti eccellenti: «Le garantisco che i fascisti in questo omicidio non c’entrano. Quei due sono innocenti. Glielo garantisco. E chi vivrà, vedrà. Credo che Mattarella in special modo volesse fare della pulizia in questi appalti. Se andate a vedere a chi sono andati gli appalti in tutti questi anni, con facilità voi andrete a scoprire cose inaudite. Non avevano bisogno di due fascisti. La Cosa nostra non fa agire due fascisti per ammazzare un presidente della Regione. È un controsenso. Non esiste questa possibilità. E quei due accusati sono innocenti». Ma quindi Falcone era convinto della responsabilità degli ex Nar, oppure è vero ciò che ha raccontato Fioravanti a Il Dubbio “sul fatto che non ci credeva affatto? C’è il libro postumo “Cose di Cosa Nostra” dove la giornalista francese Marcelle Padovani ha raccolto le interviste fatte a Falcone. In un passaggio sui delitti eccellenti, così risponde Falcone: «(…) né è poi pensabile, conoscendo le ferree regole della mafia, che un omicidio ‘ eccellente’, deciso al più alto livello della Commissione, venga affidato ad altri che a uomini dell’organizzazione di provata fede, i quali ne avrebbero dovuto preventivamente informare solo i capi del territorio in cui l’azione si sarebbe svolta». Qui sembrerebbe che Falcone indirettamente scagioni gli ex Nar. Dal 2018 la procura di Palermo ha riaperto le indagini rispolverando la pista “nera” per il delitto Mattarella. L’ultima notizia, data con molta enfasi, riguarda l’ipotesi che la pistola usata dall’ex nar Cavallini per uccidere il giudice Mario Amato, sia la stessa che avrebbe ucciso Mattarella. In realtà non sono riusciti a dimostrarlo. Piersanti Mattarella era il presidente della regione Sicilia, le sue prime azioni erano volte al rinnovamento, puntando soprattutto sulla trasparenza dell’aggiudicazione degli appalti. Avrebbe dato un duro colpo al giro d’affari miliardario di Cosa nostra. Per questo, e non solo, Totò Riina ha deliberato la sua morte.

Francesca Fagnani per il Fatto Quotidiano il 7 gennaio 2020.

Valerio Fioravanti, lei per il delitto Piersanti Mattarella è stato processato e assolto. E ha ricordato che l'allora giudice istruttore Giovanni Falcone le disse di non credere alla sua colpevolezza, ma di aver dovuto procedere ugualmente per via delle pressioni ricevute. Da chi?

«Allora Falcone veniva osteggiato da tutti: non era del Pci, non era della Dc, a Palermo non lo volevano promuovere procuratore e il Csm non lo votò. Non credeva al "terzo livello" e questo gli provocò molte critiche. A Samarcanda Michele Santoro ospitò il sindaco Leoluca Orlando che parlò di "cassetti" del Palazzo di Giustizia pieni di elementi per far chiarezza su molti delitti. Alludeva ai cassetti di Falcone».

Ci dice qualcosa di più sulla circostanza in cui Falcone le avrebbe detto di non credere al suo coinvolgimento nel delitto Mattarella?

«Venne a Rebibbia, mandò fuori tutti, compresi la scorta e il maresciallo addetto al verbale. Anch'io feci uscire il mio avvocato. Verbalizzò lui stesso, a mano. Non mi contestò fatti specifici, ma mi chiese se avessi qualcosa da dirgli. Il mio contributo - risposi - è dirle che non c' entro nulla: se avessi un mandante da proteggere, confesserei e attribuirei il fatto a un amico morto. Farei felici tutti e otterrei uno sconto di pena. Ma non è così».

Incontrerà il magistrato Roberto Tartaglia, consulente della Commissione antimafia, che l' ha invitata a collaborare?

«Ho apprezzato i toni dell' ex pm. Non ho alcun problema a incontrarlo, ma se avessi saputo qualcosa lo avrei detto a Falcone al tempo. Lui mi disse "come magistrato e come siciliano" di non credere alla mia colpevolezza, ma di essere costretto a procedere, altrimenti lo avrebbero fatto passare per un piduista. Ci salutammo, due giorni dopo spiccò il mandato di cattura. L'ipotesi era che fossi l'anello debole tra la mafia e Andreotti. Mi misero in isolamento, in teoria per proteggermi, più probabilmente per farmi pressione. Dopo un po' un mio amico e coimputato chiese a Falcone il nullaosta per sposarsi. Falcone lo firmò e gli diede un biglietto col suo telefono dicendogli: fammi sapere se i bolognesi (intendendo i magistrati) esagerano con Francesca e Valerio. Lui stesso indagò per calunnia e depistaggio i due pentiti che mi accusavano dell'omicidio di Mattarella: Giuseppe Pellegriti e Angelo Izzo».

Chi è l' amico di cui parla?

«Lasciamolo tranquillo, è stato il mio testimone di nozze».

Ad accusarla fu anche suo fratello Cristiano, che tirò dentro pure Carminati (mai entrato nel processo Mattarella), per poi ritrattare.

«Cristiano era stato arrestato nell' 81, a suo carico c' erano un omicidio commesso da minorenne e due da maggiorenne; Walter Sordi, con otto omicidi, dopo sei mesi era fuori. La ragione era chiara. Dopo otto anni di carcere, Cristiano rese dichiarazioni molto "imbarazzate" e vaghe che alludevano a un mio coinvolgimento. Poi ritirò tutto. L' accusa contro di me era nata nel carcere di Paliano, dove erano riuniti i pentiti: Pellegriti, mio fratello Cristiano, Angelo Izzo e Raffaella Furiozzi».

Eravate così ai ferri corti?

«Cristiano mi aveva fatto molto male già tentando di far uccidere Francesca (Mambro, ndr)».

Aveva dato il suo indirizzo agli agenti della Digos che, in un appostamento al confine tra la Lombardia e la Svizzera, invece della Mambro, si trovarono di fronte Massimo Carminati e gli spararono.

«Fu lì che perse l' occhio».

Era amico di Carminati?

«Siamo stati compagni di classe per un anno in un liceo di Monteverde, era la scuola dei bocciati. Metà asini di destra, metà di sinistra. Massimo non era dei Nar e non è mai stato processato con noi, né io entrai mai in un processo alla Banda della Magliana. Non volevo fare il criminale, ero disposto a violare la legge per alcune cose, non certo per arricchirmi vendendo droga o facendo lo strozzino. Un conto è lo scambio di favori eccellenti con la banda raccontato da una certa letteratura, un altro i piccoli favori che si chiedevano in quegli ambienti».

Quali piccoli favori?

«Acquistare documenti falsi, una pistola rubata Per queste cose si andava in borgata».

La sentenza che condanna lei, Mambro e Luigi Ciavardini per la strage di Bologna è definitiva, anche se molti ne discutono le lacune. Vi siete sempre dichiarati innocenti. Come si è spiegato la condanna per strage?

«Da quanto continua a emergere, sembrerebbe che i nostri servizi segreti abbiano creato dal nulla una pista neofascista per tenere riservato un accordo con i terroristi palestinesi, i quali avrebbero provocato - non è chiaro se volontariamente o meno - l' incidente di Bologna. La pista nera metteva d' accordo tutti, sorretta dalla costruzione del mito letterario di un ventenne abilissimo e cattivissimo che non lascia prove. Ma, se la mancanza di prove è un' aggravante, come ti difendi?»

La sua era una famiglia borghese, lei aveva conosciuto da piccolo il successo come attore, aveva mille strade da percorrere. Invece a 15 anni ha scelto quella della violenza e della morte. Perché?

«Erano anni drammatici e di confusione, stare alla finestra a guardare ci sembrava la scelta più grave, era meglio schierarsi dalla parte sbagliata che non schierarsi affatto».

Diversamente dalle Br, non cercavate la rivoluzione né la presa del potere: per cosa avete ucciso e vi siete fatti uccidere?

«Abbiamo difeso il diritto degli sconfitti a esistere».

Ne è valsa la pena?

«Mia figlia direbbe di no. I miei amici sono tutti morti, la corrente ci ha trascinato, è andata così, è successo».

Dov' è finita tutta quella ferocia?

«È il termine giusto. Mia madre diceva: "Ho due figli, uno è cattivo, Cristiano, l' altro è feroce, Valerio". La ferocia ha a che fare con l' adolescenza, con l' incapacità di mediare. Non cercavamo la rivincita, ma il diritto a opporci con violenza alla frase "uccidere un fascista non è reato"».

Qual è stato il dolore più grande della sua vita?

«Temo che non sia ancora arrivato».

Qual è stata la prima volta che ha sparato?

«E se le dicessi che dovrei fare mente locale e non ho voglia di farla? Ho sbagliato tante cose nella mia vita e sarebbe troppo facile dire "Mi pento". Non si può rinnegare la propria storia, gli errori si pagano e basta. È un equilibrio difficile. Non ho chiesto la riabilitazione come altri, perché sarebbe eccessivo. Chi ci odia ha il diritto di odiarci».

La pietà ha mai avuto spazio nei vostri discorsi?

«La difficoltà era unire nella stessa persona il giudice e l' esecutore della sentenza. Un terrorista può emettere solo condanne a morte, consapevole che quelle scelte possono essere sbagliate. La convivenza con questo dubbio è la cosa più angosciante».

Qualche morto più degli altri non la fa dormire?

«Sì, ma non voglio dirlo. La vicenda che più mi turbò fu scoprire che una delle nostre vittime era più giovane di me».

Lei e la Mambro avete sparato insieme molte volte, vi hanno arrestati e nel 1985 vi siete sposati in carcere e oggi state ancora insieme. Come sopravvive un amore a tutto questo?

«Ci siamo amati quando ci sentivamo vincenti, poi è arrivata la sconfitta e abbiamo conosciuto i nostri limiti. Non si può mentire o taroccare la propria biografia con un testimone che sa tutto di te, compresa la sconfitta. Essendo già stati all' inferno, nulla ci spaventa».

Le pesa rievocare le pagine più buie della nostra storia a cui lei è associato? Preferirebbe essere dimenticato?

«Ho da anni un secondo mestiere: discolparmi dalle cose che non ho fatto. Mi distoglie dal senso di disagio e di colpa che provo rispetto a ciò che ho fatto davvero, mi risparmia dal doverne parlare, che per me è molto più doloroso».

Falcone e l’omicidio Mattarella: «Si potrebbe riscrivere la storia del Paese». Pubblicato lunedì, 23 dicembre 2019 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. A quarant’anni dal delitto la Commissione Antimafia pubblica l’audizione integrale del giudice che indagava sugli attentati politici di Cosa Nostra. «È un’indagine estremamente complessa perché si tratta di capire se, e in quale misura, la “pista nera” sia alternativa a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa», diceva Giovanni Falcone, nel 1988, a proposito dell’omicidio di Piersanti Mattarella, il presidente della Regione siciliana assassinato otto anni prima, il 6 gennaio 1980 nel centro di Palermo. Fra due settimane saranno passati quarant’anni esatti da quel delitto, e la commissione parlamentare Antimafia ha deciso di ricordare l’anniversario pubblicando il verbale integrale dell’audizione dell’allora giudice istruttore davanti alla commissione dell’epoca, datato 3 novembre 1988. In quel momento Falcone stava svolgendo indagini su un paio di terroristi neofascisti indiziati dell’uccisione dell’uomo politico, e nell’ipotesi della connessione tra estremismo nero e Cosa nostra aggiunse che quell’eventuale convergenza d’interessi «potrebbe significare altre saldature, e soprattutto la necessità di rifare la storia di certe vicende del nostro paese, anche da tempi assai lontani». L’audizione di Falcone e degli altri giudici istruttori del pool antimafia sopravvissuto alle polemiche con il nuovo capo dell’ufficio Antonino Meli, era finora coperta dal segreto (sebbene qualcosa fosse già trapelato in alcuni processi e qualche pubblicazione), e fa parte dei documenti che la commissione parlamentare ha deciso ora di rendere noti. In quel momento Falcone stava indagando soprattutto su Giusva Fioravanti, l’ex capo dei Nuclei armati rivoluzionari per il quale l’anno successivo avrebbe spiccato un mandato di cattura proprio per l’omicidio Mattarella, poi rinviato a giudizio insieme al presunto complice Gilberto Cavallini, anche lui militante dei Nar. Ma nel successivo processo in corte d’assise Fioravanti e Cavallini furono assolti su richiesta della stessa Procura, perché gli elementi raccolti furono giudicati insufficienti, e i verdetti di non colpevolezza furono confermati fino in Cassazione. Ma al di là delle sentenze, la cosiddetta «pista nera» ha continuato ad essere battuta dagli inquirenti negli anni successivi, fino all’ultima inchiesta della magistratura palermitana condotta dal procuratore Francesco Lo Voi e dal sostituto Roberto Tartaglia, oggi consulente dell’Antimafia che sta curando la desecretazione dei verbali. Sulle possibili connessioni tra Cosa nostra e neofascisti, Falcone nel 1988 ricordava che «i collegamenti risalgono a certi passaggi del golpe Borghese, in cui sicuramente era coinvolta la mafia siciliana. E ci sono inoltre collegamenti con la presenza di Sindona», il bancarottiere legato alla mafia che nei mesi precedenti all’assassinio del presidente della Regione si trovava clandestinamente in Sicilia, a stretto contatto con i boss della Cupola. «Questi elementi comportano la necessità di un’indagine molto approfondita che peraltro stiano svolgendo, e che prevediamo non si possa esaurire in tempi brevi», concluse Falcone. Il giudice, poi divenuto procuratore aggiunto di Palermo, fece tutto ciò che c’era da fare per portare a giudizio gli estremisti neri nel 1991, poi si trasferì a Roma per lavorare al ministero della Giustizia e un anno più tardi, nel 1992, fu ucciso nella strage di Capaci insieme alla moglie Francesca e tre agenti di scorta. Quando saltò in aria, Falcone era in corsa per guidare la neonata Procura nazionale antimafia, da dove avrebbe voluto riprendere in mano le indagini. Comprese quelle sugli omicidi politico-mafiosi, tra cui spicca il delitto Mattarella. Per il quale, nonostante la condanna dei componenti della Cupola come mandanti, a quarant’anni di distanza non si conoscono ancora gli esecutori materiali.

Piersanti Mattarella e Mario Amato uccisi dalla stessa pistola. «Due delitti fascio-mafiosi». La svolta nell'inchiesta aperta a Palermo dopo la perizia sulla calibro 38 usata dai sicari nei due agguati.  La relazione D'Ambrosio che è stata da poco desecretata, analizza la saldatura tra Cosa nostra e i Nar nell'omicidio del fratello del presidente della Repubblica avvenuto 40 anni fa. Lirio Abbate e Paolo Biondani il 23 dicembre 2019 su La Repubblica. C'è una pistola calibro 38 che collega l’omicidio del presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella, con l’assassinio del magistrato Mario Amato, ucciso a Roma il 23 giugno 1980. Il primo omicidio fu deciso dalla cupola di Cosa nostra, ma gli esecutori sono sempre rimasti ignoti. Il secondo fu organizzato e portato a termine dai terroristi neri dei Nuclei armati rivoluzionari (Nar). La connessione fra i due delitti sta in una Colt modello Cobra calibro 38 special. È l’arma sicuramente impugnata dal killer neofascista Gilberto Cavallini per sparare un solo colpo alla nuca di Amato. Per l’assassinio del magistrato sono stati già da tempo condannati esecutori e mandanti, tutti terroristi di destra. Un anno fa, il procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, ha riaperto l’inchiesta sull’omicidio Mattarella, per cercare di dare un nome agli esecutori materiali. La svolta nelle nuove indagini emerge da una perizia sulle armi: la pistola che ha ucciso il magistrato risulta «coincidente» con la calibro 38 che era stata utilizzata sei mesi prima per eliminare l’autorevole politico siciliano, fratello dell’attuale Presidente della Repubblica, e fermare la sua azione di rinnovamento della Dc e di contrasto alla mafia e ai suoi complici. In questi mesi i carabinieri del Ros hanno fatto un grande lavoro di ricostruzione di tutti i delitti dei Nar e delle armi utilizzate. E hanno esaminato, fra tanti vecchi reperti recuperati in vari tribunali, pure la Colt calibro 38 che venne indicata per la prima volta nel 1982 dal collaboratore di giustizia Walter Sordi come l’arma usata da Cavallini per l’omicidio Amato. Quella pistola, come ha spiegato Sordi ai giudici (che lo hanno considerato attendibile) era «delicata» e aveva «dei difetti», perché poteva incepparsi. Il killer che ha ucciso Piersanti Mattarella ha sparato otto colpi con due armi diverse: dopo aver esploso i primi quattro, ha dovuto utilizzare una seconda pistola, passatagli da un complice, perché la prima si era inceppata. La nuova indagine però si è scontrata con un problema tecnico. I proiettili estratti dal corpo della vittima hanno subito in questi 40 anni microscopiche alterazioni: si sono ossidati, per il cattivo stato di conservazione dei reperti. Il piombo, poroso, ha modificato le striature provocate dall’attrito con la canna della pistola. Nonostante questo, gli specialisti del Racis dei carabinieri sono riusciti a comparare i proiettili dell’omicidio Mattarella con la Cobra usata dai Nar a Roma. Il risultato è «coincidente»: significa che c’è una probabilità molto alta che l’arma sia la stessa. La certezza assoluta non si può più avere, perché l’usura del tempo ha danneggiato i reperti: un confronto esatto al cento per cento è ormai diventato impossibile, con qualunque arma. Ma tutti i dati disponibili collegano quei proiettili proprio con la pistola dell’omicidio Amato: la calibro 38 special usata dai Nar. La procura è cauta, percorre la pista mafiosa, ma torna ad allungarsi l’ombra del terrorismo nero sull’omicidio di Piersanti Mattarella, ucciso il 6 gennaio 1980 davanti alla sua abitazione in pieno centro a Palermo. Il killer è un giovane appostato davanti al suo garage. Il presidente esce in auto, al volante, al suo fianco c’è la moglie, Irma Chiazzese. Il sicario esplode i primi quattro colpi attraverso il finestrino. Poi la Colt si inceppa. Quindi il killer si avvicina alla Fiat 127, rubata la sera prima, dove c’è un complice che gli passa un revolver Smith & Wesson. Con questa arma il killer spara altri quattro colpi contro la vittima e ferisce la moglie. L’assassino è a volto scoperto e viene visto da altri cinque testimoni: è un uomo sui 25 anni, con l’aspetto da bravo ragazzo, alto circa un metro e settanta, corporatura robusta, capelli castani, occhiali scuri a specchio. La vedova di Mattarella aiuta a disegnarne l’identikit e poi riconosce il capo dei Nar, Valerio Fioravanti, nelle foto pubblicate dopo l’arresto, come una persona molto simile a lui. «Quando dico che è probabile che nel Fioravanti si identifichi l’assassino, intendo dire che è più che possibile», precisa la testimone, «ma non sono in grado di formulare un giudizio di certezza». Nel luglio 1986 la vedova aggiunge un particolare: il killer aveva uno strano modo di camminare, «un’andatura ballonzolante». Un terrorista dei Nar, Stefano Soderini, diventato collaboratore di giustizia, viene interrogato dal giudice istruttore Giovanni Falcone, che indaga sugli intrecci tra mafia e destra eversiva. Soderini gli conferma che «la descrizione del killer riferita dalla vedova si attaglia a Valerio Fioravanti», che era soprannominato «l’orso» per quella sua andatura: «Fioravanti si muoveva così anche quando era in azione. Questo suo modo di comportarsi, quasi giocherellone, spiazzava le persone, che non si accorgevano delle sue reali intenzioni se non quando era troppo tardi». Le indagini di Falcone fanno emergere altri indizi. Dopo l’arresto, anche Cristiano Fioravanti accusa il fratello Valerio di avergli confidato di aver ucciso Mattarella insieme a Cavallini, che avrebbe guidato l’auto rubata. Una presunta ammissione che però è viziata da reticenze e depistaggi orditi dallo stesso Giusva. Poi, a partire dal 1988, il pool di cui fa parte Falcone viene smantellato. E a Palermo i vertici giudiziari abbandonano le indagini sui Nar. In mancanza di prove certe, Fioravanti e Cavallini vengono assolti in tutti i gradi di giudizio. La sentenza che li proclama innocenti è definitiva. Per l’omicidio di Mattarella vengono quindi condannati solo i mandanti: la cupola mafiosa. I retroscena politici del delitto vengono ricostruiti nei dettagli nel processo a Giulio Andreotti: l’accusa di mafia per l’ex premier è confermata fino alla primavera del 1980, ma viene cancellata dalla prescrizione. Da allora in Sicilia i collaboratori di giustizia sono diventati centinaia. Ma nessuno ha saputo indicare i due esecutori: qualche pentito ne ha parlato “de relato”, per sentito dire, senza mai una conoscenza diretta dei fatti. L’origine mafiosa, però, per la procura è fuori discussione, anche se l’identità dei killer resta un mistero perfino per i boss di Cosa nostra che in questi anni si sono pentiti. Strano, per un delitto eccellente come quello del presidente della Regione. E strane sono anche le modalità dell’esecuzione. E l’arma utilizzata. I sicari mafiosi usavano altri modelli di pistole e soprattutto mitra: quasi mai hanno impugnato una Colt. Anche per questo, Falcone ha indagato sull’ipotesi di una saldatura tra mafia e Nar, che si sarebbe realizzata attraverso i rapporti (accertati) tra la Banda della Magliana e Pippo Calò, il boss di Cosa nostra a Roma, condannato per la strage terroristico-mafiosa del treno di Natale (23 dicembre 1984, 16 vittime). Il giudice ucciso a Capaci non era il solo a credere nella pista “fascio-mafiosa”. Più di un anno fa la commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi, allo scadere del suo mandato, ha tolto il segreto alla relazione sul delitto Mattarella che venne redatta nel 1989 dal magistrato Loris D’Ambrosio, allora in servizio all’Alto commissariato. D’Ambrosio era legatissimo a Falcone e ha proseguito la sua indagine. Nella relazione spiega che «l’inesistenza di piste mafiose per gli autori materiali non implica, sia ben chiaro, l’esclusione della matrice mafiosa dell’omicidio». Nel documento di 123 pagine, con decine di allegati, D’Ambrosio conclude che non era solo mafia: «Si tratta di un omicidio di politica mafiosa», che «attraverso una serie di confluenze operative ed ideative apparentemente disomogenee, è in grado di dare il senso compiuto dell’anti-Stato». Mattarella viene ucciso come «nemico dell’anti-stato». E proprio la scelta di affidare l’esecuzione a terroristi neri permette ai capi di Cosa nostra di «disorientare l’opinione pubblica e l’apparato investigativo» e dimostrare «alla stessa organizzazione quanto devastante ed estesa sia la capacità di espansione e controllo che l’anti-Stato è in grado di esercitare». La relazione di D’Ambrosio arriva al giudice Antonino Meli, il rivale di Falcone, nel settembre 1989. E Meli la ignora, rifiutandola per un vizio di forma: impone che venga firmata da Domenico Sica, il capo dell’alto commissariato. Le nuove indagini hanno scoperto altri indizi e accertato che esponenti dei Nar erano a Palermo nello stesso giorno dell’omicidio. Sulla modalità di falsificazione della targa dell’auto dei killer, identica alla tecnica usata dai Nar è stato accertato che in un covo in Piemonte furono trovati resti di una targa analoga, che però è risultata rubata dopo l’omicidio Mattarella. Le indagini proseguono, alla ricerca di altri elementi di prova, come un guanto lasciato da uno dei sicari nella Fiat 127: un reperto che i carabinieri e i pm di Palermo confidano ancora di recuperare, per sottoporlo ai moderni test del Dna. E smascherare finalmente i killer.

Quel filo nero che lega l’omicidio Mattarella all’esecuzione di Amato. Pino Casamassima il 27 Dicembre 2019 su Il Dubbio. La storia della calibro 38 che uccise il magistrato e il presidente della regione Sicilia. Il giudice fu ucciso dal Nar Gilberto Cavallini il 23 giugno 1980. In quel periodo stava indagando sull’eversione neofascista nel Lazio. Succede. Non sempre, ma succede. E cioè che la verità storica si saldi con quella giudiziaria. È successo con la strage di Brescia. Non con quella dell’Italicus. Tantomeno con Piazza Fontana, con cui debuttò la stagione delle stragi. E successo con la strage di Bologna ( già vedo insorgere le truppe dei – troppi – innocentisti pasdaran della coppia Fioravanti- Mambro cui prevedo di dare prossimamente un ulteriore dispiacere): quella dei Nar come esecutori. Quei Nar che ciclicamente tornano alla ribalta per qualche marachella nuova ( vedi Massimo Carminati) o vecchia ( vedi Gilberto Cavallini). La multiforme carriera di Carminati è stata interrotta da “Mafia capitale”. “Il Negro” – come Cavallini veniva affettuosamente chiamato nella conventicola d’appartenenza – già inguaiato per il processo che con altra imputazione rispetto alle precedenti lo vuole alla sbarra per la strage di Bologna ( la sentenza è attesa per la fine di gennaio), vede uscire di nuovo il suo nome per colpa di una pistola. Una Colt Cobra calibro 38, che torna a fumare. Con quella pistola, il 23 giugno 1980, Cavallini uccise a Roma con un colpo alla nuca il sostituto procuratore Mario Amato. L’eliminazione del magistrato che stava indagando sull’eversione neofascista nel Lazio, fu poi festeggiata dalla coppia Fioravanti- Mambro con ostriche e champagne mentre stilava il volantino di rivendicazione. Non trascurò – la coppia nera – di sottolineare le scarpe buche di un uomo che chiudeva “imbottito di piombo, la sua squallida esistenza”. Con quella pistola – dicono ora le ultime risultanze scientifiche svelate da Lirio Abbate e Paolo Biondani nell’ultimo numero de L’Espresso – fu ucciso sei mesi dopo a Palermo Piersanti Mattarella, presidente della regione Sicilia, nonché fratello dell’attuale presidente della Repubblica. Era il 6 gennaio 1980, e con quell’omicidio si chiudeva la stagione politica che aveva visto compiersi a livello regionale l’ambizioso quanto ardito ( e pericoloso…) progetto di Moro di portare il Pci di Berlinguer al governo nazionale. Grazie a una pistola si riapre quindi una vicenda drammatica. Una scoperta che dimostra come la Storia non chiuda mai il suo sipario. Nonostante i quattro decenni passati – con tutti i problemi derivanti dalla alterazione dei reperti ( anche perché, tanto per cambiare, mal conservati) – le risultanze del Raggruppamento Carabinieri Investigazioni Scientifiche ( Racis) indicano la stessa arma per i due omicidi. Un risultato che riapre lo scenario – già ipotizzato ma finora privo di prove – di una azione di mutuo soccorso fra mafia e neofascismo: nella fattispecie, i corleonesi e i Nar. Che i Nuclei Armati Rivoluzionari fossero entrati in contatto con gli “uomini d’onore” siciliani con la stessa disinvoltura con cui trafficavano con la Banda della Magliana era una ipotesi storica che potrebbe trovare ora il suo corrispettivo giudiziario Killer, che aveva agito a volto scoperto, e indicato come un giovane sui 25 anni, alto attorno al metro e settanta, dalla corporatura robusta e i capelli castani. È con queste fattezze che lo indica anche la signora Irma Chiazzese Mattarella nella ricostruzione dell’identikit dell’omicida di suo marito. Le fattezze di Valerio Fioravanti. Una identificazione irrobustita da un particolare: lo strano modo di muoversi del killer durante l’agguato. Un’andatura particolare «ballonzolante», che si addice al Fioravanti, chiamato Orso nel suo ambiente proprio per quella sua caratteristica: «Quel suo modo quasi giocherellone di muoversi – dichiarerà a Giovanni Falcone Stefano Solderini, un altro pentito dei Nar – spiazzava le vittime, che si accorgevano delle sue reali intenzioni quando era ormai troppo tardi». A uccidere Mattarella – stando anche all’accusa mossagli da suo fratello Cristiano – sarebbe stato insomma Valerio Fioravanti, con Gilberto Cavallini come complice. Ma sia Giusva che “Il Negro” saranno assolti con sentenza definitiva. Dell’omicidio verranno condannati solo i mandanti: Salvatore Riina, Michele Greco, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Francesco Madonia, Nenè Geraci, vale a dire la cupola mafiosa.

Succede insomma che – contrariamente ad altri casi – si conoscano, si mandino a processo e si condannino i mandanti, non gli esecutori. Per meglio dire, è questo che emerge dalla verità giudiziaria. Sul piano storico, possiamo ipotizzare verosimiglianze più che verità accertate, mettendo in sequenza gli avvenimenti, le ragioni dei loro intrecci, oltre a quelle parole che – per una ragione o per un’altra, non certo per momentanea follia – vengono pronunciate da “chi sa”.

In questo caso, “a sapere”, è Cristiano Fioravanti, che accusa suo fratello di aver ucciso Mattarella con la complicità di Cavallini alla guida della Fiat 127 rubata la sera prima dell’agguato. Ma tutto il castello accusatorio crolla contestualmente alla sottrazione a Giovanni Falcone delle indagini su mafia ed eversione neofascista, nonostante – o forse proprio per questo – le dichiarazioni di Francesco Mannoia, altro collaboratore di giustizia, che tira in ballo Giulio Andreotti. In almeno due incontri con capi mafiosi, Andreotti avrebbe discusso con essi di Mattarella. Riunioni – favorite da Salvo Lima ( ucciso dalla mafia nel 1992) – con Stefano Bontade, i cugini Salvo e altri capi mafiosi. «Ho saputo tutto ciò dallo stesso Bontade, che me ne parlò fra la primavera e l’estate del 1979» afferma il Mannoia. Al centro degli incontri, le lamentele di Cosa nostra nei confronti del presidente della Regione Sicilia, diventato un vero e proprio ostacolo ai loro traffici. Il teste Mannoia fu ritenuto inattendibile nel corso del processo di primo grado ad Andreotti: un giudizio completamente ribaltato in secondo grado, con successiva conferma della Cassazione. Sul punto fa chiarezza la sentenza del 12 aprile 1995 dei giudici di Palermo: «L’istruttoria e il dibattimento hanno dimostrato che l’azione di Piersanti Mattarella voleva bloccare proprio quel perverso circuito ( tra mafia e pubblica amministrazione) incidendo così fortemente proprio su questi illeciti interessi». I giudici della Corte d’Appello e della Cassazione stabilirono contestualmente che Andreotti ebbe rapporti organici con Cosa nostra fino al 1980. Agli atti resterà quindi solo la condanna nei confronti dei capi mafiosi e gli stessi autori materiali riusciranno a sgusciare fuori dalla vicenda. Finora. Vale a dire fino allo scorso anno, quando la commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi ha desecretato la relazione redatta nel 1989 dal magistrato Loris D’Ambrosio, nelle cui 123 pagine si spiega come quella di Mattarella fosse stata «una eliminazione necessaria» contro un nemico di Cosa nostra. Relazione che una volta arrivata nelle mani del giudice Antonino Meli, viene però rigettata per un vizio di forma. Punto e a capo. A riprendere le fila della vicenda, quella che potremmo definire come una sorta di provvidenza laica. Succede infatti che le ultime risultanze d’ordine scientifico indichino un’unica pistola per due agguati: un filo conduttore che partendo dal giudice Amato e arrivando al presidente Mattarella, unisca Nar e Cosa nostra. Indagini scientifiche che potrebbero portare altri svelamenti grazie a un guanto trovato nella Fiat 127 usata per l’omicidio Mattarella, dal quali si potrebbe estrarre il Dna e da esso risalire a uno dei killer. Sul piano della ricostruzione anche grazie a quella pistola, a riportare tutto ai Nar è pure l’accertata presenza di Fioravanti a Palermo in quei giorni per incontrarsi con Francesco Mangiameli di Terza Posizione, l’organizzazione neofascista fondata nel 1978 da Roberto Fiore, Giuseppe Dimitri e Gabriele Adinolfi. Il Meli, professore di Lettere col vizio dell’eversione, sarebbe stato ucciso nel settembre successivo. Mentre Valerio lo accusava di essersi appropriato di soldi dell’organizzazione, Cristiano aveva esploso il primo colpo, passando poi l’arma a suo fratello, che dopo aver sparato l’avrebbe poi data a Giorgio Viale per il colpo finale. La vera ragione di quella eliminazione, a detta degli stessi giudici che condannarono i killer, è però riconducibile ad altro, cioè alla strage di Bologna. Non a caso, Valerio Fioravanti riteneva che bisognasse eliminare anche la moglie e la figlia del Mangiameli, che avevano avuto modo di sentire qualcosa relativamente alla strage. Sette mesi prima dell’eccidio più crudele della storia repubblicana, i Nar si sarebbero incaricati di uccidere Mattarella, che però con loro – a rigor di logica – non c’entrerebbe nulla. Se l’omicidio Amato si spiega infatti con il lavoro – pericolosissimo per i Nar – che il giudice stava svolgendo nei confronti dell’eversione neofascista laziale, quello di Mattarella era voluto dalla mafia. La spiegazione sta in una convergenza di interessi, che vede da una parte l’organizzazione neofascista e dall’altra la cupola mafiosa. Cosa nostra, utilizzando i Nar, aveva modo di intorbidare le acque, spostando l’attenzione su un movente peculiarmente terroristico. Lo stesso utilizzo di armi “incoerenti” con quelle usate dai sicari mafiosi ( mitra, non pistole) contribuiva ad allontanare il focus dal vero movente politico/ affaristico. Da parte loro, entrando in contatto con Cosa nostra, i Nar – i cui rapporti con la criminalità organizzata erano consolidati – compivano con quell’omicidio un evidente salto di qualità facendo un favore alla mafia. Lo step successivo sarebbe stata la strage alla stazione di Bologna ( su cui torneremo), il cui mosaico sta per arricchirsi di una nuova tessera con il processo Cavallini che sta vivendo le fasi finali. proprio grazie a quella Cobra. La prima volta che quella pistola fece la sua comparizione fu due anni dopo quei duplici omicidi, quando Walter Sordi, “pentito” dei Nar, la indicò come l’arma usata dal Cavallini contro Amato. Una pistola difettosa perché poteva incepparsi.

Si chiamava Piersanti…Ecco chi era il fratello del presidente Mattarella, ucciso dalla mafia il 6 gennaio 1980. Aldo Varano l'8 giugno 2018 su Il Dubbio.  Il congiunto del “Congiunto”, secondo l’imbarazzante linguaggio del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, occupa la più alta carica dello Stato, l’unica a possedere un’aurea di sacralità ( pregasi Di Maio e il Dibba prendere appunti), per la vicenda politica e umana di Piersanti Mattarella. Non sapere di Piersanti, il fratello grande di Sergio, attuale presidente della Repubblica, non significa quindi disconoscere vicende di sagre familiari e/ o parentele eccellenti ( che sarebbe perfino un merito) ma non possedere nel proprio bagaglio una delle radici più significative della storia della Repubblica. La radice degli anni Ottanta che ha unito in un groviglio tragico ed eroico le vite di personaggi come Cesare Terranova e Dalla Chiesa, Bachelet e Walter Tobagi, Pio La Torre e Giovanni Falcone, Boris Giuliano e Gaetano Costa, Basile e Borsellino e tanti altri, per non dire delle vite divorate bestie mafiosa e terroristica, donne e uomini delle scorte e/ o impegnati nelle indagini, fino a semplici e coraggiosi cittadini impegnati a far muro per difendere la Repubblica. Luciano Violante, osservatore privilegiato di quegli anni, avrebbe successivamente testimoniato: «Ci sentivamo molto impegnati, questo il mio ricordo, in una lotta per la democrazia… l’impressione era che un sistema di poteri separati e illegittimi, cogliendo l’occasione di un’assenza di strategia da parte dei partiti maggiori, ne approfittasse». Piersanti Mattarella fu uno di quegli eroi ed ebbe un ruolo di assoluto rilievo. Ucciso toccò al fratello più giovane Sergio ( minore di sei anni), caricarsi la responsabilità di raccoglierne l’eredità e lo fece spezzando una scelta di vita fin lì interamente dedicata agli studi giuridici. Chi conobbe Sergio Mattarella negli anni successivi alla sua tragedia familiare, nonostante la sua riservatezza, non ebbe dubbi sulla sofferenza e il senso del dovere di quella scelta, improvvisa e immediata come lo sgorgare del sangue di Piersanti sulla macchina da cui Sergio, con la cognata e la propria moglie, le sorelle Irma e Maria Chiazzese che avevano sposato i fratelli Mattarella, lo tirò fuori per una corsa disperata e inutile verso il pronto soccorso di Villa Sofia a Palermo dove Piersanti morì subito. Non erano ancora terminati i festeggiamenti del nuovo anno quando un po’ dopo le 12,50 di quel 6 gennaio 1980, vigilia attesissima della lotteria di Fantastico, spettacolo condotto da Beppe Grillo e Loretta Goggi, arriva l’Ansa: «Un giovane, con un complice, uccide con sei colpi di pistola calibro 38 special il presidente della Regione Sicilia, il Dc on. Piersanti Mattarella ( 45 anni) e ferisce alle mani la moglie, Irma Chiazzese, che ha cercato di proteggere il marito. L’attentato avviene a viale della libertà, mentre Piersanti Mattarella, con sua moglie, i figli Bernardo e Maria, la cognata Maria Chiazzese, sta tornando a casa in automobile dopo essere stato alla messa». «Con la morte di Mattarella – scriverà Antonio Calabrò, scrittore giornalista e già direttore editoriale di Sole24 nel suo illuminante “I mille morti di Palermo, Mondadori 2016– s’interrompe la brillante carriera politica di un uomo che avrebbe presto potuto prendere il posto di Aldo Moro, ai vertici della Dc e forse, a Palazzo Chigi, alla guida del governo nazionale», un giudizio assolutamente equilibrato, che rilancia valutazioni del tempo fondate sullo svolgimento degli avvenimenti di quegli anni. Piersanti viene ammazzato molto probabilmente grazie a una sinergia tra Cosa nostra e terrorismo nero. Giovanni Falcone firmando l’indagine sui rapporti tra mafia e neofascismo accusa Valerio “Giusva” Fioravanti, riconosciuto anche dalla moglie di Mattarella, il killer “nero” collegato alla banda della Magliana e ad altri episodi di terrorismo nero. Ma questa parte dell’indagine di Falcone, non viene ritenuta sufficiente per la condanna di Fioravanti che, invece, arriva per l’intera Commissione di Cosa nostra capeggiata da Totò Riina. L’identità dell’assassino di Piersanti farà parte dei misteri di quegli anni. Un dettaglio significativo per capire il valore e il retroscena politico, di straordinario spessore connesso all’omicidio. Piersanti dev’essere apparso come un matto a Cosa nostra e ai notabili del potere siciliano che montano e smontano affari e carriere, poteri ed appalti in un giro vorticoso e miliardario dove si entra accettando le regole del gioco in gran parte fissate dalla mafia. Non ha fatto in tempo a mettere piede nella stanza più importante di Palazzo d’Orleans che chiede al Comune di Palermo di bloccare un appalto ( 6 miliardi di lire, siamo nel 1978!) per la costruzione di alcune scuole. Un’iniziativa che alla fine svelerà che l’appalto era truccato ( allora, a Palermo, quasi la norma) e non a caso era stato vinto da un gruppo d’imprese capeggiato da Rosario Spatola, cugino di Totuccio Inzerillo e amico di Stefano Bontade, uomini importanti del mondo di Cosa nostra magnificamente introdotti nelle stanze più potenti del Comune di Palermo, dove Vito Ciancimino faceva il giorno e la notte. Come non bastasse vuole riformare gli investimenti regionali in agricoltura. Ancora: manovra per far saltare l’assessore ai lavori pubblici della Regione guidato da un parlamentare del Pri non insensibile alle pressioni mafio-malavitose. Ma Piersanti non era un matto. Aveva perfetta consapevolezza dei rischi che correva. Commemorando all’Assemblea regionale l’assassinio del giudice Terranova e del suo autista Lenin Mancuso, aveva scandito: «Oggi avvertiamo un senso di profonda preoccupazione e di inquietudine, non solo per la gravità di quel che accade in questa città, ma anche per il verificarsi di una specie di assuefazione a fatti di violenza come questi, per il verificarsi di una sorte di fuga dalla coscienza, come se questi fossero fatti ed episodi isolati che appartengono a poche persone». Siamo a fine settembre del 1979. Mancano meno di quattro mesi alla morte di Piersanti. Lui sa che non si tratta di poche persone e non ha intenzione di fuggire dalla propria coscienza. Per questo oltre al fronte del rinnovamento in Sicilia ne ha aperto un altro nazionale che tende a indebolire e scardinare il vecchio ceto politico siciliano a partire dal quello del proprio partito. Ha parlato a Roma con Benigno Zaccagnini, segretario nazionale della Dc, per aprire uno scontro con la parte arretrata Dc e punta a recuperare la tradizione e il lascito dei cattolici democratici che in Sicilia ha una storia importante da Sturzo fino allo stesso padre di Piersanti e Sergio, il più volte ministro Bernardo. Un intervento che non piace alla Dc di don Vito Ciancimino. Padre Pintacuda testimonierà davanti ai giudici: «Mattarella si sentiva isolato». E aggiunge: «Temeva qualcosa di estremamente grave, in quanto aveva visto interrompersi quell’area di crescente consenso, anche all’interno della Dc, che vi era stato sin dalla costituzione del suo primo gabinetto». La reazione cresce rapidamente tra i vecchi padroni di Palermo. Piersanti se ne rende conto. Ma anziché gettare la spugna cerca soluzioni a favore della sua terra. A Roma informa il ministro dell’Interno, Virginio Rognoni. Tornato a Palermo chiama nella propria stanza il proprio capo gabinetto, l’unica persona di cui si fida e le dice testualmente: «Le sto dicendo una cosa che non dirò né a mia moglie né a mio fratello ( Sergio, ndr). Questa mattina sono stato con il ministro Rognoni ed ho avuto con lui un colloquio riservato sui problemi siciliani. Se dovesse succedere qualcosa di molto grave per la mia persona, si ricordi questo incontro col ministro, perché a questo incontro è da collegare quanto di grave mi potrà accadere». Una chiara anticipazione di quel che accadrà. Rognoni dirà poi agli inquirenti: «Denunciò un quadro allarmante, l’esistenza di un establishment che ostacolava la sua intenzione di fare pulizia soprattutto nel campo degli appalti che aveva un referente politico dentro il partito ( la Dc, ndr) nella persona di Vito Ciancimino. Ma aggiunse che sarebbe andato avanti convintamente e serenamente e non si parlò di rischi o minacce per la sua persona». Non si è saputo altro sull’esecuzione di Mattarella. Ed è questo il particolare più illuminante della vicenda. Francesco Crescimanno, legale di fiducia della famiglia Matterella ha spiegato in Cassazione: «Il delitto del presidente della Regione appartiene a una fascia di estrema delicatezza politica, seconda per gravità solo al delitto di Aldo Moro: e per essere interamente attribuito alla mafia è curioso che all’interno di Cosa nostra non circolino molte notizie».

Omicidio Mattarella, il falso “scoop” dell’Espresso. Un tribunale ha assolto Cavallini, di nuovo tirato in ballo. Massimiliano Mazzanti venerdì 27 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Riceviamo da Massimiliano Mazzanti e volentieri pubblichiamo: Caro direttore, Landolfi: “Torno a vivere dopo 12 anni”. E ora l’ultima tappa della battaglia giudiziaria. Non è una novità che, a carico di Gilberto Cavallini, sotto processo a Bologna per la Strage del 2 agosto 1980, si tenti di perfezionare la così detta opera di “mostrificazione”, addossandogli l’assassinio di Pier Santi Mattarella. Addossargli è certamente il verbo più attagliato alla situazione, visto che Cavallini, per l’assassinio del fratello del capo dello Stato, è stato assolto in via definitiva. Questo, però, non preoccupa minimamente i giornalisti de “L’Espresso” – sempre ansiosi di manifestare come implacabile il loro antifascismo militante (in)degno d’altre epoche -, per i quali ci sarebbero niente di meno che “novità scientifiche” a supporto della tesi crollata in tribunale. Oddio, cosa ci sia di “scientifico” è tutto da capire, in questa storia della pistola usata per uccidere Mattarella che, secondo le suggestioni de “L’Espresso”, potrebbe essere la stessa poi usata per assassinare il giudice Mario Amato. Infatti, secondo la Procura di Palermo e gli investigatori della “Scientifica”, a collegare le due pistole ci sarebbe solo l’orientamento delle rigature sui proiettili – che vanno verso sinistra – e che farebbero presupporre l’uso di un revolver di marca “Colt” e modello “Cobra”. Orbene, può essere benissimo che quella caratteristica balistica fosse tipica proprio di quell’arma, ma è certo in modo assoluto – come scrisse, per esempio, il 3 gennaio 2017 Claudio Bigatti per la rivista specializzata “Armi e Tiro” – che la “Cobra” fosse il “revolver per difesa tra i più famosi e di successo della casa americana”. In altre parole, si tratta di una delle pistole più vendute al mondo, nel trentennio che va dal 1950 al 1981. Un po’ poco per smontare una sentenza passata in giudicato e che vide chiedere l’assoluzione in primo e secondo grado per Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini niente meno che su richiesta della pubblica accusa, rappresentata da Giuseppe Pignatone. Perché mai, allora, tanto rumore per nulla? Per di più, dopo che proprio il presidente della Repubblica, fratello della vittima, ha lanciato di recente un appello contro i revisionismi sulla storia del terrorismo in Italia? Il duplice obbiettivo sembra chiaro: da una parte, raffigurare Cavallini in modo che i giudici della Corte d’Assise di Bologna, in particolare quelli “popolari”, non abbiano esitazione alcuna nell’emettere un verdetto di condanna nei suoi confronti; dall’altra, sottacere l’unico elemento di novità emerso dal dibattimento appena concluso nel nuovo processo per la Strage alla stazione: l’esistenza – questa sì appurata scientificamente e in modo incontrovertibile – di una 86esima vittima. Una vittima in più di cui nessuno vuole parlare, poiché  sconvolge definitivamente il quadro cristallizzato delle menzogne raccontate e affermate anche nei tribunali dal 1980 sull’attentato più grave mai compiuto in Italia.

Omicidio Mattarella, per il sacrosanto “diritto alla verità” bisogna ripartire dai fatti. Dopo le recenti piste riesumate che hanno deviato dal movente e dall’esecuzione del delitto mafioso politico, ora si punta a Nino Madonia come esecutore del delitto Mattarella. Anni persi a riesumare il discorso ex Nar, sulla pistola e le targhe alterne, mentre sfuggiva che era una modalità mafiosa di altri delitti eccellenti. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 6 gennaio 2023

Sono passati 43 anni dall’omicidio “politico – mafioso” dell’ex presidente della regione siciliana Piersanti Mattarella. Il presidente del tribunale di Palermo, il giudice Antonio Balsamo, ha proposto l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta per fare luce “su tutti quegli aspetti ancora oscuri sulla nostra storia recente". Balsamo parla giustamente del “diritto alla verità” ed è indubbiamente una necessità per la collettività. Nel contempo, però, ci si augura che tale diritto non venga intossicato da ricostruzioni ampiamente smentite. In questi ultimi anni, le commissioni di inchiesta, organismo politico, sembrano più propense a ricostruzioni suggestive che a un attento studio degli elementi oggettivi. Troppi anni sono stati persi, come ad esempio le recenti inchieste fallimentari della scorsa procura di Palermo che aveva riesumato la pista nera degli ex Nar. E infatti, dopo più di 40 anni, finalmente si punta al sicario mafioso rimasto ancora senza nome.

Un nome in realtà era già emerso. Sull’omicidio di Piersanti Mattarella già la Corte d'Assise d'Appello aveva evidenziato, nel 1998, nel decidere il processo sugli omicidi politici, la somiglianza fisica tra Nino Madonia e Giusva Fioravanti, oltre al dato - sottolineato da diversi pentiti - relativo alla assoluta incredibilità dello scambio di favori tra mafia e neri dato che i killer e i "soldati" pronti a sparare a Cosa nostra di certo non mancavano. E infatti i delitti eccellenti, presentano esattamente lo stesso modus operandi. In maniera suggestiva si era parlato della pistola calibro 38 e la targa falsificata con due spezzoni di diverse targhe. Si era detto che anche i Nar usavano la stessa tipologia di arma e che la targa falsificata era un metodo anomalo per la mafia.

Come Il Dubbio già sviscerò, abbiamo l’esempio dell’omicidio del giornalista Mario Francese, considerato tra i primi delitti eccellenti mafiosi, che fu ucciso il 26 gennaio del ’79. Dagli atti emerge che l’unico proiettile repertato proveniva da un revolver calibro 38 special, del tipo Smith & Wesson. Stesso tipo di arma che avrebbe ucciso due mesi dopo il segretario provinciale della Democrazia cristiana, Michele Reina e un anno dopo l’ex presidente della Regione Piersanti Mattarella. Ma non solo. Altra analogia con il delitto eccellente è l’utilizzo del veicolo per commettere l’efferato omicidio: la targa era stata sostituita con un’altra formata da due spezzoni di diverse targhe.

Che il delitto Mattarella meriti ancora un approfondimento è indubbio. Usando la stessa definizione di Giovanni Falcone, parliamo di un “omicidio politico- mafioso” che ha avuto una sua peculiarità rispetto agli altri delitti eccellenti. Quale? Ci viene in aiuto Falcone stesso. Ma attenzione. Non con le sue parole evidenziate dalle motivazioni della sentenza di condanna dell’ex Nar Gilberto Cavallini avvenuta nel 2020. Non entriamo nel merito delle motivazioni del giudice Michele Leoni, ma nella parte relativa a Falcone sull’omicidio Mattarella, è stata riportata una sua audizione della seduta della commissione parlamentare Antimafia che risale al 3 novembre 1988. Viene quasi data l’idea che sia un suo testamento. No, non è vero. Era appena agli inizi delle indagini. Dopo aver vagliato tutto, è giunto ad altre conclusioni. È vero che nel 1988, innanzi alla commissione parlamentare, Falcone disse che «si trattava di capire se e in quale misura “la pista nera” sia alternativa rispetto a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa. Il che potrebbe significare saldature e soprattutto la necessità di rifare la storia di certe vicende del nostro Paese, anche da tempi assai lontani». Ma all’epoca ancora non aveva una idea chiara. Infatti, da persona seria e professionale, merce rara oggi, usò il condizionale.

Due anni dopo Falcone disse ben altro. Il Dubbio, lo scorso anno, segnalò l’esistenza di una sua audizione del 1990 in commissione Antimafia dove parla di due questioni: l’omicidio Mattarella e le indagini dei Ros su mafia-appalti. L’ex presidente della commissione Nicola Morra accolse la segnalazione e desecretò il documento. Le parole più recenti di Falcone sulla questione Mattarella, quindi, non sono quelle del 1988, ma quelle di due anni dopo. A quale conclusione giunse fino a quel momento? Una saldatura tra neri e mafiosi? Parlò di strategia della tensione, P2 o Gladio? No. Era ancora convinto che i killer fossero i neri, ma dette un’altra spiegazione sul perché la mafia sarebbe ricorsa a persone esterne. «Il 1980 – spiegò Falcone – ha rappresentato il momento più acuto di quella crisi che sarebbe poi sfociata nella guerra di mafia: da un lato vi erano Bontade e Inzerillo (Badalamenti era stato già buttato fuori da Cosa nostra) mentre dall’altro vi erano i corleonesi». Importante questo punto, perché nel momento della crisi «ognuno aveva paura di fare il primo passo». C’era una parte della mafia che voleva ucciderlo, l’altra era indifferente. Ma allora perché una parte della mafia decise di eliminare Piersanti Mattarella, ma senza avvisare gli altri? «Bisognava indicare le ragioni per cui si uccideva una persona, quale fatto in concreto si contesta a Mattarella, quale persona del mondo politico aveva chiesto di ammazzarlo!», rispose Falcone.

La spiegazione è chiara. Non esiste alcuna pista nera. Ed è ciò che è attestato all’ultimo atto firmato da Falcone proprio sui delitti eccellenti. Li vagliò tutti. Da Gelli, passando per l’ex neofascista considerato mitomane Alberto Volo, fino a Gladio. Questa è stata la spiegazione logica: visto che c’era ancora divisione all’interno di Cosa nostra e non si raggiunse l’unitarietà per deliberare la morte di Mattarella, il vertice sarebbe ricorso a serial killer esterni. Ecco perché i collaboratori di giustizia non hanno mai saputo indicare il killer: è stato tenuto all’oscuro il nome, per via della mancata unitarietà.

Un omicidio che ritrova la sua “anomalia” proprio in questo. Una efferatezza commessa di nascosto ai componenti della commissione mafiosa stessa. Era emerso, come Falcone ribadì nel 1990 in commissione Antimafia, che una parte del mondo politico ha chiesto aiuto. Sappiamo che Piersanti Mattarella era stato un presidente della Regione che voleva mettere “le carte in regola”. Era un pericolo per Cosa nostra soprattutto in merito alla spartizione degli appalti. Ed era quindi anche “politico”, visto che don Vito Ciancimino – uomo vicinissimo ai corleonesi - fu contrastato da Piersanti Mattarella per un suo rientro nel partito con incarichi direttivi. Sappiamo che don Vito, da sindaco di Palermo, ricavò tantissimi soldi con gli appalti gestiti da Cosa nostra, tanto che ancora oggi si è in cerca di tutto il suo “tesoro” riciclato. E infatti, da Buscetta a Di Carlo, i pentiti hanno sempre parlato della questione appalti. Non è un caso che Ciancimino stesso depistò l’omicidio Mattarella indicando le Brigate rosse. Fin da subito si volle allontanare la matrice mafiosa del delitto.

La testimonianza dell’allora ministro dell'Interno Virginio Rognoni, può aiutare. Nel 2017 sarà sentito al processo sulla trattativa Stato-mafia a Palermo, e dirà: «Piersanti Mattarella venne da me nel novembre del 1979 e mi disse: “sto combattendo una battaglia difficile, cerco di rovesciare la situazione, soprattutto sui lavori pubblici” e mi fece il nome di Vito Ciancimino come un nome che contrastava questa sua politica». Il diritto alla verità reclamato accoratamente dal giudice Balsamo deve essere preso in considerazione. Ma va manovrato con cura. I fatti possono rovinare storie avvincenti che spesso vengono raccontate da taluni magistrati in Tv e da poco anche in Parlamento. Purtroppo le commissioni parlamentari, se infestate da tesi precostituite e politici suggestionati da taluni programmi televisivi in prima serata, possono fare danni incalcolabili.

Calibro 38 e targa falsificata: Mario Francese ucciso come le altre vittime eccellenti di mafia. L'unico proiettile repertato, dei quattro che hanno ucciso Mario Francese, era di una pistola della stessa marca di quella usata per gli omicidi di Piersanti Mattarella e MIchele Reina. DAMIANO ALIPRANDI su Il Dubbio il 29 gennaio 2020.

Erano le 21: 15 del 26 gennaio del 1979 quando una donna di nome Ester, mentre si trovava nella stanza da letto, seduta dietro i vetri del balcone che si affacciava sul Viale Campania, a Palermo, sente una forte detonazione. Aveva istintivamente rivolto lo sguardo verso la strada proprio nel momento in cui un uomo era già caduto per terra, e aveva notato un individuo sui 35 anni con il braccio destro teso verso il basso, impugnando una rivoltella, esplodere diversi colpi. Il killer, secondo la testimonianza della donna, aveva sparato con tremenda freddezza e determinazione e, in questo brevissimo arco di tempo, aveva indirizzato ripetutamente lo sguardo verso il balcone della sua abitazione. I loro sguardi si erano incrociati, e, per un istante, aveva temuto per la propria vita.

L’uomo a terra, secondo la perizia medica, fu raggiunto da almeno quattro proiettili di arma da fuoco corta: tre alla testa e il quarto al collo. La morte avvenne quasi istantaneamente per le gravissime lesioni cranio- facciali provocate dai proiettili che raggiunsero la testa. I colpi furono esplosi tutti da una distanza superiore ai 20- 25 cm. Dagli atti emerge che l’unico proiettile repertato proveniva da un revolver calibro 38 special, del tipo Smith & Wesson. Stesso tipo di arma che avrebbe ucciso due mesi dopo il segretario provinciale della Democrazia cristiana, Michele Reina e un anno dopo l’ex presidente della Regione Piersanti Mattarella. Ma non solo. Altra analogia con il delitto eccellente è l’utilizzo del veicolo per commettere l’efferato omicidio: la targa era stata sostituita con un’altra formata da due spezzoni di diverse targhe.

Parliamo infatti di un omicidio mafioso e l’uomo a terra in quella fredda sera del 26 gennaio del ’ 79 era Mario Francese, colui che in quegli anni è stato il protagonista della cronaca giudiziaria e del giornalismo d'inchiesta siciliano. Abile ad anticipare gli inquirenti nell'individuazione di nuove piste investigative. Famoso anche per essere stato il primo ed unico giornalista ad aver intervistato Ninetta Bagarella, moglie di Totò Riina e sorella di Leoluca, il killer che lo ucciderà. Fu il primo ad aver messo mano su mafia- appalti. Proprio per questo fu ucciso dalla mafia. Con atteggiamento aperto, coraggioso e grande senso del comune, si immergeva nella ricerca della verità dei fatti di Cosa nostra, quei business sugli appalti che stavano insidiando la Sicilia, quegli intrecci tra politica, imprese e mafia che andavano radicandosi su un territorio già torturato dalle cosche.

Secondo i giudici che hanno condannato i mafiosi per l’omicidio di Mario Francese, la casuale è chiara. Dagli articoli e dossier redatti dal giornalista, «emerge – scrivono i giudici una straordinaria capacità di operare collegamenti tra i fatti di cronaca più significativi verificatisi nel corso degli anni, di interpretarli con coraggiosa intelligenza e di tracciare così una ricostruzione di eccezionale chiarezza e credibilità sulle linee evolutive dell’organizzazione mafiosa, in una fase storica nella quale emergevano le diffuse e penetranti infiltrazioni di Cosa nostra nel mondo degli appalti e dell’economia ed iniziava a delinearsi la strategia di attacco alle Istituzioni da parte dell’illecito sodalizio».

Una strategia eversiva che avrebbe fatto un “salto di qualità” proprio con l’eliminazione di una delle menti più lucide del giornalismo siciliano, di un professionista estraneo a qualsiasi condizionamento, privo di ogni compiacenza verso i gruppi di potere collusi con la mafia e capace di fornire all’opinione pubblica importanti strumenti di analisi dei mutamenti in atto all’interno di Cosa nostra. I giudici evidenziano il fatto significativo che sia stato proprio l’assassinio di Mario Francese ad aprire la lunga catena di “omicidi eccellenti” che insanguinò Palermo tra la fine degli anni 70 e il decennio successivo, in attuazione di un preciso disegno criminale che mirava ad affermare il più assoluto dominio mafioso sui gangli vitali della società, dell’economia e della politica in Sicilia.

Leggendo gli articoli di Mario Francese apparsi su Il Giornale della Sicilia, saltano all’occhio le sue inchieste sugli appalti e compaiono nomi di imprese nazionali che poi ritroveremo anche nel famoso dossier mafia- appalti redatto dagli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno per volere di Giovanni Falcone. Cita l’impresa milanese Lodigiani, la Pantalena, la Garboli e in particolare la Saiseb: l'impresa con sede centrale a Roma che, conosciuta a Castelvetrano per il famoso contenzioso di oltre 3 milioni di euro con il comune, giocava un ruolo importante nella ricostruzione del Belice, facendo lavori per vari miliardi di lire, giocando molto sulle perizie di variante, facendo molto lievitare i costi degli appalti. Francese si chiese come mai un pregevole colonnello dei Carabinieri – dopo aver lasciato l’Arma- volesse andare a collaborare con questa grossa società. Francese si riferisce al colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, ucciso nel ’ 77 dai killer di Totò Riina. Secondo il giornalista Mario Francese l’omicidio Russo era collegato con la guerra di mafia che scoppiò per il giro di miliardi legato alla Diga Garcia. In seguito, dai vari documenti investigativi, risulterà un nome legato a quel giro di affari miliardari: è quello di Angelo Siino, il ” ministro dei lavori pubblici” della mafia corleonese. E sarà proprio Siino a dire che il movente dell'omicidio del colonello Russo è da ricercare nelle indagini che l'alto ufficiale aveva svolto nella costruzione della diga Garcia e nel suo interessamento per far aggiudicare i lavori della costruzione della diga Piano Campo all’impresa Saibeb. Era sembrato quasi un affronto, una vera e propria onta per Riina e il clan dei corleonesi. Il pentito Balduccio Di Maggio aggiungerà: «Riina stesso mi disse che dato che nella nostra zona non c'erano imprese in grado di concorrere a tale opera, l'unica soluzione possibile era quella di farla aggiudicare alla ditta Costanzo di Catania». E poi ci sarà Giovanni Brusca a dire: «Per volontà di Riina era stato stabilito che l'appalto andasse a Costanzo e Lodigiani».

Imprese nazionali di rilievo, appalti miliardari guidati da Totò Riina. Il giornalista Mario Francese aveva capito tutto, anticipando in parte quello che poi sarà evidenziato dal dossier mafia- appalti: per questo la commissione presieduta da Totò Riina ha deliberato la sua morte. Come detto, l’omicidio di Francese inaugurò la serie di delitti eccellenti. Il modus operandi mafioso è lo stesso. Utilizzo dello stesso tipo di pistola e la contraffazione della targa utilizzando due spezzoni di targhe diverse. Un motivo in più, forse, per accettare la sentenza Mattarella che assolse gli ex nar Fioravanti e Cavallini, condannando invece i mafiosi per l’omicidio e i due falsi pentiti come Angelo Izzo e Giuseppe Pellegriti per aver depistato le indagini. Anche in quel caso si parla di appalti tra le casuali dell’omicidio.

Il delitto del giornalista Mario Francese cadde nel dimenticatoio, tanto che l'inchiesta venne archiviata. Ci sono voluti anni per riaprirla su richiesta della famiglia. Il processo si è svolto con rito abbreviato, concludendosi nell'aprile del 2001, con la condanna a trent'anni di Totò Riina, Francesco Madonia, Antonino Geraci, Giuseppe Farinella, Michele Greco, Leoluca Bagarella ( esecutore materiale) e Giuseppe Calò. Anche in Cassazione l'impianto accusatorio ha retto, ma vengono assolti tre boss ' per non aver commesso il fatto': Pippo Calò, Antonino Geraci e Giuseppe Farinella. A far riaprire il caso di Mario Francese fu soprattutto il figlio Giuseppe. Nella notte tra il 2 e il 3 settembre del 2002 si è tolto la vita schiacciato da un dolore che lo aveva accompagnato fin dal primo momento dopo l’omicidio del padre.

Vito Lipari, il sindaco Dc accerchiato e ucciso nel feudo del super latitante Matteo Messina Denaro. Marco Bova su La Repubblica 26 Agosto 2022.  

Quarantadue anni fa a Castelvetrano l’assassinio dell’amministratore scudocrociato. Il figlio: «Ucciso per il no ai boss nella gestione di appalti e banca locale. Eliminato con il piombo e infangato da morto»

«La morte di mio padre è l'omicidio “eccellente” dei Messina Denaro. Lo hanno massacrato come un vitello, “mascariato” come tutte le vittime della Dc e dimenticato nell'indifferenza. Ma chi ha vissuto quella stagione come il presidente Sergio Mattarella sa bene da che parte stava mio padre». È lo sfogo di Francesco Lipari, figlio di Vito Lipari, sette volte sindaco di Castelvetrano (Trapani) ucciso il 13 agosto 1980, rimasto nel limbo delle vittime di mafia.

Il suo nome con fatica ha trovato spazio nel ricordo della triste scia di sangue, che negli stessi anni a Palermo, portava agli omicidi “eccellenti” dei democristiani Michele Reina e Piersanti Mattarella e del comunista Pio La Torre.

E questo anche a causa dell'indifferenza delle istituzioni. Almeno fino a quando una lettera spedita alla famiglia dal capo dello Stato ha restituito alla memoria di Lipari lo spessore dovuto.

L'assassinio del sindaco fu un agguato in pieno stile mafioso. La vittima era a bordo della sua auto, lungo la strada che collega Castelvetrano a Selinunte, quando i sicari gli spararono con un fucile e due revolver. 

Le indagini sull’omicidio franarono presto insieme all’instabile castello giudiziario, reso fragile anche dalle false dichiarazioni di un collaboratore di giustizia.

In quegli anni, Lipari era uno dei dirigenti rampanti dell'area di riferimento dell’ex ministro degli Affari esteri Attilio Ruffini, primo dei non eletti, con 46 mila voti, alle elezioni parlamentari del 1976 e in ultimo anche direttore del consorzio Asi, l’area di sviluppo industriale, che si occupava dell'assegnazione di alcuni appalti delicati.

«Mio padre – racconta Francesco – non ha mai intascato alcuna tangente, di questo ne sono certo, anche se ricordo il via vai che c'era a casa e la fila davanti al portone di ingresso. Gli venivano rivolte preghiere per assunzioni e favori, perfino da me, per conto dei miei compagni di scuola. Un giorno l'arciprete mi chiese se potevo parlare con mio padre per un suo nipote». Quella di Lipari fu un'ascesa gestita «con decisa spregiudicatezza», scrivono i giudici, anche in relazione ai rapporti con i cugini Nino e Ignazio Salvo, i potenti esattori di Salemi arrestati dal giudice Giovanni Falcone nel 1984 per associazione mafiosa. Il primo morì durante il processo, il secondo fu condannato a tre anni in Appello e ucciso nel 1992, poco dopo le Stragi di Capaci e via d'Amelio.

«Ma non si scrive mai che mio padre era amico intimo del maresciallo Giuliano Guazzelli, che frequentava spesso casa nostra», aggiunge Francesco, riferendosi al carabiniere, ucciso, anche lui, nel 1992 siciliano. «Chiaramente con i Salvo c'erano dei collegamenti, degli incontri, ma di certo mio padre non andò mai sulle loro barche a parlare degli affari pubblici», dice ancora Francesco Lipari: «Nel ’79 fecero circolare nel mondo politico l’avvertenza di stare attenti perché i Corleonesi stavano per alzare il tiro». Tuttavia, Francesco Lipari rimane convinto che il padre «non sia stato ucciso dai nemici dei Salvo», ma che la morte del padre «sia maturata nell’ambito degli interessi mafiosi ed economici di Castelvetrano».

È quanto in effetti è emerso, alla fine di un tortuoso percorso giudiziario su un omicidio che sembrava già risolto dopo poche ore. A 30 chilometri di distanza dal luogo del delitto i carabinieri, durante un servizio di controllo straordinario avevano fermato due auto. Una con il boss di Mazara del Vallo, Mariano Agate ed un suo uomo; nell'altra Nitto Santapaola, capomafia di Catania e altri due mafiosi: tutti arrestati e scarcerati pochi giorni dopo, anche con la complicità di un ufficiale dei carabinieri, e infine nuovamente arrestati.

I boss furono collegati al delitto autorizzando una pista suggestiva, sulla rotta Catania-Trapani, smontata nel 1992 dalla corte d’Appello di Palermo, che la definì «assolutamente contro ogni logica». Bocciando anche le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara, oggi sconfessato dai tribunali, che dopo una prima ritrattazione, continuò a testimoniare, nonostante fosse saltata fuori una lettera, scritta durante una precedente detenzione, in cui preannunciava al suo legale di voler utilizzare il caso Lipari per accreditarsi con la giustizia.

Il ruolo della mafia di Castelvetrano è emerso soltanto dopo l’inizio della collaborazione con i magistrati di Vincenzo Sinacori, reggente di Mazara del Vallo, detto “ancidda” (anguilla), arrestato nel 1996, che si è autoaccusato dell’omicidio Lipari. Sinacori dice di avervi partecipato con i mazaresi Andrea Gancitano e Giovanni Leone e con Antonino Nastasi di Castelvetrano. Il pentito però sarà l'unico condannato, gli altri assolti per insufficienza di prove. «Andando oltre le sentenze, è chiaro il ruolo di Nastasi e della mafia di Castelvetrano, anche alla luce degli sviluppi successivi», dice il figlio del sindaco ucciso. Il riferimento è proprio a Nastasi che, secondo il racconto di alcuni pentiti, è stato il custode dell’esplosivo deflagrato il 27 luglio 1993, davanti al Pac di via Palestro a Milano, quasi in contemporanea con gli attentati alle chiese di Roma.

Quale il movente dell’omicidio? Il figlio di Lipari ne indica uno con determinazione. E argomenta: «Fino alla morte di mio padre, la raccolta dei rifiuti era pubblica, nel 1983 ha inizio invece l’era della Ecolsicula, da cui mio padre era stato avvicinato in precedenza, rifiutando ogni contatto. E dopo l’omicidio ha gestito i rifiuti praticamente fino a dieci anni fa». A porre fine all’appalto un blitz antimafia del 2012. Dalle indagini venne fuori proprio il ruolo di Nastasi nell’azienda dei rifiuti intestata al cugino Gaspare Spallino. «E sempre dopo la morte di mio padre, casualmente la Cassa Rurale e Artigiana di Castelvetrano va in mano ai socialisti e nel consiglio d'amministrazione entra proprio Spallino, dietro al quale c'era sempre Nastasi. Per questo dico che è loro la firma sull’agguato: dei Nastasi, dei Messina Denaro, della mafia di Castelvetrano.

Così come sono sicuro che è loro la volontà di uccidere il giornalista Mauro Rostagno, perché parlando del processo per l'omicidio di mio padre, rischiava di avvicinarsi alla verità. E anche nel caso Rostagno al delitto è seguito un depistaggio». Un’ipotesi, quest’ultima, rilanciata durante il processo per l’omicidio del giornalista assassinato il 26 settembre 1988. Rostagno era autore di alcuni speciali sull’omicidio Lipari, con tanto di riprese del boss Agate, recluso dietro le sbarre. In un’occasione il boss chiamò un cameraman di Rtc, la televisione in cui lavorava Rostagno: «Dicci a chiddu ca vaivva chi la finisce (Dì a quello con la barba di finirla)», fu l’avvertimento.

Racconta ancora Lipari: «Ad un anno dalla morte di mio padre, dei suoi amici avevano sistemato un busto in bronzo davanti alla lapide e nottetempo, nonostante ci fosse il custode, qualcuno entrò nel cimitero, aprì la porta della cappella e buttò il busto in mezzo al parco. Si disse che era opera di un pazzo, ma alcuni anni fa è successa una cosa analoga, nella tomba di Lorenzo Cimarosa, il metodo è lo stesso». Accadde nel 2017 e la tomba presa di mira allora fu quella del cugino acquisito di Matteo Messina Denaro, Lorenzo Cimarosa. Dopo l’arresto aveva iniziato collaborare alle indagini sul latitante e il suo cerchio magico. Lo sfregio alla memoria fu un’ulteriore ritorsione di Cosa nostra.

Il figlio di Lipari racconta di un percorso, che lo ha portato a «non avercela più con i presunti esecutori del delitto ma piuttosto con «quelli che dopo hanno cercato di “mascariare” mio padre. E molti lo hanno fatto a Castelvetrano, per paura di accreditare la pista mafiosa, anche per questo ho apprezzato tanto il messaggio del Presidente».

Nella lettera, Mattarella, nel quarantesimo anniversario dell’omicidio, esprime «la sua vicinanza nel ricordo di un uomo di grande spessore umano e politico che ha perso la vita per essersi opposto alla violenza mafiosa». Eppure, tutt'oggi, il 13 agosto è una data poco ricordata a Castelvetrano e commemorata soltanto dai familiari. Anche quest'anno. All'interno del parco archeologico di Selinunte c'è stato un importante festival di musica elettronica, dal nome “Musica &Legalità”, con un dj di fama internazionale e la presenza del capitano Ultimo, al secolo Sergio de Caprio, l’ufficiale che rivendica la cattura del superboss Salvatore Riina. Eppure, nessuno si è ricordato di Lipari. «C'è un'indifferenza violenta nei confronti della figura di mio padre, l'antimafia si è limitata a pensare che tutti i morti della Dc, in fondo, erano dei collusi uccisi per regolamento di conti, ignorando l'altra faccia della storia. Mi piacerebbe poter celebrare la sua figura con il Comune di Castelvetrano e confutare con i fatti l'assenza delle Istituzioni».

MISTERI ITALIANI. Montagna Longa: l’Antimafia apre il dossier sulla strage aerea di 50 anni fa. Acquisita la relazione dell’esperto che per Montagna Longa accredita la tesi dell’attentato. Il sospetto di una bomba neofascista alla vigilia delle politiche del maggio 1972. Al caso lavora anche il giudice Guido Salvini. Le connessioni tra i “neri” e Cosa nostra ignorate dai magistrati. Enrico Bellavia su L'Espresso il 22 agosto 2022

Cinquant’anni e un unico rovello. Che la verità ufficiale fosse solo un frettoloso colpo di spugna per cancellare la memoria di una strage. Come spesso accade nel Paese che lascia infiniti conti aperti con la memoria, sono i dettagli a fare la differenza. Crepe nel muro che si vorrebbe granitico a difesa del non detto. E che con la caparbia tenacia di pochi e isolati resistenti, al contrario, si sbreccia, si incrina e potrebbe anche crollare, se solo si avesse la forza di fare i conti con il passato.

Montagna Longa, la strage senza nome in attesa di giustizia. Furono centoquindici le vittime nel disastro aereo di quel 5 maggio 1972. “Fu una bomba”, giura un esperto. E un libro rilancia la tesi del dossier Peri rimasto nei cassetti per 50 anni. Enrico Bellavia su L'Espresso il 7 febbraio 2022

Rimane lì, nel fondo buio dei misteri italiani. Nascosta nell’anfratto più oscuro della caverna nella quale volteggiano i fantasmi della Repubblica. La resa della giustizia che nelle tenebre l’ha ricacciata ha un termine inaccettabile per chi la verità l’aspetta da mezzo secolo: «Cestinare». Così, due anni fa la magistratura di Catania, la stessa che all’inizio di questa storia aveva celebrato un inutile processo senza colpevoli, ha dato l’ultimo colpo di spugna su una piaga che rimane aperta per 98 orfani e 50 vedove di quella tragedia.

Montagna Longa, il primo e più grave disastro aereo dell’aviazione civile italiana, prima di Linate. Centoquindici vittime, 108 passeggeri e 7 donne e uomini di equipaggio, sulla cresta di una montagna di 935 metri a cinque miglia dall’aeroporto di Punta Raisi, Cinisi, Palermo.

Tra poco saranno cinquant’anni da quel 5 maggio 1972. Venerdì, ore 22,24,  il Dc 8 Antonio Pigafetta dell’Alitalia, anno di costruzione 1961, sigla I Diwb, volo AZ 112, in avvicinamento dopo un’ora e più di viaggio da Roma, manca l’atterraggio e rovescia un carico di vite innocenti sul crinale delle rocce che guardano l’abitato di Carini. Come nel più abusato dei copioni italiani, convenne a tutti attribuire la responsabilità ai piloti. L’errore umano, nient’affatto certo ma solo «verosimile», recita la sentenza del 1984, era il comodo tappeto sotto al quale nascondere, dubbi, interrogativi, sospetti. E così, anche dopo cinquant’anni, Montagna Longa rimane una strage, innominabile però come tale. Contro ogni evidenza logica e le tante, troppe, incongruenze, confinate da indagini carenti o inesistenti, nell’indistinto delle congetture.

Eppure, non sono ipotesi quelle dell’ingegnere Rosario Ardito Marretta, docente di Aerodinamica e dinamica dei fluidi dell’università di Palermo che nel 2017 dimostrò, elementi scientifici alla mano, che l’aereo era caduto per una bomba. «A bordo del velivolo durante il volo AZ 112 si è attuata una detonazione, esplodente prima e deflagrante dopo, che ha causato un’avaria irreversibile all’impiantistica di governo del velivolo causandone il collasso operativo e il conseguente disastro», scrisse. 

Neanche allora, quando la corposa relazione di Marretta, ingaggiato dall’associazione dei familiari delle vittime, arrivò sulla scrivania della procura di Catania insieme con un’istanza che sollecitava nuove indagini, il pm si mise al lavoro. Anzi, giudicando che sarebbe stato difficile capire chi avesse messo la bomba a distanza di così tanti anni, non formulò neppure un’ipotesi di reato e rinunciò ad accertare se davvero di un ordigno si era trattato. Strano modo di procedere. Come dire: se non puoi trovare tutta la verità, evita di cercare ciò che puoi. Di illuminare con un fascio di luce anche solo un angolo di quell’antro.

Se a Pavia avessero fatto così, adesso penseremmo ancora che Enrico Mattei, il patron dell’Eni, non morì in un attentato ma fu vittima di incidente.

Nonostante tutto, sottotraccia, il rovello di quel che è stato cammina nella coscienza, spesso sorda, di un Paese per il resto indifferente. Così, proprio sulla strage dimenticata si è riaccesa l’attenzione. Merito di due pubblicazioni. Una è la relazione di Marretta, ora comparsa sotto forma del dossier scientifico sotto il titolo “Unconventional aeronautical investigatory methods. The Case of Alitalia Flight AZ 112” per Cambridge Scholars Publishing. L’altra è un libro che ripercorre la storia del decennio in grado di ipotecare ancora il futuro italiano. “Settanta” è il romanzo verità, «un lavoro di restauro della memoria», che Fabrizio Berruti, giornalista e autore televisivo, ha appena pubblicato per Round Robin. I Settanta sono gli anni del fango e dell’intreccio. Delle trame mafiose e del terrorismo nero. Dell’impasto che teneva attaccati i due poteri criminali al cemento delle mefitiche misture dell’Ufficio affari riservati del Viminale, quello di Federico Umberto D’Amato, il manovratore della tensione, l’architetto del terrore, utile a stabilizzare il Paese, consolidarne il baricentro centrista e scongiurare pericolose derive a sinistra.

E in quegli intrighi, Berruti si addentra, ricostruendo la vita, il lavoro e il destino di Giuseppe Peri, il vicequestore che consumò carriera e esistenza con un rapporto, anche questo dimenticato come il suo autore, ultimato nel 1977 e ripubblicato in fondo al volume.

La prima edizione la si doveva all’Istituto Gramsci con il volume “Anni difficili”, curato nel 2001 da Leone Zingales e Renato Azzinnari, mentre intorno alla strage, accanto alle ricostruzioni giornalistiche, poche, ci sono anche il romanzo “Sogni d’acqua” di Eduardo Rebulla, (Sellerio, 2009) e “L’ultimo volo per Punta Raisi”, di Francesco Terracina (Stampa Alternativa, 2012).

Come già aveva scritto l’agenzia internazionale di stampa Reuters all’indomani dello schianto, Peri, che aveva cominciato a indagare sul sequestro di Luigi Corleo, suocero dell’esattore siciliano Nino Salvo, accreditò l’ipotesi della bomba a bordo dell’aereo, piazzata dai terroristi neri in combutta con Cia e servizi: Stefano Delle Chiaie, er Caccola, che nel romanzo di Berruti diventa lo Scrondo e Pierluigi Concutelli, l’assassino del giudice Vittorio Occorsio, che in “Settanta” è il Comandante. Poi c’è Alberto. Che è Alberto Stefano Volo, controverso neofascista, che rivelò di essere stato preventivamente avvertito dai camerati della bomba e di aver salvato un’hostess con la quale aveva una relazione. Il nome di Volo, il preside nero, era ben noto al giudice Giovanni Falcone che da lui ricevette alcuni degli elementi che lo convinsero ad accreditare la pista nera per l’omicidio del presidente della Regione Piersanti Mattarella, (6 gennaio 1980), il fratello del capo dello Stato. Il giudice Falcone coltivava Volo come fonte, senza mai assegnargli il bollo di attendibilità, e, prima di essere ucciso nel 1992, lavorava all’articolazione siciliana di Gladio, la struttura paramilitare anticomunista, eterodiretta dagli americani che fa capolino insieme alla mafia dietro la lunga stagione di sangue in Sicilia.

Se questo è il contesto in cui la strage di Montagna Longa si colloca, sul filo degli anni sono mille gli indizi trascurati. La magistratura portò a giudizio soltanto il direttore dell’aeroporto e alcuni tecnici dell’aviazione civile, accusati di non aver sostituito con un faro elettrico a terra il radiofaro di riferimento che giorni prima era stato trasferito. Una premessa funzionale alla teoria dell’errore umano, risolta con l’assoluzione di tutti in Cassazione. E così la sentenza liquidò anche le legittime invettive sulla sicurezza di un aeroporto collocato in un posto sconsigliabile, Cinisi, eppure utilissimo per i traffici delle famiglie criminali con addentellati nei palazzi del potere romano che regnavano incontrastate nel golfo di Castellammare. Punta Raisi era già l’hub della droga a fiumi che dalle raffinerie tra Palermo e Trapani prendeva il volo per gli States facendo ricchi i vaccari alla Tano Badalamenti che da un giorno all’altro si ritrovarono imprenditori.

Che Montagna Longa non fosse stato un incidente lo avevano ben chiaro i testimoni che avevano visto volare quell’aereo avvolto da bagliori che erano fiamme, prima di sparire dietro la montagna. Lo suggerivano i corpi dei passeggeri senza scarpe. Lo palesavano i reperti, come quella borsa che sembrava divelta da una forza che l’aveva squadernata dall’interno. Lo avrebbe potuto dire quel che restava dei corpi, se si avesse avuto voglia di interrogarli per rintracciare tracce di esplosivo. Lo avrebbe raccontato una investigazione attenta sul perché il nastro della scatola nera fosse strappato nel punto in cui avrebbe dovuto raccontare quel che era accaduto. E invece non fu fatto nulla. La commissione ministeriale, voluta dall’allora ministro dei Trasporti Oscar Luigi Scalfaro, fu nominata con decreto il 12 giugno ’72 e il 27 dello stesso mese aveva già concluso i propri lavori. Il generale Francesco Lino che la presiedeva, tuttavia, si lasciò uno spiraglio scrivendo di «una situazione particolare determinatasi all’interno della cabina di pilotaggio per l’intervento di persone estranee oppure di una avaria che possa avere distolto per quasi due primi l’equipaggio». Anche le perplessità dell’Anpac, l’associazione dei piloti civili, furono liquidate. Il curriculum esemplare del comandante Roberto Bartoli e quelli del vice Bruno Dini e del tecnico motorista, anche lui brevettato, Gioacchino Di Fiore, insozzati dall’infittirsi di calunnie sulla loro inadeguatezza.

L’ingegnere Marretta, al contrario, ha una spiegazione per ciascuno di quegli elementi.

L’ultima comunicazione di Bartoli riporta indietro l’orologio di 273 secondi prima delle 22,24, quando l’aereo lascia i 5mila piedi e annuncia la virata, che lo porterà di fronte alla testa della pista 25.

«Palermo AZ 112 è sulla vostra verticale e lascia 5.000 e riporterà sottovento, virando a destra, per la 25 sinistra». Queste le sue parole alla radio. Poi il buio.

La bomba, a bassa intensità, «grande quanto un pacchetto di sigarette», era collocata verosimilmente vicino al bocchettone di rifornimento dell’ala destra. Lo scoppio destabilizzò l’aereo, costrinse il comandante a una disperata «manovra a semicardiode tridimensionale in discesa», scaricando il carburante che già fuoriusciva per lo scoppio, e tentare comunque l’atterraggio. Da qui le fiamme, i passeggeri scalzi e il perché solo metà del moncone più integro, quello di coda, è bruciato.

La manovra non riuscì. Ma, d’altra parte, sostiene Marretta, se l’aereo si fosse schiantato con tutto il proprio carico di cherosene sul crinale della montagna, avrebbe ridotto in cenere ogni cosa, lasciando tracce persistenti, di «vetrificazione silicea», del nulla che il calore impone alla terra. «Un effetto Napalm».

E la scatola nera? Non racconta nulla perché era stata manomessa ad arte. Sembrava funzionare e invece era inceppata. E le spie non segnalavano anomalie. Perché se si fosse rotta accidentalmente, allora il guasto sarebbe stato rilevato e avrebbe imposto il fermo dell’aereo. 

La bomba, secondo il vicequestore Peri, era un attentato dimostrativo. Doveva scoppiare ad aereo fermo. Il ritardo con cui viaggiava, sosteneva il poliziotto, causò invece l’esplosione in volo.

Ma perché una bomba? Il 5 maggio del 1972 era l’ultimo giorno di campagna elettorale per le elezioni politiche. Abbastanza perché i mestatori che avrebbero punteggiato ogni snodo democratico con il tritolo, si mettessero all’opera. Siamo a un anno esatto dalla morte del procuratore di Palermo Pietro Scaglione (5 maggio 1971) e a un anno e mezzo dal golpe Borghese (notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970).

Su quell’aereo tornavano per votare molti siciliani che vivevano fuori per lavoro.

C’era il medico del bandito Giuliano, Letterio Maggiore, il regista Franco Indovina che con Francesco Rosi lavorava sulla fine di Mattei, Lidia Mondì Gagliardi, prima passeggera del volo inaugurale dell’aeroporto di Punta Raisi, nel 1960, il figlio dell’allenatore della Juventus Cestmir Vicpaleck che morirà proprio il 5 maggio di trent’anni dopo. E c’era Ignazio Alcamo, consigliere di corte d’Appello e presidente della sezione misure di prevenzione che pochi giorni prima aveva inflitto il soggiorno obbligato a Ninetta Bagarella, sorella di Leoluca e moglie di Totò Riina. Proprio per la presenza di Alcamo, le indagini finirono a Catania. C’era anche Angela Fais, la giornalista de L’Ora e Paese Sera che sulle trame nere aveva a lungo lavorato raccogliendo gli sforzi di un collega, Giovanni Spampinato, corrispondente de L’Ora da Ragusa, poi ucciso proprio da un camerata il 27 ottobre dello stesso anno.

Se Montagna Longa agita ancora le coscienze di qualcuno nel sonno dei pm che da Palermo, a Caltanissetta e fino a Catania, hanno alzato bandiera bianca, lo si deve alla tenacia di Maria Eleonora Fais, la sorella di Angela. Fu lei a incaponirsi per rintracciare il rapporto Peri, incredibilmente mai preso in considerazione dai giudici di Montagna Longa. Lo chiese a Paolo Borsellino, allora procuratore di Marsala che rintracciò il numero di protocollo nel 1991. L’originale lo tirò fuori nel 1997 Antonio Silvio Sciuto, che sedeva nella stessa poltrona del magistrato ucciso in via D’Amelio nel 1992. Con il rapporto in mano e il racconto aggiornato di Volo, Maria Eleonora Fais, combattente orgogliosamente comunista, amica del segretario regionale del Pci Pio La Torre, chiese l’apertura di nuove indagini. A distanza di anni, con l’associazione che continua il suo impegno dopo la sua morte avvenuta nel 2016, rintracciò anche un video originale con le immagini della tragedia, un filmato che racconta molto delle conclusioni cui è poi giunto Marretta. E a Catania arrivò anche l’istanza del fratello di una delle vittime, Antonio Borzì, la cui figlia Erminia insieme allo storico Giuseppe Casarrubea e all’avvocato Ernesto Pino, in una foto rintracciò segni che sembravano di proiettile di grosso calibro in un’ala dell’aereo. Ipotizzavano che fossero partiti durante un’esercitazione aerea avvenuta quella notte: uno scenario simile a quello della strage di Ustica.

L’associazione dei familiari di Montagna Longa, con Ilde Scaglione e Ninni Valvo, orfani della strage, ha insistito ancora, forte della consulenza di Marretta e, prima ancora, della perizia medico legale di Livio Milone, dicendosi disposta alla riesumazione dei corpi. Ha tentato anche la carta della richiesta di avocazione dell’inchiesta alla procura generale sostenuta dall’avvocato Giovanni Di Benedetto, ma è stata rimbalzata ancora. Perché Montagna Longa da quella caverna dei misteri non deve uscire.

Delitto Mattarella, il giallo del killer. Si riapre la pista mafiosa, sospetti sul boss Nino Madonia. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 23 Luglio 2022. 

Era il sicario utilizzato da Totò Riina per i delitti eccellenti. Già i giudici della corte d'assise d'appello avevano rilevato la sua somiglianza con Giusva Fioravanti. La pista nera sembra ormai tramontata

La pista del killer nero è ormai caduta, impossibile dopo tanti anni trovare analogie fra le armi dei Nar e i proiettili sparati quel 6 gennaio 1980. Il delitto del presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella, il fratello dell’attuale capo dello Stato, resta un mistero. Ma i magistrati della procura di Palermo non rinunciano a cercare la verità.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 14 marzo 2022.

Trent' anni fa, il 12 marzo 1992, Cosa Nostra ammazzò l'europarlamentare andreottiano Salvo Lima. La ricorrenza è importante perché fu il primo conto presentato dalla mafia dopo il maxiprocesso di Palermo che aveva decapitato Cosa Nostra, ma anche perché fu il primo indizio che la cosiddetta Mani pulite o Tangentopoli avrebbe potuto scoppiare al Sud ma fu fermata con proiettili e bombe. 

Oppure, più ingenerale, fu un primo segno che i piccoli o grandi collanti che avevano tenuto insieme il Paese stavano cedendo: quello tra il popolo e i propri rappresentanti, tra le politica e l'imprenditoria, e, più in piccolo, tra partiti e Cosa Nostra. 15 marzo 1991. Un già isolato Giovanni Falcone pronunciò una frase emblematica durante un convegno al castello Utveggio di Palermo: parlò di «connubio, ibrido intreccio tra mafia e imprenditoria e politica» e disse che «la mafia è entrata in borsa».

Fu questo, come affermerà il «ministro del lavori pubblici di Cosa Nostra» Angelo Siino, a mandare in bestia vari imprenditori legati alla mafia: «Falcone aveva compreso che dietro la quotazione in Borsa del gruppo Ferruzzi c'era effettivamente Cosa Nostra». 1° luglio 1991. Fu il punto più alto prima della caduta più rovinosa: la nomina di Giulio Andreotti a senatore a vita in due festeggiamenti organizzati nella stupenda Villa Attolico di Porta Latina e poi a Palazzo Farnese. Bisogna immaginare una sfilata di banchieri come Cesare Geronzi e Giampiero Cantoni, boiardi di Stato come Biagio Agnes e Franco Nobili, direttori e giornalisti come Bruno Vespa e Sandro Curzi ed Enzo Biagi e naturalmente l'onnipresente Gianni Letta, più molte centinaia di personalità e mogli ingioiellate: su tutti, un Andreotti 73enne attavolato affianco a Rita Levi Montalcini.

C'era anche il giudice Corrado Carnevale, presidente della prima sezione della Corte di Cassazione, già nota, come scriverà la procura di Palermo due anni dopo, per il «susseguirsi di una straordinaria messe di annullamenti di condanne di esponenti mafiosi». Andreotti, in quel periodo, poteva vantare anche il merito di aver legiferato contro la mafia come nessun altro: era stato ufficialmente lui, capo del governo, ad affrettare ogni procedura affinché fosse varato per tempo il famigerato decreto n.317 che dalla sera alla mattina raddoppiava i tempi della carcerazione preventiva per i boss. I governi di Andreotti, dal settembre 1989, avevano convertito in legge la bellezza di quindici decreti contro la criminalità organizzata, e a questo si affiancava al miracoloso Maxiprocesso che aveva già stangato Cosa Nostra anche in Appello: 1576 anni di galera per decine di boss e centinaia di affiliati. Questo un po' lo preoccupava. Al giudizio definitivo mancava solo la Cassazione.

Andreotti da un lato poteva continuare a ergersi come severo legislatore antimafioso, dall'altra c'era il problema che a credere al neo Andreotti nemico della mafia potesse essere anche la mafia. Vari collaboratori di giustizia diranno che i boss facevano affidamento sull'onorevole Lima e proprio sull'onorevole Andreotti affinchè mettessero ogni cosa a posto, anche grazie al dottor Carnevale. Tutte cose, pure queste, che Andreotti non poteva sapere, ma solo temere. Una sola cosa forse non poteva neppure immaginare: che Giovanni Falcone potesse d'un tratto trasferirsi a Roma, a lavorare per il ministero della giustizia come capo degli Affari penali, proprio nello stesso governo presieduto da lui, Andreotti. 

Troppi pensieri per un uomo solennizzato sulla terrazza di Villa Attolico o tra i fregi di Villa Borghese. 30 gennaio 1992. La Cassazione confermò tutte le condanne di primo grado e rivalutò appieno il «teorema Buscetta» sulla cupola: ergastoli come se piovesse. Per dirla semplice, Cosa Nostra non aveva mai visto nessuno dei suoi adepti e dei suoi vertici condannati con «fine pena mai». Anni dopo, diversi pentiti diranno che Totò Riina alla notizia della sentenza praticamente impazzì. Il passaggio alla strategia dello sterminio stava per cominciare. 12 marzo 1992. L'europarlamentare siciliano Salvo Lima lasciò la sua villa di Mondello verso le 9.20.

A guidare l'Opel Vectra era il docente universitario Alfredo Li Vecchi, che affianco aveva l'assessore provinciale Nando Liggio. Furono avvicinati da un'Honda rossa con a bordo due uomini che spararono qualche colpo e colpirono il parabrezza e il finestrino laterale e una ruota. La vettura si bloccò. L'obiettivo era Salvo Lima, solo lui: «Tornano, Madonna santa, tornano» furono le ultime parole di Lima prima che la moto facesse inversione di marcia e puntasse ancora sull'auto. Scapparono fuori tutti, anche se il loden che Lima aveva appoggiato sulle spalle s' impigliò nella portiera. Corse via per una ventina di metri, verso il mare, si appoggiò a un albero, riprese a correre per un'altra decina di metri, poi si ritrovò bloccato davanti a una cancellata. Si girò: la moto l'aveva seguito. Fu freddato malamente con tre colpi, di cui l'ultimo alla testa. Gli altri due testimoni rimasero nascosti dietro dei cassonetti dell'immondizia. Furono risparmiati.

La moto verrà ritrovata a tre chilometri da lì. Testimoni, parenti e figli erano rimasti illesi anche negli attentati mortali contro il segretario democristiano Michele Reina e contro il presidente regionale Piersanti Mattarella, fratello di Sergio, futuro Capo dello Stato. Uno stile, una firma: quella di Totò Riina e dei corleonesi. I due killer - si appurerà - si chiamavano Giovanbattista Ferrante e Francesco Onorato. 15 luglio 1998. La sentenza del processo per l'omicidio di Salvo Lima, nel 1998, stabilirà che quest' ultimo si era attivato per cambiare la sentenza del maxiprocesso in Cassazione ma senza ottenere risultati. Lima sarebbe stato ucciso anche per questo. Tommaso Buscetta dichiarerà che il padre di Lima era un affiliato della Famiglia di Palermo Centro, guidata dal boss Angelo La Barbera e impegnata a sostenere elettoralmente Salvo Lima.

Dirà Claudio Martelli, ai tempi ministro della Giustizia: «Dopo l'uccisione di Lima Andreotti era spaventato, o perché non capiva, o forse perché aveva capito... Falcone disse a me e ad altri che il prossimo ucciso sarebbe stato lui: "Lo capite o no che sono un morto che cammina?" sbottò una sera, alla fine di una cena tristissima». Gli esiti processuali, come detto, stabiliranno che Lima fu ucciso perché non era riuscito a fermare il Maxiprocesso alla mafia. Ma esiste un'altra versione che prende sempre più corpo col passare degli anni, e, se non sostituisce la precedente, quantomeno visi sovrappone: è la pista del celebre dossier «mafia-appalti» come causa di tutta la successiva stagione stragista.

Una delle testimonianze più autorevoli è del sostanziale responsabile del dossier, il generale Mario Mori, ex comandante e fondatore dei Ros dei Carabinieri: nel dossier si parlava in particolare di Angelo Siino, «il ministro del lavori pubblici di Cosa Nostra» che in passato era stato assessore a San Giuseppe Jato nella corrente di Salvo Lima. Ha scritto Mori: «Per la prima volta, con il sostegno di Falcone... Emerse il fatto che dei tre protagonisti cointeressati (mafia, imprenditoria e politica) le ultime due, imprenditoria e politica, non erano vittime, ma partecipi... Si arrivò a risultati concreti addirittura prima che l'inchiesta Mani pulite prendesse corpo, come ha sostenuto lo stesso Antonio di Pietro in dichiarazioni processuali. Il dottor Falcone, all'inizio del febbraio 1991, chiese l'informativa riassuntiva sull'indagine «Mafia-appalti»...

Appena ricevuta l'informativa, il dottor Falcone la portò al procuratore capo Pietro Giammanco... non se ne seppe più nulla». Il dossier «Mafia-appalti» lasciò la cassaforte del procuratore Giammanco e fu «illecitamente divulgato», passando nelle mani di Salvo Lima che lo mostrò subito al mafioso Angelo Siino nella sede della Dc palermitana di via Emerico Amari. L'omicidio di Lima - e non solo il suo - partì da lì. Questo pensavano Falcone e Borsellino. 5 ottobre 2021. La sentenza del processo cosiddetto «Borsellino quater» scrive che Paolo Borsellino sarebbe stato ucciso «per vendetta e cautela preventiva» (vendetta per il maxiprocesso, cautela per le indagini su «mafia-appalti») come riferito anche dal collaboratore Antonino Giuffrè a proposito della decisione di Cosa Nostra di eliminare i due giudici.

Del resto un'altra autorevole conferma l'aveva data anche il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso nel 2012: «Falcone e Borsellino erano dei nemici da bloccare per quello che potevano continuare a fare. Ma l'attentato di Capaci, per le modalità non usuali per Cosa Nostra, fu anche un messaggio di tipo terroristico non tanto eversivo, quanto conservativo per frenare le spinte che venivano da Tangentopoli contro una politica che era in crisi... Per noi è lacerante intuire ma non poter ancora dimostrare che la strategia stragista sia iniziata prima di Capaci, e cioè con l'omicidio Lima. È lì che scattò un segnale per cui lo stesso Falcone mi disse "Adesso può succedere di tutto"». Infatti succederà. Infatti è successo. 

IL VENERABILE RICATTO Di Paolo Mondani Collaborazione Roberto Persia Ricerca Immagini Alessia Pelagaggi Immagini Dario D’India, Andrea Lilli e Alessandro Spinnato Montaggio e grafica Giorgio Vallati

PAOLO BELLINI C'è chi per un bacio ha preso 500 milioni. Se io avessi fatto o avessi parte e arte nella strage di Bologna come collaboratore avrei chiesto miliardi

GUIDO BELLINI - FIGLIO DI PAOLO BELLINI Mio padre? In una parola? Il diavolo

ROBERTO SCARPINATO - PROCURA GENERALE PALERMO Le indagini di Falcone su Mattarella segnano una svolta nella sua vita e lo perdono.

IRMA CHIAZZESE - MOGLIE DI PIERSANTI MATTARELLA Il killer di Piersanti Mattarella è Giusva Fioravanti.

FILIPPO BARRECA - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Sono omicidi politici voluti dalla Dc.

MOMMO GIULIANA - EX DIRIGENTE DC PALERMO La mafia a mio giudizio ha dato il consenso.

VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Il Movimento Sociale Italiano, Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale, Europa e Civiltà hanno marciato divisi e hanno colpito uniti. Non sono stati loro a decidere la strage di Bologna, questi l’hanno eseguita la strage.

CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO D’Amato non era un personaggio da farsi usare, semmai usava.

PASQUALE NOTARNICOLA - GENERALE ESERCITO - EX DIRIGENTE DEL SISMI Gelli che viene tanto magnificato io lo ritengo un prestanome.

PAOLO BOLOGNESI - PRESIDENTE DELL’ASSOCIAZIONE DEI FAMILIARI DELLE VITTIME DELLA STRAGE ALLA STAZIONE DI BOLOGNA Ringraziamo anche tutti quei giornalisti coraggiosi e impegnati, che come i redattori della trasmissione televisiva Report, oppongono le risultanze delle indagini giudiziarie e della ricerca storica al potente fronte di innocentisti.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Un applauso che condividiamo con tutti coloro che hanno contribuito e contribuiranno alla verità. Era il 2 agosto del 2021, 41° anniversario della strage di Bologna. Quella che il Presidente Pertini ha definito “l’impresa più criminale della storia della repubblica”. Ora, alla verità si può arrivare anche 41 anni dopo e dopo cinque processi, due sono ancora in piedi. Questo grazie alla digitalizzazione di milioni di atti giudiziari, sono quelli che sono stati raccolti dai processi per terrorismo e quelli sulle stragi che si sono consumate in Italia dal 1974 ad oggi. Li hanno raccolti, riletti e confrontati i legali dell’associazione dei parenti delle vittime della strage e i magistrati della Procura Genrale di Bologna. E dalla rilettura è emerso, sono emersi quattro nuovi presunti mandanti, organizzatori delle stragi. La P2 con Licio Gelli avrebbe pagato, attraverso il banchiere Ortolani, il senatore dell’Msi Mario Tedeschi, direttore anche del “Borghese” e il capo dell’ufficio degli affari riservati del Viminale, Federico Umberto d’Amato, la più nota spia dal dopoguerra ad oggi. E tutto questo l’avrebbe fatto Gelli per organizzare e depistare sulla strage di Bologna. Ora, quei quattro sono morti e non saranno mai processati mentre gli esecutori materiale della strage sono stati condannati con sentenza definitiva e sono Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, entrambi dei NAR (Nuclei armati rivoluzionari). E anche ai NAR, apparteneva, appartiene Gilberto Cavallini che è il quarto esecutore della strage condannato però in I° grado. Ora però da un filmato girato da un turista svizzero emerge dal passato un volto che si aggira su un binario, proprio quello coinvolto dalla bomba, dieci minuti prima che esplodesse, quel volto apparterrebbe a Paolo Bellini che secondo gli inquirenti è il quinto esecutore della strage. Paolo Bellini è un ladro di opere d’arte, è stato killer per Avanguardia Nazionale, ha ucciso anche per conto della ‘ndrangheta. Il padre Aldo, convinto fascista, appartenente alla folgore lo aveva indirizzato a collaborare con i servizi di sicurezza. Lui si è sempre detto estraneo alla strage di Bologna, tuttavia era stato coinvolto inizialmente e poi prosciolto nel 1992. Ha goduto di coperture istituzionali e familiari incredibili e ora c’è il colpo di scena e il velo, l’alibi che l’ha coperto per oltre quaranta anni è caduto. E se ti sei perso qualcosa, cerchi qualcosa di importante, il luogo migliore per cercarlo è il labirinto. Il nostro Paolo Mondani.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La strage di Bologna sembra un film di fantascienza perché parla di un tempo pietrificato. I muri di un labirinto. Tutto accadde 41 anni fa. La memoria è smembrata in un intrico di vie. Smarrita dentro un enigma apparentemente insolubile. Eppure oggi la foschia si dirada e siamo vicini alla verità sui mandanti della strage. Giunti al centro del mistero, nel punto più oscuro e profondo del nostro passato inizia la via del ritorno. E un passo alla volta risaliamo il grande labirinto. Bologna Corte di Assise, sta andando a testimoniare Maurizia Bonini la moglie di Paolo Bellini sotto processo per strage. Le viene mostrato un filmato realizzato alla stazione di Bologna nei minuti a cavallo dell’esplosione.

UDIENZA CORTE D’ASSISE BOLOGNA 21/07/2021 UMBERTO PALMA - SOSTITUTO PROCURATORE GENERALE BOLOGNA Fermi! Questo è un primo fotogramma. Senta signora Bonini vede quel signore con i baffi e con la catena a destra nell’immagine?

MAURIZIA BONINI - EX MOGLIE PAOLO BELLINI Sì. UMBERTO PALMA - SOSTITUTO PROCURATORE GENERALE BOLOGNA Si può esprimere su questa persona?

MAURIZIA BONINI - EX MOGLIE PAOLO BELLINI Mi sembra mio marito. È Paolo. È Paolo perché ha qua, la, qua questa fossetta qua, comunque si vede, avrà i capelli più indietro ma comunque è lui. Anche nella foto immagine che è stata passata nel telegiornale lo riconosco ancora meglio che nel movimento.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Questa l'immagine del filmato confrontata con la foto di Bellini dell'epoca.

PAOLO MONDANI La sua mamma si viene a scoprire che aveva permesso a Paolo Bellini di avere un alibi, diciamo così, per Bologna quel mattino e l’ha tenuto fermo diciamo, ha tenuto botta per quest’alibi più di trentacinque anni. Voglio dire…..

GUIDO BELLINI - FIGLIO DI PAOLO BELLINI Io le posso garantire una cosa, che mia madre aveva un grande timore. Questo è poco ma sicuro

PAOLO MONDANI Un grande?

GUIDO BELLINI - FIGLIO DI PAOLO BELLINI …timore e paura di lui e della sua persona. Gli chiese se aveva avuto a che fare qualcosa con Bologna, se lui c’entrava, e credo proprio che lui le abbia detto “assolutamente io con Bologna non c’entro niente”. E poi se lo rivede nella foto e lo riconosce e dice: "Cavolo questo è lui"."…..

PAOLO MONDANI Nel video addirittura.

GUIDO BELLINI - FIGLIO DI PAOLO BELLINI Nel video anche e dice cavolo questo è lui, evidentemente.

PAOLO MONDANI Le è cascato il mondo addosso.

GUIDO BELLINI - FIGLIO DI PAOLO BELLINI Beh probabilmente sì.

PAOLO MONDANI È proprio lei che all'Archivio di Stato di Bologna trova il filmato girato in Super8 dal turista svizzero Harold Polzer il 2 agosto '80 proprio alla stazione.

ANDREA SPERANZONI - AVVOCATO PARTE CIVILE PARENTI VITTIME DELLA STRAGE La cosa che mi aveva colpito era nell'indice degli atti l'orario di quel Super8 girato al primo binario della stazione cioè quello investito dallo scoppio, ore 10 e 13. Quindi qualcuno aveva filmato dodici minuti prima della strage il binario. E lì ci siamo imbattuti in un volto, nel volto che poi è stato, comparativamente con la foto segnaletica di Paolo Bellini indicato come compatibile con quello del principale imputato della strage.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Secondo la Procura Generale di Bologna Paolo Bellini è il quinto uomo della strage del 2 agosto 1980 dopo le condanne definitive di Francesca Mambro, Giusva Fioravanti, Luigi Ciavardini e il primo grado di Gilberto Cavallini. Tutti della formazione terroristica dei Nar. Bellini, militante di Avanguardia Nazionale, fu ladro d'arte e killer per una cosca della 'Ndrangheta. Per alcuni anni sfruttando protezioni istituzionali mantenne la finta identità di Roberto Da Silva. In carcere nell'81 conobbe il boss di Cosa Nostra Nino Gioè. E dopo la strage di Capaci del 1992, con la copertura dei carabinieri, imbastì con Cosa Nostra una strana trattativa.

UDIENZA CORTE D’ASSISE BOLOGNA 01/10/2021 PAOLO BELLINI - UDIENZA CORTE DI ASSISE BOLOGNA 1 OTTOBRE 2021 Pensi un po', c'è chi per un bacio ha preso 500 milioni. Il famoso bacio di Totò Riina, il famoso bacio di Andreotti. Se io avessi fatto o avessi parte e arte nella strage di Bologna come collaboratore avrei chiesto miliardi, non 500 milioni. Avrei chiesto di andare sulla luna e mi ci avrebbero portato sulla luna. Però non ho niente a che spartire con questa situazione.

GUIDO BELLINI - FIGLIO DI PAOLO BELLINI Se mio padre ha fatto una determinata carriera è chiaro che aveva delle spiccate doti naturali. Non gliene è mai fregato niente di nessuno perché è una persona incapace di amare.

PAOLO MONDANI Me lo dica in una parola, che figura era suo padre?

GUIDO BELLINI - FIGLIO DI PAOLO BELLINI Mio padre? In una parola? Così mi svela il libro, mi svela il titolo del libro: il diavolo. Se vuole che le dica che cosa era mio padre: era il diavolo. Io l’ho conosciuto, ma davvero!

PAOLO MONDANI Quando esce il suo libro?

GUIDO BELLINI - FIGLIO DI PAOLO BELLINI Non esce perché nessuno lo vuole fare.

SIGRIDO RANUCCI IN STUDIO È il diavolo dice il figlio, mentre l’ex moglie dopo 40 anni toglie il velo sull’alibi. Ecco, lo aveva coperto fino ad oggi per paura, perché non c’è da scherzare con Paolo Bellini. Era stato infiltrato dall’allora colonnello del Ros, Mario Mori, all’interno di Cosa Nostra. Lui aveva riallacciato i rapporti con Antonino Gioè, uomo di cosa nostra lo aveva conosciuto in carcere. Quel Gioè che aveva rapporti diretti con Totò Riina e che aveva partecipato alla strage di Capaci nel 1992, solo che Bellini lo incontra nel ’91 ad Enna. Proprio nel luogo, nel periodo in cui Cosa Nostra sta pianificando la stagione stragista. Bellini con Gioè inizia anche una timida trattativa: un occhio di riguardo per quei boss vecchi e malati che sono in carcere in cambio si recuperavano le opere d’arte rubate. Solo che alla fine dell’infiltrazione Bellini non ha recuperato alcuna opera d’arte ne ha fermato le stragi, ne ha contribuito ad arrestare dei mafiosi. Quindi è diventata una sorta di figura misteriosa, forse la più misteriosa del periodo stragista. Ha fatto realmente l’infiltrato o ha inoculato magistralmente l’idea in Cosa Nostra che fare gli attentati al patrimonio artistico del paese avrebbe pagato? Perché da lì a poco ci sarebbe l’attentato a Georgofili, San Giovanni e a San Giorgio al Velabro. Mentre invece Gioè che aveva dialogato con lui si uccide misteriosamente in carcere. Secondo il pentito Di Carlo l’uccisione di Gioè invece sarebbe stata opera dei servizi segreti avrebbero impedico così che parlasse e raccontasse la sua verità. Ogni tanto emerge quel filo nero perché Bellini riemerge dal passato in un filmato girato da un turista svizzero che lo immortala mentre passeggia sui binari 10 minuti prima dell’esplosione della bomba. Quel volto apparterrebbe secondo gli inquirenti a Paolo Bellini. Ogni tanto rispunta questo filo nero che congiunge uomini dell’estrema destra, servizi segreti, P2 e anche uomini di Cosa Nostra. Era stato proprio Licio Gelli negli anni ’70 a volere l’infiltrazione degli uomini più rappresentativi di Cosa Nostra all’interno delle logge diramazioni della P2. Questo per controllare il territorio. Nel luglio del 1980 proprio due degli autori materiale della strage, Francesca Mambro e Valerio Fioravanti si recano in Sicilia presso un loro amico Francesco Mangiameli. Quel Mangiameli neofascista palermitano che poi dichiarerà, racconterà ad un altro neofascista Alberto Volo che l’autore della strage di Bologna era stato proprio Valerio Fioravanti. E gli racconterà anche altro, che Valerio Fioravanti era stato il killer di Piersanti Mattarella, il fratello di Sergio, ucciso sette mesi prima della strage di Bologna.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Facciamo un salto nel passato. Località Tre Fontane, provincia di Trapani, siamo a fine luglio del 1980, pochi giorni prima della bomba di Bologna. Francesca Mambro e Valerio Fioravanti esecutori della strage, sono qui in vacanza, a casa di Ciccio Mangiameli, noto estremista di destra siciliano. Lo uccideranno nel settembre successivo perché secondo i giudici bolognesi Mangiameli si era dissociato dal progetto della strage. E volevano ammazzargli anche moglie e figlia.

PAOLO MONDANI Perché pensavano che Mangiameli ed altri avessero i rapporti coi servizi segreti, la polizia…

ROSARIA AMICO - MOGLIE DI CICCIO MANGIAMELI Ma che c'entra uccidere mia figlia, che c'entra?

PAOLO MONDANI Perché poteva sua figlia o lei aver partecipato a delle riunioni.

ROSARIA AMICO - MOGLIE DI CICCIO MANGIAMELI Ma quali riunioni?

ROSARIA AMICO - MOGLIE DI CICCIO MANGIAMELI Io, diciamo, lo contrastavo, dicevo ma tu perché fai questa politica? che cosa vuoi…

PAOLO MONDANI Ah, lei contrastava Fioravanti?

ROSARIA AMICO - MOGLIE DI CICCIO MANGIAMELI Sì. Una volta gli ho detto: ma tu da bambino eri maltrattato? Perché visto che maltratti…"Io sono stato trattato benissimo". Ma, ci dissi, non mi sembra. PAOLO MONDANI Lei non ha mai dubitato che quel signore che si chiamava Fioravanti, che aveva ucciso persino suo marito si fosse occupato anche dell'omicidio di Piersanti Mattarella?

ROSARIA AMICO - MOGLIE DI CICCIO MANGIAMELI No.

PAOLO MONDANI E allora perché lo hanno ucciso suo marito?

ROSARIA AMICO - MOGLIE DI CICCIO MANGIAMELI Fiore dice che ce l'aveva con loro, che voleva eliminarli tutti.

PAOLO MONDANI Che Fioravanti voleva eliminarli tutti?

ROSARIA AMICO - MOGLIE DI CICCIO MANGIAMELI Sì. PAOLO MONDANI E perché secondo lei signora?

ROSARIA AMICO - MOGLIE DI CICCIO MANGIAMELI Ma Fiore dice che non approvavano quello che facevano, che fomentavano i ragazzini…

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La signora Rosaria Amico cita Roberto Fiore che scappò a Londra poco dopo la strage di Bologna e fu condannato per l'appartenenza ai NAR nel 1985. Sospettato di essere agente del servizio segreto britannico, Fiore tornò in Italia a fine anni '90 perché i suoi reati erano caduti in prescrizione. Fondatore di Forza Nuova, è stato arrestato in seguito all'assalto della sede della CGIL del 9 ottobre scorso durante la manifestazione dei No Green Pass. Ma torniamo a Piersanti Mattarella, presidente democristiano della Regione Sicilia ucciso il 6 gennaio 1980, omicidio del quale inizialmente verranno accusati Fioravanti e Cavallini. Del caso si occupò intensamente Giovanni Falcone che nel 1989 interrogò l'estremista di destra Alberto Volo.

ROBERTO TARTAGLIA - VICE CAPO DAP - EX PM INDAGINI OMICIDIO MATTARELLA Stefano Alberto Volo è il miglior amico di Francesco Mangiameli. Quello che Volo alla fine verbalizza con Giovanni Falcone in estrema sintesi è questo: che lui ha saputo da Mangiameli che l’omicidio di Piersanti Mattarella è stato realizzato da Fioravanti e da Cavallini. Che questa decisione nasce da una volontà politica e massonica, che lui ascrive direttamente in quei verbali alla volontà di Licio Gelli, di arginare definitivamente l’apertura a sinistra della democrazia cristiana e di interrompere con il nuovo tentativo di riprendere il vecchio discorso lasciato tragicamente in sospeso con il sequestro Moro. Dice anche Alberto Volo a Giovanni Falcone, e siamo nell’89, quando viene sentito da Giovanni Falcone che tutte queste cose lui le sa non solo perché è amico di Mangiameli, ma perché appartiene a una organizzazione paramilitare di servizi italiani e americani che lui definisce Universal Legion, non parla di Gladio…

PAOLO MONDANI Però ci assomiglia molto.

ROBERTO TARTAGLIA - VICE CAPO DAP - EX PM INDAGINI OMICIDIO MATTARELLA Però ci assomiglia molto e c’è un dato, lo stesso Volo la definisce in un verbale, era una specie di Rosa dei Venti, ma più articolata e complessa.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Gladio e l'omicidio Mattarella furono l'assillo di Giovanni Falcone prima di essere ucciso il 23 maggio del '92. Nell' '88 e nel '90 Falcone ribadirà alla Commissione Parlamentare Antimafia che credeva nella pista nera. E non solo. Scopriamo un verbale straordinario. Alberto Volo poco prima di morire, il 14 luglio 2016, viene interrogato da Roberto Tartaglia e Nino di Matteo. E rivela un fatto assolutamente inedito. Afferma di essere stato sentito da Paolo Borsellino dopo la morte di Falcone. A giugno del '92. I due parlarono della fase esecutiva della bomba di Capaci. "Scoprii che Borsellino non credeva alla teoria del bottoncino" dice Volo. E cioè alla tesi del telecomando della strage premuto dai mafiosi. Borsellino insomma era certo che la mafia non aveva fatto la strage da sola. E forse per questo era così importante far sparire la sua agenda rossa.

ROBERTO SCARPINATO – PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Le indagini di Falcone su Mattarella segnano una svolta nella sua vita e lo perdono. Sino ad allora lui si era guadagnato l’inimicizia della mafia, dei riciclatori della mafia, ma con le indagini sull’omicidio Mattarella aggiunge anche un altro nemico, e cioè quel sistema criminale che era stato protagonista della strategia della tensione.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Perché Falcone rimane folgorato dall’inchiesta sulla morte di Piersanti Mattarella? Perché nell’89 aveva incontrato il neofascista Alberto Volo il quale gli aveva aperto un mondo. Volo rivela quello che aveva raccolto a sua volta da Mangiameli e cioè il fatto che il mandante dell’omicidio di Piersanti Mattarella era stato Licio Gelli e gli esecutori Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini. Poi Volo racconta anche a Falcone chi sono i killer di Mangiameli, i fratelli Fioravanti e Francesco Mambro perché temevano che rivelasse la verità sul loro ruolo nell’omicidio di Mattarella ma anche sulla strage di Bologna, perché dice Volo a Falcone è opera sua, è opera di Valerio Fioravanti. Falcone intuisce di essere davanti agli stessi mandanti ed esecutori della strage di Bologna. Comincia a incontrare Volo in modalità segreta fuori dalla Procura. A luglio dell’anno scorso la Commissione Antimafia ha desegretato un documento rimasto a lungo coperto risalente a una audizione di Falcone risalente al giugno del 1990 nella quale il magistrato ha risposto alle domande a raffica dei parlamentari che chiedevano spiegazioni sugli omicidi dei politici in particolare quello di Piersanti Mattarella. Falcone mostrò di credere già da allora nella pista dell’eversione di destra. Disse di credere alla versione di Irma Chiazzese, moglie di Piersanti Mattarella che aveva identificato in Valerio Fioravanti il killer del marito. Crede soprattutto alla versione di Cristiano Fioravanti fratello minore di Giusva, Valerio, e dice: guardate che l’omicida di Piersanti Mattarella è lui perché me lo ha confidato mio fratello stesso. Ora Falcone in quella sede non poteva certo dire che aveva incontrato qualche mese prima Alberto Volo. Poi c’è il verbale rimasto inedito del luglio del 2016 quando Volo incontra i magistrati Tartaglia e Di Matteo e dice le stesse cose che aveva detto a Falcone: il ruolo di Fioravanti nell’omicidio di Piersanti Mattarella, il ruolo di Licio Gelli e anche raccontò dell’omicidio di Mangiameli. Poi Volo disse anche altro a quei magistrati. Disse che apparteneva alla struttura Gladio, disse di esser pagato dai servizi segreti, disse di aver incontrato i boss di Cosa Nostra e anche Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore. Poi colpo di scena disse anche di aver incontrato il giudice Paolo Borsellino dopo la strage di Capaci e prima della strage di via D’Amelio mentre stava indagando sulla morte dell’amico Giovanni. Borsellino, disse Volo ai magistrati, dimostrava di conoscere le mie dichiarazioni a Falcone e soprattutto capì in quel momento che Borsellino non credeva che a premere il telecomando della strage di Capaci fosse stata solo la mafia. Ecco noi ci chiediamo, ma Borsellino quell’incontro con Volo lo ha segnato, lo ha appuntato sulla agenda rossa? Quello che si evince da questi verbali inediti è intanto che Falcone e Borsellino avevano preso sul serio la pista dell’eversione di destra, quella dei servizi segreti, quella della P2 dietro quegli attentati e gli omicidi ai politici che venivano invece solitamente attribuiti solo a Cosa Nostra. Nel 1991 Falcone firma la requisitoria sugli omicidi politici nella quale c’è scritto, vengono identificati come gli autori dell’omicidio di Piersanti Mattarella, Fioravanti e Cavallini i due che avevano anche chiesto una mano a Cosa Nostra per liberare dal carcere dell’Ucciardone Pierluigi Concutelli il leader di Ordine Nuove che aveva ucciso il giudice romano Occorsio, il primo che aveva intuito che dietro le stragi c’era l’eversione di destra, i servizi segreti la P2. Lo aveva anche scritto al giudice Imposimato, pochi mesi dopo venne ucciso da Pierluigi Concutelli.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini nel 1999 verranno definitivamente assolti dall'accusa di aver ucciso Piersanti Mattarella nonostante la signora Irma Chiazzese, moglie di Piersanti, presente nel momento cruciale dell'omicidio avesse riconosciuto proprio Fioravanti.

CORTE DI ASSISE PALERMO (23 GIUGNO 1992) IRMA CHIAZZESE - MOGLIE DI PIERSANTI MATTARELLA Io ho presente molto spesso il volto dell'uomo che sparò a mio marito la mattina del 6 gennaio. Ho presente gli elementi che caratterizzavano quel volto: la carnagione chiara, i capelli castani e soprattutto gli occhi, quegli occhi che mi hanno subito colpita e che ricordo ancora. Posso dire con quasi certezza che il killer di Piersanti Mattarella è Giusva Fioravanti.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Ma c'è di più. Cristiano Fioravanti, fratello minore di Giusva, anch'egli militante dei NAR, aveva iniziato a collaborare già nel 1981, immediatamente dopo il suo arresto.

ROBERTO SCARPINATO – PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Cristiano Fioravanti vuole chiarire a sé stesso chi veramente era il fratello, e lui dice io so perché me lo ha confidato lui stesso, che Valerio Fioravanti ha ucciso un politico siciliano, che quindi identifica in Piersanti Mattarella, insieme a Gilberto Cavallini e racconta alcuni particolari di questo omicidio.

PAOLO MONDANI Perché neppure Cristiano viene creduto ad un certo punto?

ROBERTO SCARPINATO – PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Come lui stesso dichiara su di lui si sviluppa una pressione fortissima da parte del padre, degli altri famigliari perché non accusi il fratello. E allora ad un certo punto ammette: io mi avvalgo della facoltà che il codice di procedura penale dà ai famigliari di non testimoniare e non rendere dichiarazioni nei confronti dei propri parenti.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Nel gennaio del 2021, la sentenza di primo grado che ha condannato Gilberto Cavallini come il quarto uomo della strage riscrive la storia dell'omicidio Mattarella. Ritiene credibili le dichiarazioni di Cristiano Fioravanti e dice che "non è stato solo un omicidio di mafia, ma anche un omicidio politico che comprendeva convergenze operative fra mafia e "antistato". Resta da capire: perché la mafia avrebbe dovuto incaricare due estremisti di destra di commettere l'omicidio dell'esponente democristiano?

ROBERTO SCARPINATO – PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Guardi che i rapporti fra la mafia e la destra eversiva sono risalenti nel tempo. È stato accertato processualmente il coinvolgimento della mafia nel golpe Borghese. E parliamo di un progetto di golpe del 1974, e poi ancora nel progetto di golpe del 1979 quando Sindona viene in Sicilia e con l’appoggio di alcune componenti dell’amministrazione statunitense pensa di fare un golpe separatista in Sicilia, anticomunista, da poi estendere in Italia.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Fu proprio Cristiano Fioravanti a rivelare lo scambio fra i NAR e la mafia: dopo l'omicidio Mattarella Cosa Nostra avrebbe dovuto collaborare all'evasione del leader ordinovista Pierluigi Concutelli, all'epoca detenuto nel carcere dell'Ucciardone per aver ucciso il giudice romano Vittorio Occorsio che aveva scoperto i legami fra la P2 e la destra eversiva.

ROBERTO SCARPINATO – PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Non soltanto, ma Pierluigi Concutelli risultò iscritto alla loggia Camea di Palermo dove era iscritto il cognato di Stefano Bontate, importante capomafia, e dove era iscritto anche un funzionario della regione siciliana, che secondo le dichiarazioni di Alberto Volo fu uno dei basisti dell’omicidio Mattarella.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO E chi meglio di Totò Riina poteva sapere dei rapporti tra massoneria piduista, mafia e terrorismo di destra.

INTERCETTAZIONE TRA ALBERTO LORUSSO E TOTO' RIINA 25 OTTOBRE 2013. CARCERE DI OPERA MILANO TOTO' RIINA E mai mi sarei immaginato che sarebbe diventato il capo della massoneria…quello con altri due, altri due… ALBERTO LORUSSO L'ho conosciuto quello, Pierluigi Concutelli. TOTO' RIINA Tre sono: quello ricco, il barone paesano mio… Concutelli, Stefano Bontate e questo ricco siciliano.

ROBERTO SCARPINATO – PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Stefano Bontate, secondo le dichiarazioni di vari collaboratori faceva parte di una loggia segretissima che si chiamava Loggia dei 300 di Palermo, che era un’articolazione regionale della loggia P2 di Gelli. Non soltanto, ma Stefano Bontate, che era un mafioso colto estremamente ricco e potente stava costituendo una super loggia di respiro nazionale e internazionale, ma i Corleonesi, Riina e Provenzano, non furono d’accordo perché temevano che se Stefano Bontate fosse diventato il capo di questa super loggia il suo potere si sarebbe troppo accresciuto e li avrebbe emarginati. Ma dopo l’omicidio di Stefano Bontate, Provenzano riprende il progetto di Stefano Bontate, entra a far parte di una super loggia che si chiama Terzo Oriente, di cui entrano a far parte lui, alcuni capi mafia e Giuseppe Graviano.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Alla fine degli anni '70 si formano nuovi poteri criminali. Proprio mentre Piersanti Mattarella decide di continuare sulla strada aperta da Aldo Moro tanto che da Presidente della Regione Sicilia apre ai comunisti già nel 1978 iniziando una vasta opera di risanamento del bilancio regionale. Ma viene ucciso il 6 gennaio del 1980, un mese prima del congresso Dc che l'avrebbe nominato al vertice del partito.

MOMMO GIULIANA - EX DIRIGENTE DC PALERMO Piersanti quando viene ucciso ha 44 anni. La convinzione era che avrebbe dovuto fare il vicesegretario nazionale, nel senso che allora il vicesegretario di allora non sono i vicesegretari di oggi. Il vicesegretario era qualcuno che diventava, cominciava a crescere per poi diventare segretario nazionale.

ROBERTO SCARPINATO – PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Era un Congresso decisivo perché come hanno dichiarato vari testimoni, tra cui il fratello di Piersanti Mattarella, Sergio Mattarella, si confrontavano due diverse linee politiche una linea politica che faceva capo al segretario del partito Zaccagnini e anche a Piersanti Mattarella, ed era uno schieramento che i pronostici davano per vincente perché comprendeva non soltanto la sinistra Dc, ma anche la corrente andreottiana e altri spezzoni della Dc. E un altro schieramento, diciamo della destra Dc, che invece voleva assolutamente chiudere la possibilità di qualsiasi apertura al partito Comunista e quindi chiudere definitivamente la linea Moro.

PAOLO MONDANI Ma voi morotei, voi mattarelliani avevate pensato che ci fosse qualcosa oltre la mafia tra coloro che avevano organizzato un omicidio così importante? A un mese dal congresso dove Piersanti Mattarella sarebbe presumibilmente diventato il vicesegretario nazionale della Dc?

MOMMO GIULIANA - EX DIRIGENTE DC PALERMO A mio giudizio non poteva essere soltanto la mafia. La mafia a mio giudizio ha dato il consenso.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Piersanti Mattarella è stato il 6 gennaio del 1980, a circa un mese dal XIV congresso della DC. In quel momento è in carica il governo, primo governo Cossiga che è infarcito di uomini della P2. Il segretario della DC di allora Zaccagnini aveva in mente di portare al congresso, di riproporre l’idea di un governo di solidarietà nazionale. Di far partecipare anche il Partito Comunista in maniera attiva. Per questo aveva in mente di portare alla vicesegreteria del partito l’uomo più rappresentativo di Aldo Moro, di colui che incarnava il compromesso storico, l’uomo più giovane era Piersanti Mattarella. In questo zaccagnini aveva come alleati, almeno sulla carta, Andreotti ei dorotei Piccoli e Bisaglia. Era opinione diffusa che Zaccagnini avrebbe vinto a mani basse e invece accade l’incredibile. Zaccagnini esce sconfitto vince la linea di Donati e Donat Cattin. Ora nel giro di due anni la Dc aveva ripudiato la linea politica del suo presidente ucciso dalle BR. Anche perché parte della dirigenza democristiana era stata falcidiata a colpi di mitra. A febbraio del 1980 era stato anche ucciso il professore Vittorio Bachelet vicepresidente del CSM, al suo posto era stato insediato, si è insediato Ugo Zilletti, toscano, piduista. Il governo di Forlani, messo in piedi, andato in carica nel 1980 nell’ottobre dura poco meno di un anno, perché nel maggio del 1981 viene spazzato via dallo scandalo della P2. È convinzione che se non si capisce, se non si trova la verità sull’omicidio di Piersanti Mattarella non si arriva alle verità neppure sulla strage di Bologna. I magistrati della corte d’Assise di Bologna nella sentenza che ha portato alla condanna in primo grado di Gilberto Cavallini, un altro degli esecutori della strage hanno scritto ben 100 pagine sulla sentenza, sui vari gradi di giudizio dell’omicidio Mattarella. I magistrati bolognesi scrivono che le motivazioni che hanno portato al proscioglimento di Fioravanti e di Cavallini ormai non reggono più, vedremo se c’è qualcuno che avrà ancora desiderio di aprire questa pagina dolorosa. Mentre sull’altro filone del processo quello sui mandanti si sta facendo sempre più strada una convinzione che i fuoriusciti dai movimenti di Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo a partire dalla metà degli anni ’70 dopo che sono stati sciolti i loro rispettivi movimenti si sono uniti con i NAR per effettuare rapine e attentati. E qui la domanda è la solita, quella storica, per ordine di chi? Forse la verità è scritta in un bigliettino che viene ritrovato 40 anni dopo nel portafoglio di Licio Gelli, un bigliettino che ci consente di fare qualche ulteriore passo all’interno del labirinto.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Quarant'anni dopo la strage la procura generale di Bologna fa il passo decisivo. E quell'orologio fermo alle 10,25 del 2 agosto riprende a marciare. Licio Gelli, già condannato per aver depistato le indagini, insieme ad Umberto Ortolani, suo braccio destro, viene accusato di aver finanziato i terroristi neri che piazzarono la bomba e aver pagato Federico Umberto D'Amato, potentissimo capo dell'Ufficio Affari Riservati del ministero dell'Interno, indicato come l'organizzatore della strage insieme all'ex senatore del Msi Mario Tedeschi. Il 13 settembre 1982, Licio Gelli venne arrestato in Svizzera con in tasca un appunto di movimenti bancari. Ai giudici milanesi che lo interrogarono sul crack del Banco Ambrosiano fu trasmesso solo il prospetto con le cifre, senza il frontespizio dove era scritto “Bologna” e il numero di conto aperto da Gelli presso la UBS di Ginevra. Quella intestazione è sparita per 40 anni.

ANDREA SPERANZONI – AVVOCATO PARTE CIVILE PARENTI VITTIME DELLA STRAGE Verrà trovato due anni fa all’archivio di stato di Milano dentro il portafoglio di Licio Gelli, ancora li inserito l’originale del documento Bologna.

PAOLO MONDANI Mi spieghi il giro dei soldi che da Gelli arriva ai mandanti della strage

ANDREA SPERANZONI - PARTE CIVILE PARENTI VITTIME DELLA STRAGE In questo appunto “per MC” si fa riferimento a un milione di dollari consegnato brevi manu da Gelli a Marco Ceruti, che era un suo uomo di fiducia. Con questo milione di dollari che esce dal 20 al 30 luglio 1980 quindi nei dieci giorni che precedono l’attentato. Marco Ceruti ha un conto corrente in Svizzera che gestisce per conto di Licio Gelli e questo milione di dollari è indicato come il 20% di una cifra. La cifra complessiva quindi è di 5 milioni di dollari, che sono effettivamente la contabile del documento Bologna. Di queste somme quindi 850.000 dollari va verso Federico Umberto D’Amato e 20.000 dollari va verso il Tedeschi. La movimentazione di questi denari avveniva tramite un cambia valute romano che è stato dimostrato essere in contatto proprio con l’ambiente, cioè o meglio con Federico Umberto D’Amato e con gli uomini protagonisti di questa vicenda.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il cambia valute romano era Giorgio Di Nunzio, cointestatario assieme al nipote Giancarlo di un conto a Ginevra sul quale sarebbero confluiti i soldi del capo della P2 Licio Gelli. Denari che, secondo l’accusa, sarebbero serviti a finanziare gli esecutori della strage alla stazione di Bologna. Giorgio Di Nunzio era un faccendiere romano collegato a Federico Umberto D'Amato, Mario Tedeschi e Francesco Pazienza.

PAOLO MONDANI C'è questo conto alla Trade Development Bank di Ginevra

GIANCARLO DI NUNZIO - NIPOTE DI GIORGIO DI NUNZIO Si.

PAOLO MONDANI cointestatari lei

GIANCARLO DI NUNZIO - NIPOTE DI GIORGIO DI NUNZIO …e mio zio

PAOLO MONDANI eE suo zio Giorgio Di Nunzio. Su quel conto un mese dopo la strage di Bologna, intorno al 3 settembre, vengono depositati da Ceruti, Marco Ceruti, uomo di Gelli, 240 mila240mila dollari, che fanno parte di una partita di soldi che arrivano dall’Ambrosiano a Gelli, da Gelli a Ceruti e poi arrivano a voi.

GIANCARLO DI NUNZIO - NIPOTE DI GIORGIO DI NUNZIO Si.

PAOLO MONDANI I pubblici ministeri ritengono che quella sia una, come posso dire, una parte dei soldi serviti ai mandanti della strage per fare la strage. Mi interessava di sapere da lei questo rapporto fra….

GIANCARLO DI NUNZIO - NIPOTE DI GIORGIO DI NUNZIO L’ho spiegato.

PAOLO MONDANI fra Di Nunzio Giorgio con Ceruti

GIANCARLO DI NUNZIO - NIPOTE DI GIORGIO DI NUNZIO L’ho spiegato.

PAOLO MONDANI Se lei ha conosciuto Ceruti, che soldi erano quelli insomma

GIANCARLO DI NUNZIO - NIPOTE DI GIORGIO DI NUNZIO Ho conosciuto Ceruti in occasione di un interrogatorio fatto a Roma dai magistrati di Bologna.

PAOLO MONDANI Non l’aveva conosciuto prima

GIANCARLO DI NUNZIO - NIPOTE DI GIORGIO DI NUNZIO No, non lo avevo conosciuto prima. Lui ha spiegato ai magistrati di Bologna la ragione di questo versamento di soldi a mio zio e la cosa finisce lì

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Secondo Giancarlo Di Nunzio i soldi arrivati da Gelli a Ceruti e poi a suo zio erano banalmente il pagamento di una consulenza. Anche la Odal Prima, una vecchia società romana vicina ad Avanguardia Nazionale, secondo l’accusa è sospettata di aver fatto parte del finanziamento della strage.

ANDREA SPERANZONI – AVVOCATO PARTE CIVILE PARENTI VITTIME DELLA STRAGE La Odal Prima nasce pochi giorni dopo, esattamente 12 giorni dopo il primo pagamento verso Zafferano, Federico Umberto D’Amato, che è del 16 febbraio 1979, data che viene indicata dalla Procura Generale come inizio del finanziamento della strage. Vennero visti entrare e uscire da quella sede sia uomini di Avanguardia Nazionale, sia uomini dei Nar, in particolare Giorgio Vale, Francesca Mambro e Gilberto Cavallini. Che ci fanno parlare oggi, io ritengo, di una saldatura tra gruppi cioè fra Avanguardia Nazionale, Nar e anche uomini di Terza Posizione.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Osserviamo questa sequenza di avvenimenti. Il 27 novembre 1979 Massimo Carminati e Valerio Fioravanti dei NAR, Peppe Dimitri e Mimmo Magnetta di Avanguardia Nazionale, rapinano centinaia di milioni di lire alla Chase Manhattan Bank di Roma. Il 14 dicembre il giudice Mario Amato fa sequestrare a via Alessandria 129 a Roma un deposito di armi e di esplosivi gestito da Fioravanti e da Dimitri. In quello stesso edificio viene trovata la sede del giornale Confidentiel diretto dal Presidente di Avanguardia Nazionale Adriano Tilgher. Il giudice Mario Amato che fa fare quel sequestro viene ucciso il 23 giugno del 1980 dai Nar e il 2 agosto Mambro e Fioravanti, cioè i detentori insieme a Dimitri di quel deposito di armi, fanno la strage di Bologna.

PAOLO MONDANI Questa sequenza di avvenimenti è abbastanza impressionante e spinge a pensare che alcuni uomini di Avanguardia Nazionale, la sua organizzazione, l’organizzazione della quale lei è stato presidente e della quale va fiero sia stata coinvolta in quella strategia.

ADRIANO TILGHER - EX PRESIDENTE AVANGUARDIA NA ZIONALE Si rende conto di quanto è faziosa questa interpretazione? Uno: Avanguardia Nazionale non esiste più viene sciolta da me il 7 giugno del 1976 e tutti gli uomini che lei definisce di Avanguardia Nazionale fanno ognuno cose per conto suo. Ci può essere il legame umano, il legame personale come ancora c’è e per sempre ci sarà finché non moriremo, perché questo era. Ma non il legame politico.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Vincenzo Vinciguerra è stato prima in Ordine Nuovo e poi in Avanguardia Nazionale. Responsabile della strage di Peteano dove morirono tre carabinieri, da 42 anni è in carcere e rifiuta ogni beneficio di legge. Vinciguerra risponde a distanza a Tilgher: nonostante lo scioglimento decretato dalla legge Scelba negli anni '70, Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale insieme alla destra istituzionale hanno continuato a cavalcare la strategia della tensione.

VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Il Movimento Sociale Italiano, Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale, Europa e Civiltà hanno marciato divisi e hanno colpito uniti.

PAOLO MONDANI A parte Mambro, Fioravanti e Ciavardini la cui presenza è stata dimostrata, ma lei crede che a Bologna ci fossero altri presenti per realizzare operativamente una strage come quella?

VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Ma se c’era diciamo: chi poteva portare ordini a Fioravanti e compagni quello era proprio Massimiliano Fachini. Questi non sono stati loro a decidere la strage di Bologna, questi l’hanno eseguita la strage.

PAOLO MONDANI Fachini anche lui legato…

VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Fachini era un uomo dei servizi. È sempre stato un uomo dei servizi.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Massimiliano Fachini è stato un esponente di Ordine Nuovo. Inizialmente accusato di aver fornito l'esplosivo per la strage di Bologna è stato poi prosciolto. Anche Paolo Signorelli, leader di Ordine Nuovo insieme a Pino Rauti fu accusato della strage di Bologna e successivamente assolto.

PAOLO MONDANI Valerio Fioravanti secondo lei ha avuto rapporti con i servizi segreti per quello che si è saputo?

VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Valerio Fioravanti può averli avuti in maniera indiretta. Quando si frequenta Paolo Signorelli i rapporti con i servizi segreti si possono avere, indirettamente. Quando si frequenta Massimiliano Fachini altrettanto.

PAOLO MONDANI Frequentavano sia Fachini che Signorelli Mambro e Fioravanti…

VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Erano quelli che li guidavano.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Li guidavano, ma per conto di chi? Proveremo a ricostruire la stori attraverso un documento straordinario in base al quale si evincerebbe che Licio Gelli avrebbe pagato 5 milioni di dollari gli organizzatori e i depistatori della strage di Bologna, avrebbe pagato il capo dei servizi segreti di allora Federico Umberto d’Amato, avrebbe pagato il senatore Tedeschi e avrebbe anche pagato gli autori della strage i terroristi neri. Un po’ di soldi sarebbero anche transitati attraverso lo zio e il nipote Di Nunzio, uomini legati al faccendiere Pazienza, piduista anche lui, uomo legato alla Cia e consulente esterno del SiSMI. La storia di questo documento ha dell’incredibile, viene sequestrato in Svizzera a Licio Gelli il 13 settembre del 1982, viene trasmesso all’autorità giudiziaria che sta indagando sul crack del Banco Ambrosiano, la guardia di finanza scriverà in una relazione che non vi è da attribuire nessun significato particolare alla scritta e al nome della città Bologna. Però neppure lo chiederanno a Licio Gelli quando sarà interrogato nel 1988. Anzi emergono due anomalie, intanto al verbale non viene allegato il frontespizio con la scritta Bologna, l’altra è che non viene neppure trasmessa all’autorità giudiziaria bolognese che sta indagando sulle stragi. Su quel documento cade l’oblio per 40 anni fino a quando un legale dell’associazione dei parenti delle vittime lo ritrova nell’archivio di stato all’interno del portafoglio di Gelli. Perché tutto questo silenzio? Secondo i magistrati della procura bolognese sarebbe scattato un ricatto pesantissimo da parte di Gelli e questo ricatto, la prova di questo presunto ricatto, viene trovata all’interno di un documento nel tribunale di Roma. Si tratta del documento “artigli”, è il verbale di un funzionario del ministero dell’Interno sull’incontro che aveva avuto con il legale di Licio Gelli, Fabio Dean, dove sostanzialmente c’è scritto, l’avvocato dice “se continuate ad accusare Licio Gelli della strage di Bologna lui tirerà fuori tutti gli artigli che ha”. Il solerte funzionario porterà il documento a Vincenzo Parisi capo della polizia di allora, che risulterà anche lui iscritto alla massoneria e su quel documento cala il silenzio per 40 anni. Secondo i magistrati bolognesi è la prova invece del ricatto di Licio Gelli allo Stato. Dice sostanzialmente se continuate ad attribuirmi le stragi io farò vedere, mostrerò le prove di quanto lo Stato abbia le mani in pasta nella strategia della tensione. Ora per capire quale è questa strategia della tensione bisognerebbe mettere insieme alcuni fatti importanti che accadono in quei mesi a partire dal novembre del 1979 quando Carminati e Valerio Fioravanti dei NAR, insieme a Peppe Dimitri e Mimmo Magnetta di Avanguardia Nazionale rapinano centinaio di milioni di lire presso la Chase Manhattan Bank di Roma. Avanguardia Nazionale considerava in danno l’azione armata dei Nar, perché compiono delle rapine armate insieme? Altra data impostante 14 dicembre del 79 il giudice Mario Amato sequestra in una palazzina in via Alessandria un deposito di esplosivi e di armi che fa riferimento a Valerio Fioravanti dei Nar e Dimitri, Avanguardia Nazionale. Nella stessa palazzina poi c’è la sede di Confidentiel la rivista che fa capo al presidente di Avanguardia Nazionale Adriano Tilgher. Il giudice Mario Amato che invece aveva ordinato il sequestro del deposito di armi in via Alessandri verrà ucciso mesi dopo, il 23 giugno del 1980 da Gilberto Cavallini e Luigi Ciavardini dei Nar e il 2 agosto Valerio Fioravanti, cioè i detentori di quel deposito di armi fanno la strage di bologna, ma per ordine di chi? E chi è che li guidava? Secondo l’ex Vincenzo Vinciguerra in una intervista esclusiva al nostro Paolo Mondani dice che i vertici di Ordine Nuovo e Vanguardia Nazionale erano legati ai servizi segreti quelli che ispiravano la strategia della tensione. E sempre legato ai servizi segreti sarebbe l’uomo che appare nel filmato di un turista svizzero, che secondo la procura sarebbe Paolo Bellini un altro esecutore della strage di bologna immortalato dieci minuti prima che esplodesse la bomba sul binario 1 della stazione di Bologna. Paolo Bellini killer di Avanguardia Nazionale, killer per la ‘ndrangheta si muoveva con la sua agilità anche da latitante godendo di coperture incredibili, istituzionali sotto il nome di Roberto Da Silva

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Un giorno del 1977, Paolo Bellini arriva a Foligno dal cielo. Con il passaporto brasiliano, il nome falso di Roberto Da Silva e un brevetto di pilota preso negli Stati Uniti atterra su questo aeroporto, a qualche chilometro da Foligno. Al suo fianco, a bordo di veicoli leggeri, c'era spesso Ugo Sisti, il procuratore capo di Bologna, il primo a indagare sulla strage. Bellini-Da Silva rimarrà a Foligno sotto falso nome per 4 anni. Alloggiava in albergo, aveva un conto al Banco di Roma e disponeva di importanti risorse finanziarie. Poi si scopre che aveva parecchi protettori.

STEFANO MENICACCI AVVOCATO - EX DEPUTATO MSI Ho motivo di ritenere che il Da Silva si era rivolto al senatore Cremisini quando aveva degli interessi in Brasile; il senatore Cremisini, già parlamentare del Movimento Sociale Italiano si è rivolto a Franco…

PAOLO MONDANI Mariani.

STEFANO MENICACCI AVVOCATO - EX DEPUTATO MSI Mariani il quale era l’avvocato di Giorgio Almirante e Franco Mariani…

PAOLO MONDANI A lei STEFANO MENICACCI AVVOCATO - EX DEPUTATO MSI Si è rivolto a me. Questa è la trafila. PAOLO MONDANI Ma scusi avvocato, me lo spiega com’è possibile per un giovane che viene dal Brasile che si chiama Roberto Da Silva che tre parlamentari dell’MSI si muovano per in qualche modo aiutarlo?

STEFANO MENICACCI AVVOCATO - EX DEPUTATO MSI Ma in effetti si è giovato di molte compiacenze ed ebbe persino il permesso di porto di fucile, porto d’arma previo consenso elogiativo del commissario di pubblica sicurezza di Foligno.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Paolo Bellini dichiara di essere stato infiltrato in Avanguardia Nazionale dal senatore Mariani e da Giorgio Almirante. Lo stesso senatore lo voleva nei servizi segreti ma Bellini nega di averne fatto parte. Mentre Vinciguerra dice che tutta l'estrema destra era legata ai servizi.

PAOLO MONDANI Lei racconta che Stefano Menicacci l’avvocato e Pierluigi Concutelli, Pino Rauti, Carlo Maria Maggi che è mandante della strage di Brescia, Delfo Zorzi, capisce che sono legatissimi ai servizi segreti.

VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Guardi, mentre da un lato facevano gli oppositori politici dall’altro lavoravano per i nostri servizi e anche per quelli esteri. Senza gli apparati dello stato queste strutture, queste organizzazioni non sarebbero sopravvissute.

PAOLO MONDANI Come la mafia.

VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Esatto.

PAOLO MONDANI Lei entra in Avanguardia Nazionale perché le appariva meno immischiata con i servizi segreti rispetto alla sua precedente, al suo precedente gruppo di appartenenza che era Ordine Nuovo. Quando è che finisce la sua fiducia su Stefano delle Chiaie di cui era amico e che era il capo di Avanguardia Nazionale?

VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE L’amicizia con Stefano finisce quando io mi rendo conto che fa il doppio gioco con me.

PAOLO MONDANI Ad un certo punto Stefano Delle Chiaie capisce l’esistenza della P2, la vede ne viene a conoscenza?

VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Ma io purtroppo credo che la conoscesse bene l’esistenza della P2. E me l’hanno sempre taciuta.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La P2, la camera blindata del potere atlantico, osservava e manovrava. Walter Sordi ha militato e ucciso con i Nuclei Armati Rivoluzionari di Mambro, Fioravanti, Cavallini e Pasquale Belsito. Da pentito, Sordi ha raccontato dei rapporti fra Licio Gelli e Valerio Fioravanti.

CORTE DI ASSISE BOLOGNA - UDIENZA DEL 18 GIUGNO 2021 ALESSIA MERLUZZI - PARTE CIVILE ASSOCIAZIONE PARENTI VITTIME DELLA STRAGE Nell'interrogatorio del 15 ottobre del 1’82 a pagina 5 lei dichiarò: “erano invece noti almeno a un certo livello i rapporti tra Gelli e Fioravanti Valerio. Il Belsito mi disse in particolare che Valerio Fioravanti non era quel personaggio pulito che tutti credevamo. Il Fioravanti aveva contatti con Gelli con il quale si era visto in Francia”. Lei conferma questa dichiarazione?

WALTER SORDI - EX NAR E TERZA POSIZIONE - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Sì sì confermo tutto.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Quarant'anni fa, il generale Mario Grillandini del Sismi fu uno dei pochissimi a occuparsi di Licio Gelli.

PAOLO MONDANI Siamo nel 1981, a marzo i giudici di Milano sequestrano la lista della P2 a casa di Licio Gelli. Un paio di mesi dopo, a maggio, emerge la notizia che a Montevideo, la capitale dell’Uruguay, Licio Gelli teneva in una sua villa lussuosissima un secondo archivio importantissimo e il servizio decide di mandare lei a capire che cosa ci fosse in quell’archivio.

MARIO GRILLANDINI - GENERALE ESERCITO - EX DIRIGENTE SISMI Partii per Montevideo e mi collocai in un albergo del centro di Montevideo. Il giorno successivo mi sono incontrato con Castiglione nell’albergo.

PAOLO MONDANI Castiglione era il capo dei Servizi in Uruguay, dell’Uruguay.

MARIO GRILLANDINI - GENERALE ESERCITO - EX DIRIGENTE SISMI Così si è presentato. E lui mi informò che una buona parte se li era presi il servizio americano. La CIA. Quelli che interessavano la sicurezza interna dell’Uruguay se li era presi l’Uruguay, i rimanenti erano a disposizione del ministro degli Interni uruguagio, generale Trinidad.

PAOLO MONDANI In tutto i fascicoli che erano stati trovati nella villa di Gelli ha saputo quanti erano?

MARIO GRILLANDINI - GENERALE ESERCITO - EX DIRIGENTE SISMI In tutto credo sui 300. Qui sono arrivati un centinaio.

PAOLO MONDANI Secondo lei perché la CIA era così interessata ai fascicoli di Gelli?

MARIO GRILLANDINI - GENERALE ESERCITO - EX DIRIGENTE SISMI Quelli che interessavano il servizio americano probabilmente c’era qualcosa che coinvolgeva loro. Vede, io ho ricevuto in regalo una targa dal capo del servizio inglese. In questa targa in inglese, glielo traduco in italiano: questo è uno sporco mestiere che solo i gentiluomini possono fare.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO A proposito dello sporco mestiere. Nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974 una bomba esplode sul treno Italicus, all'altezza di San Benedetto Val di Sambro in provincia di Bologna. 12 vittime. Ad oggi nessun colpevole. Dieci anni dopo, il 23 dicembre 1984, un'altra bomba su un treno all'altezza di San Benedetto Val di Sambro uccide 16 persone. Mandanti ed esecutori: P2, terroristi di destra e mafia corleonese. Solo i mafiosi verranno condannati. In dieci anni, compresa la strage alla stazione del 1980, sono 113 i morti solo nell'area di Bologna. Il processo sui mandanti della strage del 2 agosto ipotizza che alla fine degli anni ’70 si sia aggregata una formazione terroristica formata da uomini provenienti dai disciolti Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale insieme ai NAR per compiere la strage. E pone una antica domanda: chi dava loro ordini?

CORTE DI ASSISE BOLOGNA UDIENZA DEL 9 GIUGNO 2021 MASSIMO GIRAUDO - COLONNELLO DEI CARABINIERI C'è una testimonianza eccezionale e che dice tutto e chiude la partita. È la testimonianza del Capo di Stato Maggiore, defunto da tempo, della Terza Armata. Il Dottor Mastelloni o nel ’95 o nel ’96 interroga il Generale Emanuele Borsi di Parma, e... Borsi di Parma fa un’affermazione straordinaria, e cioè spiega: “Noi sapevamo che c’era una struttura di estrema destra supportata dalla NATO, e questa struttura probabilmente si chiamava Ordine Nuovo e Ordine Nuovo rispondeva alla base FTASE a Verona”.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il Comando FTASE delle forze terrestri alleate per il Sud Europa è stato un Comando della Nato con sede a Verona, attivo dal 1951 al 2004 con il compito di difendere il confine Est dell'Italia da un'ipotetica invasione sovietica. Giampaolo Stimamiglio è un ex esponente di Ordine Nuovo risultato determinante nella ricostruzione della strage di Piazza Fontana a Milano e di Piazza della Loggia a Brescia dove Ordine Nuovo ebbe un ruolo decisivo. Lui può dire chi erano i loro burattinai.

PAOLO MONDANI Ad un certo punto all’interno di Ordine Nuovo si forma una struttura a parte, lei può dire che questa doppia struttura interna a Ordine Nuovo si fosse occupata, diciamo così, della strategia della tensione?

GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO Sicuramente.

PAOLO MONDANI Insomma quelli che han messo le bombe per essere chiari…

GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO Si, era una struttura, praticamente l’ho definita una scuola di terrorismo vera e propria.

PAOLO MONDANI Chi la finanziava?

GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO Secondo me P2 e Umberto Federico d’Amato e operativamente Rauti con i vari Besutti, Massagrande, Maggi anche. La mente era Besutti sicuramente.

PAOLO MONDANI E Besutti prendeva ordini da qualcuno?

GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO Da Rauti.

PAOLO MONDANI E Rauti da chi prendeva ordini?

GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO Da Umberto Federico D’Amato.

PAOLO MONDANI E Umberto Federico D’Amato da chi prendeva ordini?

GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO Da Guerin Serac che era il responsabile europeo della strategia, sotto copertura di tipo, chiamiamola atlantista

PAOLO MONDANI Guerin Serac il capo della cosiddetta

AGINTER PRESS, GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO Esatto

PAOLO MONDANI agenzia di stampa dietro la quale in realtà…

GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO …c’era la NATO.

PAOLO MONDANI Chi erano i più importanti esponenti di Ordine Nuovo?

GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO Besutti e Massagrande.

PAOLO MONDANI C’era Marcello Soffiati no?

GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO Il Soffiati è l’unica persona che conosco io, che ne ho conosciuti tanti, che poteva accedere a Camp Darby.

PAOLO MONDANI ...è la base americana di Livorno.

GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO E li accedono soltanto pochissimi.

PAOLO MONDANI Lei ha detto che Marcello Soffiati era l’anima nera di Carlo Maria Maggi…

VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Esatto.

PAOLO MONDANI …il mandante della strage di Brescia. “Attenzione - lei dice - che noi stiamo parlando di un gruppo quello del veneto che è stato sempre al servizio delle basi americane. Degli Stati Uniti e della Nato lì

VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Carlo Maria Maggi era un Rauti dipendente. Carlo Maria Maggi non avrebbe mai fatto nulla senza gli ordini di Pino Rauti, o almeno con il consenso di Pino Rauti. Hanno stabilito rapporti che soltanto Rauti poteva favorire come referente della CIA in Italia, non Maggi. Con i servizi segreti americani, militari e civili, con i servizi segreti israeliani, con il Mossad avevano pure rapporti.

PAOLO MONDANI Lei ha scritto di Maggi e Soffiati che erano della Cia. Ma ha aggiunto Stefano Delle Chiaie.

VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Stefano necessariamente non poteva non essere a contatto con le persone della Cia dirette da, diciamo così, da James Angleton qui in Italia. Angleton è il personaggio che ha portato l’estrema destra alla CIA.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Già nel dopoguerra James Jesus Angleton divenne capo del controspionaggio americano a Roma e fu amico di Junio Valerio Borghese, ispiratore e maestro di Stefano Delle Chiaie. Angleton era legato a Federico Umberto D'Amato, il gran gourmet dello spionaggio italiano dal dopoguerra fino agli anni '90. Piduista e fondatore del Club di Berna che raccoglieva i capi dei servizi segreti occidentali, per 13 anni D'Amato ebbe accanto Antonella Gallo, che ereditò tutto il suo patrimonio, e il fratello Claudio. Suoi segretari particolari.

PAOLO MONDANI Federico Umberto D’Amato aveva rapporti con importantissimi generali americani: il generale Donovan, con Allen Dulles della CIA e soprattutto aveva stretto una amicizia particolare con James Angleton, che era il plenipotenziario della CIA in Italia per tutto il dopoguerra. Ha mai parlato di questi nomi?

CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO No. Lui aveva però, era rimasto in contatto con un esponente appunto della CIA e addirittura una volta lo ospitò nella casa di Parigi insieme alla sua famiglia.

PAOLO MONDANI Il signor Claude.

CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO Sì.

PAOLO MONDANI D’Amato fu insignito di una medaglia della CIA, la Bronze Star, una del Congresso degli Stati Uniti, la Medal of Freedom, e della Legion D’Onore francese. C

LAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO Sì e lui ne andava, di quello ne andava fiero. E da come le aveva esposte aveva piacere che fossero notate quando aveva ospiti nel suo ufficio

PAOLO MONDANI D’Amato aveva ovviamente rapporti anche con il Mossad, ma aveva un amico del Mossad che lo frequentava a casa…

CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO Si, mister Zimmerman perché gli faceva…

PAOLO MONDANI La manutenzione.

CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO La manutenzione degli Otomat, sono queste bambole a ricarica e veniva addirittura da Israele per fare solo questo.

TIMEWATCH BBC- 24 giugno 1992 - GLADIO THE FOOT SOLDIERS FEDERICO UMBERTO D’AMATO EX CAPO UFFICIO AFFARI RISERVATI MINISTERO DELL'INTERNO Direi che questo è l’automa della politica. Questo è il giocoliere, le jongleur.

PAOLO MONDANI Siamo all’inizio di agosto del 1996, improvvisamente muore Federico Umberto D’Amato e c’è il funerale. Chi viene al funerale?

CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO Allora, venne sicuramente il presidente Cossiga, il senatore Taviani.

PAOLO MONDANI L’amicizia con Mario Tedeschi il direttore de “Il Borghese”?

CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO Mario Tedeschi, sì, telefonava spesso.

PAOLO MONDANI Perché Mario Tedeschi che è stato direttore de “il Borghese” per trentasei anni preparava tutti i giorni una rassegna stampa che inviava a D’Amato il quale poi la inviava a Parisi, tutti i giorni?

CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO Questo giro di fax avveniva molto presto la mattina per avere la situazione istantanea di quello che veniva scritto nei vari giornali.

PAOLO MONDANI Lei sapeva dell’appartenenza di D’Amato alla P2?

CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO Sì

PAOLO MONDANI Gli ha mai chiesto di Licio Gelli? Chi fosse?

CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO Una volta io feci una domanda riferita a lui, che ne pensava, e lui mi disse che era un cretino.

PAOLO MONDANI Lei dice che nel suo ambiente in quegli anni, l'Ufficio Affari riservati di Federico Umberto D'Amato veniva definito l'Ufficio bombe. Mi spiega perché?

VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Eh sì. l'Ufficio bombe perché ormai si sapeva che questo ufficio aveva diciamo il compito anche tramite elementi di estrema destra, va bene, non rifuggiva dal far compiere attentati, noi pensavamo dimostrativi, ma sempre bombe erano.

PAOLO MONDANI In una vecchia intervista D’Amato disse che: “Uno spione degno di questo nome deve tenere sempre un piede nella legalità e tre fuori, ma non deve mai farsi beccare” come invece era accaduto praticamente a tutti i vertici dei servizi segreti italiani.

CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO E beh è la sua sintesi. D’Amato non era un personaggio da farsi usare, semmai usava. SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il capo dei servizi segreti Federico Umberto D’amato non si faceva certo usare semmai usava. È una persona che coincide con quanto ci ha detto Stimamiglio e Vinciguerra. La catena di comando da cui dipendevano le azioni dei terroristi neri era la seguente. A capi c’era Pino Rauti, ex Movimento Sociale italiano, sopra ancora c’era appunto Federico Umberto d’Amato, sopra ancora Gaurin Serac, che era il responsabile dell’agenzia che sfornava fake news, Aginter Presse, era soprattutto il responsabile sotto copertura della strategia atlantista. Guarin Serac che era sparito del 1975, si sono perse le tracce non si sa che fine abbia fatto. A trascinare invece la destra eversiva verso la CIA ci ha pensato James Angleton responsabile dei servizi di sicurezza americani nel nostro paese nel dopoguerra. Forse era questo il contesto che minacciava di sventolare il ricatto di Licio Gelli che minacciava di sventolare ogni volta che finisce nei guai con qualche processo. Nel 1981 nell’aeroporto di fiumicino viene sequestrato un plico nel doppiofondo di una valigia che veniva trasportata da Maria Grazia Gelli, figlia del venerabile. Dentro c’era il piano di rinascita democratica della P2. C’era tutta la politica dal golpe anticomunista a quella filo atlantista e pii anche quella più fine dell’occupazione silenziosa dello stato. Nella lista della P2 erano finito politici magistrati, uomini delle forze dell’ordine, uomini dei servizi segreti. Dentro quel plico c’era anche la direttiva westmorland, un generale dell’esercito statunitense una direttiva nella quale si legittimava l’uso della forza per contrastare lo sviluppo l’avanzata del comunismo nei paesi del patto atlantico. Si legittimavano anche se necessario gli attentati e le stragi. Secondo i magistrati quelle carte furono fatte ritrovare apposta da Licio Gelli era il ricatto che sventolava sotto gli occhi dello Stato certo che l’alleato americano non sarebbe mai stato coinvolto nei fatti giudiziari. Forse per questo che solo a distanza di 40 anni dai fatti il nome di Angleton e Federico Umberto d’Amato, legati alla strategia della tensione sono potuti emergere così chiaramente. Come è potuto emergere anche il fatto che nella palazzina di via Gradoli dove c’era la base dei terroristi rossi che hanno concepito il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro fosse anche un appartamento dei terroristi neri e anche più in la quello dei servizi di sicurezza che li osservavano. Insomma una palazzina del terrore che aveva anche un suo amministratore Domenico Catracchia che è entrato come imputato nel processo sulla strage di Bologna.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Roma, Via Gradoli. Nel 1978, al numero civico 96 si trovava la base romana delle Brigate Rosse. Qui progettarono il rapimento di Aldo Moro. Tre anni dopo, nel 1981, in questa stessa palazzina, i terroristi di destra dei Nar stabilirono il loro covo. Qualche tempo dopo si scoprì che Domenico Catracchia si era occupato della locazione di questi immobili gestiti anche da una società di fiducia del Sisde. Il servizio segreto civile. Catracchia era poi diventato il fiduciario personale di Vincenzo Parisi, allora vice direttore del Sisde, che a via Gradoli aveva acquistato alcuni appartamenti. Via Gradoli ha una sola via di fuga, eppure Br e Nar decisero di nascondersi qui, sotto gli occhi dello Stato. Domenico Catracchia è sotto processo per aver detto il falso sull'appartamento affittato ai Nar.

CORTE DI ASSISE DI BOLOGNA 19 NOVEMBRE 2021 ALBERTO CANDI - AVVOCATO GENERALE TRIBUNALE BOLOGNA Veniamo all’altro aspetto che non abbiamo ancora trattato e che invece riguarda la sua conoscenza con il Prefetto Parisi e i rapporti che lei ebbe con Parisi. Ce li può descrivere?

DOMENICO CATRACCHIA - IMMOBILIARISTA Sì. Io per vendere e affittare mettevo delle inserzioni, e il Dottor Parisi si vede che l’ha letta, voleva fare degli investimenti, perché non l’ha fatti solo con me, se n’è comprati parecchi per Roma.

ALBERTO CANDI - AVVOCATO GENERALE TRIBUNALE BOLOGNA Le ricordo che lei disse: “Posso affermare che con il Dottor Parisi si stabilì un rapporto molto fiduciario, e che diventammo amici. Un paio di volte andammo a cena insieme”.

DOMENICO CATRACCHIA - IMMOBILIARISTA Sì, sì, le confermo, però non mi ricordo adesso il ristorante.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Erano gli anni in cui si parlava di servizi deviati ma che in realtà rispondevano a precise direttive interne e internazionali. Il generale Pasquale Notarnicola (morto poco dopo la nostra intervista) è stato al Sismi tra il '78 e l'83, comandante della prima divisione, quella che si occupava di controspionaggio e antiterrorismo. Testimone dei 4 depistaggi effettuati dai capi del servizio diretto da Giuseppe Santovito, dal generale Pietro Musumeci e da Francesco Pazienza, agente Sismi a contratto. Tutti affiliati alla P2 di Licio Gelli.

PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 La mattina del 2 agosto alle ore 10 e 31, cioè sei minuti dopo che era avvenuta la strage io ricevetti una telefonata dal mio capocentro che mi informava che a Bologna era avvenuto un attentato, che c'erano crolli e probabilmente molti morti. Per me il primo segno di depistaggio è questo. Gli do la notizia e il direttore con … PAOLO MONDANI Santovito…

PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Santovito con molta serenità mi rispose: "Ma che dici, lì è una caldaia a gas che è scoppiata".

PAOLO MONDANI Tanto che la sera del 2 agosto si parlava di una caldaia a gas...come dire…

PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Lui me l'ha detto mezz'ora…

PAOLO MONDANI Non è difficile pensare che sia stata in qualche modo…

PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Precostituita.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il secondo depistaggio…

PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Il mio capocentro la prima cosa che fa mette sotto controllo gli estremisti bolognesi. Tra i quali gli estremisti di destra. E notano i miei uomini che uno di questi estremisti molto importanti è assente da Bologna. E gli danno un appuntamento in Sardegna.

PAOLO MONDANI Chi era questo…?

PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Si chiamava Naldi. E fa questa dichiarazione: "No, noi estremisti fascisti bolognesi non ne sappiamo assolutamente nulla della strage, pensiamo che la strage sia stata fatta da fascisti romani". La mattina dopo il Naldi si presentò alla stazione di Bologna ma alla stazione di Bologna gli andarono incontro due avvocati che lo sconsigliarono di presentarsi spontaneamente dal Procuratore della Repubblica ma di aspettare una convocazione. E chi poteva averli chiamati? Solo il mio capo.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Terzo depistaggio. A questo punto il generale Santovito ordina al generale Notarnicola e altri due ufficiali di scrivere un libro sul terrorismo internazionale. I contenuti del libro non ancora pubblico finiscono però sul settimanale Panorama e Santovito mostra grande irritazione per questa fuga di notizie.

PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Ma il segretario di Santovito che era un ufficiale di cavalleria, chissà per quale gesto benefico, mi disse: "Ma non ti preoccupare, non è vero che è arrabbiato perché il giornalista che ha scritto l'articolo è venuto qui a leggere il libro nella stanza a fianco di quella del direttore", e mi disse anche mi fece il nome del giornalista, dice: "E gli ha dato un compenso di tre milioni".

PAOLO MONDANI Però questa idea del terrorismo internazionale poco dopo la strage di Bologna e poco dopo il suo libro lei capisce che aveva…

PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Aveva un altro scopo. Aveva lo scopo di depistaggio.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Infine, il quarto depistaggio. Il 13 gennaio 1981 sul treno Taranto Milano viene trovata una valigia piena di esplosivo simile a quello della bomba di Bologna con alcuni biglietti aerei riconducibili a persone straniere.

PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Io la notizia l'ho avuta almeno due giorni prima, due pomeriggi prima. Dunque, ero come al solito nel mio ufficio e ricevo una telefonata dal capo dell'ufficio del direttore il quale mi dice vai all'aeroporto di Ciampino dove arriverà il direttore dall'America. E dall'aereo scesero, dal nostro aereo scesero il generale Santovito, Francesco Pazienza e Michael Ledeen…

PAOLO MONDANI Michael Ledeen della Cia.

PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Però era un agente della Cia che non agiva insieme agli altri. Entrò il generale Santovito, venne subito verso di me mi dette una busta e mi disse: "Provvedi perché è urgente". Aprii la busta, quando guardo una informativa assurda, era una informativa che prevedeva un trasporto di esplosivi su treni italiani ma era così completa che non poteva averla scritta un informatore qualsiasi, soltanto lo stragista poteva dare tutti quei dettagli.

PAOLO MONDANI …avere quei particolari. Come lei sa il colonnello Belmonte, il generale Musumeci, Licio Gelli e Francesco Pazienza verranno condannati per il depistaggio….

PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 E per calunnia…

PAOLO MONDANI Ma perché fu messa in atto l'operazione Terrore sui treni ai fini del depistaggio?

PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Sempre per dare l'impressione al governo e all'opinione pubblica che la strage di Bologna fosse stata compiuta da stranieri.

PAOLO MONDANI Lei può dire che chi ha pianificato i depistaggi era anche tra coloro che ha pianificato la strage?

PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Penso di sì, penso di sì, perché non c'è altra spiegazione.

PAOLO MONDANI Il generale Santovito?

PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Beh certamente il generale Santovito ma io non so se sia stato il solo. Per me le menti raffinatissime stavano fuori dalla nazione.

PAOLO MONDANI Lei generale, in una commissione parlamentare di inchiesta afferma: "Nessuno mi aveva detto, durante la mia permanenza al servizio, dell'esistenza della Stay Behind, di Gladio".

PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Ho sempre l'impressione che la Gladio legittima servisse anche a nascondere una Gladio illegittima, che era la Gladio delle stragi. Gelli che viene tanto magnificato io lo ritengo un prestanome. Io penso che fin da allora Gelli avesse a che fare con gli Stati Uniti.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il Kintsugi è il nome di un’antica arte giapponese usata per riparare gli oggetti in ceramica. E consiste nel saldare insieme i frammenti usando l'oro. Alla fine, l'oggetto riparato è più prezioso. Questa tecnica rimanda a una scelta di vita: le nostre cicatrici interiori, soprattutto le più dolorose, possono diventare trame preziose. Iwao Sekiguchi era uno studente giapponese di vent’anni quando fu ucciso dalla bomba alla stazione. Il papà di Iwao, che venne da Tokyo per seguire le udienze del processo per la strage disse che i familiari delle vittime potevano superare il trauma della perdita: lo spirito combattivo della città di Bologna è l'oro che avrebbe riparato le ferite. Resta una domanda: l'attuale processo di Bologna sui mandanti della strage a 40 anni dai fatti ci restituisce giustizia?

LEONARDO GRASSI - EX PUBBLICO MINISTERO STRAGE ITALICUS E BOLOGNA Secondo me tutte le forze che avevano partecipato alla lotta contro il comunismo con modalità non ortodosse: la mafia, i fascisti, i piduisti e questo e quello, una volta caduto il Muro di Berlino dovevano essere fatte salve. Queste persone che avevano goduto di potere, impunità e denaro non potevano essere abbandonate così e messe ai giardinetti. Un mio amico ha fatto l'accostamento fra questo processo di Bologna e il processo di Norimberga, però il processo di Norimberga è venuto nell'immediatezza dei fatti, questo processo qui viene quaranta anni dopo, e il processo di Norimberga è quello che i vincitori fanno sui vinti cambiando addirittura le regole del diritto internazionale. Ma qui chi sono i vincitori e chi sono i vinti.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il generale Notarnicola sapeva di avere i giorni contati e ci ha telefonato e ha detto: “prima di morire sento la necessità di rilasciare una intervista a Report per raccontare i fatti”. Il generale Notarnicola è stato responsabile della prima divisione del SISMI, quella del controspionaggio e dell’antiterrorismo. Dagli anni che vanno dal 1978 all’ 83. È stato testimone dei tentativi di depistaggio dei suoi responsabili: il generale Santovito, Musumeci, Francesco Pazienza legato alla CIA e consulente esterno del SISMI, tutti e tre legati alla P2 di Licio Gelli. Notarnicola ha anche detto che secondo lui il mandante, chi ha fatto il depistaggio è anche il mandante di queste stragi, e Licio Gelli non è null’altro che il prestanome di menti raffinatissime che sono dall’altra parte dell’oceano. Diciamo che forse questa è una verità percepita da decenni solo, dai tempi dell’“Io so” di Pier Paolo Pasolini solo che sentirsela però dire da un responsabile del SISMI, dell’antiterrorismo fa un certo effetto. Ora la domanda è perché è stata realizzata la strage di Bologna? Qual è il movente? Secondo l’ex ordinovista Vinciguerra è stata fatta per distrarre l’opinione pubblica dalla strage di Ustica commessa un mese prima. Poi dal processo di Bologna sta emergendo anche la causale eversiva. Licio Gelli era braccato dalle indagini sul Banco Ambrosiano, quelle anche sull’omicidio del giudice Occorsio, che aveva indagato per primo sulla P2, poi anche sulle indagini dell’omicidio del giudice Amato avvenuto un mese prima della strage di Bologna. Poi c’era anche la necessità di riaccreditarsi verso i suoi referenti oltreoceano e anche di tutelare la sua posizione di capo della P2 e ogni tanto bisognava anche fronteggiare l’idea che spuntava qua e là del compromesso storico di un governo con i comunisti. Ecco perché la strage di Bologna sembra avere una sua continuità in quelle che saranno le stragi di mafia del 92-93 quando gli orfani della guerra fredda hanno reagito perché i poteri occulti, i poteri criminali, vedevano messo a rischio quello status quo dove avevano piantato le loro radici, i loro affari la loro impunità e hanno reagito nella maniera che abbiamo visto per evitare anche di essere spazzati via. A questo punto è legittima la domanda del magistrato Leonardo Grassi: “a che serve la verità dopo 40 anni? Chi sono i vincitori e chi sono i vinti? La ricetta è forse nella risposta che da Iwao Sekiguchi, il ragazzo giapponese che da Tokyo era venuto a Bologna per studiare, morto nella strage di Bologna. Il papà veniva alle prime udienze del processo è ha detto ai familiari che il dolore della morte si può superare solo applicando la metafora del Kintsughi, cioè di quell’arte giapponese di riparare gli oggetti di ceramica frantumati con l’oro, L’oro rimane dentro le crepe, dentro le ferite e le impreziosisce. In questo caso l’oro della strage di Bologna viene rappresentato da chi non ha mai smesso di cercare la verità.

Report, perquisizioni in redazione e a casa del giornalista Mondani: "Si indaga sui legami tra mafia ed estrema destra nell'attentato a Falcone". La Repubblica il 24 maggio 2022.  

Nella trasmissione andata in onda ieri sera su Rai Tre veniva evidenziata la presenza del leader di Avanguardia nazionale, Stefano delle Chiaie, sul luogo dell'attentato di Capaci. Morra, commissione Antimafia: "Non va bene".

Perquisizioni nella redazione del programma Rai Report e nell'abitazione dell'inviato della trasmissione Paolo Mondani. Questa mattina la Direzione investigativa antimafia, su mandato della procura di Caltanissetta, ha bussato alle porte della trasmissione d'inchiesta andata in onda ieri sera su Rai Tre e dell'inviato autore del servizio "La bestia nera", durante il quale Report ha provato a ricostruire, a 30 anni di distanza, i legami tra estremisti di destra e uomini di mafia nell'omicidio di Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo, e degli uomini della scorta.

A dare notizia delle perquisizioni è stato Sigfrido Ranucci, conduttore e autore di Report, vicedirettore di Rai Tre. Il motivo delle perquisizioni, scrive Ranucci su Twitter, "sarebbe quello di sequestrare atti riguardanti l'inchiesta di ieri sera sulla strage di Capaci nella quale si evidenziava la presenza di Stefano Delle Chiaie, leader di Avanguardia nazionale, sul luogo dell'attentato di Capaci. Gli investigatori cercano atti e testimonianze su telefonini e Pc.

"Questo non va bene", è stato il commento a caldo di Nicola Morra, presidente della commissione parlamentare Antimafia.

Strage di Capaci, blitz della Dia nella redazione di Report. E Morra si “oppone”: «Non va bene…». Gli investigatori sono entrati anche a casa del giornalista Paolo Mondani che ha realizzato il servizio sul presunto coinvolgimento di Stefano Delle Chiaie nell'evento mortale che portò all'uccisione di Giovanni Falcone. Il Dubbio il 24 maggio 2022.

È in corso una perquisizione della Dia «su mandato della Procura di Caltanissetta, presso l’abitazione dell’inviato di Report Paolo Mondani» e la redazione dei Report di Sigfrido Ranucci. A darne notizia è lo stesso giornalista Ranucci che ieri ha condotto la trasmissione. «Il motivo – dice Ranucci – sarebbe quello di sequestrare atti riguardanti l’inchiesta di ieri sera sulla strage di Capaci nella quale si evidenziava la presenza di Stefano Delle Chiaie, leader di Avanguardia nazionale, sul luogo dell’attentato di Capaci». «Gli investigatori cercano atti e testimonianze su telefonini e Pc», dice.

Perquisizioni della Dia nella redazione di Report, parla Morra

«Questo è….e non va bene». Così, il Presidente della Commissione nazionale antimafia Nicola Morra commenta la perquisizione, ancora in atto, della Dia nella redazione di Report e presso l’abitazione dell’inviato Paolo Mondani, dopo la puntata di ieri sera sulla strage di Capaci e il presunto coinvolgimento di Stefano Delle Chiaie.

L’ANTEPRIMA DI REPORT. A preparare l’attentato a Falcone c’era anche il terrorista nero Delle Chiaie. GIULIA MERLO su Il Domani il 23 maggio 2022

Nella puntata di Report in onda stasera, lunedì 23 maggio, alle ore 21.20, si mostra come, a trent’anni di distanza dalla strage di Capaci, la pista mafiosa e quella nera si potrebbero sovrapporre

A trent’anni di distanza dalla strage di Capaci, la pista mafiosa e quella nera si potrebbero sovrapporre.

A farlo emergere - in una inchiesta di Report a firma di Paolo Mondani in onda questa sera (lunedì 23 maggio alle ore 21.20) e che Domani è in grado di anticipare - sono i contenuti di informative di polizia, dichiarazioni di pentiti ascoltate in altri processi e parole inedite di testimoni.

Uno dei profili fondamentali è quello di Mariano Tullio Troia, soprannominato U'Mussolini per le sue simpatie politiche, uno dei boss mafiosi di Palermo.

Il suo autista e guardaspalle si chiama Alberto lo Cicero, informatore della polizia e poi pentito. Secondo quanto racconta a Report l’ex brigadiere Walter Giustini, che di Lo Cicero era il contatto, l’informatore mette le forze dell’ordine sulla strada giusta per catturare Totò Riina già nel 1991, pochi mesi prima della strage di Capaci e due anni prima del suo arresto.

Giustini, infatti, racconta che Lo Cicero lo avvisò di aver notato, durante le riunioni dei vertici di Cosa Nostra nella proprietà di Troia, «Totò Riina veniva accompagnato da Biondino Salvatore». Biondino, di cui i carabinieri avevano tutti gli indirizzi e avrebbero potuto pedinare. Ma nulla sarebbe accaduto dopo questa informativa.

Non solo: Lo Cicero abita a Capaci e avverte anche di aver notato «la presenza di personaggi di spicco di Cosa Nostra che secondo lui non avrebbero avuto motivo di essere lì se non perché doveva succedere un qualcosa di eclatante», riferisce il brigadiere Giustini. Anche questo, però, secondo Report sarebbe caduto nel nulla.

IL RUOLO DI DELLE CHIAIE

Dalle parole di Lo Cicero emerge anche altro. Nel servizio di Report lo racconta Maria Romeo, compagna di Lo Cicero, che parla della presenza a Capaci di Stefano Delle Chiaie.

Il capo di Avanguardia Nazionale, coinvolto nel tentato golpe Borghese, nei processi per le stragi di Piazza Fontana e della stazione di Bologna, è stato collocato dal pentito sul luogo della strage che uccide il giudice Falcone.

Delle Chiaie, infatti, incontra il boss Troia e, secondo quanto Lo Cicero dice alla compagna, sarebbe stato «l’aggancio fra mafia e lo Stato», spedito in Sicilia «con il mandato di “quelli di Roma”». Maria Romeo dice che Lo Cicero ha fatto un sopralluogo con Delle Chiaie «dove c’era un tunnel a Capaci», ovvero dove poi sarebbe stato messo il tritolo per colpire la macchina di Falcone.

Dalla ricostruzione di Report, però, i colloqui investigativi di Giustini non vengono tenuti in considerazione. L’unico a farlo, dopo la morte dell’amico, è Paolo Borsellino che sta indagando in via riservata. Maria Romeo, infatti, racconta di aver accompagnato Lo Cicero (nel frattempo entrato nel progrmma di protezione testimoni) nell’ufficio del giudice, dove i due si sono trattenuti per quattro ore e il pentito gli ha confidato anche della presenza di Delle Chiaie a Capaci.

Borsellino non fa in tempo a fare nulla: il 19 luglio, viene eliminato nella strage di via D’Amelio. Solo un anno dopo la morte di Falcone, invece, Antonino Troia è tra i mafiosi a finire in carcere per la strage.

Nel maggio 1999, il rapporto di Delle Chiaie con la mafia spunta anche nelle parole di un altro collaboratore, il messinese Luigi Sparacio, ascoltato dal magistrato Gabriele Chelazzi che stava indagando sulle bombe di Roma del 1933 e sulle stragi di Firenze e Millano. Sparacio rivela al magistrato di aver incontrato a Roma il capo di Avanguardia nazionale, il quale «Dava delle strategie politiche da seguire a “cosa nostra” e che consegnò una mappa dell'Italia con dei "segni fatti con la x» che rappresentavano «degli attentati da fare».

Se le testimonianze raccolte da Report fossero confermate, il quadro sarebbe quindi inedito: Delle Chiaie si sarebbe comportato in Sicilia negli anni Novanta nello stesso modo con cui si era relazionato con la ‘ndrangheta nell’ottobre del 1969, quando si era recato in Aspromonte insieme al leader di Ordine Nuovo Pierluigi Concutelli e l’ex gerarca fascista Junio Valerio Borghese, per partecipare a un summit dei boss calabresi. Il suo ruolo, infatti, sarebbe stato quello di supervisore della strage di Capaci e di suggeritore delle bombe del 1993.

LA STRATEGIA STRAGISTA

Agli inizi degli anni Novanta, inoltre, Delle Chiaie si butta in politica con il progetto delle Lege meridionali e questo gli dà modo di muoversi sull’isola. Non solo per la politica, però. Secondo le testimonianze di Report anche per svolgere riunioni segrete per organizzare le stragi: insieme a lui, che rappresentava la destra eversiva, ci sarebbero stati con la cupola di Cosa Nostra e uomini della P2 di Licio Gelli.

Nella strategia di destabilizzazione degli anni Novanta, infatti, Report ricostruisce anche la possibile presenza dei servizi segreti. A partire dalla strage di Capaci: l‘ex agente di polizia penitenziaria ed ex membro della famiglia Madonia, Pietro Riggio, rivela infatti il coinvolgimento di uomini dei servizi segreti nella strage. In particolare, parla di un agente dei servizi segreti, Giovanni Peluso, indagato come "compartecipe ed esecutore materiale" della strage.

La compagna Marianna Castro racconta a Report che il militare sarebbe sparito per tre giorni a cavallo della strage e che poi le avrebbe confessato che a uccidere Falcone erano stati i servizi segreti. Del dipartimento dove lavorava il compagno, dice: «La politica li chiamava quando c’era qualcuno che dava fastidio e loro intervenivano facendo pulizie».

Coincidenze, informative non utilizzate e verbali mai incrociati: in queste pieghe, secondo Report, potrebbero nascondersi i segreti del livello superiore rispetto agli esecutori materiali della strage di Capaci. Del resto, dopo il fallito attentato dell’Addaura era stato lo stesso Falcone a voler guardare oltre, dicendo che, per capire le ragioni di chi aveva provato ad ucciderlo, bisognava pensare all’esistenza di «centri occulti di potere in grado di orientare certe azioni della mafia». GIULIA MERLO

La bestia nera. Report Rai PUNTATA DEL 23/05/2022 di Paolo Mondani

Collaborazione di Marco Bova, Roberto Persia

Consulenza di Andrea Palladino

A 30 anni dalla morte di Giovanni Falcone, emergono documenti e protagonisti dimenticati in grado di gettare una nuova luce su quei fatti.

A Capaci, Cosa Nostra non ha agito da sola: estremisti di destra e uomini di mafia, secondo testimoni e documenti ritrovati, sarebbero stati di nuovo insieme, dopo gli anni della strategia della tensione, in un abbraccio mortale costato la vita ai giudici Falcone e Borsellino. I due magistrati avevano il quadro completo, e oggi, tornando ad ascoltare collaboratori ed ex carabinieri, Report prova a ricostruirlo.

LA BESTIA NERA di Paolo Mondani Collaborazione Marco Bova, Roberto Persia Consulenza Andrea Palladino Videomaker Dario D'India, Davide Fonda, Alessandro Spinnato e Andrea Lilli

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Capaci 23 maggio come via D'Amelio 19 luglio. Sono passati trent'anni. Storici e magistrati hanno letto i fatti della strategia della tensione degli anni '70 e '80 distinguendoli dalle stragi di mafia dei primi anni '90. Oggi scopriamo invece che gli uomini dell'eversione di destra, dei depistaggi degli apparati deviati dello Stato, della massoneria piduista potrebbero non essere estranei ai morti di trenta anni fa. E dei mandanti cominciamo a scorgere l'identikit. Ben oltre Totò Riina.

PAOLO MONDANI Falcone dopo l’Addaura parla di menti raffinatissime, che avevano organizzato quell’attentato. In realtà, noi conosciamo e rappresentiamo solo quella frase, ma la frase è più lunga.

ROBERTO TARTAGLIA VICE CAPO DAP - EX PM PROCESSO TRATTATIVA STATOMAFIA È esattamente così perché dice "ho la sensazione – vado quasi a memoria – che per comprendere le ragioni che hanno portato qualcuno a decidere e a pensare di eliminarmi bisognerà pensare all’esistenza di – e questo è testuale – centri occulti di potere in grado di orientare certe azioni della mafia”.

GIUSEPPE LOMBARDO - PROCURATORE AGGIUNTO DI REGGIO CALABRIA Le dico sinceramente che bisogna anche abbandonare una ipocrisia di fondo che spesso e volentieri ruota attorno al concetto di zona grigia che è un concetto che non mi convince. Io sono assolutamente convinto che quello che è il grigio in questo caso è una sfumatura del nero è il nero è mafia.

ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Emergono sempre di più momenti di connessione tra delitti eccellenti e stragi imputate alla mafia nel 1992-93 e stragi che sono imputate all’estremismo di destra, in collaborazione con esponenti della P2 e dei servizi segreti al nord ed è per questo che la Corte d’assise di Bologna cita Falcone, il quale Falcone in una audizione del 1988 alla Commissione parlamentare Antimafia dice, forse dovremmo rileggere tutta la storia italiana.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ci si è guardati bene dal rileggere la storia italiana. La storia delle stragi. Giovanni Falcone aveva rilasciato in alcune audizioni della Commissione Antimafia dell’88 e del ‘90 alcune dichiarazioni a lungo segretate in base alle quali proponeva appunto di rileggere la storia degli omicidi eccellenti e delle stragi in Sicilia. Lui era rimasto folgorato dalla morte, dall’uccisione, di Piersanti Mattarella, fratello del presidente, un politico che aveva cercato di rivoluzionare la politica regionale siciliana. Aveva abbracciato la linea di Aldo Moro, quella del compromesso storico, in contrapposizione con le correnti della Dc di Salvo Lima, Andreotti e Forlani. Mattarella sarebbe diventato dà la a poco probabilmente vicesegretario nazionale, perché c’era il congresso e forse per questo andava eliminato immediatamente. Falcone non credeva che fosse opera esclusivamente della mafia. Aveva raccolto testimonianze in base alle quali Licio Gelli sarebbe stato il mandante, gli esecutori invece membri dei Nuclei Armati Rivoluzionari, Giusva Fioravanti e Cavallini cioè gli stessi che poi verranno coinvolti nella strage di Bologna. Una pista quella investigativa di Falcone, che è rimasta però in sospeso ma dai verbali dimenticati emerge che Falcone e Borsellino stavano realmente indagando e credevano a un ruolo della massoneria deviata, della P2, di gladio, della destra eversiva un ruolo nelle stragi e negli omicidi eccellenti avvenuti per opera della mafia in Sicilia. È una realtà che sta emergendo con prepotenza dalle carte del processo di primo grado sui mandanti della strage di Bologna dove si ipotizza anche che alcuni membri dei movimenti disciolti di Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo si fossero poi uniti a quelli dei Nar per realizzare attentati e omicidi con il fine di destabilizzare il Paese. Il nostro Paolo Mondani ha raccolto delle testimonianze che vi proponiamo in esclusiva che confermerebbero che la pista della destra eversiva è perfettamente sovrapponibile a quella della mafia, per quello che riguarda se non altro gli attentati, l’attentato a Capaci. Ha raccolto la testimonianza dell’ex brigadiere Giustini che aveva a sua volta raccolto la confidenza di Alberto Lo Cicero, che era l’autista di un boss molto rispettato dell’organizzazione mafiosa, e Lo Cicero dice che Riina si sarebbe potuto catturare prima delle stragi. Lo Cicero racconta anche di un sopralluogo prima della strage di Capaci del leader di Avanguardia Nazionale, Stefano Delle Chiaie.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Dopo la morte di Giovanni Falcone ci si è guardati bene dal rileggere la storia italiana, eppure sotto montagne di carte sta riemergendo una vicenda straordinaria. Da vecchi archivi stanno emergendo verbali colpevolmente scomparsi per decenni, come quelli riguardanti un pentito pressoché sconosciuto: Alberto Lo Cicero. Autista e guardaspalle del boss Mariano Tullio Troia, Lo Cicero nel 1991, a pochi mesi dalla strage di Capaci, mette sulla strada giusta un brigadiere dei carabinieri, raccontandogli come catturare nientemeno che Totò Riina.

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Ci disse che lui partecipava a degli incontri perché lui faceva l’autista all’altro boss Troia Mariano Tullio e notava che quando c ’erano queste riunioni nella proprietà del Troia, Totò Riina veniva accompagnato da Biondino Salvatore.

PAOLO MONDANI Quando fa l’informativa nella quale fa sapere ai suoi superiori che Biondino era l’autista di Totò Riina?

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Prima delle stragi.

PAOLO MONDANI Se avessero dato ascolto a questo Lo Cicero...

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Certo.

PAOLO MONDANI Si sarebbe potuto arrestare Riina prima della strage di Capaci.

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Riina, non solo. Pochi giorni prima della strage di Capaci mi disse che aveva notato a Capaci, perché Lo Cicero abitava a Capaci, la presenza di personaggi di spicco di Cosa Nostra che secondo lui non avrebbero avuto motivo di essere lì se non perché doveva succedere un qualcosa di eclatante.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO I magistrati di Palermo non credono subito a Lo Cicero e Riina verrà catturato solo il 15 gennaio del 1993. Lo Cicero parla ai carabinieri da fine '91 e continua per qualche mese, da infiltrato, a fare l'autista di Mariano Tullio Troia, boss di San Lorenzo e componente della cupola di Cosa nostra che verrà catturato nel 1998. Lo Cicero racconta che Riina lo rispettava al punto da abbassare gli occhi quando lo incontrava. Ma chi era Mariano Tullio Troia?

ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Il collaboratore Onorato ha riferito che nel villino di Mariano Tullio Troia ci furono delle riunioni in cui si discusse l’attentato all’Addaura a Giovanni Falcone. E da altre risultanze risulta che Mariano Tullio Troia era uno dei personaggi più vicini alla destra eversiva tanto che veniva soprannominato U ’Mussolini, il Mussolini.

PAOLO MONDANI Poi lo Cicero le parla di un personaggio che incontra in quei mesi, che conosce forse in quel periodo, che è Stefano delle Chiaie.

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE DEI CARABINIERI PALERMO A noi di Stefano delle Chiaie ce ne ha parlato prima la Romeo.

PAOLO MONDANI Si, che era la fidanzata di Lo Cicero.

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Esatto. Mi ha detto: “è ma è molto amico di mio fratello”, si vabbè dai, mo conosci Stefano Delle Chiaie te? E lei mi ha detto. “guarda io c’ho anche delle foto” e mi fornì delle foto in bianco e nero, che raffiguravano Stefano Delle Chiaie insieme al fratello della Romeo, Domenico Romeo, seduti a un tavolo come se parlassero a un pubblico, come se fosse un convegno, un incontro.

PAOLO MONDANI E Lo Cicero le parla di Delle Chiaie?

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO So che è amico del fratello di Maria, ogni tanto l’ho visto qui a Capaci però….

PAOLO MONDANI Delle Chiaie veniva a Capaci?

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Lui lo aveva visto un paio di volte pure a Capaci. PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Stefano delle Chiaie è stato il capo di Avanguardia Nazionale, coinvolto nel tentato golpe Borghese, indagato e prosciolto nei processi sulle stragi di Piazza Fontana e della stazione di Bologna. Esperto di guerra non ortodossa e guerriglia urbana. Vincenzo Vinciguerra, all'ergastolo per strage, è stato un fedelissimo amico di delle Chiaie e ha parlato dei suoi rapporti con la P2 di Licio Gelli e con i servizi segreti.

PAOLO MONDANI Stefano delle Chiaie ha mai avuto relazioni con Cosa Nostra? Con uomini di Cosa Nostra?

VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE A me è rimasto sempre un dubbio. Quando nell’estate, nel luglio del '79 eravamo in difficoltà io e Stefano, era difficile anche trovare un posto dove fare la latitanza, dove stare. A un certo punto lui mi dice “al limite andiamo a Caltanissetta a trovare una persona”, in tutti questi anni io ho cercato a Caltanissetta se c’era un camerata, non ho trovato un solo nome. Comunque, è chiaro che Stefano, come tutti quelli dell’estrema destra, perché non dobbiamo personalizzare, il rapporto con la criminalità organizzata è stato sempre costante. È stato costante con la mafia, io ho parlato dei rapporti con Frank Coppola, quelli li avevano chiaramente i rapporti con Frank Coppola. Io dico che l’estrema destra non è stata mai una forza di opposizione allo Stato, l’estrema destra è stata una forza di appoggio allo Stato. Ha fatto ciò che gli apparati ufficiali dello Stato non potevano fare.

PAOLO MONDANI Lei ha scritto che Stefano delle Chiaie aveva una massa di informazioni impressionante, ma chi gliele dava queste informazioni? Per farne che cosa?

VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Avanguardia Nazionale era un’organizzazione come Ordine Nuovo preposta alla raccolta di informazioni, per questo infiltrava anche i propri uomini in altri partiti e in altre organizzazioni. È chiaro che queste informazioni affluivano all’apparato di riferimento.

PAOLO MONDANI Le passava ai servizi, insomma, per intenderci.

VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Ovvio.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Molti collaboratori hanno riferito di stretti legami di Delle Chiaie con la ‘ndrangheta. Anche l’ex compagna di lo Cicero ci conferma i contatti con la mafia e parla di uno Stefano Delle Chiaie a Capaci prima della strage del 23 maggio.

PAOLO MONDANI Alberto Lo Cicero racconta che Stefano Delle Chiaie lo accompagna da Mariano Tullio Troia che era il boss di …

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO …di Palermo, sì. Sì, ma da Alberto l’ho saputo perché Alberto mi raccontava tutto.

PAOLO MONDANI Alberto Lo Cicero accompagna Stefano delle Chiaie a Capaci nell’area che poi sarà di interesse per la strage.

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Glielo ho detto prima se non mi sbaglio che Alberto ha fatto un sopralluogo con queste persone dove c’era un tunnel a Capaci.

PAOLO MONDANI Il tunnel dove hanno messo la bomba?

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Si perché poi io ne ho parlato con i carabinieri, ho menzionato tutte queste persone.

PAOLO MONDANI Mi spieghi cosa le ha detto Alberto rispetto al ruolo di Stefano delle Chiaie nella preparazione di quell’attentato.

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Alberto pensava che Stefano delle Chiaie era l’aggancio fra mafia e lo Stato.

PAOLO MONDANI Cioè Alberto le disse che Stefano delle Chiaie aveva il ruolo di …

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO …di portavoce di quelli di Roma.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Siamo a fine maggio del 1992, tra la strage di Capaci e quella di Via D'Amelio. Lo Cicero sta entrando nel programma di protezione e viene convocato da Paolo Borsellino che riservatamente indaga sulla morte dell'amico Giovanni.

PAOLO MONDANI Dove avviene quell’incontro?

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO A Palazzo di Giustizia.

PAOLO MONDANI Verso che ora?

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Verso le 19:00.

PAOLO MONDANI Per quanto tempo sta con Borsellino?

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Me lo ricordo perfettamente, verso mezzanotte è uscito.

PAOLO MONDANI E lei l’aspettava in macchina…

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO No, no io aspettavo fuori la stanza seduta in una poltrona.

PAOLO MONDANI Cosa aveva voluto sapere Borsellino?

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Chi erano le persone che lui aveva visto a Capaci, con chi aveva parlato.

PAOLO MONDANI Quindi Alberto Lo Cicero, mi conferma gli parlò di Stefano delle Chiaie?

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Si parlò di Stefano delle Chiaie.

PAOLO MONDANI Ma questo a lei lo disse Alberto Lo Cicero?

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Certo che me l’ha detto.

PAOLO MONDANI Guarda che io a Borsellino gli ho detto di Stefano delle Chiaie.

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO …a me mi ha detto Alberto uscendo di là, strada facendo in macchina, per arrivare che io abitavo a Isola, mi ha detto che gli ha parlato della nuova organizzazione mafiosa che i contatti Roma – Palermo li teneva Stefano delle Chiaie. Diciamo che Borsellino non era nuovo di queste cose. Già forse qualcun altro gli aveva parlato. Alberto ha avuto l’impressione che Borsellino avesse tutto il quadro.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Borsellino aveva il quadro e convocò il brigadiere dei carabinieri Walter Giustini dopo aver letto tutte le sue informative.

PAOLO MONDANI La cosa importante è che Borsellino quando parlate di Lo Cicero, lei Giustini con Borsellino, Borsellino le dice qualcosa….

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Mi ricordo era verso l’ora di pranzo, era verso mezzogiorno e mi disse: "senti tu stai attento, guardati le spalle perché hai messo le mani su dei personaggi particolari, quindi di solito Cosa Nostra quando tu gli tiri fuori dei personaggi che loro tengono celati reagiscono” e mi disse ”tu sei giovane e ti devi guardare le spalle. Io devo morire, ma tu no perché tu sei giovane e guardati le spalle”. E io gli feci la battuta e dissi: “Dottò, e basta co sto devo morì”, mi disse “dai casomai ci vediamo lunedì, se mi serve qualcosa ti chiamo” e invece purtroppo non ha fatto più in tempo perché la domenica è saltato in aria.

PAOLO MONDANI A un certo punto viene a sapere, lei Giustini, che contro di lei si era messo addirittura Bruno Contrada.

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Ho saputo che era andato dal mio comandante provinciale, comandante di gruppo all’epoca, a chiedere il mio allontanamento da Palermo perché secondo lui io stavo intralciando delle indagini dei servizi.

PAOLO MONDANI Lei il 23 maggio '92, proprio il giorno della strage, infatti, stava facendo un servizio di osservazione...

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Lì a Capaci. A Troia Antonino, Sensale, facevamo dei servizi di osservazione dentro Capaci perché non sapendo ancora che sarebbe successa la strage...

PAOLO MONDANI Ma sempre sulla base delle cose dette da Lo Cicero.

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Da Lo Cicero, da quell’indagine poi dalle intercettazioni telefoniche...

PAOLO MONDANI Si rende conto che stavate sulla pista giusta?

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Io lo so, che stavamo sulla pista giusta.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ma non hanno fatto in tempo. L’ex brigadiere Giustini che ha raccolto la testimonianza del suo confidente Lo Cicero, autista di un boss, Mariano Tullio Troia, tenuto molto in considerazione anche da Riina, chiamato U’Mussolini per le sue simpatie fasciste. Lo Cicero dice, dà delle indicazioni, dice l’autista di Totò Riina è Salvatore Biondino, un’informazione che sarebbe stata fondamentale per poter arrestare Riina prima delle stragi di Capaci e via d’Amelio perché i carabinieri sapevano tutto di Salvatore Biondino e infatti è proprio Biondino che viene arrestato con il capo dei capi nel gennaio del ’93 alla guida della sua auto. Tuttavia, le informazioni di Lo Cicero rimasero lettera morta. Oggi le conferma la sua compagna Maria Romeo, la quale conferma che delle Chiaie è sceso giù in Sicilia, ha incontrato Troia nella sua abitazione, quella dove si sarebbero anche svolte alcune riunioni propedeutiche alle stragi, anche a quell’attentato poi mai realizzato, ma era un’intimidazione dell’Addaura. Poi ha anche confermato che Delle Chiaie ha fatto un sopralluogo a Capaci prima della strage e ha confermato anche che Lo Cicero, il suo compagno avrebbe parlato di tutto questo a lungo con Borsellino. Se queste testimonianze venissero confermate, Delle Chiaie si sarebbe comportato come già si era comportato nell’ottobre del ’69 quando insieme a Concutelli e Junio Valerio Borghese, Concutelli il leader di Ordine Nuovo, si erano recati sull’Aspromonte e hanno partecipato a un summit della ’ndrangheta. I tre avrebbero dovuto portare secondo le testimonianze soldi, armi e competenze per azioni eversive e infatti da lì a poco si sarebbero consumati i moti di Reggio e anche organizzato il fallito golpe borghese. Oggi Delle Chiaie lo ritroviamo invece in Sicilia, secondo la testimonianza di Lo Cicero. Lo Cicero era considerato un collaboratore scomodo anche dall’organizzazione mafiosa. Cosa Nostra voleva ucciderlo e avrebbe anche impiegato un killer d’eccezione, Spatuzza, il killer dei fratelli Graviano. Ma non c’è solo la testimonianza di Lo Cicero, altri parlano dell’attivismo di Delle Chiaie in Sicilia soprattutto negli anni ’90 quando perseguiva un progetto, quello delle leghe teso a balcanizzare il nostro paese e stabilizzarlo. Lungo questo cammino ha trovato anche dei compagni di viaggio pidduisti, commercialisti di stragisti e avvocati legati ai servizi segreti.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Solo un anno dopo la morte di Falcone, Giuseppe Sensale e Antonino Troia, finiranno in carcere per la strage. Perché le informative del brigadiere Giustini non furono tenute nel giusto conto? Ma c'è di più: il 19 maggio 1999, il magistrato Gabriele Chelazzi che indagava sulle stragi di Firenze e Milano e sulle bombe di Roma del 1993 interrogò il pentito messinese Luigi Sparacio, un collaboratore assai controverso, che rivelò che prima di questi attentati si era incontrato a Roma con Stefano Delle Chiaie che: "dava delle strategie politiche da seguire a Cosa nostra” e che consegnò una mappa dell'Italia con dei "segni fatti con la x" che rappresentavano "degli attentati da fare". Delle Chiaie avrebbe quindi fatto da supervisore della strage di Capaci e suggeritore delle bombe del 1993. Chelazzi si fermò ma non conosceva le rivelazioni di Alberto Lo Cicero. Ora facciamo un passo indietro. Siamo nel 1990 e Delle Chiaie si butta in politica ...

PAOLO MONDANI 90-91-92-93… c'è questo fenomeno del leghismo meridionale.

ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 C'era una connessione molto stretta tra un progetto politico iniziale, che era quello di creare un nuovo soggetto politico, la Lega Meridionale, che doveva agire di concerto con la Lega Nord per creare un’ Italia federale nell’ambito della quale il sud deve essere lasciato alle mafie e la strategia stragista di destabilizzazione. Ce lo dicono vari collaboratori di giustizia che ci riferiscono appunto, che questo progetto fu discusso segretamente nel 1991, in tutti i suoi dettagli, che appunto dietro questo progetto c’erano Gelli, la massoneria deviata, esponenti della destra eversiava.

PAOLO MONDANI Anche Stefano Menicacci e Stefano Delle Chiaie entrano in queste formazioni politiche, in questa ondata di leghismo meridionale. Lei ha mai discusso con Delle Chiaie di questa iniziativa? È entrato anche lei in queste iniziative?

ADRIANO TILGHER - EX PRESIDENTE AVANGUARDIA NAZIONALE Io sono entrato nella Lega Nazional popolare, che è la prima lega in Italia.

PAOLO MONDANI E Stefano delle Chiaie addirittura si candidò?

ADRIANO TILGHER - EX PRESIDENTE AVANGUARDIA NAZIONALE Sì.

PAOLO MONDANI E come andarono le lezioni?

ADRIANO TILGHER - EX PRESIDENTE AVANGUARDIA NAZIONALE Male.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La storia di quegli anni la ricorda bene Antonio D'Andrea, vice segretario nazionale della Lega Meridionale Centro Sud e Isole: la più importante di quelle Leghe dove si iscrissero Vito Ciancimino, Licio Gelli, il figlio del "Papa" di Cosa Nostra, Michele Greco, e Pino Mandalari, il commercialista di Totò Riina. Obiettivo: dividere e destabilizzare l'Italia.

ANTONIO D'ANDREA - VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Questo progetto di divisione dell’Italia non era un progetto massonico, non era un progetto estraneo allo Stato, assolutamente no. Era un progetto nato e partorito all’interno della vita politica italiana istituzionale, quindi di vertice.

PAOLO MONDANI Questo progetto di divisione dell’Italia inizialmente è appoggiato anche da Giulio Andreotti e Francesco Cossiga, vero?

ANTONIO D'ANDREA - VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Appunto, e quindi parliamo del Presidente della Repubblica e capo dello Stato e del Presidente del Consiglio.

PAOLO MONDANI Ad un certo punto alla Lega Meridionale centro sud e isole si dice interessato Stefano Delle Chiaie. Perché secondo lei Delle Chiaie era interessato a …..

ANTONIO D'ANDREA - VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Perché avrà avuto anche lui delle disposizioni.

PAOLO MONDANI Lei immagina da chi?

ANTONIO D'ANDREA - VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Immagino dai vertici politici dello Stato.

PAOLO MONDANI E a cosa doveva servire Stefano Delle Chiaie in quel movimento? Cioè era uno che era in grado di fare, di mettere a punto una piccola o grande guerra civile nel paese.

ANTONIO D'ANDREA - VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Perché una nazione si può unificare con la forza, con la violenza. E alla stessa maniera si può dividere con la forza e con la violenza, soltanto così si può arrivare a una divisione

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Tra il '90 e il '91 la Lega Meridionale Centro Sud e Isole cambia nome in Lega Meridionale per l'Unità Nazionale. Da secessionisti diventarono nazionalisti e tutti coloro che volevano dividere l'Italia se ne andarono fondando leghe in tutto il Sud. Stefano Menicacci, parlamentare del Msi e legale di Stefano delle Chiaie, ne fondò dieci dal suo studio di Roma.

PAOLO MONDANI Lei insieme a Stefano delle Chiaie dà vita a una serie di Leghe.

STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Falso, decisamente falso.

PAOLO MONDANI Ma scusi è.. sono tutte, la sede...

STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Glieli racconto io i particolari

PAOLO MONDANI ...la sede sociale di queste leghe è presso il suo studio.

STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Feci una cosa stupida, veramente stupida e cioè feci una lettera "noi sottoscritti dichiariamo di aver creato, di aver costituito la Lega Umbria il giorno tot." Fu tutto al maggio del '90.

PAOLO MONDANI Glielo dico io guardi, a maggio lei fa, 8 maggio fa…

STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Ma sì...

PAOLO MONDANI …la Lega Pugliese, l’11 maggio la Lega Marchigiana,

STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Esatto.

PAOLO MONDANI Il 13 maggio la Lega Molisana.

STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE In una settimana...

PAOLO MONDANI La Lega Meridionale del Sud, la Lega Siciliana.

STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Ero ufficio unico, nel mio studio.

PAOLO MONDANI Fa la Lega del Lazio, la Lega Calabrese, la Lega Siciliana, la Lega della Sicilia e la Lega dell’Umbria. Tutti quanti in dieci giorni.

STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Sì…

PAOLO MONDANI A maggio del 1990.

STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE …perdoni senza un iscritto.

PAOLO MONDANI Nel '90-'91 tutti facevano queste leghe lei compreso.

STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE No, io ce stavo nel '90 con la lettera e basta...

PAOLO MONDANI Ma sembravano tutti impazziti per fare leghe, c'è la mafia che lo fa, Ciancimino...

STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Sì, sì, sì fanno le leghe...

PAOLO MONDANI Licio Gelli...

STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Si erano innamorati delle Leghe...

PAOLO MONDANI E Delle Chiaie, anche Delle Chiaie...

STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Delle Chiaie fa la Lega delle Leghe per suo conto, io non ho mai partecipato a una sua riunione, non ho mai avuto a che fare.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Domenico Romeo, da decenni collaboratore di Stefano Menicacci, afferma però il contrario, e alla fine del 1991 affronta un viaggio pericoloso...

PAOLO MONDANI Accompagnava Stefano delle Chiaie in Sicilia...

DOMENICO ROMEO - COLLABORATORE DI STEFANO MENICACCI Sì, per la campagna elettorale.

PAOLO MONDANI Volevo sapere che cosa si ricorda e in che periodo c'era stato?

DOMENICO ROMEO - COLLABORATORE DI STEFANO MENICACCI Quando c'è stato il fatto della politica, perché con Menicacci lui era andato sia a Roma alla televisione...

PAOLO MONDANI E dove lo accompagna in Sicilia se lo ricorda?

DOMENICO ROMEO - COLLABORATORE DI STEFANO MENICACCI Allora in Sicilia c'era Delle Chiaie in macchina, che io poi me l'ha presentato Menicacci quel giorno e dice accompagnalo, Menicacci mi aveva ordinato di passare lo Stretto di Messina e andare a trovare un, il politico...

PAOLO MONDANI Vi hanno fermato i carabinieri? No...

DOMENICO ROMEO - COLLABORATORE DI STEFANO MENICACCI Sì, non una pattuglia, tante pattuglie. Qui io mi ero proprio...

PAOLO MONDANI Spaventato...

DOMENICO ROMEO - COLLABORATORE DI STEFANO MENICACCI Spaventato poi ho telefonato a Menicacci e Menicacci poi ad un certo punto i carabinieri hanno scritto, eccetera, eccetera, quindi poi siamo traghettati per andare a Ragusa.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Chi andava a incontrare Delle Chiaie in Sicilia? E per quale motivo forma una sua Lega?

ANTONIO D'ANDREA - VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Il loro fine è di coinvolgere i meridionali, che i meridionali in quel momento servivano come fanteria diciamo, da mandare al macello.

PAOLO MONDANI Qual è il contesto che porta alla uccisione di Giovanni Falcone e poi di Paolo Borsellino?

ANTONIO D'ANDREA - VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Lo Stato quando non sa cosa dire, escono fuori sempre i servizi segreti deviati. I servizi segreti deviati per definizione non esistono e non possono esistere i servizi segreti agiscono nell'esecuzione di ordini che ricevono dai ministri di riferimento, dalla Presidenza del Consiglio. Per cui l’omicidio di Falcone non può che essere stato concepito all’interno del governo, delle più alte sfere istituzionali.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Antonio D'Andrea, vicesegretario della Lega Meridionale, è uno dei testimoni dell’attivismo di Delle Chiaie nei primi anni Novanta, in coincidenza con la nuova strategia della tensione. Con la forza e con la violenza si può unire, ma con la forza e con la violenza si può anche dividere. Per capire il contesto bisogna ricostruire che cosa è accaduto in quegli anni. È caduto il muro di Berlino, poi c’è Mani Pulite che ha sgretolato il sistema dei partiti della prima repubblica e c’era il rischio che la sinistra poi finisse al governo. Insomma, c’erano tanti orfani in giro. Cosa Nostra aveva bisogno di aggrapparsi a nuovi referenti politici perché era in corso il maxi-processo che avrebbe decapitato la cupola, poi c’era una emorragia da fermare, quella che aveva aperto all’interno dell’organizzazione una crepa quella cioè dei collaboratori di giustizia. Bisognava poi modificare la legge sulla confisca dei beni, modificare la legge sul carcere duro. Insomma, Cosa Nostra decise a un certo punto di diventare Stato, perché aveva necessità per garantire la propria sopravvivenza di fare approvare delle leggi dallo Stato. E per farlo si mette in viaggio con dei compagni consolidati nel tempo. Cioè compagni dell’eversione di destra, alla massoneria deviata e alla P2. Insieme costituiscono un nuovo sistema di potere. Cercano di costruire un nuovo sistema di potere, sullo sfondo ci sono Miglio, l’ideologo della Lega, Andreotti e il solito Licio Gelli. In che cosa consisterebbe questo tentativo? Quello di creare tanti movimenti indipendenti, di lasciare il sud alla gestione della criminalità organizzata. In questo Delle Chiaie ha un ruolo: bazzica la Lega Meridionale, fonda una lega sua, la Lega Nazionalpopolare. Il suo avvocato Menicacci nel suo studio ne fonda addirittura dieci e Delle Chiaie fa dei viaggi in Sicilia con un collaboratore del suo avvocato Domenico Romeo. Di questo viaggio c’è testimonianza. Incontra degli uomini di Cosa Nostra, ne parla il collaboratore Lo Cicero, ne parla soprattutto la compagna di Lo Cicero, Maria Romeo e la sua testimonianza vale perché è la sorella di quel Domenico Romeo che ha accompagnato Delle Chiaie in Sicilia, ma la loro non è l’unica testimonianza lo vedremo dopo la pubblicità tra 30 secondi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Stavamo parlando del ruolo fino a oggi inedito dell’estremista di destra Stefano Delle Chiaie nell’attentato di Capaci. Il PM Gabriele Chelazzi che indagava sugli attentati a Roma, a Milano e Firenze aveva ascoltato un collaboratore di giustizia, Luigi Sparacio che aveva raccontato di aver incontrato Stefano Delle Chiaie prima degli attentati. Che Delle Chiaie aveva consegnato una mappa con i luoghi da colpire contrassegnati con delle x. Nel 1999 Gabriele Chelazzi non continua le sue indagini perché Sparacio è considerato un testimone controverso e in più soprattutto non aveva Chelazzi le dichiarazioni fatte da Lo Cicero a Borsellino sul ruolo e la presenza di Delle Chiaie sul luogo della strage di Capaci prima che venisse ucciso Falcone e la sua scorta. Se queste testimonianze venissero confermate emergerebbe un ruolo di Delle Chiaie come supervisore di fatti destabilizzanti il Paese come del resto aveva già fatto come in occasione della riunione, del summit sull’Aspromonte con gli ‘ndranghetisti quando erano stati pianificati i moti di Reggio e il fallito golpe borghese. Ora Delle Chiaie avrebbe partecipato così a quella strategia stragista che si era delineata e chi si era concepita in numerosi incontri nel 1991 nel quale avevano partecipato membri dell’organizzazione mafiosa Cosa Nostra, piduisti, uomini dei servizi segreti. Una strategia tesa a destabilizzare l’Italia attraverso le stragi che dovevano essere attribuite almeno qualcuno aveva suggerito così a Riina alla sigla “falange armata”. Una sigla che evoca gladio il cui ruolo non è stato mai chiarito fino in fondo.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Pietro Riggio, membro della famiglia mafiosa di Caltanissetta, e da alcuni anni collaboratore di giustizia racconta di uomini dello Stato coinvolti a suo dire nelle stragi. Per esempio, parla di un agente dei servizi segreti, Giovanni Peluso.

SERGIO BARBIERA - SOSTITUO PROCURATORE GENERALE DI PALERMO 19/10/2020 PROCESSO D’APPELLO TRATTATIVA STATO-MAFIA Lei ricorda se in quella occasione, di quest’ultimo incontro con Peluso, il Peluso fece cenni o gli parlò anche della strage Falcone?

PIETRO RIGGIO - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA 19/10/2020

PROCESSO D'APPELLO TRATTATIVA STATO-MAFIA Sì, fu in questa occasione che lui per accreditare questi discorsi che mi stava facendo parlò tutto di una serie di situazioni che riguardavano la strage di Falcone. Ha fatto riferimenti di come fu riempito il canale di scolo, con gli skateboard, ha fatto riferimento che c ’erano persone esterne a Cosa Nostra e soprattutto ha fatto riferimento alla frase famosa che io mi è rimasta impressa: “ancora Brusca è convinto che il telecomando lo ha schiacciato lui”.

GIOVANNI PELUSO – EX POLIZIOTTO Posso semplicemente dire e affermare con certezza che in merito alla dichiarazione di Riggio di essere l’esecutore materiale della strage non è possibile.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Peluso smentisce anche la sua ex compagna che nel 2019 conferma ai magistrati di Caltanissetta le parole di Pietro Riggio.

PAOLO MONDANI Peluso, le aveva già detto che lui faceva lavori strani per lo Stato...

MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Sì, che la politica li chiamava quando c’era qualcuno che dava fastidio e loro intervenivano facendo pulizie.

PAOLO MONDANI Pulizie che significa?

MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Pulizie nel senso che dovevano mettere a tacere la gente che dava fastidio alla politica...

PAOLO MONDANI E lei le ha mai detto: tu hai mai ucciso qualcuno?

MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Io l’ho chiesto, ho detto “vabbè ma dimmi che cosa hai fatto”, gli ho detto “hai ammazzato la gente?” e stava zitto, poi ha annuito, ha fatto così.

PAOLO MONDANI Cioè ha fatto, lei le ha….

MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Il cenno come per dire sì.

PAOLO MONDANI Suo marito sparisce qualche giorno durante l’attentato a Falcone, no?

MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Si, venerdì mattina.

PAOLO MONDANI Tre giorni. Successivamente le dice che secondo lui Falcone era stato ucciso….

MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Si, aveva detto che Falcone non era stata la mafia ma erano stati i servizi segreti.

PAOLO MONDANI E lei non ha chiesto spiegazioni? A chi dava fastidio Falcone? Perché i servizi hanno fatto saltare Falcone?

MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Dice che dava fastidio alla politica italiana e poi dice pure che era dei favori fatti a degli amici americani.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Pietro Riggio dice che Peluso gli racconta come venne materialmente piazzato l’esplosivo di Capaci.

GIANFRANCO DONADIO - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI LAGONEGRO – EX MAGISTRATO DNA Tutti sappiamo che sotto l’autostrada in un cunicolo dell’autostrada a Capaci viene collocata una grande quantità di materiale esplodente e prevalentemente nitrato d’ammonio, che in realtà è un concime e tritolo. Ma, c’è un ma, nel senso che è noto dall’esame degli atti che esistono tracce di pentrite.

PAOLO MONDANI La pentrite che cos’è?

GIANFRANCO DONADIO - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI LAGONEGRO – EX MAGISTRATO DNA La pentrite è una sostanza che si ritrova largamente in esplosivi di tipo militare.

PAOLO MONDANI Secondo lei il rafforzamento non è effettuato solo dalla mafia?

GIANFRANCO DONADIO - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI LAGONEGRO – EX MAGISTRATO DNA Quel rafforzamento all’ultimo minuto potrebbe essere stato effettuato da altri.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Pietro Riggio aggiunge che Peluso stava organizzando un attentato al giudice Leonardo Guarnotta, già componente del pool antimafia con Falcone e Borsellino.

SERGIO BARBIERA -SOSTITUO PROCURATORE GENERALE DI PALERMO 19/10/2020 PROCESSO D'APPELLO TRATTATIVA STATO-MAFIA Le fu detto il motivo per il quale doveva essere organizzato un attentato ai danni del dottore Guarnotta?

PIETRO RIGGIO - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA 19/10/2020 PROCESSO D'APPELLO TRATTATIVA STATO-MAFIA Il motivo fu quello che mi fu detto che dovevamo fare un favore politico. E quindi noi ci saremmo sistemati con una mansione all’interno dei servizi. Poi informandomi ho visto che il dottore Guarnotta stava istruendo, stava seguendo il processo nei confronti di Dell 'Utri a Palermo. E quindi io ho collegato la cosa, ecco: prima Falcone, poi Borsellino, adesso il dottore Guarnotta.

MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Ha detto bisogna fare un attentato a Palermo.

PAOLO MONDANI Il nome del magistrato che le fece chi era?

MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Guarnotta.

PAOLO MONDANI E questo glielo dice nel febbraio...

MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Del 2001.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Giovanni Peluso fa conoscere alla compagna Giovanni Aiello, alias Faccia di Mostro. Agente di Polizia che molti pentiti ritengono coinvolto nell'attentato all'Addaura a Giovanni Falcone, nelle stragi di Capaci e via D'Amelio, nel delitto del commissario Ninni Cassarà e dell'agente Nino Agostino. Legato ai servizi, alla 'ndrangheta, a Cosa Nostra e alla destra eversiva. Aiello non ha mai subito una condanna.

PAOLO MONDANI Faccia di Mostro per suo marito era il…..

MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Sì lavoravano insieme però era il suo superiore.

PAOLO MONDANI Contrada?

MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Era il superiore di loro.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La catena di Comando di questo gruppetto di agenti speciali, secondo la signora Castro, era formata da Giovanni Aiello, soprannominato Faccia da Mostro, e da Bruno Contrada ex numero tre del Sisde.

PAOLO MONDANI Questo Giovanni Aiello era un uomo dei servizi?

BRUNO CONTRADA - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO - EX DIRIGENTE SISDE Assolutamente no!

PAOLO MONDANI Aveva fatto parte…

BRUNO CONTRADA - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO - EX DIRIGENTE SISDE Assolutamente no. Io sono stato 10 anni nei servizi avrei saputo che questo soggetto che aveva fatto servizio, ho un vago, avevo un vago vaghissimo ricordo di questo individuo per il suo modo di essere per il suo modo di essere trasandato.

PAOLO MONDANI Lei ritiene che qualcuno nei servizi potrebbe aver avuto a che fare con la vicenda delle stragi del 92-93?

BRUNO CONTRADA - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO - EX DIRIGENTE SISDE Ma quando mai. Ma quando mai.

PAOLO MONDANI Secondo lei chi era la Falange Armata che ha rivendicato le stragi di mafia del ‘92-93?

BRUNO CONTRADA - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO - EX DIRIGENTE SISDE Non era compito mio e non ero manco preso dalla curiosità di sapere che cos' era.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Ascoltando Bruno Contrada, prima condannato per concorso esterno in associazione mafiosa e poi salvato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, viene il dubbio che abbiamo sempre avuto davanti agli occhi la verità sulle stragi. E trent'anni dopo scopriamo anche un'altra pista che porta ad Alcamo, paesino del trapanese famoso per il vino. Oggi più noto anche per un poliziotto, un "bandito poliziotto" come si definisce lui stesso, perché restio a seguire le regole. Questo poliziotto sulla base delle indicazioni di un confidente il 29 settembre del 1993 trova un "tesoro".

PAOLO MONDANI Lei tramite una fonte molto importante arriva in una casa di Alcamo dove trova una gigantesca Santa Barbara, detenuta da due carabinieri. Cosa vede quando entra? Cosa trova?

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Casse di armi, casse di munizioni, polvere...

PAOLO MONDANI Pistole con la matricola abrasa.

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Pistole, sì. C’era di tutto, coltelli, ma in particolare quello che mi ha colpito di più sono i fucili.

PAOLO MONDANI E lei però trova anche una cosa particolare...

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Era una cassetta di metallo con sopra un adesivo che indicava radiazioni.

PAOLO MONDANI La cassa segnalava che c’era materiale ...

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Materiale radioattivo. Nel primo sopralluogo l’ho trovata, nel secondo no. Quando abbiamo rifatto la perquisizione, la sera successiva, delle armi c’erano tutte, ma non c’era la cassetta.

PAOLO MONDANI Senta i due carabinieri si chiamano Bertotto e La Colla, vengono processati e alla fine di tutta questa storia processuale prendono come dire una condanna sostanzialmente minima. Vengono trattati come dei collezionisti di armi.

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO È strano, molto strano.

PAOLO MONDANI Senta per parlare chiaro lei ebbe la sensazione che questi due carabinieri o uno di loro due avesse a che fare con i nostri servizi?

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Si, tutti e due.

PAOLO MONDANI Tutti e due.

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Non ho dubbi.

ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Ricordiamo che nella provincia di Trapani c’era un’articolazione di Gladio, che in quella provincia nel 1993 fu scoperto nella villa di un carabiniere un deposito enorme di armi da guerra di esplosivo di cui non si è mai capito l’origine e che molti ritengo essere uno degli arsenali utilizzati dalla struttura Gladio o da una struttura similare.

PAOLO MONDANI Carabiniere Carmelo La Colla...

ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Esatto, La Colla Bertotto, si...

PAOLO MONDANI Che era il caposcorta della ministra Vincenza Bono Parrino.

ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Esatto.

PAOLO MONDANI Poi trova in questa casa anche una...

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Una foto, e il confidente mi dice di fare vedere la fotografia nell’immediatezza, ecco è qua che c’è qualcosa che… nell’immediatezza della perquisizione ai presenti. Dobbiamo capire che i presenti erano circa 200, 200, tra uomini della polizia e carabinieri. Addirittura, c’era il generale Cancelleri. Il significato di fare vedere la foto non l’ho mai capito, m’ha detto semplicemente: chi deve capire capirà della foto.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Questa è la foto trovata da Federico. Che sparisce, riappare e viene ignorata per 29 anni. Ritrae una giovane donna che solo oggi è diventata elemento di prova per la procura di Firenze. Nella foto viene infatti riconosciuta Rosa Belotti, imprenditrice con qualche precedente penale, ora accusata di essere coinvolta nell'esecuzione dell'attentato di via Palestro a Milano del 27 luglio 1993 e forse anche quello di Firenze del 27 maggio. La Belotti si è riconosciuta nella foto ma dichiara di non aver nulla a che fare con le stragi. E torniamo a Federico e al suo confidente di Stato.

PAOLO MONDANI La fonte, ad un certo punto, le segnala anche l’esistenza di una villa bunker in contrada Calatubo, che è qua vicino, sempre vicino Alcamo. Lei va a fare un sopralluogo notturno e dentro questa villa cosa trova?

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Come quando una persona entra in un aereo e vede la strumentazione dell’aereo, no. Io l’ho vista questa strumentazione diciamo, moltiplicandola per circa 100 metri quadrati.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Questa è la villa bunker in mezzo alla campagna di Alcamo. Siamo sempre nel 1993, poco dopo il sopralluogo di Federico la polizia fa una perquisizione ma la villa risulta svuotata di tutto. La fonte a questo punto raccomanda a Federico di appostarsi di notte sotto il ponte dell'autostrada.

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Verso le tre e un quarto, tre e mezza, comincio a sentire rumore dall'alto però. E dall'alto dove passa l’autostrada e dà la ho visto scendere delle persone erano 10 -15, tutte armate. Me ne sono accorto che erano armate quando...

PAOLO MONDANI Cioè persone che si calavano dal ponte dell’autostrada?

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Si, si.

PAOLO MONDANI Con le corde diciamo...

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Si con le corde. In questo posto dove loro sono scesi c’è una Madonnina dove c’è una lampadina sempre accesa.

PAOLO MONDANI Queste persone le si avvicinano in qualche modo, lei ne riconosce una...

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Uno aveva una cicatrice enorme sulla faccia e a me sembrava veramente un mostro.

PAOLO MONDANI Anni dopo lei per via della storia che riguarda Giovani Aiello.

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Giovanni Aiello.

PAOLO MONDANI Faccia di Mostro.

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Faccia di Mostro.

PAOLO MONDANI Lei lo riconosce?

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Certo.

PAOLO MONDANI Era lui?

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Si. Era l’unico più basso rispetto agli altri.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Federico accerta che a poche centinaia di metri dalla villa bunker e dal ponte sull'autostrada c'è una misteriosa pista di atterraggio, con altri poliziotti identifica i piloti di un velivolo leggero ma nulla si muove. Nel frattempo, raccoglie indizi su un traffico di materiale nucleare e su una cava vicino Alcamo che fungerebbe da deposito. E la solita fonte gli fa trovare, in un casolare, alcuni fucili ad alto potenziale destinati all'omicidio di Luca Pistorelli, il magistrato che in quel periodo svolgeva indagini sul centro Scorpione della Gladio trapanese. E non è finita qui.

PAOLO MONDANI Questa fonte importantissima tra le due stragi del 1992 le dice che si svolgerà a Balestrate, che è un paesino vicino Alcamo....

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Vicina, a venti chilometri da Alcamo.

PAOLO MONDANI Un summit di mafia...

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Non solo di mafia è un summit di mafia e politica.

PAOLO MONDANI Mafiosi presenti?

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO C’era Provenzano, c ’era Messina Denaro, Bagarella, c’erano tutti. C’era il gotha mafioso di quell’epoca.

PAOLO MONDANI Brusca?

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO C’era sì, c’era sì Brusca. I superlatitanti erano tutti là.

PAOLO MONDANI Politici?

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Politici i nomi non me li ha fatti, mi ha detto li vedrai durante la perquisizione chi sono.

PAOLO MONDANI Cosa accade?

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO La perquisizione doveva essere fatta la sera e non è stata fatta. E’ stata fatta mi pare dopo quattro giorni.

PAOLO MONDANI Lei nel 2013 poi scrive questo libro.

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Scusa se ti interrompo questo non è un libro, questo è uno sfogo.

PAOLO MONDANI Il libro si intitola la struttura segreta di Gladio sul territorio di Alcamo.

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Io penso che ci sia un secondo stato parallelo. La criminalità organizzata è dal mio punto di vista è pilotata, comandata, gestita da queste persone.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Nella sentenza di condanna per i boss che nel 1988 uccisero il giornalista Mauro Rostagno emerge un rapporto riservatissimo del Sisde del 1991 nel quale si dice che i dirigenti del centro Scorpione di Trapani, la Gladio siciliana, incontravano elementi di spicco di alcune famiglie mafiose. A luglio del 1993 il governo Ciampi aveva sciolto la Settima divisione del Sismi, quella di Gladio. E poco dopo annunciava un repulisti al Sismi e al Sisde. Il governo si era convinto che nei servizi c’erano uomini collegati alle stragi che agivano come orfani della guerra fredda. Ciampi se ne accorgerà.

PAOLO MONDANI Siamo a Palazzo Chigi, la presidenza del Consiglio. La notte del 27/28 luglio del 1993. Sono appena esplose le bombe a Milano, a San Giorgio al Velabro e San Giovanni Laterano a Roma. Alla presidenza del Consiglio si staccano i telefoni.

ANTONINO DI MATTEO - MEMBRO CSM - EX PM PROCESSO TRATTATIVA STATO MAFIA Rimasi colpito dalla forza con la quale il Presidente Ciampi volle ribadirci il suo convincimento di quella notte tra il 27/28 luglio ‘93 circa la possibilità che in quel momento fosse in corso un golpe. Il presidente era rientrato precipitosamente da una località di villeggiatura nella quale si trovava, le normali comunicazioni con Palazzo Chigi si erano interrotte, arrivavano le notizie di questi attentati a Roma, a Milano e a Roma in più siti. Il presidente nel 2010 volle proprio indicarci con forza che in quel momento avevano chiarissima la forza dirompente del ricatto che era in atto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Secondo il magistrato Di Matteo di ricatto ce ne sarebbe in piedi un altro. Matteo Messina Denaro è a conoscenza dei rapporti intercorsi tra Cosa Nostra e soggetti esterni nel periodo delle stragi. Quelle informazioni valgono più di quintali di tritolo, sono un’arma formidabile di ricatto. Chi tra le istituzioni e anche tra i giornali celebra la vittoria sulla mafia dovrebbe anche avere il pudore di ricordare ogni giorno che c’è un esponente importantissimo di primo piano di Cosa Nostra che ha avuto un ruolo nelle stragi che è libero da trent’anni ed è libero di ricattare. È emerso processualmente che nelle stragi sono intervenute delle mani esterne. Uno dei collaboratori che sa di più di queste vicende, Pietro Riggio, ha parlato dei servizi segreti quali autori della strage di capaci e ha identificato anche in un ex poliziotto Peluso uno di questi componenti. Oggi Peluso è indagato come "compartecipe ed esecutore materiale" della strage di Capaci però lui nega. Ma il nostro Paolo Mondani ha raccolto le confidenze della compagna Marianna Castro che ha detto che Peluso gli avrebbe confidato che Peluso avrebbe fatto il lavoro sporco per liberare dai nemici i politici anche uccidendo qualche volta. Glielo ha chiesto espressamente, lui ha annuito. Ha detto, ha confidato che stava preparando un attentato ai danni del magistrato Guarnotta, ha detto anche che a uccidere Falcone sono stati i servizi segreti. La Castro ha anche detto che il superiore di Peluso era “faccia da mostro” e sopra di lui c’era Contrada, che però con noi nega. Perché sono importanti queste testimonianze perché intanto coincidono con quanto ha raccontato Riggio. Riggio è un esponente importantissimo, di un’importantissima famiglia, quella dei Madonia, nel nisseno. La stessa famiglia a cui apparteneva Luigi Ilardo, boss, cugino di Piddu Madonia, membro della commissione regionale di Cosa Nostra, quella che decideva la linea stragista. Luigi Ilardo è stato il primo nel ’93 a denunciare che dietro gli omicidi eccellenti e dietro le stragi non c’era solo la mano della mafia ma anche quella destra eversiva, della massoneria deviata, dei servizi segreti. E ha citato l’omicidio dell’ex sindaco Insalaco, quello di Piersanti Mattarella, quello del poliziotto Agostino esperto in caccia di latitanti. Sui luoghi delle stragi di questi omicidi era sempre presente l’ex poliziotto Aiello “faccia da mostro” uomo legato anche alla CIA. E facci da mostro rientra anche nelle testimonianze di un altro poliziotto, Federico. Che grazie alle confidenze di una sua fonte riesce a scoprire ad Alcamo un aeroporto privato e una villa bunker dove dentro c’è un enorme sala controllo voli, che però sparirà quando ci sarà un’ispezione successiva. Scoprirà anche una villa che era in uso di due carabinieri dove dentro c’è una santa barbara: armi da sparo, polvero da sparo e una cassetta che indicava la presenza di materiale radioattivo. Sparirà anche questa cassetta, in questa villa Federico troverà anche una foto che coincide con l’identikit di una donna che si sospetta essere l’autista del commando che ha realizzato le stragi a Milano e forse anche in via dei Georgofili. Questa donna riconosce se stessa in questa foto ma dice di non entrarci nulla con gli attentati, ma la domanda è: tutto questo materiale a che cosa serviva? Era nella disponibilità di chi? Federico ricorda a un certo punto, una notte 15 uomini armati che si calano con una corda dal viadotto, tra questi c’era ancora una volta faccia da mostro. Una struttura che riguarda gladio e sappiamo perfettamente che Falcone e Borsellino stavano indagando su gladio, sul ruolo di gladio e della P2 nelle stragi e negli omicidi eccellenti avvenuti in Sicilia e le prove arrivano ancora una volta dalle carte della strage di Bologna.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO In questa rara foto Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono in Brasile. Siamo nel 1984 e Tommaso Buscetta ha da poco iniziato la sua collaborazione. Un giorno d'autunno a San Paolo i due giudici convocano un famoso giornalista.

NUNZIO BRIGUGLIO - GIORNALISTA Il console italiano mi chiamò al telefono e mi disse che Falcone e Borsellino volevano parlare con me. Ero stupito ma mi misi ovviamente a disposizione e andammo a cena al ristorante dell’Hotel Ca ’d 'oro, qui in Rua Augusta a San Paolo. Parlammo per circa tre ore. All'inizio immaginai che volessero informazioni su Tommaso Buscetta, ma in realtà no, volevano conoscere più dettagli sulla P2.

PAOLO MONDANI Ti ha detto che Buscetta sapeva qualcosa della P2?

NUNZIO BRIGUGLIO - GIORNALISTA No. Ma io avevo fatto un'intervista a Buscetta nella prigione di San Paolo i primi giorni del suo arresto e gli avevo chiesto della P2. Lui mi rispose come di sfuggita, rientrando in cella. Si girò verso di me e disse: «Nunzio, la P2 è una cosa molto seria, la mafia al confronto è una banda di cattivi ragazzi».

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO In questo articolo del 30 ottobre 1985, Nunzio Briguglio parlò del ruolo di Bafisud, il Banco Financiero Sudamericano di proprietà di Umberto Ortolani, l'eminenza finanziaria della P2, già condannato per il crack della Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e indicato dalla procura Generale di Bologna come uno dei mandanti della strage del 2 agosto 1980. La Bafisud era sospettata di realizzare una vasta attività di riciclaggio.

NUNZIO BRIGUGLIO - GIORNALISTA Cercando notizie sulla P2, parlai con il presidente della Banca Centrale brasiliana, il dottor Alfonso Celso Pastore, e gli chiesi se potevo avere accesso alle informazioni sulla Bafisud. Era un venerdì, e lui mi disse cercami lunedì, ti farò accedere ai documenti sulla Bafisud. In quel fine settimana, un incendio nella Banca Centrale a San Paolo, distrusse proprio la parte di archivio dove stavano i documenti che mi interessavano.

PAOLO MONDANI Il 30 ottobre e il primo novembre 1985 tu scrivi due articoli per il Correio Braziliense, nei quali parli del contenuto di una informativa dei servizi segreti brasiliani del 1983. Scrivi che «l’ondata di attentati e le manovre di destabilizzazione contro il governo argentino di Alfonsin secondo i servizi segreti argentini erano opera della Loggia P2».

NUNZIO BRIGUGLIO - GIORNALISTA Sì, avevo una fonte molto in alto nel governo argentino che mi aveva dato questa informazione. Il governo Alfonsin nel 1983 iniziò il lavoro di ricostruzione democratica e i processi contro i torturatori della precedente dittatura militare e la P2 con alcuni vecchi generali provò persino a organizzare un golpe.

FRANCESCO MARIA CARUSO - PRESIDENTE TRIBUNALE BOLOGNA CORTE DI ASSISE DI BOLOGNA 6/04/ 2022 La Corte d’Assise di Bologna nel procedimento penale nei confronti di Paolo Bellini, Piegiorgio Segatel, Domenico Catracchia ha pronunciato la seguente sentenza: visti gli articoli 533, 535 dichiara Paolo Bellini responsabile dei delitti a lui ascritti uniti dal vincolo della continuazione e lo condanna alla pena dell’ergastolo.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il 6 aprile scorso la sentenza di primo grado della Corte di Assise di Bologna condanna Paolo Bellini all'ergastolo.

PAOLO BELLINI È quarant'anni che mi massacrate anche voi giornalisti, non voi, in senso generale. Quarant’anni di attacchi viscerali contro la mia persona. Mi dovete dire: capo dei servizi segreti de che? De chi?

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Secondo i giudici è il quinto uomo della strage del 2 agosto 1980. Bellini, militante di Avanguardia Nazionale, è stato un killer per una cosca della ‘ndrangheta. Ha alle spalle altri dieci omicidi. E un antico rapporto con Cosa Nostra. La moglie di Bellini, Maurizia Bonini, dopo aver garantito per decenni un falso alibi al marito, lo ha riconosciuto in un filmato realizzato alla stazione di Bologna nei minuti a cavallo dell’esplosione.

ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 La cosa straordinaria è che questo Paolo Bellini implicato nella strage di Bologna, esponente a sua volta della destra eversiva, collegato con i servizi deviati ce lo ritroviamo poi nel 1991, nel 1992, a Palermo nelle stragi di quel periodo. Nel 1991 Paolo Bellini è presente a Enna nello stesso periodo in cui a Enna sono riuniti i massimi vertici della mafia regionale per discutere il progetto politico che è stato concepito dalla massoneria deviata, dalla destra eversiva, di destabilizzazione dell’Italia con la campagna stragista che sarà iniziata di lì a poco e con la creazione di un nuovo soggetto politico. E poi troviamo Paolo Bellini che ha continui rapporti con Antonino Gioè anche lui militante della destra, esecutore della strage di Capaci...

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Paolo Bellini, nel 1992, conduce con i carabinieri del Ros una singolare trattativa con Cosa Nostra tramite il vecchio amico Gioè che una volta arrestato, a luglio del 1993, dopo aver comunicato di voler collaborare con la giustizia viene trovato impiccato con modalità assolutamente inspiegabili. Antonino Gioè era un anello di collegamento tra Cosa Nostra e i servizi, come ci ha detto suo cugino, il boss pentito Francesco Di Carlo: una specie di agente doppio tra la criminalità e lo Stato deviato. Identikit simile a quello dell'amico Bellini.

ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Un Paolo Bellini, che ci dice Giovanni Brusca, è quello che propone di fare attentati contro i monumenti perché questo tipo di attentati contro i monumenti perché questo tipo di attentati avrebbe potuto mettere in ginocchio lo Stato. Ed è estremamente interessante che da altre indagini svolte in altre Procure della Repubblica sulle stragi del nord emerge che già negli anni ’70 esponenti della destra eversiva riunitisi avevano messo in cantiere la possibilità di fare attentati contro i beni artistici nazionali proprio per attaccare lo Stato.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Nel 2015, infatti, il neofascista Umberto Zamboni rivelò ai carabinieri che negli anni '70, durante una riunione di Ordine Nuovo, Massimiliano Fachini che ne era dirigente, propose "una campagna di attentati contro opere d’arte ed infrastrutture pubbliche". Ma torniamo al processo e ai mandanti della strage di Bologna. Licio Gelli, già condannato per aver depistato le indagini viene indicato come il finanziatore dei terroristi neri che piazzarono la bomba. Nelle sue tasche, arrestato in Svizzera, venne trovato un appunto di movimenti bancari. Quella intestazione con la scritta Bologna e il numero del conto svizzero di Gelli è sparita per 40 anni.

CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Ecco, questo è il documento Bologna. Lei come vedrà è un documento che è piegato in maniera tale da essere costudito nel portafoglio, tant’è che è stato...

PAOLO MONDANI Stava nel portafoglio di Licio Gelli ed è stato sequestrato in Svizzera il 13 settembre...

CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA 1982.

PAOLO MONDANI I soldi che vanno ai presunti mandanti della strage, Mario Tedeschi e Federico Umberto d’Amato. Me li fa vedere?

CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Allora, quelli di Federico Umberto d ’Amato e Tedeschi sono 850 mila dollari che vanno a Federico Umberto d’Amato e 20mila dollari che vanno a Tedeschi. Sul documento Federico Umberto d ’Amato non è indicato come Federico Umberto d’Amato...

PAOLO MONDANI Ma come…

CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Viene indicato ”Relaz. Zaff”.

PAOLO MONDANI Il motivo per cui viene chiamato zafferano...

CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Era un amante del pesce con lo zafferano. In realtà non ha, Gelli, finanziato soltanto Federico Umberto d ’Amato, Zaff, e Tedeschi, perché in ballo almeno in questo movimento c’è un milione di dollari pagato in contanti tra il 20 luglio e il 30 luglio dell’80...

PAOLO MONDANI A chi è andato questo milione e cinquanta mila dollari?

CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Secondo La ricostruzione operata dalla Procura Generale di Bologna sarebbero andati agli esecutori materiali della strage.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Pochi anni fa la procura generale di Bologna scoprì il cosiddetto documento Artigli, trovato nell'archivio dell'Ufficio Affari Riservati diretto da Federico Umberto D'Amato. Leggendolo capiamo perché per 40 anni è sparito l'appunto Bologna di Licio Gelli. Artigli è un documento del 15 ottobre 1987 a firma del capo della Polizia Parisi e indirizzato al Ministro degli Interni.

CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Documenta sostanzialmente un incontro che ci è stato il giorno prima presso la Polizia di prevenzione, che era la nuova denominazione che aveva assunto l’Ufficio Affari Riservati del ministero degli Interni presso il quale si era recato l’avvocato Dean, l’avvocato di Gelli, dove dopo alcuni convenevoli alla fine è andato al succo del discorso, sostanzialmente si lamentava di come Gelli veniva trattato al processo bolognese sulla strage di Bologna...

PAOLO MONDANI Dove era imputato.

CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Era imputato.

PAOLO MONDANI Gelli aveva paura che si andasse al nodo e quindi manda il suo avvocato Dean a incontrare, diciamo l ’uomo di Parisi e cosa gli dice?

CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Gli dice che se “la vicenda viene esasperata e lo costringono necessariamente a tirare fuori gli artigli allora quei pochi che ha li tirerà fuori tutti”, ecco perché documento Artigli.

PAOLO MONDANI Ricatta lo Stato Gelli, insomma, in qualche modo...

CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA In un certo senso sì.

PAOLO MONDANI E non gli verrà mai fatta una domanda sull’intestazione?

CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Nessuna domanda su Bologna.

PAOLO MONDANI Possiamo dire che il ricatto di Gelli a Parisi ha funzionato?

CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Sono i fatti a dirlo.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Licio Gelli aveva coperture internazionali. Lo testimonia il generale Pasquale Notarnicola che fu al Sismi, tra il '78 e l'83, comandante della prima divisione, quella che si occupava di controspionaggio e antiterrorismo e accusò il vertice del servizio di aver costruito i depistaggi della strage. Il generale, morto poco dopo la nostra intervista, descrive il contesto della bomba di Bologna.

PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Se lei ricorda subito dopo la guerra mondiale, la seconda guerra mondiale, emersero due potenze egemoni che erano l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. La prima strategia a cui hanno pensato gli Stati Uniti visto l’imperialismo dominante dell’Unione Sovietica fu quello di fare i colpi di Stato. Fu così che i servizi statunitensi organizzarono nel mondo, soprattutto nel Sud America, ma anche in Europa i colpi di Stato. Però questi colpi di stato non furono producenti come loro speravano, anzi spesso furono controproducenti, come in Grecia. Invece di compattare e di far diminuire l’influenza della grande presenza comunista che c’era nell’Europa...

PAOLO MONDANI L’aumentavano.

PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 L’aumentavano. E allora qualcuno ha pensato a una strategia nuova, ma questa strategia nuova alla quale accennerò è una strategia criminale. Questa strategia fu teorizzata dal generale americano...

PAOLO MONDANI Westmoreland.

PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Westmoreland, capo delle forze armate americane. Una copia di questa direttiva che il generale aveva pensato fu trovata...

PAOLO MONDANI Il Field Manual, famoso...

PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 ...alla figlia di Gelli.

PAOLO MONDANI Fu trovata nella borsa della figlia di Licio Gelli, Maria Grazia Gelli.

PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Westmoreland aveva pensato, non è producente il colpo di stato, ma bisogna cambiare i governi non affidabili o meno affidabili dall’interno con una sostituzione, per modo di dire dolce, perché questa sostituzione all’interno prevedeva appunto atti clamorosi come le stragi. Ecco perché i servizi proteggevano non solo i NAR, in particolare i NAR.

PAOLO MONDANI Lei pensa che il tramite tra questa strategia statunitense, diciamo così, che era contenuta nel documento Westmoreland e coloro che hanno eseguito materialmente la strage, il tramite di tutto questo fosse...

PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 La P2, fosse Gelli, la P2.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO In Sicilia a Bagheria c'è un posto leggendario. Villa Palagonia più nota come la villa dei mostri. Lungo il perimetro musicisti caprini, corpi deformi, mori, turchi, gobbi, storpi, chimere e nani barbuti, pulcinelli, dei e dee, un cavallo con mani umane e un uomo con testa equina, draghi e serpenti, cori di scimmie musicanti, un atlante che regge un otre anziché la sfera celeste. Fu il principe di Palagonia a volerla così e Goethe che la visitò nel 1787 raccontò di sedie con i piedi segati a diverse altezze in modo che nessuno potesse sedersi e di spine nascoste sotto i cuscini di velluto. A Bagheria si credeva che le statue avessero un potere malefico e che il principe fosse pazzo, frenetico, delirante e persino un po' deforme. O forse un emerito burlone, uno a cui piaceva beffarsi del prossimo e della casta a cui apparteneva. Trent'anni dopo le stragi di mafia la retorica delle commemorazioni ha deformato la storia. Ci ha resi incapaci di ricordare. Siamo circondati dai mostri che vollero quelle stragi e conviviamo con una possente manipolazione della realtà. Forse per questo villa Palagonia è così moderna, perché nel secolo delle guerre combattute da famiglie regnanti tutte imparentate tra loro questo luogo rappresentò una clamorosa critica dei potenti. Eccoli là i mostri.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Verità deformate. Dalle ceneri della strage di Bologna, è emerso dopo 40 anni quel filo che lega la P2, i servizi segreti alla destra eversiva, a Cosa Nostra e anche alla ‘ndrangheta. Entità che quando vedono a rischio lo status quo che gli ha garantito il potere, gli affari e anche l’impunità reagiscono come se fossero un corpo unico. Dalle carte di Bologna hanno rivitalizzato anche quei personaggi su cui indagavano Falcone e Borsellino sul ruolo di cioè di quell’estrema destra che secondo i magistrati avrebbe avuto parte attiva negli omicidi eccellenti in Sicilia. Perché la figura, dopo tutto quello che abbiamo ascoltato oggi, di Delle Chiaie è rimasta nell’ombra? Forse la verità va cercata nelle carte che sono state sequestrate in Venezuela nel 1987 nel luogo dove Delle Chiaie si è rifugiato ed è stato a lungo latitante. Sono stati ritrovati dei documenti che farebbero pensare ad un vero è proprio piano di disinformazione un piano che aveva la finalità di scagionare l’estrema destra dalla paternità delle stragi. Consisteva sostanzialmente in due strategie: portare in Parlamento la tesi che a realizzare le stragi non era stata l’estrema destra bensì gli apparati e i responsabili dei governi degli anni ’60 e ’70. Poi l’altro piano era anche quello di intossicare la politica e l’informazione attraverso un “centro neutro” che era formato da tre avvocati: un socialista, un missino e un cattolico. Insomma, un filtro che serviva per dialogare, anche infiltrare se volete magistrati, politici e giornalisti. Nel piano che è stato depositato al processo “Italicus” si legge, c’è un elenco impressionante di contatti: oltre all’asse con l’MSI ci sono socialisti, il partito radicale, alcuni gruppi della sinistra, i cattolici conservatori. Una parte importante del paese, scrive Delle Chiaie, Comunione e liberazione, si è spostata notevolmente verso le nostre tesi. Inoltre, scrive il leader di avanguardia nazionale: “Molti giornalisti sono nostri amici, sappiamo dove bussare per far passare i nostri comunicati; esiste un’area politica del paese che esclude la nostra responsabilità nelle stragi”. Invece le sentenze in questi anni, quella della strage di Piazza Fontana, Brescia e anche quella della stazione di Bologna confermano esattamente il contrario. Un patto che è nato negli anni ’60 tra la destra eversiva e i servizi di sicurezza, un piano per destabilizzare il paese. Anche il funzionario Guglielmo Carlucci, funzionario dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale parla di un Delle Chiaie che è un vero e proprio dipendente nei fatti del capo dei servizi segreti di allora Umberto d’Amato, che secondo i magistrati e i giudici di Bologna sarebbe il mandante delle stragi della stazione di Bologna insieme a Licio Gelli. Quello che c’è da chiedersi, ma questo piano di disinformazione è mai stato attuato? Questo non lo sappiamo, sappiamo che però tutti i processi e le indagini sulle stragi hanno subito dei depistaggi. Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato. George Orwell 1984.

La pista nera. PUNTATA DEL 30/05/2022 Report Rai di Paolo Mondani. Collaborazione di Roberto Persia  

La presenza di Stefano Delle Chiaie, il fondatore di Avanguardia Nazionale, a Capaci e i suoi contatti con esponenti mafiosi.

La presenza di Stefano Delle Chiaie, il fondatore di Avanguardia Nazionale, a Capaci e i suoi contatti con esponenti mafiosi continuano a emergere dalle parole dell'ex brigadiere dei carabinieri Walter Giustini e da quelle di Maria Romeo, ex compagna del pentito Alberto Lo Cicero. Nel racconto della Romeo a Report emerge la testimonianza da lei fornita all’allora ufficiale dei carabinieri Gianfranco Cavallo. Nella informativa scaturita da quell’incontro si attesta il coinvolgimento di Stefano Delle Chiaie nella strage di Capaci del 23 maggio 1992. 

LA PISTA NERA di Paolo Mondani collaborazione Roberto Persia immagini Fabio Martinelli montaggio Giorgio Vallati

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO A proposito di come funziona la democrazia, torniamo sui nostril passi. Lunedì scorso, 23 maggio, abbiamo mandato in onda un’inchiesta che evocava la strage di Capaci. Il nostro inviato Paolo Mondani ha raccolto le testimonianze di Walter Giustini, un ex brigadiere, che aveva messo nero su bianco sulle informative le confidenze di Alberto Lo Cicero, autista di un boss, Troia, importante, temuto, e aveva anche raccontato che ’autista di Totò Riina, il capo di Cosa nostra, all’epoca era Salvatore Biondino. Questa informazione avrebbe potuto portare all’arresto di Riina prima delle stragi. Lo Cicero aveva anche confidato a Giustini del leader di Avanguardia Nazionale, movimento dell’estrema destra, Stefano Delle Chiaie, a Capaci e anche che aveva fatto dei sopralluoghi con i boss proprio nel luogo dell’attentato. Versione confermata anche dalla compagna di Lo Cicero, Maria Romeo. Il giorno dopo la messa in onda è scoppiato un putiferio, sono scattate le perquisizioni, poi revocate, c’è chi ha invocato il depistaggio, la fuga di notizie, chi invece ha semplicemente detto: “No, è vero, Delle Chiaie c’era”. Ma c’era o non c’era? Oggi cercheremo di aggiungere nuovi tasselli e anche, forse qualche mistero.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Capaci 23 maggio come via D'Amelio 19 luglio. Sono passati trent'anni. Storici e magistrati hanno letto i fatti della strategia della tensione degli anni '70 e '80 distinguendoli dalle stragi di mafia dei primi anni '90. Oggi scopriamo invece che gli uomini dell'eversione di destra, dei depistaggi degli apparati deviati dello Stato, della massoneria piduista potrebbero non essere estranei ai morti di trenta anni fa. E dei mandanti cominciamo a scorgere l'identikit. Ben oltre Totò Riina.

PAOLO MONDANI Poi lo Cicero le parla di un personaggio che incontra in quei mesi, che conosce forse in quel periodo, che è Stefano delle Chiaie.

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE DEI CARABINIERI PALERMO A noi di Stefano delle Chiaie ce ne ha parlato prima la Romeo.

PAOLO MONDANI Si, che era la fidanzata di Lo Cicero.

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Esatto. Mi ha detto: “è ma è molto amico di mio fratello”, si vabbè dai, mo conosci Stefano Delle Chiaie te? E lei mi ha detto. “guarda io c’ho anche delle foto

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Stefano delle Chiaie è stato il capo di Avanguardia Nazionale, coinvolto nel tentato golpe Borghese, indagato e prosciolto nei processi sulle stragi di Piazza Fontana e della stazione di Bologna. Esperto di guerra non ortodossa e guerriglia urbana. Vincenzo Vinciguerra, all'ergastolo per strage, è stato un fedelissimo amico di delle Chiaie e ha parlato dei suoi rapporti con la P2 di Licio Gelli e con i servizi segreti.

PAOLO MONDANI Stefano delle Chiaie ha mai avuto relazioni con Cosa Nostra? Con uomini di Cosa Nostra?

VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE è chiaro che Stefano, come tutti quelli dell’estrema destra, perché non dobbiamo personalizzare, il rapporto con la criminalità organizzata è stato sempre costante. È stato costante con la mafia, io ho parlato dei rapporti con Frank Coppola, quelli li avevano chiaramente i rapporti con Frank Coppola. Io dico che l’estrema destra non è stata mai una forza di opposizione allo Stato, l’estrema destra è stata una forza di appoggio allo Stato. Ha fatto ciò che gli apparati ufficiali dello Stato non potevano fare.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Molti collaboratori hanno riferito di stretti legami di Delle Chiaie con la ‘ndrangheta. Anche l’ex compagna di lo Cicero ci conferma i contatti con la mafia e parla di uno Stefano Delle Chiaie a Capaci prima della strage del 23 maggio.

PAOLO MONDANI Alberto Lo Cicero racconta che Stefano Delle Chiaie lo accompagna da Mariano Tullio Troia che era il boss di …

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO …di Palermo, sì. Sì, ma da Alberto l’ho saputo perché Alberto mi raccontava tutto.

PAOLO MONDANI Alberto Lo Cicero accompagna Stefano delle Chiaie a Capaci nell’area che poi sarà di interesse per la strage.

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Glielo ho detto prima se non mi sbaglio che Alberto ha fatto un sopralluogo con queste persone dove c’era un tunnel a Capaci.

PAOLO MONDANI Il tunnel dove hanno messo la bomba?

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Si perché poi io ne ho parlato con i carabinieri, ho menzionato tutte queste persone.

PAOLO MONDANI Mi spieghi cosa le ha detto Alberto rispetto al ruolo di Stefano delle Chiaie nella preparazione di quell’attentato.

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Alberto pensava che Stefano delle Chiaie era l’aggancio fra mafia e lo Stato.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Siamo a fine maggio del 1992, tra la strage di Capaci e quella di Via D'Amelio. Lo Cicero sta entrando nel programma di protezione e viene convocato da Paolo Borsellino che riservatamente indaga sulla morte dell'amico Giovanni.

PAOLO MONDANI Cosa aveva voluto sapere Borsellino?

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Chi erano le persone che lui aveva visto a Capaci, con chi aveva parlato.

PAOLO MONDANI Quindi Alberto Lo Cicero, mi conferma gli parlò di Stefano delle Chiaie?

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Si parlò di Stefano delle Chiaie. Alberto ha avuto l’impressione che Borsellino avesse tutto il quadro.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Dunque secondo la testimonianza della compagna di Lo Cicero, Maria Romeo, Lo Cicero avrebbe informato Borsellino della presenza di Delle Chiaie in un lungo interrogatorio, proprio quando Borsellino stave indagando sulla morte dell’amico Giovanni. Non sappiamo se ha verbalizzato o se abbia appuntato nell’agenda rossa quei colloqui. Fatto sta che Borsellino parla anche con Walter Giustini, l’ex brigadiere, il quale gli racconta tutti i contenuti di quelle informative che contenevano le informazioni di Lo Cicero. Gli racconta anche del tentative da parte di Contrada, all’epoca, di spostarlo dale indagini. Noi andiamo in onda, il giorno dopo cosa accade? Che il 24 maggio, martedì, alle 7 a casa del nostro inviato Paolo Mondani e poi dopo anche presso la redazione di Report si affaccia la Dia. Ha un mandato di perquisizione firmato dalla Dda di Caltanissetta. Vuole acquisire tutto il materiale cartaceo o che è presente sui telefonini e sui pc riguardante i contenuti dell’inchiesta andata in onda. Poi la perquisizione viene sospesa, il decreto viene revocato. Anche perché poi si scopre che erano documenti vecchi di 30 anni e riguardano sostanzialmente le parole di Walter Giustini, di Maria Romeo, di Alberto Lo Cicero. Nulla di segreto, nulla di riservato, semmai di dimenticato. Ecco perché poi il decreto di perquisizione viene revocato. Tuttavia il nostro Paolo Mondani scopre proprio da questo decreto di essere stato seguito, pedinato, intercettato e anche filmato nel corso della sua inchiesta sulle stragi di mafia. Viene anche convocato dalla procura un mese prima della messa in onda del servizio e oppone poi il segreto per quello che riguarda le fonti, segreto professionale. Ma i magistrati dicono: “Se manderete in onda quelle interviste noi saremo costretti, forse, a smentirne i contenuti”. Cosa che si è effettivamente poi realizzata con un comunicato proprio mentre stavano svolgendo le perquisizioni. La procura sottolinea che Mondani non è indagato e però si sta realizzando una fuga di notizie e che la presenza di Delle Chiaie a Capaci è destituita di ogni fondamento. Ma è veramente così? L’ex procuratore generale della procura di Palermo in un’intervista rilasciata ai colleghi di RaiNews24 parla di un documento fino a poco tempo fa rimasto occuto. L’hanno scoperto da poco, e parla proprio della presenza di Delle Chiaie a Capaci e dei suoi contatti con i boss. Noi oggi cercheremo di aggiungere qualche tassello a questa vicenda e anche qualche mistero. Il nostro Paolo Mondani.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Walter Giustini è il brigadiere dei carabinieri che alla fine del 1991 riceve le confidenze di Alberto Lo Cicero, guardaspalle e autista del boss di Cosa Nostra Mariano Tullio Troia, soprannominato U'Mussolini per le sue dichiarate idee politiche. Quelle confidenze di un uomo che ha deciso di tradire Cosa Nostra nascondono un tesoro ma la procura della repubblica di Palermo e alcuni ufficiali dei carabinieri sembrano non capire la forza dirompente di Lo Cicero.

PAOLO MONDANI Siamo all'8 gennaio del 1993 Balduccio Di Maggio viene catturato dai carabinieri dal colonnello Delfino vicino a Novara e Di Maggio racconta come arrestare Totò Riina a partire dal suo autista. A questo punto entra in gioco lei

WALTER GIUSTINI-EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Arrivai che era quasi notte, verso mezzanotte, l’una. E li negli uffici incontrai il mio comandante di reparto, mi informò che era stato arrestato Balduccio Di Maggio. E che aveva indicato il nome dell’autista di Totò Riina e che in quel momento personale del Ros era negli uffici dell’anagrafe a cercare di identificare questo personaggio indicato da Balduccio Di Maggio

PAOLO MONDANI L’autista di Riina

WALTER GIUSTINI-EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO L’autista di Riina. Quando io chiesi al mio capitano: “ma chi sarebbe questo autista?”, mi disse Salvatore Biondolillo. Io li dissi, “no, è Salvatore Biondino, come io affermo da 8/9 mesi, anche un anno. A me ne aveva parlato un collaboratore di giustizia Alberto Lo Cicero

PAOLO MONDANI Che era confidente

WALTER GIUSTINI-EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Prima all’inizio era confidente, parlava con me in via confidenziale, poi, per qualche mese insomma. Poi ci fu la strage di Capaci, e la strage di Borsellino e lui decise proprio di collaborare con la giustizia perché non condivideva più

PAOLO MONDANI Lei mi conferma che la notizia di Biondino, Salvatore Biondino che faceva da accompagnatore di Totò Riina

MARIA ROMEO-EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Si, si, si

PAOLO MONDANI Lei e Alberto la passate ai carabinieri prima della strage di Capaci?

MARIA ROMEO-EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Sì

PAOLO MONDANI Voglio sapere all’incirca quanto tempo prima lei ha saputo di Biondino autista di Riina rispetto alla strage di Capaci 23 maggio….

WALTER GIUSTINI-EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO È, qualche mese prima

PAOLO MONDANI Arriviamo al giorno dell’arresto di Riina, 15 gennaio

WALTER GIUSTINI-EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Gennaio

PAOLO MONDANI ….del 1993. Lei si trova in caserma e mi ha detto che incontra il Procuratore Caselli, appena arrivato a Palermo in quelle ore, aveva preso servizio come Procuratore capo e un altro pubblico ministero che era Aliquò, Vittorio Aliquò

WALTER GIUSTINI-EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Si. Erano lì nel cortile…..

PAOLO MONDANI Mi vuole dire che cosa succede tra di voi?

WALTER GIUSTINI-EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Niente, io mi avvicinai, siccome, ma anche un po’ in tono scherzoso, siccome non ero stato creduto, forse non è che non ero stato creduto io, non era stato creduto Lo Cicero e neanche forse avevano dato tanto credito ai riscontri che noi portavamo sulle dichiarazioni di Lo Cicero

PAOLO MONDANI Tutti positivi..

WALTER GIUSTINI-EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Diciamo al 98%. Poi qualcosa non si riusciva ad accertare perché non c’erano elementi per farlo. Io mi avvicinai al dottor Aliquò e gli dissi: “dottore Aliquò non mi deve dire niente lei?”, lui mi guarda e mi dice: “che cosa?”, dico “non mi deve dire niente? Lo sa chi è l’autista di Salvatore Riina, quel Biondino Salvatore che per lei era un perfetto sconosciuto.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Ma Lo Cicero non si limita a tentate di far catturare Totò Riina, racconta ai carabinieri che Stefano delle Chiaie, l'estremista di destra coinvolto in prima persona nella strategia della tensione degli anni '70, leader di Avanguardia Nazionale, gruppo sciolto per decreto nel 1976, era presente a Capaci nei mesi precedenti la strage e avrebbe supervisionato il cantiere dell'attentato al giudice Falcone.

MARIA ROMEO-EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Alberto mi ha detto...

PAOLO MONDANI Le disse cosa?

MARIA ROMEO EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO che Stefano Delle Chiaie era il portavoce dei politici di Roma PAOLO MONDANI Per fare la strage?

MARIA ROMEO-EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Per fare la strage perché questo magistrato dava fastidio, sia ai politici, allo Stato e alla mafia

PAOLO MONDANI Che altri boss aveva incontrato Stefano Delle Chiaie?

MARIA ROMEO-EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO So che in quell’occasione c’erano i Bonanno, c’erano i Biondino. Alberto mi ha detto così, che c’è, che stavano organizzando i Bonanno, i Troia e c’era pure questo Stefano Delle Chiaie: stavano organizzando qualcosa di grosso

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Dopo la nostra puntata di lunedì scorso qualcuno ha obiettato sulla veridicità del coinvolgimento di Stefano Delle Chiaie nel progetto stragista di Capaci il 25 maggio Spotlive l’ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato è intervenuto così

SPOTLIVE- 25 MAGGIO 2022 ROBERTO SCARPINATO-PROCURATORE GENERALE PALERMO FIANO AL 14 GENNAIO 2022 Noi già dopo le stragi abbiamo indagato Stefano Delle Chiaie, unitamente a Licio Gelli, a Salvatore Riina, ad altri soggetti perché secondo noi coinvolti in un progetto di destabilizzazione dello Stato connesso alla strategia stragista. Nel maggio del 2001 fummo costretti ad archiviare perché non avevamo elementi sufficienti, ma successivamente sono stati acquisite importanti risultanze processuali che noi non conoscevamo. Ed è stato acquisito anche un documento ufficiale redatto nel 1992 con la quale si comunicava a più autorità che Stefano delle Chiaie nella primavera del ’92 era venuto a Palermo, si era incontrato con boss mafiosi e che era coinvolto nella strage di Capaci

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Nell'autunno del 1992 il capitano dei carabinieri Gianfranco Cavallo, ora generale, fa un’informativa su Lo Cicero dopo aver sentito a lungo Maria Romeo. Quella informativa sparisce per lungo tempo ma poi improvvisamente ricompare. Maria Romeo viene sentita a verbale anche dal capitano Arcangioli che successivamente verrà indagato e poi prosciolto per la sparizione dell'agenda rossa di Paolo Borsellino, è lui qui quel 19 luglio del '92 con la borsa del giudice nella mano sinistra. Ma le vicende misteriose che avvolgono le dichiarazioni di Lo Cicero non si fermano qui.

PAOLO MONDANI C’è un capitano dei carabinieri nel 1992 che si chiama Gianfranco Cavallo

WALTER GIUSTINI-EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Si. Che conosco molto bene

PAOLO MONDANI Ora generale

WALTER GIUSTINI-EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Si

PAOLO MONDANI Che fa un’informativa su tutta questa vicenda Lo Cicero e altre cose, l’informativa è del 5 ottobre ’92, lei si ricorda che cosa dice questa informativa?

WALTER GIUSTINI-EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO No, io quell’informativa non mi ricordo neanche di averla letta, io ho solo saputo che la Romeo Maria era stata convocata dai carabinieri della sezione di PG della pretura per una questione di assegni. E io dopo la ripresi pure alla Romeo, gli ho detto “ma scusa, ma stiamo facendo delle indagini, ma perché vai a raccontare le stesse cosa a un altro reparto. Poi dici, magari esce una notizia che non deve uscì e a noi ci invalida tutta l’indagine

PAOLO MONDANI E perché Giustini, sa perché? Perché lei capisce, da quello che immagino che nonostante la sua buona volontà poi i magistrati non le danno retta

WALTER GIUSTINI-EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO È lo so

PAOLO MONDANI Lei ha conosciuto un capitano dei carabinieri che si chiama Cavallo?

MARIA ROMEO-EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Si

PAOLO MONDANI Che a un certo punto la sente. Diciamo così. Nel 1992?

MARIA ROMEO-EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Si

PAOLO MONDANI Che anche sulla base delle sue dichiarazioni

MARIA ROMEO-EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Ma anche con il capitano Arcangioli ho parlato

PAOLO MONDANI Poi succede che nel 2007 sia lei che Lo Cicero venite sentiti dalla procura nazionale antimafia

MARIA ROMEO-EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Si, ma non si trova nulla di quello che gli ho dato io

PAOLO MONDANI Cioè cosa le, ha dato?

MARIA ROMEO-EX COMPAGNA DI ALBERTO LO CICERO Io gli ho dato tutte le registrazioni di Alberto

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Storicamente quando si incontra l’eversione di destra si sbatte sempre su un depistaggio, un insabbiamento, una prova che sparisce. Giuliano Turone è il magistrato che nel 1984 rinviò a giudizio Michele Sindona nel corso dell’inchiesta sull’omicidio di Giorgio Ambrosoli. Nel 1981 con Gherardo Colombo scoprì la P2 e nella villa di Licio Gelli sequestrò la lista degli affiliati. Oggi indaga sul caso dell’omicidio di Piersanti Mattarella perché pensa che i misteri siano troppi e ritiene che la pista calda sia ancora quella nera. Esattamente come riteneva Giovanni Falcone

GIULIANO TURONE-EX MAGISTRATO Giovanni Falcone, nel novembre dell’88 era stato sentito dalla commissione parlamentare antimafia e aveva come dire lanciato una sorta di appello a proposito dell’omicidio di Piersanti Mattarella. Aveva detto alla commissione parlamentare che, in quel processo era molto importante approfondire proprio l’ipotesi di un rapporto tra l’ambiente mafioso e la destra eversiva questo appello la commissione parlamentare antimafia non ha, non l’ha evidentemente colto. Ma quello che è più inquietante è che questa audizione di Falcone è stata segretata dai servizi segreti. È stata segretata ed è rimasta segretata dal 1988 fino al 2018

PAOLO MONDANI Nel gennaio del 2021 la corte d’Assise di Bologna condanna Gilberto Cavallini in primo grado come quarto componente della strage del 2 agosto ’80. Nella sentenza scrive che bisognerebbe rifare il processo che aveva prosciolto Fioravanti e Cavallini sull’omicidio Mattarella

GIULIANO TURONE-EX MAGISTRATO La mia conclusione è che sia necessario comunque riaprire le indagini sul caso dell’omicidio di Piersanti Mattarella

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bisognerebbe cioè riaprire i cassetti. E a proposito di cassetti: che fine hanno fatto le registrazioni con le voci di Lo Cicero che la sua compagna, Maria Romeo, aveva consegnato agli investigatori? Insomma, abbiamo capito che sui mandanti esterni delle stragi c’è ancora molto da lavorare. È il pensiero del resto del gip di Caltanissetta, la giudice Graziella Luparello, che appena pochi giorni fa, il 18 maggio, ha respinto la richiesta di archiviazione sui mandanti esterni della strage di via D’Amelio. Il gip chiede di approfondire ben 32 punti, e le nuove indagini dovranno capire meglio l’ "interazione tra mafia, destra eversiva, servizi segreti e massoneria." Cioè verificare "l'esistenza di un patto occulto finalizzato a sostenere forze politiche filoatlantiche” . Questo anche in virtù degli elementi emersi negli ultimi processi, quello della strage di Bologna, quello di Reggio Calabria, del processo Italicus, quei documenti relativi alla desecretazione dei verbali dell'audizione di Giovanni Falcone in Commissione antimafia sul delitto Mattarella. Falcone ipotizzava un ruolo, una co-regia, della destra eversiva. E poi il gip chiede anche di approfondire il ruolo di Paolo Bellini, killer di Avanguardia nazionale imputato come uno degli autori nel processo per la strage della stazione di Bologna, autore di una trattativa misteriosa nel 1991 basata sui beni artistici. È in collegamento con Gioè, autore della strage di Capaci, anche lui legato a Avanguardia Nazionale, morto poi misteriosamente in carcere. Un suicidio misterioso. Il gip chiede anche di acquisire nuovi elementi sulla morte di Antonino Agostino, poliziotto esperto anche lui nella ricerca di latitanti ucciso dopo l'attentato dell'Addaura e quello del suo collega Emanuele Piazza il giovane poliziotto anche lui a caccia di latitanti sciolto nell’ acido. Il gip chiede di intersecare gli elementi di questi omicidi con quelli emersi durante la sentenza di condanna di Contrada, perché tutto questo sostanzierebbe la tesi che in quegli anni, la Questura di Palermo e il SISDE potrebbero avere allevato, al loro interno, un nucleo operativo trasversale occulto, che potrebbe avere avuto un ruolo fondamentale negli omicidi eccellenti e nelle stragi di Capaci e via D'Amelio. E sempre il gip chiede ancora di indagare sui conti di faccia da mostro, il poliziotto Aiello, su quelli della moglie, e della figlia. Di verificare i suoi rapporti con la destra eversiva. Ultimo livello da sondare, ma non per questo meno importante, è quello politico, cioè è quello di indagare su quel personaggio, o su quel partito, che potrebbe avere avuto un ruolo o che potrebbe aver contribuito a definire la strategia della tensione. Chiede quindi il gip di acquisire le dichiarazioni del collaboratore Salvatore Cancemi su Dell’Utri e Berlusconi, quelle relative ai fratelli Graviano e semmai dovesse essere necessario anche di interrogare nuovamente i fratelli Graviano. E infine di indagare sul ruolo delle Leghe nate nel 1990 acquisendo le dichiarazioni di Antonio D’Andrea, ex segretario della Lega Meridionale, noi le abbiamo trasmesse lunedì scorso, che parla appunto di un ruolo di Delle Chiaie anche in queste leghe, sul ruolo di Forza Italia a fare approvare leggi favorevoli alle organizzazioni criminali. Insomma si tratta di rivisitare circa 30 anni e più di indagini. Che sono poi i filoni che Report da sempre sta raccontando e soprattutto con le ultime inchieste sulla mafia. Eppure qualcuno ci ha accusato di depistaggio, i giornali ci hanno accusato di depistaggio, alcuni hanno invocato l’intervento della commissione parlamentare di vigilanza Rai, hanno invocato addirittura una puntata riparatoria. Ecco vorrei dire a questi giornali che l’unico depistaggio certificato dai fatti della storia è quello che è stato operato da alcuni giornali in una campagna di diffamazione nei confronti di Report, della redazione e del sottoscritto. Vorrei anche ricordare che l’unica puntata riparatoria che è stata fatta in seguito a un’inchiesta di Report, a firma della collega Maria Grazia Mazzola, riguardava il governatore Totò Cuffaro, che poi però è stato condannato con l’accusa di aver favorito uomini di Cosa nostra. Ecco questo per amore della verità, che emerge sempre da sola la verità, mentre la menzogna ha sempre bisogno di complici.

Carola Delle Chiaie contro Report: su Capaci raccontano un film senza fondamento. Il Tempo il 24 maggio 2022.

Non si placano le polemiche dopo la trasmissione "Report" andata in onda lunedì 23 maggio su Rai3. Dopo le perquisizioni della Dia nella redazione di "Report" e a casa dell’inviato Paolo Mondani, prende la parola Carola Delle Chiaie, vedova di Stefano, il fondatore di Avanguardia Nazionale morto a Roma il 12 settembre 2019 e accusato proprio durante la trasmissione di Sigfrido Ranucci. Carola Delle Chiaie, commenta così all’Adnkronos la puntata andata in onda. «Quello che ho visto non è giornalismo, è una forma di sciacallaggio su una persona che non solo è stata prosciolta da qualsiasi imputazione che ha avuto nel corso degli anni, dopo essersi fatto 17 anni di latitanza e 2 di galera, ma che non c’è più e che non è in grado di difendersi. Si permettono di inserirlo in uno scenario incredibile: dopo quanti anni scoprono che Delle Chiaie era a Capaci, che addirittura ha dettato la strategia delle stragi? È una follia, non c’è altra spiegazione». «Che vogliano coprire la pista dell’oro di Mosca che sta uscendo e a cui mai è stato dato seguito? È una contrapposizione? - chiede la moglie dell’ex leader di destra - Non hanno considerato, però, che Stefano Delle Chiaie ha una moglie, che prima ancora è stata sua militante, che non permette queste cose. Non solo per il suo onore ma per il mio e per il nostro, di tutti quelli che hanno militato in una formazione che si può accusare di tante cose, ma non di connessioni con gentaccia come la mafia e tanto meno con la Massoneria, che mio marito detestava come poche altre cose».

Nella trasmissione di inchiesta, infatti, si sosteneva la sovrapposizione della destra eversiva alla mafia e, nello specifico, un ruolo ben definito, anzi decisivo, di Delle Chiaie nell’attentato al giudice Giovanni Falcone, di cui ricorrevano i 30 anni. «Hanno inventato connivenze con Licio Gelli, addirittura un numero di telefono che il suo avvocato per fortuna ha trovato nel processo di Bologna. Cose smentite in sede processuali oggi ritirate fuori. Report, a mio avviso, non è un programma serio così come chi si è prestato alla pagliacciata di ieri: mi auguro di trovare gli estremi per una querela. “Bastardi senza onore”, li avrebbe definiti Stefano. Perché si può anche essere schierati come giornalisti, ma mai senza onestà intellettuale. Quello che hanno raccontato - conclude la vedova Delle Chiaie - è un film, non ci sono prove o indizi che documentino la presenza a Capaci di mio marito. Se non mi fossi arrabbiata, sentendomi io colpita in prima persona nella doppia veste di moglie e militante, ci sarebbe stato solo da ridere».

Stragi di mafia, Report omette quello che Falcone scoprì su Gladio e sull’ex neofascista Volo. Per Michele Anzaldi di Italia Viva della commissione di vigilanza Rai, la trasmissione fa vero servizio pubblico. In realtà spaccia per giornalismo di inchiesta un romanzo sulla Spectre. A che pro, omettere l’indagine di Falcone sul punto? Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 30 maggio 2022.

«Da Report è arrivato un contributo davvero di servizio pubblico, nel giorno della ricorrenza della strage contro Falcone e la sua scorta», ha affermato il deputato di Italia Viva e segretario della commissione Vigilanza Rai, Michele Anzaldi. Quindi sarebbe servizio pubblico dare credito alla pista Gladio o all’ex estremista di destra Alberto Volo, scartati entrambi già da Falcone nel suo ultimo atto prima di lasciare l’allora procura di Palermo? Sulla presenza a Capaci dell’ex appartenente di Avanguardia nazionale, detto “er caccola”, Stefano Delle Chiaie, il livello è identico visto che ci si aggrappa a un de relato (e ora casualmente si parla di registrazioni sparite).

Nel ’92  in 10 verbali il collaboratore Alberto Lo Cicero mai ha menzionato Delle Chiaie

Curioso che nel ’92, innanzi ai pm di diverse procure e anche all’allora brigadiere Walter Giustini, in tutti e 10 i verbali che vanno dal ‘92 al 1996, mai il collaboratore Alberto Lo Cicero ha menzionato Delle Chiaie, personaggio già alla ribalta. Ma tutto ciò meriterà un altro approfondimento a parte. Dobbiamo pensare che nel nostro Paese, non a caso al 58esimo posto nella classifica annuale che valuta lo stato del giornalismo, è servizio pubblico omettere le conclusioni delle indagini di Falcone che farebbe mettere in discussione l’eterna pista usata e abusata che, di fatto, allontana altre verità ben documentate?

Il pentito Pietro Riggio considerato inattendibile dalla procura di Caltanissetta

È grande giornalismo di inchiesta riproporre il pentito Pietro Riggio considerato – come ha riportato Repubblica (ma Il Dubbio – il 26 ottobre 2020 e il 18 dicembre 2020 – lo ha già analizzato come dovrebbe fare il giornalismo indipendente) – inattendibile dalla procura di Caltanissetta? È vero giornalismo intervistare Marianna Castro, ex moglie dell’ex poliziotto millantatore Peluso, senza accorgersene che ha detto cose diverse rispetto a ciò che si legge nelle sue dichiarazioni (altrettanto surreali) rese alla procura nissena? Quindi, anche secondo il deputato di Italia Viva (non del M5s, dai quali è più naturale attendersi tali dichiarazioni), a quanto pare è giusto fuorviare l’opinione pubblica assuefatta dalle dietrologie più disparate.

La reazione dell’avvocato Fabio Trizzino alle puntate di Report dove riesuma la pista P2, Gladio ed eversione nera

A trent’anni di distanza dalla strage di Capaci, per onorare la memoria di Falcone si infanga stravolgendo non solo il suo pensiero distante anni luce da taluni teoremi che già lo perseguitavano, ma anche il suo metodo di indagine. Non è interessato a nessun politico, tantomeno della commissione Vigilanza Rai, il grido di dolore dell’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino come reazione alle puntate di Report dove riesuma la pista P2, Gladio ed eversione nera, che nulla hanno che fare con le stragi di Capaci e di Via D’Amelio.

A nessuno, tranne che alla procura di Caltanissetta che – con un comunicato a firma del procuratore Salvatore De Luca – è stata costretta a smentire talune notizie riportate da Report che «possano causare disorientamento nella pubblica opinione e profonda ulteriore amarezza nei prossimi congiunti delle vittime delle stragi».

Report ritira fuori un interrogatorio al neofascista Volo del 2016

Ancora una volta, Report, senza alcun pudore, ritira fuori un interrogatorio del neofascista Alberto Volo reso ai pm nel 2016. Ed è lì che ha dichiarato di aver parlato con Borsellino, tanto che quest’ultimo gli avrebbe addirittura confidato di essere certo che ad armare quell’attentato contro il collega Falcone non fu la mafia. «Gli dissi quello che io temevo e scoprii – dice Volo ai pm – che lui era praticamente sulla stessa linea di pensiero, assolutamente. Soprattutto che non credeva assolutamente alla teoria del bottoncino. Io sono troppo intelligente per credere a questa sciocchezza». Volo, sempre davanti ai pm, sostiene che fu l’ex dirigente del Commissariato competente, Elio Antinoro, a organizzare l’incontro con Borsellino. Un episodio smentito clamorosamente dall’ex commissario.

Per Falcone l’ex neofascista Volo era del tutto inattendibile

Che le parole di Volo siano stato invece vagliate da Falcone, è cosa nota. Talmente nota che il giudice ucciso a Capaci, scrisse nero su bianco che è del tutto inattendibile: «Si consideri ancora – si legge nell’ordinanza sui delitti eccellenti sottoscritta da Falcone – , come sull’onda dell’attualità il Volo abbia preteso progressivamente di identificare un modesto circolo palermitano come la “Universal Legion” con la “Rosa dei venti”, oggetto di notissime inchieste giudiziarie negli anni 70, e poi con la struttura “Gladio”, alla quale infine egli afferma, anzi deduce di appartenere, “rivelando” i suoi presunti rapporti con il generale Inzerilli (dirigente effettivo della struttura negli anni 80) soltanto il 20 novembre 1990, dopo che l’alto ufficiale ha rilasciato un’intervista alla Rai – Tv, e “deducendo” ancora l’appartenenza alla stessa Gladio di Giuseppe Insalaco da una battuta che quest’ultimo (per la verità assai improbabilmente) gli avrebbe fatto sulla ”Universal Legion”».

Falcone a proposito di Volo parla di “mitomanie” e “protagonismo”

Non solo. «La palma del “migliore” se così si può dire – scrive ancora Falcone -, spetta certamente ad Alberto Volo. Nei suoi racconti egli è capace di accomunare idee politiche e tarocchi, contatti con servizi segreti e vicende amorose. La vicenda nella quale è implicato esalta la sua mania di protagonismo. Vale la pena di rilevare immediatamente come il comportamento del Volo in questo processo risponda a quel ruolo fantastico e delirante del quale l’imputato ha deciso di connotare ogni momento della sua esistenza». Poi Falcone prosegue con un esempio quando Volo si autoaccusò di far parte di organizzazioni eversive e di sapere tutto sulla strage di Bologna Ma quindi Falcone ha preso in considerazione Alberto Volo su quale aspetto? Presto detto. «Deve essere chiaro – spiega sempre Falcone-, peraltro, che dietro alle “mitomanie” ed al “protagonismo” del Volo (e che lo inducono alle più distorte e talvolta fantasiose ricostruzioni dei fatti) sta comunque il suo inserimento, quantomeno a livello conoscitivo, nella realtà umana della destra eversiva. La frequentazione del Mangiameli lo ha portato a sapere molto dei fatti legati al terrorismo ed anche dei progetti in atto».

Anche all’epoca di Falcone i mass media pompavano il millantatore Alberto Volo

Ma per essere più chiari, è utile riportare fedelmente anche cosa Falcone ha scoperto su Gladio, pista che – solo per fare un esempio – creò grossi intralci anche alle indagini che il giudice Guido Salvini intraprese sulla strage di Piazza Fontana. Ecco, quindi, un passaggio chiaro su cosa pensava Falcone del presunto coinvolgimento della Gladio: una sciocchezza. Da notare quanto non sia cambiato nulla: anche all’epoca i mass media pompavano il millantatore Alberto Volo.

A pagina 1550 dell’ordinanza Falcone smentisce che abbia avuto mai contatti con i servizi segreti

È un passaggio che si trova pagina 1550 dell’ordinanza sui delitti eccellenti. È l’ultimo atto di Falcone, ma Report, il servizio pubblico elogiato anche dal deputato di Italia Viva Anzaldi, non lo cita: «Va pure evidenziato che non è risultato che Alberto Stefano Volo abbia mai avuto contatti con i servizi di sicurezza o con l’organizzazione Gladio, nonostante le dichiarazioni recentemente rese ai giornali ed alle tv dal medesimo. Con riguardo alla Gladio, è opportuno ricordare, poi, che ulteriori accertamenti documentali sono stati compiuti dall’ufficio del pm di Palermo, nell’ambito di un diverso procedimento, riguardante l’omicidio di Giuseppe Insalaco.

Grave che l’opinione pubblica venga disinformata

In tale sede, l’esame della documentazione completa concernente tutte le persone inserite nella struttura o anche semplicemente “valutate” per un loro eventuale inserimento, ha consentito di escludere l’esistenza di alcuna relazione con i temi e le persone costituenti oggetto del presente procedimento. In tal modo, come si è già detto nella parte relativa all’omicidio dell’on. La Torre, si è pure venuti incontro ad una specifica richiesta della p.o. P.C.I. – P.D.S.». Grave che un canale di Stato ometta tali circostanze. Grave che l’opinione pubblica venga disinformata, creando un devastante e forse irreparabile sprofondamento nell’ignoranza. Oltre a eventuali pressioni contro quei magistrati seri in circolazione che si occupano delle stragi.

«Mio nonno Piersanti e quel delitto su cui non si è ancora fatta piena luce». Il nipote di Mattarella al Festival della Giustizia Penale. Il Dubbio il 23 maggio 2021. Piersanti Mattarella, avvocato omonimo del presidente della Regione Sicilia ucciso dalla mafia nel 1980, interviene al Festival della Giustizia Penale di Modena. «Sono nato 6 anni dopo la morte di mio nonno». Comincia così il racconto di Piersanti Mattarella, avvocato omonimo del presidente della Regione Sicilia ucciso dalla mafia nel 1980, al Festival della Giustizia Penale di Modena in corso di svolgimento online. «Come le vittime delle mafie possono contribuire all’antimafia?»,  si è chiesto Mattarella. «Lo Stato ha l’obbligo di assistere le vittime, ma non è scontato che le vittime contribuiscano all’antimafia, ad esempio con la propria testimonianza. Ho subito indirettamente le conseguenze della vicenda, ho vissuto l’assenza insieme all’onere e all’onore di portare il nome di mio nonno. Far conoscere i diversi percorsi di vita, le storie e i valori delle vittime di mafia è importante: le vittime di mafia sono pilastri della storia del nostro Paese e meritano che le loro storie vengano conosciute anche dalle nuove generazioni. In quest’ottica è necessario che il familiare della vittima non sia solo un testimone, ma che riesca a dare una voce concreta al proprio vissuto familiare dentro la storia del Paese». Mattarella ha tratteggiato allora la vita del nonno, fratello del Presidente della Repubblica, Sergio: «Fu sostenitore della dottrina sociale cattolica, entrò nella Democrazia Cristiana nei primi anni ’60 e a soli 32 anni entrò nell’assemblea regionale siciliana e si fece notare per trasparenza e cura del bene comune. Nel 1978, a 43 anni, venne eletto alla presidenza della Regione, con l’appoggio esterno del Pci di Pio La Torre. Fu molto fermo e deciso nel mettere un freno alla speculazione edilizia approvando la legge urbanistica e tentò di fare una programmazione a lungo termine delle risorse regionali. Andò contro i centri di interessi e di potere occulti, infiltrati dalla mafia, ed ebbe la forza di prendere le distanze con la parte più marcia della Dc di quei tempi. Fece un discorso molto duro contro la mafia ricordando Peppino Impastato, e fu un seguace politico di Aldo Moro. Il nonno venne ucciso il 6 gennaio 1980: i magistrati dell’epoca trovarono un filo conduttore con l’omicidio del segretario della Dc siciliana Reina, nel 1979, e quello di Pio La Torre nel 1982. Tuttavia depistaggi, false testimonianze, sparizioni di prove e documenti portarono fuori strada. I Nar, gruppo di estrema destra, furono indagati e poi anche la mafia: secondo Giovanni Falcone Piersanti Mattarella sarebbe stato ucciso perché la sua azione di rinnovamento confliggeva con Cosa Nostra e soprattutto con i corleonesi, che si servirono dell’intervento dei terroristi di destra». Anche il finale è didascalico, quanto amaro: «Il processo si è chiuso con la condanna dei mandanti corleonesi, ma ancora oggi a 41 anni dall’omicidio non si conoscono i nomi degli assassini di Piersanti Mattarella e non si è fatta ancora luce su quanto sia realmente accaduto il 6 gennaio del 1980».

Il condannato per terrorismo, strage e decine di omicidi che offende la memoria di Giovanni Falcone. Paolo Biondani su L'Espresso il 9 febbraio 2021. Il giudice eroe della lotta alla mafia. Screditato in una corte d'Assise da un pregiudicato neofascista, libero da tempo. Anche se proprio Falcone lo aveva fatto arrestare. Per un delitto di portata storica. Con mandanti ai vertici di Cosa nostra. E due soli esecutori, rimasti misteriosi. È successo anche questo, nell'ultimo processo per l'eccidio del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna (85 vittime, oltre 200 feriti). Dopo le condanne definitive di Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini , i giudici hanno dichiarato colpevole, in primo grado, un altro capo dei Nar, Gilberto Cavallini, tesoriere, armiere e sicario di quella micidiale banda armata. Le motivazioni della sentenza, oltre duemila pagine depositate dai giudici tre settimane fa, ricostruiscono l'intera catena di delitti perpetrati da quei terroristi di destra, protetti dai servizi segreti dominati dalla P2. Fioravanti e Cavallini, negli anni Ottanta, furono accusati proprio dal giudice Falcone di aver eseguito, su commissione dei boss, anche l'omicidio di Piersanti Mattarella: il presidente della Regione Sicilia, assassinato nel centro di Palermo il 6 gennaio 1980 sotto gli occhi della moglie, rimasta ferita. I due terroristi neri sono stati però assolti in tutti i gradi di giudizio. E l'assassinio di Piersanti Mattarella: il presidente della Regione Sicilia, assassinato nel centro di Palermo il 6 gennaio 1980 sotto gli occhi della moglie, rimasta ferita. I due terroristi neri sono stati però assolti in tutti i gradi di giudizio. E l’assassinio di , fratello dell'attuale Capo dello Stato, rimane così il più anomalo dei misteri italiani: dopo 40 anni di indagini contrastate, si conoscono i mandanti, che di solito è più difficile scoprire, mentre i due killer sono tuttora impuniti. A riparlare oggi di quell'indagine di Falcone è stato lo stesso Fioravanti, chiamato a testimoniare nel processo a Cavallini. In aula il fondatore dei Nar si proclama innocente per la strage di Bologna, come semper, e fa di tutto per scagionare il complice, con risultati controproducenti. E senza che nessuno glielo chieda, riapre il caso Mattarella, forte della sua unica assoluzione. Sa che Falcone non può smentirlo: è stato ucciso dalla mafia il 23 maggio 1992 nella strage di Capaci. Il racconto parte da un antefatto: «All'epoca, in una trasmissione di Santoro chiamata Samarcanda, Leoluca Orlando cominciò a urlare contro Falcone, davanti alla mia foto, accusandolo di tenere nel cassetto le prove contro i fascisti». E qui il fondatore dei Nar la spara grossa, sotto giuramento: «Due o tre giorni dopo, Falcone mi chiamò, fece uscire tutti e mi disse: “Fioravanti, come magistrato e come siciliano, io a questa cosa di Mattarella non ci credo. Però lei si rende conto che a questo punto, se non procedo, divento anch'io della P2 ”». Il giudice, dunque, lo avrebbe inquisito pur sapendolo innocente. Non solo: «La sera stessa Falcone dispose il mio trasferimento in un regime speciale d'isolamento, una gabbia di vetro, con luci accese giorno e notte, per sei mesi, per cui non mangiavo più». Una tortura a lieto fine, conclude Fioravanti, perché «al 181esimo giorno Falcone stesso mi tolse dall'isolamento». «La sera stessa Falcone dispose il mio trasferimento in un regime speciale d'isolamento, una gabbia di vetro, con luci accese giorno e notte, per sei mesi, per cui non mangiavo più». Una tortura a lieto fine, conclude Fioravanti, perché «al 181esimo giorno Falcone stesso mi tolse dall'isolamento». «La sera stessa Falcone dispose il mio trasferimento in un regime speciale d'isolamento, una gabbia di vetro, con luci accese giorno e notte, per sei mesi, per cui non mangiavo più». Una tortura a lieto fine, conclude Fioravanti, perché «al 181esimo giorno Falcone stesso mi tolse dall'isolamento».Nar si proclama innocente per la strage di Bologna, come sempre, e fa di tutto per scagionare il complice, con risultati controproducenti. E senza che nessuno glielo chieda, riapre il caso Mattarella, forte della sua unica assoluzione. Sa che Falcone non può smentirlo: è stato ucciso dalla mafia il 23 maggio 1992 nella strage di Capaci. Il racconto parte da un antefatto: «All’epoca, in una trasmissione di Santoro chiamata Samarcanda, Leoluca Orlando cominciò a urlare contro Falcone, davanti alla mia foto, accusandolo di tenere nel cassetto le prove contro i fascisti». E qui il fondatore dei Nar la spara grossa, sotto giuramento: «Due o tre giorni dopo, Falcone mi chiamò, fece uscire tutti e mi disse: “Fioravanti, come magistrato e come siciliano, io a questa cosa di Mattarella non ci credo. Però lei si rende conto che a questo punto, se non procedo, divento anch’io della P2”». Il giudice simbolo, dunque, lo avrebbe inquisito pur sapendolo innocente. Non solo: «La sera stessa Falcone dispose il mio trasferimento in un regime speciale d’isolamento, una gabbia di vetro, con luci accese giorno e notte, per sei mesi, per cui non mangiavo più». Una tortura a lieto fine, conclude Fioravanti, perché «al 181esimo giorno Falcone stesso mi tolse dall’isolamento». I giudici di Bologna, nella sentenza contro Cavallini, demoliscono queste «menzogne». E denunciano Fioravanti alla procura per falsa testimonianza, accusandolo anche di «calunnia», non applicabile «solo perché Falcone è morto». Il presidente della corte ripercorre tutti gli atti di Palermo e documenta che Falcone ha aperto per primo le indagini sui terroristi neri per l'omicidio Mattarella, le ha continuate per cinque anni, le ha difese anche davanti alla commissione antimafia, collegandole alla bomba di Bologna e ad «altri attentati» che hanno unito neofascisti e mafiosi. E nel 1989 proprio lui ha ordinato l'arresto di Fioravanti e Cavallini. Mentre «la trasmissione Samarcanda è andata in onda nel 1990, quando Falcone non era più giudice istruttore da quasi un anno». Elencate queste e molte altre contro-prove, i giudici concludono: «Ancora una volta Fioravanti non si pone limiti nel mentire». E si chiedono «perché abbia bisogno ancora oggi di costruire simili menzogne». La risposta è che l'omicidio di Piersanti Mattarella nasconde segreti «inconfessabili». Come la strage di Bologna. Mattarella, le ha continuate per cinque anni, le ha difese anche davanti alla commissione antimafia, collegandole alla bomba di Bologna e ad «altri attentati» che hanno unito neofascisti e mafiosi. E nel 1989 proprio lui ha ordinato l’arresto di Fioravanti e Cavallini. Mentre «la trasmissione Samarcanda è andata in onda nel 1990, quando Falcone non era più giudice istruttore da quasi un anno». Elencate queste e molte altre contro-prove, i giudici concludono: «Ancora una volta Fioravanti non si pone limiti nel mentire». E si chiedono «perché abbia bisogno ancora oggi di costruire simili menzogne». La risposta è che l’omicidio di Piersanti Mattarella nasconde segreti «inconfessabili». Come la strage di Bologna. Per l'assassinio del leader politico siciliano, che si batteva per il «rinnovamento» di una Dc inquinata  dalla mafia, sono stati condannati tutti i boss della cupola di Cosa nostra. Alcuni pentiti di alto livello, come Tommaso Buscetta e Francesco Marino Mannoia, hanno potuto ricostruire le riunioni di vertice tra i «capi mandamento», in tregua precaria alla vigilia della guerra storica di mafia. L'omicidio fu «voluto dai corleonesi, Riina e Provenzano», e dai loro alleati a Palermo come Francesco Madonia. Il boss Stefano Bontate, ormai isolato, puntava invece a riconquistare la Dc, ma si allineò: quel presidente della Regione dava fastidio anche a lui. Falcone, Borsellino e gli altri magistrati del pool antimafia hanno ricostruito tutti gli atti di Mattarella contro Cosa nostra. Appena insediato, ha imposto «legalità e trasparenza negli appalti e collaudi regionali». Si è opposto a Vito Ciancimino, il mafioso corleonese che era diventato sindaco di Palermo. Ha fermato contratti colossali per costruire sei scuole di Palermo, assegnate ad altrettante aziende mafiose (una ciascuno): il suo stop fu cancellato «due giorni dopo l'omicidio». Anche la sua linea politica irritava i boss: Piersanti era della corrente di Aldo Moro e propugnava anche in Sicilia l'alleanza con il Pci di Pio La Torre, padre della legge antimafia, ucciso nel 1982. Sui mandanti mafiosi, quindi, non ci sono dubbi. Come sulle complicità politiche: il pentito Mannoia è stato testimone oculare di due incontri, prima e dopo l'omicidio Mattarella, tra il boss Bontate e Giulio Andreotti, capo della corrente più marcia della Dc, che si sentì preannunciare e poi rivendicare il delitto. Ma non avvertì la vittima. E tantomeno la polizia. Buscetta e Francesco Marino Mannoia, hanno potuto ricostruire le riunioni di vertice tra i «capi mandamento», in tregua precaria alla vigilia della storica guerra di mafia. L’omicidio fu «voluto dai corleonesi, Riina e Provenzano», e dai loro alleati a Palermo come Francesco Madonia. Il boss Stefano Bontate, ormai isolato, puntava invece a riconquistare la Dc, ma si allineò: quel presidente della Regione dava fastidio anche a lui. Falcone, Borsellino e gli altri magistrati del pool antimafia hanno ricostruito tutti gli atti di Mattarella contro Cosa nostra. Appena insediato, ha imposto «legalità e trasparenza negli appalti e collaudi regionali». Si è opposto a Vito Ciancimino, il mafioso corleonese che era diventato sindaco di Palermo. Ha fermato contratti colossali per costruire sei scuole di Palermo, assegnati ad altrettante aziende mafiose (una ciascuno): il suo stop fu cancellato «due giorni dopo l’omicidio». Anche la sua linea politica irritava i boss: Piersanti era della corrente di Aldo Moro e propugnava anche in Sicilia l’alleanza con il Pci di Pio La Torre, padre della legge antimafia, ucciso nel 1982. Sui mandanti mafiosi, quindi, non ci sono dubbi. Come sulle complicità politiche: il pentito Mannoia è stato testimone oculare di due incontri, prima e dopo l’omicidio Mattarella, tra il boss Bontate e Giulio Andreotti, capo della corrente più marcia della Dc, che si sentì preannunciare e poi rivendicare il delitto. Ma non avvertì la vittima. E tantomeno la polizia. Il problema è l'esecuzione dell'agguato: Falcone è il primo a considerarla anomala. Piersanti viene ucciso in pieno giorno da un ventenne a volto scoperto, che deve usare due pistole, perché la prima s'inceppa. L'auto guidata dall'unico complice risulta rubata la sera prima alle 19,30, come le due targhe fatte a pezzi nella notte per ricomporne in fretta una falsa, e viene ritrovata intatta due ore dopo il delitto. Cosa nostra all'epoca è una potenza militare, le sue «squadre della morte» sono macchine da guerra, come dimostrano altri «omicidi eccellenti» decisi da tutta la cupola. Per ammazzare il generale Dalla Chiesa i sicari corleonesi hanno usato i kalashnikov e tre commando armati, con una moto e due auto poi bruciate per far sparire le tracce. Uno di quei mitra era stato già impiegato, come un messaggio in codice, per uccidere Bontate e il suo braccio destro Salvatore Inzerillo. Per altre stragi clamorose la mafia usava già allora le prime autobombe. Anomalo invece è anche l'omicidio di Michele Reina, segretario della Dc di Palermo, ucciso nel 1979 con una pistola da un ventenne mai identificato. Piersanti viene ucciso in pieno giorno da un ventenne a volto scoperto, che deve usare due pistole, perché la prima s’inceppa. L’auto guidata dall’unico complice risulta rubata la sera prima alle 19,30, come le due targhe fatte a pezzi nella notte per ricomporne in fretta una falsa, e viene ritrovata intatta due ore dopo il delitto. Cosa nostra all’epoca è una potenza militare, le sue «squadre della morte» sono macchine da guerra, come dimostrano altri «omicidi eccellenti» decisi da tutta la cupola. Per ammazzare il generale Dalla Chiesa i sicari corleonesi hanno usato i kalashnikov e tre commando armati, con una moto e due auto poi bruciate per far sparire le tracce. Uno di quei mitra era stato già impiegato, come un messaggio in codice, per uccidere Bontate e il suo braccio destro Salvatore Inzerillo. Per altre stragi clamorose la mafia usava già allora le prime autobombe. Anomalo invece è anche l’omicidio di Michele Reina, segretario della Dc di Palermo, ucciso nel 1979 con una pistola da un ventenne mai identificato. La tesi di Falcone è che i corleonesi hanno assoldato sicari esterni, con alleanze criminali tenute nascoste agli altri boss poi sterminati. L'indagine sui Nar si basa su vari indizi. Nel 1984 la vedova di Mattarella, che non dimentica «il viso gentile, ma con lo sguardo glaciale» del killer, lo riconosce in una foto Fioravanti. Che nei giorni dell'omicidio era a Palermo con Cavallini. Nel 1986 il fratello, Cristiano Fioravanti, confessa a Falcone che Valerio stesso gli confidò di aver assassinato «un importante politico siciliano, davanti alla moglie». E i più attendibili pentiti di destra aggiungono che era Mattarella. Nar si basa su vari indizi. Nel 1984 la vedova di Mattarella, che non dimentica «il viso gentile, ma con lo sguardo glaciale» del killer, riconosce in una foto Fioravanti. Che nei giorni dell’omicidio era a Palermo con Cavallini. Nel 1986 il fratello, Cristiano Fioravanti, confessa a Falcone che Valerio stesso gli confidò di aver assassinato «un importante politico siciliano, davanti alla moglie». E i più attendibili pentiti di destra aggiungono che era Mattarella. Dal 1988, però, le indagini su tutti gli omicidi eccellenti si fermano. Il nuovo capo dei giudici istruttori, Antonino Meli, smantella il pool antimafia, divide le inchieste ed emargina Falcone. Che nel 1989 passa in Procura, ma anche qui viene isolato dal nuovo capo, Pietro Giammanco. Mentre Cristiano Fioravanti, su pressione del padre, ritratta le accuse al fratello. Nel marzo 1991 Falcone se ne va a Roma, al ministero. Intanto un suo amico magistrato, Loris D'Ambrosio, chiede nuove indagini sull'arma delitto e sulle targhe rubate, elencando decine di covi dei Nar, ma viene ignorato. Giammanco. Mentre Cristiano Fioravanti, su pressione del padre, ritratta le accuse al fratello. Nel marzo 1991 Falcone se ne va a Roma, al ministero. Intanto un suo amico magistrato, Loris D’Ambrosio, chiede nuove indagini sull’arma del delitto e sulle targhe rubate, elencando decine di covi dei Nar, ma viene ignorato. Dopo la morte di Falcone, Fioravanti e Cavallini vengono assolti dagli stessi giudici che condannano i mandanti mafiosi. Ma sanno poco del terrorismo nero. Nelle sentenze si legge che a Palermo non sono stati nemmeno acquisiti gli atti sui rapporti tra il boss di Cosa nostra a Roma, Pippo Calò, i riciclatori della P2 e la Banda della Magliana, alleata dei Nar. Legami che Falcone considerava cruciali. Anche la condanna di Calò per la strage sul treno Firenze-Bologna (23 dicembre 1984, sedici morti e oltre 250 feriti), organizzata dal boss con esplosivo fornito da un politico neofascista, viene trascurata. Per le corti di Palermo le responsabilità mafiose escludono la pista nera. Le assoluzioni si basano sulle dichiarazioni di quattro pentiti di Cosa nostra, gli unici a parlare di esecutori mafiosi. Vengono considerati «concordanti», anche se nominano sei killer diversi. Nessuno di loro mente. Però riportano notizie di terza mano. La fonte di Mannoia e Buscetta, per esempio, è Bontate, che sugli esecutori riferiva quanto gli dicevano i nemici corleonesi. In appello, la corte esamina una foto di Antonino Madonia, un sicario spietato, l'unico accusato da due pentiti (su quattro), e trova «una solare somiglianza» con Fioravanti. Quindi concludere che la vedova della vittima si è sbagliata, facendosi «suggestionare» dalla foto del terrorista, anche se lei ha sempre giurato il contrario. L'unico accusato da due pentiti (su quattro), e trova «una solare somiglianza» con Fioravanti. Quindi concludere che la vedova della vittima si è sbagliata, facendosi «suggestionare» dalla foto del terrorista, anche se lei ha sempre giurato il contrario. L'unico accusato da due pentiti (su quattro), e trova «una solare somiglianza» con Fioravanti. Quindi concludere che la vedova della vittima si è sbagliata, facendosi «suggestionare» dalla foto del terrorista, anche se lei ha sempre giurato il contrario. Magliana, alleata dei Nar. Legami che Falcone considerava cruciali. Anche la condanna di Calò per la strage sul treno Firenze-Bologna (23 dicembre 1984, sedici morti e oltre 250 feriti), organizzata dal boss con esplosivo fornito da un politico neofascista, viene trascurata. Per le corti di Palermo le responsabilità mafiose escludono la pista nera. Le assoluzioni si basano sulle dichiarazioni di quattro pentiti di Cosa nostra, gli unici a parlare di esecutori mafiosi. Vengono considerati «concordanti», anche se nominano sei killer diversi. Nessuno di loro mente. Però riportano notizie di terza mano. La fonte di Mannoia e Buscetta, per esempio, è Bontate, che sugli esecutori riferiva quanto gli dicevano i nemici corleonesi. In appello, la corte esamina una foto di Antonino Madonia, un sicario spietato, l’unico accusato da due pentiti (su quattro), e trova «una solare somiglianza» con Fioravanti. Quindi conclude che la vedova della vittima si è sbagliata, facendosi «suggestionare» dalla foto del terrorista, anche se lei ha sempre giurato il contrario. Di fronte a un'indagine di Falcone, «nessuno ha ritenuto di riconvocare la vedova», per mostrare a lei la foto di Madonia: «Il riconoscimento è stato fatto dagli stessi giudici». Che elevano a «certezze» le testimonianze indirette dei pentiti, anche se «non risulta che sia stata aperta nessuna indagine su Nino Madonia per l'omicidio Mattarella». Madonia: «Il riconoscimento è stato fatto dagli stessi giudici». Che elevano a «certezze» le testimonianze indirette dei pentiti, anche se «non risulta che sia stata aperta nessuna indagine su Nino Madonia per l’omicidio Mattarella». Negli ultimi mesi, finalmente, la procura di Palermo ha riavviato l'inchiesta, che riguarda anche l'omicidio Reina. E ha ricevuto atti dalla procura generale di Bologna e dagli avvocati delle vittime della strage. La prima novità riguarda l'arma del delitto. I carabinieri hanno confrontato gli otto proiettili delitto Mattarella con la pistola usata da Cavallini, il 23 giugno 1980, per assassinare il pm romano Mario Amato. Mattarella con la pistola usata da Cavallini, il 23 giugno 1980, per assassinare il pm romano Mario Amato. Quella «Colt modello Cobra calibro 38» è «di sicuro interesse investigativo», spiega la perizia, perché «la canna è solcata da sei rigature sinistrorse di 1,5 millimetri»: le stesse trovate sulle pallottole delitto di Palermo. La pistola dei Nar, inoltre, «esibisce difetti di funzionamento», per cui è «compatibile» anche «con la dinamica dell'omicidio Mattarella», dove una pistola s'inceppò. Ma oggi è impossibile avere la «certezza» che sia la stessa arma, perché «i proiettili sono stati compromessi», in questi quarant'anni, dai «processi ossidativi del piombo». Colt modello Cobra calibro 38» è «di sicuro interesse investigativo», spiega la perizia, perché «la canna è solcata da sei rigature sinistrorse di 1,5 millimetri»: le stesse trovate sulle pallottole del delitto di Palermo. La pistola dei Nar, inoltre, «esibisce difetti di funzionamento», per cui è «compatibile» anche «con la dinamica dell’omicidio Mattarella», dove una pistola s’inceppò. Ma oggi è impossibile avere la «certezza» che sia la stessa arma, perché «i proiettili sono stati compromessi», in questi quarant’anni, dai «processi ossidativi del piombo». Il giudice D'Ambrosio, quando si era ancora in tempo, chiese inutilmente di esaminare anche la pistola di Cavallini, sequestrata nel 1982 a Roma. Le nuove richieste seguono anche un'altra sua pista. Lo stesso anno, in un covo dei Nar a Torino, furono confiscate «targhe e pezzi di targhe rubate», annotate nel verbale dei carabinieri. Una ha gli stessi numeri (PA 560391), riassemblati, dei pezzi mancanti delle due targhe sottratte per l'omicidio Mattarella (PA53 e 0916). Ora sono state ritrovate tutte, per cui una perizia potrebbe confrontare l'auto delitto con le targhe dei Nar. A meno che non risultino anche queste ossidate. Fioravanti e Cavallini, naturalmente, considerati innocenti per l'omicidio Mattarella, che le indagini in corso a Palermo potrebbero anche attribuire a killer mafiosi. Comunque la loro assoluzione è definitiva. Nar a Torino, furono confiscate «targhe e pezzi di targhe rubate», annotate nel verbale dei carabinieri. Una ha gli stessi numeri (PA 560391), riassemblati, dei pezzi mancanti delle due targhe sottratte per l’omicidio Mattarella (PA53 e 0916). Ora sono state ritrovate tutte, per cui una perizia potrebbe confrontare l’auto del delitto con le targhe dei Nar. A meno che non risultino anche queste ossidate. Fioravanti e Cavallini, naturalmente, vanno considerati innocenti per l’omicidio Mattarella, che le indagini in corso a Palermo potrebbero anche attribuire a killer mafiosi. Comunque la loro assoluzione è definitiva. Fioravanti rischia solo un processo per falsa testimonianza. Dove sarà in buona compagnia: tra i denunciati dai giudici di Bologna, per presunte reticenze sul terrorismo di destra, c'è anche il generale Mario Mori, ex capo dei servizi.

Vita e morte di Pio La Torre, un nemico di tutte le ingiustizie. ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA su Il Domani il 19 aprile 2023

Di sera arriva in Sicilia il generale più famoso dell’Arma dei carabinieri: Carlo Alberto dalla Chiesa. È il nuovo prefetto di Palermo, I giornalisti gli chiedono perché hanno ammazzato Pio La Torre, il generale risponde: «Per tutta una vita»

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

Palermo, mattina del 30 aprile 1982, i sicari di mafia uccidono Pio La Torre. Con lui muore anche l'amico e autista Rosario Di Salvo. L'Italia trema.

Di sera arriva in Sicilia il generale più famoso dell’Arma dei carabinieri: Carlo Alberto dalla Chiesa. È il nuovo prefetto di Palermo, I giornalisti gli chiedono perché hanno ammazzato Pio La Torre, il generale risponde: «Per tutta una vita».

Figlio della Sicilia più povera, nato ad Altarello di Baida, una borgata alle porte di Palermo, capopopolo e sindacalista negli anni infuocati delle lotte contadine e delle occupazioni delle terre, deputato alla Camera per tre legislature, Pio La Torre diventa un bersaglio di Cosa nostra e di qualcun altro quando è da appena sette mesi segretario regionale del Partito comunista italiano.

Un ritorno nella sua terra, un ritorno in quella «città dove si fa politica con la pistola».

La Palermo dei delitti eccellenti e delle stragi in stile libanese, della mattanza e dei mille morti ammazzati fra le cosche. Ma anche la città dei patti e dei ricatti politici.

Da oggi sul nostro Blog Mafie pubblichiamo “Sulle ginocchia” (edizioni Melampo), la storia di Pio La Torre raccontata dal figlio Franco. È proprio Franco a ricordare il padre fra dimensione pubblica e privata.

La passione politica e l'incontro con Giuseppina che sarebbe diventata sua moglie, le Botteghe Oscure e le vacanze di famiglia in Polonia e a Panarea, la detenzione nel carcere dell'Ucciardone e la battaglia contro i missili a Comiso, le “attenzioni” che gli avevano riservato i servizi segreti italiani (lo sospettavano di essere una spia di Mosca) e la lunga battaglia in Commissione parlamentare antimafia per avere quella legge sull'associazione di tipo mafioso che (per fortuna) resiste ancora oggi.

Il dolore e la fatica di scrivere su un padre. DAL LIBRO "SULLE MIE GINOCCHIA" DI FRANCO LA TORRE su Il Domani il 19 aprile 2023

Ogni volta che ho provato, mi rendevo conto di volerci, soltanto, provare ma non mi sentivo pronto e, dopo aver abbozzato un indice, annotato qualche spunto, cancellato un’idea che non mi convinceva più, insoddisfatto, mi bloccavo...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

Ho compiuto 55 anni il 25 giugno del 2011. L’età che mio padre non ha raggiunto. Mio padre, nato il 24 dicembre del 1927, è stato ucciso il 30 aprile del 1982; ne aveva, da pochi mesi, compiuti 54.

Non c’è tragedia peggiore, per i genitori, di quella di seppellire le creature alle quali hanno dato la vita. Lo considerano un evento innaturale. Spesso è un’esperienza lacerante, che apre una ferita che può non rimarginarsi mai.

I figli devono fare i conti con l’idea della morte dei loro genitori ed è naturale che chi li ha messi al mondo muoia prima di loro. Non sempre ci si arriva preparati.

Eppure, che la vita di mio padre fosse in pericolo – da quando era tornato a Palermo, nell’autunno del 1981 – era evidente, a lui per primo.

Questa evidenza non gli aveva impedito di respingere tutti gli affettuosi o autorevoli tentativi opposti alla sua decisione di tornare in Sicilia a combattere, in prima linea, la battaglia politica per il riscatto della sua terra.

L’occasione fu il congresso regionale del Pci, nel quale era candidato alla segreteria. Era stato eletto dopo un confronto congressuale molto serrato: si doveva scegliere tra lui, un uomo dell’ala riformista, che veniva considerata la destra del partito, e un giovane, Luigi Colajanni, della sinistra.

Mia madre non l’aveva presa affatto bene. Sapeva che non avrebbe potuto fargli cambiare idea. Si sarebbe divisa tra Roma e Palermo, per stare il più possibile accanto a lui.

Così avevo iniziato a scrivere, circa tre anni fa, era l’autunno del 2011, sotto la spinta dell’approssimarsi del trentesimo anniversario dell’omicidio di Rosario Di Salvo e di mio padre.

In genere, gli anniversari cosiddetti tondi stimolano i sentimenti e la voglia di ricordare. Per me si trattava di vincere le mie stesse resistenze, alimentate da un senso di riservatezza, che mi avevano impedito, per lungo tempo, di prendere carta e penna e raccontare come avevo vissuto l’omicidio, elaborato il lutto, vissuto l’assenza e cercato di raccogliere l’eredità di mio padre.

Un’eredità pari alla sua storia, al suo impegno e a quanto questo impegno avesse prodotto in termini politici e, per quanto mi riguarda, si fosse riflesso nella mia educazione.

Ero attratto dall’idea di mettere alla prova la mia capacità di ricostruire una presenza, di misurarmi con l’immagine di mio padre e, cosa più importante, di rendere evidente il senso della sua esistenza, dal mio punto di vista. Obiettivi ambiziosi, che farebbero tremare le vene e i polsi, ma a me bastava molto meno per rendermi conto che passione ed entusiasmo non sarebbero stati sufficienti. Dovevo essere in grado di guardare, senza cadere nell’illusione degli specchi, e per riuscirci dovevo sapere dove guardare.

Pur conscio che ogni paragone con mio padre sarebbe stato, oltre che fuorviante, sicuramente fuori luogo, in trent’anni non ero riuscito a trovare la chiave di lettura che mi avrebbe consentito di scrivere di lui.

Ogni volta che ho provato, mi rendevo conto di volerci, soltanto, provare ma non mi sentivo pronto e, dopo aver abbozzato un indice, annotato qualche spunto, cancellato un’idea che non mi convinceva più, insoddisfatto, mi bloccavo. 2

Non credo fosse la paura di riaprire vecchie ferite, di rinnovare il dolore, visto che ogni volta ero felice di ricominciare, convinto che fosse la volta buona e che quella che volevo raccontare era una bella storia, anche se conclusasi tragicamente.

DAL LIBRO "SULLE MIE GINOCCHIA" DI FRANCO LA TORRE

La paura di trasformare in “spettacolo” e clamore una vittima di mafia. DAL LIBRO "SULLE MIE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE su Il Domani il 20 aprile 2023

Avvertivo la vertigine di cadere vittima di me stesso. Preda di un’incontrollabile autostima, che potesse condurmi a raccontare una storia utile a me e basta. Immaginare tutto ciò, mi ha fatto fare un passo indietro, con un senso di sollievo...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

Credo che la coscienza del limite, nel mio caso, non fosse controbilanciata da una consapevole determinazione ed evidenza di scopi e fini. Insomma, capivo di non aver chiaro il perché e il come e, forse, anche il cosa.

Avvertivo la vertigine di cadere vittima di me stesso. Preda di un’incontrollabile autostima, che potesse condurmi a raccontare una storia utile a me e basta. Immaginare tutto ciò, mi ha fatto fare un passo indietro, con un senso di sollievo.

Allo stesso tempo, la cognizione che non avessi una motivazione sufficiente ad affrontare l’impresa mi faceva sentire inadeguato. Inadeguato nel fornire un racconto originale, rispetto alle biografie e alle analisi dedicate alla vita e all’azione politica di Pio La Torre.

Le persone a me care, in varie occasioni, mi avevano stimolato, ritenendo che avessi qualcosa da dire, di più e di diverso, secondo l’ottica del figlio, non sottoposta a rigide letture di tipo politico o storico. Anche se a politica e storia non si poteva sfuggire, visti il personaggio e l’argomento. Ma ogni volta si erano scontrate contro il muro che avevo eretto intorno a me, a salvaguardia dei miei privati sentimenti.

Questo, d’altronde, era stato l’approccio condiviso in famiglia per evitare che, come era accaduto in casi analoghi, la vita privata di una vittima di mafia fosse gettata nel grande frullatore mediatico, diventasse oggetto di strumentalizzazioni, spettacolo utile ad esercizi voyeuristici, e finisse per prevalere sull’intera storia delle persone, fatta di valori civili e di impegno democratico.

Mi rendevo conto che questa ritrosia non sempre fosse ben compresa e potesse essere interpretata come il venir meno al compito filiale di onorare il padre.

Quindi, dovevo sforzarmi di spiegare che per me non era semplice misurarmi con un’impresa, che consideravo ardua e, forse, al di sopra delle mie possibilità.

Non ritengo di avere particolari capacità narrative, come non credo di essere in grado di fornire dettagli significativi o letture inedite; questi i motivi alla base della mia scelta.

Mi domandavo: e se mio padre leggesse? Mio padre, spesso, mi faceva leggere gli articoli e i discorsi che scriveva, e mi sollecitava pareri sinceri, che gli fornivo orgoglioso, e che offrivano lo spunto per discutere. Lo stesso facevo io, quando capitava, e ricevevo da lui utili suggerimenti, anche critici, e mai giudizi definitivi o inviti a lasciar perdere.

Le questioni che poneva non miravano a mettermi in difficoltà. Non suggeriva di togliere questo o cancellare quello. Non mi proponeva la sua versione. Diceva che non lo convinceva il ragionamento, in tutto o in parte, o lo trovava debolmente argomentato, rispetto alle tesi che volevo sostenere o alle conclusioni cui ero giunto. Era interessato al mio modo di pensare. Analizzava il testo, nella sua logica e solidità, per esaminare quanto intendessi affermare, e mi sottolineava quali, a suo parere, fossero i punti di forza e di debolezza.

DAL LIBRO "SULLE MIE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE

Ma come lo chiamerò in questo libro? Papà o Pio La Torre? DAL LIBRO "SULLE MIE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE su Il domani il 21 aprile 2023

La cosa che continuava a nutrire, al meglio, la sua brama di sapere era la familiarità nel maneggiare quegli strumenti che fanno nascere i fatti dalle idee, quali la concretezza dell’analisi, rivolta a fornire indirizzi, suggerire strategie, produrre azioni

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

Ho imparato da quell’esercizio che la bontà di una tesi sta nella qualità di ciò che la determina e nei risultati che produce.

Una tesi può apparire affascinante, sinché non crolla, precipitando nel vuoto che la sostiene. In politica, nella migliore delle ipotesi, quel che resta è la velleità di uno slogan, buono per le vendite di fine stagione.

Il processo di formulazione, accompagnato da approfondimento, analisi e sintesi, era quello che lo interessava di più. Mi chiedeva sempre come fossi giunto a quella conclusione, se conoscessi questo autore o quei fatti, o se avessi considerato quell’aspetto e tenuto conto di ipotesi alternative. Non mancava, poi, la parte dedicata agli effetti, che potevano scaturire da affermazioni e scelte conseguenti. Ero sicuro che quanto andassi affermando potesse essere di qualche interesse oltre

il mio ristretto gruppo di riferimento? Le conclusioni cui ero giunto avrebbero risolto i problemi di qualcuno? Perché, se volevo affrontare le questioni, oltre il mio orizzonte, dovevo spingermi sino a dove potessi vedere e comprendere cosa ci fosse al di là. Perché se il mio intento è di capovolgere una tesi, ne devo conoscere storia e contenuti, per arrivare a individuarne le criticità o ciò che non condivido, e costruirci sopra la scelta in grado di cambiare la prospettiva, di aprire gli occhi verso nuovi orizzonti. La dialettica, che bellezza!

Il suo stile era asciutto, senza sacrificare gli elementi utili a sostenere quanto intendeva affermare, e non rinunciava a denunciare responsabilità, cause di guasti e comportamenti esecrabili, come si sforzava, sempre, di formulare proposte e rimedi. La concretezza era il suo limite per gli appassionati di articolati ragionamenti, che scavavano nel profondo dei problemi. Era il primo ad esserne consapevole ma era altrettanto convinto che, dopo aver scavato, bisognasse riportare qualcosa in superficie.

Conosceva il fascino esercitato dalla passione per lo studio, il piacere derivato dalla conoscenza, la soddisfazione guadagnata dalla padronanza degli argomenti, la soddisfazione dell’andare sino alla radice dove nascono le visioni.

La cosa che continuava a nutrire, al meglio, la sua brama di sapere era la familiarità nel maneggiare quegli strumenti che fanno nascere i fatti dalle idee, quali la concretezza dell’analisi, rivolta a fornire indirizzi, suggerire strategie, produrre azioni.

Se non c’è risultato, se l’analisi, per quanto approfondita possa essere, non contribuisce alle “future sorti e progressive”, rimane un esercizio, sicuramente utile all’intelletto ma sterile politicamente.

Questa, che sto provando a raccontare, è tutta un’altra storia o, almeno, io non la considero un esercizio ordinario di scrittura. Non voglio pormi su un piano superiore, rispetto a chi legge. Non voglio affrontare questa storia, quella della sua vita e del suo impegno politico esprimendo giudizi e tirando conclusioni.

Sin dall’inizio di questo mio tentativo, il ruolo mi suonava stonato e non lo volevo assumere. Insomma, anche io ho dovuto prendere atto che continuavo ad aprire e chiudere gli occhi, con il risultato che non riuscivo a vedere.

Tra le tante, una difficoltà che non sono riuscito a risolvere: scrivo mio padre, papà o Pio La Torre? Per cui, li troverete tutti.

DAL LIBRO "SULLE MIE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE

Una foto in bianco e nero di fine Anni Cinquanta, la prima immagine insieme. DAL LIBRO "SULLE MIE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE su Il Domani il 22 aprile 2023

Tegher, vieni che ti racconto una storia! Così mio padre, seduto su una sedia nella cucina della nostra casa di Palermo, mi esortava ad arrampicarmi sulle sue gambe. Poteva accadere al suo ritorno da Roma, dove era stato per impegni sindacali, prima, o di partito, dopo

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

Nella nostra prima immagine insieme, mio padre mi tiene in braccio.

Sorridiamo, siamo entrambi contenti. Sono felice di osservare la realtà stretto a lui e mio padre è felice di mostrarmi la realtà.

In genere, non si conservano ricordi nitidi dei primissimi anni di vita.

Le esperienze, le emozioni, le cose che ci accadono in quel periodo diventano, in maniera naturale, fisiologica, parti di noi, vengono assimilate e modellano il nostro carattere, definiscono le basi della personalità. Se hai paura di qualcosa a quell’età, è probabile che ne avrai per tutta l’esistenza, senza un lavoro specifico di rielaborazione della paura stessa e delle sue cause.

Quell’immagine di mio padre che mi tiene in braccio è racchiusa in una foto in bianco e nero, scattata all’inaugurazione di una sezione del PCI di Palermo alla fine degli anni Cinquanta.

Avrò avuto, più o meno, due anni e quella foto fa riemergere, dalle pieghe dei ricordi, altre immagini, non saprei dire quanto veritiere, di me che giro tra le gambe degli adulti, in un clima festoso, in un ambiente che avverto familiare, proprio perché è mio padre a farmelo sentire tale portandomi con sé, tra le sue braccia, nel suo mondo, tra la sua gente.

Tegher, vieni che ti racconto una storia!

Così mio padre, seduto su una sedia nella cucina della nostra casa di Palermo, mi esortava ad arrampicarmi sulle sue gambe. Poteva accadere al suo ritorno da Roma, dove era stato per impegni sindacali, prima, o di partito, dopo.

Rispondevo felice al suo invito e saltavo sulle sue ginocchia. Lui simulava i movimenti del cavallo e ne imitava i nitriti, e iniziavano così lunghe galoppate, il cui rumore riproduceva, efficacemente, battendo la lingua sulle labbra, attraverso storie avventurose, ambientate in contrade a me sconosciute, note come Tiburtine o Laurentine e popolate da eroi.

Tiburzio, Tiburtino IV, Tegherzio, da cui il diminutivo Tegher, che avevo guadagnato, insieme ad altri di cui non serbo più traccia negli archivi della memoria, erano i protagonisti dei suoi racconti, ambientati nell’antica Roma, ispirati ai nomi delle strade consolari romane.

Qualche anno dopo, mio padre mi disse che le aveva concepite durante il periodo di studio alle Frattocchie e che le aggiornava successivamente, quando era a Roma per le riunioni di lavoro. Storie che non mi stancavo mai di ascoltare. Narravano imprese di personaggi coraggiosi, quasi eroi che si muovevano tra il mito e l’epica.

Di solito, uno di loro che aveva subito una prevaricazione, o era stato vittima di un’ingiustizia, trovava conforto e solidarietà negli amici, che lo aiutavano a sconfiggere l’arroganza del più forte e a ottenere il giusto risarcimento. In sostanza, rifacendosi alla tecnica dei cantastorie siciliani, che lo avevano appassionato in gioventù, mio padre mi raccontava di battaglie e scontri tra buoni e cattivi, dove nessuno moriva e i buoni vincevano e Tegherzio/Tegher, che ve lo dico a fare, era tra questi ultimi.

Mio padre si appassionava, e sempre aveva storie nuove. E c’era una particolarità: il racconto era condiviso.

I protagonisti li sceglievamo, di volta in volta, insieme. Il mio preferito era Tegher e lui approvava, ovviamente, anche se non sempre gli affidava il ruolo principale. Aveva un suo modo speciale di stimolare la mia fantasia: ogni tanto interrompeva il racconto per domandarmi come pensassi potesse evolvere la situazione, e se la mia risposta gli sembrava “congrua”, la adottava nel prosieguo della narrazione.

Tra un’inaugurazione di sezione di partito e una storia, mio padre proseguiva la sua battaglia.

Così gli piaceva definire il suo lavoro, o meglio, il suo impegno contro quel grumo di interessi politici, economici e criminali che stava pervadendo il tessuto sociale della Sicilia.

DAL LIBRO "SULLE MIE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE

La borgata di Altarello, i contadini, Palermo che sembrava un altro mondo. DAL LIBRO "SULLE MIE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE su Il Domani il 23 aprile 2023

I braccianti di quella borgata, la domenica mattina, quando si ripulivano e andavano in città dicevano: “Vaiu a Palermu”, come se andassero in una città lontana. Avevo cominciato la mia attività politica nella borgata dove sono nato. Dopo aver costituito la sezione del partito e contribuito a crearne altre attorno, avevo scoperto che c’era bisogno dell’organizzazione sindacale dei braccianti e, quindi, mi ero rivolto alla Federterra...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

Ecco i primi nitidi ricordi, che risalgono dal fondo della mia memoria. Avevo quattro o cinque anni.

Mia madre deve essere da qualche parte in cucina e mio fratello Filippo forse è giù in giardino, a giocare con la nonna o la zia.

Abitavamo l’appartamento al piano di sopra della casa dei nonni materni, una villetta del quartiere Matteotti, costruita negli anni Trenta, nel bel mezzo di agrumeti, nell’allora periferia orientale di Palermo. Nonna Carmelina ha avuto un ruolo importante nell’educazione mia e di mio fratello. Papà e mamma lavoravano e lei era l’adulto di riferimento a casa, dato che abitavamo al piano di sopra di casa sua. Zia Agata era la più giovane dei figli Zacco, dodici anni meno di mia madre ed undici in più di Filippo. Ancora non sposata, viveva con la nonna.

Un paio d’anni dopo, la stessa cucina fu teatro di uno di quegli ordinari contrasti tra genitori e figli. Era pomeriggio e stavo con mia madre e mia nonna e la scena mi vedeva, al centro, protestare perché era stato opposto un no ad una mia richiesta o, se preferite, un capriccio. Come reazione minacciai di andarmene da mio padre a raccontargli del torto subito.

Nella scena successiva sono sul marciapiede, deciso a raggiungere lo scopo.

Sapevo, più o meno, dove lavorasse mio padre, ma preferii fermarmi al negozio di frutta e verdura a due passi da casa, per chiedere se mi potessero accompagnare da lui. Il fruttivendolo, che conoscevo, mi invitò a sedermi e ad aspettare il ritorno del garzone, non più giovane né troppo svelto, e mi rassicurò dicendomi che ci avrebbe pensato lui, dopo averlo seguito nel giro delle consegne, ad accompagnarmi da papà. Fatto sta che, alla fine del pomeriggio, il garzone mi riportò a casa. Mamma, accortasi della fuga, aveva telefonato a mio padre, che non vedendomi arrivare era tornato dal lavoro, nella speranza di incontrarmi per strada. Nel frattempo, erano stati avvertiti carabinieri e polizia, che mi stavano cercando. Corsi verso mio padre che mi accolse sollevandomi e abbracciandomi, insieme a mia madre. Disse che avevo fatto una cosa pericolosa e che era servita solo a far prendere un grosso spavento a tutti quanti. Mi fece promettere che non l’avrei mai più fatto, per poi concludere, ridendo, che non era stata una grande idea, quella di rivolgermi al fruttivendolo.

La decisione di mio padre di tornare in Sicilia affondava le sue ragioni nell’origine del suo impegno a fianco del popolo siciliano nella lotta per liberarsi dalla condizione di sottosviluppo e subalternità quando, giovane studente universitario, aveva deciso di aderire al PCI.

Così racconta nel suo libro Comunisti e movimento contadino in Sicilia quegli anni in cui matura il suo interesse per la giustizia sociale e combatte per i diritti dei più deboli e bisognosi, contro lo sfruttamento dei ricchissimi proprietari terrieri.

Al partito mi ero iscritto nell’autunno del ’45, negli stessi giorni in cui mi ero iscritto all’università. La scelta fu certamente influenzata dal tipo di famiglia nella quale ero cresciuto. Provenivo da una borgata di Palermo che a quell’epoca sembrava un paese lontano; si pensi che nel piccolo villaggio dove io sono nato, fino all’età di otto anni, non avevamo la luce elettrica, si studiava a lume di candela o a petrolio, e l’acqua da bere dovevamo andare a prenderla quasi a un chilometro di distanza. I braccianti di quella borgata, la domenica mattina, quando si ripulivano e andavano in città dicevano: “Vaiu a Palermu”, come se andassero in una città lontana.

Avevo cominciato la mia attività politica nella borgata dove sono nato. Dopo aver costituito la sezione del partito e contribuito a crearne altre attorno, avevo scoperto che c’era bisogno dell’organizzazione sindacale dei braccianti e, quindi, mi ero rivolto alla Federterra.

Quando si era iscritto alla facoltà di Ingegneria, mio padre non aveva ancora compiuto 18 anni. Era stato uno studente precoce e amava molto lo studio. Non so se immaginasse, quando varcò l’ingresso della sede della Federterra, che quel giorno avrebbe impresso una svolta alla sua vita.

Non sarebbe stato più soltanto un attivista, avrebbe cominciato ad assumersi impegni e responsabilità. Non so se lo avesse previsto, certo era quello che voleva. Diventò funzionario della Federterra, poi responsabile giovanile della CGIL e quindi responsabile della commissione giovanile regionale del PCI, in quel periodo non esisteva un’organizzazione giovanile di partito. Successivamente, Pancrazio De Pasquale, segretario della federazione comunista di Palermo, col quale strinse un rapporto umano e politico molto profondo e duraturo, gli chiese di lavorare con lui in una segreteria formata da cinque giovani che, messi insieme, superavano di poco il secolo di vita.

DAL LIBRO "SULLE MIE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE

In una Sicilia feudale, la strage infinita e impunita dei sindacalisti. DAL LIBRO "SULLE MIE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE su Il Domani il 24 aprile 2023

Tra il marzo e l’aprile del 1948, alla vigilia delle elezioni politiche, erano stati uccisi vari segretari di Camere del Lavoro del palermitano, Placido Rizzotto a Corleone, Calogero Cangelosi a Camporeale, Epifanio Leonardo Li Puma a Petralia. Pio La Torre, nel luglio del 1949, era membro del Consiglio Federale del Pci, che diede l’inizio ufficiale all’occupazione delle terre, lanciando lo slogan: “la terra a tutti”

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

In quegli anni, i comunisti erano impegnati per l’effettiva applicazione dei decreti Gullo, provvedimenti legislativi emanati dall’allora ministro dell’Agricoltura del governo Badoglio, che garantivano ai contadini maggiori diritti e più terre da coltivare.

Lo svuotamento delle norme, operato dal successivo ministro, e l’opposizione dei proprietari terrieri alla loro applicazione scatenarono, soprattutto nel Mezzogiorno, la richiesta di una effettiva riforma agraria e un’ondata di proteste popolari, che ebbero la loro concretizzazione nelle occupazioni delle terre incolte da parte dei braccianti agricoli esasperati, che dovettero fare i conti con la reazione, altrettanto esasperata, da parte del governo e con quella, dura e intransigente, dei proprietari terrieri, che non esitarono a fare ricorso al braccio armato della mafia.

Tra il marzo e l’aprile del 1948, alla vigilia delle elezioni politiche, erano stati uccisi vari segretari di Camere del Lavoro del palermitano, Placido Rizzotto a Corleone, Calogero Cangelosi a Camporeale, Epifanio Leonardo Li Puma a Petralia.

Pio La Torre, nel luglio del 1949, era membro del Consiglio Federale del Pci, che diede l’inizio ufficiale all’occupazione delle terre, lanciando lo slogan: “la terra a tutti”.

La protesta prevedeva il censimento delle terre giudicate incolte o mal coltivate e l’assegnazione, in parti uguali, a tutti i braccianti che ne avessero bisogno. Parallelamente partì anche la campagna per la raccolta del grano, che sarebbe servito per seminare le terre occupate. Il 23 ottobre 1949 fu organizzato il primo Festival provinciale dell’Unità a Palermo, al Giardino Inglese, per sensibilizzare l’opinione pubblica.

Il clima di festa fu però presto interrotto dalle notizie, che giunsero pochi giorni dopo, il 29 ottobre, dalla Calabria, da Melissa per la precisione, dove le proteste dei contadini erano sfociate in tragedia con l’uccisione da parte delle forze dell’ordine di tre persone, tra cui un bambino e una donna, e

il ferimento di altre quindici, oltre a numerosi arresti. Quella strage convinse i dirigenti del Pci palermitano ad anticipare la data dell’occupazione delle terre, fissandola al 13 novembre successivo.

Giuseppina Zacco, mia madre, lo aveva conosciuto proprio in quegli anni, la fine dei Quaranta. Il 29 ottobre 1949, giorno della strage di Melissa, annota mio padre, lo aveva sposato e con lui aveva condiviso le lotte contadine: il loro autentico viaggio di nozze, durato una stagione, durante la quale, ma potrei sbagliarmi, concepirono mio fratello, e non quei pochi giorni trascorsi a Capri, dopo il matrimonio, interrotti proprio dalla necessità di rientrare a Palermo per preparare l’imminente mobilitazione, che avrebbe coinvolto migliaia di braccianti poveri della Sicilia nord-occidentale.

Mia madre sapeva chi era quell’uomo che, arrestato durante una delle manifestazioni, dove i contadini occupavano e seminavano simbolicamente le terre incolte, aveva scontato ingiustamente 17 mesi all’hotel Ucciardone, il carcere di Palermo, accusato di tentato omicidio e poi prosciolto per non aver commesso il fatto.

Mio padre e mia madre erano orgogliosi di quel periodo della loro vita; si capiva, da come ne parlavano, che non era stato facile e aveva richiesto capacità di misurarsi con prove impegnative, grandi sforzi e sacrifici per due giovani, poco più che ventenni, che stavano mettendo su famiglia proprio mentre partecipavano attivamente al movimento di liberazione dall’oppressione semifeudale e per l’affrancamento dalle condizioni di sottosviluppo delle masse povere siciliane.

Raccontavano della dignità della gente che li accoglieva, anche per settimane, nelle loro misere abitazioni, che non si potevano definire case. Non era raro che dormissimo sulla paglia nelle stalle, insieme agli animali – ricordava mia madre.

Ma la stalla era, comunque, un lusso che non tutti si potevano permettere – aggiungeva mio padre – E capitava che dormissimo nell’unica stanza, insieme alla famiglia che ci ospitava e alla loro capra – concludeva mia madre – Il partito non aveva a disposizione tutti i mezzi necessari.

Si partiva da Palermo, sapendo che si sarebbe stati fuori per giorni. Venivamo lasciati nei paesi, dove avremmo incontrato i contadini e organizzato con loro le manifestazioni, spostandoci a piedi o con i mezzi disponibili in loco, carretti, muli, biciclette e qualche rara motocicletta.

DAL LIBRO "SULLE MIE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE

L’occupazione delle terre, i campieri, le cariche della polizia. DAL LIBRO "SULE GINOCCHIA" DI FRANCO LA TORRE su Il Domani il 25 aprile 2023

Il governo, viste le dimensioni che la lotta aveva assunto, decise di riprendere l’azione repressiva. Così scattò l’arresto di alcuni dirigenti sindacali e braccianti agricoli e ricominciarono gli scontri tra polizia e manifestanti. A San Cipirello vennero arrestate diciotto persone

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

La mattina di quella domenica 13 novembre del 1949, i contadini di Corleone, Campofiorito, Contessa Entellina, Valledolmo, Castellana Sicula, Polizzi, alcune borgate di Petralia Soprana e di Petralia Sottana, Alia, San Giuseppe Jato, San Cipirello, Piana degli Albanesi, in tutto dodici paesi in provincia di Palermo sulle Madonie, si erano mossi insieme, dando vita ad una serie di cortei, snodandosi per le campagne circostanti, dove avrebbero occupato e preso possesso delle terre censite come incolte e mal coltivate. Diverse migliaia di persone si misero in marcia all’alba verso i feudi, tra questi quello di Strasatto, dove Luciano Leggio, boss mafioso di prim’ordine e tra i protagonisti della trasformazione della mafia da fenomeno agricolo ad urbano, era gabellotto. Dopo la tragedia avvenuta a Melissa, alla polizia era stato ordinato di non reprimere le manifestazioni, così l’occupazione continuò per molti giorni, sviluppandosi anche nei comuni fuori Palermo.

Il governo, viste le dimensioni che la lotta aveva assunto, decise di riprendere l’azione repressiva. Così scattò l’arresto di alcuni dirigenti sindacali e braccianti agricoli e ricominciarono gli scontri tra polizia e manifestanti. A San Cipirello vennero arrestate diciotto persone.

L’occupazione aveva avuto successo, con il risultato che circa tremila ettari di terreno erano stati arati e il grano seminato.

Mio padre, in quell’inverno del ’49, in attesa dei frutti della semina, era impegnato nell’organizzazione della ripresa delle lotte in primavera. L’obiettivo era conservare il diritto di raccolta sui terreni seminati, nella consapevolezza che il vero ostacolo era l’opposizione dei proprietari agrari.

Alle prime luci del giorno del 10 marzo 1950, a Bisacquino, centro agricolo della provincia di Palermo, un corteo di contadini, lungo tra i quattro e i cinque chilometri, stava lasciando il paese e mio padre era con loro. Cinque - seimila contadini andavano a misurare i terreni incolti e li lottizzavano: un ettaro a testa. Uomini e donne. Tante donne, alcune a cavallo, in testa al corteo, e tante bandiere: quelle rosse del PCI, le bianche della Dc e quelle della Cgil. Doveva rientrare a Palermo con la corriera delle tre del pomeriggio ma la perse. Allora decise di andare incontro ai contadini che rientravano dal fondo occupato. Giunse in vista del corteo, si scorgevano le bandiere e si udivano i cori delle donne, ma vide, anche, arrivare una colonna di automezzi carichi di poliziotti e carabinieri. Si rese conto che Vicari, il prefetto di Palermo, aveva messo in atto le minacce di repressione e aveva dato ordine di organizzare una vera e propria imboscata. Era già successo nei giorni addietro.

Mio padre decise di andare a parlare con i dirigenti della colonna. Riconobbe, tra questi, il tenente Panzuti dei carabinieri di Bisacquino, una persona ragionevole, con cui aveva trovato un’intesa nei giorni precedenti, ma questi, con lo sguardo chino, lo indirizzò al commissario capo dottor Panico.

Mio padre ricordava il commissario Panico in evidente stato di agitazione mentre, senza dargli il tempo di parlare, stava ordinando a uno degli ufficiali di togliere quello “sconcio di bandiere”.

DAL LIBRO "SULE GINOCCHIA" DI FRANCO LA TORRE

Pio La Torre rinchiuso all’Ucciardone, dimenticato anche dal suo partito. DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE su Il Domani il 26 aprile 2023

Seppur mitigata negli anni, restava l’amarezza per un partito che, nei primi mesi, lo aveva dimenticato in carcere, considerandolo colpevole di mancato rispetto delle posizioni espresse dagli organi dirigenti regionali, che ritenevano che il partito non fosse preparato, che non fossero maturi i tempi per lanciare la mobilitazione

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

Un gruppo di carabinieri si avvicinò alla testa del corteo e tentò di strappare le bandiere dalle mani delle donne.

Queste reagirono con vigore e ne nacque un tafferuglio. Partì una sassaiola verso i carabinieri e il commissario Panico diede ordine di sparare. I contadini si dispersero e rimase a terra il bracciante Salvatore Catalano. Un proiettile lo aveva colpito alla spina dorsale, rendendolo invalido per tutta la vita. Mio padre andava a trovarlo ogni volta che poteva e finché ha potuto. Gli scontri ripresero e si svilupparono con violenza.

Mio padre raccontava di aver impedito ad un gruppo di contadini di uccidere a colpi di pala un carabiniere. Un maresciallo di polizia era stato catturato, gli era stata tolta la pistola e stava per essere denudato, se mio padre non fosse intervenuto e avesse convinto i contadini a restituirgli la divisa e a liberarlo. Mantenendo la necessaria lucidità, si rivolgeva con autorità ai contadini dicendo loro che carabinieri e poliziotti non erano i loro nemici; mentre lo erano i grandi proprietari terrieri, i nobili latifondisti, che volevano la repressione e lo scontro.

Il suo comportamento fu fondamentale per evitare che i contadini uccidessero o mutilassero gli agenti. Le cariche della polizia continuavano. Mio padre venne fermato, insieme a centinaia di contadini, e fatto salire su un camion. Giunse ammanettato nella piazza di Bisacquino, quando su quel camion salì un tenente di polizia, che fece accendere le luci e, puntandogli il dito contro, lo accusò di averlo colpito con un bastone.

Alla smentita di mio padre, il tenente gli sputò addosso e ordinò che gli venissero strette le manette. L’accusa era tentato omicidio.

All’alba dell’undici marzo 1950 Pio La Torre fece il suo ingresso nel carcere dell’Ucciardone e, dopo le perquisizioni di rito, venne scortato in cella. Sarebbe uscito il ventitré agosto 1951.

Del periodo del carcere, mia madre ricordava l’angoscia del distacco improvviso, la tristezza del non sapere quando avrebbe riabbracciato suo marito, padre del figlio che aveva in grembo. Aveva dovuto attendere diverse settimane prima di ottenere un colloquio. Ricordava la vergogna, per sé e per mio padre, di dover piegarsi a quei piccoli ricatti del coraggioso e generoso agente di custodia, che chiudeva un occhio sui libri censurabili e su altre piccolezze, da questi ritenuti rischiosissimi favori da ricompensare adeguatamente.

Le lettere che ci scrivevamo, venivano previamente lette e anche censurate – raccontava mia madre – per cui, io e papà, ci accordammo che alla fine avremmo aggiunto la parte più intima, scritta col limone, illeggibile se non si passa una fiammella sotto al foglio.

Quando riassaporava questi particolari, mia madre rivolgeva a mio padre uno sguardo complice, da lui corrisposto, e sorridevano, come fanno i bambini quando custodiscono segreti condivisi.

Seppur mitigata negli anni, restava l’amarezza per un partito che, nei primi mesi, lo aveva dimenticato in carcere, considerandolo colpevole di mancato rispetto delle posizioni espresse dagli organi dirigenti regionali, che ritenevano che il partito non fosse preparato, che non fossero maturi i tempi per lanciare la mobilitazione.

DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE

La battaglia di Bufalini e l’assoluzione dopo diciotto lunghi mesi. DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE su Il Domani il27 aprile 2023

Paolo Bufalini – dirigente autorevole inviato dal centro del partito, come si diceva allora, venuto ad assumere la responsabilità di vice segretario regionale, a fianco di Li Causi – risvegliò l’interesse del partito verso mio padre in carcere. Bufalini promosse la costituzione di un comitato di solidarietà e un collegio di difesa che ottenne, in pochi mesi, l’assoluzione e la successiva scarcerazione del compagno La Torre

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

Il Pci siciliano era guidato da Girolamo Li Causi, mitico dirigente comunista, capace di affascinare e di suscitare rispetto e grande ammirazione.

Ho conosciuto Li Causi, un pomeriggio all’inizio degli anni Sessanta, nel giardino di casa dei nonni a Palermo, dove chiacchierava con mio padre. La sua faccia mi ispirava simpatia e il suo aspetto mi dava fiducia. Giocavo intorno a loro, che mi prendevano in braccio a turno, dicendomi cose che mi facevano ridere.

La sua biografia esprime la personalità e le doti di questo grande uomo politico siciliano, meglio di quanto possa fare io.

Li Causi, prima dirigente socialista e poi comunista, scontò 15 anni di carcere sotto il regime di Mussolini. Era stato condannato a 21 anni ma fu liberato nel 1943, quando si tuffò nella lotta partigiana e divenne membro del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia. Terminata la Resistenza, tornò in Sicilia, dove fu il primo segretario regionale del Pci.

Il 16 settembre del 1944, nel corso di un comizio a Villalba, mentre denunciava la mafia locale, fu ferito gravemente da un gruppo di mafiosi, guidati dal noto boss Calogero Vizzini, nativo proprio di Villalba. Deputato all’Assemblea Costituente, poi alla Camera, dove fu il protagonista della denuncia della Strage di Portella della Ginestra, quindi senatore, fino alla vicepresidenza della prima Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno mafioso.

In verità, i giovani dirigenti palermitani erano di diverso avviso. Convinti che vi fossero le condizioni, dopo averle preparate meticolosamente, avevano deciso di anticipare i tempi delle manifestazioni per le occupazioni delle terre nella provincia di Palermo. Era questa la loro colpa, anche se la mobilitazione in provincia di Palermo ebbe successo. Pancrazio De Pasquale – accusato di frazionismo, e con lui i giovani dirigenti palermitani – venne destituito da segretario della federazione e inviato alla scuola di partito; e a mio padre, tramite mia madre, venne suggerito di approfittare del periodo in carcere per prepararsi alla laurea, visto che la sua prospettiva nel partito era incerta.

Accadde che, a Roma, Pietro Secchia, responsabile nazionale dell’organizzazione del Pci, si fosse persuaso che i metodi e le decisioni assunte a Palermo avessero nociuto al partito e, conseguentemente, andasse a Palermo a presiedere la riunione del Comitato regionale che, con l’accordo di Li Causi, approvò una mozione che ridimensionava analisi e decisioni e, in una certa misura, riabilitava i giovani.

Questa svolta fu accompagnata dall’arrivo a Palermo di Paolo Bufalini – dirigente autorevole inviato dal centro del partito, come si diceva allora, venuto ad assumere la responsabilità di vice segretario regionale, a fianco di Li Causi – che risvegliò l’interesse del partito verso mio padre in carcere. Bufalini promosse la costituzione di un comitato di solidarietà e un collegio di difesa che ottenne, in pochi mesi, l’assoluzione e la successiva scarcerazione del compagno La Torre.

DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE

Racconti di famiglia, il figlio visto per la prima volta in carcere. DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE su Il Domani il 28 aprile 2023

Dai loro ricordi affiorava, nettamente, l’amarezza per il divieto opposto a mio padre di visitare sua madre morente e per quello opposto a mia madre di consegnargli tra le braccia il figlio appena nato e vivere insieme quell’attimo di felicità. Lo fece al posto suo una guardia carceraria. Portò a mio padre, in attesa nel cortile, mio fratello Filippo avvolto in una specie di sacchetto

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

Di quell’anno e mezzo trascorso in carcere mia madre e mio padre condividevano il ricordo della tristezza che avvolgeva le visite dei familiari ai carcerati all’Ucciardone.

Venivamo condotti in uno stanzone dove, per vedere i detenuti e potergli parlare, dovevamo infilare la testa in uno dei buchi nella porta di ferro di fronte a noi – ecco che il tono di voce di mia madre tradiva un attimo di commozione – Sembrava un girone dell’inferno dantesco: dall’altra parte, un’altra porta di ferro con altrettanti buchi, da dove si affacciavano i detenuti, in mezzo un corridoio con un agente di custodia che faceva su e giù. L’unico modo per farsi sentire era urlare a squarciagola.

Papà rimase praticamente muto e io piansi così tanto, che non sarei voluta più tornare a vederlo in quel posto. Visto che ero incinta, richiesi un colloquio più umano. Le mie condizioni lo prevedevano. Non fu concesso, perché il processo aveva carattere politico.

E mio padre aggiungeva, con un sorriso agrodolce:

Avevo seguito con emozione e apprensione la maternità di mamma, anche se non ero accanto a lei – lasciando intendere che la lontananza non gli impediva di cogliere pienamente il senso di quanto stava accadendo – e quando, appena partorito, venne a dirmi che Filippo era nato, fui l’uomo più felice del mondo.

Proprio così – a questo punto, ho ascoltato la storia più volte, mia madre prendeva la parola – e la sua prima reazione fu quella di dirmi che era doppiamente felice, per la nascita del figlio e per l’approvazione della legge di riforma agraria all’Assemblea Regionale Siciliana.

Non c’era polemica in quelle parole, piuttosto un’affettuosa consapevolezza del carattere e della natura dell’uomo.

Dai loro ricordi affiorava, nettamente, l’amarezza per il divieto opposto a mio padre di visitare sua madre morente e per quello opposto a mia madre di consegnargli tra le braccia il figlio appena nato e vivere insieme quell’attimo di felicità.

Lo fece al posto suo una guardia carceraria. Portò a mio padre, in attesa nel cortile, mio fratello Filippo avvolto in una specie di sacchetto.

Fu una scena per me un po’ patetica – rammentava mio padre – ero confuso e, forse, questo è stato uno dei momenti della mia vita di maggiore commozione, la presa di coscienza che in quelle condizioni ero diventato padre. DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE

L’incontro con Giuseppina, l’amore, il barone e lo zio prete. DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE su Il Domani il 29 aprile 2023

Mio padre se l’era ritrovata davanti, nella sua stanza in federazione. Lei gli disse che voleva iscriversi al partito, lui le suggerì di leggere il testo di Lenin sull’emancipazione della donna e poi ne avrebbero riparlato. Non saprei dire se mio padre fosse consapevole che avrebbe discusso con quella donna per i successivi trentaquattro anni

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

Dei suoi giorni in carcere, mio padre ricordava il primo periodo in isolamento, poi in cella con altri detenuti. Ad un certo punto, fu accusato persino di aver aggirato la censura: una sua lettera inviata a Bufalini, da quest’ultimo fatta pubblicare su l’Unità, ne era la prova: ...In questi ultimi anni il popolo siciliano ha dato prova di sapersi battere generosamente per conquistarsi un regime di libertà, di progresso e di pace. Ha dato la vita di alcuni dei suoi figli migliori nella lotta contro la mafia che si opponeva allo sviluppo delle organizzazioni democratiche dei comuni della nostra isola: da Miraglia a Li Puma, a Rizzotto a Cangelosi...

Questa lettera gli costò il trasferimento in una cella con due detenuti condannati per reati gravi, uno dei quali per omicidio, con i quali trascorse una notte insonne, subendo sfottò e minacce. La punizione durò, fortunatamente, ventiquattro ore.

Mi immergevo nella lettura, studiavo e scrivevo tanto – raccontava – e presi l’abitudine a fare un po’ di ginnastica a corpo libero, tutte le mattine, appena sveglio. Abitudine che ha mantenuto dopo il carcere. Mio padre era salutista, a modo suo. Amava fare lunghe passeggiate, gli piaceva nuotare, anche se il suo stile libero non era raffinato, e si divertiva a giocare a pallone, senza gran controllo di palla e irruento nei contrasti. Quando se l’era sposato, mia madre era consapevole di chi si stesse mettendo in casa. Nel vero senso della parola, perché mio padre aveva lasciato la casa paterna dopo l’incendio della porta della stalla, un avvertimento mafioso. Mio padre era colpevole non solo di essere comunista, ma anche, e soprattutto, di aver voluto aprire una sezione del PCI nella sua borgata e poi un’altra ancora ed un’altra ancora, cosa che aveva notevolmente infastidito i mafiosi locali.

Mio nonno fu avvertito dei cattivi sentimenti che i mafiosi nutrivano nei confronti del figlio comunista e cercò di metterlo in guardia, senza nessun risultato, anzi. Gli disse che avrebbe fatto meglio a concentrarsi sullo studio. Mio padre, dopo il brutto episodio della stalla, consapevole anche dei rischi derivanti dalla sua presenza decise di trasferirsi a casa di compagni di partito. Confermò, così, la scelta di dedicarsi completamente alla politica, sacrificando la cosa che aveva amato di più e senza la quale non sarebbe giunto sino a dove era arrivato.

Più che una casa, per la verità, era la stanza, affittata da Pancrazio De Pasquale ed un altro compagno, col quale mio padre condivideva il letto. Quando chiese a mio nonno materno l’assenso a sposare mia madre e il nonno gli chiese dove pensassero di andare a vivere dopo sposati, la sua risposta fu: a casa sua, dottore Zacco.

Il nonno Francesco Zacco, barone e repubblicano, che aveva fatto la guerra come medico militare. Il nonno era, anche, amico dei comunisti che, nel dopoguerra, ospitava nella sua casa per le riunioni e non solo per le riunioni, anche a vivere con le loro famiglie. Come successe a Pompeo Colajanni, mitico comandante partigiano, che aveva partecipato alla liberazione di Torino, una volta tornato a Palermo ad assumere un ruolo dirigente nel PCI siciliano. Colajanni fu ospite a casa dei nonni per diversi mesi, con moglie e tre figli piccoli, uno di questi era Luigi, trent’anni dopo l’altro candidato alla segreteria del PCI siciliano. Fu mio nonno che parlò a Bufalini di mio padre in carcere e denunciò l’atteggiamento assunto dal partito, ottenendo le scuse e l’impegno che ne derivò immediatamente.

Comunista fu la scintilla, o meglio la federazione del partito, dove mia madre, la baronessina, educata da tate tedesche, era stata portata da suo padre, che aveva fatto esplodere l’amore per colui che, dopo pochi mesi, avrebbe sposato.

Per la scelta di sposare un comunista fu scomunicata e diseredata dallo zio prete.

Mio padre se l’era ritrovata davanti, nella sua stanza in federazione. Lei gli disse che voleva iscriversi al partito, lui le suggerì di leggere il testo di Lenin sull’emancipazione della donna e poi ne avrebbero riparlato. Non saprei dire se mio padre fosse consapevole che avrebbe discusso con quella donna per i successivi trentaquattro anni.

Erano diversi: lei bionda, lui bruno, lei cresciuta nell’agiatezza, lui figlio di contadini poveri. Li accomunava una straordinaria forza di carattere e una profonda generosità d’animo.

DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE

Il comunismo e il partito di massa, le rivendicazioni e le autocritiche. DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE su Il Domani il 30 aprile 2023

Restò, questa, la sua più grande preoccupazione. Ovvero che anche il più giusto dei movimenti, restando chiuso all’interno delle sue rivendicazioni, non riuscisse a cogliere la necessità di aprirsi e comprendere quelle di altri che potevano contribuire a raggiungere obiettivi di interesse più generale

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

Una trentina d’anni dopo, ragionando sul movimento contadino in Sicilia, mio padre scrive:

I risultati sono calcolabili dal punto di vista sociale e politico. Credo che si possano fare molte considerazioni, se guardiamo all’insieme del movimento e ai risultati che si sono raggiunti.

Il primo risultato è che, dopo la Liberazione, negli anni dal ’44 in poi, in Sicilia e in tutto il Mezzogiorno, per la prima volta furono costruite organizzazioni di classe nelle campagne con una struttura unitaria e collegate con il movimento nazionale; e questa è la grande portata della costruzione della Confederterra nel sud... Possiamo dire che il PCI in Sicilia è figlio, in larga misura, di quel grande movimento; in decine di comuni della Sicilia noi non esistevamo prima.

Siamo diventati partito di massa nel fuoco di quel combattimento: decine e decine di quadri, la maggior parte ragazzi, giovani studenti e anche qualche intellettuale più maturo, professionisti, operai, ragazze, che venivano mandati avanti a dirigere; io ricordo il vice segretario regionale del PCI, nel periodo ’47 e ’48, il compagno Mazzetti, un militante bolognese del periodo clandestino, che era stato mandato in Sicilia per aiutare Li Causi nella formazione di quadri. Il suo ufficio sembrava un ufficio matricole, perché convocava ragazzotti di diciotto, venti anni e gli dava il gallone di ufficiale e li mandava a fare i dirigenti di un’organizzazione di partito, sindacale o cooperativa, perché si trattava di costruire ex novo tutto questo e lui puntava moltissimo su questi ragazzi.

Nel suo ragionamento non mancano le note di autocritica, quando sottolinea:

Cominciamo con il valutare lo schieramento delle forze sociali che noi mettevamo in campo allora. La nostra strategia si rivolgeva al bracciante e al contadino povero, ai senza terra, e lasciava fuori la massa importante dei coltivatori diretti, quelli che già la terra la possedevano, i piccoli proprietari, i grossi fittavoli, cioè lo strato più ricco di capacità imprenditoriali dell’agricoltura siciliana e meridionale. C’era qui, una manifestazione di estremismo, di settarismo, presente in quel periodo nel nostro movimento.

Restò, questa, la sua più grande preoccupazione. Ovvero che anche il più giusto dei movimenti, restando chiuso all’interno delle sue rivendicazioni, non riuscisse a cogliere la necessità di aprirsi e comprendere quelle di altri che potevano contribuire a raggiungere obiettivi di interesse più generale. Di questo atteggiamento, di cui anch’egli era stato vittima agli inizi, intuiva i rischi derivanti dalle scelte minoritarie e i pericoli dell’irrilevanza dell’azione politica.

Nel ’51, uscito dal carcere e riabbracciata la famiglia, papà riprese da dove era stato interrotto. Dopo poco chiese al partito di potersi impegnare nel sindacato, convinto che bisognasse liberare il movimento sindacale da vizi di corporativismo e burocratismo.

DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE

La scuola a Frattocchie, il consiglio comunale, i signori di Palermo. DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE su Il Domani l'01 maggio 2023

In quegli anni, la formazione politica di Pio La Torre si svolse sui banchi di scuola del partito e del sindacato. Frequentò i corsi del Pci a Frattocchie, vicino a Roma, mentre mia madre frequentava la scuola per le donne comuniste sul lago di Como. L’impegno nel sindacato divenne prevalente quando assunse la responsabilità di segretario della Camera del Lavoro di Palermo e si concluse, all’inizio degli anni Sessanta, con quella di segretario regionale della Cgil

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

Nel ’52, venne eletto segretario della Camera confederale del Lavoro di Palermo e promosse e organizzò una massiccia raccolta di firme di adesione alla campagna universale a favore dell’appello di Stoccolma, lanciata dal movimento internazionale per la pace, che chiedeva la messa al bando delle armi atomiche. Il suo impegno pacifista – che lo vide tra i protagonisti del movimento europeo contro l’installazione delle testate nucleari del Patto di Varsavia e della Nato, in particolare a Comiso, in provincia di Ragusa, una volta tornato in Sicilia nel 1981 – aveva radici lontane ed era coerente con la sua visione della politica.

Dopo pochi mesi, fu candidato ed eletto al Consiglio comunale di Palermo, dove resterà fino al 1962. Furono gli anni in cui condusse le sue battaglie contro l’intreccio di potere politico-mafioso che aveva messo le mani sulla città. Erano gli anni della speculazione edilizia, del sacco di Palermo, che hanno segnato malamente il volto della città.

I suoi interventi al Consiglio comunale aiutano a capire quello che succedeva e quello che sarebbe successo; chi favorì e chi si oppose a quel grumo di interessi politici e criminali, che faceva esplodere le ville liberty su viale della Libertà per costruire, al loro posto, moderne palazzine; chi si accaparrava gli appalti pubblici, razziava le imprese private, esercitava un controllo pervasivo del territorio e riuniva i suoi vertici negli alberghi di lusso della città.

In quegli anni, la formazione politica di Pio La Torre si svolse sui banchi di scuola del partito e del sindacato. Frequentò i corsi del Pci a Frattocchie, vicino a Roma, mentre mia madre frequentava la scuola per le donne comuniste sul lago di Como. L’impegno nel sindacato divenne prevalente quando assunse la responsabilità di segretario della Camera del Lavoro di Palermo e si concluse, all’inizio degli anni Sessanta, con quella di segretario regionale della Cgil. 

Animatore d’iniziative popolari e di massa, efficace oratore e dirigente dalle riconosciute doti organizzative, cui si affiancava quella di saper come valorizzare i quadri giovanili, promotore del radicamento del partito in città – attraverso un costante dialogo, fatto anche di vendita de l’Unità porta a porta –, mio padre viveva la politica non solo con grande passione, ma con forte identificazione. Il partito, ripeteva, era la sua seconda famiglia, che lo aveva accolto, quando aveva dovuto lasciare la casa paterna.

Aveva indirizzato la sua voglia di impegnarsi nelle lotte per il riscatto della sua terra dallo sfruttamento e dall’oppressione. Aveva intuito e valorizzato le sue doti, dando a Pio gli strumenti che gli avrebbero consentito, in breve tempo, di diventare un dirigente politico. Certo, come accade in tutte le famiglie degne di questo nome, ci sono stati i momenti buoni e quelli meno buoni. Una volta, ridendo, mi raccontò di un dialogo ironico e scherzoso, tra lui e un suo collega deputato repubblicano, che rammento pressappoco così:

Vedi, invidio voi repubblicani, siete fortunati di appartenere a un piccolo partito, con pochi iscritti, perché in un grande partito di massa, ci puoi trovare una gran massa di stronzi.

Se sia stato un padre poco presente, che sacrificava la famiglia e i sentimenti alla politica, ne abbiamo parlato spessoio e mio fratello e abbiamo concluso che no. Non ci siamo mai sentiti trascurati, anzi lo abbiamo sentito sempre vicino. Non ricordo di circostanze nelle quali avessi notato la sua assenza. Dai banchi del Consiglio comunale denunciava il malgoverno e le malefatte della giunta che amministrava Palermo, è composta da democristiani, monarchici e liberali, con l’appoggio esterno del Movimento sociale, e metteva in luce il ruolo esercitato dal Presidente della Regione Franco Restivo, che rimase al governo della Sicilia, ininterrottamente, per sette anni, dal ’48 al ’55, dandovi un’impronta conservatrice e reazionaria.

Mio padre lo descrive così: Restivo era un “grande corruttore”. Egli amava apparire un politico giolittiano. Io penso che egli, personalmente, non fosse un profittatore, anzi, da abile politico sapeva che questo gli doveva essere negato. Era un uomo politico accorto e avveduto ma al servizio di un disegno pesantemente conservatore che si esaurì con i governi da lui presieduti.

Egli risorge molti anni dopo in una funzione diversa, a livello nazionale, come ministro dell’Interno. Ma anche qui permangono ombre spaventose sulla sua figura: da come si atteggiò per Piazza Fontana sino ai fatti di Reggio Calabria. Credo che la sua morte abbia impedito che si facesse piena luce.

DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE

La Regione, le battaglie per l’autonomia, il potere clientelare. DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE su Il Domani il 02 maggio 2023

Nel 1962 concluse la sua carriera nel sindacato, dove aveva ricoperto la carica di segretario regionale della CGIL, per ritornare al lavoro di partito e assumere la responsabilità di segretario del PCI siciliano, carica che mantenne sino al 1967. Candidato all’Assemblea Regionale Siciliana alle elezioni del 1963, venne eletto e restò in carica per due legislature

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

All’inizio degli anni Cinquanta, il PCI palermitano organizzò i “congressi popolari”, che dovevano definire un programma di rinascita e lo schieramento di classi sociali capace di portarlo avanti. Il Corriere della Sera gli dedicò un articolo di fondo dal titolo Comunisti a Palermo. Dai congressi venne la proposta di legge per il risanamento del centro storico di Palermo.

Alla metà degli anni Cinquanta, Pio La Torre, da segretario della Camera del Lavoro di Palermo, assistette al grande esodo delle masse povere siciliane che emigravano al nord del Paese o, ancor più lontano, all’estero, e allo svuotamento di intere zone della Sicilia. Si batté contro alcune scelte, in particolare gli investimenti per lo sviluppo del settore petrolchimico. Scelte politiche che considerava sbagliate, calate dall’alto e rispondenti a interessi e logiche lontane da quelle che avrebbero favorito uno sviluppo sostenibile; scelte alle quali opponeva un programma di riconversione industriale, che metteva al centro la valorizzazione delle risorse agricole, industriali, culturali e turistiche dell’isola, il contrario di quanto accadeva, con spreco di denaro e l’impossibilità di realizzare piena occupazione. Tra le donne siciliane costrette a emigrare per costruirsi un futuro migliore c’era sua sorella Felicia.

Così riflette mio padre: Da un lato l’esodo in maniera biblica, spaventosa, dall’altro la necessità di dare contropartite a masse a cui non si dava un’occupazione seria, un lavoro serio, una prospettiva seria, e quindi lo Stato assistenziale, come si dice.

Furono anni di grandi mutamenti per il nostro Paese, che cambiava aspetto, si toglieva gli abiti lisi del contadino, per indossare le tute sporche dell’operaio. Anni difficili, che anche il PCI non seppe interpretare a pieno.

Riflettendo sugli eventi di allora, mio padre mette a fuoco così i problemi del suo partito:

Non c’è dubbio che abbiamo mostrato limiti, intanto sul piano nazionale. Siamo arrivati nel ’55 alla sconfitta alla Fiat, e solo in quel momento ci siamo resi conto della gravità del nostro arretramento nelle grandi fabbriche che erano state protagoniste della guerra di Liberazione. Noi ci ponemmo allora il problema di analizzare la realtà del capitalismo italiano e prendere atto di come fosse in pieno svolgimento il “miracolo”, mentre noi avevamo continuato a parlare di stagnazione. Insomma facevamo un’analisi un po’ manichea e stereotipata che non era più valida nel ’55 perché eravamo entrati in una fase nuova.

Nel 1962 concluse la sua carriera nel sindacato, dove aveva ricoperto la carica di segretario regionale della CGIL, per ritornare al lavoro di partito e assumere la responsabilità di segretario del PCI siciliano, carica che mantenne sino al 1967. Candidato all’Assemblea Regionale Siciliana alle elezioni del 1963, venne eletto e restò in carica per due legislature. Lì portò la sua battaglia per il rilancio e il rafforzamento dell’autonomia siciliana. Un’autonomia tradita per mancanza di visione e per una gestione, a suo dire, sciagurata da parte della classe dirigente democristiana, innanzitutto, e dei suoi alleati al governo della regione. Una visione dello sviluppo subalterna al modello nazionale, che sacrificava le straordinarie risorse agricole e il significativo patrimonio culturale sull’altare di un’industrializzazione poco sostenibile dal punto di vista economico, sociale e ambientale. Una gestione inefficiente e basata su interessi clientelari, mirata esclusivamente a procacciare consensi elettorali. DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE

Ricordi di infanzia e un padre sempre intento a “leggere e a scrivere”. DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE su Il Domani il 03 maggio 2023

Mi capitò che la maestra mi chiedesse che lavoro facesse mio padre. Dopo qualche esitazione, risposi che leggeva e scriveva. Almeno, era quello che gli vedevo fare quando stava a casa ed era quello che mia madre ripeteva, quando non voleva che fosse disturbato: non fate confusione... sta leggendo… sta scrivendo. La maestra ne dedusse che papà facesse il giornalista

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

Era una serata di primavera del ’60 e, davanti al cancello di casa, mamma e papà stavano salutando zio Giuseppe, fratello maggiore di mamma, e sua moglie, zia Melina, che erano stati a cena da noi, con Franco e Roberto, i nostri cugini. Franco aveva un anno in meno di mio fratello Filippo e Roberto un anno in più di me, con la particolarità che quest’ultimo ed io eravamo nati, entrambi, il 25 giugno. Una coincidenza che, quando si è ragazzi, stimola a costruire fantasie e cercare affinità. In ogni caso, non so se sia dipeso da questa coincidenza ma Roberto ed io, anche se siamo stati lontani a lungo e pur vivendo in città diverse, conserviamo affetto e confidenza, come se non avessimo mai smesso di frequentarci.

Mio fratello e Franco si sfidarono ad una gara di corsa: un circuito lungo duecento metri di marciapiede, che si stendeva intorno a casa dei nonni e alle altre due villette, che costituivano un isolato unico. La gara sarebbe stata a coppie: io avrei corso con Franco e Roberto con mio fratello. Al termine del primo giro, non mi ricordo chi fosse in testa, decisero di farne un secondo, che non completai. Infatti, a metà percorso, inciampai e feci una sorta di spaccata, procurandomi una brutta lesione al femore della gamba sinistra. Per fortuna che zio Giuseppe aveva studiato Medicina e sapeva come fare una fasciatura a doccia, che mi bloccò la gamba, contenendo la lesione ed evitando la frattura che, a quell’epoca, avrebbe richiesto l’inserimento di un chiodo e mi avrebbe certamente reso zoppo. Il professor Buzzanca, ortopedico al Traumatologico, m’ingessò dal tallone della gamba sinistra fino al torace, e così dovetti restare per novanta lunghissimi giorni.

A tre anni, obbligato a restare, praticamente immobile, a letto per tre mesi. Immaginate quanta energia compressa dalla mancanza di sfogo. La pelle prudeva, privata del necessario ossigeno, soffocata dall’ingessatura; unica consolazione uno spray al mentolo, spruzzato per alleviare la sofferenza. Poi seguì un’ingessatura “semplice” alla gamba sinistra, per un altro mese, e quindi, a quattro anni, dovetti imparare nuovamente a camminare. Usavo un girello per sorreggermi: si trattava di un aggeggio di legno, alto mezzo metro e di forma quadrata, aperto su un lato, che grazie alle rotelle mi permetteva di deambulare in equilibrio.

Ricordo che una mattina, quando ormai stavo riacquistando sicurezza e, per mettermi alla prova, lasciavo il girello e saltellavo sulla gamba destra nel giardino di casa, urlai a Nicola Cipolla, che era venuto a trovare mio padre e si era affacciato in giardino: “Guarda come sono bravo!” E lui rispose: “Sembri uscito dalla novella di Chichibio”.

Io, che non avevo ancora letto il Decameron di Boccaccio, rimasi interdetto, e Nicola ne approfittò per raccontarmi la storia di Chichibio e la gru, che riposava su una gamba sola. Nel frattempo, si erano aggiunte la mamma, nonna Carmelina e zia Agata, e quel giorno fu coniato il mio nomignolo Chichì, usato ancora oggi con affetto da alcuni dei miei parenti e da qualche ex compagno di classe. Mio padre preferiva Tegher, il diminutivo di Tegherzio, che era compagno di Tiburzio, ed io pure.

Nicola Cipolla era segretario della Federterra e, insieme a mio padre, aveva organizzato le lotte contadine del 1949-1950 nel corleonese. Parlamentare prima dell’Assemblea Regionale Siciliana e poi del Senato e del Parlamento europeo. Sostenuto da papà, nel 1981 fondò il Centro studi di Politica Economica in Sicilia, di cui è attualmente Presidente.

Così scorreva la mia infanzia, ignaro di quale fosse il mestiere di mio padre. Infatti, all’inizio della primina, destino che tocca a quelli, come me, nati in giugno e che i genitori ritengono in grado di cominciare le scuole elementari un anno prima, mi capitò che la maestra mi chiedesse che lavoro facesse mio padre. Dopo qualche esitazione, risposi che leggeva e scriveva. Almeno, era quello che gli vedevo fare quando stava a casa ed era quello che mia madre ripeteva, quando non voleva che fosse disturbato: non fate confusione... sta leggendo… sta scrivendo. La maestra ne dedusse che papà facesse il giornalista.

Il disordine che regnava sulla sua scrivania faceva impazzire mamma e la capivo. Anche per me sarebbe stato pressoché impossibile ritrovarmi in mezzo a quella confusione.

Pile di fogli, di cartelle di documenti, di giornali, tra i quali, invece, lui si sentiva a proprio agio e ritrovava sempre quello

che cercava. Mio padre era un buon giocatore di briscola, tresette, scopa e scopone. Capitava che, prima di sederci a pranzo, facessimo una partitina, in piedi, generalmente a briscola. I primi tempi vinceva sempre lui. Poi ho imparato. Era divertente quando perdeva, perché non accettava la sconfitta e mi proponeva di giocare un’altra partita. Oltre a quello per il gioco delle carte, ho condiviso il suo amore della natura, dell’attaccamento alla terra, la toccava e sceglieva i frutti per assaporarli con gusto, spesso offrendoli agli altri, e strofinando erbe e foglie, per poi portarsele con le mani sotto il naso e godere degli aromi di cui erano intrise.

Durante le nostre passeggiate, giunti in uno spazio aperto, capitava che lanciasse la sfida di una breve corsa a mio fratello Filippo e presto mi aggiunsi anch’io. Uno scatto fino ad un immaginario traguardo, dove si fermava a respirare l’aria fina che apprezzava a pieni polmoni. Non aveva praticato sport in gioventù, almeno come intendiamo oggi. Gli piaceva giocare a calcio o a pallavolo, per stare insieme agli altri, non certo per dare dimostrazione di tecnica. Aveva imparato a tenersi a galla tuffandosi, insieme a fratelli e amici, nella “gebbia”, la grande cisterna di cemento che serviva a irrigare i giardini di agrumi di Altarello, e nuotava, senza stile né timore, come esercizio fisico per tenersi in forma, come la ginnastica nel periodo del carcere.

DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE

L’ “incontro” con la politica, le feste dell’Unità, la guerra in Vietnam. DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE su Il Domani il 04 maggio 2023

Negli anni in cui frequentavo la scuola media, parliamo del 1966-1969, senza che me lo chiedesse espressamente, forse per emulazione e un po’ per gioco, ho incontrato la politica. Da ragazzino quale ero e senza un calcolo preciso, condividevo questa scoperta con un gruppo di coetanei. Mio padre non poteva che apprezzare ma non forzava, non sollecitava, non chiedeva conto, al massimo suggeriva spunti e offriva occasioni, questo sì, ma lasciava che fossi io a prendere l’iniziativa

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

Nel nuoto, come in altre circostanze sportive, sia mio fratello che io ci siamo misurati con lui sulla breve distanza, con risultati alterni, senza sapere se fossimo realmente più veloci o se ci facesse vincere. Sin da piccolo era stato abituato ad alzarsi presto al mattino per aiutare il padre nei lavori in giardino (così chiamavano quel piccolo terreno di proprietà davanti alla casa, destinato ad agrumeto, con una piccola stalla), abitudine che avrebbe mantenuto da adulto, insieme a quella della ginnastica, appena sveglio, che non abbandonò mai. Essere in forma era la condizione per affrontare gli impegni. Nulla di estetico, anche se non trascurava il suo aspetto e gradiva, a questo riguardo, i suggerimenti di mamma e di noi figli.

Né mio fratello né io, da buoni figli di comunisti, siamo stati battezzati alla nascita, di conseguenza non abbiamo ricevuto un’educazione religiosa. Filippo fu battezzato a dieci anni dal suo maestro elementare. Alla sua stessa età, frequentavo la parrocchia dietro casa, ero diventato chierichetto e servivo messa, finché, confessata la colpa originaria a Padre Mario, non fui, da lui stesso, allontanato. In verità, me lo mandò a dire, tramite un amichetto, col quale frequentavo la sacrestia di Regina Pacis, la parrocchia del quartiere Matteotti: Padre Mario ha detto di non farti più vedere. 

Non ho mai ricevuto alcun divieto a questo riguardo e nessun plauso quando ho smesso di frequentare la chiesa. I nostri genitori non avevano ritenuto di doverci educare secondo precetti religiosi. L’insegnamento era che la scelta, in questo caso, spettasse a noi e non potesse essere trasmessa, ispirandosi, quindi, ai principi di laicità e responsabilità. Negli anni, entrambi gli episodi sono stati oggetto di commenti. Le chiacchiere familiari, tra il serio e il faceto, ci davano lo spunto per ragionare insieme sul libero arbitrio, sulla presunzione di certi insegnanti e la miopia di alcuni sacerdoti.

Sin dalla mia infanzia mi sono sentito autonomo. Diciamo che godevo di una certa libertà di movimento, nei limiti imposti dall’età e, dentro quei confini, mi sentivo consapevole delle scelte e delle decisioni che assumevo. Crescevo respirando questi principi che si sono dimostrati molto utili nell’affrontare le cose della vita, anche nei suoi passaggi impegnativi.

La domenica mattina accompagnavo mio padre a comprare i giornali all’edicola vicino casa. Era un piccolo rito, si scambiavano due chiacchiere con il giornalaio e si tornava a casa. Anche in quella circostanza, mio padre non perdeva l’occasione per informarsi e ascoltare. Lui, con la sua mazzetta di giornali, e io con Topolino, il mio fumetto preferito, ci mettevamo a leggere insieme. In genere, preferivo conservare il fumetto per dopo e leggere prima i suoi giornali. Questa consuetudine ha stimolato la voglia di conoscere quanto accadeva attorno a me, ha nutrito il gusto della scoperta, mi ha fatto capire l’importanza di confrontarmi con opinioni diverse dalle mie e ha stimolato la curiosità per le cose del mondo. Passioni che sono oggi parte fondante del mio carattere e hanno contribuito a molte scelte rilevanti. Certe volte, sapendo che mi faceva sentir grande, mi proponeva di andare da solo dal giornalaio, e prima che fosse lui a chiedermelo, di mia iniziativa, gli ripetevo la lista dei quotidiani da acquistare, una decina, per dimostrare di essere all’altezza del compito ed evitare di dimenticarne qualcuno, e non mi sembra che sia mai successo. Un’abitudine mantenuta negli anni trascorsi a Palermo. Mi piaceva molto sfogliare l’Espresso – mi attraeva per il formato fuori misura e per le grandi foto, caratteristiche che lo rendevano differente dagli altri giornali – e fare domande su quello che non mi era chiaro.

Iniziavo, con naturalezza, ad aprire gli occhi e mi aspettavo, altrettanto naturalmente, che mio padre mi aiutasse a orientarmi, e lui era lì, vicino a me, a fornirmi gli elementi per venirne a capo e a stuzzicare nuove curiosità.

CONTRO LA GUERRA

Negli anni in cui frequentavo la scuola media, parliamo del 1966-1969, senza che me lo chiedesse espressamente, forse per emulazione e un po’ per gioco, ho incontrato la politica. Da ragazzino quale ero e senza un calcolo preciso, condividevo questa scoperta con un gruppo di coetanei. Mio padre non poteva che apprezzare ma non forzava, non sollecitava, non chiedeva conto, al massimo suggeriva spunti e offriva occasioni, questo sì, ma lasciava che fossi io a prendere l’iniziativa.

Come quando, dopo aver fondato con gli amici il Club dell’Amicizia, gli chiedemmo se ci fosse uno spazio in federazione, dove poterci ritrovare, e lui mise a disposizione una stanza in soffitta, rendendoci felici e avendo anche la delicatezza di non domandarci perché avessimo scelto un nome così banale per il nostro club. Raccoglievamo piccole donazioni, in cambio di omaggi che offrivamo ai visitatori della Festa dell’Unità, con cui finanziavamo il nostro giornalino.

Accanto a questi primi vagiti di una coscienza adolescenziale, conviveva il ragazzino cui piacevano i giochi della sua età. Avevo visto sui banchi del reparto giocattoli dell’Upim, il primo grande magazzino aperto a Palermo, un elmetto militare diverso dal solito. Era di quelli mimetici e mi avevano colpito i colori e le foglie di plastica, di diverse sfumature di verde, che lo ricoprivano. Dopo qualche giorno, raccolte le duecentocinquanta lire necessarie, lo comprai e, tornato a casa a mostrare felice e soddisfatto il mio acquisto, ebbi il mio primo confronto dialettico. 

Mio padre mi accolse con una domanda:

– Ti piace la guerra?

– Quella vera no, mi piace giocare alla guerra coi miei amici.

– E dimmi una cosa: perché hai scelto questo elmetto?

– Mi è piaciuto perché era diverso dagli altri e non costava

tanto, come fucili, pistole e cose simili.

– Ma tu lo sai chi indossa questo elmetto?

– I soldati – risposi sicuro.

– Certo, i soldati, forse non mi sono spiegato bene, intendevo: quale esercito?

– Non lo so, dimmelo tu.

– L’esercito degli Stati Uniti. E sai in quale guerra viene

indossato?

– Veramente no, a scuola non l’abbiamo ancora studiato.

– Nella guerra del Vietnam contro i Viet Cong, che lottano per la riunificazione e l’indipendenza del loro Paese. Infatti è ricoperto di foglie, perché così i soldati americani si possono mimetizzare nella giungla, dove combattono.

Non un caso, quindi, se la prima manifestazione alla quale io abbia partecipato fosse per la pace e contro la guerra in Vietnam. Avevo dodici anni ed ero andato con mia madre a protestare davanti al Consolato USA di Palermo.

DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE

Il viaggio in Polonia, Mosca e l’“attenzione” dei servizi segreti. DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE su Il Domani il 05 maggio 2023

L’opinione dei servizi segreti italiani, che lo avevano ritenuto degno d’attenzione – dagli atti del processo sul suo omicidio è emerso che rimase sotto osservazione, per decenni, sino a pochi giorni prima del suo assassinio –, era che mio padre fosse un uomo di Mosca

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

L’episodio a cui ho ora accennato aveva provocato in me una prima, primordiale, presa di coscienza sull’imperialismo, in particolare quello americano; così la sinistra italiana e non solo definiva la politica estera degli Stati Uniti. Di quell’epoca ricordo anche un mio articoletto scritto sul giornalino del Club dell’Amicizia, che si intitolava “L’invasione dei giocattoli americani nei nostri supermercati”. Lo feci leggere a mio padre, sicuro del suo assenso e a dimostrazione che avevo compreso il senso delle sue parole. Non andò proprio come mi aspettavo. Prima mi fece notare che avevo fatto qualche errore di sintassi e poi passò all’analisi critica del testo.

Non si deve generalizzare. Il fatto che non te ne piaccia uno, non vuol dire che tutti i giocattoli americani siano da rifiutare. Ce ne sono di belli, divertenti e anche educativi ed è per questo che i ragazzi come te li scelgono, senza porsi il problema di chi li abbia fabbricati. I giocattoli aiutano a crescere divertendo e stimolando, a questo servono, e un genitore si deve preoccupare solo di valutare se siano appropriati o se siano pericolosi. Per me l’elmetto non era appropriato e ti ho spiegato perché. Il fatto che tu sia d’accordo, non è sufficiente per prendersela con tutti i giocattoli americani. Se posso darti un consiglio, torna all’Upim, osserva di nuovo i giocattoli e verifica se puoi confermare quello che hai scritto.

Seguii il suo suggerimento e scrissi un altro articoletto, nel quale paragonavo i giocattoli americani con quelli fatti in Italia.

Il partito, da buon padre di famiglia, pensava anche alle vacanze dei suoi militanti, quadri e dirigenti. Durante l’estate mio padre veniva invitato a far parte di delegazioni nazionali che visitavano i Paesi europei del cosiddetto blocco sovietico.

Erano viaggi di due-tre settimane, che mescolavano il riposo agli incontri con le delegazioni degli altri partiti comunisti e con i dirigenti del Paese ospitante. In genere andava con mia madre. Nel 1964 andò con mio fratello in Cecoslovacchia, che oggi non esiste più, essendosi divisa, pacificamente, in due Stati distinti: Repubblica Ceca e Slovacchia.

Il 22 agosto dovettero rientrare anticipatamente per la morte di Palmiro Togliatti, avvenuta il giorno prima, per partecipare ai suoi funerali. Nonostante questo triste epilogo, un po’ avevo invidiato Filippo, ascoltando i suoi racconti di viaggio.

IL VIAGGIO IN POLONIA

Nel 1968 papà e mamma mi portarono con loro in Polonia. Conservo pochi ricordi nitidi di quel viaggio ma sufficienti a far riemergere le emozioni. Il programma comprendeva le visite di Varsavia e Cracovia e un soggiorno di un paio di settimane a Zakopane, località turistica sulle Alpi Tatra. Ricordo gli stabilimenti di Nova Huta Lenina e una discesa sul fiume Vistola dal sapore avventuroso. Era prevista la visita del campo di sterminio nazista di Auschwitz, dove andammo in pullman una mattina. Attraversato il cancello d’ingresso, reso celebre dalla tragica scritta che lo sovrasta “Arbeit macht frei/Il lavoro rende liberi”, una delle immagini più note di uno dei periodi più oscuri della storia dell’uomo, risultato della sua follia omicida, sostammo in una grande sala del blocco principale.

Lungo le pareti c’erano alcune bacheche di vetro dove, ricordo, erano esposti alcuni oggetti che testimoniavano cosa quella follia fosse stata in grado non solo di immaginare ma di realizzare. I responsabili del campo/museo parlarono brevemente con mio padre e mia madre, e loro, raggiungendomi mentre stavo fissando una di quelle bacheche, mi dissero che sarebbe stato meglio per me se fossi restato all’ingresso ad aspettarli. Anche se hai dodici anni – mi dissero con aria effettivamente dispiaciuta – ci è stato raccomandato di non farti fare la visita del campo, non sei ancora abbastanza grande per sopportarne l’emozione.

Non volendo lasciarmi solo troppo a lungo, la loro visita durò meno di quella degli altri e, quando li rividi, mi dissero che, in effetti, era stato meglio che fossi rimasto lì. Anche se nell’attesa non me ne ero fatto una ragione, capii, dal loro tono, che non cercavano di consolarmi. Infatti, mi raccontarono qualcosa di quello che avevano visto e del loro turbamento. Io reagii incredulo e disgustato nell’ascoltare quei pochi frammenti, ammettendo che la scelta fatta era quella giusta. Tornati a Zakopane, dopo qualche giorno l’Unione Sovietica invase la Cecoslovacchia e, improvvisamente, le delegazioni straniere ebbero grandi difficoltà a comunicare con l’esterno e non arrivarono più i giornali esteri, disponibili sino al giorno prima.

Non ci si accontentava degli scarni comunicati ufficiali e delle poche notizie fornite dai funzionari comunisti polacchi che ci accompagnavano. Mio padre tentava, in continuazione, senza successo, di parlare con i dirigenti del suo partito a Roma. Voleva saperne di più e capire come dovesse comportarsi con le altre delegazioni e gli alti dirigenti che si trovavano a Zakopane. Questa condizione di isolamento lo metteva a disagio.

Ricordo che era molto nervoso e che trascorreva la maggior parte del suo tempo a discutere e consultarsi con gli altri capi delegazione. Non lo avevo mai sentito parlare in francese o tedesco, come accadde in quell’occasione. Aveva chiesto di rientrare in Italia ma incontrava difficoltà spiegabili, in quel momento, solo dalla volontà dei nostri ospiti di rinviare il più possibile il suo ritorno. Immagino fossero in corso colloqui tra il PCUS e gli altri partiti comunisti e, fintanto che non era chiaro se fosse stata presa una posizione comune a sostegno dell’invasione, tutto restava immobile. Ovviamente, mio padre ignorava che il PCI, dopo aver seguito con interesse la Primavera di Praga e le scelte del segretario del partito cecoslovacco Dubček, avesse, immediatamente, assunto una posizione di condanna dell’invasione sovietica, e che questa scelta avesse contribuito all’isolamento cui lui (e la sua famiglia) era stato costretto in quei giorni. Finalmente, dopo un paio di giorni, mio padre riprese a comunicare liberamente con l’Italia e apprese della decisione del partito. Subito dopo i compagni polacchi gli dissero che saremmo potuti tornare a casa. Quel viaggio non lasciò in lui un bel ricordo.

L’opinione dei servizi segreti italiani, che lo avevano ritenuto degno d’attenzione – dagli atti del processo sul suo omicidio è emerso che rimase sotto osservazione, per decenni, sino a pochi giorni prima del suo assassinio –, era che mio padre fosse un uomo di Mosca.

Avevo assistito ad alcune delle sue conversazioni con Davide Fais, una vecchia conoscenza di famiglia, figlio di mamma Fais, storica amica dei nonni Zacco, motivo per cui le nostre famiglie erano molto legate. Fais era emigrato, per scelta politica, in Unione Sovietica ed era docente all’Università di Mosca, dove viveva e aveva messo su famiglia. Quando s’incontravano a Palermo, dove tornava a far visita alla madre ed al resto dei numerosi parenti, papà, curioso di sapere, lo riempiva di domande sull’URSS, il PCUS, Mosca, l’Università e la vita quotidiana nel Paese del socialismo reale, e Fais non trascurava nei suoi racconti i riferimenti ai limiti, alle manchevolezze, alle contraddizioni del sistema e della società sovietica. Mio padre ascoltava, avanzava dubbi, chiedeva chiarimenti e offriva punti di vista che portavano a conclusioni diverse. Fais ribadiva, argomentando ulteriormente, la correttezza delle sue affermazioni. Gran belle discussioni, che li vedevano entrambi appassionarsi, condividere analisi e rispettare le differenze d’opinione.

Tuttavia, più il tempo passava, più Fais andava maturando il proposito di tornare in Italia, perché non riusciva più a ritrovare le ragioni che lo avevano portato in Unione Sovietica. Finché non venne il giorno, erano gli anni Settanta, in cui prese la decisione di rientrare a Palermo, condivisa e sostenuta da mio padre. Si era spenta la spinta propulsiva che lo aveva portato nel Paese del socialismo reale.

DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE

Da Palermo a Roma, dalle terre dei contadini alla Commissione Antimafia. DAL LIBRO "SULE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE su Il Domani il 06 maggio 2023

Mia madre aveva preferito che terminassimo l’anno scolastico, prima di fare il trasloco. Già da alcuni mesi, mio padre lavorava alle Botteghe Oscure, la direzione nazionale del Pci, che prendeva il nome dall’omonima via al centro di Roma. Il toponimo aveva prevalso sulla funzione

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

L’estate del ’69, superati gli esami, io di licenza media, mio fratello di quella liceale, venne il momento di trasferirci a Roma, dove sarei diventato adulto. Mia madre aveva preferito che terminassimo l’anno scolastico, prima di fare il trasloco.

Già da alcuni mesi, mio padre lavorava alle Botteghe Oscure, la direzione nazionale del Pci, che prendeva il nome dall’omonima via al centro di Roma. Il toponimo aveva prevalso sulla funzione. Infatti, nel linguaggio comune, dai funzionari che vi lavoravano agli iscritti, dai giornalisti agli altri partiti, sino alla gente comune, Botteghe Oscure era sinonimo di Pci. Quando, negli anni Novanta, la sede fu lasciata e venduta, a seguito della cura dimagrante alla quale il Pci e, poi, il Pds si erano sottoposti per rimettere in sesto le proprie finanze, anche il vocabolario della politica ne subì le conseguenze.

Quell’anno, mio padre non aveva chiesto di partecipare al programma di scambio tra delegazioni. Mia madre aveva insistito perché, dopo essere stati insieme in Urss, Yugoslavia, Romania, Cecoslovacchia, Ungheria e Polonia, avrebbe voluto fare una vacanza al mare in Italia. Così trascorsi con loro due settimane a Panarea. Mio fratello c’era stato con gli amici e ce l’aveva raccomandata. Stavamo in due camere in famiglia e l’ultimo giorno, giunto il momento di pagare, a mio padre mancavano 10.000 lire per saldare il conto, se non ricordo male, di 45.000 lire. Per fortuna l’affittacamere aveva fiducia in lui e gli fece credito. Prima di rientrare a Roma, ci fermammo a Napoli. Papà voleva approfittarne per fermarsi ad incontrare Salvatore Cacciapuoti, storico dirigente meridionale del partito.

Due anni prima, l’11 giugno del 1967, si erano tenute le elezioni regionali e il Pci aveva perso il 2,8 per cento. A seguito di quella sconfitta, ritenuta sonora e non so se oggi sarebbe considerata tale, mio padre lasciò la carica di segretario regionale e, come si diceva un tempo, fu chiamato dalla direzione del partito a incarichi nazionali: vice di Gerardo Chiaromonte nella Commissione Meridionale, di cui divenne responsabile, dopo esserlo stato di quella agraria. Mamma, dal canto suo, dava il suo volontario contributo alla Sezione femminile del partito.

Nel 1972 venne eletto al Parlamento dove resterà per tre legislature, facendo parte delle Commissioni Bilancio e programmazione, Agricoltura e Foreste, di quella per l’esercizio dei poteri di controllo sulla programmazione e sull’attuazione degli interventi ordinari e straordinari nel Mezzogiorno ma, soprattutto, della Commissione Antimafia.

Mio fratello si iscrisse a Medicina ed io al liceo classico. Fu Paolo Bufalini a suggerire a mio padre il Visconti, il liceo dove venni iscritto e maturai le mie prime esperienze politiche e di vita. Bufalini mi chiamava “lo storico”, perché gli avevo detto che storia era la materia che mi piaceva di più: lui mi aveva preso sul serio e mi incoraggiava ad ogni occasione.

Erano gli anni del movimento studentesco, nato nel ’68, ed io, dopo una breve esperienza nella sinistra extraparlamentare, abbandonata per ambienti e discussioni, a mio sentire, troppo fumosi, mi iscrissi alla Fgci, la federazione giovanile comunista, dove sono cresciuto con alcuni dei futuri leader politici della sinistra, compresi quelli che, poi, hanno scelto la destra. All’inizio, il Pci era stato preso in contropiede da quel movimento, che tacciava di estremismo, “malattia infantile del comunismo”, come recitavano i sacri testi dell’ideologia marxista. La Fgci fungeva da testa di ponte, ufficiale di collegamento con i tanti giovani impegnati nella battaglia per il rinnovamento, non solo del sistema scolastico ma dell’intera società, che davano vita ad organizzazioni extraparlamentari, così definite, perché non avevano rappresentanze in Parlamento. Per questo ruolo, la Fgci subiva critiche da parte della dirigenza “adulta” del Pci, con la quale si misurava a testa alta.

Allo stesso tempo, ricordo gli attacchi lanciati dagli extraparlamentari, che definivano la Fgci riformista, la peggiore accusa che un’organizzazione comunista potesse subire. Ricordo quel periodo come la mia fase della formazione, un’età straordinaria per ricchezza di esperienze, alla quale debbo molto di quello che sono diventato. Mio padre mi osservava, almeno questo io avvertivo, ma non interveniva, tranne quando era richiesto, cosa che io facevo, ogni tanto, magari per attaccare una posizione assunta dal Pci, che criticava le scelte del movimento degli studenti o della stessa Fgci. Lui argomentava, spiegava i motivi delle scelte e delle decisioni.

In genere, controbattevo, anche quando intuivo che potesse avere ragione, per poi riportare, senza citarlo, le sue opinioni alle riunioni della Fgci e, in quelle sedi, capitava di riscontrare consenso. Essere figlio di mio padre mi esponeva a critiche: un uomo di destra, compagno di quelli di destra e, per di più, un riformista, cui seguivano conseguenti richieste di chiarimenti: chiedilo a lui!

In Parlamento, lontano dai giochi di potere e dai comitati d’affari. DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE su Il Domani il 07 maggio 2023

A mio padre piaceva molto Roma, ed era contento che ci fossimo trasferiti e che ci fossimo ben ambientati, a lui stava stretta. Non era un uomo da salotti, si teneva lontano dagli intrighi di palazzo e da consorterie e comitati d’affari. All’indomani della sua morte, nel suo unico conto corrente erano depositate poche decine di migliaia di lire

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

Era l’estate del 1974, appena diplomato, mi ero innamorato e avevo deciso che mi sarei sposato. I miei genitori erano, leggermente, increduli, ma consapevoli di aver pochi argomenti da opporre, visto che loro lo avevano fatto a poco più di vent’anni e in condizioni, a dir poco, precarie. Avevo detto loro che mi sarei iscritto all’università e, allo stesso tempo, avrei cercato un lavoro. Mi diedi subito da fare e mi rivolsi agli unici due adulti, genitori di altrettanti amici, che pensavo potessero darmi una mano. Non avevo intenzione di chiedere aiuto a mio padre. Fui fortunato, perché uno dei due mi disse che c’era un’opportunità, non certo di lavoro qualificato, d’altronde non avevo titoli, al Formez, il Centro studi della Cassa del Mezzogiorno. Raggiante, lo volli subito comunicare a mio padre.

Ma tu sei pazzo! – il suo commento – ma come, io sto facendo la battaglia per la chiusura della Cassa del Mezzogiorno e tu vuoi andare a lavorare là? Non se ne parla proprio. Pensi che possiamo offrire lo spunto per un titolo di giornale, che possa mettere in dubbio quanto sto facendo per far chiudere un carrozzone?

Rimasi senza parole ma capii perfettamente. Quando raccontai la sua reazione, il padre dei miei amici, che lo conosceva bene, si mise a ridere e mi disse che se lo aspettava.

Lo ringraziai comunque e me ne feci una ragione. Iniziai con qualche lavoretto saltuario e, nel frattempo, il previsto matrimonio andò a farsi benedire, per il venir meno dell’afflato amoroso. Potei, dunque, concentrarmi sugli studi universitari. Avevo scelto Lettere e presentato un piano di studi di soli esami di storia. Bufalini aveva visto giusto. Mi ero buttato con entusiasmo nello studio, con ottimi risultati. Non sono io a dirlo ma fa fede il libretto con i voti. Non ero stato un brillante liceale, complice il movimento studentesco e quell’irresponsabilità, propria dell’adolescenza, che fa relegare i libri in secondo piano, rispetto alle amicizie. Adesso, scoprivo il piacere dello studio, esclusivamente dedicato alla materia che mi aveva sempre appassionato. Ed ero certo che avrei raggiunto l’obiettivo: diventare professore universitario. Ad un certo punto, qualcosa si ruppe. Decisi di rallentare e di guardarmi attorno, fuori dai confini del mondo accademico, che mi aveva ammaliato sino a quel momento. Avevo visto con i miei occhi a quali condizioni di servilismo dovevano ridursi brillanti laureati per entrare nelle grazie del professore ordinario, per ottenere un assegno di ricerca, per poter aspirare a partecipare a un concorso. Una visione deprimente ed io non volevo mettere in vendita la mia dignità.

Forse Bufalini sarà rimasto deluso ma non ne ebbi mai conferma. Fortunatamente, la coincidenza volle che, grazie ad alcuni amici, mi affacciassi sul nascente mondo delle radio private e lì trovassi riparo e conforto dalle delusioni. Cominciai a collaborare a RadioBlu che, di lì a poco, divenne la radio del PCI a Roma. Eravamo riusciti a convincere l’allora giovanissimo responsabile della stampa e propaganda della federazione romana, Walter Veltroni, a comprarla. Di RadioBlu sono stato direttore dal 1979 al 1982.

La mattina di sabato 26 settembre 1981 ero in redazione a preparare la trasmissione, in vista della marcia della pace Perugia-Assisi, che si sarebbe tenuta il giorno dopo. Dovevo passare da casa a fare la borsa e poi partire per Perugia. Nella buca delle lettere mi aspettava la “cartolina precetto”, che mi comunicava che dovevo recarmi, in data 15 settembre, a Salerno per cominciare il corso addestramento reclute. Questo voleva dire che ero arruolato e, per di più, ero in ritardo, passibile di provvedimenti disciplinari. Insomma, vivevo in prima persona il paradosso di chi, pronto a marciare per la pace, si stava apprestando a imparare le arti della guerra.

Il servizio militare mi allontanava da Roma, dove sarei ritornato a metà dicembre. Nel frattempo, mio padre era di nuovo a Palermo. In quei mesi, riuscivamo comunque a vederci. Qualche volta a pranzo o a cena, oppure quando andavo a prenderlo all’aeroporto, se veniva a Roma per gli impegni di parlamentare o di partito. Lo trovavo sempre più convinto della scelta che aveva fatto.

Anche se a mio padre piaceva molto Roma, ed era contento che ci fossimo trasferiti e che ci fossimo ben ambientati, a lui stava stretta. Non era un uomo da salotti, si teneva lontano dagli intrighi di palazzo e da consorterie e comitati d’affari.

All’indomani della sua morte, nel suo unico conto corrente erano depositate poche decine di migliaia di lire. DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE

La lotta alla mafia, comincia la sua battaglia per il 416 bis e la confisca. DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE su Il Domani l'08 maggio 2023

La proposta di legge La Torre prevedeva l’inserimento nel diritto penale di un nuovo articolo, il 416 bis, riferito al reato di associazione mafiosa, punibile con una pena da tre a sei anni, pena che saliva da quattro a dieci nel caso di gruppo armato. Stabiliva la decadenza dagli incarichi civili, consentiva le indagini patrimoniali e, soprattutto, l’obbligatoria confisca dei beni, riconducibili alle attività criminali perpetrate dagli arrestati

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

Appena eletto in parlamento, nel maggio del 1972, mio padre entra a far parte della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia.

La Commissione era stata istituita nel 1962, durante la prima guerra di mafia, e pubblicò il suo rapporto finale nel 1976.

Insieme a Cesare Terranova, magistrato impegnato nella lotta alla mafia, candidato ed eletto, come indipendente, nelle liste del Pci, mio padre redasse e sottoscrisse, come primo firmatario, la relazione di minoranza che metteva in luce quanto era rimasto in ombra nella relazione di maggioranza, i legami tra mafia e politica, in particolare nella Democrazia Cristiana ma non solo, facendo i nomi di importanti uomini politici dei diversi partiti che avevano favorito boss ricevendo in cambio sostegno e vantaggi. Alla relazione aggiunse la proposta di legge “Disposizioni contro la mafia” tesa a integrare la legge 575/1965 e ad introdurre un nuovo articolo nel codice penale: il 416 bis.

La proposta segnava una svolta radicale nella lotta contro la criminalità mafiosa. Fino ad allora, infatti, l’appartenenza alla mafia non era riconosciuta come passibile di condanna penale. La proposta di legge La Torre prevedeva l’inserimento nel diritto penale di un nuovo articolo, il 416 bis, riferito al reato di associazione mafiosa, punibile con una pena da tre a sei anni, pena che saliva da quattro a dieci nel caso di gruppo armato. Stabiliva la decadenza dagli incarichi civili, consentiva le indagini patrimoniali e, soprattutto, l’obbligatoria confisca dei beni, riconducibili alle attività criminali perpetrate dagli arrestati.

Cesare Terranova, alla fine della legislatura, tornò a fare il magistrato, forte dell’esperienza maturata in Parlamento, che ne aveva, ulteriormente, affinato le capacità. La mafia non poteva sopportare che un magistrato che le aveva fatto la guerra tornasse a combatterla più forte di prima. Lo uccise il 25 settembre 1979, insieme al Maresciallo di pubblica sicurezza Lenin Mancuso.

Pio La Torre aveva una grande conoscenza del fenomeno mafioso e del suo sistema di potere, che definiva un fenomeno di classi dirigenti. Era conscio delle sue trasformazioni, dal- la mafia agricola e del latifondo, combattuta negli anni della gioventù, alla mafia urbana e dell’edilizia che, per mezzo di appalti pilotati, grazie alle connivenze con le dirigenze politiche locali, perpetrò il cosiddetto “Sacco di Palermo”, fino alla mafia imprenditrice che, avendo accumulato enormi capitali con il traffico internazionale di droga, aveva stretto indicibili alleanze col mondo dell’alta finanza.

Non aveva paura di fare chiaramente i nomi e i cognomi dei conniventi politici. Famosi i suoi giudizi su Vito Ciancimino, assessore ai lavori pubblici del Comune di Palermo dal 1959 al 1964 e poi sindaco del capoluogo siciliano dall’ottobre 1970 all’aprile 1971; in pratica signore incontrastato degli affari politico-criminali, che misero in ginocchio una città, che fa ancora fatica a rialzarsi. Come bisognerebbe rileggere quello che scrisse nella relazione di minoranza su Salvo Lima, Giovanni Gioia e Giovanni Matta, esponenti di primo piano del sistema di potere, che legava a Cosa nostra le correnti della Dc palermitana, facenti capo ad Amintore Fanfani e Giulio Andreotti.

Dalla sua analisi del rapporto tra il sistema di potere mafioso e pezzi dello Stato emerge la sua convinzione che [la] compenetrazione è avvenuta storicamente come risultato di un incontro che è stato ricercato e voluto da tutte e due le parti (mafia e potere politico)... La mafia è quindi un fenomeno di classi dirigenti.

Nel 1981 Pio La Torre decide di tornare in Sicilia, in un momento storico in cui la strategia mafiosa di intimidazione dei rappresentanti più impegnati nell’azione di contrasto da parte dello Stato contro la mafia toccava l’apice della sua azione violenta e sanguinaria.

Negli anni precedenti erano stati uccisi illustri uomini dello Stato, politici e delle forze dell’ordine, come il tenente colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo (20 agosto 1977), il segretario provinciale della Dc Michele Reina (9 marzo 1979), il capo della squadra mobile di Palermo Boris Giuliano (21 luglio 1979), il giudice Cesare Terranova (25 settembre 1979), il presidente della Regione Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980), il capitano dei carabinieri Emanuele Basile (4 maggio 1980) e il procuratore della Repubblica Gaetano Costa (6 agosto 1980). In quel momento Pio La Torre sente che il suo posto è in Sicilia e, nel 1981, succede a Gianni Parisi nella carica di segretario regionale del Pci.

Immediatamente, ritornato in Sicilia, come se non bastasse, si lancia in un’altra battaglia, quella contro l’installazione dei missili Nato nella base militare di Comiso.

DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE

Il ritorno a Palermo, una sfida nella Sicilia più mafiosa. DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE su Il Domani il 09 maggio 2023

Avevo conosciuto anche il suo senso di responsabilità e la domanda è: che responsabilità può esserci in una scelta che comprende il rischio di venire uccisi? La responsabilità che deriva dall’assunzione di una scelta che si ritiene possa produrre impatti di straordinaria rilevanza, nella consapevolezza che questi impatti colpiranno interessi di persone che faranno di tutto per evitare che quella scelta produca i risultati attesi

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

 Ne avevamo discusso, in famiglia, del pericolo che comportava il ritorno di mio padre a Palermo e riuscivamo anche a riderci sopra, quando lui raccontava, con un tono incredulo, che aveva deciso di chiedere il porto d’armi, perché avrebbe dovuto comprare e tenere con sé una pistola, che non avrebbe mai imparato ad usare.

Parlare non serviva certo a farsene una ragione, ma per lo meno scacciava l’angoscia.

Non ci rivelava, invece, i segnali che avvertiva. Al massimo li condivideva con mia madre e cercava di condurre una vita normale, la cosa migliore per tutti.

Riusciva a farlo anche perché in quegli anni non venivano adottate le misure di sicurezza, utilizzate oggi per proteggere le persone più esposte, che – anche se non in grado di garantirne l’incolumità – condizionano abitudini e stili di vita di coloro ai quali sono applicate.

Ero consapevole del fatto che mio padre corresse il rischio di essere ucciso dalla mafia, che quel rischio fosse concreto.

Ero anche consapevole del fatto che mio padre avesse valutato il rischio e lo avesse ritenuto accettabile, in nome dell’obiettivo che voleva raggiungere, della responsabilità che si era assunto e dell’impegno che ne derivava, perché non considerava il suo un atto di eroismo ma una scelta politica. 

Tutto ciò mi faceva vivere la sua decisione come naturale, in altre parole rispondente alla sua natura, alla sua coerenza, perché questo era il suo modo di dare un senso alla sua vita.

Avevo conosciuto anche il suo senso di responsabilità e la domanda è: che responsabilità può esserci in una scelta che comprende il rischio di venire uccisi? La responsabilità che deriva dall’assunzione di una scelta che si ritiene possa produrre impatti di straordinaria rilevanza, nella consapevolezza che questi impatti colpiranno interessi di persone che faranno di tutto per evitare che quella scelta produca i risultati attesi.

Nessuno glielo aveva chiesto e molti avevano cercato di fargli cambiare idea.

Io non fui tra quelli, perché sapevo che la cosa non riguardava me ma soltanto lui. Noi figli, ormai, eravamo diventati adulti: mio fratello Filippo, di quasi sei anni più grande di me, avviato alla carriera di medico universitario, aveva messo su famiglia con Alessandra e avevano due figli; io lavoravo da anni in radio e, relativamente autonomo, non davo alcun problema particolare. Mia madre aveva scelto di seguirlo.

Tutto ciò non ha reso più sopportabile il dolore, forse ha mitigato il senso di colpa che mi ha colpito. Non potevo prevedere che sarebbe successo quando ancora avremmo potuto condividere e dirci tante cose. Non abbiamo avuto più l’opportunità di farlo, perché mio padre è stato ucciso quando non aveva ancora compiuto 55 anni. DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE

L’ultima battaglia di Comiso, per la pace contro tutti i missili. DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE su Il Domani il 10 maggio 2023

Il 7 agosto del 1981, il governo italiano aveva reso noto l’accordo con la Nato per l’installazione degli euromissili nucleari Cruise nella base militare di Comiso, in provincia di Ragusa. La Torre dà forza e contributo strategico all’organizzazione del crescente movimento di protesta contro l’installazione delle testate atomiche...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

L’impegno pacifista, ripreso con determinazione nella fase finale della sua vita, trae nuova linfa dalla battaglia contro l’installazione dei missili a testata nucleare in Europa, da parte della Nato, l’Alleanza atlantica guidata dagli Stati Uniti d’America, e del Patto di Varsavia, l’organizzazione militare che faceva capo all’Unione Sovietica. Ultimi colpi di coda della Guerra Fredda, che aveva contrapposto i cosiddetti blocchi guidati dalle due superpotenze, Usa e Urss.

Il 7 agosto del 1981, il governo italiano aveva reso noto l’accordo con la Nato per l’installazione degli euromissili nucleari Cruise nella base militare di Comiso, in provincia di Ragusa.

La Torre dà forza e contributo strategico all’organizzazione del crescente movimento di protesta contro l’installazione delle testate atomiche, vista come minaccia alla sicurezza, non solo siciliana, e non come possibile fonte di ritorno economico, come affermano, tra l’altro, i fautori dell’accordo.

A questo riguardo, mio padre sosteneva che, se benefici economici vi sarebbero stati, questi avrebbero interessato gli speculatori sulle aree agricole attorno all’aeroporto e le ditte appaltatrici dei lavori di costruzione della base, con evidenti rischi d’infiltrazione della mafia, sempre attenta agli affari, specialmente quando di mezzo c’era la politica, come in questo caso.

Il clima di tensione tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica comportava l’adozione di un atteggiamento prudente e di trattativa che, non per questo, rendeva meno convinte le richieste da parte dei contrari all’accordo. Furono mesi, a cavallo tra il 1981 e il 1982, durante i quali il movimento pacifista internazionale dispiegò una capacità d’iniziativa straordinaria, che è restata unica per la sua vastità, magnitudine ed efficacia degli strumenti di lotta adottati.

L’obiettivo della protesta pacifista era quello di sospendere l’installazione dei missili, sia sovietici sia americani, mentre proseguiva la trattativa per il disarmo, in corso a Ginevra. Mio padre si era speso molto perché questo proposito fosse accolto dal movimento pacifista.

La prima grande manifestazione a Comiso si tenne l’11 ottobre 1981, con oltre 30mila partecipanti. Era stata preceduta, a settembre, da quella di Palermo, scarsamente riuscita, e dalla marcia per la pace Perugia-Assisi, dove si erano ritrovate oltre 60mila persone. Il giorno prima di Comiso, il 10 ottobre, il movimento pacifista europeo si era dato appuntamento a Bonn, dove avevano sfilato in 300mila. Il 17 ottobre, oltre 50mila cittadini avevano partecipato alla marcia per la pace a Torino. La mobilitazione continuò il 24 ottobre quando, a Roma, si svolse la prima grande manifestazione nazionale, cui parteciparono in 300mila. Sempre il 24 ottobre si tennero manifestazioni pacifiste oceaniche a Londra e Helsinki. Il 25 ottobre, a Milano, con 100mila partecipanti.

Nella stessa giornata si scese in piazza ad Oslo, Bruxelles e Parigi. Il 28 ottobre due manifestazioni di massa in Veneto: la prima, a Venezia, vide scendere in piazza 50mila persone; oltre 20mila i partecipanti alla marcia organizzata a Vicenza.

Il 15 novembre nuove manifestazioni pacifiste in Europa: 300mila manifestanti a Madrid, 500mila ad Atene. Il 21 novembre, ad Amsterdam, 400mila persone manifestarono contro l’installazione degli euromissili. A Messina, oltre 5mila studenti scesero in piazza contro i Cruise a Comiso. Il 28 novembre la manifestazione nazionale per la pace e per la «sospensione della costruzione della base di Comiso», organizzata da Cgil-Cisl e Uil a Firenze. Vi parteciparono oltre 150mila persone.

Critica l’adesione dei partiti della sinistra e dei comitati per la pace, che rimproveravano ai sindacati una «posizione troppo subalterna all’esito delle trattative di Ginevra». Il 29 novembre a Palermo si svolse una manifestazione regionale per la pace, indetta da Cgil-Cisl-Uil, Pci, Pdup, Acli e alcuni comitati per la pace della Sicilia. Vi parteciparono oltre 50.000 manifestanti. Il 5 dicembre grandi manifestazioni antinucleari si tennero ad Atene (40mila persone), Berna (30mila), Copenhagen (65mila). Il 6 dicembre 100mila manifestanti invasero la città di Barcellona, per protestare contro le nuove armi nucleari in Europa. A Bruxelles si tenne un Congresso internazionale “contro l’armamento nucleare” cui intervennero le maggiori organizzazioni pacifiste europee.

Un gruppo di lavoro era dedicato all’“Opposizione locale alle armi nucleari: l’esempio di Comiso”. Il 9 dicembre 1981, Vincenzo Antoci, sindaco di Mistretta, in provincia di Messina, si rifiutò di collaborare con gli ufficiali delle forze armate nella notifica dei decreti ai proprietari terrieri per i sopralluoghi dei militari nell’area, dove erano previsti gli espropri per la realizzazione del mega poligono di tiro sui Nebrodi.

Il 10 gennaio 1982 si riunì a Comiso l’Assemblea Siciliana dei Comitati per la pace e il disarmo a cui parteciparono delegati di oltre un centinaio di realtà organizzate dell’isola. Date le divergenze politiche e strategiche tra le differenti anime del movimento, si giunse solo all’approvazione di un documento che affermava con genericità “l’impegno perché l’inizio dei lavori non avvenga”, pur ribadendo come “Comiso rappresenti lo snodo strategico del riarmo e della Pace”.

Il 6-7 marzo si tenne nei locali del Teatro Comunale di Comiso l’Assise nazionale dei Comitati per la pace sorti alla vigilia della manifestazione di Roma del 24 ottobre dell’anno precedente. Il 13 marzo a Livorno si tenne una manifestazione nazionale antimilitarista anarchica alla quale parteciparono 3mila persone.

Il 26 marzo venne assegnato l’appalto per l’abbattimento delle vecchie strutture dell’aeroporto “Magliocco” di Comiso. L’impresa assegnataria era l’Ici, un consorzio locale che ricevette 825 milioni di lire. Il 2 aprile giunsero a Comiso i primi tecnici della “General Dinamics”, impresa costruttrice dei missili Cruise.

Il 3 aprile 1982 il Consiglio comunale di Vittoria nella provincia di Ragusa, riunitosi in seduta straordinaria, dichiarò il territorio “zona denuclearizzata” come gesto di rifiuto di tutti i missili nucleari. Fu il primo comune siciliano a dichiarare la denuclearizzazione del proprio territorio, uno dei primi in tutta Italia.

Nei tre anni successivi furono dichiarati, nell’isola, “zona denuclearizzata” i comuni di Caronia (Me), Castelbuono (Pa), Castel di Lucio (Me), Fiumefreddo (Ct), Isnello (Pa), Lentini (Sr), Mistretta (Me), Monreale (Pa), Ramacca (Ct), Sambuca di Sicilia (Ag), San Cipirello (Pa), Santa Teresa di Riva (Me), Sciacca (Tp), Scordia (Ct), e l’intera provincia di Messina. DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE

Pio La Torre e la grande manifestazione con i pacifisti europei. DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE su Il Domani l'11 maggio 2023

Mio padre spiegò che le ragioni dell’opposizione ai missili erano basate sull’assoluta contrarietà alla “trasformazione della Sicilia in un avamposto di guerra in un mare Mediterraneo già profondamente segnato da pericolose tensioni e conflitti. Noi dobbiamo rifiutare questo destino e contrapporvi l’obiettivo di fare del Mediterraneo un mare di pace”...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

Il 4 aprile mio padre organizzò una nuova manifestazione per la pace a Comiso, cui parteciparono oltre 80.000 manifestanti.

La marcia si concluse con il concerto del gruppo cileno “Inti-Illimani”.

Il 6 aprile una delegazione pacifista internazionale effettuò un sit-in silenzioso di fronte l’aeroporto “Magliocco” di Comiso contro il ventilato inizio dei lavori di realizzazione della base.

Vi parteciparono, tra gli altri, Giacomo Cagnes del Cudip, il parlamentare dei “Grünen”, i verdi tedeschi, Roland Vogt, Janne Kuik dell’IKV olandese, Michael Friese dell’End britannico e Alberto L’Abate del Movimento Nonviolento.

L’8 aprile iniziarono i lavori di demolizione dei vecchi edifici dell’aeroporto.

Il 16 aprile, Pio La Torre lanciò dal Circolo della Stampa di Palermo una petizione – nell’ambito di un convegno, cui parteciparono esponenti di ogni orientamento politico, culturale e religioso – indirizzata al Governo italiano per la “sospensione dei lavori della base di Comiso”. L’obiettivo era quello di raccogliere, in Sicilia, un milione di firme: la richiesta degli organizzatori: non “si dia inizio ai lavori di costruzione della base di Comiso quale contributo italiano al buon esito della trattativa di Ginevra”.

Il successo della protesta fu enorme e l’obiettivo della raccolta di firme fu raggiunto.

Mio padre, in un articolo pubblicato postumo su Rinascita del 14 maggio 1982, spiegò che le ragioni dell’opposizione ai missili erano basate sull’assoluta contrarietà alla “trasformazione della Sicilia in un avamposto di guerra in un mare Mediterraneo già profondamente segnato da pericolose tensioni e conflitti. Noi dobbiamo rifiutare questo destino e contrapporvi l’obiettivo di fare del Mediterraneo un mare di pace”.

I suoi propositi furono bruscamente interrotti la mattina del 30 aprile 1982.

La politica, la famiglia, la borgata e i parenti emigrati in America. DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE su Il Domani il 12 maggio 2023

Politica significa impegno, responsabilità. La formazione e la selezione avvengono sul campo dell’azione, dove si misurano le capacità di promuovere e organizzare iniziative di massa e di dare a queste uno sbocco politico che permetta di raggiungere gli obiettivi dell’azione

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

Politica significa impegno, responsabilità. La formazione e la selezione avvengono sul campo dell’azione, dove si misurano le capacità di promuovere e organizzare iniziative di massa e di dare a queste uno sbocco politico che permetta di raggiungere gli obiettivi dell’azione. Questa è la vera selezione nella formazione dei quadri di ogni organizzazione che si rispetti.

Fare politica è uno dei mestieri più belli del mondo, forse il più bello, perché si occupa della soluzione dei problemi delle persone.

Quante volte ho sentito ripetere questo concetto dalla bocca di mio padre. Fare politica, in un’organizzazione come il Pci, voleva dire dedicarsi ai problemi di chi non aveva o di chi aveva meno, in termini di risorse, diritti e prospettive. Fare politica, per una forza progressista, significa avere una visione più giusta e più equa della società. Questo ho imparato dall’esempio di mio padre.

Ho memoria delle sue campagne elettorali, a partire dalla metà degli anni Sessanta. Una volta eletto, non gli ho mai sentito dire: “mi sono sistemato” o “ci siamo sistemati”. In famiglia condividevamo la soddisfazione per lo sforzo che veniva premiato, per il riconoscimento che veniva dato al lavoro, innanzitutto del partito. Il plurale prevaleva sul singolare e l’interesse generale sul particolare. Certo, non nascondeva l’orgogliosa rivendicazione di aver contribuito all’esito positivo, per accompagnarla con una dichiarazione di rinnovato e più forte impegno dell’azione del partito, perché era quello il senso che lui dava al risultato elettorale.

Le sue campagne elettorali non erano a base di manifesti e volantini con la sua faccia. D’altronde, non era questo il modo.

***

Famiglia paterna e materna erano entrambe fondamentali per mio padre.

Angela e Filippo La Torre, i miei nonni paterni, avevano messo al mondo cinque figli: tre maschi e due femmine. Filippo, il primogenito, che si chiamava come il nonno, seguito da Felicia, in mezzo mio padre, poi Antonina e, infine, Luigi. Filippo, a 17 anni, si era arruolato volontario ed era partito per la guerra e poco dopo era stato fatto prigioniero in Africa.

Rientrato in Italia, aveva sposato la zia Rosa, originaria di Vermicino, vicino Frascati, in provincia di Roma, ed erano andati a vivere a Portula, nel Vercellese, dove era stato segretario comunale di alcuni piccoli centri della provincia. Dal loro matrimonio è nata mia cugina Angela, archeologa, precaria negli anni Settanta, quando catalogava reperti nel Foro Romano, che ha rinunciato a quel lavoro per mettere su famiglia con Gianni: hanno una figlia, Giada, che si prepara a fare il magistrato.

Lo zio Filippo, una volta in pensione, aveva lasciato Portula e si era trasferito a Vermicino. Zio Filippo e zia Rosa sono morti, a breve distanza l’uno dall’altra, nel 2011. Da quando erano venuti a vivere vicino Roma, andavamo a trovarli spesso nei fine settimana. Zio Filippo aveva impiantato nel giardino di casa una piccola vigna e produceva vino e distillati, questi ultimi una specialità di zia Rosa. Il rito della passeggiata tra le viti era rispettato ogni volta, con i fratelli che commentavano lo stato delle piante e gli ultimi interventi che la cura costante della vigna richiedeva, come quello della degustazione delle grappe, aromatizzate da zia Rosa, alla fine del pranzo domenicale. Sul vino mio padre aveva qualche perplessità, confermata da noi figli, riassunta nel detto: il vino del contadino è genuino e, qualche volta, è anche buono.

Nel caso del vino di zio Filippo, ci si consolava con i distillati. Zia Felicia, un anno e mezzo più di mio padre, dopo la guerra aveva sposato zio Noè e subito dopo la nascita di Franco, all’inizio degli anni Cinquanta, era emigrata a Rochester, nello stato di New York, nord degli Stati Uniti, vicino alle cascate del Niagara, al confine col Canada. Zia Felicia ha fatto l’operaia in una fabbrica tessile e zio Noè prima il barbiere e poi il guardiano notturno in una scuola.

All’inizio degli anni Settanta, mio cugino Franco rischiava di essere arruolato nell’esercito statunitense per andare a combattere in Vietnam, questa fu la molla che spinse gli zii a vendere tutto e tornare a vivere in Italia. Il sogno che li aveva tenuti svegli negli anni dell’immigrazione. Giunti in Italia, si trovarono di fronte ad una realtà diversa da quella immaginata. Il titolo di studio di Franco non veniva riconosciuto dal nostro sistema educativo, a Palermo non riuscirono ad ambientarsi e anche a Vermicino non andò meglio. Troppe le differenze con la vita e le abitudini contratte negli Stati Uniti. Resistettero due anni e poi ritornarono a Rochester.

Papà andò a trovare sua sorella Felicia, in occasione di una missione ufficiale negli Stati Uniti della Commissione Agricoltura della Camera dei Deputati, di cui era membro, e solo per questo era stato concesso un visto d’ingresso ad un comunista. Non so se fosse la prima volta che questo accadeva. Tra lui e la sorella c’era un rapporto speciale. Si scrivevano spesso e si capiva che si volevano molto bene. Zia Felicia era stata la sua maestra privata, durante le elementari.

Poi lei si era fermata lì mentre mio padre aveva proseguito gli studi. Sino a qualche anno fa, quando arrivava la primavera, veniva in Italia, insieme a zio Noè e Franco: tappe fisse Roma, Vermicino, Palermo e, se avanzava del tempo, Franco organizzava qualcos’altro. Adesso, le sue condizioni di salute non le permettono più di affrontare il viaggio. Per questa ragione, adesso tocca a noi andarla a trovare, come abbiamo fatto nel 2012, in occasione del suo compleanno, il 25 giugno. Sì, sono nato nel suo stesso giorno, trent’anni dopo.

La morte di suo fratello Pio ha aperto una ferita che non si è ancora rimarginata. Ogni volta che ne abbiamo parlato, perché era uscito un libro o era stato realizzato un documentario, non è riuscita a trattenere le lacrime. Non ha mai voluto vedere le immagini dell’agguato e di suo fratello ucciso.

Antonina, in famiglia la zia Nina, viveva al primo piano della casa paterna di Altarello di Baida e si faceva vedere raramente. Si è sposata, in età matura, con lo zio Nino ed è morta alcuni anni fa senza lasciare eredi.

Anche lo zio Luigi, l’ultimo nato, è restato a vivere nella casa paterna di Altarello, a pianterreno, dove, sposata la zia Ninetta, ha messo su famiglia e sono nati Filippo, Angelina, Paola e Gioacchino. Mio fratello ed io eravamo, rispettivamente, un anno più grandi di Filippo e Gioacchino. Nei fine settimana, quando papà non aveva impegni, andavamo spesso a pranzo o a cena da loro.

Per mio padre, quelle erano le occasioni per passeggiare in giardino, passando per la gebbia, come in palermitano viene chiamata la cisterna di cemento, sempre piena d’acqua, utilizzata per annaffiare i giardini, dove aveva imparato a nuotare, attento a non affogare, sino a una grande spianata, circondata da agrumeti, chiamata piazza d’armi.

Faceva lunghe chiacchierate con suo fratello, gli chiedeva delle arance o delle nespole, in base alla stagione, quasi pronte per essere raccolte, o del parassita che aveva colpito alcune piante, prima di essere debellato, e si faceva aggiornare sulle novità della borgata. Filippo, Gioacchino, mio fratello ed io li seguivamo; a noi piaceva giocare a pallone nella cosiddetta piazza d’armi, dove si ritrovavano i ragazzi della zona.

Un’estate della prima metà degli anni Sessanta, ho passato diversi giorni ad Altarello e, in quell’occasione, Angelina e Paola mi hanno insegnato a ballare polka, mazurka e walzer. Zia Felicia era negli Usa e zia Nina non c’era quasi mai. Questo non diminuiva il suo attaccamento alla casa dov’era nato e dove tornava appena poteva. Negli anni in cui abitava a Roma, quando andava a Palermo il suo domicilio era ad Altarello: era troppo legato a quegli odori, che ricercava, ogni volta, col piacere di rinnovarne il ricordo. Passeggiare per quei luoghi aveva un effetto rilassante, nutriva la mente e rinnovava le forze.

DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE

Il Partito comunista, l’altra famiglia di Pio La Torre. DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE su Il Domani il 13 maggio 2023

Amava troppo lo studio, nel suo significato profondo, per rassegnarsi e lasciar perdere, e così, dopo una quindicina d’anni, si laureò in scienze politiche. La politica per lui era anche studio, non solo azione, e ce lo ricordava, quando doveva scrivere un articolo o preparare una relazione o un discorso, con una sua frase tipica: vado di là a studiare

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

Il partito aveva, per mio padre, una dimensione avvolgente, quasi totalizzante. Era l’altra famiglia. Raramente lo chiamava Pci e quando lo faceva non sempre era per tesserne le lodi. Per lui era e restava il “Partito”. Il partito lo aveva accolto quando, lasciata la casa paterna, trovò ospitalità da Pancrazio De Pasquale: il segretario palermitano del partito.

Il partito gli aveva fatto incontrare persone simili a lui, giovani pronti a battersi per le sue stesse ragioni. Il partito gli aveva dato un lavoro, quello della sua vita, e pagato il primo, si fa per dire, stipendio. Il partito aveva trasformato i suoi afflati di giustizia ed eguaglianza in visione politica ideale e, allo stesso tempo, solidamente radicata nella realtà, e gli aveva fornito i mezzi per l’azione politica concreta. Il Pci era un partito fortemente identitario, fondato sulla condivisione degli ideali che ne ispiravano la politica, e mio padre, come tanti militanti e dirigenti, viveva profondamente questa condivisione, facendosi carico della coerenza, nei comportamenti e negli atti, con quegli ideali comuni, che richiedevano quel senso di responsabilità e disciplina che lo ha portato a sacrificare le ambizioni personali sull’altare degli interessi del partito. Ho capito che riusciva a farlo perché aveva fiducia nel suo partito, che gli aveva dato fiducia. E che gli aveva fatto incontrare Giuseppina Zacco. Studio e cultura, prima che incontrasse la politica, erano stati per mio padre gli strumenti per crescere e costruire le basi per affrancarsi, individualmente, dalle condizioni difficili che avevano caratterizzato la sua infanzia.

Mia zia Felicia, sua sorella maggiore, racconta che mio padre già a quattro anni accompagnava mio nonno al lavoro.

Una di quelle mattine, doveva essere l’estate del 1932, mio padre chiese al suo se potesse rivolgergli una domanda e ad un cenno di assenso di quest’ultimo gli espresse il desiderio di volere andare a scuola. La reazione di mio nonno fu immediata ma perplessa. Mio nonno non credeva che la scuola avrebbe potuto cambiare il suo destino. Lui faceva il contadino, come lo aveva fatto suo padre, come pensava di poter avere un futuro diverso? Insomma, Pio doveva rassegnarsi, il suo destino era quello di spaccarsi la schiena, in cambio di una vita grama.

Si scontravano due modi di intendere la vita e le sue vicissitudini. Mio nonno incarnava la visione del “come siamo, resteremo”. Mio padre quella che è possibile avanzare sulla strada del progresso.

Fortunatamente, la discussione non si concluse lì. Mio nonno tornò a casa, per raccontare a mia nonna l’accaduto e lì dovette affrontare la sua opinione. La nonna Angela, analfabeta, comprendeva e sosteneva la richiesta di suo figlio, capovolgendo il ragionamento di mio nonno. Se suo figlio Pio voleva andare a scuola per studiare, per non fare il contadino, scegliendo un destino diverso da quello di suo padre e di suo nonno, lei era d’accordo. Alla fine, il compromesso fu raggiunto. Mia nonna si sarebbe fatta carico delle spese scolastiche, andando a vendere i prodotti del giardino, e mio padre avrebbe continuato ad aiutare mio nonno. Visto che non avrebbe potuto aiutarlo nei lavori del giardino, si sarebbe preso cura della stalla, che avrebbe pulito tutte le mattine, prima di recarsi a scuola. L’atteggiamento di mio padre bambino era premonitore delle sue scelte da adulto. Come non si era rassegnato all’ineluttabilità del destino che, nelle parole del padre, lo condannava a una condizione di subalternità, così aveva dedicato il suo impegno perché nessuno continuasse a subire la stessa condanna.

Prima del partito, che ancora non conosceva, fu lo studio ad essere necessario al riscatto dalle sue misere condizioni. Era, per mio padre, la sola via d’uscita in una società rigidamente divisa, che non favoriva il desiderio di avanzamento sociale delle classi povere, alle quali era offerto, in questi casi, di seguire solo il cosiddetto avviamento professionale, che non permetteva l’accesso all’università. Mio padre affrontò anche quell’ostacolo, superando gli esami di licenza liceale e iscrivendosi al corso di laurea in matematica.

L’impegno politico, intrapreso in quei giorni, lo convinse che non poteva sostenere il ritmo imposto dagli studi di matematica e decise di cambiare facoltà. Scelse ingegneria, ritenendola più compatibile con l’attività politica, ma si sbagliava, perché questa avrebbe preso il sopravvento, con le responsabilità derivate dagli incarichi che avrebbe assunto, nel giro di poco tempo.

Non posso dire se sarebbe stato un bravo ingegnere, come uomo impegnato in politica di cose ne ha costruite. Amava troppo lo studio, nel suo significato profondo, per rassegnarsi e lasciar perdere, e così, dopo una quindicina d’anni, si laureò in scienze politiche.

La politica per lui era anche studio, non solo azione, e ce lo ricordava, quando doveva scrivere un articolo o preparare una relazione o un discorso, con una sua frase tipica: vado di là a studiare. Di là, quando abitavamo a Palermo, era il suo studio, dal quale si accedeva alla camera da letto dei miei genitori, arredato con una grande libreria e un’ampia scrivania, in stile svedese.

La scrivania era ricoperta di fogli di carta, block notes, documenti, giornali, cartelle e libri, sparsi o raccolti in pile. Insomma, una gran confusione, un evidente disordine per i più, che lui riusciva a governare, senz’ansia, trovando sempre quello che cercava, dopo una rapida ricerca e senza perdere la concentrazione.

D’altronde chi, meglio di lui, aveva goduto dei risultati del lavoro che lo studio richiede? Se non avesse avuto il coraggio di sfidare il padre, per quella che lui riteneva una giusta causa, e non avesse trovato l’alleanza con la madre, non saremmo qui a parlarne. Ci ripeteva che non aveva altra arma che la cultura per riscattarsi dalla miseria.

Come potergli dar torto? Le battaglie giuste meritano di essere combattute, anche se non si è certi di vincerle. Perché, comunque, aiutano a costruire alleanze, ti fanno stare accanto a chi dici di voler difendere e, cosa non minore, dimostrano che le scelte devono essere coerenti e non sottoposte a criteri di opportunità o, peggio, di opportunismo. Tutto quello che mio padre ha fatto, lo ha potuto fare grazie a quella scelta iniziale di voler andare a scuola. [...]. DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE

E un giorno Pio La Torre disse: «Questa volta tocca a noi». DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE su Il Domani il 14 maggio 2023

Dopo pranzo, la consueta passeggiata per favorire la digestione e mio padre, parlando dell’offensiva che insanguinava la Sicilia, disse a Macaluso: Emanuele, questa volta tocca a noi...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

Mio padre era a Roma, durante la Pasqua del 1982. Il lunedì di Pasqua, con mamma, era andato a pranzo con Emanuele Macaluso. Una sorta di fratello maggiore di papà, di tre anni più grande. Mio padre aveva ricoperto, dopo di lui, gli incarichi di segretario della Cgil e, poi, del Pci in Sicilia. Erano molto legati e facevano parte del gruppo dei “miglioristi”.

Dopo pranzo, la consueta passeggiata per favorire la digestione e mio padre, parlando dell’offensiva che insanguinava la Sicilia, disse a Macaluso: Emanuele, questa volta tocca a noi.

Il trenta aprile del 1982, alle nove del mattino, mio padre e Rosario stanno raggiungendo in auto, una Fiat 132, la sede del partito. In via Turba, di fronte alla caserma Sole, si affiancano alla macchina una moto di grossa cilindrata e un’altra auto, dalle quali vengono scaricate decine di proiettili contro i due. Mio padre muore all’istante, mentre Rosario ha il tempo di estrarre la pistola e sparare alcuni colpi, in un estremo tentativo di difesa.

Rosario Di Salvo non l’ho mai incontrato, ma ho potuto conoscerlo attraverso sua moglie Rosa e sua figlia Tiziana. 

Il 12 gennaio 2007 la Corte d’Assise d’Appello di Palermo ha emesso l’ultima di una serie di sentenze, che ha portato a individuare in Giuseppe Lucchese, Antonio Madonia, Salvatore Cucuzza e Pino Greco gli autori materiali dell’omicidio.

Dalle rivelazioni di Cucuzza, diventato collaboratore di giustizia, è stato possibile ricostruire il quadro dei mandanti del duplice omicidio, identificati nei boss Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Antonino Geraci.

La cupola di Cosa Nostra.

Il quadro delle sentenze ha permesso di individuare nell’impegno antimafia di Pio La Torre la causa determinante della condanna a morte inflitta dalla mafia. Restano senza risposta i filoni d’indagine, che rimandano a convergenze d’interessi più ampi, quelli tra politica ed economia, sia a livello nazionale sia internazionale, e quelli riguardanti geopolitica, politiche di sicurezza e di difesa, toccati dall’ultima battaglia pacifista contro l’installazione dei missili. DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE

Il telefono, il figlio risponde, poi una voce: «Hanno ucciso Pio La Torre». DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE su Il Domani il 15 maggio 2023

La voce del direttore di una piccola emittente, alla quale fornivamo servizi giornalistici e qualche trasmissione musicale, che senza lasciarmi il tempo di dire né ah né bah, tutto concitato dice: Avete saputo che hanno ucciso Pio La Torre? Credo di aver risposto solo con un grazie, senza farmi riconoscere...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

Erano le otto e mezzo circa di venerdì 30 aprile del 1982 e, come tutte le mattine a quell’ora, stavo andando in via Palestro 84, dove si trovava la sede di RadioBlu, la radio del Pci di Roma, che dirigevo. Via Palestro distava da via Panisperna 72, dove abitavo con mamma e papà, un quarto d’ora di passeggiata.

Quello a RadioBlu era stato il mio primo lavoro vero. Come raccontavo, avevo cominciato sei anni prima, non avevo ancora compiuto vent’anni, quasi per caso o, meglio, per curiosità. Poi mi ero talmente appassionato da abbandonare la prospettiva di diventare professore di storia, l’altra passione che mi accompagnava dai tempi dell’infanzia. Infatti, man mano che saliva la passione per il lavoro radiofonico, scemava quella per la carriera universitaria, complice la percezione, che mi ero fatta, che per avviarmi in quel percorso sarei dovuto diventare portaborse di un professore ordinario, come quelli che vedevo in facoltà, e la cosa non la potevo digerire.

Quindi, dopo i primi due anni di università, durante i quali avevo messo in fila dodici esami, con la media del ventinove e virgola, cominciai a rallentare ed entrare nella logica che gli esami sarebbero serviti a rinviare il servizio militare; mi lanciai nel rutilante mondo delle radio libere, come venivano definite, che fiorivano in tutta Italia, inaugurando la stagione dell’informazione alternativa a quella della Rai e di una programmazione meno vincolata da schemi culturali ed ideologici.

RadioBlu era, in pieno, l’espressione di quanto un famoso cantautore italiano, Eugenio Finardi, intonava: “Se una radio è libera ma libera veramente, piace anche di più, perché libera la mente”...

RadioBlu riusciva a coniugare con gusto, sapere e passione, una buona informazione e una programmazione musicale d’eccellenza. Vi si è formata una generazione di professionisti, che oggi si è affermata in posizioni di tutto riguardo, senza fare nomi, per non dimenticare nessuno e per evitare autocompiacimenti di sorta, ma posso tranquillamente dire che molti dei migliori, che vediamo o sentiamo all’opera, sono passati di lì.

In quell’appartamento, al terzo piano di via Palestro, si trovavano gli studi di diretta e registrazione e le redazioni musicale e d’informazione. All’ingresso, di fronte a destra, c’era un telefono pubblico a gettoni, un parallelepipedo di color giallo argentato, con la feritoia in alto, dove inserire i gettoni, un ultimo modello, allora, di quelli che non se ne vedono più, perché superati dalla tecnologia e dal design. Lo utilizzavamo non tanto per chiamare, quanto per le telefonate urgenti in entrata, quelle dei nostri inviati o delle emittenti a noi collegate.

Insomma un telefono di servizio, che era più facile trovare libero, rispetto alle altre tre linee telefoniche di cui la radio disponeva.

Avevo appena accostato la porta d’ingresso alle mie spalle, quando il telefono pubblico iniziò a squillare. Ero solo nella stanza e mi venne spontaneo andare a rispondere. Sollevata la cornetta, riconosco, dall’altra parte, la voce del direttore di una piccola emittente, alla quale fornivamo servizi giornalistici e qualche trasmissione musicale, che senza lasciarmi il tempo di dire né ah né bah, tutto concitato dice: Avete saputo che hanno ucciso Pio La Torre?

Credo di aver risposto solo con un grazie, senza farmi riconoscere, di aver riappeso la cornetta, fatto dietrofront, aperto la porta d’ingresso e sceso le scale.

Da quel momento sono entrato in una sorta di trance ed i ricordi si accavallano, per poi rarefarsi e, quindi, confondersi l’uno con l’altro. Ho perso una chiara e definita dimensione temporale.

Ad un certo punto mi ritrovo in cima a via Panisperna. I negozi, che si affacciano sulla strada, mi sembrano tutti chiusi e, davanti al portone di casa, zia Agata e zio Totino guardano su e giù per la via, cercando di scorgere mia madre, che arriva di lì a poco. Non sa ancora nulla ma non ci mette molto a capire che c’è qualcosa che non va e la conferma la ha quando sua sorella l’abbraccia.

DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE

Lacrime e la folla di piazza Politeama, l’ultimo saluto di Palermo. DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE su Il Domani il 16 maggio 2023

Ancora abbracci, parole sussurrate, volti rigati dalle lacrime. Le autorità sul palco, le bare di Rosario e mio padre davanti, e i discorsi che si susseguono e la folla che applaude, tranne quando fischia quell’autorità, che non ha sentito la vergogna e ha scelto di non tacere...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

Vuoto di memoria.

Mi ritrovo davanti alla porta di casa, mi apre Gianni, il caro amico di sempre, che mi abbraccia. Nel soggiorno siede Walter Veltroni, con cui sono cresciuto politicamente e non solo nella Federazione Giovanile Comunista. Walter era il giovane responsabile del settore televisivo del Dipartimento Stampa e Propaganda nazionale del partito. Era stato il primo dirigente del partito ad accorrere e si sarebbe fermato a casa, non ricordo per quanto tempo e non ricordo, nemmeno, se e di cosa abbiamo parlato. Sullo stesso divano stava mia madre, muta, cerea, lo sguardo fisso, interrotto soltanto da un singhiozzo, col volto segnato da una smorfia di dolore e d’incredulità, solcato dalle lacrime. Vuoto di memoria.

Si fa sera e squilla il citofono: gli inventori ed ex proprietari di RadioBlu vorrebbero abbracciarmi e mi chiedono se mi vada di scendere e fare due chiacchiere. Accetto e li raggiungo in strada. Sono in macchina, una R4 rossa, dove prendo posto nel sedile posteriore. Accanto a me, un giovane giornalista del Manifesto, che mi rivolge alcune domande per un’intervista, che uscirà il giorno dopo, che avrò pur letto ma di cui non ricordo nulla.

Chissà come ho passato quella notte.

L’indomani mattina ci trasferiamo in aereo a Palermo. Prima tappa, la sede del Pci, un gran palazzo nobiliare in Corso Calatafimi, dove si trovava l’ufficio di mio padre, che visito per la prima volta, in compagnia di mio fratello, tornato dalla Svezia dove stava completando un corso di specializzazione in chirurgia, insieme a mio zio, che ci segue, senza farsi notare. Sono scoppiato a piangere e ho abbracciato mio fratello. Quello è stato il mio primo pianto, almeno questo è il mio ricordo. Non ho mai pianto in pubblico. Mi sono commosso, la voce mi si è spezzata, ho dovuto interrompere una frase per l’emozione, gli occhi sono diventati lucidi ma mai una lacrima davanti ad altri, che non fossero le persone più care.

La sera, di nuovo a Corso Calatafimi, dove è stata allestita la camera ardente e dove ho visto, per l’ultima volta, il volto di mio padre. Non è un bel ricordo quella faccia. Nonostante le cure, non è stato possibile cancellare i segni della violenza.

Mi ricordo che abbiamo trascorso la notte a casa di zio Angelo ma niente di più.

Se mi chiedete come abbia raggiunto, l’indomani, piazza Politeama, dove si sono tenuti i funerali, non saprei cosa rispondervi. So solo che mi sono ritrovato lì, dove si andava radunando tanta gente, mentre si aspettava il corteo vero e proprio. In mezzo a quella folla è emersa zia Ninetta, la moglie di zio Luigi, l’unico dei fratelli maschi rimasto a Palermo.

Nessuna traccia nella memoria. Ancora abbracci, parole sussurrate, volti rigati dalle lacrime. Le autorità sul palco, le bare di Rosario e mio padre davanti, e i discorsi che si susseguono e la folla che applaude, tranne quando fischia quell’autorità, che non ha sentito la vergogna e ha scelto di non tacere.

Vuoto di memoria.

Mi ritrovai a Roma dove, piano piano, ripresi la vita di tutti i giorni. Decisi di lasciare RadioBlu. Per me si era conclusa una fase.

Era l’estate dei Mondiali dell’82, quelli vinti dall’Italia, che trascorsi a casa di Walter, da poco sposato con Flavia Prisco, coronando l’amore della sua gioventù. Da lì a pochi mesi, avrei sostituito Gregorio Paolini, che sarebbe diventato un affermato autore televisivo, al Dipartimento Stampa e Propaganda della Direzione del Pci, diretto da Massimo D’Alema. Sei anni di lavoro intenso, di elezioni perse e di premi vinti per le migliori campagne di comunicazione, che mi hanno permesso di apprendere tanto, grazie all’esperienza di persone di talento, come Fabio Mussi, Marcella Ferrara, Vincenzo Vita, Gino Galli, Bruno Magno ed Enrico Menduni, ai quali devo molto. DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE

Il dolore, la memoria, poi la nascita del Centro studi Pio La Torre. DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE su Il Domani il 17 maggio 2023

Quattro anni dopo la sua uccisione, nel maggio del 1986, nasce ad Alcamo, su iniziativa di Ino Vizzini, stretto collaboratore di mio padre e deputato regionale, il Centro di studi ed iniziative culturali “Pio La Torre”. Missione del centro è quella di valorizzare il patrimonio ideale e politico segnato dalla vita e dall’opera di Pio La Torre

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

Nel frattempo, ero andato a vivere da solo. Nei primi mesi della mia nuova posizione di ex-bamboccione, finalmente affrancatosi dalla dipendenza dalla famiglia, mi succedeva di svegliarmi la mattina e di trovare il cuscino pieno di capelli.

In seguito, ho interpretato quel fenomeno quale effetto di un esaurimento nervoso asintomatico o di stress post-trauma, risultato dalla difficile ma necessaria elaborazione del lutto. Come quando prendi la scossa elettrica e ti vanno a fuoco i capelli. Infatti, ho imparato che il corpo umano, in caso di necessità, per far fronte a situazioni di crisi per la salute dell’organismo, sacrifica le parti non essenziali e i capelli, ovviamente, rientrano in questa categoria. Col risultato che, neanche a trent’anni, mi ritrovavo con la mia piccola ma evidente chierica. 

Nei giorni successivi l’omicidio, sognavo mio padre. Mi parve, anche, di vederlo. Come quella volta che camminavo, giù per la discesa che porta via Panisperna verso via dei Serpenti, quando eccolo apparire una decina di metri avanti a me.

Era identico, nel portamento e nel fisico e, anche, nel vestire ma non era possibile che fosse lui. Lo sapevo benissimo. Visto di spalle era proprio lui. Stessa altezza, stessa andatura, con le braccia rilassate, che sbattevano contro le cosce, mentre si preparava ad affrontare la salita, dopo aver attraversato la via, senza spezzare il ritmo. La stessa giacca, gli stessi pantaloni.

Dovevo solo allungare il passo e raggiungerlo. Ero consapevole di star dando corpo ad un desiderio irrealizzabile. Certo, la somiglianza c’era ed esercitava una forza di attrazione. Mi avvicinavo sempre di più, sino a raggiungerlo e, girandomi a destra, riuscivo a guardarlo in viso. Che peccato, che delusione non aver potuto incontrare, nuovamente, il suo sguardo.

Aveva uno sguardo penetrante, che non temeva scudi, specialmente quando, girando leggermente la testa, lo scagliava osservandoti di sbieco.

Mamma ci mise un po’ a conquistare la voglia di ricominciare, e non lo nascose a Filippo e a me. Diversamente da noi che cercammo di tenere nascosti, di non farle capire i nostri sentimenti, lei non se ne vergognava. Noi due non so, ma lei capiva, senza il bisogno di chiedere, con un semplice sguardo.

Mio fratello aveva Alessandra, Valentina e Marco. Valentina e Marco erano piccoli abbastanza per far felice la nonna, che aveva bisogno di veder la vita crescere. Continuavo a sognarlo ed i capelli non cadevano più.

Quattro anni dopo la sua uccisione, nel maggio del 1986, nasce ad Alcamo, su iniziativa di Ino Vizzini, stretto collaboratore di mio padre e deputato regionale, il Centro di studi ed iniziative culturali “Pio La Torre”. Missione del centro è quella di valorizzare il patrimonio ideale e politico segnato dalla vita e dall’opera di Pio La Torre, realizzando e promuovendo studi, iniziative e ricerche originali riguardanti aspetti e problemi della Sicilia contemporanea. Perché, come ha sottolineato il primo Presidente del Centro, Francesco Artale, nel suo discorso d’inaugurazione: “il patrimonio lasciato da Pio La Torre [...] appartiene a tutti i lavoratori, alla gente onesta, a tutti quelli che lottano e operano contro la mafia e contro lo sfruttamento, a tutti quelli che lavorano per una Sicilia libera e produttiva e per un mondo senza missili e senza guerre”. Sono stati presidenti del Centro, dopo Artale, Saverio Lo Monaco, Gianni Parisi, Nino Mannino. Dal 2004 il Presidente è Vito Lo Monaco. [...] DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE

Un’eredità che (quasi) nessuno ha saputo raccogliere. DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE su Il Domani il 18 maggio 2023

I primi anni successivi all’omicidio, i segretari del Pci e di ciò che da quel partito è stato generato, in occasione del trenta aprile, si facevano sentire, a voce o per iscritto, e rilasciavano dichiarazioni alla stampa, ricordando la figura di Pio La Torre. Poi, hanno perso il ritmo, spero non la memoria...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco

Mamma veniva invitata su e giù per l’Italia e non solo. Intitolazione di strade e di piazze, di scuole e sezioni di partito, dibattiti, incontri e conferenze. Il tema era caldo e molto sentito. La mafia non aveva smesso di colpire. Dopo poco più di quattro mesi dall’omicidio, la sera del 3 settembre, venivano uccisi in via Carini a Palermo il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, sua moglie Emmanuela Setti Carraro e l’agente Domenico Russo.

Dalla Chiesa era arrivato a Palermo in occasione dell’omicidio di mio padre. Prefetto di Palermo ma senza quei poteri di coordinamento dell’azione antimafia dello Stato in Sicilia, che mio padre stesso aveva perorato gli fossero affidati, quando aveva incontrato Giovanni Spadolini, presidente del Consiglio, pochi giorni prima di essere assassinato.

Sempre a settembre venne approvata la legge Rognoni-La Torre, nata dalla fusione della proposta, che mio padre aveva depositato in Parlamento due anni prima, con il disegno di legge di Virginio Rognoni, ministro dell’Interno. Pochi giorni dopo la strage di via Carini, il 6 settembre 1982, il governo Spadolini approvò il Decreto Legge che istituiva la carica di Alto Commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa ed il primo a ricoprire l’incarico fu il direttore del Sisde, i servizi d’intelligence civili, Emanuele de Francesco. Dopo, sempre dopo, che il sangue era stato versato, il sangue di coloro che si opponevano alla criminalità e chiedevano mezzi adeguati per fare meglio.

Mamma aveva assunto, naturalmente, il compito di mantenere viva la memoria di papà. Ruolo che i familiari delle vittime di mafia svolgono attraverso un’azione costante d’informazione sul fenomeno delle mafie, su coloro che s’impegnano per contrastarle e su coloro che, da queste, sono stati uccisi. Ogni tanto poteva accadere che mio fratello o io la sostituissimo ma lei è rimasta in prima fila, almeno finché ne ha avute le forze, sino a pochi mesi prima di lasciarci, nel settembre 2009.

Nel 1991, il Pci le propose di candidarsi alle elezioni dell’Assemblea Regionale Siciliana. Lei accettò, venne eletta e restò in carica sino al 1996. Considerava quell’esperienza contrastata. Rivestì il ruolo di Vicepresidente della Commissione Antimafia di un Parlamento regionale con il 60 per cento circa dei deputati inquisiti dei reati più vari. A questo riguardo, aveva chiesto, al Pci prima e poi al Pds, un’azione volta alla moralizzazione, al rinnovamento, alla salvaguardia del più antico Parlamento, minato da una crisi ed un degrado profondi. Non fu soddisfatta, perché tutto restava immutato, tranne qualche protesta verbale, senza conseguenze sostanziali, mentre ognuno manteneva il suo posto. Allora lasciò il gruppo del Pds, per aderire a quello misto.

Gli anni passavano e le iniziative, cui mia madre partecipava, continuavano ad essere numerose. Eppure, ogni volta che doveva prepararsi ad un intervento, sentiva l’emozione, non della debuttante ma quella di voler riuscire a trasmettere il messaggio giusto. La capivo benissimo e la capisco, ancora di più, adesso che cerco di sostituirla, al meglio delle mie capacità.

I primi anni successivi all’omicidio, i segretari del Pci e di ciò che da quel partito è stato generato, in occasione del trenta aprile, si facevano sentire, a voce o per iscritto, e rilasciavano dichiarazioni alla stampa, ricordando la figura di Pio La Torre. Poi, hanno perso il ritmo, spero non la memoria. All’inizio, mia madre la prese male e noi figli con lei.

Poi capimmo o, almeno, ci convincemmo che la questione non riguardava la memoria di un singolo segretario ma il processo di sedimentazione della coscienza collettiva dell’organizzazione. In effetti, riguardando indietro, lungo i trentatré anni che ci separano dall’omicidio, quella parte politica, che ne rivendica l’eredità, a mio parere, non ha fatto buon uso del lascito.

DAL LIBRO "SULLE GINOCCHIA", DI FRANCO LA TORRE

C'è del marcio in Procura? Strage di Alcamo, la verità mai cercata tra torture e indagini bluff. Nicola Biondo su Il Riformista l’11 Gennaio 2023

Può un’inchiesta giudiziaria rimanere aperta per 12 anni senza che venga svolta alcuna significativa indagine? La risposta è sì: è successo a Trapani e non su un reato qualsiasi ma su uno dei più misteriosi cold case italiani, il duplice omicidio di due carabinieri – Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo– avvenuto la notte tra il 26 e il 27 gennaio 1976 all’interno della caserma di Alcamo Marina. Se ciò non bastasse, a rendere tutto ancora più profondo e spaventoso in questa storia si parla di depositi di materiale fissile e armi (che nessuno ha mai voluto cercare), risultano manomesse le trascrizioni delle intercettazioni ed emerge il nome di un giudice che avrebbe chiuso un’inchiesta per torture su richiesta di alti ufficiali dei Carabinieri. Questo è, per titoli, ciò che emerge da un’indagine della disciolta commissione Antimafia sull’eccidio del 1976.

Per la potenza dei depistaggi, i collegamenti con altri delitti, quelli di Impastato e Rostagno ma non solo, il caso Alkamar entra di diritto nell’armadio dei segreti della Repubblica disegnando una voragine senza fondo. Un segreto funzionale che solo in parte l’Antimafia ha rimosso. I confini visibili di questa voragine sono racchiusi nella storia di uno dei più gravi errori giudiziari: per la morte dei due carabinieri sono state condannate all’ergastolo quattro persone, mentre una quinta, il loro accusatore, muore in carcere in circostanze mai spiegate dopo aver ritrattato. Tutti sono stati pesantemente torturati per ottenere un falsa confessione. Dei quattro innocenti finiti nel tritacarne uno morirà dietro le sbarre, un secondo ci rimarrà 22 anni e gli ultimi due dovranno inventarsi una vita da latitanti per sfuggire alla cattura. Ci vorranno 36 anni e ben tre sentenze di revisione perché vengano scagionati da ogni accusa: l’errore giudiziario che ha bruciato le vite di quattro persone è costato allo Stato una decina di milioni per i risarcimenti.

Nel 2008, dopo l’emersione degli abusi, a Trapani si aprono due nuove inchieste: una sull’eccidio del gennaio ‘76 e una sulle torture: chi le ha commesse e con quale obiettivo? Vecchie storie si dirà. Ma in realtà non è così. Nulla è più attuale e utile di una inchiesta archiviata per raccontare lo stato della giustizia in Italia, altro che riforma Cartabia. Nel gennaio 2020 l’inchiesta sul duplice omicidio viene chiusa con queste parole: «Rilevato che nell’ultimo decennio non sono stati compiuti atti istruttori e conseguentemente non sono emerse ipotesi investigative apprezzabili e degne di ulteriori approfondimenti, né in relazione alla individuazione degli autori della strage di Alcamo, […] chiede disporsi l’archiviazione del procedimento […]». A firmare la richiesta è un giovane magistrato, Maurizio Agnello procuratore aggiunto a Trapani.

La stampa locale solitamente assai solerte nel beatificare ogni mollica lanciata dagli uffici delle procure questa volta tace. Nel 2022 la commissione Antimafia ha riaperto i faldoni dell’inchiesta trapanese e le sorprese non mancano: la quasi totalità dei documenti rimandano all’inchiesta precedente, quella del ’76, terremotata come abbiamo detto da ben tre sentenze di revisione e falsata da una serie infinita di atti illegittimi, sparizioni di reperti e torture agli indagati per farli confessare. Sono solo quattro le deleghe alla polizia giudiziaria presenti nel fascicolo del Pm titolare Andrea Tarondo, il teste chiave viene interrogato solo una volta, nemmeno l’ombra di altri interrogatori o ulteriori indagini, non compaiono nemmeno le perizie autoptiche sulle vittime e l’ultimo interrogatorio è del 2009. Dodici anni di vuoto. Alkamar fa davvero storia a sé: di solito le intercettazioni vengono usate per creare un climax favorevole all’indagine anche se i fatti reali sono scarsi o inesistenti. Qui, al contrario, le intercettazioni sono dimenticate, inutilizzate e in almeno un caso manipolate. Ecco come.

L’intercettazione manipolata

È il 5 settembre 2008. Uno dei carabinieri indagato per le torture, Giuseppe Scibilia, viene intercettato al telefono con un suo ex-collega, Diego Genna. Parlano proprio degli abusi: non c’è una trascrizione, solo una sintesi della polizia giudiziaria delegata alle indagini. Genna spiega “come si fosse occupato di detta pratica per incarico ricevuto dal Col. Russo e che la stessa era stata assegnata al Giudice Istruttore Leonardi. Ricordava come quest’ultimo, suo compaesano, lo avesse tranquillizzato dicendogli che “la legge per gli amici si interpreta e per gli altri si applica”. E che quindi poteva rassicurare i suoi superiori. Indagine archiviata e avocata all’epoca dei fatti dalla Procura generale”.

Russo, ucciso da un commando mafioso nell’agosto del ’77, è l’ufficiale a capo del dispositivo che si macchia delle torture, degli abusi e dei falsi verbali. I reati che il carabiniere Genna descrive sono molto gravi ma incomprensibilmente né lui né il giudice Leonardi, quello che avrebbe “interpretato la legge per gli amici e l’avrebbe applicata per tutti gli altri”, permettendo che si spalancassero le porte dell’ergastolo per quattro innocenti, vengono identificati: il militare e il giudice scompaiono dai radar dell’inchiesta.

C’è di più.

Dal testo fornito al Pm, e quindi anche alle parti lese, scompare un nome di un altro alto ufficiale che avrebbe agito sul giudice Leonardi per far chiudere l’inchiesta sulle torture, un nome che risulta ben chiaro nel nastro dell’intercettazione: è quello del generale, oggi in pensione, Antonio Subranni. Ecco la trascrizione dell’audio inedito perché manipolato: «Ma questa pratica – la voce è quella di Genna [n.d.r.]– io per anni inizialmente per incarico della buonanima del colonnello Russo, poi insomma di Subranni, eccetera eccetera, poi [parola poco comprensibile, sembra “andai”] dal giudice istruttore Leonardi, il quale Leonardi, quando io ogni tanto, ogni mese, quando scrivevano, volevano notizie mi diceva ogni tanto, “Genna, non ti preoccupare, io di origine marsalese sono”, avevamo un ottimo rapporto, mi dice, “Genna, stai tranquillo, gli dici ai tuoi superiori che la legge per gli amici si interpreta per gli altri si applica».

Tra migliaia di conversazioni possibile che questa sia l’unica “manipolata”, ci sono altri nomi che non finiscono agli atti? Domande senza risposte, l’Antimafia ha ottenuto i nastri ma una totale discovery non è stata compiuta, la fine della legislatura e lo scioglimento della Commissione hanno chiuso l’indagine. Ma sopratutto cosa c’entra il generale Subranni, al tempo maggiore e stretto collaboratore di Russo, posto che non c’è un solo atto di indagine a sua firma nel caso di Alcamo Marina? Uno strano incrocio: il nome dell’ufficiale l’anno dopo finirà nel registro degli indagati per episodi di depistaggio nell’omicidio di Giuseppe Impastato. A casa dell’attivista, subito dopo l’omicidio, furono illegalmente sequestrati una serie di documenti tra i quali una carpetta dal titolo “strage di Alcamo Marina”, un compendio dell’attività di contro-informazione sulla vicenda. Testimonianze e documenti puntano il dito sull’ufficiale: fu Subranni a ordinare quel “sequestro informale” ma il reato era prescritto, il fascicolo finì in archivio.

La carpetta di Impastato sparisce, nessuno oggi sa dove sia finita. A 32 anni di distanza dall’eccidio si rimette, quindi, in moto un meccanismo, una catena di comando che dalla Questura di Trapani decide di manipolare e far sparire un nome (solo uno?) dal rapporto alla Procura. Dove però nessuno se ne accorge perché evidentemente le intercettazioni non vengono ascoltate.

Ci sono altre due nastri “dimenticati”. Uno proviene dal cuore delle investigazioni, di quel dispositivo messo a punto per torturare e consegnare ai tribunali una falsa verità. A parlare questa volta è il figlio di Giovanni Provenzano tra gli indagati per gli abusi, anche lui carabiniere: in una lunga conversazione con la sorella del 13 settembre 2008 non solo ammette le torture e i falsi compiuti a danno degli arrestati ma afferma, “i due carabinieri furono sequestrati e poi uccisi”. Una rivelazione, un dato del tutto nuovo perché come attestano le perizie le due vittime furono uccise nel sonno. Anche qui, come in precedenza, il Pm Tarondo non chiama a testimoniare il teste. E tutto tace anche quando Scibilia e il solito Genna il 18 settembre 2008 parlano della strage. In questo contesto Scibilia chiede all’ex-collega, “…ma tu a La Colla lo conosci o no?…”.

E qui si dovrebbe aprire una prima voragine. La Colla è un nome pesante nelle vicende criminali trapanesi, un file che oggi è finito sotto i riflettori della Procura di Firenze per l’ennesima tranche dell’inchiesta sulle bombe del 1993. Perché si tratta di un carabiniere che nel settembre di quello stesso anno venne arrestato (e poi condannato) con l’accusa di gestire un’arsenale di armi e munizioni da guerra in quella che è la Corleone del trapanese, vale a dire Alcamo a pochi chilometri dal luogo dell’eccidio del ’76. Gli investigatori, Polizia e Procura, che hanno gestito quelle indagini, non possono non sapere chi è La Colla, eppure tutto tace. Pochi mesi dopo il teste principale dell’inchiesta sull’eccidio, un poliziotto di Alcamo, viene interrogato e stabilisce una correlazione tra l’arsenale del ’93 e i fatti del ’76. Calma piatta. La Colla non viene identificato, nessuno chiede ai due ex-carabinieri cosa c’entri nella storia di Alcamo Marina. In pochi mesi il fascicolo sulle torture viene chiuso, è passato troppo tempo. Dodici anni dopo, nel 2020, l’inchiesta rimasta al punto zero viene chiusa con le parole durissime del procuratore Agnello. Nessuna riforma Cartabia riuscirebbe a sanare la ferita di un’inchiesta tenuta aperta per 12 anni senza alcuna attività di investigativa.

Il niet al Parlamento

Incredibilmente la storia si ripete nel 2022: l’indagine dell’Antimafia sbatte contro il muro di un’inchiesta vuota, altre manipolazioni e nuovi segreti. Ma questa volta c’è un unicum, qualcosa di mai successo nel corso di un’indagine parlamentare: i comandi territoriali dei carabinieri in Sicilia coinvolti nelle indagini e nei depistaggi non rispondono all’Antimafia. Il Comando Generale dell’Arma chiede più volte di far entrare i consulenti negli archivi e mettere a disposizione la documentazione ma la risposta è il silenzio: certi armadi devono rimanere chiusi, la Commissione, e quindi il Parlamento, non può entrarci. Il segreto di Stato non può essere opposto a un’indagine parlamentare ma in questo pezzo di Sicilia per l’eccidio di Alkamar non conosce limiti. Perché? Ma soprattutto è ammissibile una tale menomazione dei poteri ispettivi del Parlamento?

Le verità dell'antimafia. Strage di Alcamo, la verità dell’antimafia: “Armi, uranio e foto rubate che non finiscono a verbale”. Nicola Biondo su Il Riformista il 25 Gennaio 2023

C’è una foto che può trascinare a processo una donna per un reato da ergastolo, concorso in strage. Parafrasando il capolavoro di Gadda, il titolo di questa storia sarebbe “Quel pasticciaccio brutto di via Pigna di don Fabrizio”. Solo che qui non siamo all’Esquilino ma nelle campagne di Alcamo, a cavallo tra le provincie di Trapani e Palermo e il contesto non è quello del Ventennio ma il passaggio drammatico tra la Prima e la Seconda Repubblica, fatto di scandali -veri e falsi- e di morti, reali e spaventosi: la stagione della strategia terroristica della mafia corleonese, quella -per intenderci- che vede Matteo Messina Denaro tra gli organizzatori e mandanti.

In via Pigna, ad Alcamo, nel settembre 1993 viene scoperto un arsenale illegale detenuto da due carabinieri. Una brillante operazione che però nasconde, ancora adesso, un doppiofondo degno di una spy-story. L’arsenale di Alcamo oggi è al centro di un’indagine della Procura di Firenze sulle stragi del ’93 e tra gli indagati c’è una donna: Rosa Belotti. Avrebbe partecipato al commando mafioso che il 27 luglio del 1993 ha fatto esplodere un’autobomba di fronte al museo milanese di arte contemporanea a Milano, un attentato meglio noto come la “strage di via Palestro”. Di origine campana, pregiudicata per affari di droga, la Belotti vive in Lombardia da oltre 30 anni. Il mistero di come finisce invischiata nelle pagine dello stragismo mafioso si trova ad Alcamo, in via Pigna, nell’arsenale detenuto dai carabinieri Vincenzo La Colla e Fabio Bertotto. È qui che viene ritrovata, dice la Procura di Firenze, una sua foto, vale a dire la prova regina che porta al coinvolgimento della Belotti. Ma questo è solo il primo di una lunga serie di tasselli fuori posto.

Non solo nel verbale di sequestro dell’arsenale non c’è alcuna traccia di una foto di una donna bionda ma a complicare tutto c’è la testimonianza di Antonio Federico, il poliziotto che svela l’arsenale. Alla Procura di Trapani nel 1997 Federico rivela che alla scoperta della santabarbara si arrivò grazie alle indicazioni di una fonte: «all’interno del villino, in una libreria, tra le pagine di un volume di un’enciclopedia, avrei trovato una fotografia di una giovane donna bionda che, a suo dire [della fonte], era al corrente di tutti i traffici di cui mi aveva riferito». I traffici a cui si fa riferimento sono di armi e uranio, così dice la “fonte” al poliziotto. Federico quella foto non la mette a verbale ma la tiene per sé, compiendo un reato. «In effetti, allorché si procedette alla perquisizione del garage, approfittai di un momento di distrazione e trovai la fotografia su descritta di cui io mi impossessai senza farne menzione con alcuno». Per quattro anni, fino al 1997, le procure di Palermo e Trapani erano state tenute all’oscuro di quei particolari: l’operazione era stata resa possibile da una fonte che oltre a essere misteriosa era di natura istituzionale. Non solo: Federico sostiene che in quell’arsenale ci sarebbe stato una cassa di materiale fissile, di averlo visto sia in compagnia della fonte che successivamente con un altro collega prima dell’irruzione.

Insomma, nel pieno della stagione delle stragi di Milano, Firenze e Roma, con tutta l’ala corleonese in libertà, ad Alcamo, intorno a quell’arsenale, si è combattuta la classica guerra tra apparati dello Stato. Ma a cosa serviva quell’arsenale, qual era il suo significato? Questo è il secondo tassello fuori posto di una lunga serie. Torniamo al primo, alla foto. Che fine fa? Federico sostiene di averla data a un suo dirigente, poi di averla avuta indietro. Di fronte ai magistrati trapanesi chiude la questione così: “Non ne sono più in possesso”. Aggiungendo che “allorquando i giornali pubblicarono la fotografia di una donna che era stata vista allontanarsi dal luogo dell’attentato di via dei Georgofili a Firenze, ebbi modo di notare la quasi perfetta corrispondenza con le sembianze della donna di cui avevo visto la fotografia”. La “quasi perfetta corrispondenza” non significa che la foto dell’arsenale rimandi alla strage di Firenze, tant’è che la fonte di Federico la lega al traffico d’armi e non alle stragi. Nessun magistrato muove contestazioni e nessuno sembra interessato quando il poliziotto dice di essere in possesso di precise indicazioni di depositi di armi e di materiale fissile.

Undici anni dopo, gennaio 2008, Federico viene di nuovo interrogato, questa volta dalla Dna: consegna la famosa foto della donna bionda -che bionda non è- e altre informazioni sull’ubicazione di depositi di armi ed esplosivo. Nessuno fa presente il fatto che la foto è stata sottratta, non si sa chi è il dirigente che l’ha presa in carico fino a quel momento né che le indicazioni della fonte, “una donna bionda”, vengano smentite dall’immagine recuperata e oggi diventata fonte di prova [che mostra una donna bruna, ndr]. Il poliziotto fornisce ancora una volta precise indicazioni su depositi di armi, esplosivi e materiale fissile situati ad Alcamo, frutto anche delle rivelazioni dell’uomo degli apparati. Anche stavolta nessuno si muove. L’anno dopo, interrogato di nuovo a Trapani, spiega che il misterioso “mister X” gli avrebbe raccontato il movente e altri particolari dell’eccidio di Alcamo Marina: un traffico di armi e uranio. I due verbali resi a Trapani rimangono separati nelle teste degli investigatori. Incredibilmente anche quando il nome di uno dei detentori dell’arsenale, il carabiniere La Colla, viene fuori nel corso di un’intercettazione in relazione all’eccidio del 1976.

Fermiamoci qui. È ammissibile che una delle prove cardine che potrebbero costare un processo per strage a Rosa Belotti, cioè la foto, sia frutto di un reato? Ma soprattutto, se Federico aveva l’indicazione di trovare in quel luogo una foto di una donna bionda “a conoscenza dei traffici” perché quella che finisce nelle mani degli investigatori 17 anni dopo ritrae invece una donna che appare scura di capelli? Una doppia discrasia che potrebbe inficiare in radice l’intero impianto dell’indagine. Sembra un gioco delle tre carte. Le indagini sbattono su una ragazza alcamese, Antonella Bonomo, fidanzata con il boss di Castellammare, Vincenzo Milazzo. Pochi giorni prima della strage di via D’Amelio, la ragazza viene strangolata insieme al suo compagno, entrambi finiranno seppelliti in una cava. È lei la donna della foto? C’entra qualcosa con il fatto che Milazzo si era opposto alla strategia delle bombe e che un parente della ragazza fosse un alto dirigente del Sisde? I mandanti -la Cupola di Riina e Provenzano– sospettavano che apparati dello Stato avessero ricevuto qualche soffiata? Dicono i collaboratori di giustizia che a soffocare i due amanti fu proprio Messina Denaro, il boss di Castelvetrano.

Non è la Bonomo la misteriosa donna della foto, nonostante l’evidente somiglianza. Coinvolgere un alto dirigente del Sisde potrebbe essere un chiaro messaggio che riguarda proprio Mister X che ad Alcamo era ben conosciuto così come il parente della Bonomo. L’ultimo incredibile tassello: nel 2021 Rosa Belotti si riconosce nella foto recuperata nel 1993 e non si spiega come sia potuta finire lì, in via Pigna ad Alcamo nell’arsenale dei misteri. La commissione Antimafia ha interrogato per oltre 40 ore Federico: nuovi clamorosi particolari sono emersi a partire dall’inerzia e dalle anomalie che hanno caratterizzato le indagini sull’eccidio di Alcamo Marina (indagini mai fatte e manipolazione di intercettazioni) e sull’arsenale del 1993 ma anche sulla fonte di Federico, sulla foto e sull’esplosivo scomparso. Anomalie che investono anche i verbali resi ai magistrati e le indagini mai compiute su altri arsenali. Federico aggiunge un particolare: “io feci vedere la foto ad un mio dirigente, seguendo le istruzioni della mia fonte che mi disse di mostrare la foto ai miei colleghi presenti”.

Ciò significa che la donna a conoscenza dei traffici di armi e materiale fissile doveva per forza gravitare nel trapanese, sia per il ruolo che avrebbe ricoperto sia perché i funzionari di polizia l’avrebbero riconosciuta come appartenente ad un corpo di polizia o apparato di sicurezza. La domanda è d’obbligo: la foto rinvenuta ad Alcamo che rischia di costare a una donna un processo per strage è la stessa di quella finita oggi nel fascicolo della Procura di Firenze? Si conferma un dato: come nel caso di Alcamo Marina anche per l’arsenale del ‘93 si è in presenza di una serie impressionante di anomalie investigative. La voragine aperta la notte del 27 gennaio 1976 con l’eccidio di Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta inghiotte i segreti dell’arsenale del 1993 e delle stragi di mafia ma tocca pesantemente altri due delitti, quello di Peppino Impastato e Mauro Rostagno. Dei segreti delle stragi sarà pure a conoscenza Messina Denaro ma di certo molti, troppi misteri risiedono anche nelle inchieste svolte. Nicola Biondo

Le foto inedite di Peppino Impastato: il legame nascosto tra l’eccidio di Alkamar e l’omicidio di Cinisi. Nicola Biondo su Il Riformista il 27 Gennaio 2023

L’ultima indagine di Peppino Impastato riguardava un traffico di armi e l’eccidio di Alcamo Marina. A rivelarlo sono le foto e le testimonianze che Il Riformista ha recuperato e che oggi stabiliscono un preciso legame tra la morte dell’attivista siciliano e il duplice omicidio avvenuto nella località balneare la notte del 27 gennaio 1976 quando un commando assalta la caserma locale e uccide due carabinieri, Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Un crimine ancora oggi impunito e pesantemente depistato (come abbiamo raccontato nella prima parte di questa inchiesta).

Che l’attivista di Cinisi si fosse interessato al duplice omicidio è noto fin dal 2012 quando il fratello Giovanni lo rivela alla Procura di Palermo. “Peppino aveva una cartelletta dove raccoglieva informazioni sulla vicenda, era convinto del coinvolgimento dei Servizi, aveva delle fonti”. Oggi due nuove testimonianze e un gruppo di foto potrebbero riaprire questo legame nascosto.

Andrea Bartolotta, amico e sodale di Impastato nell’avventura di Radio Aut, racconta al Riformista che l’attivista “non aveva pace, non aveva mai mollato la sua personale inchiesta su Alkamar. La connetteva a campi para-militari e a traffici di armi. Era però molto accorto, ne parlava come di un lavoro di contro-informazione che doveva avere basi sicure prima di essere rivelato”. Le sue indagini finiscono in quella cartella. Bartolotta racconta questa storia alla Procura di Palermo nel 2015 e accenna a delle foto di sbarchi avvenuti tra Cinisi e Terrasini. Gli investigatori però non si interessano a queste immagini inedite che oggi il Riformista pubblica.

Ad averle scattate il 30 marzo 1978 è Paolo Chirco, che frequenta il gruppo “musica e cultura” e le fornisce a Impastato. Finisce così blindato nelle sue foto uno sbarco di casse da una nave americana, la “Santabarbara”, con l’ausilio di due elicotteri modello Sea Knight, velivoli utilizzati anche in zone di guerra. Le casse vengono depositate su una porzione di pista dell’aeroporto di Punta Raisi dove, come è visibile, vengono attese da una serie di camion e furgoni. La Santabarbara è una nave dedicata al trasporto di armi ed esplosivo.

Lo sbarco ricorda Chirco durò a lungo, almeno due giorni. Alcuni attivisti di Cinisi provarono a seguire i camion e si imbatterono in un arsenale alle porte di Palermo. Altre testimonianze affermano che il convoglio aveva imboccato l’autostrada in direzione Trapani. Lo sbarco si ripete il 25 ottobre 1978 quando Chirco scatta altre foto. Non sono però le uniche. Anche un altro componente del gruppo Impastato cattura le fasi dello sbarco, Agostino Vitale, dei cui scatti Chirco ne ha recuperato solo uno, il più nitido.

La cartelletta di Peppino esiste, lui me ne parlò, Alkamar era un’ossessione. Per lui la strage, il traffico di armi e i capi paramilitari erano storie legate”, dice oggi Bartolotta che conferma come quelle foto “avevano catturato l’attenzione di Impastato”.

Tutto nasce all’indomani dell’eccidio: gli investigatori seguono la pista rossa grazie ad una telefonata di rivendicazione (uno dei tanti depistaggi) che indicava lo sbarco della lotta armata in Sicilia. Impastato e con lui centinaia di militanti vengono fermati e perquisiti. Una falsa pista costruita ad arte dalla quale si dissociò pubblicamente anche il comandate dei Carabinieri, Enrico Mino e che invece vedeva nel maggiore Giuseppe Russo il principale sostenitore.

La cartelletta era intitolata proprio così, ricorda ancora Giovanni Impastato, “strage dei due carabinieri ad Alcamo Marina”. Le foto di Chirco finirono lì? Impossibile dirlo.

Di certo il reperto sparì da casa Impastato la mattina del 9 maggio 1978, poche ore dopo la morte dell’attivista, durante un “sequestro informale”, una dicitura che non significa niente, quello era un atto illegale. Nel verbale non compare nessuna cartelletta, ma il fratello non è l’unico testimone che ricorda questo particolare. Bartolotta ha una precisa memoria del raccoglitore: “Peppino me ne parlò e sono sicuro che lo fece anche ad altri fidati compagni, ma non ho mai saputo cosa conservava, quali fonti aveva”.

Dall’archivio di Radio Aut spariscono anche i redazionali su Alkamar, le schede utilizzate per i notiziari. Secondo la Procura di Palermo ad aver materialmente compiuto il “sequestro informale” fu l’allora tenente dei Carabinieri Enrico Frasca. L’ufficiale, scomparso nella primavera scorsa, interrogato ha ammesso tutto: “Fui comandato dal mio superiore di allora, il maggiore Antonio Subranni di usare quella dicitura, sequestro informale. Fu la prima e ultima volta”.

Fermiamoci qui, proviamo a tirare le fila di questa lunga inchiesta in tre puntate.

Ad Alkamar 47 anni fa un commando ha operato con tecnica militare per uccidere due giovani carabinieri. Le indagini vengono depistate, si inventano “piste rosse”, si usano torture per far confessare un giovane con disturbi mentali e lo si contrabbanda per “anarchico”. In seguito alle torture coinvolge altri quattro ragazzi: anche qui botte, falsi verbali, confessioni estorte. Caso risolto.

A chiuderlo è il Colonnello Giuseppe Russo, che raccoglieva le confidenze di Tano Badalamenti e dei cugini Salvo. Impastato sapeva di questi rapporti mentre coltivava la sua ossessione per Alkamar e i traffici di armi. Muore nel maggio ’78, ucciso con metodi non mafiosi ma militari: niente lupara, legato ai binari con una carica di dinamite a pochi passi, cento metri appena, dal luogo degli sbarchi di armi avvenuti un mese prima. “Terrorista” fu la sentenza sbrigativa dell’allora maggiore Subranni a cui si oppose Rocco Chinnici. In quegli stessi mesi, lo raccontano due carabinieri in una intercettazione manipolata e scoperta dalla Commissione Antimafia, Subranni chiedeva ad un giudice di Palermo di archiviare il fascicolo sulle torture degli innocenti di Alkamar. Anche qui caso chiuso.

Nel 1988 muore Mauro Rostagno, è stata la mafia dicono tutti. Ma l’ultima indagine dell’ “irregolare” di Trapani era un traffico di armi, “istituzionale ma occulto”. Sparisce tutto, foto e video. Una testimone rivela ai carabinieri che ne aveva parlato a Giovanni Falcone. Sparisce il verbale e in seguito a minacce la teste esce di scena. Rostagno in quegli ultimi mesi di vita aveva una fonte, la compagna di un altissimo esponente degli apparati di sicurezza. Era lei ad avergli rivelato del traffico di armi? Per gli amanti delle coincidenze: interrogata al processo Rostagno la prima domanda che il Presidente della Corte le rivolge è: “signora lei ha sempre avuto i capelli biondi?”.

Nel 1993 una fonte degli apparati di sicurezza rivela il movente e i depistaggi di Alkamar ad un poliziotto: traffico di armi e uranio verso paesi africani gestito da militari: “Apuzzo e Falcetta dovevano morire”, dice al poliziotto, questione di sicurezza nazionale. Racconta di sbarchi da una nave, di un furgone carico di armi e materiale radioattivo, di un sito di stoccaggio: tutto sembra rimandare proprio alle foto del gruppo di Peppino Impastato. Lo specchio di mare è lo stesso. La fonte fa anche scoprire un misterioso arsenale in mano a due carabinieri, indica dove trovare una foto di una donna bionda “a conoscenza di tutti i traffici”. Prima che gli investigatori arrivino però scompare l’esplosivo. La foto, come abbiamo rivelato nella seconda puntata della nostra inchiesta, riapparirà invece solo nel 2008 ma raffigura una donna bruna. Coincidenze, stranezze, sparizioni.

Intanto a Trapani nel 2008 si riaprono le indagini sull’eccidio: anche stavolta indagini bluff e ancora depistaggi. Di nuovo caso chiuso.

Alcamo Marina è in piena Costa Gaia, tra Palermo e Trapani, nello stesso tratto di mare delle foto del gruppo Impastato. E questa lunga storia è la voragine di Alkamar, uno spazio oscuro infinito.

Strage di Alcamo, parla Natoli il giudice che assolse Gulotta: “Capii subito che era innocente”. Giorgio Mannino su Il Riformista l’18 Febbraio 2020

«Vi erano già fortissimi dubbi, durante il processo di primo grado, sulla presunta colpevolezza dei giovani accusati di essere gli esecutori della strage di Alcamo Marina». Riavvolge il nastro della memoria Gioacchino Natoli, all’epoca giudice a latere della corte d’Assise di Trapani, presieduta dal presidente Giuseppe De Maria. Che condannò Giovanni Mandalà e assolse per insufficienza di prove Giuseppe Gulotta, Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli. Quest’ultimi furono poi condannati in appello e in Cassazione. Un eccidio, quello della casermetta di Alcamo Marina in cui il 27 gennaio 1976 vennero uccisi i due carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, rimasto senza colpevoli perché, molti anni dopo, nuovi processi – grazie alle dichiarazioni del carabiniere testimone Renato Olino – revocarono le condanne. Le prove furono viziate da abusi di ogni genere e confessioni estorte con la tortura. Una frode processuale che a seguito di un depistaggio ha allontanato la verità e consumato le vite di giovani innocenti. Mandalà, dopo anni di carcere, morì di morte naturale, Santangelo e Ferrantelli si rifugiarono in Brasile. Gulotta non fuggì e scontò ingiustamente 22 anni di carcere. Martedì scorso è stato audito in Commissione Antimafia.

Dottore Natoli, per la prima volta il caso della strage di Alcamo Marina approda in Commissione Antimafia.

Tutto quello che si può fare per risalire alla scoperta della causale di questo gravissimo fatto di sangue è utile. Anche se a distanza di oltre quarant’anni non credo sia facilissimo scoprire quello che non si è riusciti a scoprire fino a ora. Sarebbe utile che si riprendessero le indagini, ammesso che siano mai state interrotte, in ambito investigativo giudiziario.

Le piste battute sono state tante: da Cosa Nostra a Gladio fino ad arrivare ai gruppi eversivi neofascisti. Lei che idea si è fatto?

La strage di Alcamo Marina, insieme ai mandanti degli omicidi politici Reina, Mattarella e La Torre e ad altri importanti fatti di sangue, sono buchi neri su cui nessuno ha saputo fare luce. Neanche i collaboratori di giustizia che la procura di Palermo ha messo insieme nel corso degli anni, hanno saputo dire nulla di utile, ad esempio, proprio sulla strage della casermetta. Questo porta a pensare che Cosa Nostra non abbia avuto nulla a che vedere con quell’eccidio. Sugli altri motivi non avanzo ipotesi, mi limito a registrare i fatti tragicamente oggettivi.

Quali?

Le originarie confessioni vennero estorte con torture. Noi avevamo avuto forti dubbi sulla bontà di quelle dichiarazioni, tanto che i tre giovani vennero assolti. Ricordo che dopo la confessione resa davanti ai carabinieri, in assenza di un difensore, appena ebbero contatto con l’autorità giudiziaria cominciarono a protestare la loro innocenza. Inoltre rilevammo durante un’ispezione della casermetta di Sirignano, luogo delle torture, che nei locali, qualche settimana dopo i fatti, vennero eseguiti lavori di ristrutturazione totali che cambiarono perfino l’ubicazione delle stanze. Questo venne ritenuto importante perché uno dei tre giovani, pur incappucciato, ricordava esattamente la disposizione dei vani. Ci venne detto che si trattava di una normale opera di ammodernamento dei locali. Questi elementi hanno indotto la Corte d’Assise a ritenere che vi fossero forti dubbi sulla colpevolezza di Gulotta, Santangelo e Ferrantelli. La condanna di Mandalà, invece, derivava dal fatto che su una sua giacca vennero rinvenute tracce di sangue provenienti dal corpo di Carmine Apuzzo e oggetti che provenivano dalla casermetta.

Però la magistratura ha consegnato alla storia colpevoli che trent’anni dopo si sarebbero rivelati innocenti: cosa pensò dopo la sentenza del processo d’appello?

Ho preso atto della diversa opinione dei colleghi che hanno giudicato secondo prove a quel tempo ritenute fondamentali. Poi a distanza di trent’anni ho registrato che la decisione che avevamo assunto in primo grado era quella più corretta. Ma non possiamo giudicare con i “se” o con i “ma”. Bisognerebbe sapere, invece, per quale motivo Renato Olino abbia atteso tanto tempo per presentarsi ai magistrati e fare la propria ammissione. Mi sembra che sia stato un atto di resipiscenza tardiva, avvenuto quando gran parte del danno era già fatto, quando la vita di Gulotta era già stata rovinata.

Avremo mai, secondo lei, una verità completa sulla strage?

Me lo auguro. L’Italia è contrassegnata da una serie di stragi che devono ancora essere approfondite. Con la speranza che, come nel caso Olino, qualcuno che è a conoscenza dei fatti, si decida di dire la verità. Giorgio Mannino

Strage di Alcamo. La battaglia di Giuseppe Gulotta, torturato da uomini in divisa e 22 anni in carcere da innocente. Giorgio Mannino su Il Riformista il 14 Febbraio 2020

Il caso della strage di Alcamo Marina, nella quale il 27 gennaio 1976 furono uccisi i due carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, è approdato martedì scorso per la prima volta, a distanza di quarantaquattro anni, sul tavolo della commissione parlamentare Antimafia presieduta da Nicola Morra.  Un fatto storico che riaccende i riflettori su una pagina ancora buia della storia italiana, gravida di buchi neri e soprattutto rimasta senza colpevoli. A Palazzo San Macuto è stato ascoltato – insieme al giornalista Nicola Biondo che ha raccontato in un libro la sua storia – Giuseppe Gulotta, considerato dai giudici di due corti, uno degli autori della strage. Ma i processi che lo hanno condannato insieme a Giovanni Mandalà, Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli, erano viziati – come ha stabilito trentotto anni dopo una sentenza di Cassazione – da prove false e abusi di ogni genere. Una frode processuale che ha consegnato all’opinione pubblica una verità preconfezionata, scritta a tavolino, in un truce inganno di sangue, ancora tutto da chiarire, capace di stritolare la vita di quattro ragazzi alcamesi finiti all’ergastolo poco più che maggiorenni. Mandalà morì di morte naturale nel 1998, Santangelo e Ferrantelli si rifugiarono in Brasile.

A pagare il prezzo più alto è stato Gulotta, 61 anni. Ne ha trascorsi più della metà nelle aule dei palazzi di giustizia e ben ventidue dietro le sbarre, da innocente. «Mi venne offerto, all’epoca, di fuggire con un nuovo passaporto ma decisi di restare per non dare la sensazione di essere colpevole». La sua confessione è stata estorta in caserma «dopo una notte – prosegue Gulotta in Antimafia – di sevizie e torture». Le stesse che subì il suo accusatore, Giuseppe Vesco, un ragazzo considerato vicino agli anarchici, arrestato un mese dopo l’eccidio, dai carabinieri guidati dal colonnello Giuseppe Russo, che poi sarà ucciso dai corleonesi il 10 agosto 1977. «Russo la notte delle torture che ho subito era lì, in divisa», racconta Gulotta. «In molti contestano questa cosa perché si dice che il colonnello non portasse quasi mai l’uniforme, ma io riconosco Russo molti anni dopo su una foto apparsami su internet. Dopo quella notte non lo vidi mai più».

Le manette a Vesco costituiscono il primo atto del depistaggio. Otto mesi dopo l’arresto, Vesco cerca di scagionare i nomi urlati sotto tortura ma verrà trovato impiccato nella cella di detenzione nonostante avesse una mano sola, l’altra l’aveva persa anni prima in un incidente. Morti Vesco e Russo, Gulotta sembra arrendersi all’ingiusta condanna, ma nel 2009 – tre anni dopo la cattura dell’ultimo boss corleonese Bernardo Provenzano – Renato Olino, un ufficiale dei carabinieri testimone di quelle torture, rompe il silenzio e racconta la verità. Per Gulotta è la fine di un incubo. «Ho sempre avuto fiducia nelle istituzioni, ho continuato ad averla nonostante tutto. Purtroppo oggi non c’è ancora verità per i familiari dei due carabinieri uccisi. Ho ottenuto la mia giustizia ma siamo di fronte a una verità a metà. Sarei felice se questo caso si potesse riaprire», ha detto Gulotta rivolgendosi ai membri dell’organo parlamentare.

Seduto al suo fianco, il giornalista Nicola Biondo ha fornito alcuni spunti per provare a dare una risposta a quelle domande che restano ancora aperte: «Dovete chiedervi perché e chi ripete il metodo Alkamar (così veniva chiamata la piccola caserma, ndr) e fino a dove arriva. Ci sono tre casi in Sicilia in cui investigatori eccellenti, come lo erano Giuseppe Russo o Arnaldo La Barbera, usano la tortura, da cui nasce solo la menzogna per coprire la verità. Bisogna ripartire dalla scena del delitto. La procura di Trapani ha aperto un nuovo fascicolo per strage, fatevi ritrovare dalla procura le foto dell’assalto alla casermetta, gli atti che sono coperti da segreto. I testimoni ci sono ancora». Input che, come confermato dal presidente Morra, saranno raccolti «per aprire uno squarcio su una vicenda oscura in terra di mafia che non possiamo ignorare».

Intanto per Gulotta la battaglia contro lo Stato che lo ha lasciato solo non è finita: dopo l’ottenuto risarcimento di sei milioni e mezzo di euro ha chiesto 66 milioni di danni all’Arma dei carabinieri e ai ministeri della Difesa e dell’Interno. L’Avvocatura dello Stato però si è opposta, parlando di “lite temeraria” e precisando che “non ci sono prove degli abusi”. Giorgio Mannino